Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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ANNO 2017

 

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

PRIMA PARTE

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

  

  

ITALIA ALLO SPECCHIO

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2017, consequenziale a quello del 2016. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

INDICE PRIMA PARTE

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

COS’E’ LA POLITICA OGGI?

L’ITALIA DELLE RIFORME IMPOSSIBILI.

IL PARTITO DELL'ASTENSIONE.

LO "IUS SOLI" COMUNISTA.

ITALIANI SENZA INNO NAZIONALE.

ITALIANO: UOMO QUALUNQUE? NO! SONO TUTTI: CETTO LA QUALUNQUE.

DEMOCRAZIA: LA DITTATURA DELLE MINORANZE.

ANTROPOLOGIA SINISTROIDE. VIAGGIO NEL CERVELLO PROGRESSISTA CHE “HA SEMPRE RAGIONE”.

ITALIANI: VITTIME PATOLOGICHE.

L'ITALIA DEI SOCIAL. QUELLO CHE LA GENTE PENSA E SCRIVE...

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

AI MIEI TEMPI...AI MIEI TEMPI...

PARLAR MALE DELL'ITALIA? LA GODURIA DEGLI ITALIANI.

L'ITALIA DEI CAMPANILI.

L'ITALIA DEL PREGIUDIZIO E DEL PRECONCETTO.

GLI ITALIANI NON SANNO PERDERE.

ITALIANI RANCOROSI.

ITALIANI: POPOLO DI TRADITORI.

FENOMENOLOGIA DEL TRADIMENTO E DELLA RINNEGAZIONE.

L’IPOCRISIA DELLA RICONOSCENZA.

FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.

ITALIA. IL PAESE DEI CAFONI.

ITALIANI: UN POPOLO DI ASOCIALI.

L’ITALIA DEGLI INVIDIOSI.

ITALIANI SCROCCONI.

ITALIA. IL PAESE DEI LADRI.

LADRI DI BICICLETTE.

IL COMUNE SENSO DEL PUDORE.

GLI ITALIANI ED IL TURPILOQUIO.

L’ITALIA DEL TRASH (VOLGARE).

ITALIANI: UN POPOLO DI STUPIDI ODIOSI.

GLI ITALIANI E LA STUPIDITA’.

L’ITALIA DELLA SCARAMANZIA.

L’ITALIA DEI PAZZI.

L'ITALIA DEI FAVORITISMI (ANCHE IN FAMIGLIA).

CONCORSO INFINITO: CONCORSO TRUCCATO!

IL FASCINO DEL CONCORSO PUBBLICO E DEGLI ESAMI DI STATO (TRUCCATI).

LA REPUBBLICA DEI BROCCHI NEL REGNO DELL'OMERTA' E DEL PRIVILEGIO.

LA FINE DI UNA VITA FATTA DI BOCCIATURE.

VERONICA PADOAN ED IL RIBELLISMO DEI FIGLI DI PAPA’.

IL FAMILISMO AMORALE ED IL COOPTISMO AMORALE.

CERVELLI IN FUGA.

NON SIAMO STOICI.

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

VIVA GLI ANTIPATICI.

ITALIA. PAESE DI GIOCATORI D’AZZARDO.

ITALIA. PAESE DI SANTI, NAVIGATORI E...POETI.

EDITORIA A PAGAMENTO.

ITALIA PAESE DI SCRITTORI CHE NESSUNO LEGGE.

LA SCUOLA AL FRONTE.

ITALIANI: POPOLO DI IGNORANTI LAUREATI.

L'ITALIANO: LINGUA MORTA, ANZI, NO!

L’ITALIA DEI SACCENTI. TUTTI PARLANO. NESSUNO ASCOLTA.

L’ITALIA DEI GENI.

IL CALENDARIO CIVILE VISTO DALLA SINISTRA.

IL GIORNO DEL RICORDO…DIMENTICATO.

PADRI DELLA PATRIA: LA NOSTRA ROVINA.

FRATELLI D’ITALIA? MASSONI ITALIANI.

ABOLIAMO LA MASSONERIA?

DA DE GASPERI A RENZI. COME L'ITALIA SI E' VENDUTA AGLI AMERICANI.

MISTERI E DEPISTAGGI DI STATO.

LA MAFIA GLOBALIZZATA.

I DIECI COMANDAMENTI DELL’ANTIMAFIA.

L’ANTIMAFIA IMPLACABILE.

LE VITTIME DELL’ANTIMAFIA ED IL REATO CHE NON C’E’: IL CONCORSO ESTERNO.

PENTITI E PENTITISMO. LA LINGUA BIFORCUTA.

LA MAFIA NON ESISTE, ANZI, E' DI STATO!

MERIDIONALI: MAFIOSI PER SEMPRE.

MAFIA COMUNISTA. IL RACKET DELLE OCCUPAZIONI ABUSIVE DEGLI IMMOBILI.

IL RACKET DEI TURISTI NORDISTI.

ITALIANI. MAFIOSI PER SEMPRE.

MAFIA. CACCIA ALLE STREGHE? NO! CACCIA ALLE ZEBRE...

L'ANTIMAFIA SPA E PARTIGIANA.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

L'ITALIA CERVELLOTICA DEGLI SPRECHI ASSURDI.

IL PAESE DEI COMUNI FALLITI.

IL PAESE DEGLI AMMINISTRATORI PUBBLICI MINACCIATI.

IL FENOMENO DELLA BLUE WHALE, OSSIA DELLA BALENA BLU (GIOCO).

QUELLI…PRO SATANA.

UN BUSINESS CHIAMATO GESU'.

PEDOFILIA ECCLESIASTICA.

L'ISLAMIZZAZIONE DEL MONDO.

TERRORISMO ISLAMICO. IL 2017 INIZIA COL TERRORE.

2016. EUROPA, UN ANNO DI TERRORE.

PARLIAMO DI LEGALITA'. LA REPUBBLICA DI ZALONE E DI FICARRA E PICONE.

ONESTA' E DISONESTA'.

DUE PESI E DUE MISURE.

LA SETTA DEI 5 STELLE.

LA MORALITA' DEGLI UOMINI SUPERIORI.

A MIA INSAPUTA. QUELLI CHE NON SANNO.

CERCANDO L’ITALEXIT.

MORIRE DI CRISI.

L’ITALIA E LE RIVOLUZIONI A META’.

COSTITUZIONE ITALIANA: COSTITUZIONE MASSONICA.

UNA COSTITUZIONE CATTO-COMUNISTA.

C'ERA UNA VOLTA LA SINISTRA. LA SINISTRA E' MORTA.

LA DIFFERENZA TRA LA POLITICA DEI MODERATI E L'INTERESSE PRIVATO DEI COMUNISTI.

IL TRAVESTITISMO.

C'ERA UNA VOLTA LA DESTRA.

CUORI ROSSI CONTRO CUORI NERI.

C’ERANO UNA VOLTA I LIBERALI.

LA RIVOLUZIONE CULTURALE DA TENCO A PASOLINI, DA TOTO’ A BONCOMPAGNI.

E POI C’E’ ALDO BISCARDI.

1977: LA RIVOLUZIONE ANTICOMUNISTA.

FASCISTI-COMUNISTI PER SEMPRE.

L'ITALIA ANTIFASCISTA. 

MALEDETTO 25 APRILE.

PRIMO MAGGIO. FESTA DEI LAVORATORI: SOLITA LITURGIA STANTIA ED IPOCRITA.

I GIORNALISTI SON TROPPO DI SINISTRA.

LA TRUFFA DELL'ANTIFASCISMO.

DEMOCRATICI: SOLO A PAROLE.

QUELLI CONTRO...IL SUFFRAGIO UNIVERSALE.

LA DEMOCRAZIA DEI TIRANNI INTELLETTUALI.

MAI DIRE BEST SELLER. LA CULTURA COMUNISTA E L’INDOTTRINAMENTO IDEOLOGICO.

I NEMICI DELLA LIBERTA DI STAMPA? QUELLO CHE NON SI DEVE E NON SI PUO’ SCRIVERE.

DIRITTO DI CRONACA E DIRITTO DI STORIA VITTIME DEL DIRITTO ALL'OBLIO.

DIRITTO ALL'OBLIO, MA NON PER TUTTI.

L'ITALIA DELL'ACCOGLIENZA.

LA LUNGA STORIA DEI POPULISMI.

LA SINDROME DI MEDEA.

L’ITALIA ANTICONFORMISTA.

NON SONO TUTTI ...SANREMO.

C'ERA UNA VOLTA...CAROSELLO.

L’ITALIA DELL’ACCOZZAGLIA RESTAURATRICE. TUTTI CONTRO UNO.

GLI ITALIANI...FANTOZZI!

QUELLI CHE...REGIONANDO E PROVINCIANDO, TRUCCANO.

MALEDETTA ALITALIA (E GLI ALTRI).

L’ITALIA DELLE CASTE.

L’ITALIA DELLE LOBBIES.

CHI MANGIA SULLE NOSTRE BOLLETTE.

L'ITALIA ALLO SBANDO.

SOLDI E COMPLOTTI NELLO SPORT.

LA FIDAL ED I VERI ATLETI.

L'ITALIA IN GUERRA.

QUELLI CHE...SONO RAZZISTI INTERESSATI.

QUELLI CHE…SONO RAZZISTI CON ARTE, SENZA PARTE.

QUELLI CHE...SONO RAZZISTI E BASTA.

QUELLI CHE SONO RAZZISTI...A RAGIONE.

 

INDICE TERZA PARTE

 

GLI ULTIMI 25 ANNI DEGLI ITALIANI.

TROPPE LEGGI = ILLEGALITA’.

IL LIMBO LEGISLATIVO. LE LEGGI TEORICHE.

L'INSICUREZZA PUBBLICA E LA VIDEO SORVEGLIANZA PRIVATA.

L'INSICUREZZA PUBBLICA ED IL PARTITO DEI CENTRI SOCIALI.

L'ITALIA E L'ILLEGALITA' DI MASSA.

L’ITALIA DEI CONDONI.

LEGGE ED ORDINE.

PARLIAMO DELLE CELLE ZERO.

TANGENTOPOLI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

DEVASTATI DA MANI PULITE.

I GIORNALISTI. I KILLER DELLA PRIMA REPUBBLICA.

LA FINE DELLA DEMOCRAZIA.

IL COMUNISMO, IL FASCISMO ED I 5 STELLE: LA POLITICA COL VINCOLO DI MANDATO.

LA VERITA' E' FALSA.

IL TURISMO DELL'ORRORE.

IL GIORNALISMO DELLA MALDICENZA.

GIORNALI E PROCURE.

STEFANO SURACE E I MONDI DELL’INFORMAZIONE.

FINALMENTE LA TV DIVENTA GARANTISTA. 

I MICHELE MISSERI NEL MONDO. LE CONFESSIONI ESTORTE DALLE PROCURE AVALLATE NEI TRIBUNALI.

IL CARCERE UCCIDE: TUTTO MORTE E PSICOFARMACI.

IL PARTITO DELLE MANETTE COL CULO DEGLI ALTRI.

GIUSTIZIA CAROGNA.

L'IMPRESA IMPOSSIBILE DELLA RIPARAZIONE DEL NOCUMENTO GIUDIZIARIO.

LA STORIA DELL’AMNISTIA.

L'ITALIA DEGLI APPALTI TRUCCATI.

NOTIZIE FUGACI E TRUCCATE.

LE SPECULAZIONI ELITARIE.

PARENTELE TOGATE.

LA REPUBBLICA GIUDIZIARIA, ASPETTANDO LA TERZA REPUBBLICA.

IL 2016 ED I FLOP GIUDIZIARI.

L’ITALIA SPORCA AL CINEMA: SESSO, DROGA E CORRUZIONE.

IL PROIBIZIONISMO E LO STATO PATERNALISTA.

2016 FATTI E NOMI PIU’ IMPORTANTI.

I DESAPARECIDOS ED IL PIANO CONDOR.

LE PEGGIORI CAZZATE VIP DETTE NEL 2016.

EI FU: IL CORPO FORESTALE.

FIGLI DI TROJAN. HACKER E CYBERSPIONAGGIO.

A COSA SERVONO...

 

INDICE QUARTA PARTE

 

UN POPOLO DI NON IDENTIFICATI. I CORPI SENZA NOME.

FUNERALE LAICO. SENZA DIRITTI ANCHE DA MORTI!

LA GERMANIA: AL DI LA' DEI LUOGHI COMUNI.

REGENI, PUTIN, TRUMP E LE FAKE NEWS (BUFALE/FALSE VERITA').

LE FAKE NEWS DEL CONTRO-REGIME.

IL POLITICAMENTE CORRETTO. LA NUOVA RELIGIONE DELLA SINISTRA.

SINISTRISMO E RADICAL-CHIC.

LA NORMALIZZAZIONE DI TRUMP SULL’ASSE PRO TERRORISTI.

I MURI NELL'ERA DI INTERNET.

IL RAZZISMO IMMAGINARIO.

RAZZISMO E STEREOTIPI.

TRADIZIONI E MENZOGNE.

QUELLI CHE...SON SOLIDALI.

PARLIAMO DI IMMIGRAZIONE SENZA PARTIGIANERIA.

QUELLI CHE...COME I SINDACATI.

QUELLI COME…I PARLAMENTARI.

QUELLI…PRO GAY.

QUELLE CHE…SON FEMMINISTE.

L'ITALIA DEGLI IMBOSCATI.

L'ITALIA DEI CORROTTI.

CORROTTI E CORRUTTORI. UN POPOLO DI COMPRATI E DI VENDUTI. L’ITALIA DEI BONUS E DEI PRIVILEGI.

LA SANITA’ MALATA.

REATO DI ANZIANITA'. ADOTTABILITA' DEI FIGLI: NEGATA AGLI ANZIANI, MA PERMESSA A GAYS E LESBICHE.

GENITORIALITA' MALATA.

FILIAZIONE MALATA.

PARENTICIDI: OMICIDI FAMILIARI.

ABRUZZO. GIUSTIZIERI, TERREMOTO E VALANGHE. HOTEL RIGOPIANO. I MORTI SONO STATI UCCISI.

PARLIAMO DELLA BASILICATA.

PARLIAMO DELLA CALABRIA.

PARLIAMO DELLA CAMPANIA.

PARLIAMO DELL’EMILIA ROMAGNA.

PARLIAMO DEL LAZIO.

PARLIAMO DELLA LIGURIA.

PARLIAMO DELLA LOMBARDIA.

PARLIAMO DEL PIEMONTE E DELLA VALLE D’AOSTA.

PARLIAMO DELLA PUGLIA.

PARLIAMO DELLA SARDEGNA.

PARLIAMO DELLA SICILIA.

PARLIAMO DELLA TOSCANA.

PARLIAMO DELL’UMBRIA.

PARLIAMO DEL VENETO.

 

 

 

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande)

Sono un italiano vero e me ne vanto,

                                                     ma quest’Italia mica mi piace tanto.                            

Tra i nostri avi abbiamo condottieri, poeti, santi, navigatori,

oggi per gli altri siamo solo una massa di ladri e di truffatori.

Hanno ragione, è colpa dei contemporanei e dei loro governanti,

incapaci, incompetenti, mediocri e pure tanto arroganti.

Li si vota non perché sono o sanno, ma solo perché questi danno,

per ciò ci governa chi causa sempre e solo tanto malanno.

Noi lì a lamentarci sempre e ad imprecare,

ma poi siamo lì ogni volta gli stessi a rivotare.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Codardia e collusione sono le vere ragioni,

invece siamo lì a differenziarci tra le regioni.

A litigare sempre tra terroni, po’ lentoni e barbari padani,

ma le invasioni barbariche non sono di tempi lontani?

Vili a guardare la pagliuzza altrui e non la trave nei propri occhi,

a lottar contro i più deboli e non contro i potenti che fanno pastrocchi.

Italiopoli, noi abbiamo tanto da vergognarci e non abbiamo più niente,

glissiamo, censuriamo, omertiamo e da quell’orecchio non ci si sente.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Simulano la lotta a quella che chiamano mafia per diceria,

ma le vere mafie sono le lobbies, le caste e la massoneria.

Nei tribunali vince il più forte e non chi ha la ragione dimostrata,

così come abbiamo l’usura e i fallimenti truccati in una giustizia prostrata.

La polizia a picchiare, gli innocenti in anguste carceri ed i criminali fuori in libertà,

che razza di giustizia è questa se non solo pura viltà.

Abbiamo concorsi pubblici truccati dai legulei con tanta malizia,

così come abbiamo abusi sui più deboli e molta ingiustizia.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Abbiamo l’insicurezza per le strade e la corruzione e l’incompetenza tra le istituzioni

e gli sprechi per accontentare tutti quelli che si vendono alle elezioni.

La costosa Pubblica Amministrazione è una palla ai piedi,

che produce solo disservizi anche se non ci credi.

Nonostante siamo alla fame e non abbiamo più niente,

c’è il fisco e l’erario che ci spreme e sull’evasione mente.

Abbiamo la cultura e l’istruzione in mano ai baroni con i loro figli negli ospedali,

e poi ci ritroviamo ad essere vittime di malasanità, ma solo se senza natali.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Siamo senza lavoro e senza prospettive di futuro,

e le Raccomandazioni ci rendono ogni tentativo duro.

Clientelismi, favoritismi, nepotismi, familismi osteggiano capacità,

ma la nostra classe dirigente è lì tutta intera da buttà.

Abbiamo anche lo sport che è tutto truccato,

non solo, ma spesso si scopre pure dopato.

E’ tutto truccato fin anche l’ambiente, gli animali e le risorse agro alimentari

ed i media e  la stampa che fanno? Censurano o pubblicizzano solo i marchettari.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Gli ordini professionali di istituzione fascista ad imperare e l’accesso a limitare,

con la nuova Costituzione catto-comunista la loro abolizione si sta da decenni a divagare.

Ce lo chiede l’Europa e tutti i giovani per poter lavorare,

ma le caste e le lobbies in Parlamento sono lì per sé  ed i loro figli a legiferare.

Questa è l’Italia che c’è, ma non la voglio, e con cipiglio,

eppure tutti si lamentano senza batter ciglio.

Che cazzo di Italia è questa con tanta pazienza,

non è la figlia del rinascimento, del risorgimento, della resistenza!!!

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Questa è un’Italia figlia di spot e di soap opera da vedere in una stanza,

un’Italia che produce veline e merita di languire senza speranza.

Un’Italia governata da vetusti e scaltri alchimisti

e raccontata sui giornali e nei tg da veri illusionisti.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma se tanti fossero cazzuti come me, mi piacerebbe tanto.

Non ad usar spranghe ed a chi governa romper la testa,

ma nelle urne con la matita a rovinargli la festa.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Rivoglio l’Italia all’avanguardia con condottieri, santi, poeti e navigatori,

voglio un’Italia governata da liberi, veri ed emancipati sapienti dottori.

Che si possa gridare al mondo: sono un italiano e me ne vanto!!

Ed agli altri dire: per arrivare a noi c’è da pedalare, ma pedalare tanto!!

Antonio Giangrande (scritta l’11 agosto 2012)

 

  

 

 

 

 

 

 

Il Poema di Avetrana di Antonio Giangrande

Avetrana mia, qua sono nato e che possiamo fare,

non ti sopporto, ma senza di te non posso stare.

Potevo nascere in Francia od in Germania, qualunque sia,

però potevo nascere in Africa od in Albania.

Siamo italiani, della provincia tarantina,

siamo sì pugliesi, ma della penisola salentina.

Il paese è piccolo e la gente sta sempre a criticare,

quello che dicono al vicino è vero o lo stanno ad inventare.

Qua sei qualcuno solo se hai denari, non se vali con la mente,

i parenti, poi, sono viscidi come il serpente.

Le donne e gli uomini sono belli o carini,

ma ci sposiamo sempre nei paesi più vicini.

 

Abbiamo il castello e pure il Torrione,

come abbiamo la Giostra del Rione,

per far capire che abbiamo origini lontane,

non come i barbari delle terre padane.

 

Abbiamo le grotte e sotto la piazza il trappeto,

le fontane dell’acqua e le cantine con il vino e con l’aceto.

 

Abbiamo il municipio dove da padre in figlio sempre i soliti stanno a comandare,

il comune dove per sentirsi importanti tutti ci vogliono andare.

Il comune intitolato alla Santo, che era la dottoressa mia,

di fronte alla sala gialla, chiamata Caduti di Nassiriya.

Tempo di elezioni pecore e porci si mettono in lista,

per fregare i bianchi, i neri e i rossi, stanno tutti in pista.

Mettono i manifesti con le foto per le vie e per la piazza,

per farsi votare dagli amici e da tutta la razza.

Però qua votano se tu dai,

e non perché se tu sai.

 

Abbiamo la caserma con i carabinieri e non gli voglio male,

ma qua pure i marescialli si sentono generale.

 

Abbiamo le scuole elementari e medie. Cosa li abbiamo a fare,

se continui a studiare, o te ne vai da qua o ti fai raccomandare.

Parlare con i contadini ignoranti non conviene, sia mai,

questi sanno più della laurea che hai.

Su ogni argomento è sempre negazione,

tu hai torto, perché l’ha detto la televisione.

Solo noi abbiamo l’avvocato più giovane d’Italia,

per i paesani, invece, è peggio dell’asino che raglia.

Se i diamanti ai porci vorresti dare,

quelli li rifiutano e alle fave vorrebbero mirare.

 

Abbiamo la piazza con il giardinetto,

dove si parla di politica nera, bianca e rossa.

Abbiamo la piazza con l’orologio erto,

dove si parla di calcio, per spararla grossa.

Abbiamo la piazza della via per mare,

dove i giornalisti ci stanno a denigrare.

 

Abbiamo le chiese dove sembra siamo amati,

e dove rimettiamo tutti i peccati.

Per una volta alla domenica che andiamo alla messa dal prete,

da cattivi tutto d’un tratto diventiamo buoni come le monete.

 

Abbiamo San Biagio, con la fiera, la cupeta e i taralli,

come abbiamo Sant’Antonio con i cavalli.

Di San Biagio e Sant’Antonio dopo i falò per le strade cosa mi resta,

se ci ricordiamo di loro solo per la festa.

Non ci scordiamo poi della processione per la Madonna e Cristo morto, pure che sia,

come neanche ci dobbiamo dimenticare di San Giuseppe con la Tria.

 

Abbiamo gli oratori dove portiamo i figli senza prebende,

li lasciamo agli altri, perché abbiamo da fare altri faccende.

 

Per fare sport abbiamo il campo sportivo e il palazzetto,

mentre io da bambino giocavo giù alle cave senza tetto.

 

Abbiamo le vigne e gli ulivi, il grano, i fichi e i fichi d’india con aculei tesi,

abbiamo la zucchina, i cummarazzi e i pomodori appesi.

 

Abbiamo pure il commercio e le fabbriche per lavorare,

i padroni pagano poco, ma basta per campare.

 

Abbiamo la spiaggia a quattro passi, tanto è vicina,

con Specchiarica e la Colimena, il Bacino e la Salina.

I barbari padani ci chiamano terroni mantenuti,

mica l’hanno pagato loro il sole e il mare, questi cornuti??

Io so quanto è amaro il loro pane o la michetta,

sono cattivi pure con la loro famiglia stretta.

 

Abbiamo il cimitero dove tutti ci dobbiamo andare,

lì ci sono i fratelli e le sorelle, le madri e i padri da ricordare.

Quelli che ci hanno lasciato Avetrana, così come è stata,

e noi la dobbiamo lasciare meglio di come l’abbiamo trovata.

 

Nessuno è profeta nella sua patria, neanche io,

ma se sono nato qua, sono contento e ringrazio Dio.

Anche se qua si sentono alti pure i nani,

che se non arrivano alla ragione con la bocca, la cercano con le mani.

Qua so chi sono e quanto gli altri valgono,

a chi mi vuole male, neanche li penso,

pure che loro mi assalgono,

io guardo avanti e li incenso.

Potevo nascere tra la nebbia della padania o tra il deserto,

sì, ma li mi incazzo e poi non mi diverto.

Avetrana mia, finchè vivo ti faccio sempre onore,

anche se i miei paesani non hanno sapore.

Il denaro, il divertimento e la panza,

per loro la mente non ha usanza.

Ti lascio questo poema come un quadro o una fotografia tra le mani,

per ricordarci sempre che oggi stiamo, però non domani.

Dobbiamo capire: siamo niente e siamo tutti di passaggio,

Avetrana resta per sempre e non ti dà aggio.

Se non lasci opere che restano,

tutti di te si scordano.

Per gli altri paesi questo che dico non è diverso,

il tempo passa, nulla cambia ed è tutto tempo perso.

 

 

 

 

La Ballata ti l'Aitrana di Antonio Giangrande

Aitrana mia, quà già natu e ce ma ffà,

no ti pozzu vetè, ma senza ti te no pozzu stà.

Putia nasciri in Francia o in Germania, comu sia,

però putia nasciri puru in africa o in Albania.

Simu italiani, ti la provincia tarantina,

simu sì pugliesi, ma ti la penisula salentina.

Lu paisi iè piccinnu e li cristiani sempri sciotucunu,

quiddu ca ticunu all’icinu iè veru o si l’unventunu.

Qua sinti quarche tunu sulu ci tieni, noni ci sinti,

Li parienti puè so viscidi comu li serpienti.

Li femmini e li masculi so belli o carini,

ma ni spusamu sempri alli paisi chiù icini.

 

Tinimu lu castellu e puru lu Torrioni,

comu tinumu la giostra ti li rioni,

pi fa capii ca tinimu l’origini luntani,

no cumu li barbari ti li padani.

 

Tinimu li grotti e sotta la chiazza lu trappitu,

li funtani ti l’acqua e li cantini ti lu mieru e di l’acitu.

 

Tinimu lu municipiu donca fili filori sempri li soliti cumannunu,

lu Comuni donca cu si sentunu impurtanti tutti oluni bannu.

Lu comuni ‘ntitolato alla Santu, ca era dottori mia,

ti fronti alla sala gialla, chiamata Catuti ti Nassiria.

Tiempu ti votazioni pecuri e puerci si mettunu in lista,

pi fottiri li bianchi, li neri e li rossi, stannu tutti in pista.

Basta ca mettunu li manifesti cu li fotu pi li vii e pi la chiazza,

cu si fannu utà ti li amici e di tutta la razza.

Però quà votunu ci tu tai,

e no piccè puru ca tu sai.

 

Tinumu la caserma cu li carabinieri e no li oiu mali,

ma qua puru li marescialli si sentunu generali.

 

Tinimu li scoli elementari e medi. Ce li tinimu a fà,

ci continui a studià, o ti ni ai ti quà o ta ffà raccumandà.

Cu parli cu li villani no cunvieni,

quisti sapunu chiù ti la lauria ca tieni.

Sobbra all’argumentu ti ticunu ca iè noni,

tu tieni tuertu, piccè le ditto la televisioni.

Sulu nui tinimu l’avvocatu chiù giovini t’Italia,

pi li paisani, inveci, iè peggiu ti lu ciucciu ca raia.

Ci li diamanti alli puerci tai,

quiddi li scanzunu e mirunu alli fai.

 

Tinumu la chiazza cu lu giardinettu,

do si parla ti pulitica nera, bianca e rossa.

Tinimu la chiazza cu l’orologio iertu,

do si parla ti palloni, cu la sparamu grossa.

Tinimu la chiazza ti la strata ti mari,

donca ni sputtanunu li giornalisti amari.

 

Tinimu li chiesi donca pari simu amati,

e  donca rimittimu tutti li piccati.

Pi na sciuta a la tumenica alla messa do li papi,

di cattivi tuttu ti paru divintamu bueni comu li rapi.

 

Tinumu San Biagiu, cu la fiera, la cupeta e li taraddi,

comu tinimu Sant’Antoni cu li cavaddi.

Ti San Biagiu e Sant’Antoni toppu li falò pi li strati c’è mi resta,

ci ni ricurdamo ti loru sulu ti la festa.

No nni scurdamu puè ti li prucissioni pi la Matonna e Cristu muertu, comu sia,

comu mancu ni ma scurdà ti San Giseppu cu la Tria.

 

Tinimu l’oratori do si portunu li fili,

li facimu batà a lautri, piccè tinimu a fà autri pili.

 

Pi fari sport tinimu lu campu sportivu e lu palazzettu,

mentri ti vanioni iu sciucava sotto li cavi senza tettu.

 

Tinimu li vigni e l’aulivi, lu cranu, li fichi e li ficalinni,

tinimu la cucuzza, li cummarazzi e li pummitori ca ti li pinni.

 

Tinimu puru lu cummerciu e l’industri pi fatiari,

li patruni paiunu picca, ma basta pi campari.

 

Tinumu la spiaggia a quattru passi tantu iè bicina,

cu Spicchiarica e la Culimena, lu Bacinu e la Salina.

Li barbari padani ni chiamunu terruni mantinuti,

ce lonnu paiatu loro lu soli e lu mari, sti curnuti??

Sacciu iù quantu iè amaru lu pani loru,

so cattivi puru cu li frati e li soru.

 

Tinimu lu cimitero donca tutti ma sciri,

ddà stannu li frati e li soru, li mammi e li siri.

Quiddi ca nonnu lassatu laitrana, comu la ma truata,

e nui la ma lassa alli fili meiu ti lu tata.

 

Nisciunu iè prufeta in patria sua, mancu iù,

ma ci già natu qua, so cuntentu, anzi ti chiù.

Puru ca quà si sentunu ierti puru li nani,

ca ci no arriunu alla ragioni culla occa, arriunu culli mani.

Qua sacciu ci sontu e quantu l’autri valunu,

a cinca mi oli mali mancu li penzu,

puru ca loru olunu mi calunu,

iu passu a nanzi e li leu ti mienzu.

Putia nasciri tra la nebbia di li padani o tra lu disertu,

sì, ma ddà mi incazzu e puè non mi divertu.

Aitrana mia, finchè campu ti fazzu sempri onori,

puru ca li paisani mia pi me no tennu sapori.

Li sordi, lu divertimentu e la panza,

pi loro la menti no teni usanza.

Ti lassu sta cantata comu nu quatru o na fotografia ti moni,

cu ni ricurdamu sempri ca mo stamu, però crai noni.

Ma ccapì: simu nisciunu e tutti ti passaggiu,

l’aitrana resta pi sempri e no ti tai aggiu.

Ci no lassi operi ca restunu,

tutti ti te si ni scordunu.

Pi l’autri paisi puè qustu ca ticu no iè diversu,

lu tiempu passa, nienti cangia e iè tuttu tiempu persu.

Testi scritti il 24 aprile 2011, dì di Pasqua.

 

 

  

 

 

 

 

PRIMA PARTE

 

COS’E’ LA POLITICA OGGI?

Cos’è la politica oggi?

Un bambino va dal padre e dice: Papà cos' è la politica? Il padre ci pensa e poi dice: Guarda te lo spiego con un esempio:

io che lavoro e porto a casa i soldi sono il CAPITALISTA;

tua madre che li amministra è il GOVERNO;

la nostra cameriera è la CLASSE OPERAIA;

il nonno che controlla che tutto sia in regola è il PARTITO COMUNISTA ed il SINDACATO;

noi tutti ci preoccupiamo che tu stia bene e tu, ormai, che hai qualche voce in capitolo sei il POPOLO;

tua sorella che è appena nata e porta ancora i pannolini è il FUTURO.

Hai capito figlio mio?

Il piccolo ci pensa e dice al padre che vuole dormirci su e riflettere una notte.

Il bambino va a dormire, ma alle due di notte viene svegliato dalla sorella che comincia a piangere perché ha sporcato il pannolino.

Il bambino va a cercare qualcuno.

Visto che non sa cosa fare, va nella camera dei suoi genitori. 

Lì c’è solo sua madre che dorme profondamente e chiamata dal bambino non si sveglia.

Così va nella camera della cameriera, ma la trova a letto col padre,

mentre il nonno sbircia dalla finestra.

Tutti sono così occupati che non si accorgono del bambino che chiede aiuto.

Perciò il bimbo ritorna a dormire.

Il mattino dopo il padre chiede al figlio se ha capito cosa sia la politica.

Sì, risponde il figlio.

Il CAPITALISMO approfitta della CLASSE OPERAIA;

Il SINDACATO sta a guardare;

Intanto il GOVERNO dorme;

Il POPOLO che chiede aiuto regolarmente non lo ascolta nessuno e viene completamente ignorato;

Il FUTURO è e resterà nella merda.

QUESTA E’ LA POLITICA!!!

Le pecore hanno paura dei lupi, ma è il loro pastore che le porta al macello.

Poveri noi, scrive Alessandro Bertirotti il 24 agosto 2017 su “Il Giornale”. È tutta questione di… giusta misura. Qualche settimana fa, ho avuto una bellissima chiacchierata con un caro amico, Marco Palombi. Si occupa di economia da parecchi anni e commentando la situazione generale mondiale che stiamo vivendo, mi ha raccontato quello che ora io vi scrivo. Un suo amico, o meglio un conoscente, politico all’interno del consiglio comunale di Roma, appartenente ad uno schieramento di cui non faccio il nome per mia vergogna, era particolarmente onorato di aver stretto la mano al procuratore antimafia della capitale. Le parole che il politico utilizzava erano comunque significative, perché diceva di aver conosciuto un eroe. La nostra chiacchierata, quindi, verteva su quelli che oggi i giovani politici ritengono essere gli eroi. È davvero allucinante il livello di ignoranza di questi individui, e direi, a questo punto, anche di deficienza (e i miei lettori sanno che utilizzo questi termini nella loro accezione etimologica). Scusatemi tanto, se sono dunque inopportuno. Se una persona che fa il suo dovere, per il quale è pagato da tutti i contribuenti, ha deciso di essere uno dei servitori dello Stato, come peraltro sono tutti cittadini onesti, è oggi diventato un eroe, c’è qualcuno in grado di sapermi dire chi sono davvero gli eroi? Che dire dei martiri delle due guerre d’indipendenza, delle due guerre mondiali? E poi, di Ugo Foscolo, Giosuè Carducci, Alessandro Manzoni, Michelangelo, Leonardo, Caravaggio? Mi fermo. Oggi, è talmente raro trovare qualcuno che nell’esercizio del proprio ruolo sociale faccia esattamente ciò per cui è pagato, che ci stupiamo di una normalità e di una ovvietà che diventa quindi un’offesa a tutti coloro che nella loro vita quotidiana svolgono silenziosamente il loro compito. E mi riferisco anche al caso di normali pubblici ufficiali: persone che compiono il loro dovere e non sono degli eroi, ma che sembrano tali solo per il fatto che vi sono altri individui che non lo compiono quasi mai, per non dire mai. E magari, si chiamano onorevoli. Ecco perché siamo politicamente disastrati: abbiamo deficienti, ignoranti e presuntuosi. E non possiamo quindi attenderci che la nostra nazione abbia un futuro, un progetto verso il domani se siamo guidati da questi dementi. Siamo noi gli onorevoli di tutti giorni, quelli sono solo disonorevoli.

 L’ITALIA DELLE RIFORME IMPOSSIBILI.

La politica senza potere nell’Italia del non fare. Nessun Parlamento, nessun governo, nessun sindaco, può pensare davvero di far pagare le tasse a chi dovrebbe pagarle, di avere una burocrazia fedele alle proprie direttive, di licenziare tutti i mangiapane a tradimento che andrebbero licenziati, di ridurre l’enorme area del conflitto d’interessi, di stabilire reali principi di concorrenza, scrive il 21 luglio 2017 Ernesto Galli della Loggia su "Il Corriere della Sera". Perché da anni in Italia ogni tentativo di cambiare in meglio ha quasi sempre vita troppo breve o finisce in nulla? Perché ogni tentativo di rendere efficiente un settore dell’amministrazione, di assicurare servizi pubblici migliori, una giustizia più spedita, un Fisco meno complicato, una sanità più veloce ed economica, di rendere la vita quotidiana di tutti più sicura, più semplice, più umana, perché ognuna di queste cose in Italia si rivela da anni un’impresa destinata nove volte su dieci ad arenarsi o a fallire? Perché da anni in questo Paese la politica e lo Stato sembrano esistere sempre meno per il bene e l’utile collettivi? La risposta è innanzi tutto una: perché in Italia non esiste più il Potere. Se la politica di qualunque colore pur animata dalle migliori intenzioni non riesce ad andare mai al cuore di alcun problema, ad offrire una soluzione vera per nulla, dando di sé sempre e solo l’immagine di una monotona vacuità traboccante di chiacchiere, è per l’appunto perché da noi la politica, anche quando vuole non può contare sullo strumento essenziale che è tipicamente suo: il Potere. Cioè l’autorità di decidere che cosa fare, e di imporre che si faccia trovando gli strumenti per farlo: che poi si riassumono essenzialmente in uno, lo Stato. Al di là di ogni apparenza la crisi italiana, insomma, è innanzi tutto la crisi del potere politico in quanto potere di fare, e perciò è insieme crisi dello Stato. Beninteso, un potere politico formalmente esiste in questo Paese: ma in una forma puramente astratta, appunto. Di fatto esso è condizionato, inceppato, frazionato. Alla fine spappolato. In Italia, di mille progetti e mille propositi si riesce a vararne sì e no uno, e anche quell’uno non si riesce mai a portare a termine nei tempi, con la spesa e con l’efficacia esistenti altrove. Non a caso siamo il Paese del «non finito»; del «non previsto»; dei decreti attuativi sempre «mancanti»; dei finanziamenti iniziali sempre «insufficienti», e se proprio tutto fila liscio siamo il Paese dove si può sempre contare su un Tar in agguato. Il potere italiano è un potere virtualmente impotente. Perché? La risposta conduce al cuore della nostra storia recente: perché ormai la vera legittimazione del potere politico italiano non deriva dalle elezioni, dalle maggioranze parlamentari, o da altre analoghe istanze o procedure. Svaniti i partiti come forze autonome, come autonome fonti d’ispirazione e di raccolta del consenso, l’autentica legittimazione del potere politico italiano si fonda su altro: sull’impegno a non considerare essenziale, e quindi a non esigere, il rispetto della legge. È precisamente sulla base di un simile impegno che la parte organizzata e strutturata della società italiana — quella che in assenza dei partiti ha finito per essere la sola influente e dotata di capacità d’interdizione — rilascia la propria delega fiduciaria a chi governa. Sulla base cioè della promessa di essere lasciata in pace a fare ciò che più le aggrada; che il comando politico con il suo strumento per eccellenza, la legge, si arresterà sulla sua soglia. Che il Paese sia lasciato in sostanza in una vasta condizione di a-legalità: come per l’appunto è oggi. È a causa di tutto ciò che in Italia nessun Parlamento, nessun governo, nessun sindaco, può pensare davvero di far pagare le tasse a chi dovrebbe pagarle, di avere una burocrazia fedele alle proprie direttive, di licenziare tutti i mangiapane a tradimento che andrebbero licenziati, di ridurre l’enorme area del conflitto d’interessi, di stabilire reali principi di concorrenza dove è indispensabile, di imporre la propria autorità ai tanti corpi dello Stato che tendono a voler agire per conto proprio (dalla magistratura al Consiglio di Stato, ai direttori generali e capi dipartimento dei ministeri), di tutelare l’ordine pubblico senza guardare in faccia a nessuno, di anteporre e proteggere l’interesse collettivo contro quello dei sindacati e dei privati (dalla legislazione sugli scioperi alle concessioni autostradali) e così via elencando all’infinito. Il risultato è che da anni qualsiasi governo è di fatto in balia della prima agitazione di tassisti, e lo Stato è ridotto a dover disputare in permanenza all’ultimo concessionario di una spiaggia i suoi diritti sul demanio costiero. In Italia, insomma, tra il potere del tutto teorico della politica da un lato, e il potere o meglio i poteri concreti e organizzati della società dall’altro, è sempre questo secondo potere a prevalere. Da tempo la politica ha capito e si è adeguata, rassegnandosi a non disturbare la società organizzata e i suoi mille, piccoli e grandi privilegi. Il che spiega, tra l’altro, perché qui da noi non ci sia più spazio per una politica di destra davvero contrapposta a una politica di sinistra e viceversa: perché di fatto c’è spazio per una politica sola che agisca nei limiti fissati dai poteri che non vanno disturbati. Da quello dei parcheggiatori abusivi a quello delle grandi società elettriche che possono mettere pale eoliche dove vogliono. Ma in un regime democratico, alla fine, il potere della politica è il potere dei cittadini, i quali solo grazie alla politica possono sperare di contare qualcosa. Così come d’altra parte è in virtù del potere di legiferare, cioè grazie allo strumento della legge, che il potere della politica è anche l’origine e il cuore del potere dello Stato e viceversa. Una politica che rinuncia a impugnare la legge, a far valere comunque il principio di legalità, è una politica che rinuncia al proprio potere e allo stesso tempo mina lo Stato decretandone l’inutilità. Rinuncia alla propria ragion d’essere e si avvia consapevolmente al proprio suicidio. Non è quello che sta accadendo in Italia? 

IL PARTITO DELL'ASTENSIONE.

Siamo il partito più forte e vi governeremo noi. È il capo del primo movimento italiano che sfiora la maggioranza assoluta e per questo merita di essere intervistato. Qui ci spiega perché il popolo lo ha premiato e come intende governare, scrive Tommaso Cerno il 16 giugno 2017 su "L'Espresso". «Un risultato eccezionale e previsto». È il commento del segretario Astensione, leader del primo partito italiano. Nelle nuove torte elettorali, che mostrano le percentuali del voto per la prima volta il partito guidato dal segretario Astensione è stato inserito, di colore nero, al fianco dei partiti tradizionali. E mentre destra, sinistra e grillini si scannano su chi sia andato meglio o peggio (dando per morto il M5s che in pratica non partecipava alla competizione), il grafico ci mostra che stando ai dati del Viminale un partito è uscito vittorioso dalle urne. Proprio il partito di Astensione: «Puntiamo alla maggioranza assoluta. I ballottaggi di domenica sono la nostra grande occasione per prendere in mano questo Paese». Secondo quanto si apprende, il segretario Astensione non sarà tuttavia in campagna elettorale nei prossimi giorni. Non girerà l’Italia in camper né in treno: «Andremo al mare», dice. «Non abbiamo voglia di annoiarci con discorsi sulla crisi e sull’euro. Tanto li fanno gli altri per noi e la vittoria è assicurata. A Genova, dove tirano un po’ sul soldo, l’abbiamo addirittura già conquistata al primo turno. Ma vedrete che vinceremo dappertutto e poi nella pratica a governare davvero, a prendersi le responsabilità, a firmare gli atti saranno altri». Un successo che il segretario Astensione considera logica conseguenza di un programma politico, scritto da terzi e realizzato in sua vece: «Qualcuno è stato capace di costruirci una credibilità. Il popolo italiano ci ha premiati per la coerenza che abbiamo dimostrato a nostra insaputa. Siamo o non siamo noi a dimostrare che la giusta misura di equità, prosperità e sicurezza su cui l’Occidente fu fondato dopo la Seconda guerra mondiale oggi non esiste più?», si chiede Astensione rivolgendosi a quella che è stata definita per decenni la democrazia liberale. «Se oggi quel modello è vuoto, finito, è perché non garantisce uguaglianza, non tanto in fatto di guadagni o ricchezze, ma di diritti e parità sociale», continua il segretario Astensione. «La scuola è tornata a dipendere dal censo. La professione dal censo. Il tempo libero dal censo. Ottimismo e pessimismo dal censo. E così il voto sembra un grido di protesta. Un “no!” urlato dalle periferie in continua espansione, perché stanno dentro di noi e non più fuori. Ma è un’illusione. Il “no” si sta politicizzando, per cui finirà per perdere quota e credibilità così come è stato per la proposta politica». A questo punto, secondo Astensione, la strada è chiara: «Il cittadino può scegliere uomini come Donald Trump, Marine Le Pen o Beppe Grillo credendoli diversi dal sistema. Sono in effetti uomini che a parole rovesciano i valori del nostro modo di essere democratici. Salvo poi, una volta al governo, diventare subito “partito” e mostrarsi inadeguati come e più degli altri. La morale è che il cittadino, prima o dopo, resta a casa», spiega ancora Astensione, «il nostro boom elettorale dimostra che anche la protesta sta diventando sistema. È l’ennesima devianza democratica che si è fatta Accademia. Prima si stava a casa per non votare il Psi, poi per non votare Silvio, oggi pure per non votare Grillo». Da qui la strategia del segretario Astensione: «Perdiamo altro tempo. Nessuno proponga più la riforma elettorale, dopo le brutte figure di questi anni. Ripeta pure in televisione che il popolo non si nutre di quello. Muti di nuovo la forma partito: basta movimenti liquidi, si torna al modello Pci per la sinistra, con le sezioni e il territorio. Si torna al modello azienda per la destra, con nuovi volti, giovani e sorridenti. Si legge un paio di libri su Rousseau per aggiornare la piattaforma grillina. Ne avremo un’alternativa fra diversi modelli di populismo. E come si fa per le auto, ne sceglieremo uno. C’è il modello anti-rom e anti-euro, disponibile in versione classica neonazionalista e in versione a democrazia diretta. C’è il populismo di sinistra, che ringrazia chi perde alle elezioni, perché sono i cittadini che non hanno capito, perché c’è una morale che spiega sempre che hai ragione tu. E che, in cambio della sconfitta, promette un mondo migliore ma poi non sa dirti dove sia e soprattutto da chi sarà abitato. E, infine, c’è il populismo di centro, l’ultimo nato. Se davanti non c’è niente, voltiamoci indietro. Il passato è già successo, che male può fare? Cosa sarà mai questo futuro? E se poi non arriva? Meglio una sana nostalgia romantica di giovinezza politica (e anagrafica). Per questo i cittadini ormai si fidano solo di noi», conclude Astensione. «Per questo siamo il primo partito italiano».

Giovani e politica: a che punto siamo. Un sondaggio svolto dall'Istituto Toniolo dell'Università Cattolica di Milano parla chiaro: i Millennials sono delusi e disillusi, scrive il 16 giugno 2017 Orazio La Rocca su Panorama. Si allarga il divario tra i giovani italiani e la politica. E ancora meno è la fiducia delle nuove generazioni verso le riforme istituzionali che partiti, Parlamento ed organi di governo stanno tentando di realizzare. È il preoccupante quadro che emerge da un sondaggio svolto dall'Istituto “Giuseppe Toniolo” dell'Università Cattolica di Milano, dal quale emerge che il variegato mondo dei teenager è sempre più “deluso e disilluso” nei confronti delle istituzioni politiche del Paese. Alla richiesta di assegnare un voto da 1 a 10 ai soggetti politici in campo, oltre un giovane su tre da l’insufficienza (34,6%). Il partito che a mala pena riesce ad arrivare al 6 è il Movimento a 5 Stelle, ma solo su indicazione del 35,1% degli intervistati; seguono il PD con il 25,7%, la Lega con il 23,1%, sotto il 20% tutti gli altri. Ancora più basse le percentuali dei consensi se il voto da assegnare è 8: il 20,6 sceglie il M5S, segue la Lega con l’11,5% e il PD con il 9,1%. Fortemente distaccati tutti gli altri partiti. La rilevazione sul tema “Giovani, lavoro e rappresentanza” nell’ambito del “Rapporto Giovani” 2017 che i ricercatori del Toniolo, in collaborazione con Fim Cisl, hanno condotto su un campione di 2000 giovani dai 20 ai 34 anni, con il sostegno di Intesa Sanpaolo e della Fondazione Cariplo e raccolta nel volume "La condizione giovanile in Italia - Rapporto Giovani 2017" edito da Il Mulino – fa emergere come la forza che maggiormente oggi sostiene il Governo, il Partito democratico, non sia maggioritaria tra i giovani. Ma, ancora più preoccupante, stando sempre all'esito del Rapporto, è la constatazione che non c'è molto feeling tra giovani generazioni e Pd. Più ampia e decisa invece è la propensione a scegliere forze che in modo visibile e con toni più accesi cavalcano “insoddisfazione e protesta”. Alla classe dirigente italiana, in particolare quella politica, viene imputata la principale responsabilità della caduta dei tassi di crescita del paese e dei tassi di occupazione giovanile. La fiducia nelle istituzioni politiche e nei partiti risulta, di conseguenza, particolarmente bassa e in molti casi ridotta ai minimi termini. Da qui la grande fuga dalla politica, dalla vita dei partiti e, quel che è peggio, dal voto.

Giovani e voto: la grande fuga. "L'elettorato giovanile è molto meno prevedibile e più difficile da intercettare rispetto a quello adulto e anziano perché meno guidato dalle grandi ideologie del secolo scorso che stanno alla base della distinzione tra destra e sinistra – commenta il professor Alessandro Rosina, ricercatore dell'Università Cattolica e coordinatore del Rapporto Giovani -  E' inoltre un elettorato più fluido e instabile, quindi meno prevedibile sia rispetto alla decisione di andare o meno a votare sia sul partito o movimento a cui dare il proprio sostegno. Proprio per questo fa spesso la differenza sull'esito finale delle elezioni. Più che l'asse destra-sinistra i dati della ricerca dell'Istituto Toniolo – sottolinea il professore - mostrano come a orientare le scelte verso l'offerta politica sia l'atteggiamento di apertura e chiusura verso il nuovo e il cambiamento, ma anche la fiducia nelle istituzioni”.

Ecco, quindi, che dati alla mano dal sondaggio viene fuori che la Lega si rivolge soprattutto ai giovani delle classi sociali più basse (solo il 4,9% ha una laurea tra chi esprime una forte vicinanza al partito di Salvini), mente il M5S coglie maggiormente l’insoddisfazione e la voglia di emergere delle fasce intermedie (il 61,9% ha un diploma di scuola secondaria). Il PD presenta invece le percentuali più alte tra i laureati e tra gli studenti, da un lato, e le più basse tra i NEET, dall’altro. Il consenso verso le istituzioni politiche risulta in generale “basso”, ma con differenze sensibili tra i giovani vicini ai vari partiti o movimenti. In una scala da 1 a 10 i voti più bassi al Parlamento e ai partiti politici sono quelli attribuiti dagli intervistati vicini alla Lega e al M5S (voti dal 2,5 in giù). La sfiducia verso le istituzioni è invece più contenuta tra i giovani vicini al PD (voti dal 4 in su), condizionati anche da una valutazione più positiva dell’attuale Governo. Il “disagio” per la propria condizione presente e l’incertezza sulle possibilità di crescita e opportunità future, in un contesto di grandi trasformazioni, alimenta una domanda di politica credibile e affidabile che però – si legge nel Rapporto - “stenta attualmente a trovare risposte adeguate”. Di fronte ai grandi cambiamenti una parte dei giovani si trova spaesata e schiacciata in difesa, mentre una parte vorrebbe essere messa nelle condizioni di confrontarsi, con strumenti adeguati, con le novità che aprono al nuovo e al futuro. È soprattutto questo atteggiamento verso il cambiamento che “condiziona” la vicinanza a movimenti/partiti e le scelte elettorali dei giovani, mentre più “deboli” sono le ideologie di riferimento e più fluide le modalità di appartenenza.

Questione di fiducia. Gli atteggiamenti, in particolare, che incidono di più sull’orientamento al voto riguardano la conservazione dei valori tradizionali e il tema dell’immigrazione. Se la “sfiducia” verso le istituzioni vedeva vicini Lega e M5S, rispetto a queste dimensioni di apertura e chiusura al nuovo le percentuali più elevate sono quelle degli intervistati più orientati verso la Lega e Forza Italia. Il M5S si pone in posizione più intermedia, mentre il PD presenta i valori più bassi. Alla domanda se ha ancora senso la distinzione tra destra e sinistra, solo il 21,7 percento ha risposto affermativamente, il 61,5% considera superata tale distinzione, mentre il 16,8% non ha un’idea chiara. A considerare superate le categorie di destra e sinistra sono soprattutto i giovani vicini al Movimento 5 stelle (77,6% le rifiuta), ma anche in chi si riconosce nei partiti più a destra e più a sinistra nella maggioranza prevale il “no”. “I Millennials – conclude il professor Rosina - sono la forza principale di sostegno a processi di cambiamento credibili, convincenti e coinvolgenti che creano nuove opportunità. Ma quando manca la fiducia, quando prevalgono il disagio sulla condizione presente e l'incertezza sul futuro, i giovani tendono a chiudersi in difesa e a manifestare la loro insofferenza con astensione al voto o verso i movimenti che esprimono rabbia e posizioni antisistema".

"Pertini il più irascibile, ma Craxi e D'Alema..." I big della nostra politica visti da Quaranta. Da Moro a Leone, mezzo secolo passato a descrivere i leader della Repubblica. Parla Guido Quaranta, giornalista inventore del retroscena e ora novantenne. Che sui nomi di oggi chiosa: «Di Maio? Figurino da Rinascente. Renzi spietato e Meloni una Le Pen Cacio e Pepe», scrive Marco Damilano il 19 giugno 2017 su "L'Espresso". In un’epoca di giornalismo paludato si è inventato un genere che non esisteva prima: il retroscena della politica, il dietro le quinte di quel palcoscenico su cui si recita la comédie della politica tra primattori, spalle, comparse, guitti, il fattore umano. I potenti in mutande («Accompagnai Cossiga dal fisioterapista») raccontati con perfidia e con comprensione per debolezze, vanità, cadute. Guido Quaranta ha compiuto novant’anni il 18 giugno e cura “Banana Republic”, la sua rubrica per L’Espresso. È uno dei maestri del mestiere, ma meglio non dirglielo. «Va bene, chiacchieriamo, ma a una condizione: non mi chiedere analisi; mai fatta una in vita mia. Non mi sono mai sentito un grande giornalista, ho sempre fatto il cronista...».

Rinuncio a definirti, allora. Pensaci tu.

«Resocontista parlamentare, con Paese Sera, dal 1959, per dieci anni. Poi informatore dal Palazzo, con Panorama e dal 1978 con L’Espresso. Qualcuno diceva: spione. Il monarchico Alfredo Covelli mi chiamava “la supposta”. Sono stato ministro: ho firmato per qualche mese una rubrica con lo pseudonimo Minister. Organizzatore di eventi: ho fatto cantare gli onorevoli davanti alle telecamere e ho convinto Vittorio Sgarbi a denudarsi per una copertina. Candidato alla presidenza della Repubblica. Stefano Rodotà che presiedeva lesse per due volte il mio nome nell’aula di Montecitorio durante le votazioni del 1992. La prima volta ci fu un brusio generale, la seconda una risata».

Ora te li ritrovi anche in casa di giorno e di notte, ma all’epoca i politici erano inavvicinabili.

«Io li andavo a cercare fuori dal Palazzo. Aspettavo Giulio Andreotti alle 6 e 30 del mattino al portone del suo studio, davanti a Montecitorio, con il taccuino in mano. “Che fai, sembri un pizzardone: mi vuoi fare la contravvenzione?”, mi prese in giro la prima volta. Mi raccontò che non era vero che fosse così imperturbabile. “Anch’io ogni tanto perdo qualche colpo”, mi disse. “Al Senato durante un dibattito le sinistre lanciavano contro i banchi del governo libri, carte, aste dei microfoni. Io vidi un cestino di vimini per i rifiuti e per proteggermi me lo misi in testa”. Il massimo della scompostezza, per lui».

A differenza di un altro capo della Dc, Amintore Fanfani.

«Avevo scritto di un suo giro in Italia, definendolo misterioso. E mi presentai al Senato per strappargli qualche notizia. Quando mi vide restò pietrificato, poi cominciò a urlare: “Lei osa venire qui, al mio cospetto?”. Mi disse di seguirlo in ascensore. Nella sua stanza da presidente del Senato mi fece una sfuriata: “Io la mando in galera!”. Aveva la bava alla bocca. All’improvviso si calmò e mi spiegò il motivo del viaggio. Gli feci una domanda, poi un’altra ancora e mi misi a scrivere. Alla fine mi chiese: “Lei ha mai visto un mio quadro?”. E ordinò a un commesso di portarne uno: una barchetta verde, con la vela gialla, in mezzo al mare blu. Io dissi che era bellissimo, con toni un po’ eccessivi, e lui lo fece incartare. L’ho portato nella casa in campagna, nella camera da letto».

Con Aldo Moro hai fatto una storica intervista.

«In Transatlantico non parlava con nessuno. Scoprii la chiesa dove andava ogni mattina e gli chiesi un’intervista. Mi promise un appuntamento e qualche tempo dopo mi disse di andarlo a trovare a Terracina, sul litorale laziale. Camminava vestito in giacca, cravatta e soprabito sotto braccio tra i passanti in costume; mi raccontò che faceva pochi bagni e che durante le vacanze aveva visto al cinema due volte “Un uomo da marciapiede”. Poi rispose alle mie domande. Mi voleva bene. Una mattina due carabinieri bussarono alla porta di casa chiedendo le mie generalità. Temevo che volessero arrestarmi. Invece mi consegnarono la nomina a commendatore della Repubblica firmata da Moro».

I più irascibili?

«Sandro Pertini. Scrissi che aspirava a essere rieletto al Quirinale e mi gridò tre volte: “serva!” davanti a tutti, alla Camera. Bettino Craxi: “Devi ringraziare il cielo che non sono diventato presidente del Consiglio”, mi disse minaccioso nel 1979, dopo aver rinunciato all’incarico. Quando riuscì ad arrivare a Palazzo Chigi per L’Espresso gli strappai un colloquio dove attaccava i giornalisti e la stampa a suo dire ostile: “Sto per rompermi i coglioni”. Scrissi tutto e successe un putiferio. Massimo D’Alema si offese perché avevo scritto del suo carattere difficile e mi rivolse una cattiva espressione che non ricordo».

I più permalosi?

«Il presidente Giovanni Leone. Lo seguii nelle sue visite all’estero e scrissi delle sue gaffe. A Tbilisi, in Georgia, si mise a dirigere un coro che in suo onore aveva intonato “Funiculì Funiculà”. In Iran, a Persepoli, di fronte alla tomba di Ciro il Grande, esclamò: “Anche a Napoli abbiamo il nostro Ciro, Ciro a Mergellina”. Quando mi incontrò mi disse: “Ecco l’ambasciatore delle male parole”. Franco Evangelisti, il braccio destro di Andreotti, sottosegretario e ministro. Mi affrontò alla buvette: “Mi hai chiamato Tigellino e hai scritto che ghigno” e mi diede tre schiaffi. Io lo aspettai di fuori, nell’androne della Camera. Lui mi venne incontro, forse voleva scusarsi, ma non gli diedi il tempo perché gli restituii i ceffoni. Ci fu un parapiglia, ci divise Carlo Donat Cattin, per mettere pace intervenne il presidente della Camera».

Una volta hai catalogato i giornalisti che scrivono di politica.

«Li ho divisi in tonni, quelli che si muovono in branco e sono innocui. I pesci azzurri, gli squaletti da passeggio che si limitano a qualche morso indolore. E gli squali, che addentano senza timore. I tonni sono sempre stati numerosi. Oggi forse più di ieri».

Come sono cambiati i rapporti tra giornalisti e politici?

«Allora c’era un’informazione molto paludata. Veline e comunicati ufficiali. I retroscena non esistevano, i politici si infuriavano perché non erano abituati a veder pubblicato ciò che doveva restare riservato. Non mi hanno mai chiamato bugiardo; si arrabbiavano perché scrivevo cose che non dovevano uscire, ma mai cose false. Oggi invece mi sembra che i retroscena siano dettati dai politici, sui giornali finiscono le frasi che loro hanno interesse a far uscire, per scambiarsi qualche messaggio in codice».

Oggi si sa tutto, c’è la trasparenza, le riunioni si fanno in streaming.

«Non è vero, non è cambiato nulla. Mi è capitato di travestirmi per captare qualche riunione segreta. Una volta chiusero un armadio in cui mi ero infilato per ascoltare un vertice del Psiup e rischiai di morire soffocato. A una riunione della Dc alla Camera io e Augusto Minzolini ci infilammo il grembiule nero degli inservienti e ci mettemmo a pulire le finestre. Dopo un po’ fummo individuati e buttati fuori».

È cambiato, forse, che la politica si fa in tv.

«Nel 1983 Enzo Tortora mi chiese di arruolare i politici per il suo nuovo programma, “Cipria”. Dovevo convincerli a cantare davanti alle telecamere per la rubrica “L’ugola del Palazzo”. In molti mi dissero di no: Alessandro Natta si offese, Craxi mi buttò giù il telefono, Andreotti mi disse che aveva la raucedine. Altri abboccarono: il segretario del Pri Oddo Biasini cantò “Signorinella”; il dc Claudio Vitalone “Tu non mi lascerai mai” sul balcone di casa, mano nella mano con la moglie; il missino Tommaso Staiti di Cuddia intonò “Nel blu dipinto di blu” gettandosi con un paracadute da un bimotore. Il meglio lo diede il dc Calogero Mannino, che si esibì sulla “Turandot” e steccò sul “Vincerò”. Per la messa in onda aveva invitato a casa sua parenti e autorità e ci restò male».

Che tenerezza! Dopo abbiamo visto di tutto: chi cucina il risotto, chi gioca a ping pong, chi si butta in testa un secchio di acqua gelida...

«In tv i politici si considerano indispensabili e parlano di tutto. Maurizio Gasparri e Andrea Romano entrano negli studi tv fin dal mattino presto, con la donna delle pulizie, e parlano di Trump e delle buche di Roma con uguale autorevolezza. Una compagnia di giro».

Li racconti per L’Espresso nella rubrica "Banana Republic". Che ti sembrano i nuovi leader?

«Renzi è politicamente spietato: un uomo indifferente, basta vedere come stringe sbadatamente le mani. Di Maio? Un figurino della Rinascente. Salvini ha la faccia familiare di un commensale del vagone ristorante. Bersani sembra lo zio di un film di Pupi Avati. Giorgia Meloni è una Le Pen a cacio e pepe...».

Non salvi nessuno?

«Mi piace Mario Monti: una persona seria che ha salvato l’Italia. E uno come Mario Draghi. Quelli che non ti prendono in giro».

Tra i tuoi direttori chi ricordi con piacere?

«Livio Zanetti. Che mi assunse all’Espresso. E Claudio Rinaldi: nessuno sapeva annusare i pezzi come lui. Nel 1993 vide una foto di Luciano Benetton nudo per una pubblicità e decise di ripetere la copertina con un politico. Mi urlò: “Portami Sgarbi!”. Alla fine Vittorio accettò, interamente nudo fronte e retro, con lo slogan. “Meglio di tanti altri ben vestiti ma scandalosi”. Era l’anno di Tangentopoli. Ci costò quindici milioni di lire».

Oggi la politica si è rivestita? O è ancora nuda?

«La politica è sempre la stessa: insulti, baruffe, riappacificazioni finte. Di nuovo ci sono i trolley che scorrono sui pavimenti di marmo di Montecitorio, quando i deputati tornano a casa». 

LO "IUS SOLI" COMUNISTA.

Un “no” alla sinistra dello Ius Soli, scrive il 25 giugno 2017 Alessandro Catto su “Il Giornale". Su questa seconda tornata elettorale alle amministrative ha grandemente pesato la tematica dell’immigrazione. Un problema enorme già senza che fosse proposta la surreale discussione parlamentare sullo Ius Soli, a fronte di una popolazione che non sembra avere la minima intenzione di favorirne l’approvazione. In un momento storico nel quale l’immigrazione è spesso percepita come un pericolo e come una filiera di lucro e di interesse, proporre una discussione parlamentare sul tema, oltre che dare l’idea di una totale lontananza dalle esigenze dell’elettorato comune, costituisce un autogol pazzesco, conclamato dal voto anche in assenza di un centrodestra particolarmente in salute. La sinistra, stasera, paga a caro prezzo la totale incapacità di rendersi conto di quanto pesi sul proprio cammino l’atteggiamento mantenuto finora sul tema migratorio. Un atteggiamento di assenza programmatica e di ingiustificabile laissez-faire, tra l’altro ancor più deleterio per una porzione politica che della salvaguardia dei più esposti al problema, che sono poi i ceti più poveri, dovrebbe fare il proprio mantra politico, e che pare totalmente aver dimenticato un più proficuo dibattito sull’evitare le partenze, piuttosto che rinfocolare un cosmopolitismo prezzolato sulle ali di arrivi al ritmo di migliaia e migliaia di immigrati al giorno. Il voto ad una giunta di centrodestra, infatti, viene percepito spesso e volentieri come un voto dato ad un possibile argine contro una gestione senza senso del fenomeno, con una accoglienza ormai insostenibile anche in tanti piccoli comuni di provincia. D’altro canto, se è vero che queste elezioni confermano la presenza di un polo di centrodestra vivo, trasporne immediatamente nel nazionale i meriti e i successi avuti nel locale sarebbe un errore. C’è molto da lavorare e serve trovare una leadership convincente, capace di lavorare su temi pratici e di battere la sinistra, più che sulle ideologie, sul buonsenso e sul buongoverno, come avvenuto in molti comuni italiani, con un programma chiaro e moderno. Da questa analisi dovranno ripartire la destra e pure la sinistra, con quest’ultima che dovrà faticare non poco per riguadagnare tutto il terreno perso e, soprattutto, per evitare di perderne dell’altro.

Ius Soli. La Patria non è un cavillo burocratico, scrive il 15/06/2017 Emanuele Ricucci su “Il Giornale". Disfatta l’italia ora bisogna disfare gli italiani. Progresso. Ma dopo, cosa c’è? Dopo la vita e dopo la fine di Beautiful? Parliamo di cosa c’è dopo per la paura di vivere cosa c’è ora? Ce lo chiediamo perché la nostra natura è l’umile curiosità. Al contrario, invece, è perversione del coatto, come quella che segna la presunzione di un’epoca. Un’epoca che ha tutto: la tecnologia, gli hamburger vegani, il maglione per cani, le file all’Apple Store e l’Unione Europea. Ma che soprattutto si è liberata dei più grandi fardelli: si è tolta dai piedi Dio e il senso di identità e confine; ha liquidato secoli di umanissime certezze (e quei valori non negoziabili che sono il piedistallo dell’essere semplicemente umani, citando Torriero, sono stati gioiosamente messi sul mercato), ha travolto le aggregazioni e gli atti essenziali, come la famiglia, la dignità, la partecipazione, la sovranità, la legalità, lo Stato padre, l’identità come amore, e la spontaneità – se entra un ladro in casa, tanto vale preparagli un bel panino quaglie e broccoletti -. E poi, maestra di nichilismo, ha passato la spugna sulle cose semplici che sostengono il mondo, poiché ci risulta eroticamente indispensabile credere che sia necessario coltivare gli uomini, per poter coltivare le idee e non crepare di futuro (repetita…). Ha murato il cantuccio, l’angulus oraziano, quello da cui cogliere la visuale senza essere ancora corrotti dal mainstream. Luogo noto e sicuro, per ritrovare sempre se stessi nell’epoca della grande siccità dello Spirito. Tutto questo, perché, dicono, dobbiamo andare oltre. Ma oltre de che? Oltre il sangue, persino. E tutto si riduce ad una questione di marketing (elettorale. Francia docet). Prendete lo Ius Soli. Approvato alla Camera nel 2015, rischia di diventare certezza il prossimo giugno al Senato.Il divieto di sosta per gli italiani. Ah la grande modernità! Ma lo sapevate che Kaled è nato in ospedale e quindi è un medico? Eh già, gli spetta di diritto. In tutti i sensi; anche se avrebbe voluto fare altro nella vita, il terrorista, ad esempio. Insomma non conoscevate la storia di Kaled. Curioso. In questo mondo iperconnesso. Storia, per altro, molto simile a quella di Omar, che è nato in Italia da padre libico e madre spagnola ed è italiano. Italianissimo, pugliese di Tripoli. Nel giro di due anni, il gioco è fatto. Un Paese giovane, ancora alla ricerca di se stesso, che ancora deve sanare il divario tra Nord e Sud, tra secessionisti di confine ed il riconoscimento di un inno e di una bandiera nazionale, in cui ancora dobbiamo integrarci tra noi, figuriamoci. Un popolo che si sente unito davanti all’Italia che gioca per la qualificazione agli europei. Un Paese che ancora deve fare i conti con i vecchi italiani e che ora, già ne fabbrica di nuovi. Le conquiste della civiltà: cento anni dopo, esatti, dalla Grande Guerra, la Camera dei Deputati approva lo Ius Soli. Ora tocca al SenatoamicodiRenzi. Cento anni prima il dovere degli italiani di sentirsi italiani, cento anni dopo il dovere di far sentire italiano chiunque passi di qui. A saperlo prima, avremmo detto a quei poveri ragazzi in trincea, soprattutto a quelli del ’99, così piccoli, di tornare a casa dalle mamme o dalle giovani mogli in Calabria, di lasciar perdere o al limite, di farla con i propri connazionali deliranti, la guerra, non con i dirimpettai o con qualche straniero. Connazionali…o sarebbe meglio definirci coinquilini d’ora in avanti? Disfatta l’Italia ora bisogna disfare gli italiani, perché la nazionalità s’indossa come un vestito, si sceglie su un catalogo. Se la coesione sociale è un problema serio, la governabilità è sempre a rischio, i poveri ci sono sempre stati, l’Italia inizia a diventare un lontano ricordo ed in questo paese, indiscutibilmente, oltre alle belle giornate di sole, alla pasta col pomodoro, al mare azzurro e alla pizza con i frutti di mare, si sta decisamente male, conviene aprire all’internazionalizzazione. L’ultima italianità rimarrà chiusa in uno stereotipo e nell’eco lontano, rimbombante delle note di Domenico Modugno, delle parole di Dante: “Sempre la confusion de le persone principio fu del mal de la cittade”. Dopo la palese interruzione democratica riparte il “treno dei diritti civili”: la cittadinanza italiana è un affare da appioppare. Torna lo Ius Soli, per il secondo round, tra ridicolezze, poco sense of humour ed il dramma del fatto che non si stia scherzando, anzi, si faccia decisamente sul serio.  Dal diritto di sangue a quello di transito. “Acquista la cittadinanza per nascita chi è nato nel territorio della repubblica da genitori stranieri, di cui almeno uno sia in possesso del permesso di soggiorno Ue per soggiornanti di lungo periodo. Per ottenere la cittadinanza c’è bisogno di una dichiarazione di volontà espressa da un genitore o da chi esercita la responsabilità genitoriale all’ufficiale dello stato civile del Comune di residenza del minore, entro il compimento della maggiore età. Se il genitore non ha reso tale dichiarazione, l’interessato può fare richiesta di acquisto della cittadinanza entro due anni dal raggiungimento della maggiore età”, come riporta Repubblica e così come andò alla Camera. Nessun cenno ad un giuramento, allo studio dell’identità di questo Paesaccio. Nessun sentimento. Nessun inno, nessun esame. Al limite lo ius culturae (tanto il latino sta bene con tutto, anche col beige), che consentirà ai minori stranieri arrivati nel nostro Paese prima dei dodici anni di diventare italiani esibendo una semplice licenza di scuola elementare, come risalta Gian Micalessin, sottolineando il pericolo futuro e palpabile di ritrovarci in casa il terrorismo con inaudita facilità. Il gioco è fatto in barba a D’Annunzio e al Capitano Giovanni De Medici. Cittadinanza, quindi, non è un mero fatto giuridico. A farcelo presente è anche Giuliano Guzzo: “L’assegnazione della cittadinanza per il solo fatto di nascere in Italia pare dunque, ad essere buoni, un azzardo. A maggior ragione se si rammenta che la cittadinanza non è un mero dato giuridico e che prevede la «condivisione di valori comuni che sono alla base del sentimento di appartenenza e dell’integrazione del soggetto all’interno di un comunità» [2], condivisione che fa sì che una data comunità possa, grazie ai propri componenti di diritto, continuare ad esistere preservando i propri tratti identitari. Facile, qui, l’obiezione: ma neppure tanti italiani onorano la loro cultura e la loro patria osservandone principi e regole. Certo, ma questo nulla toglie al valore della cittadinanza; in altre parole il problema, se molti cittadini non onorano i valori del loro Paese, non è dei valori, bensì di questa parte di cittadini, e sarebbe sbagliato utilizzare il pretesto della scarsa disciplina di taluni per svuotare di rilevanza un diritto – quello della cittadinanza – che riguarda tutti nonché, insistiamo, la sopravvivenza della comunità”. L’Occidente cadrà da dentro. Come ogni impero che si rispetti. Ma è progresso. E quindi Dobbiamo andare oltre. Ma oltre de che? Millantiamo un mondo libero, che ha capito i propri recenti errori, e poi se non metti il velo tuo padre ti gonfia come una zampogna, ci sono tir che travolgono e missili in cielo; si evocano fascisti ogni minuto, si lasciano crepare i giovani di futuro. I ricchi si arricchiscono, i medi muoiono, i poveri aumentano. Le domande etiche esplodono: io che ho un pène, ma vorrei una vagina, e mi rendo conto che, in realtà, il sesso è solo un ingombro, posso partorire pur non avendo l’utero? Tutto questo perché, dicono, dobbiamo andare oltre. Abbracciare il Progresso. Se la maestra Eugenia ogni volta che inizia a spiegare una parte di storia non la termina e va avanti con nuovi argomenti, improvvisamente, proiettando gli scolaretti nella confusione e costringendoli a tempestare l’ingenua Eugenia di domande, non è andare avanti, è creare confusione. Non è trasmettere conoscenza e consapevolezza. Per metter ordine al caos, serve ordine: non altro caos. I giovani virgulti, a fine anno c’arrivano lo stesso; i promossi, saranno promossi, i bocciati verranno frustati a casa dai genitori e Padoan continuerà a non sapere quanto costa un litro di latte; eppure i ragazzi, di storia, non c’avranno capito un cavolo, saranno confusi, si saranno dovuti adeguare in fretta e si accontenteranno così. L’importante è andare avanti. Non sempre ciò che vien dopo è progresso. Ecco appunto. Ciò che vien dopo. Ma oltre de che? Oltre la funzione e l’essenza stessa degli uomini? Eppure a giudicare dalla lingua che parliamo, e quindi il luogo che viviamo, per essere fedeli ad Emil Cioran, la vita è un tutto un post. Faccio un post-it per ricordarmi di scrivere un post che esprima sdegno sulla post verità che avanza mentre percepisco, dalla fondamentale battaglia per la democrazia di Emanuele Fiano, contro la vendita di gadget del Ventennio nel nostro Paese, che la post ideologia avanza e ci rende nuovi. Post, ma in che tempo? Posto cosa? Quale premessa? Dopo di che? Dopo il pudore, dopo il rispetto, dopo la famiglia, dopo il sesso biologico, e dopo Dio? Diritti, ora, quando, proprio per tutti

A posteriori verso il postribolo. Tutto a post, tranquilli. Nel dubbio tiè pij’t la cittadinanza.

Ius soli, Capuozzo: "Vi dico cosa significa essere italiani". Nel dibattito sullo ius soli interviene anche Toni Capuozzo. In un lungo post su Facebook il giornalista commenta il dibattito sul ddl per la cittadinanza, scrive Luca Romano, Sabato 24/06/2017, su "Il Giornale". Nel dibattito sullo ius soli interviene anche Toni Capuozzo. In un lungo post su Facebook il giornalista commenta il dibattito sul ddl per la cittadinanza ai figli degli immigrati nati in Italia e prima di spiegare la sua opinione sottolinea cosa significa per lui essere italiano: "Non l’ho sempre vissuto come un privilegio – da giovane feci la patente di guida americana, fiero come un Alberto Sordi di poter giocare a essere americano – ma neanche come un castigo: mi ci sono trovato. E cosa ha voluto dire, alla fine? Ho pagato malvolentieri le tasse da buon cittadino (ma le pagano anche quelli che italiani non sono e lavorano qui), ho fatto 13 mesi di naja (ma non c ‘è più), ho rispettato le leggi e le ho violate (ma vale anche per chi ha il solo permesso di soggiorno), ho fatto il tifo per l’Italia ai mondiali (non devi essere per forza italiano per farlo), ho girato il mondo con un passaporto italiano (questa si è un’opportunità, almeno nel mondo di Schengen), ho votato (non sempre, e anzi di rado)". E ancora: "Il resto è cultura: che va dalla scuola – il mondo dei greci e dei latini, il Cinquecento italiano, il Risorgimento, l’arte, le bellezze di un paese così bello che ci si abitua e lo si deturpa – alla conoscenza di un Paese, con le sue diversità. Molte cose le ho imparate non a scuola: il fascismo e la Resistenza, il diritto di Israele ad esistere e il fatto che gli ebrei fossero italiani prima di me (tornando a casa dalle elementari dissi di un compagno di classe, ripetendo da bullo un insulto che avevo sentito rivolgergli, “rabbino”. Mia madre mi diede una sberla e il giorno dopo mi portò in una sinagoga) e molte a fatica: i diritti delle donne, la diversità sessuale, il rispetto per chi è diversamente abile, il rispetto per le religioni e l’assenza di religioni, la preziosità del dissenso, il rifiuto della violenza, l’affetto per piccole patrie come il mio Friuli, il sospetto per gli unanimismi e per il conformismo. Naturalmente come tutti ho una lunga lista di italiani con cui credo di non condividere nulla, e non pretendo di essere un italiano vero o rappresentativo. Ma mi è sempre piaciuto, all’estero, di aver goduto di una certa benevolenza, come italiano, (anche caricaturale, tra pizza e Paolo Rossi, tra mafia e latin lovers) e di non aver tradito le aspettative". A questo punto Capuzzo spiega la sua posizione: "Credo ci siano migliaia di ragazzi di origine straniera che non sempre si vedono riconosciuta la cittadinanza: hanno fatto le scuole, parlano italiano, si sentono almeno in parte italiani, hanno affrontato la sfida dell’integrazione? Gliela si dia questa cittadinanza, anche se portano orgogliosamente il velo, neanche gli italiani italiani siamo perfetti, come sa anche Toto Cutugno, e le vecchie friulane, al tempo del terremoto, lo portavano anche loro". Infine la stoccata: "Ma essere italiano solo perché nasci qui mi sembra uno di quegli oroscopi benauguranti che certe riviste non negano mai ai propri lettori".

Ius soli, ecco come funziona nel resto d'Europa. Ogni Paese ha le sue regole. L'Ue non ha competenza in materia. Le norme attualmente vigenti in Italia sono tra le più restrittive. La riforma ci permetterebbe di allinearci a Francia, Germania e Gran Bretagna, scrive Monica Rubino il 21 giugno 2017 su "La Repubblica". Le norme per acquisire la cittadinanza nei diversi Paesi dell'Unione europea variano notevolmente a uno Stato all'altro. Questo perché la materia è di stretta competenza nazionale e l'Ue non ha voce in capitolo a riguardo, come sottolineano anche dalla Commissione rispondendo alla richiesta del M5S di fare dello Ius soli una "questione europea". Non c'è dunque alcune legge dell'Unione che stabilisca dopo quanti anni, o a quali condizioni, uno Stato membro debba concedere la cittadinanza. L'Italia. Le norme attualmente vigenti in Italia sono tra le più restrittive d'Europa. In base a una legge del 1992, infatti, chi nasce nel nostro Paese da genitori stranieri può già diventare cittadino italiano ma soltanto quando ha compiuto 18 anni. Nel testo in discussione al Senato si prevede uno Ius soli temperato: i figli di migranti nati in Italia potranno diventare cittadini italiani se i genitori hanno il "permesso di soggiorno di lungo periodo", riconosciuto a chi abbia soggiornato legalmente e in via continuativa per 5 anni sul territorio nazionale. Per gli extra Ue sono richiesti anche reddito minimo, alloggio idoneo, superamento di un test di conoscenza della lingua. Lo Ius soli temperato permetterebbe a 600mila ragazzi nati dal '98 a oggi di diventare cittadini italiani. La riforma introduce, inoltre lo Ius culturae, secondo cui può ottenere la cittadinanza il minore straniero arrivato prima di 12 anni che abbia frequentato in Italia uno o più cicli scolastici. In questo caso i potenziali nuovi cittadini italiani sono circa 200mila. L'approvazione definitiva della nuova legge permetterebbe di allinearci a Paesi come Francia, Germania e Gran Bretagna. Vediamo allora come è regolata la cittadinanza negli altri principali Paesi europei.

Francia. Ogni bambino nato in Francia da genitori stranieri diventa francese al compimento di 18 anni se ha vissuto stabilmente nel Paese per almeno 5 anni.

Germania. È cittadino tedesco automaticamente chi nasce in Germania, se almeno uno dei genitori risiede regolarmente nel Paese da minimo 8 anni.

Regno Unito. Ha la cittadinanza chi nasce da un genitore con un permesso di soggiorno a tempo indeterminato. Percorso facilitato per i figli di stranieri residenti da 10 anni.

Spagna. L’acquisizione della cittadinanza per la seconda generazione è piuttosto semplice: se il soggetto nasce in Spagna e i genitori sono nati all’estero è sufficiente un anno di residenza nel paese. La procedura di naturalizzazione per tutti gli altri soggetti comporta la residenza per un periodo di 10 anni e la rinuncia alla cittadinanza precedente. Il tempo di residenza in Spagna si riduce per alcune categorie: 5 anni per i rifugiati, 2 anni per i cittadini dell’America Latina e le persone originarie di Andorra, Filippine, Guinea Equatoriale, Portogallo.

Belgio. La cittadinanza è automatica se si è nati sul territorio nazionale, ma quando si compiono 18 anni o 12 se i genitori sono residenti da almeno dieci anni.

Paesi Bassi. In base alla legge del 2003, la cittadinanza è prevista non solo per i soggetti nati in Olanda ma anche per quelli che vi risiedono dall’età di 4 anni.

Danimarca. Per la naturalizzazione servono 9 anni di residenza e bisogna superare esami su lingua, storia, struttura sociale e politica del Paese.

Grecia. I figli di immigrati acquisiscono la cittadinanza se i genitori sono residenti da almeno 5 anni.

Portogallo. Ius soli automatico alla terza generazione di immigrati. La seconda generazione può accedere alla cittadinanza dalla nascita su richiesta.

Svezia. La legge si basa sullo ius sanguinis, ma la riforma del 2006 prevede la cittadinanza svedese per i minori che hanno vissuto per 5 anni in Svezia.

Austria. La naturalizzazione richiede 10 anni di residenza, perché viene considerata come il riconoscimento di un’integrazione riuscita.

Appunti sparsi su ius soli e dintorni. Prima di Renzi e Salvini di ius soli ne discussero Spartaco, Alessandro Magno e Robespierre e ha sempre interessato le civiltà, scrive l'1 luglio 2017 "Il Dubbio".

SCHLIEMANN. Heinrich Schliemann, lo scopritore delle rovine di Troia, era anche cittadino statunitense. Lo era divenuto perché si trovava nel territorio del California, all’epoca era cercatore d’oro, il 9 settembre 1850, ossia il giorno nel quale essa entrò a far parte degli Stati Uniti. Le regole dell’ingresso del nuovo Stato nella federazione prevedevano di accordare la cittadinanza a tutti quelli che si trovassero sul suo territorio nel momento nel quale esso avveniva.

SAN PAOLO. Nel 62 d. C. San Paolo fu accusato dai sacerdoti ebrei di fomentare rivolte. Comparve a Cesarea davanti al procuratore della Giudea Porzio Festo, che per compiacere i rappresentati del Sinedrio intendeva trasferirlo a Gerusalemme per processarlo lì. Essendo cittadino romano il santo si appellò al giudizio dell’imperatore. Era un suo diritto e venne dunque portato a Roma, dove rimase i due anni del processo.

CARACALLA. La Constituzio antoniana emanata dall’imperatore Caracalla nel 212 d. C. estendeva la cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell’impero. Secondo alcuni storici l’intento del provvedimento era l’aumento delle entrate fiscali.

HABEAS CORPUS. L’Habeas Corpus Act emanato dal Parlamento Inglese il 27 maggio 1679 stabilisce il diritto di ogni recluso a essere condotto davanti a un giudice che valuti l’esistenza di una valida giustificazione per la detenzione.

MAGNA CHARTA. La Magna Charta imposta dai Baroni inglesi nel 1215 al Re Giovanni Senza Terra stabiliva che nessun uomo libero potesse essere preso, imprigionato o sottoposto a pene corporale senza essere stato giudicato in base alle leggi vigenti da una corte composta di suoi pari.

LEX PLAUTIA. Per ottenere la cittadinanza romana gli italici combatterono una guerra, detta sociale, nel 91- 89 a. C.. Vennero sconfitti, ma con la Lex Plautia Papiria dell’89 a. C. la cittadinanza romana venne ugualmente estesa a tutti gli abitanti della penisola italiana, anche se con notevoli limitazione relative al diritto di voto.

SPARTACO. Secondo lo storico Giovanni Brizzi la rivolta di Spartaco del 73- 71 a. C., solitamente considerata una guerra servile, sarebbe invece da ritenersi una guerra sociale, dato che ai suoi ordini si trovavano combattenti provenienti dalle regioni che si erano ribellate a Roma nelle guerre sociali precedenti, con lo scopo di ottenere la piena cittadinanza.

GLI SPARTIATI. A Sparta i cittadini che disponevano dei pieni diritti politici erano chiamati Spartiati. Per aver diritto di voto in assemblea essi dovevano essere maschi, aver compiuto trent’anni, essere stati educati comunitariamente, far parte di una delle mense collettive detti sisizi e disporre di una proprietà terriera sufficiente a garantirne il mantenimento.

LA GREEN CARD. La Green Card è il Visto Permanente di Soggiorno degli Stati Uniti, che conferisce il diritto di vivere e lavorare permanentemente negli USA. Viene rilasciata dallo U. S. Citizenship and Immigration Services. Costituisce il primo passo per ottenere la cittadinanza americana, può essere richiesta da un familiare o da un datore di lavoro. Ogni anno 50.000 Green Card vengono distribuite dal Governo degli USA attraverso una vera e propria lotteria.

I PERIECI. Cittadini con diritti politici limitati nello stato spartano erano i Perieci, che abitavano nelle regioni vicine alla capitale, e i Neodamodi, Spartiati senza proprietà terriera. Questi ultimi potevano acquisire la piena cittadinanza ottenendo una proprietà per eredità o per matrimonio.

ATENE. In epoca classica, per essere cittadini di Atene a pieno titolo era necessario essere maschi, aver compiuto i trent’anni ed essere figli di genitori ambedue ateniesi. Altrimenti si viveva in città con la qualifica di meteci, senza obblighi militari ma senza diritto a votare in assemblea o a ricoprire le magistrature, larga parte delle quali erano estratte a sorte.

I BRASIDEI. Nel 424 a. C. gli spartani, nel corso della guerra contro Atene, arruolarono nel loro esercito alcune centinaia di iloti, ossia schiavi, scelti fra i più valorosi. Dato che solo gli uomini liberi potevano combattere, al loro ritorno dalla Calcidica, 700 veterani della campagna che aveva portato alla conquista di Anfipoli furono liberati e vennero assegnate loro delle terre da lavorare. Dal nome del generale che li aveva comandati vennero detti Brasidei.

I NIPOTI DEI ROMANI. In epoca repubblicana per ottenere la cittadinanza romana i maggiorenti delle città italiche associate facevano sposare i loro figli con figlie di maggiorenti romani. La nuova famiglia abitava a Roma, con la protezione dei suoceri. In questo modo i nipoti nascevano cittadini romani e avevano diritto di partecipare alle elezioni per le magistrature.

LO IUS ARMORUM. In epoca imperiale, fino a Caracalla, una dei modi più diffusi per conseguire la cittadinanza romana era prestare il servizio militare. Dopo vent’anni da legionario, questa era la durata della ferma, si riceveva un’indennità di pensionamento, di solito in natura sotto forma di piccolo appezzamento di terra, insieme alla qualifica di cittadino romano.

ERODOTO. Secondo Erodoto i Greci vinsero le guerre combattute contro i persiani nel 492- 490 e nel 480- 479 a. C. per la loro superiore condizione sociale e quindi maggior attitudine a portare le armi. Essi erano infatti uomini liberi, dotati di piena cittadinanza, che combattevano contro sudditi del Gran re di Persia privi di qualunque diritto.

FANTASCIENZA. In Fanteria dello spazio, romanzo di fantascienza del 1959 ambientato in un futuro lontanissimo, dal quale nel 1997 è stato tratto un film, Robert Heinlein immagina che l’unico modo per ottenere la piena cittadinanza nella Federazione degli umani sia aver svolto il servizio militare. La ferma ha una durata lunghissima.

LIBERTAS. Nel medioevo il concetto di cittadinanza scompare. Viene sostituito da quello di libertas, che individua un diritto particolare concesso dall’autorità suprema, in teoria l’imperatore, a un gruppo di sudditi individuato nei modi più diversi. In pratica ciascuna città, e in essa ciascun gruppo di abitanti, si trova a vivere in una condizione giuridica particolare, con diritti e doveri propri.

ARRIVANO I FRANCESI…Nel 1789, all’inizio della Rivoluzione Francese, viene approvata a Parigi la Dichiarazione dei Diritti dell’uomo e del cittadino. Essa prevedeva, tra l’altro, (articolo 6): “La Legge è l’espressione della volontà generale. Tutti i cittadini hanno diritto di concorrere, personalmente o mediante i loro rappresentanti, alla sua formazione. Essa deve essere uguale per tutti, sia che protegga, sia che punisca. Tutti i cittadini, essendo uguali ai suoi occhi, sono ugualmente ammissibili a tutte le dignità, posti ed impieghi pubblici secondo la loro capacità, e senza altra distinzione che quella delle loro virtù e dei loro talenti. ”

CUIUS REGIO. Con la pace di Augusta del 1555 e in modo più chiaro con quella di Vesfalia del 1648 venne stabilito, con l’intento di porre fine alle guerre di religione, il principio cuius regio eius religio, in base al quale i sudditi di un territorio erano tenuti ad abbracciare la religione praticata dal loro sovrano, oppure lasciare il paese. Il sistema si rivelò efficace.

NAPOLEONE/ 1. Solo in epoca napoleonica gli abitanti del Canton Ticino ottennero la parità di diritti politici rispetto agli abitanti degli altri cantoni svizzeri, che fino ad allora erano stati i proprietari del loro territorio, del quale nominavano a rotazione il governatore che si occupava soprattutto della raccolta fiscale.

NAPOLEONE/ 2. Anche in Olanda fu solo in epoca rivoluzionaria e poi napoleonica che venne imposta l’equiparazione fra protestanti e cattolici, fino ad allora i secondi venivano discriminati nell’assegnazione dei ruoli interni all’amministrazione pubblica.

NO TAXATION…No taxation without representation. Nessuna tassa senza diritto di rappresentanza. Il principio in base al quale iniziò la ribellione delle Tredici Colonie Inglesi d’America, che tradizionalmente viene fatta cominciare con il Boston Tea Party del 1773, la distruzione di un carico di te nel porto della città atlantica.

IL CITOYEN. La Rivoluzione Francese coniò il nuovo titolo di citoyen, cittadino, uguale per tutti, dando in questo modo evidenza anche formale al principio egualitario che la informava, almeno in teoria. Il diritto di voto era infatti molto limitato, sulla base dell’alfabetizzazione e del censo. La Marsigliese, canto rivoluzionario poi divenuto inno nazionale francese, invoca “aux armes citoyens, formez votre battaillones”, alle armi cittadini, formate i vostri battaglioni.

GLI HETAIROI. Gli hetairoi, letteralmente i compagni, di Alessandro Magno formavano la sua cavalleria pesante, alla testa della quale il sovrano macedone conquistava le sue vittorie in battaglia. In teoria essi erano suoi compagni d’arme, di pari dignità. Si rifiutarono quindi di fare la proskinesis, l’inchino fino a terra di tradizione orientale, davanti a lui, come venne loro richiesto dopo la conquista dell’impero persiano.

RE ARTÙ. La Tavola Rotonda di re Artù, nel castello di Camelot, intende essere simbolo della pari dignità esistente fra il sovrano e i suoi cavalieri. È proprio l’aver ricevuto l’investitura a cavalieri che costituisce l’elemento unificante e parificante della loro condizione. 

ITALIANI SENZA INNO NAZIONALE.

L'Italia s'è desta (forse) per l'inno nazionale provvisorio dal 1946. La Camera al voto per rendere i versi di Mameli il nostro canto ufficiale. Finora tutti i tentativi si erano arenati, scrive Alberto Custodero l'1 luglio 2017 su "La Repubblica". L’inno di Mameli potrebbe liberarsi dalla condanna a essere eternamente provvisorio. A giorni, la commissione Affari costituzionali della Camera voterà una proposta di legge per rendere “Il Canto degli Italiani” di Goffredo Mameli "inno ufficiale" della Repubblica. Da 71 anni, incredibilmente, 'Fratelli d’Italia' è provvisorio: da quando, il 12 ottobre ‘46, il Consiglio dei ministri - allora guidato da Alcide De Gasperi - "su proposta del ministro della Guerra", stabilì che fosse adottato come inno nazionale per la cerimonia del giuramento delle Forze Armate del 4 novembre successivo: ma, appunto, "provvisoriamente". Da allora, il provvisorio s’è trasformato in definitivo. Ben tre legislature in questi 71 anni (la 14esima, la 15esima e la 16esima) hanno provato a dare all’inno dignità di legge, ma tutti i progetti presentati hanno iniziato l’esame parlamentare, senza tuttavia essere mai approvati. Un implicito, ma non formale, riconoscimento è giunto con l’approvazione della legge 222 del 2012, che ne prevedeva l’insegnamento nelle scuole. L’attuale legislatura, la 17esima, è dunque la quarta a provarci. E seppure sembri ormai avviata a concludersi alla scadenza naturale, nel marzo 2018, i margini per l’approvazione ci sono. Sarà la cronaca parlamentare di questi mesi a dirci se 'Fratelli d’Italia' riuscirà a fare il gran salto, o se resterà ancora per chissà quanto un inno ad interim. La proposta di legge che sarà esaminata giovedì prossimo dalla commissione Affari costituzionali - la stessa che si occupa della legge elettorale - è stata presentata, in perfetta coerenza tra inno e nome del gruppo politico, dal deputato di Fratelli d’Italia Gaetano Nastri. E da uno del Pd, Umberto D’Ottavio. Solo tre gli emendamenti. Uno, presentato dal forzista Francesco Paolo Sisto, che propone di chiamare l’inno di Mameli «nazionale» e non ufficiale. E due, decisamente contrari, del centrista Gian Luigi Gigli, che intende con il primo abolire “Fratelli d’Italia”, con il secondo promuovere un concorso nazionale per scegliere un nuovo inno. Una posizione già espressa negli anni da alcuni partiti d’ispirazione cattolica. Stupisce, invece, il silenzio della Lega, che da sempre ha attaccato l’inno risorgimentale (Bossi al verso "schiava di Roma" in più occasioni alzò il dito medio), preferendogli il coro del Nabucco di Verdi, ritenuto da molti inadatto in quanto è il canto di un popolo diverso dall’italiano. E per di più sconfitto. Il Carroccio non ha presentato emendamenti: si vedrà la sua posizione al momento delle dichiarazioni di voto. L’inno con il quale Carlo Alberto aprì la prima guerra d’Indipendenza, e che voleva simboleggiare la rinata fraternità nazionale italiana, fu scritto dal giovanissimo poeta soldato Mameli il 10 settembre del 1847, e musicato il 10 novembre, a Torino, dal maestro genovese Michele Novaro nella casa di Lorenzo Valerio, uno dei capi più autorevoli del partito liberale piemontese. Divenne il canto più amato del Risorgimento italiano e degli anni successivi all’unificazione, passando dal fascismo (Mussolini rivolto alla "gioventù italiana" disse "i tuoi santi sono Balilla e Mameli"). Tornato in auge durante la presidenza Ciampi, spiegato da Roberto Benigni in una memorabile serata a Sanremo, fu oggetto di scherno da parte di Berlusconi il 27 marzo del 2009, quando, in chiusura del congresso di fondazione del Pdl, al passaggio "siam pronti alla morte", fece con la mano il gesto “così così”. Berlusconi e l'inno di Mameli: "Siam pronti alla morte? Così così".

ITALIANO: UOMO QUALUNQUE? NO! SONO TUTTI: CETTO LA QUALUNQUE.

Cetto La Qualunque: 'na beata minchia!!!. "Mi è stato chiesto, se sarò eletto cosa intendo fare per i poveri, i bisognosi: 'na beata minchia!!!"

Qualunquemente. Da Wikiquote, aforismi e citazioni in libertà. Qualunquemente, film italiano del 2011 con Antonio Albanese, regia di Giulio Manfredonia.

Frasi.

Mi è mancata tanto la famiglia... Era così forte la mancanza, che infattamente in questi anni me ne sono fatto un'altra! (Cetto La Qualunque)

Guarda, qui sono arrivati ad arrestare un gentiluomo, un galantuomo, solo perché ha sparato a un vicino! E non è che si chiedono se questo vicino è un infame, è un caino... (Imprenditore)

[Riferendosi alla costruzione del villaggio turistico] Qui sai che c'era? Solo pietre vecchie, tombe, anfore, elmi, scudi, pezzi di colonne: insommamente macerie. Io l'ho bonificato: è tutta roba mia. (Cetto La Qualunque)

Schierarsi dalla parte della legge... dico: ma è legale questa cosa? (Cetto La Qualunque)

Ragioniere, quante volte te lo devo dire che le tasse sono come la droga, se le paghi una volta, anche solo per provare, finisci che ti prende la voglia! (Cetto La Qualunque)

[Rivolgendosi a una bagnante] Ma lo sa che lei ha un bel corpo da assessore? (Cetto La Qualunque)

[Al distributore] Questo è il buono-benzina offerto da Cetto La Qualunque! Fate il pieno di democrazia, 10 euro ce li mette il vostro candidato, votate il vostro sindaco! (Cetto)

Melo, guarda come sei maschio senza casco! I capelli al vento sono più sinceri! (Cetto)

[Gerry] È di Bari ma dice di essere di Milano: un pentito. (Cetto)

Carmen, il carcere è formativo, una specie di università! Poi sinceramente siamo sotto elezioni, Carmen, ragiona: in un momento così, meglio lui [Melo] che io, dà meno nell'occhio. (Cetto)

Io sono stato a Rimini e a Riccione, e ho scoperto cosa muove una regione progredita come la Romagna: 'u pilu! (Cetto La Qualunque)

Ho i cugghiuni che minacciano la secessione! (Cetto La Qualunque)

Date a Cetto quel che è di Cetto. Accetto. Salgo in politica, mi candido a sindaco! (Cetto La Qualunque)

Bancarotta fraudolenta, false fatturazioni, riciclaggio... – Be', ma manco avesse arrubbato qualcosa a qualcuno! (Cetto La Qualunque)

Porteremo barche di pilu, navi cariche di pilu, insommamente, fortissimamente... pilu!! (Cetto La Qualunque)

[Un comizio] Cari amici elettori, e sdraiabilmente amiche elettrici, mi è stato chiesto, se vengo eletto, cosa intendo fare per i poveri e i bisognosi: 'na beata minchia! È ora di finirla: 'sta cosa dei bisognosi è una mania! Poi sono bisognoso anche io di voti, affettivamente mi servono più dell'ossigeno: qui siamo in guerra, e io non faccio prigionieri. Tu mi voti, ti trovo un lavoro e ti sistemo. Tu non mi voti, 'ntu culu a ttìa e a tutta 'a famighia! Applauso! Io amo lo scontro, e soprattutamente non amo i pacifisti, nella persona di De Santis, il nostro Giovanni De Santis della lista civica. De Santis: io non ti sputo che ti profumo, io non ti piscio che ti lavo, io non ti caco che ti inciprio! De Santis, tu ti sei fissato che i problemi del Meridione sono il lavoro, lo sviluppo economico, la valorizzazione delle risorse naturali... Ma chiù natura d'u pilu, che c'è? Qui da noi non serve lavoro, che se uno sa firmare due assegni a vuoto, di fame non muore. Qui non servono strutture scolastiche od ospedali efficienti. Ccà serve 'u pilu. (Cetto La Qualunque)

Il ponte [Sullo Stretto] si farà! E se non basta il ponte faremo un tunnel, perché un buco mette sempre allegria! (Cetto La Qualunque)

Se nell'ospedale ci sono i topi, io porterò i gatti! ((Cetto La Qualunque))

[Al tenente] Si vergogni. Io sono il sindaco. Lei e la magistratura bastasa non riuscirete a sovvertire il risultato democratico delle elezioni! (Cetto La Qualunque)

[Frase ricorrente] Ah, bastasu... Ah, caino! Ppuhh!!! [Tutti i presenti sul palco sputano in basso e addosso alle persone radunate per seguire il comizio elettorale]

Dialoghi.

Cetto: Pino, dimmi, come mi trovi?

Pino: Eh Cetto, sei elegante come sempre! Chi è bello è bello, e chi è più bello di te... si trucca!

Ingegnere: L'unico problema lo sta facendo il Comune.

Cetto: Problema? Che problema?

Ingegnere: Hanno scoperto che il villaggio è costruito su una specie di catapecchia antica, etrusca.

Cetto: E quindi che c'è? È vietato?

Geometra: Sarebbe, vietato.

Cetto: Ma invece di ringraziarci, chè da una città vecchia gliene abbiamo fatto una nuova, 'sti cornuti!

Geometra: Ogni giorno se ne inventano una! E il villaggio abusivo, e gli impianti non sono a norma, e "non avete i permessi", e l'archeologia... È un casino, Cetto: non ti lasciano lavorare!

Carmen: Cetto, tu non le puoi avere due mogli!

Cetto: Ah Carmen, come sei fatta... Non ti va mai bene niente, ogni cosa è un problema! Ma che saranno mai due mogli? E non si possono avere due macchine, non si possono avere due moto, non si possono avere due case...

Carmen: No due case sì! E infatti io me ne vado nell'altra!

Cetto: Se va avanti così, non si potranno avere manco du cugghiuni, vah!!

Carmen: Cetto, ma quella cosa... piccola, negra... È tua figlia?

Cetto: Carmen, lo sai che ti voglio bene, e infattamente per questo ti dico: non suggnu cazzi toi.

Cetto: Melo, che è la tua ragazza quella?

Melo: Sì, papà.

Cetto: Melo, quella ragazza non va bene. Non ha minne. È senza tette E pure di culo è scarsa.

Cetto: Senti Melo, presto io sarò sindaco; quindi tu, per legge, vice-sindaco. Però ci sono delle cose da mettere a posto: tu devi cambiare, Melo. Certo, io sono mancato, e un figlio senza padre può prendere una brutta piega. Ma ora sono tornato. Melo, ti ho visto l'altra sera in moto, e avevi il casco: non va bene Melo, ho un nome in paese. Tu sei il mio orgoglio, mi sono sacrificato, mi sono impegnato per te, tu sei il mio capolavoro, ti ho insegnato tutto... Te lo sei dimenticato? Quando avevi 11 anni ti ho dato le prime lezioni di guida, ti ricordi? Quando ne avevi 12 che ho fatto?

Melo: Mi hai insegnato a picchiare i compagni della classe che non mi facevano copiare.

Cetto: Bravo. Quante volte ti ho detto di non mettere mai il casco, potrebbero pensare che sei timido! Ti devi fare rispettare! Si comincia dando la precedenza a un incrocio e finisce che ti prendono per ricchione. E come se non bastasse, infinemente, mi cadi su una ragazza senza minne, piatta. Dove ho sbagliato? [...] Mi è caduto il mondo, sai? Piatta: che dolore che mi hai fatto prendere, Melo.

Pino: Io e Svetlana ci sposiamo.

Cetto: Ma siete sicuri?

Pino: Certo, infatti ti volevamo dire che per noi sarebbe un grande onore, ci farebbe veramente piacere... Ci vuoi fare da testimone?

Cetto: Testimone... Che brutta parola per dire una cosa così bella!

Pino: Andiamo Cetto, se perdiamo mezz'ora a ogni minna, finiamo dopodomani!

Cetto: Hai ragione Pino. Però come criterio di massima, come sistema di riferimento, come atteggiamento preferenziale: tu fatti i cazzi toi.

Giornalista: Non è il caso che nel Sud entrino in politica anche le donne?

Cetto: Signorina, nella mia visione politica, spessatamente all'avanguardia, non sono le donne che devono entrare in politica ma è la politica che deve entrare dentro le donne! Non è partito l'applauso ma me lo merito!

Cetto: [Dopo aver letto sul giornale un articolo critico verso di lui] Di cosa parla? Tu Pino hai capito?

Pino: No.

Cetto: Perfetto. Pino è l'elettore medio: se Pino non ha capito niente, non capirà niente nessuno.

Gerry: Domattina ci vediamo qui, sette in punto.

Cetto: Alle sette?

Pino: Alle sette di sera!

Gerry: Quelle sono le diciannove. Le sette son le sette, checché se ne dica.

Cetto: [Rispondendo al cellulare durante la messa] Sì, pronto? Ah, sei tu? Ciao. No, non posso. Sono in una specie di riunione. Magari! Eh, una rottura 'e cugghiuni che non ti dico, guarda. Sì, vabbè, alle 11 passo e t'o butto, sì...

Gerry: La Qualunque, siamo in una chiesa: un po' di buona creanza!

Cetto: [Rivolgendosi al prete] Affettivamente è vero prete, sto telefonando! Se per cortesia abbassa un po' il volume, un po' di creanza!

[Al dibattito in tv]

De Santis: Quest'anno credo che gli elettori di Marina di Sopra, abbiano una grande responsabilità...

Cetto: È incredibile, è una vergogna, non è possibile...

De Santis: Dicevo che gli elettori di Marina di Sopra devono scegliere cosa...

Cetto: È incredibile, è una vergogna, non è possibile, che schifo.

De Santis: Ma si può sapere cosa ha da bofonchiare? Qui non si riesce a sviluppare un concetto!

Cetto: Io bofonchio quanto mi pare e piace, siamo in democrazia! E poi, come principio cardine, De Santis: fatti i cazzi toi.

De Santis: Calogero, lei permette al mio avversario di parlarmi con questo linguaggio? Faccia qualcosa!

Conduttore: E Madonna quanto è permaloso! Si faccia una risata, ché questa è sana ironia! Signor La Qualunque, io mi scuso a nome del suo avversario: qua siamo in una trasmissione libera, lei può dire e fare tutto quello che vuole!

De Santis: Ma è una vergogna! Lei parteggia in un modo indecente per il mio avversario!

Conduttore: Non dica sciocchezze e porti rispetto! E poi non se la prenda con me: non è colpa mia se lei è d'una noia mortale. Avanti, si sbrighi che poi tocca a La Qualunque.

De Santis: Ma se ho appena iniziato!?

Cetto: E hai già sfracanato! Pensa cosa succede se continui! De Santis, è meglio che ti fermi: arritirati, lavati i pedi e vai e curcati, vah! [...] Non ci saranno più bollette del gas, e, aggiungo, aboliremo anche quelle della luce, e crepi l'avarizia!

De Santis: Sono tutte fandonie!

Cetto: Sempre meglio delle cazzate che dici tu! La solidarietà, la partecipazione... Che du cugghiuni, vah!

Conduttore: Bene, io direi che siamo giunti al termine della trasmissione...

De Santis: Ma come al termine? Lui ha parlato il doppio di me, il triplo, non sono riuscito a sviluppare un concetto!

Conduttore: Fossi in lei, non me ne vanterei troppo!

Cetto: Signor Calogero, mi fa dire ancora un paio di cose?

Calogero: Eh certo!

De Santis: Ma non aveva detto che avevamo finito?

Conduttore: De Santis adesso basta, stiamo veramente esagerando! Non mi è mai capitato in tanti anni di trasmissione di avere a che fare con un politico insolente come lei!

Cetto: È vero, sei puzzolente, vergognati De Santis!

L'ultima follia della Boldrini: censurare la democrazia. Nel Mantovano eletta una consigliera "fascista". La presidente s'infuria e chiede l'aiuto di Minniti, scrive Massimo Malpica, Mercoledì 14/06/2017, su "Il Giornale". Come volevasi dimostrare. I «fasci» vincono e gli autoproclamati difensori della democrazia si ritrovano sull'orlo di una crisi di nervi. La storia è nota: nel piccolo comune di Sermide e Felonica, provincia di Mantova, tra le liste in corsa c'è «Fasci italiani del Lavoro», partito creato da Claudio Negrini, e la cui figlia, Fiamma, è candidata sindaco. Non è la prima volta che sulla scheda compare quel simbolo al profumo di Ventennio. Il partito col fascio littorio aveva già presentato una sua lista alle elezioni nel 2002, nel 2007 e nel 2012, senza mai sollevare polemiche. Stavolta succede l'imponderabile. Ben 334 elettori votano per Fiamma, il 10,41 per cento dei votanti. E la ragazza, 20 anni, si ritrova consigliera comunale. E pensare che a una settimana dal voto, in seguito a una sassaiola «social» contro Negrini e il suo partito, papà Claudio aveva pensato di evitare le polemiche chiamandosi fuori: «Inizialmente volevo sospendere la campagna elettorale per tutelare i membri della lista - aveva raccontato all'Adnkronos - ma sia l'intervento di mia figlia Fiamma che quello degli altri due candidati sindaci Mirco Bortesi e Anna Maria Martini, che ringrazio, mi hanno fatto cambiare idea». La storia di tolleranza di provincia diventa però un clamoroso successo elettorale, rendendo virale la vicenda. E moltiplicando i mal di pancia. Tra i più fastidiosi, quello accusato dalla terza carica dello Stato, Laura Boldrini. Che ha chiesto «aiuto» a Marco Minniti, lamentandosi con il titolare del Viminale per quella lista col fascio littorio «presentata e ammessa» alle elezioni, con una decisione che «desta forti perplessità». Cercando conforto in leggi e regolamenti contro l'affronto, Boldrini pesca le «istruzioni per la presentazione e l'ammissione delle candidature» diramate dalla direzione dei servizi elettorali del ministero a maggio scorso. Lì, ringhia, c'è scritto che vanno ricusati «i contrassegni con espressioni, immagini o raffigurazioni che facciano riferimento a ideologie autoritarie (per esempio, le parole fascismo, nazismo, nazionalsocialismo e simili)». E invece i «fasci del lavoro» sono passati indenni. Di fronte alla «questione di particolare gravità» sollevata dalla furiosa Boldrini, Minniti scatta senza indugi. E il prefetto di Mantova revoca i malcapitati funzionari della sottocommissione responsabili della svista-attentato alla democrazia. Che, però, appunto, è democrazia. E non può toccare la volontà manifestata dagli elettori che hanno scelto di portare la Fiamma candidata per i «Fasci» dentro il Consiglio comunale del paese del Mantovano.

«Un risultato straordinario», esulta papà Negrini, che invece di alimentare le polemiche fa sfoggio di fair play: «Quello non è il fascio littorio ma il fascio della Repubblica sociale italiana, sono 15 anni che presento lo stesso simbolo in tutt'Italia e nessuno ha mai avuto nulla da ridire. Vorrà dire che la prossima volta lo cambierò».

Fiamma Negrini, il prefetto di Mantova rimuove i funzionari che hanno ammesso la lista fascista, scrive il 14 Giugno 2017 "Libero Quotidiano". Il caso di Fiamma Negrini, la sexy-fascista di 20 anni eletta in Consiglio comunale a Sermide-Fellonica, nel Mantovano, continua a tenere banco. Dopo l'exploit alle urne con la lista Fasci del lavoro, ha preso il 10,42%, è esplosa la polemica, capeggiata, ovviamente, da Laura Boldrini, la quale ha mostrato di non apprezzare, affatto, la democrazia. La presidenta ha infatti scritto a Marco Minniti per dire che no, così non va. La Boldrini ha espresso "forti perplessità sul piano giuridico" per l'ammissione di una lista "che si richiama dichiaratamente a nomi e immagini del partito fascista". E la risposta del Viminale non si è fatta attendere. Il prefetto di Mantova, infatti, "ha revocato le designazioni dei funzionari competenti della settima sottocommissione elettorale circondariale di Mantova, competente per quel Comune". La loro colpa è stata quella di aver ammesso la lista fascista: il combinato disposto Fiamma Negrini-Laura Boldrini, dunque, fa cadere delle teste. Il provvedimento, però, non avrà riflesso sull'esito delle elezioni nel Comune: la revoca dei funzionari riguarderà le prossime tornate elettorali.

Fiamma Negrini, il trionfo con la lista fascista perché vuole far fuori la pista ciclabile, scrive il 15 Giugno 2017 "Libero Quotidiano". Da lunedì, tiene banco il caso di Fiamma Negrini, la "fascista sexy", la ragazza di 20 anni entrata in consiglio comunale a Sermide e Felonica, provincia di Mantova, con la lista "Fasci italiani del lavoro". Lista fascista, lista che ha fatto sclerare Laura Boldrini e ha fatto anche cadere teste in prefettura. Nel frattempo, contro Fiamma, si preannunciano ricorsi e controricorsi. Ma in tutto questo delirio, qualcuno si è chiesto perché la figlia del "camerata" Claudio Negrini, 61 anni e cuore nerissimo, è riuscita ad ottenere più del 10% alle elezioni? Una risposta ha provato a darla La Stampa, che con un suo inviato ha tastato il polso sul territorio. Si parte dai punti del programma, quelli fondamentali. "Riorganizzazione della macchina comunale. Ridare slancio all'agricoltura. Uso degli autovelox a fine educativo e non vessatorio". E già quest'ultimo, per i cittadini massacrati da multe spesso piuttosto insensate, è un tema assai sensibile. Ma secondo il reportage, la vera ragione del successo di Fiamma alle urne è un'altra. E sta tutta in questo punto del programma: "Ritorno immediato alle precedenti modalità veicolari dell'argine del Po". Ovvero, permettere alle auto di tornare a viaggiare dove vogliono far sorgere una pista ciclabile di fianco al fiume. Una pista ciclabile, che a Sermide e Felonica, non vuole nessuno o quasi.

Marino deve pagare il conto per "i fascisti nelle fogne". L'ex primo cittadino della Capitale è stato condannato per l'offesa al mondo della destra. E ha dovuto scusarsi, scrive Elena Barlozzari, Giovedì 15/06/2017, su "Il Giornale". Il «sottoMarino» si è ammaccato. Non è più il sindaco di Roma, ma adesso comincia a pagare l'arroganza e le ingiurie di quella stagione e quel suo modo di puntare l'indice verso chi, secondo lui, meritava la fogna e la compagnia dei topi: ossia, gli elettori di destra. Solo che il tempo qualche volta porta giustizia. Ed è quello che è avvenuto. Ignazio Marino si è presentato davanti al giudice di pace del tribunale di Roma. Il verdetto ha un forte valore simbolico e morale: l'ex sindaco deve scusarsi con gli elettori di destra e pagare un risarcimento simbolico. È l'unico modo per raggiungere in extremis il ritiro della querela. Marino ha accettato il compromesso: risparmiare i soldi in cambio della faccia. Tutto questo accade a distanza di due anni da quando, dal pulpito della Festa dell'Unità, il «sindaco marziano» arringava i suoi concittadini, spostando la mano verso il basso, dritto nella direzione di un tombino. È lì, disse, che devono tornare, «dalle fogne da cui sono venuti». «La smettano proseguiva accendendosi questi eredi del nazifascismo di dare lezioni di rigore e democrazia a noi». E il suo popolo, lì sotto, si spellava le mani. Destinatari dell'invettiva, neanche a dirlo, erano i «fascisti immaginari». Rei d'aver sostenuto l'ascesa in Campidoglio del suo predecessore. Gianni Alemanno l'aveva querelato senza ottenere granché. Secondo i pm di allora, infatti, il limes della critica politica non era stato superato. In quelle frasi, insomma, non c'era nulla di penalmente rilevante. Nemmeno l'evidente richiamo allo slogan tanto in voga negli Anni di piombo aveva smosso le toghe. Eppure, il significato di quel motivetto se lo ricorda bene chi ha visto amici e familiari vittime della sinistra violenta. Il caso, però, si chiuse lì. Come la carriera del chirurgo genovese, prematuramente stroncata dallo scioglimento del consiglio comunale e dal successivo commissariamento. Eppure aveva promesso di restare al timone dell'Urbe sino al 2023, per poi raccontare come in Blade Runner «cose che voi umani non avete mai visto». Ma l'annunciata fatica letteraria, Un marziano a Roma, ha visto la luce ben prima del previsto. E, dopo aver resistito alla tentazione di una nuova candidatura, sembra esser definitivamente scomparso dai radar della politica. Salvo irrompere, a gamba tesa, quando si tratta di restituire qualche stilettata a quella tal Virginia, seduta all'ultimo banco dell'opposizione ed oggi alla guida della Capitale. A disturbare il buen retiro dell'ex sindaco, rinfacciandogli quelle «parole denigratorie», sono stati il consigliere regionale di Fratelli d'Italia, Fabrizio Santori, ed il consigliere municipale di Noi con Salvini, Fabio Sabbatani Schiuma. Determinati ad ottenere giustizia, anche loro avevano denunciato l'accaduto in Procura. E così, dopo il rinvio a giudizio disposto dal pm Giulio Berri, l'ex sindaco della Capitale è finito alla sbarra. Per rispondere di quelle offese e del reato di diffamazione. Sprovvisto della carta di credito del Comune di Roma, stavolta, il conto lo ha pagato di tasca sua. E si è scusato. «Per non gravare ulteriormente la già ingolfata macchina della giustizia fanno sapere le parti abbiamo ritenuto di accettare l'invito del giudice e le rinnovate scuse nell'odierna pubblica udienza, estese questa volta a tutto il mondo della destra». Oltre a farsi carico delle spese legali, su richiesta dell'avvocato Remo Pannain, l'imputato si è visto costretto a staccare un assegno di 200 euro. Una cifra simbolica che, come insegna il più dantesco dei contrappassi, finirà nelle tasche di una famiglia. Non una qualsiasi. «Adesso annunciano i consiglieri vogliamo devolvere l'assegno a una delle tante famiglie che, in tutta Italia, hanno subito un lutto o un aggressione negli anni Settanta e ora si trovano in difficoltà».

Il politologo Tarchi: "È uno slogan che non più ha senso. Una sciocchezza di chi non ha idee". Il politologo di destra Marco Tarchi che negli Anni di piombo fondò la rivista "La voce della fogna": "La sinistra si aggrappa agli spauracchi", scrive Domenico Ferrara, Giovedì 15/06/2017, su "Il Giornale".  «La destra deve tornare nelle fogne». Marino ha pagato il conto per aver rispolverato un insulto usato negli Anni di piombo per delegittimare gli avversari. Ne sa qualcosa Marco Tarchi, politologo e tra i massimi esperti di populismo. Lui, proprio in quegli anni, fu fondatore e direttore di una rivista satirica improntata all'ironia nei confronti dei detrattori ma anche della stessa destra.

Come mai si chiamava proprio La voce della fogna?

«Per far capire che anche i reietti avevano idee, valori, sentimenti alternativi a quelli di moda. L'editoriale del primo numero si intitolava Oggi le catacombe si chiamano fogne. Più chiari di così...».

Come è nata la storia della frase «fascisti carogne tornate nelle fogne»?

«Immagino dalla vena creativa di un poeta dell'ultrasinistra, che per coerenza ideologica non ne ha preteso il copyright. Comunque in quell'ambiente è stata un refrain di successo».

Come ci si sentiva a essere chiamati così e a essere fascisti o post fascisti negli anni '70 e '80?

«Negli anni Settanta accentuava la sensazione di diversità dal resto del mondo, di cui ci si vantava».

È di quel periodo anche lo slogan "Uccidere un fascista non è reato". Anche oggi si verifica questo gioco dei due pesi e due misure?

«Certamente, ma non è in gioco la destra, quanto l'insieme di coloro che hanno opinioni non in regola con i dettami del politicamente corretto, ovunque si collochino».

Che senso ha oggi un insulto del genere?

«Nessuno. È una delle tante sciocchezze prodotte quotidianamente dagli esponenti della classe politica, che coprono con le risse la carenza di idee».

Anche la Boldrini, con il caso della lista dei Fasci, sembra voler evocare le fogne. I fascisti sono davvero così pericolosi?

«Ovviamente no, ma se alla sinistra che ha rinunciato a quasi tutte le idee che aveva sostenuto da metà Ottocento in poi, a partire dall'anticapitalismo, si togliesse anche lo spauracchio del fascismo, cosa la distinguerebbe dal resto del panorama politico?».

Perché la sinistra radical chic usa gli ancora anni 70 per nascondere i suoi errori?

«Perché, come del resto i suoi avversari, non ha ricette credibili ed efficaci per il presente e non sa immaginare un futuro migliore. Rifugiarsi nel passato e animare guerre tra fantasmi è tipico di tutti coloro che coltivano l'illusione della fine della Storia, che invece è viva e un giorno passerà a chiedere il conto di questa miopia».

In una società dove l'antipolitica la fa da padrona, qual è l'insulto più utilizzato?

«Al di là del repertorio di quelli che si usano in qualunque altro contesto, mi pare che oggi vadano di moda xenofobo e omofobo. Sono aggettivi squalificanti molto in voga a sinistra, che consentono di far passare per un crimine quelle che per molte persone sono preferenze a lungo considerate normali se non scontate: chiunque non mostri di avere verso stranieri e omosessuali una spiccata ed esibita simpatia è sospettato di coltivare pregiudizi razzisti o discriminatori. Segni dei tempi».

Sarebbe riproponibile oggi un'esperienza come La voce della fogna?

«Adeguandola ai tempi, sì. I bersagli polemici non mancano».

Le squadracce grilline in Rete linciano elettori e giornalisti. Dopo la disfatta elettorale, finisce nel mirino chi non ha votato per loro e chi critica. Pioggia di insulti sui social, scrive Matteo Basile, Giovedì 15/06/2017, su "Il Giornale". Prima si parte con gli avversari, poi con gli oppositori, poi con i giornalisti e infine, quando non si hanno più bersagli e la disfatta è manifesta non resta che attaccare gli elettori. Benvenuti a Grillolandia, patria dell'insulto indiscriminato. L'ultima frontiera del linciaggio online in salsa cinque stelle è andata in scena dopo le Amministrative di domenica scorsa. Lungi dal Movimento ammettere la batosta. Guai a fare autocritica. Impossibile aspettarsi un passo indietro. Anzi, da Grillo in giù è stato un coro di assurdità da «crescita lenta e inesorabile» all'«abbiamo migliorato i risultati» in stile Prima repubblica, fino al «siamo al ballottaggio a Topolinia». E quindi, ecco il dagli all'elettore con militanti ma anche candidati scatenati. A Lariano, piccolo comune dei Castelli romani, la candidata grillina Sabrina Taddei sconfitta alle elezioni comunali non l'ha presa bene e tramite Facebook ha pubblicato insulti e anatemi contro chi non l'ha votata. Che poi è la stragrande maggioranza visto che ha raccolto un risibile 4%. «Paese retrogrado, in mano ai soliti lecchini», «cittadini addormentati, abituati a eseguire gli ordini dei signorotti locali, abilissimi a comprare il loro consenso elettorale», e ancora «vi meritate giorni e giorni senz'acqua» e poi per concludere «l'abbandono da parte dei figli visto che hanno dei genitori che non hanno pensato al loro futuro». Una signorata, in sintesi. Stesso scenario con il senatore leccese Maurizio Buccarella che visto il flop nella sua città sempre via social si sfoga dicendo «questo è il veleno della democrazia, questi figli di p... che comprano la dignità dei nostri giovani vanno spazzati via e, appena possibile, denunciati». Ah, questi elettori, bravi e buoni solo se votano loro. Da candidati e onorevoli ai militanti il passo è breve. Il buon esempio non è per nulla vano, le squadracce a 5 stelle sono subito pronte a colpire sul web. C'è chi su Taranto dice: «Siete massacrati dall'Ilva ma vi meritate tutto». Chi riguardo l'Aquila, dove al ballottaggio vanno centrosinistra e centrodestra, scrive «vince il Pd nelle zone terremotate, si vede che amano il campeggio». Chi riguardo il voto di Genova, dove anche in questo caso il ballottaggio sarà tra centrosinistra e centrodestra con mazzata in casa propria per Grillo, se ne esce con un «la prossima volta che esonderà un fiume allora morite con i vostri figli». C'è poi il vignettista semi ufficiale dei grillini Mario Improta, alias Marione, che rappresenta gli italiani agonizzanti in un mare di liquami mentre rifiutano la mano tesa e, naturalmente, linda del Movimento 5 stelle che vuole salvarli. Manifesto del disprezzo totale che i militanti 5 stelle nutrono verso chi non la pensa come loro. D'altra parte per chi è cresciuto alla scuola del «vaffa» e ha fatto dell'insulto la propria cifra stilistica il canovaccio è chiaro. Sono tutti ladri e corrotti e mafiosi, asserviti al potere, incapaci e in malafede. Tutti tranne loro, ovviamente. E allora è normale, quasi naturale trascendere nell'insulto. Come normale è prendersela con la stampa. E quindi se il giornalista Nicola Porro si permette in Tv di mettere alle corde il grillino Alfonso Bonafede, smontando punto su punto il reddito di cittadinanza, su Facebook ecco puntuale il bombardamento di commenti che vanno da «venduto» a «servo del potere» a «maleducato» fino ai classici pennivendoli. Poco importa che Porro sia stato preciso, puntuale e incalzante sul merito e che abbia zittito il deputato incapace di replicare per mancanza di argomenti. Se li attacchi sei brutto e cattivo, a prescindere. Stesso trattamento subito anche da Maurizio Costanzo che sempre in tv ha criticato la senatrice grillina Paola Taverna sottolineando i mali di Roma e la malagestione della giunta Raggi con ironia e sarcasmo. A lui l'invito di «ritirarsi» «di andare a guardare qualche cantiere», o più semplicemente, «di tacere». Alla faccia della democrazia. Nulla di strano per chi ha varato le liste di proscrizione per i giornalisti non graditi e definisce da sempre la stampa venduta al fantomatico, indefinito e inafferrabile «potere». D'altra parte quando le logiche del peggior becero tifo da stadio vengono applicate alla politica il risultato è questo. Non conta la realtà dei fatti: l'arbitro è sempre venduto, gli avversari rubano e i tifosi delle altre squadre fanno schifo. È la politica grillina e nessuno sembra esserne immune.

La verità sui grillini: uno su due è disoccupato. I 55 parlamentari «indigenti» non vogliono perdere 100mila euro, scrive Francesco Maria Del Vigo, Mercoledì 14/06/2017, su "Il Giornale". Il sogno dei grillini è guadagnare senza lavorare. E molti di loro ce l'hanno fatta: sono i 31 parlamentari pentastellati che senza poltrona sarebbero a reddito zero e gli almeno venti a cavallo della soglia di indigenza. Praticamente un eletto su due del Movimento 5 Stelle. Deve essere per questo motivo che sono così ossessionati dal reddito di cittadinanza, perché loro lo hanno già. Sono già abituati all'idea che si possa vivere comodamente a spese dello Stato. Inutile lambiccarsi il cervello sulle coperture economiche e l'assegnazione di questo benedetto reddito. Probabilmente non c'è alcuna teoria economica dietro la loro proposta, ma solo l'esperienza pratica: quella che hanno fatto in Parlamento. Così abbiamo scoperto che i Cinque Stelle tengono famiglia ma non tengono il lavoro. E questo è un grosso problema, per loro ma anche per noi, in quanto contribuenti. Altro che «cittadini», questi sono politici e pure di professione. Nel senso che sanno fare solo quello e spesso lo fanno anche male. Una volta mollato lo scranno finirebbero nelle liste di disoccupazione (dove nei loro sogni li attenderebbe il reddito di cittadinanza, praticamente il delitto perfetto). Ed è per questo che ultimamente i pentastellati hanno smesso di dire «Vaffa» alla legislatura e si sono messi a sabotare la legge elettorale che avevano giurato di votare. Non è una questione politica, ma economica: non vogliono perdere il grano. E, attenzione, non stiamo parlando di pochi spiccioli. Se la legislatura dovesse morire di morte naturale, quindi la prossima primavera e non questo autunno, ogni deputato intascherebbe altri centomila euro di stipendio. Un bel tesoretto, specialmente per chi ha davanti a sé un futuro da inoccupato. Ed è proprio questo il prezzo attaccato sulla fronte di alcuni degli integerrimi Cinque Stelle. Alla faccia delle comparsate alla marcia francescana, della leggenda dei senatori parsimoniosi e monacali e delle panzane sulla decrescita felice. L'esercito degli aggrappati alla poltrona è composto da una cinquantina di soldati pronti a far di tutto pur di non perdere l'emolumento. Soldati ma anche generali, perché tra i parlamentari a reddito zero ci sono pure Luigi Di Maio e Roberto Fico, giusto per citare due tra i nomi più noti. Volevano sventrare le istituzioni come una scatoletta di tonno e ora sono lì a fare i pesci in barile per portare a casa lo stipendio. Se si guardassero allo specchio, vedrebbero per dirla con le loro parole ottimi esemplari della casta dei parassiti.

"La candidatura di La Vardera tutta una finzione", e con Benigno finisce in rissa. Il candidato avrebbe girato per tutti questi mesi con una telecamera nascosta, con l'obiettivo di realizzare un film/documentario sui retroscena della politica palermitana. Dietro la regia delle Iene. Vozza: "Un criminale che ha truffato i palermitani". Meloni e Salvini infuriati. I carabinieri intervengono in via Ausonia, scrive Andrea Perniciaro il 14 giugno 2017 su "Palermo today". Si è presentato agli elettori con un video, come fece nel '94 Silvio Berlusconi, affermando che il suo maestro era Gesù. Sei mesi dopo si trova in ospedale con il collare dopo una rissa con Francesco Benigno. Le voci erano iniziate qualche settimana fa: la candidatura a sindaco di Ismaele La Vardera è stata tutta un bluff. Fin dal principio l’idea sarebbe stata quella di realizzare un documentario/servizio dove “il ragazzo col ciuffo rosso” interpreterebbe la parte di se stesso. Dietro la regia delle Iene, che avrebbero finanziato tutto. L'obiettivo: raccontare i retroscena e i particolari della campagna elettorale palermitana. In tutti questi mesi La Vardera avrebbe girato con microfoni e telecamere nascoste per carpire segreti e retroscena dei politici. Avrebbe registrato tutti: da Cuffaro a Miccichè, da Orlando a Ferrandelli. In queste ore c'è imbarazzo all'interno degli staff degli altri candidati sindaco. La Vardera avrebbe tenuto all’oscuro di tutto non solo i candidati della sua lista, ma anche i suoi più stretti collaboratori. Ragazzi e ragazze dello staff che lo hanno accompagnato sin dall’inizio della sua avventura. Furente Francesco Vozza, referente provinciale di Noi con Salvini, e candidato nella lista che appoggiava la candidatura di La Vardera. “Si tratta di un complotto ai danni degli elettori palermitani – afferma Vozza a PalermoToday -, non solo per quei pochi (circa 6.000 ndr) che l’hanno votato. E’ stata tutta una finzione, pagata dalle Iene. Ha iniziato con un programma fasullo (copiato dal candidato sindaco di Segrate). Ha sempre girato con un cameraman al soldo della trasmissione di Italia Uno, dicendo invece che era un suo amico. Si tratta – conclude Vozza – di un truffa ai danni degli elettori palermitani. Siamo a una situazione assurda. E' un criminale che ha tradito il popolo palermitano”. Matteo Salvini e Giorgia Meloni sono infuriati. Pare che La Vardera abbia chiesto la liberatoria alla leader di Fratelli d’Italia per le riprese che la riguardavano, ma che questa abbia risposto picche. E proprio la liberatoria sarebbe alla base della rissa con Francesco Benigno. La Vardera, all’interno dei locali del Comitato elettorale di via Ausonia, avrebbe confessato la verità all’attore. Chiedendo anche a lui il permesso di mandare le immagini che lo riguardavano. A quel punto un amareggiato Benigno (che credeva veramente nel sogno politico) ha chiesto di poter continuare la discussione in privato, chiedendo di far uscire gli operatori che in quel momento erano nella stanza. A questo punto le versioni sono discordanti: La Vardera sostiene che Benigno avrebbe aggredito sia lui che i cameraman. Mentre l’attore palermitano sostiene di aver solamente reagito dopo che la sua compagna, infastidita dalla presenza dei cameraman, è rimasta ferita a una gamba dopo essere stata spinta da uno degli operatori. Lui avrebbe solamente strappato loro le telecamere. La Vardera quindi avrebbe inscenato tutto. Sull’accaduto faranno luce i carabinieri che sono intervenuti in via Ausonia. Una storia paradossale insomma. Che – siamo sicuri – riserverà ancora tante sorprese. 

Tra Benigno e l'ex Iena l'alleanza finisce a cazzotti. L'attore siciliano Roberto Benigno e la ex Iena di Italia Uno Ismaele La Vardera sono finiti alle mani, scrive Luisa De Montis, Giovedì 15/06/2017, su "Il Giornale".  Un'alleanza elettorale finita a cazzotti. L'attore siciliano Roberto Benigno e la ex Iena di Italia Uno Ismaele La Vardera sono finiti alle mani. Il candidato sindaco alle elezioni amministrative 2017 concluse con la vittoria di Leoluca Orlando e l’attore di Mery per sempre, candidato al consiglio comunale nella lista del giornalista, hanno dato vita ieri sera a una lite furibonda. Che, secondo quanto scrivono i giornali locali, sarebbe iniziata a causa di alcune riprese che La Vardera avrebbe commissionato a degli operatori durante un colloquio al comitato elettorale. Riprese che avrebbe infastidito sia Benigno sia la compagna, con quest’ultima che sarebbe stata spinta dagli stessi operatori, sbattendo sulla scrivania. Da lì la reazione di Benigno. Che però ha smentito l'aggressione. La Vardera invece sarebbe finito in ospedale con tanto di collare. "Ho strappato le telecamere dalle mani dei due operatori, uno si è graffiato. Non è stata una rissa perché io non ho alzato le mani a nessuno. Io e la mia compagna siamo vittime, c'erano due operatori che stavano riprendendo mentre parlavamo e allora ho detto di smettere", ha raccontato Benigno ai carabinieri citato da Repubblica Palermo. Dopo il flop elettorale, Benigno aveva già fatto parlare di sé per lo sfogo al veleno su Facebook. "Siete delle vergognose bestie – scrive su Facebook – avevate paura di me e come vi annunciavo nella mia ultima diretta, che avevo paura di fregature, eccoli puntuali a fottermi. E secondo voi io ho preso 156 miseri voti?", aveva tuonato l'attore.

Francesco Benigno, l’attore di Mery per sempre: "Siete delle vergognose bestie", scrive Cecilia Uzzo il 14 giugno 2017 "Tv Zap". Candidato alle elezioni comunali di Palermo, attacca sui social chi non ha avuto il coraggio (e la coerenza) di votarlo. L’amarezza viaggia su Facebook, almeno per Francesco Benigno che, deluso per i risultati delle elezioni comunali di Palermo, ha pensato di affidare al social il suo disappunto, ma anche la sua rabbia nei confronti dei concittadini, dal suo punto di vista colpevoli di averli traditi. Benigno – attore palermitano che ha debuttato al cinema con Natale Sperandeo in Mery per sempre (1989) di Marco Risi e che, nel suo ampio curriculum, conta numerose produzioni sulla mafia, dal film Palermo Milano – Solo andata (1995) alla serie La squadra, fino ai vari film per la televisione La piovra, Ultimo – aveva deciso di candidarsi alle elezioni del Consiglio comunale con la lista Centro Destra per Palermo del candidato Ismaele La Vardera. Vista la sua popolarità e considerando anche il supporto e l’incoraggiamento avuto anche sui social, Benigno era convinto di ricevere un riscontro molto positivo ai seggi, ma qualcosa non è andato da pronostici e l’attore si è portato a casa solo 156 voti. Una delusione che Benigno ha esternato prima con una diretta social, in cui si complimenta con amara ironia con chi ha vinto e, soprattutto, con i palermitani, che dalle parole dell’attore, vengono implicitamente descritti come buoni a lamentarsi e non ad agire coerentemente. “Buonasera a tutti, diretta brevissima: complimenti vivissimi a Leoluca Orlando e all’amministrazione che dopo cinque anni di lamentela hanno vinto con il premio di maggioranza e i consiglieri uscenti hanno quasi tutti raddoppiato i voti. Questo deve farvi capire tutto. Viva Palermo e soprattutto, tutti i palermitani. Bravi!” La diretta non è bastata a lenire l’amarezza della delusione di Benigno, che si è sfogato con un lungo post, sempre su Facebook, in cui attacca direttamente le “bestie vergognose” che, dopo averlo tanto incoraggiato nelle elezioni, non hanno avuto il coraggio di votarlo. Facendo i conti, infatti, l’attore non riesce proprio a spiegarsi di aver ottenuto solo 156 voti, una cifra inferiore non solo ai pronostici, ma anche alle aspettative derivate dal numero di persone che lo supportavano tra amici, conoscenti e followers dei social. Francesco Benigno su Facebook lunedì 12 giugno 2017: "FATTI TUTTI I CONTI, CONSIDERANDO CHE NOI SIAMO 13 FIGLI, TUTTI ACCOMPAGNATI DA ALMENO DUE FIGLI MAGGIORENNI, SUOCERI, ZII, CUGINI, NIPOTI, PARENTI, AMICI STRETTI, ECC ECC...

A QUESTO AGGIUNGETE 70 MILA FANS IN QUESTA PAGINA, DI CUI 30 MILA SONO DI PALERMO. TUTTI A CHIEDERMI DI NON MOLLARE...DIRETTE CON 65 MILA VISUALIZZAZIONI, MIGLIAIA DI MI PIACE, TANTE TESTIMONIANZE DATE DAI CITTADINI IN SERIA DIFFICOLTÀ, OSPITATE IN EMITTENTI NAZIONALI E REGIONALI, GRANDI MERCATI DI PALERMO TUTTI A TIFARE PER ME, GLI ESPERTI STORICI DELLA POLITICA CHE SCOMMETTEVANO CON ME CHE NON AVREI MAI PRESO MENO DI 3000 MILA VOTI..... E TE NE TROVI 150? MENO DI QUELLI CHE MI HANNO DATO I MIEI FAMILIARI PARENTI ED AMICI??? SIETE DELLE VERGOGNOSE BESTIE, AVEVATE PAURA DI ME. COME VI ANNUNCIAVO NELLA MIA ULTIMA DIRETTA, AVEVO PAURA DI FREGATURE.... ECCOLI PUNTUALI A FOTTERMI. E SECONDO VOI IO HO PRESO 156 MISERI VOTI???????"

Francesco Benigno sembra così contrariato da far dubitare una sua prossima avventura politica, come del resto ha concluso anche nel video: “Si torna alla vita normale. Ciao, grazie a tutti quelli che mi hanno votato”.

È ora di dirselo, l’uomo comune è una merda. Dopo la Teoria della classe disagiata, minimumfax continua ad analizzare la società italiana contemporanea, ma questa volta si parla della Gente, quella variopinta galassia di umanità rabbiosa, che odia la Casta e non si fida più di nessuno, ma che è ormai al centro della politica italiana, scrive Andrea Coccia il 24 Ottobre 2017 su “L’Inkiesta”. Non è passato nemmeno un mese dall'uscita in libreria di Teoria della classe disagiata, il libro con cui Raffaele Alberto Ventura ha cercato di descrivere la traiettoria e lo scacco a cui è soggetta la classe creativa e intellettuale, minimumfax torna ad affrontare la realtà con un libro che per molti versi alla Teoria di Ventura è speculare. Si tratta de La gente. Viaggio nell'Italia del risentimento e raccoglie l'esperienza di reporter di Leonardo Bianchi, uno che negli ultimi anni si è fatto notare per le sue scorribande pubblicate da Vice, Internazionale, ValigiaBlu, ed è sostanzialmente un ritratto, multiforme e sfaccettato come il soggetto di cui parla, di una parte della società che probabilmente per i disagiati di Ventura è “fuori dalla bolla”, ma che rappresenta una grande parte dell'Italia e non solo. Dal movimento dei Forconi ai neofascisti delle periferie romane, dai complottisti agli anti gender fino ai giustizieri della notte de noartri, difensori improvvisati dell'ordine pubblico e paladini della legittima difesa, ma anche buongiornisti, gonzonauti e boccaloni di ogni tipo: la galassia della Gente — che altri chiamano la Ggente, con la doppia — è dispersa per tutta la penisola, da Nord a Sud, e pure al Centro, non fa distinzione geografiche, né campanilistiche. Il denominatore comune di questa ggente è la rabbia, il risentimento, il richiamo all'autorità — della polizia, delle armi, della legittima difesa — e il rigetto verso qualsiasi cosa c'entri con l'autorevolezza, la conoscenza e l'intellettualità.

Attorno ai popoli sono nate le nazioni, che anche se nell'ultimo mezzo secolo stanno dimostrando di essere arrivate al capolinea della loro utilità storica, restano la più grande invenzione politica della modernità occidentale. Attorno alla gente stanno crollando le democrazie. Quello di Leonardo Bianchi è un gran lavoro, ma d'altronde lo è sempre stato. A differenza di quello teorico di Ventura, il suo ha le radici ben piantate nella cronaca, nei volti e nelle vite dei personaggi che mette in scena — e che non di rado racconta in maniera decisamente cinematografica — ma nello stesso tempo riesce a non privarsi della profondità, del tentativo di uscire dall'hic et nuncunendo i puntini e cercando di vedere il quadro complessivo.

Per qualcuno la Ggente sarebbe l'ultima evoluzione del Popolo, quell'entità che è entrata a piedi uniti nella politica a partire dall'epoca delle rivoluzioni, ma forse è qualcosa di più complesso. Per cercare di definirlo Bianchi ne traccia tre grandi caratteristiche: il forte risentimento verso la cosiddetta Casta; la rabbia esasperata, indignata, ma soprattutto non imbrigliata in una ideologia di partito; e la tendenza a inventare e a credere a teorie del complotto e versioni alternative nei campi della storia, della geopolitica, della medicina. Eppure, la sensazione che resta dopo la lettura dei reportage di Bianchi è che più che al popolo, questa gente somigli alla folla, quella entità che iniziò ad apparire nell'immaginario collettivo intorno alla metà dell'Ottocento, descritta nel celebre racconto di Edgar Poe, l'Uomo della folla. È probabilmente più da quella massa variegata ma indistinta, da quel flusso che figliò poi nel Novecento la società di massa dell'omologazione e dell'individualismo apolitico che nasce il gentismo e la gente.

Attorno ai popoli sono nate le nazioni, che anche se nell'ultimo mezzo secolo stanno dimostrando di essere arrivate al capolinea della loro utilità storica, restano la più grande invenzione politica della modernità occidentale. Attorno alla gente stanno crollando le democrazie. I popoli erigevano monumenti ai propri eroi e ci si raccoglieva intorno al momento delle proprie rivendicazioni politiche, la gente, che non ha nemmeno più grandi rivendicazioni da fare, la strada la teme, la guarda di sottecchi dalle finestre dei piani alti di qualche caseggiato popolare, covando rabbia, rancore, risentimento. Con il popolo una volta si poteva immaginare di costruire delle comunità, con la gente, ora, non si costruisce nulla, ma al contrario, si distrugge.

TEORIA DELLA CLASSE DISAGIATA. Libro di Raffaele Alberto Ventura, Minimum fax, 262 pp.,16 euro.

Descrizione. E adesso che siamo quello che siamo, come possiamo essere altro da ciò che siamo? La classe disagiata è l'avanguardia di un capitalismo in crisi permanente che ci parla con la retorica dell'emancipazione per venderci stili di vita che non possiamo permetterci. Il debito che ci schiaccia non è altro che l'immagine rovesciata delle nostre aspirazioni deluse, l'altissimo costo che paghiamo per continuare a ostentare una ricchezza che non abbiamo. Cosa succede se un'intera generazione, nata borghese e allevata nella convinzione di poter migliorare – o nella peggiore delle ipotesi mantenere – la propria posizione nella piramide sociale, scopre all'improvviso che i posti sono limitati, che quelli che considerava diritti sono in realtà privilegi e che non basteranno né l'impegno né il talento a difenderla dal terribile spettro del declassamento? Cosa succede quando la classe agiata si scopre di colpo disagiata? La risposta sta davanti ai nostri occhi quotidianamente: un esercito di venti-trenta-quarantenni, decisi a rimandare l'età adulta collezionando titoli di studio e lavori temporanei in attesa che le promesse vengano finalmente mantenute, vittime di una strana «disforia di classe» che li porta a vivere al di sopra dei loro mezzi, a dilapidare i patrimoni familiari per ostentare uno stile di vita che testimoni, almeno in apparenza, la loro appartenenza alla borghesia. In un percorso che va da Goldoni a Marx e da Keynes a Kafka, leggendo l'economia come fosse letteratura e la letteratura come fosse economia, Raffaele Alberto Ventura formula un'autocritica impietosa di questa classe sociale, «troppo ricca per rinunciare alle proprie aspirazioni, ma troppo povera per realizzarle». E soprattutto smonta il ruolo delle istituzioni laiche che continuiamo a venerare: la scuola, l'università, l'industria culturale e il social web. Pubblicato in rete nel 2015, Teoria della classe disagiata è diventato un piccolo culto carbonaro prima di essere totalmente riveduto e completato per questa prima edizione definitiva.

Teoria della classe disagiata, scrive Enrico Pitzianti il 25 Settembre 2017 su “Il Foglio”. Uno dei lasciti più fecondi del pensiero strutturalista è l’idea dell’importanza culturale della “differenza”: percepiamo un elemento solo se si staglia su uno sfondo. Eppure certe applicazioni politiche del principio strutturalista bisogna ammettere di non averle considerate a sufficienza, come il fatto che se tutti hanno la laurea il titolo si inflaziona, smette di essere una caratteristica distintiva, smette di “fare la differenza” – e in qualche modo smette di essere utile. Insomma, non ci avevamo pensato al lato oscuro dell’uguaglianza, ma ciò non ha impedito a questi effetti collaterali di abbattersi su una fetta della popolazione, una “classe” – così la chiama Raffaele Alberto Ventura nel suo Teoria della Classe Disagiata, pubblicato da minimum fax. Il disagio è quello di noi iperscolarizzati, di chi si aspettava l’ingresso in un mondo professionale in cui poter mettere a frutto il bagaglio conoscitivo raccolto in due decenni di ligia obbedienza al diktat dell’istruzione, e che invece si trova a fare i conti con un eccessivo affollamento del bus per cui si credeva di aver comprato il biglietto. La soluzione (fasulla) è quella di una corsa disperata a investire in ulteriori titoli di istruzione iperspecialistica, come i master, mentre la soluzione (quella vera) sarebbe scappare a gambe levate da un bus dove anche se si riuscisse a trovar posto, poi si soffocherebbe comunque a causa della calca. La lezione è però consolatoria: democratizzare significa proletarizzare. A voler essere tutti artisti, ci si ritrova una professione artistica sottopagata, e che tenderà a essere, definitivamente, non pagata. Ma visto che Keynes insegna che i limiti in economia non ci sono, si potrà arrivare – e sta succedendo – a dover pagare per lavorare. E’ la cara, vecchia sovraccumulazione dell’economia marxista, quella secondo cui quando all’orizzonte manca la possibilità di un saggio di profitto, si reinveste. Verrebbe da tagliar corto, da dare una strigliata ai sognatori ormai con l’acqua del successo alla gola, ma chi ce lo viene a spiegare che si è studiato per il mero ritardare l’ingresso nel mercato del lavoro? Chi avrebbe il coraggio di dirci che questi anni passati a leggere e sognare lavori col nome in inglese sono la nostra quota di nobiltà che ci siamo spartiti tra le migliaia di figli e nipoti dei boomers? Volevamo esser tutti nobili, ed eccoci accontentati. Un tempo era il bovarismo a far fantasticare i sognatori, oggi la classe disagiata, però, non sogna di abbandonare il paesino per approdare nei salotti cittadini, il sogno inarrivabile è una classe agiata, un mix di benessere economico e posizionale che non è quello che la storia ha impacchettato per noi trentenni. Ah, fosse solo delusione, per Ventura (che è pessimista quasi volesse aderire alla perfezione all’immagine dell’istruito disilluso) è addirittura una questione di disforia di classe, ci sentiamo ricchi, ma siamo destinati alla povertà. Nel Crepuscolo degli idoli, Nietzsche riportava una domanda che oggi sembra rappresentare bene questo cortocircuito: “Qual è il compito di ogni istruzione superiore?”, “Fare dell’uomo una macchina” si rispondeva il filosofo di Röcken. Niente di più auspicabile se si sta nell’ottica della celebre “liberazione dal lavoro” libertaria: che le macchine lavorino così che noi si possa godere della vita. Ma si è presentato l’inconveniente del reddito, ed eccoci a pensare che forse avevamo fatto male i conti. Forse liberarci dal lavoro non era poi così auspicabile, o magari è successo tutto troppo in fretta, un po’ quello che si diceva della globalizzazione.

Siamo disagiati sì, ma non solo per colpa nostra, scrive il 25 Settembre 2017 Andrea Danielli su “L’Inkiesta”. Per i Millennials il libro di Raffaele Alberto Ventura, Teoria della classe disagiata, è una lettura oggi obbligata, almeno a vedere il susseguirsi di recensioni e interviste. Parlando soprattutto di noi, l’ho letto per capire se può essere un valido contributo al dibattito che stiamo cercando di portare avanti in questo blog. Nel parlarne, sarò sincero, andrò oltre il testo, per spiegare che cosa avrebbe dovuto dire - e non ha detto. L’equivoco del testo viene comunicato fin dalle pagine iniziali, dove l’autore si schianta con la mancanza di scelta tra “chi ci fa la morale oppure chi ci invita a non smettere di sognare” e sostiene che abbiano entrambi torto e ragione. In realtà l’incapacità di trovare una via d’uscita dipende da alcune carenze nel percorso argomentativo; sarà oggetto della mia non-recensione lanciare una soluzione al dilemma, che anticipo brutalmente: liberiamoci di chi ci fa la morale, e sta occupando abusivamente gli spazi che ci spettano, per salvare almeno i sogni di qualcuno. Nonostante Ventura sostenga che il suo testo non si limiti a descrivere la classe creativa ipertrofica, per lo più precaria, è difficile pensare che la classe disagiata di cui parla possa andare oltre: non ne fanno parte il “lavoratore salariato che vede il proprio settore minacciato”, mancando di velleità intellettuali, né “tutti quelli che, facendo violenza alle proprie inclinazioni, riescono a garantirsi un relativo benessere materiale finendo magari nelle spire dello stress e della depressione” perché costoro, semplicemente, vivono un percorso normale di ingresso nell’età adulta. Nemmeno penso che l’aspirazione di diventare artisti per molti sia un bene posizionale, uno status da esibire, piuttosto è il frutto di una serie di fattori: l’individualismo, con la sua celebrazione incessante dell’autorealizzazione, e la distanza ormai incolmabile tra chi produce e chi fruisce l’arte, che mantiene migliaia di giovani di belle speranze nell’ignoranza di essere solo dei dilettanti - per onestà, Ventura accenna a questo fenomeno richiamandosi a un libro di Balzac; i riferimenti storici sono tra gli aspetti più pregevoli del libro perché consentono di ridimensionare i problemi che affrontiamo, essendo, in fondo, comuni nelle civiltà decadenti.

Se è vero che non tutti possiamo diventare scrittori, registi, artisti concettuali, è anche vero che c’è un’altra classe, baciata dalla storia, che ha saturato i posti e li tiene ben stretti, anche ora che i consumi sono calati. Nel mondo del giornalismo il fenomeno è estremamente visibile, quasi esemplare: il consumo di quotidiani è sensibilmente diminuito, una parte di lavoratori è stata assunta a suo tempo con i contratti faraonici dell’ordine dei giornalisti, e una parte è totalmente precaria e pagata a collaborazioni. La ragione economica è semplice, e non dipende dal neoliberismo, anzi, dipende dalla rigidità di un’eredità socialista: non si possono toccare i vecchi contratti, e chi ne gode non ha motivo di essere più produttivo, mentre si può chiedere a un giovane di “sacrificarsi”, perché tanto vive in casa dei genitori, oppure è ricco di famiglia e pure “autonomo”. Nelle professioni intellettuali più ricercate si assiste ovunque alla medesima dinamica: l’editoria è in crisi e paga stipendi da fame a giovani curatori e traduttori, nella fotografia ci sono sempre gli stessi nomi e se sei giovane puoi fare al massimo l’assistente, solo il cinema pare mostrare segni di ripresa (dannati capitali privati!). I posti migliori sono occupati perché, nell’ignoranza e impreparazione del pubblico, si sceglie l’usato garantito; perché prendersi responsabilità, in un Paese dove tutti aspettano il momento in cui criticare, non è affatto facile. Aggiungo poi che noi millennials siamo pochi, con scarsa capacità di spendere e imporre i nostri gusti, bravi a non fidarci l’uno dell’altro, a invidiare chi ha successo, perché, in questo concordo con Ventura, siamo molto rancorosi - pure, o soprattutto, tra di noi. Lo stesso autore sa bene che accusare il neoliberismo non è la soluzione, ma perché, ahimè, va oltre, ritenendo che sia il capitalismo il problema. Purtroppo, nel cedere alla sirene anticapitaliste, Ventura non arriva mai a colpire a fondo i veri nemici dei giovani che non trovano spazio: avrebbe dovuto ammettere che i prodotti culturali italiani fanno cagare. Sono gestiti da persone totalmente autoreferenziali, spesso prive di qualunque apertura sul mondo (ah, non parlano inglese, no) e quindi fuori dalla storia. Nessuno si domanda mai se l’italiano medio sia solo una capra oppure se gli venga offerta spazzatura; ebbene, io che capra non mi ritengo, e leggo in inglese e francese, mi accorgo che là fuori si fa cultura meglio. I saggi anglosassoni sono più leggeri, ironici e, al contempo, colgono veramente le innovazioni e le sanno spiegare; quando in Italia occorre scrivere un saggio si chiama un trombone qualunque che sbrodola gli stessi concetti che dice da anni, con una forma lenta, affettata, che nasconde argomentazioni deficitarie. Che dire dei francesi? Sono specializzati nei pamphlet politicamente scorretti, talvolta un po’ caricaturali, ma almeno osano dire qualcosa che qui da noi è vietato dalla censura egemonica di sinistra: l’immigrazione è un inganno per l’Africa, l’islam radicale minaccia le nostre periferie. Houellebecq scrive Sottomissione perché vive una situazione che sta andando in quella direzione, è vero, ma al contempo sta intuendo problemi ampi, che riguardano tutto l’Occidente - trovatemi un autore italiano che abbia la stessa capacità profetica.

In sintesi, Ventura, più che dipingere un’intera classe disagiata, scrive (a sua insaputa) di un fenomeno che mi verrebbe da definire “blocco della mobilità culturale”: l’impossibilità, per i giovani che hanno buone idee, di dirle a una platea più ampia - e quindi di costituire una propria coscienza di classe. Non è possibile la mobilità culturale per due ragioni: economica, come ho visto sopra, ed epistemica, perché non si trovano gli standard, i metri di paragone. Si ha mobilità quando si ha modo di capire che percorso seguire; un concetto che si applicava perfettamente alla borghesia: sii moderato, lavora con impegno, studia il più possibile. Negli anni ’60/’70 non era difficile capire come scalare socialmente: prenditi una laurea, che magari porti alle professioni, e diventa ingegnere, avvocato, medico. Nel mondo della cultura la guida era parimenti semplice fino alla caduta del muro: prendi un testo borghese, fanne un’analisi marxista, distruggi il modernismo, critica i classici con la psicoanalisi. Semplifico, sto provocando. Oggi è tutto più confuso e rimescolato: l’ideologia è morta, e con lei l’ascensore culturale. Non tutti possono essere abbastanza ironici da entrare nell’olimpo dei post-strutturalisti, non tutti sufficientemente furbi da credere ai post colonial studies, non tutti riescono a essere paranoici senza essere complottisti (di Toni Negri ce n’è uno solo). Naturalmente l’opzione “abbi il coraggio della verità”, non è consentita, perché la tenzone culturale in Italia è intrinsecamente politica e, sinceramente, non tanti sono pronti a pubblicare su Il Giornale o Libero solo perché liberale e liberisti.

Concludendo, e provando a rispondere alla domanda iniziale: no, il libro di Ventura non ci aiuta a progredire. Gli riconosco l’importanza di portare una nuova critica ad alcuni tabù, come l’istruzione e il ’68, ma il testo è una pregevole raccolta di opinioni, anche originali, priva di alcun dato. Non si può affrontare la mancanza di lavoro senza una profonda analisi economica. Il libro si chiude nel pessimismo perché non è stato in grado di identificare i tanti nemici della classe disagiata. Su questo blog li stiamo lentamente proponendo per una disamina corale: lo Stato costituito da una burocrazia testarda (Ventura - c’eri quasi! - quando parli di Ibn Khaldun), il debito pubblico che impedisce di investire e costruire lavoro, la mancanza di spirito collettivo della nostra generazione.

Ventura: “La classe disagiata rappresenta la sconfitta di tutta la società”, scrive Elena Asquini il 18.09.2017 su "Il Libraio”. "La classe disagiata rappresenta la sconfitta di una generazione, certo, ma soprattutto la sconfitta di tutta una società che non è riuscita a costruire il proprio futuro". Raffaele Alberto Ventura parla con ilLibraio.it della sua "Teoria della classe disagiata", oggetto di un saggio che riflette sulla differenza tra le aspirazioni e le reali possibilità di lavoro della classe culturale: "È spaventoso notare che lo Stato, l'Università, le famiglie hanno lasciato molti giovani ostinarsi in scelte formative del tutto irrazionali, percorsi di studio schizofrenici..." - L'intervista (in cui si fa anche un confronto con il contesto francese). Prendendo le mosse da La teoria della classe agiata di Thorstein Veblen, il 33enne Raffaele Alberto Ventura formula una teoria sociale, più che economica, al limite della distopia: la realtà di una classe sociale media che non può permettersi di realizzare le proprie ambizioni ma, allo stesso tempo, non rinuncia ad aspirare alle posizioni “intellettuali”, nella speranza che ne derivi una ricchezza e una dignità che, nei fatti, vengono raggiunte da un candidato su mille. Quell’uno su mille andrà a costituire, secondo l’autore de La teoria della classe disagiata (minimum fax), la classe agiata di Veblen, ma tutti gli altri? Ventura, che da oltre dieci anni cura Eschaton, dopo studi di filosofia e di economia della cultura, si è trasferito a Parigi, dove si occupa di marketing editoriale per una prestigiosa casa editrice francese. ilLibraio.it lo ha intervistato.

“(…) È precisamente da questo disagio che nasce Teoria della classe disagiata: come testimonianza di una sconfitta, forse anche come autoanalisi, se possibile persino come mappa per orientare chi si affaccia alla vita adulta carico di aspettative. Se mi chiedono quali speranze ci restano, io risponderò come Kafka: c’è molta speranza, ma nessuna per noi. Vengono già nuovi uomini e nuove donne, più disperati e meno fragili, per pigliarsi il mondo che lasceremo. A loro questo libro è dedicato”.

Quella che racconta, dunque, è la sconfitta di una generazione?

“La classe disagiata rappresenta la sconfitta di una generazione, certo, ma soprattutto la sconfitta di tutta una società che non è riuscita a costruire il proprio futuro. Nel libro mostro che è difficile dare la colpa a qualcuno – ai giovani fannulloni, ai padri avari, ai politici o alle banche… – perché la catena delle cause risale molto lontano, fino a certe contraddizioni strutturali che portano presto o tardi ogni classe relativamente agiata ad autodistruggersi. Il termine ‘sconfitta’ ha forse una connotazione morale ma è interessante perché evoca l’idea che ci sia una competizione. In effetti è proprio la competizione in seno alla classe media a essersi radicalizzata in una vera e propria escalation di spese, sacrifici e consumi. Una guerra di logoramento con molti sconfitti e pochi vincitori”.

In questi anni ha scritto molto in rete (soprattutto sulla pagina Eschaton), ma secondo lei che ruolo ha avuto il web nella creazione della “classe disagiata”?

“Lo sviluppo delle nuove tecnologie ha abbassato le barriere all’entrata in molti settori professionali, a partire da quelli culturali ma non solo. Questo ha prodotto indubbiamente dei risultati benefici: un aumento dell’offerta, della disponibilità di beni e servizi anche molto utili, oltre alla possibilità di aggirare i vecchi monopoli in diversi settori”.

Un esempio?

“Ad esempio il web ha permesso al sottoscritto di farsi conoscere dai lettori e dagli editori, a partire da un capitale accademico e sociale inizialmente nullo. Ma abbattendo le barriere all’entrata, questo sistema ha creato le condizioni di una concorrenza esacerbata: troppe aziende che si contendono gli stessi mercati, troppi lavoratori che si contendono gli stessi lavori, troppi prodotti che si vendono sempre meno. Una torta sempre più grande con porzioni sempre più piccole. È la cosiddetta coda lunga, che descrive la forma di quella curva delle vendite che spiega il successo di meta-aziende come Amazon”.

A questo proposito, riferendosi a internet come motore di produzione, diffusione e promozione di contenuti (self publishing, ma non solo), qual è la responsabilità del web nella creazione delle illusioni della “classe disagiata”?

“Quelle che qui chiamo meta-aziende sono aziende che prosperano proprio sulla concorrenza delle altre aziende o degli individui, ne hanno un bisogno vitale perché ciò che vendono sono sostanzialmente ‘armi’ per la competizione sociale. Insomma vendono speranze. Lo si vede nelle pubblicità degli smartphone, che in fin dei conti giocano sempre sulla promessa di potersi realizzare, diventare artista, DJ, oppure imprenditore nomade. Per sopravvivere, queste aziende devono creare illusioni, creare una classe disagiata che aspiri a un certo tipo di vita, per poi vendere i loro prodotti come fossero biglietti della lotteria”.

Quanta parte della classe disagiata è consapevole di far parte della “classe disagiata” che descrive nel libro?

“Quando ho iniziato a scrivere il libro avevo l’impressione che nessuno attorno a me si rendesse conto di questa cosa, ma devo dire che oggi discuto con un numero crescente di persone che sono d’accordo con me, che riconoscono che c’è qualcosa di ‘ideologico’ nelle nostre aspirazioni”.

Qualcosa è cambiato.

“Può darsi che siamo semplicemente invecchiati noi, e che questa lucidità venga naturalmente quando passi dalla vita studentesca, relativamente protetta, alla vita adulta, in cui inizi a porti mille domande molto materiali. Ma nel frattempo si è anche concretizzata quella crisi economica di cui sentiamo parlare da anni. Poi certamente ci sono anche quelli che non vogliono assolutamente saperne nulla di quello che dico, perché è molto doloroso ammettere che certe cose che consideravi più che sacre sono in realtà semplici fantasmi”.

All’interno della “classe disagiata” solo uno su mille ce la fa: esiste una strategia vincente?

“Ovviamente no. Ma esistono molte strategie chiaramente perdenti, ed è spaventoso notare che lo Stato, l’Università, le famiglie hanno lasciato molti giovani ostinarsi in scelte formative del tutto irrazionali, percorsi di studio schizofrenici, eccetera. Va detto che anche le strategie razionali pagano poco, per cui non è sembrato troppo assurdo parcheggiare centinaia di migliaia di persone all’università per evitare di doverli contare nelle statistiche di disoccupazione”.

Praticamente un vicolo cieco.

“Il paradosso che descrivo nel libro è che, nell’attuale mercato del lavoro, certe strategie più rischiose sono le uniche che permettono di trovare un lavoro interessante, mentre dei percorsi totalmente lineari portano ai più classici bullshit jobs che nessuno vuole fare. Ma se scegli il rischio poi di solito lo paghi, anche se gli sconfitti non sono mai qui per raccontare la loro storia (è la cosiddetta ‘fallacia del sopravvissuto’). In pratica oggi scegliere gli studi è diventato complicato come investire in borsa. E ovviamente la gente si rovina”.

“Leggendo l’economia come se fosse letteratura e la letteratura come se fosse economia, da Goldoni a Keynes e da Marx a Balzac”, il libro “vorrebbe essere un’autocritica impietosa ma si lascia volentieri consumare da una vena di malinconia”: com’è nata l’idea di interpretare in chiave letteraria le teorie economiche che prende a riferimento?

“Credo che sia iniziato tutto quando ho letto Goldoni, anzi quando ho visto La bottega del caffé fatta dalla compagnia del Teatro dell’Elfo. Sono uscito dal teatro e avevo l’impressione di avere capito qualcosa. Qualcosa di molto semplice, essenziale, su come circola la ricchezza, su come l’economia sia fondata su speranze irrazionali e rischi fatali. Poi nelle altre commedie di Goldoni emerge chiaramente questo tema dei consumi posizionali, che soltanto in un secondo tempo ho ritrovato leggendo la Teoria della classe agiata di Veblen, a cui mi sono ispirato per il titolo del mio libro”.

Lei aveva già autopubblicato questo libro in digitale un paio di anni fa. Rispetto alla sua analisi, cos’è cambiato da allora?

“I fenomeni descritti si sono accentuati e diventati più evidenti, ad esempio in una prima stesura nel 2009 io parlavo ancora del print on demand perché il libro digitale non era ancora arrivato, ma la tendenza era ben definita. Semmai è cambiato molto il mio libro, che da principio era soltanto una raccolta di tre saggi ed è diventato (credo) una vera teoria”.

Alla fine dei ringraziamenti annuncia che La teoria della classe disagiata tornerà prossimamente in un libro intitolato La guerra di tutti. Cosa può anticipare sull’evoluzione del progetto?

“Si tratta di una riflessione che ho condotto parallelamente alla teoria della classe disagiata, nel quale il discorso se vogliamo passa dall’economico al politico ma abbraccia una problematica più larga rispetto alla sola classe disagiata. Si tratterà di un libro (già scritto per metà) sulla guerra civile, sulla guerra di tutti contro tutti, su cosa tiene assieme il corpo sociale e cosa lo minaccia, sul collasso delle élites e la minaccia del terrorismo, sul politicamente corretto e la violenza linguistica, un libro che parte da constatazioni molto pessimiste ma che vuole essere costruttivo e proporre nuovi paradigmi di convivenza multiculturale ispirati all’esperienza europea del Cinquecento”.

Lei lavora a Parigi, e si occupa di marketing per una prestigiosa casa editrice. Un osservatorio interessante, in un contesto culturale ed editoriale molto diverso dal nostro: quali sono le principali differenze tra i giovani intellettuali italiani e quelli francesi?

“In Francia è più evidente la demarcazione tra l’intellettuale legittimo (universitario, editoriale) e chi è fuori, mentre in Italia siamo riusciti a costruire una vera e propria ‘scena’ di giornalismo culturale disagiato, spesso molto preparato ma incapace di mantenersi con la sola scrittura. Sebbene si pongano i problemi di cui parlavo sopra, direi che c’è una freschezza in questa configurazione, o comunque io (forse per perversione) è sempre verso l’Italia che mi giro quando voglio respirare una boccata d’aria”.

La Gente. Viaggio nell'Italia del risentimento.  Libro di Leonardo Bianchi. Dieci anni fa usciva La casta, un libro che ridefiniva il discorso politico italiano: la fine dei partiti tradizionali, l’odio per le élite in generale, l’indignazione di chi si sentiva escluso e defraudato. Oggi quel risentimento si è rovesciato in orgoglio: la fine della politica come la conoscevamo non ha generato un vuoto, ma una galassia esplosa di esperienze tra il grottesco, il tragico e l’apocalittico. Dai forconi alle sentinelle in piedi, dai «cittadini» che s’improvvisano giustizieri alle proteste antimigranti, La Gente è il ritratto cubista dell’Italia contemporanea: un paese popolato da milioni di persone che hanno abbandonato il principio di realtà per inseguire incubi privati, mentre movimenti politici vecchi e nuovi cavalcano quegli incubi spacciandoli per ideologie. Leonardo Bianchi ha scritto il miglior reportage possibile su un paese che non si può raccontare se non a partire dalle sue derive, e l’ha fatto seguendo ogni storia con la passione di un giornalista d’altri tempi, il rigore dello studioso che dispone di una prospettiva e di un respiro internazionali, e un talento autenticamente narrativo, capace di attingere a una ferocia e a una forza profetica degne di un romanzo di James Ballard.

Il risentimento che ci riguarda e l’invenzione del «gentismo». «La Gente», un denso volume del giornalista Leonardo Bianchi per minimum fax, scrive Giuliano Santoro su “Il Manifesto” del 12.10.2017. La rete è ormai precipitata sulla terra. L’uso superficiale del mix di linguaggi vecchi e nuovi – che chiamiamo per semplicità web 2.0 – è arrivato in strada, ha contagiato un pezzo di mondo intellettuale, colonizzato il confronto politico mainstream, ha smesso di essere soltanto una bolla virtuale. Ciò produce effetti concreti e rapidissimi. È accaduto di recente. La demonizzazione delle Ong operanti nel Mediterraneo è partita da un video virale, poi ha trovato sponda in Striscia la Notizia e Luigi di Maio e infine è approdata ai tavoli strategici del Viminale. Di questi fenomeni si occupa La Gente. Viaggio nell’Italia del risentimento (Minimum Fax, pp. 362, euro 18), libro con cui il giornalista Leonardo Bianchi raccoglie anni di studi e osservazioni di un fenomeno che, adottando una definizione ancora sperimentale ma urgente, viene chiamato «gentismo».

Bianchi parla di un tema globale, è impossibile non pensare alla vittoria di Donald Trump negli Stati Uniti. Ma nel paese che ha inventato la Lega e Berlusconi, questa storia assume caratteri peculiari. Il titolo rimanda direttamente a «La Casta», il mega-seller figlio di una campagna stampa messa in piedi anni fa dal Corriere della Sera. Secondo alcuni testimoni, il tutto era funzionale alla discesa in campo dell’ennesimo imprenditore da contrapporre ai «politici di professione». Come è noto, se ne avvantaggiarono Grillo e Casaleggio, che rimodularono la loro comunicazione sui temi degli sprechi della politica corrotta. Se già è difficile definire il concetto di populismo, non è affatto semplice cogliere l’essenza del gentismo. Obbligati ad una certa approssimazione, diremmo che se il populismo è la capacità di costruire un popolo sul quale poi esercitare sovranità, il gentismo è una sua variante. Muove i primi passi nelle piazze microfonate inventate da Michele Santoro ai tempi di Tangentopoli e poi traslocate nei preserali a tema unico (immigrati e rom) di Mediaset come dai comizi su YouTube di leader autoproclamatisi voce della «gente».

IL CAPO GENTISTA usa i media per dialogare col suo popolo, ma è al tempo stesso consapevole del fatto che il suo discorso è impossibile da disarticolare perché non ha, e non può avere, nessuna linearità. È una narrazione sincretistica e disarmonica, priva di ogni consequenzialità. Solo così, ad esempio, è possibile spiegare per quale motivo Yair Netanyahu, figlio del premier israeliano, abbia potuto diffondere via social la paccottiglia antisemita sul miliardario ebreo Soros come burattinaio occulto del mondo. O capire come, per tornare in Italia, ad un convegno sui beni comuni si sia finiti a discutere anche della bufala della Hazard Circular, una lettera tra banchieri scritta al tempo dell’abolizione della schiavitù negli Usa, che conterrebbe il disegno del governo della moneta come forma più sottile e subdola di sottomissione.

IL GENTISTA può infischiarsene delle contraddizioni, attinge dall’estrema destra e dall’estrema sinistra, si appiglia ai cardini del liberalismo e al tempo stesso sventola lo spettro di una qualche dittatura stalinista e/o nazista. Grazie alle micro-nicchie di cui è composto l’audience cui ogni gentista si rivolge, il suo argomentare sarà composto da brandelli di storie rimescolate alla bisogna. Siamo oltre le fake news: è lo spappolamento della verità. Il tema comporta due rischi, opposti e speculari, che Leonardo Bianchi evita con perizia. Da un lato, si potrebbe cedere alla tentazione di porsi su di un piedistallo, inarcare il sopracciglio e giudicare con scalpore lo sgrammaticare della «ggente». D’altro canto, c’è il pericolo parallelo di blandire questa parodia della rivoluzione. Questo secondo atteggiamento, a ben vedere, è ancora più elitario del primo, è animato dalla pretesa di indirizzare gli umori della gente dall’alto di una qualche posizione d’avanguardia, manovrando le leve della comunicazione e della tattica. Bianchi bada all’osso, come quando ripercorre l’origine del fantomatico Piano Kalergi, volto a sostituire le popolazioni occidentali con masse di schiavi meticci.

Fino a pochi anni fa argomento da neonazisti, oggi quel testo viene citato con piglio serioso dal sedicente marxista Diego Fusaro (vero filosofo del gentismo, apprezzato da xenofobi e indignati qualunque, ben introdotto nei salotti televisivi e pubblicato dalle grandi case editrici progressiste). Si sarà capito: questo non è un libro sul web o sulla comunicazione, contiene pagine scritte sull’asfalto rovente, che raccontano il tentativo neofascista di prendersi le periferie romane modulando il discorso gentista. Dulcis in fundo, documenta le tattiche gentiste sul web di certa comunicazione renziana. Ennesima prova del fatto che i primi gentisti non erano bizzarri agitatori ma pionieri esponenti di una nuova mutazione della politica dopo la fine della rappresentanza.

Se Pertini diventa un meme: come la Gente ha preso il potere. Nel suo libro "La gente" il giornalista Leonardo Bianchi ripercorre il decennio che ha cambiato il paradigma politico italiano, gli anni del Gentismo. Tra bufale online, piazze urlanti e la deformazione sistematica di eventi storici, così è nato un "movimento" che tiene assieme le carnevalate di piazza e (forse) il prossimo Presidente del Consiglio, scrive il 22 ottobre 2017 Dario Falcini su "Rollingstone.it". Ne ha viste, e documentate, di cose paradossali e difficilmente comprensibili negli ultimi anni Leonardo Bianchi. Come cronista, inviato di Vice e di Internazionale, ha girato le periferie in rivolta, ha seguito cortei contro la scienza e il buon senso, arato Facebook in cerca delle pagine che hanno cambiato per sempre, probabilmente non in meglio, il modo di fare comunicazione politica, ha incontrato complottisti e freak di ogni sorta. Eppure nemmeno lui poteva aspettarsi una recensione, seppur non dichiarata, da parte di Diego Fusaro, una sorta di bolla papale per il suo primo libro, La Gente. Viaggio nell’Italia del risentimento, pubblicato negli scorsi giorni da Minimum Fax. “Organica alla Destra liberista-finanziaria del Danaro, la Sinistra liberal-libertaria del Costume ha coniato una nuova categoria per demonizzare ogni anelito delle classi nazionali-popolari dei lavoratori: gentismo è la nuova etichetta con cui il pensiero unico politicamente corretto ostenta il suo disprezzo per la gente comune, per i lavoratori, per le masse nazionali-popolari”, ha scritto nelle scorse ore sulla sua pagina Facebook il filosofo che si autodefinisce marxista, la cui figura meriterebbe un’analisi a parte (non l’avesse già fatto qualcuno).

Il libro di Bianchi è un viaggio lungo le coordinate dello spazio e del tempo, nel tentativo di sezionare, problematizzare e restituire “il più capito possibile” quel movimento composito che in Italia, e non solo qui, nell’ultimo decennio ha portato alla ribalta fenomeni e pratiche politiche che un tempo sarebbero state derubricate a puro folklore. Lungo le 289 pagine sono ricostruiti i momenti di “gentismo” più clamorosi degli ultimi 10 anni. Da lì si passa per i Forconi e le loro rotonde occupate, attraverso le barricate contro i migranti di Gorino, nel ferrarese, per gli slogan Je Suis Stacchio e la gente in piazza per un benzinaio “sceriffo”, dalle periferie romane ai saluti romani, fino a scie chimiche e antivaccinisti. Gruppi disorganizzati, per molti versi improponibili, che sono riusciti a darsi una ragione di vita, e a raggiungere al cuore una vasta platea. Dalla piazza si passa alla Rete, detonatore capace di disintermediare ciò che prima doveva rimanere filtrato, e viceversa, da slogan sgrammaticati a post pure peggio. La rassegna shakera fenomeni da baraccone, carnevalate e nuovi mostri, ma accanto a loro, sotto la stessa ampia e ospitale definizione, trova posto anche un partito a vocazione maggioritaria, oppure Matteo Salvini e la sua Lega sovranista. Il gentismo è quasi sempre di destra, come le istanze di cui si fa portavoce, ma, versione più adatta ai tempi e al contesto di un termine ben più collaudato come “populismo”, non ne è immune il centrosinistra, come il libro racconta nel capitolo dedicato a Matteo Renzi e alle sua campagna per il Referendum costituzionale, così simile rispetto a quella dei rivali. Perché La Gente, pur con un costante ricorso all’arma dell’ironia, connaturata alla penna dell’autore e inevitabile visti alcuni dei soggetti della sceneggiatura, è anzitutto un lavoro reportagistico e sociologico. E ci racconta che gli schemi siano saltati, e le regole della politica con cui siamo cresciuti non valgano più. Perché ora vale tutto. 

Nei primi capitoli il libro presta non poca attenzione alla questione nominale: il primo termine che compare è Gentocrazia. Il concetto è formulato per la prima volta da Beppe Grillo nel corso di un’intervista al Corriere della Sera, in occasione di un suo spettacolo del 1992, in cui faceva intervenire telefonicamente della gente. Allora era un’idea dirompente: anche sul palco di un teatro saltavano molte delle intermediazioni tradizionali, e il pubblico interveniva direttamente. Il libro parte proprio da lì, perché, mentre Grillo faceva il suo show, avveniva un altro fatto, in un primo momento molto sottovalutato: l’arresto di Mario Chiesa, che avrebbe innescato Tangentopoli e il crollo di un sistema politico. I semi della nascita del Movimento 5 Stelle vanno ricercati in quei giorni di 25 anni fa.

Il termine gentismo è stato coniato qualche tempo dopo. Qual è la definizione che ne dai tu?

«Il gentismo è una forma particolare di populismo. Tengo come valida la definizione che dà la Treccani: un atteggiamento politico di calcolata condiscendenza verso interessi, desideri, richieste presuntivamente espressi dalla gente, considerata come un insieme vasto e, sotto il profilo sociologico, indistinto. Negli anni la definizione ha subito varie evoluzioni: Nadia Urbinati associa il gentismo al modo di fare politica dei 5 Stelle, altri lo connettono a chi sta su Internet e lo riempie di bufale. In ogni caso, nulla di particolarmente edificante. Nel libro dico ciò che secondo me rappresenta il concetto di “gente” oggi, lo problematizzo e cerco di raccontare come è cambiato. Non a caso ho chiamato il libro La Gente, e non La GGGente, o cose così, per prendere in giro chi usa i punti esclamativi a caso online e crede a ogni fregnaccia. Provo anche a fare un lavoro storiografico: ritorno agli anni ’90, dove si usa per la prima volta il lemma gente, affiancato a un soggetto politico. Fondamentale è un libro del 1995, La sinistra populista, a cura di Sergio Bianchi, in cui si ipotizza il superamento del concetto di popolo per quello, appunto, di gente, che emerge da una retorica sondaggistica e pubblicitaria, e si concentra sul consumo. In tal senso, si sostiene nel libro, la gente è un contenitore vuoto, in cui chiunque può metterci quello che gli pare».

Nel calderone finiscono per convivere delle macchiette senza alcuna credibilità e il potenziale prossimo Presidente del Consiglio. Come siamo arrivati a questo punto?

«Io ho fissato come anno zero l’uscita del libro La Casta, nel 2007. Lì, secondo me, è saltato tutto. Fatte queste premesse, è perfettamente logico che, da questa specie di magma che ribolle e sfugge da definizioni, possano emergere allo stesso tempo il leader dei Forconi e politici che vengono considerati la speranza per il Paese da milioni di elettori. Il paradigma della politica italiana è mutato irreversibilmente, e servono nuovi strumenti per comprenderlo. Di certo non bastano più le categorie spicciole e denigratorie con cui si è fino a questo momento analizzato un fenomeno come il Movimento 5 Stelle».

Che ha degli aspetti positivi?

«Non sono un loro sostenitore. Ma ritengo che abbiano portato a un certo grado di ripoliticizzazione della masse, la storia dirà se sia stata una cosa positiva oppure una degenerazione. Sono stati protagonisti di un fase di cambiamento, delicata, e con ogni probabilità centrale, della politica italiana».

Nella politica, è una regola, nulla si crea e nulla di distrugge. Prima dei gentisti odierni c’erano stati L’Uomo Qualunque e la maggioranza silenziosa, i missini più battaglieri e Umberto Bossi in canottiera.  Chi sono i padri nobili di questo “movimento”?

«Padri nobili in senso tradizionale non ce ne sono. Ma io faccio un nome: Sandro Pertini. Non quello reale, ma un Pertini immaginato, che vive nei meme, con il pugno alzato minaccioso e ripete all’infinito la frase apocrifa sul governo che va cacciato con le pietre, quando non fa ciò che vuole il popolo. Anche per questo il fenomeno risulta così difficile da leggere: perché non ha radici profonde nel passato, anzi spesso sfigura, deforma i fatti e i personaggi a proprio piacimento. Pertini era combattivo, tutto qua, portato ai tempi nostri è diventato il paladino della gente comune».

Un ruolo tutt’altro che irrilevante è giocato dai media. Qual è stato il contributo di format come Striscia la Notizia, Le Iene o Lo Zoo di 105nella gestazione del gentismo?

«Lo Zoo aveva rubrica che si chiamava Un vaffanculo a: nel 2009, in piena bufera anticasta, mandava affanculo tutto il concetto di rappresentanza, spesso con accenti xenofobi e di livello gretto, e dava perfettamente conto del clima culturale in cui si sguazzava allora, e che è riesploso dopo la caduta di Berlusconi, che aveva fatto un po’ da coperchio. Il terreno è stato senz’altro dissodato dallo Zoo, o dalle tirate contro i politici di Brignano in prima serata alle Iene. Fino al cortocircuito rappresentato Rajae Bezzaz, che a Striscia ha inaugurato una rubrica sui gentisti di casa nostra, in cui intervista Er Faina, Fede Rossi e simili. Ma quelle web star sono il prodotto culturale di un programma come quello di Ricci, tutto ciò è inquietante e affascinante allo stesso tempo».

A proposito di tv, è vero che Piero Pelù da Fazio ha messo in guardia contro le scie chimiche.

«Sì, è successo anche questo.

I complottisti meritano un capitolo del tuo libro. Come si diventa tale?

«Una volta, durante un convegno No Vax, un pediatra ha detto: “Noi non siamo complottisti, ma anticomplottisti, perché diciamo quello che gli altri non dicono: la verità”. Se entri nella loro testa, le cose si ribaltano. Tutti abbiamo dei pregiudizi e dei bias cognitivi, e le teorie del complotto sono utili a crearsi una realtà parallela, facile da capire e sempre a disposizione».

Facciamo “l’uovo e la gallina”. Chi viene prima tra la Rete e il gentismo?

«Internet è nato dopo il gentismo, un termine che, come detto, c’è dagli anni ‘90. Tutti quanti usiamo questo strumento, anche i gentisti. Da qui a dire che abbia determinato l’esplosione del fenomeno non sono d’accordo: sicuramente ha contribuito a diffonderlo, così come, però, diffonde le teorie contrarie e al gentismo».

Nel mondo reale, il fenomeno è composto da piazze urlanti che vanno dal Veneto al delta del Po, fino alle periferie romane. Tutti paiono avere un motivo per sentirsi emarginati e rivendicare dignità. È questo il tratto comune?

«Diciamo che il gentismo si declina in vari modi, e in vari territori. Nel libro porto esempi concreti. Il caso Stacchio, in tal senso, è scolastico, e può ricadere sotto il cappello del gentismo, perché, in quel caso, da un episodio cruento di cronaca, si è messo in moto un meccanismo politico inedito. In Veneto, talvolta, accade così. Perché la paura della criminalità è uno di sentimenti che più strutturano una comunità in questo momento storico, gli danno un senso. Secondo, da quelle parti, le rapine e i furti in casa non sono vissuti come un fatto che riguarda il singolo, ma come qualcosa che intacca lo stile di vita di una comunità. Così si crea una reazione potente che parte dal basso, su cui poi la politica si innesta. Gorino e i cortei delle periferie romane sono discorsi diversi, ma anche loro sono eventi che conquistano la ribalta nazionale, grazia alla paura e al mito della sicurezza».

Quello che mi ha sempre colpito è la sproporzione tra i ruoli (e le presunte colpe) di personaggi come Laura Boldrini o l’ex ministro Kyenge e l’odio che riescono a generare. O come fatti e temi inesistenti o minori, penso al cosiddetto Gender, siano diventati la Battaglia da combattere. Perché la gente ha così tanto bisogno di un nemico, e come li sceglie?

«I gentisti strutturano la propria identità in contrapposizione a un nemico, dividono tutto in buoni o cattivi. Per un razzista il male è la Kyenge, per una persona di destra o un sessista è la Boldrini, per un cattolico è l’“ideologia gender” (tra virgolette). Io nel libro cerco di capire come nascono certi flussi di odio. In questo ultimo caso racconto come un dispositivo politico creato dal Vaticano abbia deformato alcune teorie femministe e queer, per rivitalizzare un certo attivismo cattolico, che negli ultimi anni si era un po’ spento. Dal 2013 a oggi così abbiamo assistito alla rinascita dei vecchi movimenti antiabortisti, che hanno trovato una causa per lottare. Capire come si innescano simili meccanismi è decisivo».

La nuova politica italiana è in mano al "gentismo". Leonardo Bianchi ci parla di La Gente e del risentimento, tra scie chimiche e razzismo, scrive Federico Sardo il 12 ottobre 2017 su "Esquire.com". Prendiamo il movimento #9dicembre dei forconi, le barricate di Gorino contro 12 migranti, la storia di Graziano Stacchio, la battaglia no-gender, le proteste contro le scie chimiche… Sono tutti eventi legati da un filo rosso: una categoria politica sempre più maggioritaria, quella del "gentismo". Il gentismo è la tendenza al populismo complottista, all'odio per il diverso e a un certo grado di violenza. Un'aggressione che per ora è soprattutto verbale e telematica. «Il termine nasce già ai tempi di Mani Pulite. Rimane comunque di difficile definizione, perché vive su più dimensioni: in quella politica, sulla strada, nelle periferie; nei piccoli centri urbani e ovviamente su Internet». A spiegarci meglio questa Italia è Leonardo Bianchi, cronista che da anni racconta le più improbabili (o significative) manifestazioni in strada, pubblica con Minimum Fax il suo primo libro, La Gente, sottotitolo Viaggio nell'Italia del risentimento.

Iniziamo con qualcosa di apparentemente facile: chi è la gente?

«Nel titolo e nel libro uso il termine Gente, in maiuscolo, perché lo identifico in un “nuovo” soggetto politico che nel corso della Seconda Repubblica è diventato sempre più il centro e la risorsa da contendersi nell’agone politico. Già ai tempi della discesa in campo Silvio Berlusconi si rivolgeva alla “gente” e non più al “popolo”. Berlusconi stesso parlava in quello che è stato chiamato “gentese”. Mi rifaccio alle tesi contenute in un raccolta di saggi del 1995, chiamata La sinistra populista. Un autore riteneva che la Gente fosse l’evoluzione del vecchio “popolo,” venuta fuori dalla retorica “sondaggistico-pubblicitaria” e caratterizzata dal consumo “anche e soprattutto di in-formazione, di cultura (in senso lato), di politica”. Un altro ancora che la Gente fosse un “contenitore vuoto” da riempire a piacimento. Mi sembra che ancora adesso – aggiornandolo un attimo – siano definizioni di Gente che reggono».

La sinistra storicamente ha sempre considerato il popolo come puro e semmai corrotto dall'alto. Pensi che la gente abbia delle colpe o sia principalmente vittima?

Parlare di colpe non credo sia possibile, anche perché parliamo di un insieme indistinto. Quello che cerco di fare nel libro è capire come la politica riempie e si serve di questo “contenitore vuoto”, e dall'altro come agiscono le persone che si riconoscono (magari solo implicitamente) nel soggetto politico Gente».

Forse uno dei caratteri che possono riassumere molto di tutto questo è "la paura del diverso".

«Il tema della paura del diverso innerva un po’ tutto il libro, e in alcuni capitoli mi concentro sia su manifestazioni di aperta xenofobia che sul “culto del territorio”, un attaccamento roccioso che non ammette contaminazioni. La questione è molto complicata e va scomposta con il massimo rigore: nel caso di Gorino, la reazione di una parte (e sottolineo una parte) del paesino è stata sicuramente determinata da una pessima gestione a livello amministrativo, con un atto d’imperio della prefettura dettato dalla cronica situazione emergenziale in cui versa il sistema d’accoglienza in Italia. In questa situazione critica si è aperto uno spazio per la xenofobia e la strumentalizzazione politica, subito riempito e sfruttato dalla Lega Nord locale e nazionale, e a cascata da tutti gli altri partiti di destra».

Come pensi che si possa migliorare questa situazione? Esiste un modo perché la gente superi questo tipo di atteggiamento?

«A Tiburtino III, un quartiere di Roma dove c’è un presidio umanitario gestito dalla Croce Rossa, da parecchio tempo formazioni di estrema destra si trincerano dietro presunti comitati di quartiere e soffiano sul fuoco. La notte dello scorso 30 agosto questo clima di tensione è culminato in una specie di assedio, causato dalla presunta aggressione di un migrante a un gruppo di bambini e dal presunto sequestro di una donna. In realtà, come hanno rilevato le indagini, la donna non solo si era inventata tutto, ma era stata lei ad aggredire e ferire per prima il migrante. Contestualmente alla svolta investigativa è arrivata la reazione decisa da parte dei genitori dei bambini iscritti all'asilo e alla scuola adiacenti al centro d’accoglienza, che in una lettera hanno fatto a pezzi la propaganda dei partiti neofascisti, scrivendo che “il Tiburtino III ha, da anni, tanti problemi, ma i migranti non ci hanno mai procurato nessun fastidio”. Un modo di superare questo atteggiamento escludente, dunque, esiste già; è ad esso che va dato più spazio».

Credo che ci sia in ballo, in questo risentimento che sta anche nel sottotitolo del libro, una tendenza molto italiana a volersi sempre autoassolvere e a dare la colpa delle nostre miserie, dei nostri fallimenti e della nostra invidia agli altri, e mai a noi stessi. “Non è colpa mia se non trovo lavoro ma degli immigrati che me lo rubano, di un sistema assistenziale che favorisce altri invece che me, delle caste dalle quali sono escluso”. Cosa ne pensi?

Quella tendenza di cui parli sicuramente esiste. Prendiamo il discorso sulla Casta: alla denuncia di malefatte e privilegi ormai insopportabili non è seguita una presa di coscienza da parte della politica. Anzi, per non farsi travolgere dalla marea di indignazione sollevatasi dal 2007 a oggi, anche i partiti politici si sono messi a denunciare la Casta. A quel punto si sono rotti tutti gli argini: un frame che addossa qualsiasi responsabilità agli altri è destinato a funzionare, proprio perché divide la realtà in maniera manichea, tra noi e loro, tra Gente e Casta. Ma allo stesso tempo è un’arma a doppio taglio. Nel 2017 la retorica sulla Casta – o sulle caste – non ha più nulla di costruttivo, ma solo di distruttivo. E anche chi l’ha sfruttato più di ogni altro, ossia il MoVimento 5 Stelle, può rimanerne travolto. Non a caso, due giorni fa persino Alessandro Di Battista si è preso dell’abusivo da alcuni manifestanti sotto Montecitorio».

Allo stesso tempo però questo non porta a un miglioramento personale, ma soltanto all'invidia per chi è più fortunato di noi, per chi ha dei privilegi che io non ho, e che ucciderei per avere. Il rischio quindi è quello di trovarci ad avere una classe politica senza competenze, senza esperienza, con l'unico valore di non essersi ancora fatta corrompere ma pronta a farlo alla prima occasione?

«Una classe politica senza competenze e (per ora) senza esperienza c’è già, ed è stata eletta proprio per queste sue caratteristiche. Il punto è che era inevitabile che subentrasse: la classe politica con le competenze e l’esperienza è la stessa che ha fatto danni incalcolabili, e che è stata incapace di dare risposte convincenti alle varie crisi che si sono susseguite negli ultimi vent’anni. Basta pensa-re alla spettacolare parabola discendente di Mario Monti, che da professore ieratico e iper-competente si è ritrovato a reggere cagnolini in diretta televisiva. Era un’operazione falsa e non credibile, ed in quanto tale è stata punita alle urne».

La gente non crede nella politica, nei partiti, non crede ai giornali, non crede nella Chiesa, al Presidente della Repubblica, non crede nelle lotte, non crede nel sociale, non crede alle Ong, non crede alla beneficenza... Secondo te c'è qualche istituzione che ancora non ha perso ogni rispettabilità? O la gente è solo eternamente in attesa di un uomo forte che dica "fanno tutti schifo, ci penserò io a risolvere tutto"?

«Se si vanno a vedere gli ultimi sondaggi, le istituzioni che riscuotono il maggior grado di apprezzamento sono sempre le forze armate e le forze dell’ordine. Il crollo inesorabile di fiducia colpisce – ormai da decenni – i partiti e i giornali, e per molte valide ragioni. Sui primi non penso ci sia molto da discutere, mentre sui secondi basta aprire qualsiasi homepage per rendersene conto. In un capitolo mi soffermo sulle proteste nel dicembre 2013 del movimento #9dicembre (all’epoca impropriamente definito “dei Forconi”), perché secondo me ha evidenziato – ovviamente in maniera discutibile, disorganizzata, e a tratti inquietante, come la sfiducia cronica non si traduca necessariamente nell’apatia, ma riesca a mobilitare persone che si auto-organizzano spontaneamente. Tutta quella protesta, liquidata a mio avviso troppo facilmente, era un modo piuttosto sgangherato per tornare ad avere voce in capitolo, per contare qualcosa. Si può anche leggere come la disperata necessità di avere una rappresentanza politica – che non necessariamente arriva con l’uomo forte – e un’adeguata rappresentazione mediatica».

Di solito chi dice di non essere né di destra né di sinistra è di destra. Questo vale anche per il gentismo, che fa dell'antipolitica uno dei suoi punti di forza? Nell'ultimo capitolo però tratti di questa inquietante novità che è il gentismo renziano.

«Nel libro che ho citato prima si dice che il gentismo è “patrimonio comune della destra e della si-nistra”. Dunque, no, il gentismo non è un fenomeno esclusivamente di destra. Certo, alcune sue espressioni sono di destra, a volte anche estrema; ma molto dipende da come viene maneggiato e assorbito, e da chi si fa portatore di alcune istanze. Una politologa importante come Nadia Urbinati lo associa in via quasi esclusiva al M5S, parlando di un “indistinto gentismo” che è “insieme il popolo e l’ideologia del M5S” e si estrinseca nella “reazione dei cittadini ordinari contro coloro che svolgono una funziona di direzione politica”. Per Urbinati, e pure per me, è qui che risiede una delle chiavi del successo del MoVimento. Quello renziano, invece, è da un lato un grottesco tentativo (sempre e comunque “ufficioso”) di replicare lo stile retorico dei Cinque Stelle, e dall'altro un vero e proprio cedimento culturale spacciato per necessità di rincorrere gli avversari sul loro terreno. Non ha funzionato durante la campagna per il referendum, non ha funzionato dopo (vedi il fotomontaggio con Renzi e Totti), e continua a non funzionare adesso. Anzi, viene osteggiato persino da renziani del calibro di Matteo Richetti. Internet avrebbe dovuto aiutarci a diventare più informati, invece sembra che stia avvenendo il contrario. Se prima comunque le fonti da cui ci si informava avevano un minimo di controllo di qualità e uno standard minimo, ora esistono le famose fake news, le bufale, e un sacco di monnezza nella testa della gente».

Come si può fare per arginare questa tendenza? Siamo destinati a vedere il trionfo di semplificazioni inadatte a interpretare una realtà complessa?

«Non credo che siamo meno informati, né tantomeno che in un ipotetico “prima” le fonti avessero un controllo di qualità o uno standard minimo. Per quanto riguarda le cosiddette “fake news”, be’, le notizie false e le bufale sono sempre esistite. Se ne parla ora, e in questi termini, per un semplice motivo: la vittoria di Donald Trump. Secondo me il dibattito è stato impostato malissimo dalla stampa liberal statunitense, ed è stato digerito ancora peggio in Italia – con tanto di imbarazzanti proposte di legge che hanno il sapore di una censura indiscriminata. Una ricerca dell’università di Stanford sostiene che Trump “sarebbe presidente anche in un mondo senza fake news”, mentre una della Columbia Journalism Review afferma che una spinta determinante al successo sia venuta dalla vecchia televisione (su tutti Fox News) e da media molto connotati politicamente come Breitbart, che sono riusciti a imporre la propria narrativa e la propria agenda al resto dei media. Insomma: non sono stati gli adolescenti macedoni di cui tanto si è parlato a far vincere Trump. Se ci spostiamo sull’Italia, per me è indicativo analizzare come operano i cosiddetti siti bufalari. La loro strategia editoriale, chiamiamola così, è semplicissima: prendono notizie già uscite sui media, soprattutto di destra, e ci mettono un titolo un attimo più truculento di quello originale. Capisci che qui si pone un grosso problema: se voglio arginare il fenomeno, devo andare a colpire la fonte o chi si limita a riprendere quei contenuti? Paradossalmente dovrei chiudere le edicole per evitare di vedere certi titoli, ed è una follia. Quello che serve invece è più giornalismo, più qualità, più educazione e più verifica delle fonti: una verifica che in primis devono fare i giornalisti, e in secondo luogo gli utenti».

Penso che uno degli esempi più clamorosi di tutto questo, forse meritevole anche di un libro a se stante, sia la questione del gender. Oltre all'esilarante fatto che "essere contro il gender" significa esattamente il contrario di quello che queste persone pensano, secondo te perché è stata creata un'emergenza che di fatto non esiste assolutamente? Facendo anch'io un po' il complottista ti chiedo: chi ci guadagna da questa battaglia? O è solo il corso randomico dell'idiozia?

Dal libro si apprende che molte associazioni e organizzazioni che combattono quella lotta hanno legami con l'estrema destra. Sarebbe molto comodo squalificare tutta l’isteria sull’ideologia gender come un’idiozia o una stramberia. Purtroppo non è così, e va presa molto sul serio. Si tratta infatti di un’arma politica costruita a tavolino dal Vaticano a cavallo tra gli anni ’90 e i primi del 2000. Deformando e demonizzando le teorie femministe e queer, il Vaticano e i suoi “esperti” hanno dato nuova linfa ai movimenti anti-abortisti e cattolici che erano un po’ in difficoltà, e soprattutto hanno creato una nuova categoria di mobilitazione politica. A partire dal 2013 abbiamo visto come questa ideologia gender sia penetrata con forza nel dibattito pubblico, e di come la politica – dall'estrema destra al centro – ne abbia scorto le potenzialità. Temo che ci porteremo dietro la teoria del gender ancora a lungo, perché per il mondo cattolico e reazionario è un Nemico davvero troppo comodo per rinunciarvi».

C'è un futuro per l'Italia? Sei in fondo ottimista o siamo destinati a morire di peste sotto un governo di sciachimicari, antivaccinisti e gente che toglie le panchine per non fare sedere gli immigrati?

«Un mio amico dice sempre che tra qualche anno Mario Draghi finirà a capeggiare un governo di tecnici con mandato illimitato. Comincio a pensare che finirà davvero così (e che non conosceremo mai CHI STA AVVELENANDO I NOSTRI CIELI!1). A parte gli scherzi, davvero non so quale possa essere il futuro dell’Italia. E non da qui a cinque anni, ma da qui a cinque mesi. Sono abbastanza sicuro che la prossima campagna elettorale sarà di un livello davvero infimo, e che dalle elezioni molto probabilmente non uscirà un governo – oppure uscirà un altro pastrocchio tenuto in piedi da 5219 partiti».

Come è possibile che la sinistra, in un momento di disuguaglianza sociale incredibile, e in cui i sistemi che governano il mondo mostrano sempre più i loro limiti, sia invece in una crisi profondissima? È perché la Gente di cui parliamo, fondamentalmente egoista, non riesce a vedere i propri problemi come parte di un discorso collettivo? O è per colpa della sinistra stessa e di quello che (non) ha fatto, o di suoi limiti strutturali?

«Non necessariamente la Gente è egoista, anzi. In una storia che analizzo nel libro, il caso del benzinaio Graziano Stacchio, le comunità locali hanno fatto eccome un discorso collettivo. E questo perché la paura della criminalità – unitamente alla richiesta di sicurezza – è un formidabile collante comunitario, specialmente in territori come il Veneto. Più in generale, e qui provo a risponderti sull’angosciosa e infinita questione crisi-della-sinistra, è un tema su cui la sinistra e il centrosinistra – almeno quelli istituzionali – continuano a sbandare vistosamente: prima disinteressandosene, e poi ricopiando le peggiori strategie della destra (non solo italiana) in materia, nell’illusione di recuperare il terreno perduto. Tornando indietro di dieci anni troviamo il decreto del governo Prodi contro i romeni (dopo l’omicidio Reggiani), il sindaco di Padova che tira su un “muro” attorno a un ghetto, e Cofferati che a Bologna aziona ruspe a tutto spiano. Oggi, l’epigono di questo atteggiamento è senza alcun dubbio il ministro dell’Interno Marco Minniti. Il quale ha ragione quando dice che la paura sarà “il tema cruciale dei prossimi dieci anni, un nodo cruciale per la vita democratica del paese”; se poi però fai decreti che sembrano scritti dalla Lega Nord, non ti puoi stupire più di tanto che gli elettori alla fine preferiscano l’originale».

Caporetto l’emblema degli italiani pavidi. I fanti di Caporetto, martiri vilipesi. Nella battaglia di Caporetto furono gli ufficiali a sbagliare, eppure i soldati italiani vennero definiti traditori della patria, scrive di Gian Antonio Stella il 24 ottobre 2017 su "Il Corriere della Sera". «Gentile signora, ancora una volta la suadente Nike ci ha baciato in fronte! Ancora una volta la tracotanza nemica è doma! Sotto un cielo apocalittico siamo stati attori di gesta fantastiche e la morte ci ha sfiorati le mille e mille volte senza toccarci! Oh, che importano gli inenarrabili sacrifici, se di novelle fronde di gloria virideggia il sarto della Gran Madre Patria, dell’Italia nostra? Le bacio la mano. Gian Galeazzo».Poche parole spiegano cosa fu la guerra di cento anni fa quanto un’amarissima vignetta con quattro immagini del libro «La guerra è bella ma scomoda» illustrato da quel genio di Beppo Novello e scritto da Paolo Monelli. Nella prima il tronfio ufficiale nel calduccio dell’ufficio si pavoneggia scrivendo all’amata della morte che «ci ha sfiorati le mille e mille volte»… Nella seconda un alpino esausto scrive alla moglie poche parole stanche: «Cara Teresa, vengo con questa mia per dirti che sto bene come spero di te. Ho ricevuto il farsetto a maglia. Sta tranquilla. Tonio». Nella terza il fante, sotto le granate che scoppiano, può vergare solo un paio di parole per dire che è vivo: «Vostro Cesare». Nella quarta c’è un soldatino morto, le scarpe al sole. E una pagina bianca. Viene in mente l’infame bollettino di Cadorna dopo Caporetto che scaricava la disfatta sui soldatini: «La mancata resistenza di reparti della 2ª Armata, vilmente ritiratisi senza combattere…» Falso. Lo scriverà lo stesso Erwin Rommel: «Al reparto italiano venne a mancare un’azione di comando energica e conscia dei propri obiettivi». Sbagliarono gli ufficiali. Quei fanti in rotta, però, ricorda nel ‘21 un giovane medico, Filippo Petroselli, le cui memorie («Ospedale da campo», sono state pubblicate da Rubbettino a cura di Gianni Scipione Rossi, sono dei martiri. Eppure, «macinati per ventisei mesi dal destino e dagli uomini, sono additati al vilipendio della nazione e costretti a girar per le strade con le scritte a tracolla: «traditori della patria». Era furente, Petroselli: «Non dite che il soldato italiano ha tradito. No! Silenzio, turpe gazzarra di pescecani, imboscati, vigliacchi, eroi del caffè, meccanici a ottanta lire al giorno, vecchi rimbambiti, ruffiani e puttane arricchite. Tacete, grugniti, attorno al nome santo del fante d’Italia. Ricordate che egli tutto ha dato e non ha fatto che soffrire e morire. Era comodo impinguar la borsa senza fatica e senza pericolo. Era comoda la vostra vita di guerra, la professione del patriottardo e gridar: “Resistere! Resistere!” davanti ad un cappone fumante, la stufa accesa e la mantenuta al fianco…».

Com'è oggi Caporetto dove vinse la retorica. Viaggio nella cittadina slovena: un luogo della storia, del linguaggio e dell'identità. Un secolo dopo resta simbolo di un'infamia inesistente, scrive Stenio Solinas, Domenica 08/02/2015 su "Il Giornale". In sloveno si chiama Kobarid, in tedesco si chiamava Karfreit. Per gli italiani resta Caporetto, un simbolo più che un nome, un non luogo che raccoglie e condensa tutti i luoghi, anche i luoghi comuni. Il caporettismo come infezione morale, l'Italia caporetta come un fiume carsico che periodicamente riaffiora, si gonfia e rompe gli argini. «Un villaggio bianco con un campanile in una valle. Era un villaggio pulito e c'era una bella fontana nella piazza» è la descrizione che ne diede Ernest Hemingway in Addio alle armi e da allora non è che sia cambiato molto, una volta messe da parte le miserie architettoniche della modernità: una pizzeria che sembra la sala d'aspetto di una stazione, un albergo che assomiglia a un refettorio. La piazza è sempre lì, così come la chiesa, anche se il campanile ha ora una punta a bulbo, c'è in più una statua in bronzo, brutta, che potrebbe rappresentare un prete, un papa, un monito di pace. Se le dai le spalle e sali sulla sinistra, in pochi minuti arrivi sul colle di Sant'Antonio lungo una strada scandita dalle dodici stazioni della Via Crucis. Conduce all'omonimo Sacrario costruito intorno alla chiesetta che dà il nome al colle: è a forma di ottagono con tre cerchie concentriche digradanti verso la sommità. Su lastre di serpentino color verde sono incisi i nomi dei caduti, dietro grandi lastroni sono raccolti i resti di quelli ignoti. In totale sono 7014, prelevati dai locali cimiteri militari della Grande guerra, poco più di una goccia in un oceano di morti: più di seicentomila. Il solo rumore che turba la pace di quei poveri resti è quello dell'aspiratore con cui un operaio libera stancamente i tre ottagoni dal manto di foglie che vi si ammassano. Un furgone delle poste slovene, con la silhouette di una tromba e di una scarpa da ginnastica come insegna, è parcheggiato in totale solitudine alla base del sacrario. Sono l'unico visitatore. Dalla sommità vedi allungarsi il cosiddetto «itinerario storico di Caporetto», cinque chilometri lungo le tre linee di difesa italiane, trincee, camminamenti, fortini, caverne, rifugi, posti d'osservazione e nidi di mitragliatrici di cui oggi sopravvivono sparsi frammenti riportati alla luce e trasformati in musei all'aperto. Il resto, tutto il resto, se l'è ripreso la terra, la natura, ricoprendo, demolendo, invadendo. In una giornata di pallida nebbia e di sole giallo, a fare da contrasto con lo scuro massiccio montuoso che ti circonda è la lama verde ghiaccio dell'Isonzo che ti scorre sotto gli occhi scendendo fra i tonfani disseminati nel suo letto. La fine del suo corso superiore è quel ponte settecentesco che vedi sulla destra, su cui passarono le truppe di Napoleone e da cui allora prese il nome. Nel 1915, il giorno dopo la dichiarazione di guerra, gli austriaci in ritirata lo fecero saltare in aria. Gli italiani lo rifecero prima in legno, poi in ferro e una foto del 1916 ne mostra ancora i superstiti pilastri di pietra sulla sponda di sinistra. Risalendo l'Isonzo verso Trnovo c'è invece, rimessa ad hoc per l'itinerario, la passerella di 52 metri che costruimmo per collegare le due rive e su cui correva la terza linea difensiva. L'Isonzo adesso è l'infernale paradiso dei canoisti.

Caporetto è a valle della catena montuosa del Colovrat, all'incrocio tra l'Isonzo e la pianura friulana. Nel 1917 era l'importante collegamento tra l'esercito italiano, il IV corpo d'Armata lì trincerato e l'interno del Paese. Saga, Picco, Dresenza, per fare solo tre nomi erano fra i comandi divisionali dei paesi limitrofi e per tutto l'apparato accessorio annidato in regione, genio, sanità, sussistenza, riserva. Ecco perché sfondare lì era così importante per tedeschi e austro-ungarici, fu così disastroso per noi. Quattromila abitanti, in primavera e in estate Caporetto è un punto di partenza escursionistico per gli sloveni. Da qui si va a visitare le cascate di Kozjak, a nuotare o in kayak nel fiume Nadiza, che altro non è che il nostro Natisone, ci si arrampica sul Kolovrat, si fa parapendio. Il Circolo gastronomico di Kobarid annovera un paio di ristoranti di buon livello, la carenza alberghiera è supplita da una robusta rete di camere private. Dalla piazza principale al Museo di Caporetto ci sono poche centinaia di metri. È una casa bianca a due piani che durante la guerra gli italiani adibirono a comando con annesso tribunale militare. C'è la sala con il plastico del massiccio del Monte Nero, quella con il plastico dell'Alta Valle dell'Isonzo, la sala dello sfondamento, quella delle retrovie, la sala bianca dedicata ai due inverni più rigidi della guerra, il 1916 e il 1917, il freddo, la neve, le valanghe, quando oltre a combattersi fra loro i soldati avevano la natura per nemica. In totale ci sono una cinquantina di carte militari, schizzi e documenti dei comandi, 500 fotografie e un migliaio fra armi, attrezzi, uniformi, medaglie e oggetti-ricordo. Dal Museo al Ponte napoleonico, a piedi c'è un quarto d'ora e tutta Caporetto sta in un chilometro quadrato o poco più. Eppure, ancora un secolo dopo quel nome continua a risuonare, sinonimo di crisi morale, di inaffidabilità, se non di codardia. E a nulla vale ricordare che nella Grande guerra, dalla battaglia di Gorlice-Tarnow del 1915, alla offensiva del generale Nivelle del 1917, alla Somme e allo Chemin des Dames del 1918, gli alleati francesi, inglesi e russi subirono disastri militari più terribili della ritirata di Caporetto sia per perdite di territorio, che di uomini e mezzi. Non serve, di Caporetto ce n'è una sola, ed è la nostra.

Cominciò tutto con Cadorna e il suo infame bollettino di guerra in cui parlava «di reparti della 2° Armata vilmente ritiratasi senza combattere o ignominiosamente arresisi al nemico», un'interpretazione che aveva per corollario il tradimento e/o la ribellione, lo «sciopero militare» coniato dai socialisti o la cosiddetta «rivolta dei santi maledetti» coniata da Malaparte. Invece di un'analisi militare si preferì la retorica politico-sociale, grazie alla quale non si riusciva però a capire perché quello stesso esercito si fosse battuto bene prima, si sarebbe battuto altrettanto bene due mesi dopo. Restò fuori la nuova strategia elastica dell'attacco austro-tedesco, la superbia autoritaria e la pigrizia intellettuale delle alte gerarchie militari italiane, il mancato addestramento a combattere una guerra difensiva dopo 29 mesi di reiterate e sanguinose offensive. In compenso fioccarono i memoriali e i contro-memoriali, le commissioni d'inchiesta pilotate, i silenzi colpevoli, l'accettazione di un facile, perché indistinto, capro espiatorio, il soldato italiano, quello stesso però che avrebbe poi vinto la guerra... In un bel libro uscito un paio d'anni fa, La verità su Caporetto, lo storico Paolo Gaspari ha ricostruito per la prima volta tutte le fasi della battaglia, illustrandole con schizzi, foto e planimetrie a colori. «Snobbando l'histoire bataille di Caporetto - spiega - la storiografia italiana ha causato la mancata trasmissione della realtà dei fatti accaduta quel 24 ottobre 1917, e il radicamento di una verbosa valutazione politica, con effetti nefasti sulla coscienza di sé di un popolo e, quello che più conta, sulla sua fierezza». «È stato bene?» mi chiede l'affittacamere il giorno della mia partenza. «Benissimo e il Museo è molto bello». «Sì, e ha comprato il nostro Tolminc?» «Cos'è?» «La specialità più famosa di Kobarid». «La vendono al Museo di Caporetto?» «Ah, scusi, pensavo parlasse del Museo del formaggio».

La falsa necessità di Caporetto. Il 24 ottobre 1917 cominciò la battaglia di Caporetto, nella quale l'esercito italiano e il paese sfiorarono l'invasione e l'irreparabile. Come pensare a Caporetto oggi? Scrive Paolo Malaguti il 19 ottobre 2017 su "Il Sussidiario". (Paolo Malaguti è autore del romanzo "Prima dell'alba", Neri Pozza, 2017). La complessa serie di eventi iniziata la notte del 24 ottobre 1917, che chiamiamo "rotta di Caporetto", ancora a distanza di un secolo registra discrepanze interpretative tra storici e appassionati. Fu merito degli austrotedeschi o demerito degli italiani? Se fu merito dei primi, cosa contò di più? Le nuove armi impiegate? Le nuove tattiche di bombardamento, o di impiego di reparti d'assalto? O ancora l'impiego di carte topografiche di nuova generazione, dettagliatissime? E se invece fu demerito degli italiani, su chi ricade la colpa? Aveva ragione Cadorna, si trattò di reparti che "vilmente" si ritirarono o "ignominiosamente" si arresero? O la responsabilità va cercata nei comandi stessi, incapaci di comunicare tra di loro, restii a credere nell'eventualità di una grande offensiva "fuori stagione"? Questa mancanza di una verità chiara e condivisa sembra ancora oggi denotare, almeno nella coscienza storica italiana, una difficoltà nel gestire il portato emotivo del "disastro" per antonomasia. Ciò che invece da lì in poi si muove, fino al 4 novembre 1918, sembra illuminato da una luce più uniforme, che dona agli eventi prospettive ovviamente ancora complesse da manipolare, ma in qualche modo più solide, più affidabili. E quindi da Caporetto si muove il riscatto dell'esercito italiano; non solo, da lì si muove il riscatto degli italiani stessi, che fino a quel momento, nello stillicidio delle spallate sanguinose sull'Isonzo, parevano aver tollerato la guerra, e che invece adesso, schierati sull'ultima trincea utile prima della grande pianura, prima di Treviso, Padova, Venezia e Vicenza, si riscoprono uniti, si riscoprono nazione nella necessità della difesa dall'invasore, arrivato alle porte e più che mai incombente sulla patria. Da lì si muove il mito dei ragazzi del '99, i giovanissimi chiamati all'estremo sacrificio, quasi a purificare nel sangue le colpe e gli errori degli altri, quelli di prima, che non erano stati capaci di arrivare alla vittoria e che anzi si erano sbandati, dandosi alla macchia o cadendo prigionieri. Siamo nel campo della pura retorica, stiamo rievocando miti polverosi di sabauda memoria? Non credo: più di qualche volta ho sentito, in occasione dei frequenti "recuperi all'ultimo minuto" della nazionale calcistica, qualche cronista rievocare l'abitudine italiana a tirare fuori il valore proprio quando suona l'ultima campana, quando o la va o la spacca. Ancora il mito di Caporetto sembra fare capolino dietro alle qualificazioni ai mondiali…E ancora: tante e tante volte ho sentito bande e cori intonare i canti del "dopo Caporetto", da "Monte Grappa tu sei la mia patria" alla ben più celebre "Leggenda del Piave", fino a non troppi anni fa insegnata a memoria nelle elementari di tutta la penisola. Il Grappa, nelle note della canzone, è un "cotal baluardo affidato agli italici cor", le sue cime furono "sempre vietate per il piè dell'odiato straniero". E ovviamente tutti sanno che il Piave, più e prima di ogni altra cosa, mormora: "Non passa lo straniero"! Interessante osservare che i due testi musicali probabilmente più rappresentativi della Grande Guerra presuppongano, come scenario di riferimento, quello post-Caporetto, quasi che la guerra precedente perda consistenza e rilievo di fronte al mito del riscatto e della vendetta dopo il rischio della sconfitta. C'è poco da fare: l'Italia da sempre ha una gran fame di miti collettivi. Vista la sua recentissima e non facile storia nazionale, fu da subito necessario fare tesoro di simboli laici e nazionali attorno ai quali riconoscersi. Da qui Garibaldi e Mazzini. Da qui, dopo il fascismo, la consacrazione formale della Resistenza come nuovo crogiuolo nel quale gli italiani sembrano rinascere a nuovi valori. La Resistenza in qualche modo fu il salvifico contraltare, repubblicano e democratico, a una guerra, la seconda, difficile da ricordare perché nata in un'Italia fascista e monarchica, e difficile da gestire per il suo esito negativo. Ecco quindi che "l'altra guerra", e in particolare il meccanismo catartico di Caporetto, che fa sfiorare la tragedia per poi abbracciare la vittoria luminosa, non è facile da archiviare, e continua a costituire un nodo retorico, affettivo e perché no, ideologico, che evidentemente rende la memoria e l'analisi storica difficile e scivolosa. Eppure proprio in occasione del Centenario avremmo più che mai bisogno di evitare la retorica per abbracciare l'analisi storica, per ridare giustizia e oggettività a Caporetto, e da lì all'intero conflitto.

Come si fa? Come scrostare la retorica quando ne siamo fisicamente circondati e culturalmente intrisi? Se ogni città d'Italia ha la sua brava Via Monte Grappa, il suo Largo Cadorna, il suo monumento ai caduti che, cogliendo l'occasione della doverosa memoria per i morti, lancia il suo monito, 9 volte su 10 cronologicamente fascista, sulla bellezza della morte per la patria, sull'onore eterno, sulla gloria imperitura? Come si fa se, come il Peppone di Guareschi, all'udire la Canzone del Piave mandiamo a ramengo le nostre convinzioni e i nostri ideali, e ripartiamo da lì, da Caporetto e dall'invasore? C'è chi non esita ad affermare che la strada da percorrere sia quella di una sostanziale censura storica. Togliere i Cadorna dalle vie, non insegnare canzoni che parlano di sangue, nemici e sacri confini. Non credo che sia la strada migliore, non pedagogicamente almeno. Eliminare una memoria, per quanto questa memoria sia scomoda o deformata, è sempre rischioso. Si sostituisce un pieno con un vuoto, mai facile da riempire, e poi i nostri studenti sono già circondati da troppi vuoti. Personalmente sono molto contento quando, camminando in montagna, mi imbatto in qualche contrada sperduta che mostra su qualche muro una scritta del ventennio fascista, sbiadita e difficilmente leggibile. "Molti nemici molto onore". "Oggi balilla, domani legionari". Sono contento perché trovo quelle scritte "utili", anzi, "educative". Perché parlano della nostra storia. Perché mostrano cos'era quell'Italia. E quindi mi possono servire in tanti modi, ad esempio per comprendere quale fosse la retorica usata, e meditare sul peso pericoloso della propaganda, o per dare più valore ai principi di democrazia, pace e uguaglianza su cui oggi si regge l'Italia. Sono in qualche modo come armi in un museo, non più pericolose perché, almeno in teoria, disinnescate da anticorpi ormai consolidati nel nostro paese, ma ancora utili per capire la realtà. Lo stesso dicasi della retorica della Grande Guerra. Se la eliminiamo prendiamo atto della nostra vulnerabilità nei confronti dei suoi dis-valori, e al contempo condanniamo le future generazioni a un pericoloso oblio. Piuttosto che censurarle, preferirei disinnescarle, affiancandole a un'altra retorica, ad altri miti nazionali, nuovi, inediti e senz'altro difficili da costruire, al punto che per alcuni questi obiettivi sono utopici. Iniziamo a dedicare le strade e i monumenti, oltre che a Cadorna e a Diaz, al milione di profughi civili causati da Caporetto. Ai soldati fucilati ingiustamente. Ai disubbidienti alla follia di un ordine. Ai matti di guerra. Ai prigionieri austriaci morti nei nostri campi. Costruiamo, attorno a Caporetto, una memoria davvero completa e davvero condivisa. Anche con le canzoni: continuiamo pure a insegnare "La leggenda del Piave", ma iniziamo a insegnare una tra le tante canzoni censurate e dimenticate, per esempio "Gorizia tu sei maledetta". Ancora nel 1964 al Festival dei due mondi di Spoleto pare che i cantanti che la intonarono siano stati denunciati per vilipendio delle forze armate… Forse adesso i tempi sono maturi per un paese che, almeno sulla Grande Guerra, proceda senza timori in una memoria senza censure?

La mattina del cinque di agosto,

Si muovevano le truppe italiane

Per Gorizia, le terre lontane.

E dolente ognun si parti.

Sotto l'acqua che cadeva al rovescio,

Grandinavano le palle nemiche;

Su quei monti, colline e gran valli,

Si moriva dicendo così:

O Gorizia, tu sei maledetta,

Per ogni cuore che sente coscienza;

Dolorosa ci fu la partenza

E il ritorno per molti non fu.

O vigliacchi che voi ve ne state,

Con le mogli sui letti di lana,

Schernitori di noi carne umana,

Questa guerra ci insegna a punir.

Voi chiamate il campo d'onore,

Questa terra di là dei confini

Qui si muore gridando "Assassini!"

Maledetti sarete un di.

Cara moglie, che tu non mi senti

Raccomando ai compagni vicini

Di tenermi da conto i bambini,

Che io muoio col suo nome nel cuor.

O Gorizia, tu sei maledetta,

Per ogni cuore che sente coscienza;

Dolorosa ci fu la partenza

E il ritorno per tutti non fu.

Caporetto e quell'accusa di viltà, scrive martedì 24/10/2017 Luigi Sardi su "L’Adige". Era la mattina del 24 ottobre di cento anni fa quando a Milano, in Piazza del Duomo e nella Galleria Vittorio Emanuele II, gli strilloni del Corriere della Sera richiamavano con il loro ordinato vociare l’attenzione dei lettori sul bombardamento iniziato dalle artiglierie austriache sulle linee italiane dell’alto e del medio Isonzo. In quella che era già una notizia angosciante, c’era qualche cosa di più: quel titolo a tre colonne – «I tedeschi compaiono sulla fronte italiana» – aumentava l’inquietudine perché si sapeva che i tedeschi erano combattenti feroci. Tre anni di propaganda franco-inglese, metodicamente raccolta dai giornali italiani, aveva trasformato gli uomini dall’elmo chiodato in Unni, barbari, spietati, che trucidavano i prigionieri, violentavano le donne, tagliavano le mani ai bambini. L’articolo di fondo di Luigi Albertini accennava agli avvenimenti che «si stanno probabilmente per svolgere alla nostra fronte», esternava, come sempre aveva fatto, «la serena fiducia» dettata dalla «abilità indiscussa del Comando e sull’eroismo mirabile delle truppe, come sulla saldezza morale del Paese».

Albertini dirigeva il maggior giornale italiano, quello che più di altre testate aveva portato l’Italia nella guerra e per la prima volta nelle righe di quel fondo si avvertiva un’ansia. Il giornalista era un sostenitore del generalissimo Luigi Cadorna che lo ricambiava tenendolo bene informato e anche la notizia dell’inizio di quel bombardamento che per violenza non aveva precedenti sul fronte dell’Isonzo, era stata trasmessa al Corriere in tempo per una ristampa dell’edizione destinata a Milano. Forse con un suggerimento: preparare gli italiani ad affrontare un altro momento molto difficile. Al quartier generale di Udine non si era ancora potuto capire che le artiglierie austro tedesche, l’impiego del gas asfissiante di nuova quanto micidiale miscela avevano frantumato trincee, rifugi, capisaldi mentre il gas uccideva all’istante i soldati nella conca di Caporetto. Avevano subito indossato le maschere che, per colmo di sventura, erano – si attendevano quelle promesse dagli inglesi – ancora di tipo antiquato. Nessuno comprese che le truppe d’assalto tedesche e austriache attraversarono le trincee italiane piene di cadaveri e che nella seconda linea, davanti alla valanga di fuoco e al silenzio, inspiegabile e mai spiegato, delle artiglierie italiane, migliaia di soldati decisero di ritirarsi abbandonando quelle sponde dell’Isonzo che poi diventerà Fiume Sacro della Patria ma che, in realtà, erano da oltre due anni, un orribile carnaio. Saranno i fondi di Albertini a scandire la più sanguinosa delle tragedie militari dell’Esercito italiano. Ecco il bollettino del Comando supremo con l’inquietante «l’urto nemico ci trova saldi e ben preparati», poi «l’avversario riusciva a superare le nostre linee avanzate sulla sinistra dell’Isonzo… l’offensiva nemica ha continuato con estrema violenza» quindi l’accusa di viltà di fronte al nemico, rivolta a quei soldati che dal maggio del 1915 sopravvivevano in condizioni terribili nell’orrore del Carso e morivano a migliaia nella stragrande maggioranza poco o nulla sapendo di Trento, Trieste, di sacri egoismi e confini, sacri anche quelli.

Poi il quotidiano bollettino di Cadorna annunciava agli italiani che le truppe «non erano riuscite ad impedire all’avversario di penetrare nel sacro suolo della Patria». Era già successo nell’estate del 1916. Quella volta le «orde barbariche» erano state fermate sugli Altipiani al prezzo di centomila caduti ma adesso le cartine topografiche pubblicate dai giornali mostravano il ripiegamento dall’Isonzo al Tagliamento, poi la ritirata dal fiume verso la Livenza e addirittura «alla Piave». La gente aveva capito che si trattava di qualche cosa di molto grave, cercava sulle cartine geografiche quei fiumi che tagliano la pianura veneta, restava sbigottita all’annuncio di «fatti dolorosi nell’esercito in un punto della nostra fronte» per apprendere un’altra notizia dirompente: il generale Diaz, nome francamente sconosciuto, «è il nuovo comandante supremo italiano».

Dal 24 ottobre al 10 novembre di quel 1917, da Caporetto al Piave, gran parte del Veneto era stato invaso; l’esercito aveva perso 650 mila uomini, 40.000 dei quali morti o feriti, 260.000 prigionieri, 350.000 sbandati, oltre 3000 cannoni, montagne di munizioni, di derrate, di attrezzature abbandonate in quella ritirata divenuta, a tratti, fuga. Ecco la conferenza sul lago di Garda che nei libri di scuola degli italiani prenderà il nome di «convegno di Peschiera» nella quale re Vittorio Emanuele III convinse francesi e inglesi che l’Italia non si sarebbe arresa, che l’esercito avrebbe resistito sul Piave ormai menzionato nei comunicati giornalieri del Comando supremo anche se Cesare Pettorelli Lalatta, uomo di primo piano dei servizi segreti del Regio Esercito era stato incaricato di trovare a Mantova, ben oltre il Mincio, una sede del comando delle forze armate.

Ecco il proclama del re: Italiani, cittadini, soldati! Siate un esercito solo... Tutti siamo pronti a dare tutto per la vittoria e l’onore d’Italia! L’appello non giunse alla enorme massa di profughi – donne, vecchi, bambini – che fuggivano davanti al nemico e anche al più superficiale osservatore non sfuggiva il carattere di quella ritirata sempre più disordinata che diventava ribellione pacifica, resa senza condizione di una massa umana inerte, moralmente sfibrata, convinta che la guerra era finita, che la pace era alle porte, pronta a segnare la fine di sofferenze disumane. Sul fronte trentino si abbandonò la roccaforte della Marmolada e Cadorna, prima di essere defenestrato, scrisse al re. Lo informò che una ritirata fino al basso Adige e al Mincio «esporrebbe a perdere quasi tutte le artiglierie, annullerebbe completamente ciò che rimane dell’efficienza dell’esercito, rinunciando anche all’ultimo tentativo di salvare l’onore delle armi». Poi la frase, in verità poco nota: «Ho voluto esporre la situazione nella sua dolorosa realtà, sembrandomi meritevole di essere considerata all’infuori della ragione militare, per quei provvedimenti di governo che esorbitano dalla mia competenza e dai miei doveri». Dunque il capo di Stato Maggiore dell’esercito suggeriva di abbandonare le armi e di intraprendere la via della diplomazia. Poi arrivarono i rinforzi francesi e inglesi e gli italiani, quelli devoti alla Patria, compirono un miracolo.

I fuggiaschi accolti e poi traditi. L’altra disfatta di Caporetto. Cent’anni fa la sconfitta: l’Italia voltò le spalle a soldati e civili, scrive Giovanni Morandi il 24 ottobre 2017 su "Quotidiano.net". 57.000 soldati con 1.342 cannoni per l’Italia; 350.000 soldati con 2.518 cannoni per l’Austria; oltre 40.000 i morti e feriti italiani; oltre 50.000 i morti e feriti austriaci; più di un milione i profughi civili. È passato un secolo da una disfatta così bruciante nella memoria degli italiani da essere diventata sinonimo senza tempo di sconfitta rovinosa. Nelle vallate e sugli altipiani attorno a Caporetto, oggi piccolo paese sloveno chiamato Kobarid, cominciò il 24 ottobre 1917 una battaglia che si sarebbe conclusa poco più di un mese dopo con la constatazione del traumatico sgretolamento del fronte italiano, agli ordini del generale Cadorna. La breccia si aprì dopo due giornate di combattimento e vi si infilarono le truppe austroungariche e tedesche che affondarono la baionetta fino al Piave. Oggi alle 19 le fanfare e bande militari dell’Esercito italiano in 17 città italiane ricorderanno il centenario sulle note del “Silenzio d’ordinanza”. Roma, 24 ottobre 2017 - Inzuppati d’acqua, senza possibilità di un riparo, con il fango che arrivava a mezza gamba, sfiniti, disperati, con il fiato dei nemici sul collo, in un caos indescrivibile dove si smarrivano vecchi e bambini, le urla di richiamo dei dispersi si mescolavano ai lamenti, ai lati della strada si ammassavano i cadaveri dei morti di fatica, donne e bambini rotolati come sassi nei fossati, i parenti che piangevano e i soldati che marciavano mescolati e annaspavano tra il fango e la pioggia o cercavano di convincere quelli che non ce la facevano più a ritrovare le forze perché sarebbero arrivati gli austriaci. Dopo aver fatto 200 chilometri, da Caporetto al Piave, i fuggiaschi si dispersero nella piana. C’erano quelli che tiravano una mucca, un asino, un maiale, o tenevano per le zampe una gallina, tutti avevano qualcosa, un cesto, una gabbia, un fiasco di vino, un fagotto. Quelli che facevano più pena erano i bambini rimasti senza famiglia, perduta, piangevano disperati, travolti dalla folla, pochi facevano caso a loro. A decine vennero poi raccolti dalle case dell’infanzia abbandonata. Le scene più strazianti si videro quando venivano bombardati i convogli ferroviari o quando ci fu da attraversare il Tagliamento o altri corsi di acqua. I civili venivano respinti per dare la precedenza ai militari e temendo di rimanere bloccati tanti tentavano di attraversare a nuoto o improvvisando zattere e morirono travolti dalle acque. I morti tra i profughi furono un migliaio. L’esodo durò per settimane, dal 24 ottobre del ’17, giorno in cui partì l’offensiva austro germanica. Anzi si può dire che durò per mesi se si pensa a quando quell’umanità si disperse su tutta la penisola fino alla Sicilia e perfino alla Sardegna. Nessuna autorità sembrava in grado di poter arrestare o guidare quel fiume di italiani che fuggivano dagli invasori, si calcola siano stati un milione in quella grande fuga, oltre centomila i soldati, gli altri, civili che avevano lasciato le case in Carnia, nel Friuli e nel Veneto. E non fu solo un esodo di persone ma anche di istituzioni, prefetture, uffici comunali, provinciali, ospedali, carceri, manicomi, banche, industrie ma anche biblioteche, sedi universitarie, istituti di cultura che trovarono ospitalità a Milano e Roma, a Firenze e a Bologna. Le amministrazioni comunali si ricostituirono quasi tutte in Emilia e Toscana. L’Italia rispose con proverbiale generosità e spirito patriottico. All’inizio. Poi però... Organizzarono treni speciali per i profughi e alle stazioni i rifugiati trovavano generi di conforto e aiuti di ogni genere che venivano distribuiti in un trionfo di bandierine tricolori da baldanzosi studenti accorsi ad alleviare le sofferenze dei compatrioti. Chi volesse saperne di più può trovarne nel documentato saggio di Daniele Ceschin, “Gli esuli di Caporetto”, edito da Laterza. Ovunque vennero organizzate manifestazioni di accoglienza, politicamente trasversali perché promosse con pari passione da liberali e repubblicani, socialisti e cattolici, da comitati parrocchiali e sindacali, la Camera del lavoro di Bologna raccolse 10 mila lire, la solidarietà giunse perfino dalle comunità italiane in America.

A Bologna trovarono alloggio 8mila profughi, a Firenze 20mila si sistemarono presso privati e 9mila trovarono alloggio in alberghi e pensioni. A Milano 30mila. A Napoli vennero smistati 70mila profughi. Ma l’idillio tra popolazioni ospitanti e ospiti non durò molto. La prima discriminante si rivelò di carattere economico: a Firenze il Grand Hotel venne destinato ai profughi di lusso, che al prezzo scontato ma sempre proibitivo di 9 lire potevano avere vitto e alloggio. Quasi subito e ovunque ci fu un’impennata negli affitti delle case, a Bologna i proprietari si rivelarono oltremodo esosi nelle loro pretese e per di più toglievano gli infissi e le porte alle case locate perché non si rovinassero. Non migliore fu l’accoglienza a Livorno dove a inizio estate gli sfollati vennero cacciati dagli alloggi, che sarebbero stati affittati a prezzi più alti durante la stagione balneare. La diffusa carenza di servizi igienici fu una delle cause del diffondersi della dissenteria e di malattie della pelle. Fino alla devastante epidemia di spagnola che provocò 600mila morti. Allo stesso tempo peggiorarono i rapporti tra locali e sfollati, che cominciarono ad essere chiamati con disprezzo “i tedeschi”. Naturalmente accusati di essere la causa della crescente disoccupazione e del sempre più severo razionamento alimentare che provocò incidenti e agitazioni di piazza.

Ai veneti e friulani venivano dati due pasti, una minestra, un pezzo di pane e un bicchiere di vino, ai bimbi di latte. In Calabria e Sicilia i veneti lamentavano che tutto era controllato da camorristi e mafiosi. I siciliani ricambiavano chiamandoli austriaci e fannulloni perché non accettavano condizioni di lavoro che erano «non da uomini ma da bestie». Va da sé che cominciarono a dire che venete e friulane erano donne di malaffare, frequentatrici di osterie e prostitute. In effetti le donne venivano ricattate dai datori di lavoro, che condizionavano la concessione della paga ai loro servigi. In città come Modena furono esposti cartelli con scritto: non sono graditi gli sfollati. «E in Toscana siamo tenuti per cannibali». Si diffuse la voce che mangiavano i bambini. L’incantesimo patriottico era svanito. A guerra finita, il ritorno a casa, al nord, fu lento, difficile e non sempre scontato. 

Caporetto 1917, la madre di tutte le disfatte. Il 24 ottobre di 100 anni fa la sconfitta che mise in dubbio la sopravvivenza stessa dell’Italia unita evidenziandone tutti i vizi e le tare d’origine. Il ripiegamento delle truppe della III Armata dopo la battaglia di Caporetto (24 ottobre ’17). Soltanto il 9 novembre il generale Cadorna riuscì a portare a compimento lo schieramento difensivo sulla linea del Piave, scrive Giovanni Sabbatucci il 17/10/2017 su “La Stampa”. Nella memoria storica degli italiani la parola «Caporetto» (italianizzazione di Kobarid, un villaggio sloveno oggi così indicato nelle carte e nei cartelli stradali) rappresenta molto più del nome di una battaglia perduta in una guerra alla fine vinta, molto più di una sconfitta militare, per quanto severa. Se il toponimo si è trasformato in un nome comune con tanto di articolo («una Caporetto»), come è accaduto con altri termini evocativi di disastri bellici o catastrofi naturali («una Waterloo», «una Casamicciola»), questo significa che la dodicesima battaglia dell’Isonzo, cominciata il 24 ottobre 1917 e subito trasformatasi in una rotta disordinata, fu allora avvertita da molti - e soprattutto da chi aveva visto nella guerra una prova necessaria per il consolidamento dell’identità nazionale - come una disfatta irrimediabile, una minaccia alla stessa possibilità di sopravvivenza dell’ancor giovane Stato unitario, di cui venivano evidenziati vizi e tare d’origine. 

Esercito alla sbando. Le dimensioni del disastro erano difficilmente contestabili. Lo schieramento italiano rotto sull’alto Isonzo, nei pressi appunto di Kobarid, e aggirato da un’audace e innovativa manovra degli austro-tedeschi. La sorpresa, il panico, le catene di comando saltate insieme al sistema di comunicazioni. Un’intera armata dissolta, la fuga e lo sbandamento di molte unità. Un terrificante bilancio di perdite: 10.000 kmq di territorio abbandonati, 40.000 fra morti e feriti, 300.000 prigionieri, un numero ancora maggiore di sbandati da recuperare e riequipaggiare, 600.000 profughi civili, quantità enormi di materiali perduti, compresa buona parte dell’artiglieria pesante. E su tutto il rischio che le forze armate non fossero più in grado di combattere, il timore che un collasso così grave potesse aprire la strada a un esito rivoluzionario alla maniera russa. Solo il 9 novembre il generale Cadorna riuscì a portare a compimento l’ultima e la più riuscita delle sue manovre: lo schieramento difensivo sulla linea del Piave di quanto restava dell’esercito italiano. In una guerra ottocentesca una disfatta di tali proporzioni avrebbe con ogni probabilità costretto l’Italia a uscire dal conflitto: esito disastroso per un Paese che era entrato in guerra non per difendere i suoi confini ma per conquistarne di migliori. In questo caso, i timori si rivelarono eccessivi, anche perché poggiavano su una diagnosi fondamentalmente errata: quella che riconduceva il cedimento dei reparti investiti dall’offensiva a una sorta di collasso morale, ovvero alla scarsa combattività delle truppe, se non addirittura al tradimento di alcuni reparti «vilmente ritiratisi senza combattere o ignominiosamente arresisi al nemico» (così Cadorna nel famigerato bollettino del 27 ottobre).  

Gli errori dei comandi. In realtà non ci fu alcun tradimento degli uomini in divisa, né una rottura subitanea nella fibra del Paese. Certo, la stanchezza si faceva sentire in quel terribile 1917 (quasi 150.000 perdite in agosto, nell’inutile conquista della Bainsizza). Ma a soffrirne non erano solo i soldati italiani, che avrebbero combattuto valorosamente le successive battaglie d’arresto sul Piave: quando furono schierati su un fronte più corto, trattati con maggiore umanità e mobilitati in vista di un obiettivo ben comprensibile come la difesa del territorio nazionale. Gli errori veri furono quelli dei comandi. E non parlo dei singoli errori tecnici (lo schieramento troppo offensivo voluto da Capello, la posizione avanzata delle artiglierie di Badoglio), su cui tanto si è scritto e discusso. Mi riferisco piuttosto a un atteggiamento di fondo, a una sorta di pigrizia mentale che portava le alte gerarchie militari a ripercorrere sempre le stesse strade, a cercar di adattare la realtà alle loro esperienze precedenti o alle teorie apprese nelle scuole di guerra. I comandi italiani, ad esempio, ignorarono o sottovalutarono i molti segnali che indicavano l’offensiva di ottobre come imminente perché ritenevano impossibile un’azione importante in quella stagione e in quelle condizioni meteorologiche. La tattica dell’infiltrazione in profondità, poi, colse di sorpresa le truppe schierate sull’alto Isonzo perché contrastava con la teoria che imponeva agli attaccanti di conquistare le quote e proteggersi i fianchi prima di avanzare. Il contrario di quanto i tedeschi fecero sull’alto Isonzo nel 1917 e avrebbero ripetuto su più ampia scala, e con largo impiego di mezzi corazzati, nella battaglia di Francia del 1940. Nell’uno e nell’altro caso il risultato per gli avversari fu la disarticolazione dei comandi, la confusione delle iniziative, lo sbandamento delle truppe (effetto e non causa della rottura del fronte). Esattamente le condizioni per cui una «normale» sconfitta può trasformarsi in una Caporetto. 

Storia. Sconfitta di Caporetto, lo scaricabarile della vergogna, scrive Alessandro Marzo Magno, domenica 22 ottobre 2017 su “Avvenire”. Per decenni e per certi versi ancora oggi i vertici militari e politici hanno evitato di assumersi colpe accusando lo «stato d’animo» della truppa. «È una Caporetto»: la frasetta è ormai diventata proverbiale. Il ricordo della sconfitta in quella che i nemici di allora, gli austroungarici, definivano la dodicesima battaglia dell’Isonzo è ancora oggi così vivo nella memoria da suscitare sentimenti contrastanti. Fu tradimento? Colpa dei generali inetti? Responsabilità dei soldati poco combattivi? Curiosamente pochissimi sanno dove sia oggi e come si chiami questa località; per la cronaca: Kobarid, e sta in Slovenia, nella valle del fiume che per noi è Isonzo e per loro Soca. Dal 24 ottobre, giorno dell’occupazione di Caporetto, al 10 novembre 1917, con il rischieramento sulla linea del Piave e del Grappa, l’esercito italiano perde 650.000 uomini su un milione e mezzo di combattenti (40.000 morti e feriti, 260.000 prigionieri, 350.000 sbandati) e deve abbandonare nelle mani del nemico 3000 cannoni, ovvero la metà di tutta l’artiglieria. Nella peggiore tradizione italiana, nessuno si vuole assumere la responsabilità degli eventi e prima si scaricano le colpe addosso agli 'altri', poi si cerca di mettere la polvere sotto il tappeto.

Significativa la voce "Caporetto" dell’Enciclopedia Treccani, scritta in epoca fascista, e materialmente redatta da Amedeo Tosti, un ufficiale dell’esercito che si dedicava alla storia militare. «Lo stato d’animo delle nostre truppe non era più quello delle prime battaglie dell’Isonzo: la stanchezza, il pensiero delle famiglie assoggettate a tutte le restrizioni imposte dalla guerra, l’incertezza circa la durata di questa e la lentezza dei nostri progressi territoriali nonostante le perdite sempre più ingenti, la propaganda sovversiva e pacifista, infine, e quella che il nemico tentava d’insinuare dalle sue trincee nelle nostre, avevano finito col far presa nell’animo dei nostri soldati». Non c’è ombra di autocritica, si fa capire che la responsabilità è dei soldati, un po’ per l’ineluttabilità degli eventi, un po’ per via dei nemici interni (pacifisti) ed esterni (austriaci). Sul comportamento dei comandi, neanche una parola; d’altra parte sarebbe stato difficile attendersi qualcosa di diverso facendo compilare la voce a un militare di carriera. Ancora più significativo è quanto accaduto col romanzo Addio alle armi, di Ernest Hemingway. Lo scrittore americano descrive ciò che era accaduto sul fiume Tagliamento: accanto a uno dei pochi ponti rimasti in piedi, dove si accalcavano le truppe in ritirata, era stato allestito un improvvisato tribunale militare. Gli ufficiali che si presentavano alla spicciolata, senza i propri sottoposti, venivano frettolosamente processati e fucilati per aver abbandonato gli uomini di fronte al nemico. La voce si era sparsa e molti ufficiali si strappavano i gradi, tentando di farsi passare per soldati semplici, ma venivano esaminate le maniche delle giubbe e scattava immediato l’arresto se si vedeva l’ombra scura del tessuto che al di sotto della mostrina non si era scolorito. L’episodio non era inventato (Hemingway era stato testimone della rotta di Caporetto) ma ha ugualmente fatto scattare la censura sul romanzo. Addio alle armi è uscito in inglese nel 1929, ma è stato tradotto in italiano soltanto diciassette anni più tardi, nel 1946, da Mondadori, quando ormai sull’onore delle forze armate si erano addensate ben altre nubi. Tra l’inizio e il 10 novembre 1917, ovvero a ridosso degli eventi, Giuseppe Prezzolini scrive un pamphlet che analizza le ragioni della sconfitta e che verrà pubblicato nel 1919, dalle Edizioni della Voce, con il titolo Dopo Caporetto. L’analisi di Prezzolini è impietosa: gli ufficiali effettivi si imboscavano e mandavano a morire i disprezzati colleghi di complemento. «Quello che l’ufficiale ha fatto nell’esercito è quello che la borghesia ha fatto nel Paese», scrive, aggiungendo: «La nostra borghesia, mentre usa i propri privilegi, non sente il peso dei suoi doveri». E poi ancora: «Se l’ufficiale è lo specchio della borghesia, il soldato è lo specchio del popolo: e ambedue non differiscono molto, perché un popolo ha la classe dirigente che sa esprimere dal suo sangue, e la classe dirigente ha il popolo che sa educare e dirigere». I mali dell’esercito sono i mali del Paese e la sconfitta va imputata a questi mali. Nel denunciarli, lo scrittore usa concetti e parole di sorprendente attualità: «La classe dirigente italiana nasce e proviene dalla grande massa che chiamiamo popolo. Non è separata casta». L’Italia di Caporetto, nel giudizio di Prezzolini, appare tragicamente simile a quella attuale.

«Caporetto racconta l’Italia più di ogni vittoria», scrive Giulia Merlo il 24 Ottobre 2017 su "Il Dubbio". Il 24 ottobre di cento anni fa, la disfatta che gettò le basi per il successo di Vittorio Veneto. Intervista al professor Marco Gervasoni. «Caporetto è un po’ la metafora dell’italianità: storicamente, l’Italia è sempre arrivata sul ciglio del burrone prima di trovare le forze per rialzarsi». Marco Gervasoni, professore di Storia contemporanea e di Storia comparata dei sistemi politici all’università Luiss di Roma, racconta così la battaglia combattuta il 24 ottobre 1917 e persa dall’esercito italiano contro l’Impero Austroungarico e la Germania, lungo la valle dell’Isonzo (oggi in Slovenia). E così spiega anche il titolo provocatorio del saggio A Caporetto abbiamo vinto, pubblicato nel 2017 da Rizzoli, a cura di Stefano Lucchini. Nel centenario di una delle battaglie dagli esiti più catastrofici della storia italiana, con più di 40mila caduti tra le fila del Regio esercito in quattro giorni di combattimen-ti, Gervasoni analizza le gesta di chi legò il proprio nome a quella disfatta: il Capo di stato maggiore Luigi Cadorna, «che commise parecchi errori strategici, il peggiore dei quali fu di far ricadere la responsabilità della disfatta sulle sue truppe». «Caporetto è un po’ la metafora dell’italianità: storicamente, l’Italia è sempre arrivata sul ciglio del burrone prima di trovare le forze per rialzarsi». Marco Gervasoni, professore di Storia contemporanea e di Storia comparata dei sistemi politici all’università Luiss di Roma, racconta così la battaglia combattuta il 24 ottobre 1917 dall’esercito italiano contro l’Impero Austro- ungarico e la Germania lungo la valle dell’Isonzo (oggi in Slovenia). E così spiega anche il titolo provocatorio del saggio A Caporetto abbiamo vinto, pubblicato nel 2017 da Rizzoli, a cura di Stefano Lucchini.

Professore, sono passati cento anni dalla disfatta di Caporetto. Una battaglia che è diventata metafora di rovinosa sconfitta anche nel lessico comune.

«Guardi, questo era vero per qualche generazione fa e oggi lo è per gli addetti ai lavori, i giornalisti e gli storici. Non credo, invece, che ai giovani di oggi il termine “Caporetto” evochi ancora qualcosa. Del resto, anche questo fa parte di una rottura della memoria storica, su cui forse ci sarebbe da interrogarsi. Lo diceva lei: sono passati cento anni dalla battaglia e sembrano molti, ma dal punto di vista storico sono pochi».

Di quella battaglia si ricorda la disfatta e il suo artefice, il famigerato capo di stato maggiore Luigi Cadorna. Quali errori vennero commessi dall’esercito italiano?

«La battaglia iniziò nella notte del 24 ottobre 1917. L’attacco venne portato da parte dell’esercito austroungarico e dalle divisioni tedesche, giunte dal fronte russo e questo fu il primo errore strategico degli italiani: lo stato maggiore del Regio esercito era a conoscenza già da settembre dei movimenti delle truppe tedesche, liberate dal fatto che la Russia aveva abbandonato il fronte perchè già nella fase pre-rivoluzionaria, ma ne aveva sottovalutato la rilevanza. Il secondo errore fu commesso direttamente da Cadorna, il quale poche ore dopo l’inizio dell’azione austroungarica – diede l’ordine alle truppe di non ritirarsi ma di mantenere la posizione. Questa scelta provocò il disastro, perchè l’esercito italiano non era in grado di reggere l’urto dell’attacco. Infine, il terzo e forse maggior errore di Cadorna fu quello di far ricadere la responsabilità della disfatta sui soldati».

Luigi Cadorna era figlio di un eroe risorgimentale e fu padre di uno dei comandanti della Resistenza. La storia a lasciato a lui il ruolo peggiore di generale incapace che volta le spalle alle sue truppe?

«Se la storia fosse un film, a Cadorna spetterebbe la parte del cattivo. Da storico, però, non me la sento di dare patenti di buoni e cattivi. Cadorna, che veniva chiamato “Il capo” dal suo esercito, commise il suo errore peggiore quando scaricò la responsabilità della sconfitta di Caporetto sulle diserzioni dei suoi soldati. Eppure, Luigi Cadorna non era diventato Capo di stato maggiore del Regio esercito per caso: era un soldato di grande valore, addestrato nelle migliori accademie militari italiane. Il suo limite era, probabilmente, quello di essere legato a tecniche militari antiquate e a una visione antica della guerra e della disciplina militare. La storia, però, racconta e non condanna e nemmeno io mi sento di condannare in toto il generale, che ha fatto molti errori ma non va demonizzato».

Il titolo del libro di Stefano Lucchini, A Caporetto abbiamo vinto, allude però proprio al fatto che, dopo la sconfitta, Cadorna venne sostituito da Armando Diaz.

«Io ho apprezzato molto il libro, che espone una tesi molto interessante. Nel saggio, infatti, si sostiene provocatoriamente che la rimonta e la vittoria nei mesi successivi a Vittorio Veneto sia stata determinata dalla disfatta di Caporetto. Dopo la sconfitta, infatti, Cadorna è stato sostituito e tutto il Paese e la sua classe politica hanno affrontato con spirito diverso la guerra».

Perdere una battaglia per vincere una guerra, quindi?

«Diciamo che questa parabola è un po’ il tratto distintivo della storia italiana: prima di ottenere un risultato, noi italiani dobbiamo arrivare a vedere il burrone. Fa parte della nostra storia e non è così per altre nazioni. Del resto, si tratta di una tesi sostenuta anche in passato: Giuseppe Prezzolini, nel 1918, scrisse che il vero spirito degli italiani si era mostrato a Caporetto, perché avevano saputo reagire alla sconfitta. Meno invece si era visto a Vittorio Veneto, dove Prezzolini descrisse gli italiani come retori bolsi e pieni di loro stessi».

E il governo come reagì alla sconfitta?

«La disfatta fu impossibile da nascondere, nonostante la pesante censura sui mezzi di informazione. Allora il neo- nominato governo Orlando fece una mossa intelligente: ammise la sconfitta e chiamò all’unità nazionale sulla scia del messaggio «La patria è in pericolo». Questa linea suscitò una forte reazione da parte della politica, che si compattò. Anche la sinistra e soprattutto i socialisti, che erano contrari alla guerra, aderirono e Filippo Turati tenne un discorso molto bello che si concludeva con la frase: «A monte Grappa è la patria». La contrarietà della sinistra alla guerra si fondava sul fatto che non fosse una guerra di difesa, ma il pericolo degli austriaci lungo la linea del Piave la fece diventare tale. Anche in questo senso, forse, si può parlare di “utilità” della sconfitta di Caporetto».

Con la scelta di Armando Diaz davvero si cambiarono le sorti della guerra?

«Non fu solo quello. Nei mesi successivi si creò un nuovo rapporto di solidarietà tra politica ed esercito, ma a cambiare fu soprattutto il legame tra l’esercito e il popolo. La sconfitta fece riavvicinare i soldati ai civili – non va dimenticato che i fanti erano tutti contadini, tanto che la I Guerra Mondiale è stata definita anche la “guerra dei contadini”- e questo sostegno e spirito di popolo ha consentito una reazione forte da parte delle truppe. La scelta di Diaz, invece, ha segnato l’introduzione nell’esercito di una disciplina diversa e meno rigida rispetto a quella imposta da Cadorna».

Quindi quella di Vittorio Veneto è stata una vittoria collettiva?

«Oltre alla sostituzione di Cadorna e di molti vertici dell’esercito, Caporetto provocò il cambio di governo e anche di strategia militare. Il merito di Diaz in quanto Capo di stato maggiore è stato importante, sì, ma i fattori che hanno determinato la vittoria sono stati molti, tra i quali l’arrivo dei rinforzi americani e, soprattutto, il crollo per fattori interni dell’esercito austroungarico. La storia, però, ci ha consegnato il famoso proclama vittorioso di Armando Diaz all’indomani dell’armistizio».

Lucchini, nel suo libro, chiede provocatoriamente di sostituire nelle strade e piazze italiane il nome di Luigi Cadorna con quello del figlio Raffaele, comandante della Resistenza. Lei cosa ne pensa?

«Che, come spesso accade, la vittoria è di tanti e la sconfitta di uno solo. E’ vero, certo, che quelle strade e piazze sono state intitolate a Cadorna dal fascismo ma io non me la sento di bocciare in toto Cadorna, nè di chiudere la sua figura nell’immagine che ne diede il regime. Anche perchè, se si vogliono mettere etichette, il vittorioso Diaz fu molto più fascista del perdente Cadorna. Insomma, ritengo che sia giustissimo discutere in sede storica di queste vicende e capisco il punto di vista di Lucchini che propone di sostituire il padre con il figlio, ma cambiare la toponomastica rischia di aprire conflitti della memoria. Sono d’accordo, invece, con l’iniziativa presa dal Generale Graziano, per restituire in parte la memoria ai soldati fucilati da Cadorna».

Si riferisce ai morti fucilati a Caporetto?

«Sì, in merito è stato aperto un processo per restituire giustizia e distinguere chi venne fucilato in seguito a regolare processo militare da chi, invece, venne fucilato senza processo. A Caporetto, il generale adottò metodi militari molto rigidi e fece fucilare moltissimi soldati: alcuni perchè scappavano, altri invece morirono centrati nel mucchio, perchè Cadorna ordinò di sparare per spaventare le truppe e indurle a rimanere al loro posto. Ecco, quei militari morirono senza processo, vennero degradati e le loro vedove non ricevettero alcuna pensione. E’ giusto che, a cento anni da quei fatti, se ne riabiliti la memoria e si restituisca loro l’onore».

Caporetto e il senso politico della disfatta, scrive Orlando Trinchi il 24 Ottobre 2017 su "Il Dubbio".  Intervista allo storico Luca Falsini a cento anni dalla grande sconfitta italiana della Prima guerra mondiale. «Caporetto, pur non rappresentando né la guerra italiana né gli italiani in guerra, non può essere dimenticata, perché rappresenta un “caposaldo della memoria” e un passaggio imprescindibile per ogni riflessione sulla nostra storia contemporanea». Attraverso un’accurata ricostruzione dello scenario politico e militare e l’accesso privilegiato a una preziosa documentazione inedita, lo studioso Luca Falsini, con il saggio Processo a Caporetto. I documenti inediti della disfatta (Donzelli editore), getta nuova luce su uno degli episodi più significativi e caratterizzanti del primo conflitto mondiale, che a distanza di cento anni ancora interroga la nostra identità nazionale.   

Luca Falsini, quando venne istituita e quali effetti produsse la Commissione d’inchiesta sui fatti di Caporetto?

«La Commissione venne istituita nel gennaio del 1918, a guerra ancora in corso e a pochi mesi dagli eventi che l’avevano determinata. Il clima in cui si svolsero i lavori risentiva pertanto delle molteplici pressioni provenienti sia dagli ambienti interventisti sia del variegato mondo neutralista, entrambi poco disposti ad attenuare i toni delle polemiche attorno alle ragioni della guerra. La Commissione, che lavorò per circa un anno e mezzo, svolgendo buona parte degli interrogatori in zona di guerra, consegnò nelle mani di Nitti una relazione che indirettamente assolveva i partiti neutralisti dall’accusa di aver sabotato la guerra e i governi Salandra e Boselli per non aver dato alla stessa una ferma guida politica. Le accuse, invece, si incentrarono sui vertici militari (Cadorna, Porro, Capello e Cavaciocchi) e sulle loro discutibili scelte di lunga durata in tema di organizzazione militare, strategia di guerra e governo degli uomini. Badoglio, le cui responsabilità per la disfatta apparvero ai più subito evidenti, venne invece fatto salvo».   

Quali nuovi elementi ha apportato la documentazione relativa all’Archivio Zugaro cui lei ha avuto accesso?

«La relazione ufficiale vide la luce nell’estate del 1919 ma divenne pubblica solo alla fine degli anni ’60. La documentazione raccolta, frutto del lavoro dei membri della Commissione e del suo apparato amministrativo, che ascoltò oltre 1000 testimoni in 241 sedute, è stata recentemente inventariata dall’Ufficio storico dello Stato maggiore dell’Esercito. Tale documentazione, però, si limita alle dichiarazioni ufficiali. L’Archivio Zugaro, invece, mi ha consentito di mettere mano alle note e ai commenti ufficiosi dei membri della Commissione, ad alcuni scambi epistolari e alle bozze che via via il Presidente Caneva preparò per la relazione ufficiale. Particolarmente interessanti sono le bozze preliminari dei giudizi sui generali maggiormente coinvolti, tra le quali spiccano quelle relative alle responsabilità di Pietro Badoglio».   

Quanto pesò, sulla rotta di Caporetto, l’estremo offensivismo del generalissimo Cadorna e le istanze repressive da lui propugnate e quanto, invece, la mancata o comunque parziale comprensione e persuasione delle truppe?

«Negli ultimi anni l’offensivismo esasperato di Cadorna è stato analizzato quasi esclusivamente in funzione delle conseguenze drammatiche che produsse sui soldati, costretti ad attaccare su alture impossibili da conquistare e poi da difendere se non a costo di moltissime perdite umane. Il tema, però, è centrale anche per le riflessioni sull’incapacità di Cadorna nel saper adeguare le proprie strategie militari alle realtà della nuova guerra di posizione. Su questo terreno, attorno al quale la Commissione avrebbe dovuto indagare con maggiore attenzione, il Comandante Supremo manifestò dei limiti incontestabili. Quanto alla “cura delle anime”, pur senza voler enfatizzare eccessivamente il ruolo della propaganda e l’attività svolta in tal senso dal Servizio P nel 1918, appare innegabile lo sforzo dei Comandi e del governo Orlando nel dare ai soldati una maggiore consapevolezza delle ragioni della guerra e nell’offrir loro, al contempo, un supporto morale e materiale che li aiutasse a resistere alla durezza della vita di trincea».   

Le direttrici disfattiste hanno avuto, nella rotta di Caporetto, quell’importanza decisiva attribuita loro con tale veemenza da Cadorna? E quali diversità, a livello di percezione sociale, dirimevano il disfattismo cristiano da quello di matrice socialista?

«Oggi sappiamo senza più alcun dubbio che né i socialisti né tanto meno i giolittiani e i cattolici vollero mai dispiegare un’azione di sabotaggio della guerra. Certo, i malumori per la scelta dell’intervento e per le forme con cui fu deciso pesarono molto nelle dinamiche parlamentari e di piazza, creando lacerazioni destinate a sfociare nella guerra civile che si consumò in Italia nel corso del dopoguerra; tuttavia la storiografia, in continuità con quanto già emerso nella relazione finale della Commissione, ha potuto escludere ogni manovra politica delle forze contrarie alla guerra finalizzata a condurre i soldati all’insubordinazione verso le autorità. Non contrastarono la guerra i socialisti, seppur tentati dagli echi della rivoluzione bolscevica, e non lo fecero i cattolici, il cui pacifismo, per dirla con Padre Semeria, concepiva la guerra come un “un flagello di Dio” e solo in quanto tale come una inutile strage. Il pacifismo cristiano, per Semeria, non era minimamente assimilabile al disfattismo socialista, il cui unico scopo era creare nel Paese le condizioni per la rivoluzione».   

Che conseguenze ebbero i numerosi casi di (in)giustizia militare – come anche l’abuso di esoneri arbitrari di ufficiali e altrettanto arbitrari avanzamenti – sul morale dei soldati?

«Quasi tutte le testimonianze raccolte dalla Commissione affrontano il tema delicato degli esoneri degli ufficiali. L’insieme di questi racconti mi ha portato a individuare una prima fase della guerra, fino almeno alla spedizione punitiva austriaca (maggio 1916), nella quale il ricorso agli esoneri rispose alla volontà di ringiovanire i vertici delle armate, ponendo al loro comando ufficiali più vicini allo spirito offensivista del comandante supremo, da una seconda fase, nella quale prevalsero logiche “clientelari” e le responsabilità uscirono dalla ristretta cerchia dello Stato maggiore per trovare correità in molti comandanti d’armata. Questo sistema portò molti ufficiali a temere più il nemico alle spalle che quello che avevano di fronte e generò uno scadimento a catena di fiducia tra ufficiali e truppa e tra comandi d’armata e Comando Supremo. Spesso poi l’indiscrezione sull’esonero di un ufficiale arrivava qualche giorno prima della formalizzazione, creando la situazione paradossale di ufficiali che guidavano le truppe privi del loro rispetto e privi della necessaria serenità. Anche in questo contesto Caporetto agì da spartiacque: il 20 novembre, infatti, a pochi giorni dall’assestamento sul Piave, Diaz sentì l’urgenza di emanare una circolare che denunciò l’abuso degli esoneri invitando i comandanti d’armata a fare valutazione più serene e ponderate dell’operato dei propri subordinati».   

Quanto fu determinante, per le sorti del conflitto, l’attività della Chiesa e quanto essa può considerarsi avvisaglia dei futuri Patti Lateranensi?

«Più volte gli storici hanno sottolineato che uno dei primi atti politici del Comando Supremo fu l’istituzione nel 1915 dei cappellani militari. La decisione, oltre a essere la naturale conseguenza del forte sentimento religioso di Cadorna, rispondeva a due distinte esigenze, almeno parzialmente contrastanti: da una parte la necessità politica di parte liberale di allargare la base di consenso allo stato italiano, riconquistando – in un’ottica antisocialista – i favori delle masse cattoliche, secondo un percorso che aveva conosciuto pochi mesi prima, col patto Gentiloni, “resa ideale delle élite moderate ai battaglioni del Papa [Isnenghi]”, una tappa assai importante; allo stesso tempo, però, ma con prospettive e finalità diverse, la guerra rappresentava per la Chiesa il terreno ideale per riaffermare i valori cattolici non solo contro il materialismo socialista ma anche contro l’individualismo delle società liberali. Il protagonismo che la Chiesa poté espletare grazie a uomini come Giovanni Semeria, Agostino Gemelli, Giovanni Minozzi e Angelo Bartolomasi fece della Grande guerra un momento essenziale nel percorso di riavvicinamento del cattolicesimo allo Stato italiano, configurandosi de facto come un’anticipazione dei Patti Lateranensi».   

Cosa può dirci riguardo la pratica dell’internamento, a detta di Giovanni Procacci «prodromo della politica concentrazionaria dei regimi dittatoriali degli anni venti e trenta»?

«Caduta l’illusione di una guerra di breve durata, tutti i governi dei paesi belligeranti si trovarono costretti a introdurre delle leggi eccezionali, consistenti nella delega alle autorità militari di prerogative che gli statuti e le costituzioni attribuivano ai parlamenti o ai governi. Alcuni paesi con una forte tradizione parlamentare, come l’Inghilterra, riuscirono a bilanciare l’incremento di potere dei militari mentre altri come l’Italia, la Germania e l’Austria, videro investiti i rispettivi comandi di potere amplissimi, addirittura illimitati all’interno delle zone di guerra. L’internamento fu uno degli strumenti più odiosi utilizzati dai militari (ma anche dai Prefetti) per mettere a tacere tutti i fronti potenzialmente pericolosi per la gestione e l’esito del conflitto: i pacifisti, gli anarchici e i socialisti, sul fronte politico; gli austriacantinelle zone di confine; gli operai e i contadini nelle fabbriche e nelle campagne.   Uomini e donne vennero portati via dalle proprie famiglie nel pieno disprezzo di ogni diritto; malnutriti e spesso sottoposti ai lavori forzati, subirono abusi di ogni sorta, per questioni che a volte rinviavano a vendette personali o, comunque, per nulla connesse alle esigenze della guerra».   

Quali funzioni interessarono la stampa durante la guerra e quali posizioni essa assunse dopo la fine del conflitto?

«In modo alquanto singolare l’autocensura precedette la censura. Il 23 maggio del 1915, alla vigilia dell’entrata in guerra, l’Associazione della Stampa offrì al governo e al Comando Supremo la piena disponibilità all’asservimento alle direttive di Cadorna in cambio della libertà di movimento al fronte. A farne le spese furono non solo tutti gli organi di informazione che non vollero adeguarsi a tale scelta ma anche il racconto stesso della guerra. Mistificazioni di ogni sorta accompagnarono la narrazione degli scontri, in cui erano enfatizzati il valore e gli atti eroici di alcuni comandanti, Cadorna in primis, e censurate le sconfitte e tutto ciò che non rinviasse a una visione eroico-patriottica della guerra. Nel dopoguerra i cronisti giustificarono questo atteggiamento con le necessità del conflitto e col ruolo pedagogico che avevano assunto. Ritenevano, in sostanza, che solo nascondendo gli orrori e le difficoltà della guerra il Paese, al fronte come nelle città, avrebbe potuto resistere.   La stampa tornò così ad assolvere un reale ruolo critico solo nel primo dopoguerra e in modo particolare nell’estate del 1919, quando la pubblicazione della relazione della Commissione su Caporetto infervorò gli animi dell’opinione pubblica sul complesso tema delle responsabilità di guerra».   

È corretto parlare di regime autoritario di Cadorna e regime più umano di Diaz? Dopo Caporetto ci fu una spiccata cesura per quanto riguarda la gestione del conflitto?

«L’ascesa di Diaz segnò un cambiamento radicale nella strategia di guerra. Il riposizionamento sulla linea del Piave, che simbolicamente si concluse proprio il 9 novembre, giorno dell’allontanamento di Cadorna dal Comando Supremo, avviò il passaggio a una più oculata strategia difensiva che venne mantenuta sino agli ultimi giorni del conflitto, quando le pressioni politiche e diplomatiche costrinsero Diaz a tornare all’attacco. L’altro grande elemento di discontinuità si ebbe sul piano dei rapporti tra Comando e Governo: tanto Diaz quanto Orlando compresero meglio dei loro predecessori l’importanza, nelle guerre moderne e totali, della collaborazione tra fronte interno e trincea e quindi tra autorità civili e militari. Meno evidente, invece, sebbene non priva di alcuni importanti riscontri, la discontinuità sulla cura del morale dei soldati prima e dopo Caporetto. E’ innegabile la maggiore attenzione data dal nuovo Comando Supremo ai soldati, attraverso doni, sussidi, licenze e conforto morale, tuttavia la durissima disciplina che caratterizzò la gestione Cadorna non scomparve del tutto nel ‘18. Ne fu testimonianza, ad esempio, il trattamento destinato ai prigionieri del dopo-Caporetto, considerati dei traditori e abbandonati alle atroci sofferenze della prigionia».   

Come si spiega l’attenuazione, nella Relazione della Commissione d’inchiesta, delle responsabilità attribuibili a Badoglio?

«L’Archivio Zugaro mi ha consentito di dare ufficialità alle accuse che molti generali, politici e studiosi hanno mosso nei confronti di Badoglio per l’inazione delle artiglierie del XXVII corpo della seconda armata durante i primissimi attacchi del nemico. A lungo si è parlato di alcune pagine stralciate dalla relazione finale per coprire le responsabilità dell’uomo che nel frattempo era divenuto Sottocapo di Stato di Maggiore dell’Esercito. Effettivamente i giudizi relativi alle responsabilità di Badoglio vennero redatti dai componenti della Commissione in tre diverse bozze che poi furono cassate dalla relazione. Le ragioni di questo “salvataggio” sembrano rinviare più alla necessità di non infangare il nuovo Comando Supremo che non a presunte piste massoniche. Le accuse sono quelle note: Badoglio disobbedì agli ordini che Cadorna aveva dato al suo diretto responsabile, il generale Capello, comandante della seconda armata, di attestarsi su posizioni difensive, preferendo rischiare una “manovra napoleonica” di tipo controffensivo che fece mancare alla resistenza al nemico l’importante contributo dell’artiglieria del suo corpo».   

È giusto assimilare la guerra italiana a una visione tipicamente caporettocentrica?

«Caporetto è uno snodo fondamentale della nostra storia contemporanea; non perché rivelò – come molti hanno voluto sostenere – i limiti del carattere italiano, poco propenso alla cultura di guerra e al sacrificio per la comunità nazionale, quanto per i cambiamenti politici e militari che produsse (la caduta di Boselli e di Cadorna, la riduzione del fronte di combattimento e il cambiamento di strategia) e perché accelerò alcuni processi, strettamente connessi alle politiche di gestione del consenso, che influenzarono in modo evidente alcune scelte politiche del regime fascista.  Ma dopo Caporetto ci fu Vittorio Veneto, che almeno sul piano militare riscattò la sconfitta. I soldati, che avevano combattuto egregiamente nei primi due anni e mezzo di guerra e che già nella fase di ripiegamento sul Piave avevano dimostrato di sapersi ritrovare dopo l’iniziale e comprensibile sbandamento, diedero nel corso del ’18 prova di grande resistenza al nemico, conducendo il Paese alla vittoria. E questo non possiamo dimenticarlo».

Le bugie infamanti di Cadorna, scrive Roberto Coaloa il 2 settembre 2012 su “Il Sole 24 ore". Paolo Gaspari, dopo anni di ricerche, ha scritto un'opera definitiva su Caporetto, che ribalta completamente l'interpretazione di quel tragico evento, per troppo tempo rimasto una specie d'incubo amorfo, che cresce a cagione di una sommaria e arrogante storiografia dell'immediato, a ridosso di pregiudizi, per fulmineo accumulo d'episodi orecchiati, d'immagini romanzate, non provate e non documentabili. Lo storico in Le bugie di Caporetto pone fine alla leggenda delle ragioni politiche della sconfitta, diffusa e strumentalizzata nei decenni successivi con molte varianti. Caporetto divenne sinonimo di sconfitta infamante, alla quale si aggiunse l'interpretazione politica varata da Francesco Saverio Nitti: lo «sciopero militare». Una sciagura sbeffeggiatrice delle doti militari degli italiani, resi inermi e innocui dopo il 24 ottobre 1917, quando alle due di notte, si scatenò l'inferno nei pressi di Caporetto (l'attuale Kobarid slovena, chiamata Karfreit dagli austriaci dell'impero). D'accordo con gli storici, Gaspari concorda sul carattere di sconfitta militare di Caporetto. Tuttavia fa un passo in più, decisivo. Caporetto non fu un unico episodio che portò al ripiegamento sul Piave del regio esercito, sconfitto dalle truppe dell'impero asburgico, rinforzate da moderni reparti del Secondo Reich (in cui brillò per la prima volta la futura Volpe del deserto, Erwin Rommel). Contrariamente alla vulgata storica, che ricorda la rotta sul fronte italiano per il tragico epilogo di profughi e di esercito allo sbando, Gaspari narra con la precisione dello storico militare anche le sconosciute battaglie della ritirata di Caporetto, utilizzando per la prima volta fonti primarie, come le deposizioni degli ufficiali reduci dalla prigionia (a Caporetto, l'Austria-Ungheria trionfò facendo 800mila prigionieri italiani, dimenticati e infamati dalla cinica politica italiana dell'epoca). Questa è la novità assoluta del libro di Gaspari: fino a ora gli italiani e gli storici di fama internazionale non si erano preoccupati di ascoltare il racconto di questi soldati che avevano legato il proprio destino a combattimenti disperati e furibondi. Lo storico ci rivela l'epos di un esercito sconfitto, che tuttavia ingaggia tre vere battaglie nei quindici giorni della ritirata al Piave. Leggiamo e conosciamo per la prima volta i nomi di italiani che persero con onore e talvolta con eroismo una battaglia persa già all'inizio per l'irresponsabile condotta del loro capo di Stato maggiore. Questo inedito racconto giaceva, inutilizzato dagli storici, nell'Archivio dell'Ufficio storico dello Stato maggiore dell'Esercito, dove sono conservati i memoriali di quasi 16mila ufficiali fatti prigionieri nel corso della guerra, quasi tutti nei primi giorni dopo Caporetto. Una storia dimenticata, che per troppo tempo è rimasta al buio, stretta in tanti faldoni, in manoscritti, in fogli protocollo, divisi a metà, a mezza facciata, come si facevano una volta i temi d'italiano. Una fonte storica d'eccezionale importanza, conservata da quello stesso Stato maggiore che all'epoca non aveva avuto fede nel suo esercito di soldati-cittadini, che fucilava senza pietà i suoi soldati-contadini e che, denigrando i vinti di Caporetto, aveva screditato l'intero popolo italiano agli occhi degli Alleati. Gaspari scrive la verità sulla ritirata di Caporetto e svela le bugie di Luigi Cadorna, che nel Bollettino del 28 ottobre scaricò la responsabilità di una sconfitta militare sui soldati «vilmente ritiratisi senza combattere o ignominiosamente arresisi al nemico». La colpa, invece, fu dei comandanti e non dei soldati, soprattutto di Cadorna, poiché un vero comandante dovrebbe assumersi la responsabilità anche delle disfatte, non soltanto la pompa dei successi. Ma rimane una domanda: chi ispirò quelle inaudite parole di Cadorna nel comunicato ufficiale?

Paolo Gaspari, Le bugie di Caporetto. La fine della memoria dannata, Gaspari, Udine, pagg. 696, € 29,00. Caporetto, i caporettisti e la lezione che l'Italia non ha compreso. Dalla disfatta militare della Grande Guerra, di cui ricorre il centenario, Badoglio fu l'unico a uscire pulito. Anzi: venne promosso e fu protagonista di altri momenti drammatici della nostra storia. Una parabola molto italiana, scrive Mario Margiocco l'8 ottobre 2017 su "Lettera 43". La più famosa descrizione dello sfascio militare italiano a Caporetto è quella di Ernest Hemingway in Addio alle Armi, e descrive non tanto l’insieme quanto uno dei drammi, quello degli ufficiali allo sbando, separati dai loro reparti, e la polizia militare – i carabinieri – che li fucilava, e la stanchezza di combattere. Ma Caporetto è dell’autunno 1917, un secolo fa esatto, il 24 ottobre alle 02, l'inizio dell’artiglieria mai così massiccia e Hemingway, sul fronte italiano solo nel giugno 1918, utilizzava i racconti sentiti dai commilitoni italiani.

IL DIARIO DI GADDA. Non era del tutto la sua guerra. Molto più vero il racconto del sottotenente degli alpini Carlo Emilio Gadda (1893-1973), fatto prigioniero con la compagnia di mitraglieri di cui era comandante in seconda sulle rive di un Isonzo che non riuscivano ad attraversare. Avevano austriaci e tedeschi dietro le spalle dopo una notte di ritirata dal Monte Nero che non volevano lasciare, e tedeschi e austriaci ormai anche sull’altra sponda del fiume in piena. Era la fine. Gettarono gli otturatori delle mitragliatrici prima di arrendersi. «Che dolore, che umiliazione, che pianto nell’anima. Finire così la nostra vita di soldati e di bravi soldati…». E i suoi uomini migliori, ricordava nel diario di Caporetto e della prigionia pubblicato integralmente postumo per sua volontà, «avevano la netta visione della sciagura nazionale e personale». Una sciagura nazionale che l’incompetenza degli alti comandi, su cui Gadda non aveva dubbi, rendeva ancora più amara.

LA SCONFITTA E LA FUGA. L’amarezza dell’Italia fu allora e per molti anni quella di vedere sottovalutato il suo sforzo bellico a fronte di quello franco-inglese sul Fronte Occidentale, e di vedere ben conosciuta all’estero, per l’impatto e le dimensioni del crollo, una sola delle tante durissime battaglie combattute: la dodicesima dell’Isonzo, la peggiore, Caporetto, che passò alla cronaca, e poi alla storia, solo come fuga. Molti storici militari italiani, soprattutto nel Ventennio, ripagarono il favore sottovalutando ampiamente le tragedie della Somme e di Verdun. A Caporetto morirono tra i 10 mila e i 13 mila italiani. Crollo militare, incompetenza diffusa di molti degli alti comandi italiani fino al livello di divisione, o anche crollo morale? Oppure insufficienza di una sola delle quattro Armate italiane, la II del generale Luigi Cappello, e in particolare del XXVII Corpo d’Armata di Pietro Badoglio? Viltà dei fanti come disse il bollettino del generale Cadorna, subito corretto dal governo, o confusione dei generali, come ammise la commissione d’inchiesta salvando però l’ammanicatissimo Badoglio, tecnicamente valido ma moralmente ambiguo, promosso a novembre 1917 a numero due dell’Esercito (era tenente colonnello ancora nell’aprile del 16) e così tutelato?

IL RISCHIO DEL «CAPORETTISMO». Un secolo dopo le domande non sono inutili. Per cercare di non tradire troppo la verità storica e sapere che cosa davvero accadde; per inserire il drammatico episodio nel quadro complessivo del conflitto, una battaglia assai più vasta e peggiore per l’Italia come perdite, rispetto ai giorni di combattimento, di quanto non sarebbe stata Stalingrado per l’Asse nel '42-'43 (15 giorni sull’Isonzo, oltre 100 a Stalingrado), anche se Caporetto fu presto tamponata dall’Italia e poi rovesciata e non ebbe certo le conseguenze strategiche e geopolitiche di Stalingrado o di El Alamein. Per capire infine quanto pesi Caporetto nella definizione del carattere nazionale, a rischio frequente di “caporettismi” per “sfasamento tra possibilità e obiettivi” e per “superficialità”, conseguenza di una ignoranza nazionale diffusa (anche ai vertici) e accettata senza complessi, come scriveva Mario Silvestri, grande osservatore di quella battaglia, di quella guerra e attraverso queste dell’Italia (si veda il suo Caporetto. Una battaglia e un enigma, 1984, oggi nella Bur-Rizzoli). Non bisogna dimenticare poi la seconda, peggiore Caporetto bis, 26 anni dopo, nel settembre-ottobre 1943, ancora con Badoglio al centro.

LA SUPERIORITÀ DELLE TECNICHE TEDESCHE. Caporetto fu la conseguenza di nuove tecniche di attacco tedesche già sperimentate poco prima contro i russi a Riga (1-3 settembre) che ribaltavano la logica del muro contro muro e degli attacchi in massa. Piccoli e piccolissimi reparti bene armati, aggiramenti ai fianchi, infiltrazioni nelle file nemiche, uso non solo a tappeto ma mirato dell’artiglieria, corse in profondità dietro le linee avversarie. Funzionò anche a Caporetto, funzionerà anche e in modo quasi altrettanto massiccio contro gli inglesi in Piccardia nel marzo del '18, dove erano stati mandati i comandanti tedeschi di Riga e di Caporetto, e a maggio contro i francesi sullo Chemin des Dames, fino ad allora ritenuto inespugnabile. Quei comandi non furono più illuminati dei nostri. Le conseguenze militari di Caporetto, per quanto gravissime con perdite enormi di uomini uccisi, feriti, prigionieri, materiali furono meno gravi delle conseguenze politiche e morali, perché in modo insperato l’esercito riuscì a fare diga sul Piave e a ricacciare gli avversari verso Nord Est e, alla fine, ad averne ragione. Fu lo sfaldamento non di un esercito, ma di una delle sue quattro Armate, la seconda, in un clima nazionale di grande confusione anche politica e di terrore di un arrivo del nemico fino a Milano e Bologna.

L'APPROSSIMAZIONE ITALIANA. Occorrerà attendere lo sfaldamento totale dell’esercito francese nel giugno 1940 per trovare qualcosa di analogo (e ben maggiore), e poi il «tutti a casa» delle forze armate italiane nel '43, sotto…Badoglio. L’Italia, a differenza dell’altrettanto giovane Stato unitario germanico, aveva poche glorie militari alle spalle, mancava quindi di quel fondamentale collante nazionale e punto di orgoglio che, inevitabilmente e purtroppo, erano le imprese militari di successo, e Caporetto pregiudicò tutto, per qualche mese e non solo. Resta una grande ombra, soprattutto se vista insieme al 1943. Silvestri rimane una lettura fondamentale perché va oltre la battaglia e scruta nell’intimo l’Italia. Creò la categoria nazionale dei “caporettisti”, approssimativi pasticcioni e affidati allo stellone, e il “capo rettissimo” fu Mussolini. Si può aggiungere su questo un dato che spiega tutto e spiega anche il 1943: nel Secondo conflitto mondiale l’Italia riuscì a costruire 11 mila aerei militari (in gran parte ottimi quando progettati nel '34 o '35, antiquati nel '40), l’Inghilterra e la Germania circa 12 volte di più, e gli Stati Uniti 294 mila. E noi dichiarammo a fine '41 guerra anche all’America.

BADOGLIO, SIMBOLO DEL PROFITTATORE. Ma non è finita. Nell’ultimo capitolo del suo Caporetto del 1984 Silvestri, che morirà 10 anni dopo a 75 anni e che di professione era docente di Ingegneria nucleare al Politecnico di Milano, intravede il rischio di un’altra grande Caporetto nazionale, rischio che in oltre 30 anni è aumentato: quello di un diffuso impoverimento economico e morale nazionale, frutto degli eventi globali e della poca capacità italiana di capirli, di affrontarli e di impedire che uomini inadeguati in tutto ma non nel carrierismo tenace e astuto aggiungano danno a danno. Su Badoglio, simbolo nazionale dell’astuto profittatore d’alto bordo, «un cane da pagliaio che corre dove il boccone è più grosso» diceva amaro il suo grande avversario, il generale Enrico Caviglia che a Caporetto dovette salvargli i brandelli del Corpo d’Armata, Silvestri è definitivo: «È d’altronde naturale che, non avendolo eliminato dal comando nel 1917, ma avendolo anzi promosso, gli italiani se lo siano ritrovato fra i piedi, a pretendere un posto nella storia, in posizione più elevata e in momenti ancor più drammatici di quelli dell’ottobre 1917».

Esame di coscienza dell’Italia, scrive Emilio Gentile il 24 ottobre 2017 su “Il Sole 24 ore". Si suicidò il 4 novembre 1917 il senatore Leopoldo Franchetti. Aveva settanta anni, e ne aveva dedicati oltre quaranta, come studioso e come politico, all’emancipazione dei contadini e del Mezzogiorno, che da giovane aveva percorso a cavallo per conoscere personalmente le condizioni economiche e amministrative delle province meridionali. Di famiglia ebraica livornese, ricco proprietario terriero, conservatore liberale, lasciò le sue terre ai contadini, che le lavoravano, e il suo patrimonio a un istituto di beneficenza. Fautore dell’intervento italiano nella Grande Guerra, si uccise perché affranto dalla catastrofe di Caporetto. Per lo stesso motivo, fu sul punto di farsi «saltare le cervella» Leonida Bissolati: «È finita per noi. Noi dobbiamo scomparire. Noi siamo stati coloro che hanno fatto il sogno della più grande Italia. Abbiamo voluto creare un’Italia militare. Abbiamo errato. Costruivamo sul vuoto. Gli italiani non erano preparati. Noi ci facevamo illusioni: noi abbiamo con questo trascinato l’Italia a questo punto. Perciò dobbiamo pagare, e scomparire». Bissolati non era un nazionalista: era un socialista riformista, interventista democratico, volontario e combattente a 58 anni, assertore del principio di nazionalità, tanto che dopo la guerra si oppose all’annessione all’Italia di territori dove la popolazione non era in maggioranza italiana.

Il proposito del suicidio non sfiorò il generale Luigi Cadorna, capo di Stato maggiore dell’esercito, che addossò la colpa della disfatta alla viltà dei soldati e alla propaganda disfattista dei neutralisti. Altri considerarono la rotta di Caporetto uno «sciopero militare», fomentato dai socialisti e suscitato dall’esempio della rivoluzione in Russia, oppure una rivolta dei fanti contadini che versavano maggior copia di sangue nella «guerra dei signori», costretti a combattere e a morire sotto la sferza di una ferrea e spietata disciplina. Nessuna di queste spiegazioni era prossima alla verità di un disastro che aveva origini e cause esclusivamente militari, anche se la gravità delle sue conseguenze indusse molti contemporanei a considerare la rotta di Caporetto la rivelazione di una profonda crisi morale, che coinvolgeva, nell’attribuzione delle responsabilità, oltre ai comandi militari, l’intera classe dirigente. «Catastrofi come la presente non si esauriscono in una causa occasionale, ma sono il risultato di fattori complessi, molteplici, remoti», scriveva Giuseppe Prezzolini, interventista e volontario in guerra, all’indomani di Caporetto, in una delle più acute analisi delle carenze militari, politiche e sociali, che avevano reso possibile la trasformazione di una disfatta militare in una catastrofe nazionale, che pareva travolgere l’esistenza stessa dell’Italia unita, mostrando la fragilità delle sue precarie fondamenta statali e morali.

Anche se, un decennio più tardi, un grande storico come Gioacchino Volpe, militante nazionalista e fascista, ironizzava su quanti, per spiegare Caporetto, «la pigliavano di lontano e rivangavano tutta la storia d’Italia, presentandola quasi come teologicamente orientata verso Caporetto», all’indomani della catastrofe, con il nemico che occupava gran parte del Veneto, intellettuali e politici non afflitti da retorica ritennero necessario affiancare, alla resistenza armata dell’esercito, un «esame nazionale» per suscitare una resistenza morale non occasionale ma tale da operare nel profondo della coscienza collettiva. Nel novembre 1917, alcuni studiosi e combattenti di vario orientamento costituirono un Comitato per l’esame nazionale, col proposito di riscrivere la storia italiana dal Rinascimento alla Grande Guerra alla luce della rotta di Caporetto. La premessa dell’iniziativa non era soltanto scientifica, ma esplicitamente politica, perché i promotori facevano risalire le «responsabilità mediate e profonde» di Caporetto, «a cinquant’anni di mal governo, di corruzione politica, di dittature parlamentari, di menzogne elettorali, di assenza della scuola popolare, di voluto e sistematicamente procurato servilismo in tutti i rami di funzionari, di assenza di dignità, di forza, di volontà nei rappresentanti dello Stato». L’iniziativa ebbe molte adesioni. Benedetto Croce, che pure era stato contrario all’intervento italiano, lodò «l’ottimo proposito di promuovere un esame di coscienza della vita nazionale» perché, avendo da «sempre frugato con animo ansioso e doloroso le pagine della storia d’Italia», aveva potuto «osservare che la storia, la storia vera d’Italia, è quasi ignota a tutti».

Non fu tuttavia con i libri di storia che l’Italia resistette dopo Caporetto fino a Vittorio Veneto, dove concluse vittoriosamente la guerra. Eppure, se vinse, fu perché fu in grado di trarre una lezione efficace dall’esame nazionale al quale Caporetto l’aveva costretta. Può apparire oggi ingenua l’iniziativa di un esame di coscienza nazionale per fronteggiare una disfatta militare. Eppure, una simile ingenuità fu condivisa, due decenni più tardi, da uno dei grandi storici del Novecento, Marc Bloch, di fronte al crollo della Francia invasa dalle armate hitleriane nel giugno 1940, che certamente fu catastrofe nazionale di più vaste e gravi dimensioni di quella subita dall’Italia con Caporetto. Bloch aveva combattuto nella Grande Guerra e di nuovo era stato mobilitato all’inizio della Seconda guerra mondiale. Anch’egli volle rendersi conto della «strana disfatta», come la definì, del suo Paese, domandandosi: «Di chi la colpa?». E Bloch pensava, come i suoi predecessori italiani dopo Caporetto, che la ricerca doveva svolgersi non solo nel campo militare, ma si doveva scovarne le radici «più lontano e più in profondità». E sotto l’occupazione tedesca, Bloch scrisse un esame di coscienza in quanto francese, per comprendere «il più atroce crollo della nostra storia», confessando che non affrontava «a cuor leggero questa parte del mio compito. Francese, mi vedrà costretto, parlando della mia patria, a non dirne soltanto bene; ed è penoso dover denunciare le debolezze della madre dolente». L’esame di coscienza portò Bloch a combattere nella resistenza francese e a morire fucilato dai tedeschi il 16 giugno 1944, dopo essere stato per mesi torturato. A cento anni da Caporetto, a quasi ottant’anni dalla «strana disfatta» francese, gli esami nazionali possono apparire ingenui o anacronistici. Tale può apparire anche il suicidio di Franchetti. Altre catastrofi ha subito l’Italia nel corso degli ultimi cento anni, sia pure di diversa gravità: l’8 settembre 1943; la «Caporetto economica» del 1973; il disfacimento della «repubblica dei partiti» dopo il 1993. Ma non risulta che ci siano stati altri nuovi esami nazionali. O, se ci sono stati, l’Italia non li ha superati. Forse per questo l’Italia vive da decenni sotto il segno di una perenne disfatta. Tentare allora un nuovo esame nazionale?

DEMOCRAZIA: LA DITTATURA DELLE MINORANZE.

La coperta corta e l’illusione della rappresentanza politica, tutelitaria degli interessi diffusi.

Di Antonio Giangrande Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Antonio Giangrande ha scritto i libri che parlano delle caste e delle lobbies; della politica, in generale, e dei rispettivi partiti politici, in particolare.

La dittatura è una forma autoritaria di governo in cui il potere è accentrato in un solo organo, se non addirittura nelle mani del solo dittatore, non limitato da leggi, costituzioni, o altri fattori politici e sociali interni allo Stato. Il ricambio al vertice decisionale si ha con l’eliminazione fisica del dittatore per mano dei consanguinei in linea di successione o per complotti cruenti degli avversari politici. In senso lato, dittatura ha quindi il significato di predominio assoluto e perlopiù incontrastabile di un individuo (o di un ristretto gruppo di persone) che detiene un potere imposto con la forza. In questo senso la dittatura coincide spesso con l'autoritarismo e con il totalitarismo. Sua caratteristica è anche la negazione della libertà di espressione e di stampa.

La democrazia non è altro che la dittatura delle minoranze reazionarie, che, con fare ricattatorio, impongono le loro pretese ad una maggioranza moderata, assoggetta da calcoli politici.

Si definisce minoranza un gruppo sociale che, in una data società, non costituisce una realtà maggioritaria. La minoranza può essere in riferimento a: etnia (minoranza etnica), lingua (minoranza linguistica), religione (minoranza religiosa), genere (minoranza di genere), età, condizione psicofisica.

Minoranza con potere assoluto è chi eserciti una funzione pubblica legislativa, giudiziaria o amministrativa. Con grande influenza alla formazione delle leggi emanate nel loro interesse. Queste minoranze sono chiamate "Caste".

Minoranza con potere relativo è colui che sia incaricato di pubblico servizio, ai sensi della legge italiana, ed identifica chi, pur non essendo propriamente un pubblico ufficiale con le funzioni proprie di tale status (certificative, autorizzative, deliberative), svolge comunque un servizio di pubblica utilità presso organismi pubblici in genere. Queste minoranze sono chiamate "Lobbies professionali abilitate" (Avvocati, Notai, ecc.). A queste si aggiungono tutte quelle lobbies economiche o sociali rappresentative di un interesse corporativo non abilitato. Queste si distinguono per le battagliere e visibili pretese (Tassisti, sindacati, ecc.).

Le minoranze, in democrazia, hanno il potere di influenzare le scelte politiche a loro vantaggio ed esercitano, altresì, la negazione della libertà di espressione e di stampa, quando queste si manifestano a loro avverse.

Questo impedimento è l'imposizione del "Politicamente Corretto” nello scritto e nel parlato. Recentemente vi è un tentativo per limitare ancor più la libertà di parola: la cosiddetta lotta alle “Fake news”, ossia alle bufale on line. La guerra, però, è rivolta solo contro i blog e contro i forum, non contro le testate giornalistiche registrate. Questo perché, si sa, gli abilitati sono omologati al sistema.

Nel romanzo 1984 George Orwell immaginò un mondo in cui il linguaggio e il pensiero della gente erano stati soffocati da un tentacolare sistema persuasivo tecnologico, allestito dallo stato totalitario. La tirannia del “politicamente corretto”, che negli ultimi anni si è impossessata della cultura occidentale, ricorda molto il pensiero orwelliano: qualcuno dall'alto stabilisce cosa, in un determinato frangente storico, sia da ritenersi giusto e cosa sbagliato e sfruttando la cassa di risonanza della cultura di massa, induce le persone ad aderire ad una serie di dogmi laici spacciati per imperativi etici, quando in realtà sono solo strumenti al soldo di una strategia socio-politica.

Di esempi della tirannia delle minoranze la cronaca è piena. Un esempio per tutti.

Assemblea Pd, basta con questi sciacalli della minoranza, scrive Andrea Viola, Avvocato e consigliere comunale Pd, il 15 febbraio 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Mentre il Paese ha bisogno di risposte, la vecchia sinistra pensa sempre e solo alle proprie poltrone: è un vecchio vizio dalemiano. Per questi democratici non importa governare l’Italia, è più importante controllare un piccolo ma proprio piccolo partito. Di queste persone e di questi politicanti siamo esausti: hanno logorato sempre il Pd e il centro-sinistra; hanno sempre e solo pensato ai loro poltronifici; si sono sempre professati più a sinistra di ogni segretario che non fosse un loro uomo. Ma ora basta. Ricapitoliamo. Renzi perde le primarie con Bersani prima delle elezioni politiche del 2013. Bersani fa le liste mettendo dentro i suoi uomini con il sistema del Porcellum (altro che capilista bloccati). Elezioni politiche che dovevano essere vinte con facilità ed invece la campagna elettorale di Bersani fu la peggiore possibile. Renzi da parte sua diede il più ampio sostegno, in maniera leale e trasparente. Il Pd di Bersani non vinse e fu costretto ad un governo Letta con Alfano e Scelta Civica. Dopo mesi di pantano, al congresso del Pd, Renzi vince e diventa il segretario a stragrande maggioranza. E poi, con l’appoggio del Giorgio Napolitano, nuovo presidente del Consiglio. Lo scopo del suo governo è fare le riforme da troppo tempo dimenticate: legge elettorale e riforma costituzionale. Tutti d’accordo. E invece ecco che Bersani, D’Alema e compagnia iniziano il lento logoramento, non per il bene comune ma per le poltrone da occupare. Si vota l’Italicum e la riforma costituzionale. Renzi fa l’errore di personalizzare il referendum ed ecco gli sciacalli della minoranza Pd che subito si fiondano. Da quel momento inizia la strategia: andare contro il segretario che cercare di riprendere in mano il partito. La prova è semplice da dimostrare: Bersani e i suoi uomini in Parlamento avevano votato a favore della riforma costituzionale. Non c’è bisogno di aggiungere altro. Invece il referendum finisce 59 a 41 per il No. Matteo Renzi, in coerenza con quello detto in precedenza, si dimette da presidente del Consiglio. E francamente vedere brindare D’Alema, Speranza e compagnia all’annuncio delle dimissioni di Renzi è stato veramente vomitevole. Questa è stata la prima e vera plateale scissione: compagni di partito che brindano contro il proprio segretario, vergognoso! Bene, da quel momento, è un susseguirsi di insulti continui a Renzi, insulti che neanche il proprio nemico si era mai sognato. Renzi, a quel punto, è pronto a dimettersi subito e aprire ad un nuovo congresso. Nulla, la minoranza non vuole e minaccia la scissione perché prima ci deve essere altro tempo. Non per lavorare nell’interesse della comunità ma per le mirabolanti strategie personali di Bersani e D’Alema. Avevano detto che dopo il referendum sarebbe bastato poco per fare altra legge elettorale e altra riforma costituzionale. Niente di più falso. Unico loro tormentone, fare fuori Matteo. Renzi, allora, chiede di fare presto per andare al voto. Apriti cielo: il baffetto minaccia la scissione, non vuole il voto subito, si perde il vitalizio. Dice che ci vuole il congresso prima del voto. Bene, Renzi si dice pronto. Lunedì scorso si tiene la direzione. Tanti interventi. Si vota. La minoranza, però, vota contro la mozione dei renziani. Il risultato: 107 con Renzi, 12 contro. “Non vogliamo un partito di Renzi”, dicono. Insomma il vaso è proprio colmo. Scuse su scuse, una sola verità: siete in stragrande minoranza e volete solo demolire il Pd e Renzi. Agli italiani però non interessa e non vogliono essere vostri ostaggi. E’ chiaro a tutti che non vi interessa governare ma avere qualche poltrona assicurata. Sarà bello vedervi un giorno cercare alleanze. I ricatti sono finiti: ora inizi finalmente la vera rottamazione.

No, no e 354 volte no. La sindrome Nimby (Not in my back yard, "non nel mio cortile") va ben oltre il significato originario. Non solo contestazioni di comitati che non vogliono nei dintorni di casa infrastrutture o insediamenti industriali: 354, appunto, bloccati solo nel 2012 (fonte Nimby Forum). Ormai siamo in piena emergenza Nimto – Not in my term of office, "non nel mio mandato" – e cioè quel fenomeno che svela l’inazione dei decisori pubblici. Nel Paese dei mille feudi è facile rinviare decisioni e scansare responsabilità. La protesta è un’arte, e gli italiani ne sono indiscussi maestri. Ecco quindi pareri "non vincolanti" di regioni, province e comuni diventare veri e propri niet, scrive Alessandro Beulcke su “Panorama”. Ministeri e governo, in un devastante regime di subalternità perenne, piegano il capo ai masanielli locali. Tempi decisionali lunghi, scelte rimandate e burocrazie infinite. Risultato: le multinazionali si tengono alla larga, le grandi imprese italiane ci pensano due volte prima di aprire uno stabilimento. Ammonterebbe così a 40 miliardi di euro il "costo del non fare" secondo le stime di Agici-Bocconi. E di questi tempi, non permettere l’iniezione di capitali e lavoro nel Paese è una vera follia.

NO TAV, NO dal Molin, NO al nucleare, NO all’ingresso dei privati nella gestione dell’acqua: negli ultimi tempi l’Italia è diventata una Repubblica fondata sul NO? A quanto pare la paura del cambiamento attanaglia una certa parte dell’opinione pubblica, che costituisce al contempo bacino elettorale nonché cassa di risonanza mediatica per politici o aspiranti tali (ogni riferimento è puramente casuale). Ciò che colpisce è la pervicacia con la quale, di volta in volta, una parte o l’altra del nostro Paese si barrica dietro steccati culturali, rifiutando tutto ciò che al di fuori dei nostri confini è prassi comune. Le battaglie tra forze dell’ordine e manifestanti NO TAV non si sono verificate né in Francia né nel resto d’Europa, nonostante il progetto preveda l’attraversamento del continente da Lisbona fino a Kiev: è possibile che solo in Val di Susa si pensi che i benefici dell’alta velocità non siano tali da compensare l’inevitabile impatto ambientale ed i costi da sostenere? E’ plausibile che sia una convinzione tutta italica quella che vede i treni ad alta velocità dedicati al traffico commerciale non rappresentare il futuro ma, anzi, che questi siano andando incontro a un rapido processo di obsolescenza? Certo, dire sempre NO e lasciare tutto immutato rappresenta una garanzia di sicurezza, soprattutto per chi continua a beneficiare di rendite di posizione politica, ma l’Italia ha bisogno di cambiamenti decisi per diventare finalmente protagonista dell’Europa del futuro. NO?

Il Paese dei "No" a prescindere. Quando rispettare le regole è (quasi) inutile. In Italia non basta rispettare le regole per riuscire ad investire nelle grandi infrastrutture. Perché le regole non sono una garanzia in un Paese dove ogni decisione è messa in discussione dai mal di pancia fragili e umorali della piazza. E di chi la strumentalizza, scrive l’imprenditore Massimiliano Boi. Il fenomeno, ben noto, si chiama “Nimby”, iniziali dell’inglese Not In My Backyard (non nel mio cortile), ossia la protesta contro opere di interesse pubblico che si teme possano avere effetti negativi sul territorio in cui vengono costruite. I veti locali e l’immobilismo decisionale ostacolano progetti strategici e sono il primo nemico per lo sviluppo dell’Italia. Le contestazioni promosse dai cittadini sono “cavalcate” (con perfetta par condicio) dalle opposizioni e dagli stessi amministratori locali, impegnati a contenere ogni eventuale perdita di consenso e ad allontanare nel tempo qualsiasi decisione degna di tale nome. Dimenticandosi che prendere le decisioni è il motivo per il quale, in definitiva, sono stati eletti. L’Osservatorio del Nimby Forum (nimbyforum.it) ha verificato che dopo i movimenti dei cittadini (40,7%) i maggiori contestatori sono gli amministratori pubblici in carica (31,4%) che sopravanzano di oltre 15 punti i rappresentanti delle opposizioni. Il sito nimbyforum.it, progetto di ricerca sul fenomeno delle contestazioni territoriali ambientali gestito dall'associazione no profit Aris, rileva alla settima edizione del progetto che in Italia ci sono 331 le infrastrutture e impianti oggetto di contestazioni (e quindi bloccati). La fotografia che emerge è quella di un paese vecchio, conservatore, refrattario ad ogni cambiamento. Che non attrae investimenti perché è ideologicamente contrario al rischio d’impresa. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, è la tendenza allo stallo. Quella che i sociologi definiscono “la tirannia dello status quo”, cioè dello stato di fatto, quasi sempre insoddisfacente e non preferito da nessuno. A forza di "no" a prescindere, veti politici e pesanti overdosi di burocrazia siamo riusciti (senza grandi sforzi) a far scappare anche le imprese straniere. La statistica è piuttosto deprimente: gli investimenti internazionali nella penisola valgono 337 miliardi, la metà di quelli fatti in Spagna e solo l’1,4% del pil, un terzo in meno di Francia e Germania. Un caso per tutti, raccontato da Ernesto Galli Della Loggia. L’ex magistrato Luigi de Magistris, sindaco di Napoli, città assurta come zimbello mondiale della mala gestione dei rifiuti, si è insediato come politico “nuovo”, “diverso”, “portatore della rivoluzione”. Poi, dicendo “no” ai termovalorizzatori per puntare solo sulla raccolta differenziata, al molo 44 Area Est del porto partenopeo, ha benedetto l’imbarco di 3 mila tonn di immondizia cittadina sulla nave olandese “Nordstern” che, al prezzo di 112 euro per tonn, porterà i rifiuti napoletani nel termovalorizzatore di Rotterdam. Dove saranno bruciati e trasformati in energia termica ed elettrica, a vantaggio delle sagge collettività locali che il termovalorizzatore hanno voluto. Ma senza andare lontano De Magistris avrebbe potuto pensare al termovalorizzatore di Brescia, dove pare che gli abitanti non abbiano l’anello al naso. Scrive Galli Della Loggia: “Troppo spesso questo è anche il modo in cui, da tempo, una certa ideologia verde cavalca demagogicamente paure e utopie, senza offrire alcuna alternativa reale, ma facendosi bella nel proporre soluzioni che non sono tali”.

In Italia stiamo per inventare la "tirannia della minoranza". Tocqueville aveva messo in guardia contro gli eccessivi poteri del Parlamento. Con la legge elettorale sbagliata si può andare oltre...scrive Dario Antiseri, Domenica 04/09/2016, su "Il Giornale". Nulla di più falso, afferma Ludwig von Mises, che liberalismo significhi distruzione dello Stato o che il liberale sia animato da un dissennato odio contro lo Stato. Precisa subito Mises in Liberalismo: «Se uno ritiene che non sia opportuno affidare allo Stato il compito di gestire ferrovie, trattorie, miniere, non per questo è un nemico dello Stato. Lo è tanto poco quanto lo si può chiamare nemico dell'acido solforico, perché ritiene che, per quanto esso possa essere utile per svariati scopi, non è certamente adatto ad essere bevuto o usato per lavarsi le mani». Il liberalismo prosegue Mises non è anarchismo: «Bisogna essere in grado di costringere con la violenza ad adeguarsi alle regole della convivenza sociale chi non vuole rispettare la vita, la salute, o la libertà personale o la proprietà privata di altri uomini. Sono questi i compiti che la dottrina liberale assegna allo Stato: la protezione della proprietà, della libertà e della pace». E per essere ancora più chiari: «Secondo la concezione liberale, la funzione dell'apparato statale consiste unicamente nel garantire la sicurezza della vita, della salute, della libertà e della proprietà privata contro chiunque attenti ad essa con la violenza». Conseguentemente, il liberale considera lo Stato «una necessità imprescindibile». E questo per la precisa ragione che «sullo Stato ricadono le funzioni più importanti: protezione della proprietà privata e soprattutto della pace, giacché solo nella pace la proprietà privata può dispiegare tutti i suoi effetti». È «la pace la teoria sociale del liberalismo». Da qui la forma di Stato che la società deve abbracciare per adeguarsi all'idea liberale, forma di Stato che è quella democratica, «basata sul consenso espresso dai governati al modo in cui viene esercitata l'azione di governo». In tal modo, «se in uno Stato democratico la linea di condotta del governo non corrisponde più al volere della maggioranza della popolazione, non è affatto necessaria una guerra civile per mandare al governo quanti intendano operare secondo la volontà della maggioranza. Il meccanismo delle elezioni e il parlamentarismo sono appunto gli strumenti che permettono di cambiare pacificamente governo, senza scontri, senza violenza e spargimenti di sangue». E se è vero che, senza questi meccanismi, «dovremmo solo aspettarci una serie ininterrotta di guerre civili», e se è altrettanto vero che il primo obiettivo di ogni totalitario è l'eliminazione di quella sorgente di libertà che è la proprietà privata, a Mises sta a cuore far notare che «i governi tollerano la proprietà privata solo se vi sono costretti, ma non la riconoscono spontaneamente per il fatto che ne conoscono la necessità. È accaduto spessissimo che persino uomini politici liberali, una volta giunti al potere, abbiano più o meno abbandonato i principi liberali. La tendenza a sopprimere la proprietà privata, ad abusare del potere politico, e a disprezzare tutte le sfere libere dall'ingerenza statale, è troppo profondamente radicata nella psicologia del potere politico perché se ne possa svincolare. Un governo spontaneamente liberale è una contradictio in adjecto. I governi devono essere costretti ad essere liberali dal potere unanime dell'opinione pubblica». Insomma, aveva proprio ragione Lord Acton a dire che «il potere tende a corrompere e che il potere assoluto corrompe assolutamente». Un ammonimento, questo, che dovrebbe rendere i cittadini e soprattutto gli intellettuali ed i giornalisti più consapevoli e responsabili. Da Mises ad Hayek. In uno dei suoi lavori più noti e più importanti, e cioè Legge, legislazione e libertà, Hayek afferma: «Lungi dal propugnare uno Stato minimo, riteniamo indispensabile che in una società avanzata il governo dovrebbe usare il proprio potere di raccogliere fondi per le imposte per offrire una serie di servizi che per varie ragioni non possono essere forniti o non possono esserlo in modo adeguato dal mercato». A tale categoria di servizi «appartengono non soltanto i casi ovvi come la protezione dalla violenza, dalle epidemie o dai disastri naturali quali allagamenti e valanghe, ma anche molte delle comodità che rendono tollerabile la vita nelle grandi città, come la maggior parte delle strade, la fissazione di indici di misura, e molti altri tipi di informazione che vanno dai registri catastali, mappe e statistiche, ai controlli di qualità di alcuni beni e servizi». È chiaro che l'esigere il rispetto della legge, la difesa dai nemici esterni, il campo delle relazioni internazionali, sono attività dello Stato. Ma vi è anche, fa presente Hayek, tutta un'altra classe di rischi per i quali solo recentemente è stata riconosciuta la necessità di azioni governative: «Si tratta del problema di chi, per varie ragioni, non può guadagnarsi da vivere in un'economia di mercato, quali malati, vecchi, handicappati fisici e mentali, vedove e orfani, cioè coloro che soffrono condizioni avverse, le quali possono colpire chiunque e contro cui molti non sono in grado di premunirsi da soli ma che una società la quale abbia raggiunto un certo livello di benessere può permettersi di aiutare». La «Grande Società» può permettersi fini umanitari perché è ricca; lo può fare «con operazioni fuori mercato e non con manovre che siano correzioni del mercato medesimo». Ma ecco la ragione per cui esso deve farlo: «Assicurare un reddito minimo a tutti, o un livello cui nessuno scenda quando non può provvedere a se stesso, non soltanto è una protezione assolutamente legittima contro rischi comuni a tutti, ma è un compito necessario della Grande Società in cui l'individuo non può rivalersi sui membri del piccolo gruppo specifico in cui era nato». E, in realtà, ribadisce Hayek, «un sistema che invoglia a lasciare la sicurezza goduta appartenendo ad un gruppo ristretto, probabilmente produrrà forti scontenti e reazioni violente quando coloro che ne hanno goduto prima i benefici si trovino, senza propria colpa, privi di aiuti, perché non hanno più la capacità di guadagnarsi da vivere». Tutto ciò premesso, Hayek torna ad insistere sul pericolo insito anche nelle moderne democrazie dove si è persa la distinzione tra legge e legislazione, vale a dire tra un ordine che «si è formato per evoluzione», un ordine «endogeno» e che si «autogenera» (cosmos) da una parte e dall'altra «un ordine costruito». Un popolo sarà libero se il governo sarà un governo sotto l'imperio della legge, cioè di norme di condotta astratte frutto di un processo spontaneo, le quali non mirano ad un qualche scopo particolare, si applicano ad un numero sconosciuto di casi possibili, e formano un ordine in cui gli individui possano realizzare i loro scopi. E, senza andare troppo per le lunghe, l'istituto della proprietà intendendo con Locke per «proprietà» non solo gli oggetti materiali, ma anche «la vita, la libertà ed i possessi» di ogni individuo costituisce, secondo Hayek, «la sola soluzione finora scoperta dagli uomini per risolvere il problema di conciliare la libertà individuale con l'assenza di conflitti». La Grande società o Società aperta in altri termini «è resa possibile da quelle leggi fondamentali di cui parlava Hume, e cioè la stabilità del possesso, il trasferimento per consenso e l'adempimento delle promesse». Senza una chiara distinzione tra la legge posta a garanzia della libertà e la legislazione di maggioranze che si reputano onnipotenti, la democrazia è perduta. La verità, dice Hayek, è che «la sovranità della legge e la sovranità di un Parlamento illimitato sono inconciliabili». Un Parlamento onnipotente, senza limiti alla legiferazione, «significa la morte della libertà individuale». In breve: «Noi possiamo avere o un Parlamento libero o un popolo libero». Tocqueville, ai suoi tempi, aveva messo in guardia contro la tirannia della maggioranza; oggi, ai nostri giorni, in Italia, si va ben oltre, sempre più nel baratro, con la proposta di una legge elettorale dove si prefigura chiaramente una «tirannia» della minoranza. Dario Antiseri

Quelli che... è sempre colpa del liberalismo. Anche se in Italia neppure esiste. A sinistra (ma pure a destra) è diffusa l'idea che ogni male della società sia frutto dell'avidità e del cinismo capitalistico. Peccato sia l'esatto contrario: l'assenza di mercato e di concorrenza produce ingiustizie e distrugge l'eco..., scrive Dario Antiseri, Domenica 04/09/2016, su "Il Giornale". Una opinione sempre più diffusa e ribadita senza sosta è quella in cui da più parti si sostiene che i tanti mali di cui soffre la nostra società scaturiscano da un'unica e facilmente identificabile causa: la concezione liberale della società. Senza mezzi termini si continua di fatto a ripetere che il liberalismo significhi «assenza di Stato», uno sregolato laissez fairelaissez passer, una giungla anarchica dove scorrazzano impuniti pezzenti ben vestiti ingrassati dal sangue di schiere di sfruttati. Di fronte ad un sistema finanziario slegato dall'economia reale, a banchieri corrotti e irresponsabili che mandano sul lastrico folle di risparmiatori, quando non generano addirittura crisi per interi Stati; davanti ad una disoccupazione che avvelena la vita di larghi strati della popolazione, soprattutto giovanile; di fronte ad ingiustizie semplicemente spaventose generate da privilegi goduti da bande di cortigiani genuflessi davanti al padrone di turno; di fronte ad imprenditori che impastano affari con la malavita e ad una criminalità organizzata che manovra fiumi di (...) (...) denaro; di fronte a queste e ad altre «ferite» della società, sul banco degli imputati l'aggressore ha sempre e comunque un unico volto: quello della concezione liberale della società. E qui è più che urgente chiedersi: ma è proprio vero che le cose stanno così, oppure vale esattamente il contrario, cioè a dire che le «ferite» di una società ingiusta, crudele e corrotta zampillano da un sistematico calpestamento dei principi liberali, da un tenace rifiuto della concezione liberale dello Stato? Wilhelm Röpke, uno dei principali esponenti contemporanei del pensiero liberale, muore a Ginevra il 12 febbraio del 1966. Nel ricordo di Ludwig Erhard, allora Cancelliere della Germania Occidentale: «Wilhelm Röpke è un grande testimone della verità. I miei sforzi verso il conseguimento di una società libera sono appena sufficienti per esprimergli la mia gratitudine, per avere egli influenzato la mia concezione e la mia condotta». E furono esattamente le idee della Scuola di Friburgo alla base della strabiliante rinascita della Germania Occidentale dopo la fine della seconda guerra mondiale. Ancora Erhard, qualche anno prima, nel 1961: «Se esiste una teoria in grado di interpretare in modo corretto i segni del tempo e di offrire un nuovo slancio simultaneamente ad un'economia di concorrenza e a un'economia sociale, questa è la teoria proposta da coloro che vengono chiamati neoliberali o ordoliberali. Essi hanno posto con sempre maggiore intensità l'accento sugli aspetti politici e sociali della politica economica affrancandola da un approccio troppo meccanicistico e pianificatore». E tutt'altro che una assenza dello Stato caratterizza la proposta dei sostenitori dell'Economia sociale di mercato. La loro è una concezione di uno Stato forte, fortissimo, istituito a presidio di regole per la libertà: «Quel che noi cerchiamo di creare - affermano Walter Eucken e Franz Böhm nel primo numero di Ordo (1948) è un ordine economico e sociale che garantisca al medesimo tempo il buon funzionamento dell'attività economica e condizioni di vita decenti e umane. Noi siamo a favore dell'economia di concorrenza perché è essa che permette il conseguimento di questo scopo. E si può anche dire che tale scopo non può essere ottenuto che con questo mezzo». Non affatto ciechi di fronte alle minacce del potere economico privato sul funzionamento del mercato concorrenziale né sul fatto che le tendenze anticoncorrenziali sono più forti nella sfera pubblica che in quella privata, né sui torbidi maneggi tra pubblico e privato, gli «Ordoliberali» della scuola di Friburgo, distanti dalla credenza in un'armonia spontanea prodotta dalla «mano invisibile», hanno sostenuto l'idea che il sistema economico deve funzionare in conformità con una «costituzione economica» posta in essere dallo Stato. Scrive Walter Eucken nei suoi Fondamenti di economia politica (1940): «Il sistema economico deve essere pensato e deliberatamente costruito. Le questioni riguardanti la politica economica, la politica commerciale, il credito, la protezione contro i monopoli, la politica fiscale, il diritto societario o il diritto fallimentare, costituiscono i differenti aspetti di un solo grande problema, che è quello di sapere come bisogna stabilire le regole dell'economia, presa come un tutto a livello nazionale ed internazionale». Dunque, per gli Ordoliberali il ruolo dello Stato nell'economia sociale di mercato non è affatto quello di uno sregolato laissez-faire, è bensì quello di uno «Stato forte» adeguatamente attrezzato contro l'assalto dei monopolisti e dei cacciatori di rendite. Eucken: «Lo Stato deve agire sulle forme dell'economia, ma non deve essere esso stesso a dirigere i processi economici. Pertanto, sì alla pianificazione delle forme, no alla pianificazione del controllo del processo economico». «Non fa d'uopo confutare ancora una volta la grossolana fola che il liberalismo sia sinonimo di assenza dello Stato o di assoluto lasciar fare o lasciar passare». Questo scrive Luigi Einaudi in una delle sue Prediche inutili (dal titolo: Discorso elementare sulle somiglianze e sulle dissomiglianze tra liberalismo e socialismo). E prosegue: «Che i liberali siano fautori dello Stato assente, che Adamo Smith sia il campione dell'assoluto lasciar fare e lasciar passare sono bugie che nessuno studioso ricorda; ma, per essere grosse, sono ripetute dalla più parte dei politici, abituati a dire: superata l'idea liberale; non hanno letto mai nessuno dei libri sacri del liberalismo e non sanno in che cosa esso consista». Contro Croce, per il quale il liberalismo «non ha un legame di piena solidarietà col capitalismo o col liberismo economico della libera concorrenza», Einaudi giudica del tutto inconsistente simile posizione in quanto una società senza economia di mercato sarebbe oppressa da «una forza unica dicasi burocrazia comunista od oligarchia capitalistica capace di sovrapporsi alle altre forze sociali», con la conseguenza «di uniformizzare e conformizzare le azioni, le deliberazioni, il pensiero degli uomini». Così Einaudi nel suo contrasto con Croce (in B. Croce-L. Einaudi, Liberismo e Liberalismo, 1957). È un fatto sotto gli occhi di tutti che ipertrofia dello Stato ed i monopoli sono storicamente nemici della libertà. Monopolismo e collettivismo ambedue sono fatali alla libertà. Per questo, tra i principali compiti dello Stato liberale vi è una lotta ai monopoli, a cominciare dal monopolio dell'istruzione. Solo all'interno di precisi limiti, cioè delle regole dello Stato di diritto, economia di mercato e libera concorrenza possono funzionare da fattori di progresso. Lo Stato di diritto equivale all'«impero della legge», e l'impero della legge è condizione per l'anarchia degli spiriti. Il cittadino deve obbedienza alla legge. Legge che deve essere «una norma nota e chiara, che non può essere mutata per arbitrio da nessun uomo, sia esso il primo dello Stato». Uguaglianza giuridica di tutti i cittadini davanti alla legge; e, dalla prospettiva sociale, uguaglianza delle opportunità sulla base del principio che «in una società sana l'uomo dovrebbe poter contare sul minimo necessario per la vita» un minimo che sia «non un punto di arrivo, ma di partenza; una assicurazione data a tutti gli uomini perché tutti possano sviluppare le loro attitudini» (Lezioni di politica sociale, 1944). Netta appare, quindi, la differenza tra la concezione liberale dello Stato e la concezione socialista dello Stato, nonostante che l'una e l'altra siano animate dallo stesso ideale di elevamento materiale e morale dei cittadini. «L'uomo liberale vuole porre norme osservando le quali risparmiatori, proprietari, imprenditori, lavoratori possano liberamente operare, laddove l'uomo socialista vuole soprattutto dare un indirizzo, una direttiva all'opera dei risparmiatori, proprietari, imprenditori suddetti. Il liberale pone la cornice, traccia i limiti dell'operare economico, il socialista indica o ordina le maniere dell'operare» (Liberalismo e socialismo in Prediche inutili). E ancora: «Liberale è colui che crede nel perfezionamento materiale o morale conquistato con lo sforzo volontario, col sacrificio, colla attitudine a lavorare d'accordo cogli altri; socialista è colui che vuole imporre il perfezionamento colla forza, che lo esclude, se ottenuto con metodi diversi da quelli da lui preferito, che non sa vincere senza privilegi a favor proprio e senza esclusive pronunciate contro i reprobi». Il liberale discute per deliberare, prende le sue decisioni dopo la più ampia discussione; ma questo non fa colui che presume di essere in possesso della verità assoluta: «Il tiranno non ha dubbi e procede diritto per la sua via; ma la via conduce il paese al disastro». Dario Antiseri

"Liberali di tutta Italia, svegliatevi". Pubblichiamo, per gentile concessione dell'editore "La Nave di Teseo", un brano dal nuovo libro di Nicola Porro, "La disuguaglianza fa bene", scrive Nicola Porro, Lunedì 12/09/2016, su "Il Giornale". Nel tempo in cui viviamo, bisogna diffidare di quanti si definiscono liberali senza esserlo. I principi del liberalismo classico, nonostante sembrino accettati da tutti, non lo sono fino in fondo. Da quanto abbiamo appena detto, il liberale tende a essere conservatore quando c’è una libertà da proteggere (il diritto di proprietà, ad esempio, di chi non riesce a sfrattare un inquilino moroso), progressista quando se ne devono tutelare di nuove (si pensi alle recenti minacce alla nostra privacy da parte di banche, stati o anche motori di ricerca) e talvolta anche reazionario quando occorre recuperare diritti sepolti nel passato (ad esempio una tassazione ridotta). Il filo rosso che lega queste diverse attitudini è ciò che Dario Antiseri definisce l’«individualismo metodologico»: la storia è guidata dalle azioni degli individui e sono questi ultimi che determinano le scelte fondamentali dell’economia. La collettività non esiste in sé, è la somma di una molteplicità di individui. Come diceva Pareto, un altro grande liberale di cui parleremo: «I tempi eroici del socialismo sono passati, i ribelli di ieri sono i soddisfatti di oggi». Il rischio è che questi soddisfatti si spaccino per liberali e anzi finiscano per spiegare ai liberali come devono comportarsi, anche in virtù degli errori che essi stessi hanno commesso. Quanti intellettuali ex maoisti, ex comunisti, ex gruppettari, ex fiancheggiatori delle Brigate rosse e delle rivolte di piazza, oggi in posizioni di comando, decantano le virtù del mercato? Se la loro fosse una conversione ragionata, alla Mamet come leggeremo, la cosa non dovrebbe scandalizzarci. Il problema è che i soddisfatti di oggi hanno un’idea farsesca del liberalismo e lo associano al loro personale successo. Che nella gran parte dei casi è arrivato solo grazie alle loro spiccate capacità di relazione. Fermatevi un attimo, pensate agli intellettuali che contano e vedrete due caratteristiche ricorrenti: hanno praticamente tutti combattuto contro i liberali tra gli anni sessanta e settanta eppure oggi spiegano al mondo i pregi del liberalismo, che a seconda dei casi si porta dietro l’aggettivo sociale o democratico. I veri liberali, non solo di casa nostra, si devono dare una mossa. Svegliarsi da un letargo ideale, che dura da qualche lustro. Il progresso tecnologico e quello degli ordini più o meno spontanei in cui si sono trasformate le nostre istituzioni obbliga anche i liberali di ieri ad affrontare, sul piano teorico, nuove sfide. Se i principi restano i medesimi, il contesto e le minacce sono cambiate. Alcuni dei veleni tipici del mercato hanno preso forme diverse, soprattutto quando sono coinvolte istituzioni finanziarie e grandi corporation digitali. Il monopolio e la sua rendita, il ruolo del free rider (cioè di chi ottiene benefici senza pagarne il prezzo) e il peso del moral hazard (ovvero prendere rischi enormi contando sul fatto di essere poi salvati, come nel caso di alcune note banche) hanno assunto forme diverse. Non è questo certo il luogo per affrontare in modo dettagliato il problema. Qualcosa si può dire, però. Un liberale classico pretende che l’impresa con perduranti conti in rosso fallisca. Altrimenti si stravolgerebbe la regola principale del mercato e della concorrenza. Il discorso vale anche per le banche. E se vale per le banche di una nazione, dovrebbe valere per tutti, vista la globalizzazione dei mercati? La risposta, sia chiaro, non è univoca. Anche dal punto di vista strettamente liberale. Taluni ad esempio potrebbero, per la tutela suprema del mercato, continuare a pensare che in ultima analisi salvare il fallito danneggerà anche il salvatore: e dunque chiederanno il fallimento delle banche nonostante i paesi vicini le sostengano con denaro pubblico. D’altra parte è anche vero che la discussione sembra essersi spostata dai conti dell’impresa ai bilanci della politica, dagli scambi sul mercato alle trattative nei palazzi del potere. Come rispondere alle imprese che sono tutelate e protette dalle proprie leggi nazionali, nonostante abbiano i conti in disordine? Insomma è una sfida nuova al pensiero liberale tradizionale. Così come si è rinnovata la battaglia contro i monopoli. Una fissazione di Luigi Einaudi, ma non solo. Pensiamo a quando Facebook – tra poco con i suoi 1,7 miliardi di abitanti la nazione più popolata della Terra – o Google – praticamente l’unico motore di ricerca sopravvissuto – diventeranno dei rentiers, dei profittatori della posizione privilegiata che hanno conquistato, e non più degli innovatori. E qui dimentichiamo per un attimo la gigantesca questione della privacy (altro terreno inesplorato) e andiamo al centro degli affari. Grazie al loro successo questi colossi spazzeranno via dal mercato (comprandolo) ogni concorrente. È sbagliato pensare che lo stato si debba occupare di loro, ma altrettanto illogico ritenere che il set di regole pensate per l’atomo si possa adattare al mondo dei byte: siamo di fronte a un processo simile a quello che ha visto cambiare le nostre civiltà da agricole a industriali. E che oggi le vede diventare digitali. Nuove entusiasmanti sfide per i liberali, che ieri contestavano Pigou e le sue esternalità basate sull’inquinamento dell’industria nei fiumi, e oggi dovranno capire come, e se, contenere gli effetti collaterali del digitale. Facebook ha impiegato quattro anni a toccare la favolosa capitalizzazione di borsa di 350 miliardi di dollari (praticamente quanto vale l’intera borsa italiana), Google nove, Microsoft tredici, Amazon diciotto e Apple trentuno anni. La velocità con cui queste grandi multinazionali assumono dimensioni finanziarie gigantesche è aumentata vertiginosamente. Ciò può spaventare, ma d’altro canto può anche rappresentare la fragilità di questi colossi: come velocemente sono nati e cresciuti, così rapidamente si possono sgonfiare. Chi mai pensava che Yahoo sarebbe stata acquistata per pochi (si fa per dire, meno di 5) miliardi di euro da un operatore telefonico? Il dilemma di un liberale oggi resta: si deve intervenire o no nella regolazione economica? E come? Problemi di sempre, ma che oggi hanno cambiato forma. 

ANTROPOLOGIA SINISTROIDE. VIAGGIO NEL CERVELLO PROGRESSISTA CHE “HA SEMPRE RAGIONE”.

"Gli italiani sono ignoranti". Così Boldrini vuole rieducarci. Pubblicata la relazione finale della Commissione JCox voluta da Laura Boldrini. In Italia ci sarebbe una "piramide dell'odio", soprattutto nell'immigrazione. E la presidente vuole rimedi per legge, scrive Giuseppe De Lorenzo, Sabato 22/07/2017, su "Il Giornale". Se non ve ne siete accorti, siete ignoranti. Sì, esatto: gli italiani sono asini. Soprattutto quando si parla di immigrazione. A metterlo nero su bianco è la Commissione Jo Cox della Camera dei deputati, un organismo voluto e presieduto da Laura Boldrini per studiare "l'intolleranza, la xenofobia, il razzismo e i fenomeni dell'odio". Istituita il 10 maggio 2016, la Commissione "include un deputato per ogni gruppo politico, rappresentanti di organizzazioni sopranazionali, di istituti di ricerca e di associazioni nonché esperti". Fin qui tutto normale. O quasi. Nel senso che la Commissione due giorni fa ha presentato la relazione finale dei suoi temutissimi lavori ed ha emesso la sua sentenza finale sul popolo populista: gli italiani hanno opinioni sbagliate, "stereotipi e false rappresentazioni". E per questo vanno rieducati. La relazione si apre con la spiegazione del concetto della "piramide dell'odio", una sorta di rappresentazione grafica e sociologica di come un "linguaggio ostile e banalizzato" possa trasformarsi in un "crimine d'odio" fino "all'omicidio" contro donne, gay, immigrati e altre religioni. Manco fossimo a Caracas. Segue quindi un lungo elenco di opinioni negative di cui sono soliti macchiarsi i cittadini poco illuminati. Come quelle di chi ritiene che "l’uomo debba provvedere alle necessità economiche della famiglia e che gli uomini siano meno adatti ad occuparsi delle faccende domestiche"; oppure che "una madre occupata non possa stabilire un buon rapporto con i figli al pari di una madre che non lavora". Che maschilisti, questi italiani! Non è tutto. Perché la vera ossessione del documento sono le idee sugli immigrati. Qui l'accusa si trasforma in offesa. Si legge infatti che "secondo l’Ignorance Index di IPSOS MORI, l’Italia risulta il Paese con il più alto tasso del mondo di ignoranza sull’immigrazione". E che cosa penseranno mai i populisti per meritarsi il titolo di ignoranti? Tutte cose normali, ma orribili per la Boldrini. Ritenete che "i datori di lavoro debbano dare la precedenza agli italiani"? Siete retrogradi. Credete che gli immigrati "tolgano lavoro" ai disoccupati nostrani? Solo bugie. Vi azzardate a dire che "i rifugiati sono un peso perché godono dei benefit sociali e del lavoro degli abitanti"? Siete de cattivoni: vitto e alloggio pagato per due anni a 170mila persone, di cui l'80% senza diritto d'asilo, sono un dovere. Non uno spreco. E ancora: credete che “un quartiere si degrada quando ci sono molti immigrati” e che “l’aumento degli immigrati favorisce il diffondersi del terrorismo e della criminalità"? Non sapete cosa dite. Forse i membri della Commissione Jo Cox una casa nelle periferie di Milano e Roma non l'hanno mai avuta. Altrimenti non avrebbero puntato tanto il dito contro chi non desidera migranti nel proprio quartiere (il valore delle case si deprezza rapidamente) e non vorrebbe rom e sinti "come vicini di casa". Ma tant'è. Dopo un lungo elenco di discriminazioni, omofobie e sessismi commessi dagli italiani, si arriva alle medicine proposte dalla Boldrini e i suoi compagni d'avventura. Sono le 56 "raccomandazioni per prevenire e contrastare l'odio" rivolte a governo, Ue, media, giornalisti, associazioni e operatori. E così per abbattere la violenza dovremo "approvare alcune importanti proposte di legge all’esame delle Camere, tra cui quelle sulla cittadinanza e sul contrasto dell'omofobia e della transfobia". Capito? Solo con lo ius soli si sconfigge l'odio: parola di Boldrini. Poi bisogna "rafforzare nelle scuole l’educazione di genere" (leggi: ideologia gender), educare i giovani al "rispetto, apertura interculturale, inter-religiosa" e istituire "un giurì che garantisca la correttezza dell’informazione". Nemmeno Orwell sarebbe arrivato a tanto, eleggendo un padre-padrone dell'informazione che ci rieduchi per legge e ci insegni la bellezza dell'interculturalismo. Viene da chiedersi chi sarà questo gran giurì. Non è che gatta ci cova? Infatti mentre bacchetta i giornali, la Boldrini vorrebbe "rafforzare il mandato dell’UNAR" (quello delle orge gay pagate dallo Stato) e "sostenere e promuovere blog e attivisti no hate o testate che promuovono una contro-narrazione". A chi vorrebbe dare appoggio (e forse soldi)? Magari proprio quei blog che hanno aiutato il Presidente della Camera nella sua raccolta firme "bastabufale.it", come "Il disinformatico" di Paolo Attivissimo, il blog di Paolo Puente o "Butac" di Michelangelo Coltelli. Tutti primi firmatari della campagna anti fake news. A pensar male si fa peccato, ma a volte ci si azzecca.

Scrive Maurizio Blondet il 13 gennaio 2017. Il ministro degli Interni Marco Minniti, dalemiano d’acciaio, ha enunciato la nuova politica della Sinistra sui migranti: raddoppio delle espulsioni. A questo scopo è andato in Libia a trattare con uno dei caporioni che hanno sostituito Gheddafi per ottenere un nuovo accordo sui “rimpatri”.  E reprimere il traffico dei barconi, impedendo il più possibile ulteriori arrivi dei barconi e dei gommoni dalla Libia. Quando le stesse cose le faceva da ministro degli interni Roberto Maroni, siccome era leghista, le stesse identiche azioni erano per la Sinistra incivili, odiosamente neandertaliane, inumane, inutili e anzi dannose. Grazie a Vendola, è diventato “di sinistra” sfruttare una donna povera, pagarla perché si faccia ingravidare da un estraneo, e poi strapparle il bambino per darlo a una coppia di ricchi omosessuali, che su quel bambino non hanno altro diritto che quello che viene dal denaro e dal potere. E questo fenomeno è evidente a livello mondiale. Barack Obama ha fatto più assassini, stragi, guerre con false scuse etiche, e sovversioni interne di paesi, di quanto abbia fatto il precedente Bush jr: eppure le opinioni pubbliche progressiste non cessano di considerarlo un uno dei loro, un modello luminoso della sinistra, persino un pacifista. Anche il fatto che abbia ordinato di ammazzare coi droni degli individui   sconosciuti da una lista preparata dalla Cia non ha scosso, agli occhi del “popolo di sinistra”, la sua bella fama di essere dalla parte del progresso contro l’oscurantismo; per contro, attribuiscono scopi guerrafondai a Trump. Parimenti, nessuna delle rivoltanti rivelazioni su Hillary Clinton ha infiltrato nelle sinistre del mondo occidentale il dubbio sul suo essere “democratica”.  Non il fatto che abbia detto con gioia incontenibile, a proposito di Gheddafi, “Veni, vidi, e lui morì!”. Non il fatto appurato che la sua Clinton Foundation era il raccoglitore delle mazzette gigantesche, grazie alle quali regimi reazionari e impresentabili come i sauditi potevano storcere secondo i loro desideri la politica estera Usa: fra cui la distruzione della Siria per insediarvi, al posto di un regime laico, una cosca wahabita decapitatrice; o di bombardare i bambini del paese più povero dell’area, lo Yemen.  Non la coscienza che Hillary era pronta a preparare le forze Usa a sferrare il primo colpo nucleare contro la Russia per annichilirla, come ha proclamato pubblicamente in innumerevoli interviste televisive, laddove Donald Trump ha negato con forza questa eventualità. Niente: agli occhi dei suoi fan, ma anche delle Botteri, Boldrini, delle Mogherini, come dei Gentiloni, come dei lettori di Repubblica e del Manifesto, Hillary Clinton è “di sinistra”, dunque ammirevole, e Trump “di destra”: quindi idiota, rozzo e spietato. Hillary ha dato enormi prove della sua inumanità, corruzione, marciume morale, totale assenza di scrupoli – e disprezzo del popolo lavoratore: eppure lei è   illuminata, illuminista, razionalista, moralmente superiore al rozzo idiota maschilista che palpa le donne e deride un giornalista invalido… Putin è riuscito a pacificare il carnaio siriano che Obama e Hillary avevano provocato e finanziato: eppure Putin è antidemocratico e pericoloso, mentre quei due sono per la pace. E non basta: ormai anche lo smantellamento dello stato sociale, l’asservimento dello Stato ai poteri finanziari speculativi, il filo-americanismo, l’imperialismo delle multinazionali, contro cui precedenti generazioni di sinistra scagliavano i loro strali propagandistici, adesso è “progressista”.  E chi è contro è “populista”; antisemita, e va escluso perciò dal dibattito pubblico. Anche, se necessario, con la violenza. E’ evidente che esiste qui un problema di antropologia – anzi peggio. Basti vedere le scene di disperazione degli snowflakes, i pianti durante l’addio ad Obama presidente che assicurava senza alcuna incertezza quanto fosse stata meravigliosa la sua presidenza, il dolore e odio espresso senza ritegno dalla “giornalista” Rai Botteri, per intravvedere qui una turba psichiatrica.  Estremamente pericolosa perché, essendo la Sinistra collettiva quella che dà le patenti di superiorità morale, essa sta imponendoci come santa ed etica la nuova versione di dittatura europea, la dittatura flaccida delle tecnocrazie ed oligarchie; insonne nel sorvegliare che all’orizzonte non sorga un improbabile Hitler, “di destra”, non ha visto arrivare l’Hitler del nostro tempo, che non ha baffetti né divisa militare. Anzi s’è messa al suo servizio.  Perché la prigione de popoli chiamata UE è “progressista”. Come fanno gli esseri umani “di sinistra” a mantenere la coscienza di sé come “progressisti” nonostante approvino politiche belliciste e imperialiste, anti-popolari e usurarie? Come mai per loro Minniti dalemiano fa una buona politica anti-immigrazioni, mentre quella di Maroni era disumana e repressiva? La domanda se l’è posta anche un gruppo di ricerca di psicologi dell’Università del Sud California (Brain and Creativity Institute and Department of Psychology, University of Southern California Los Angeles), che ha condotto una indagine sul fenomeno mentale. Scelti 40 partecipanti tra i 18 e i 39 anni, che definivano se stessi “liberal” (nel senso americano) con “solide opinioni progressiste”, hanno sottoposto loro un questionario dove, su una scala da 1 a 7, dovevano indicare la forza con cui condividevano opinioni come “l’aborto deve essere legale” e “le tasse ai ricchi vanno aumentate”: 1 per condivisione debole, 7 per accordo massimo. Seconda fase dell’esperimento: i volontari sono messi dentro un apparecchio di risonanza magnetica per riprendere le modificazioni dei loro cervelli mentre vengono sottoposti a certe immagini proiettate. Si tratta della proiezione breve (10 secondi) di una delle opinioni politiche per cui i soggetti hanno espresso un accordo forte, fra 6 e 7.  Dopo, ad essi vengono proiettate (sempre per 10 secondi) frasi che contraddicono l’opinione da loro fortemente condivisa, magari anche false. Tipo: “La Russia possiede il doppio di testate nucleari rispetto agli Usa” (falso) come contrasto all’idea pacifista (le sinistre sono “pacifiste, anche se hanno votato Hillary…) fortemente approvate, “Gli Usa devono ridurre le spese militari”.  Alla fine della sessione, si ripresentano ai volontari le opinioni dell’inizio, chiedendo loro di valutarle di nuovo assegnando il punteggio da 1 a 7. Le opinioni però sono mescolate, stavolta, a piatte affermazioni che non hanno a che vedere con la politica, come “le vitamine fanno bene” e “Edison è l’inventore della lampadina”; anche queste seguite da asserzioni contrarie.

Il risultato della (macchinosa) sperimentazione è meno sorprendente di quanto si pensi: i volontari non hanno cambiato praticamente di un millimetro le loro opinioni di colore “politico” (tasso di indebolimento della fiducia in esse: 0,31 punti), mentre la forza che perdono le opinioni non politiche, quando opposte ad argomenti contrari, è quattro volte superiore. Ma c’è di più, ed è la vera rivelazione del test: dalle immagini in risonanza magnetica, si è visto che quando il volontario “di sinistra” legge un’opinione “di destra”, il suo cervello attiva dei meccanismi di vera e propria resistenza, che tecnicamente si chiama “rete cerebrale del modo per difetto” – l’attivazione del precuneo, della corteccia cingolare posteriore media prefrontale – che secondo i neurologi è implicata nella identità, nel sé, nell’introspezione.  Sono, hanno appurato i ricercatori da precedenti test, le stesse zone che si attivano quando persone selezionate come fortemente religiose, vengono messe di fronte a frasi che negano o contrastano la loro fede. Anche allora c’è attività accresciuta del “Modo per difetto”. Insomma la Sinistra sta iscritta nell’apparato neuronale profondo. Così, quando i progressisti nel test   sono confrontati ad asserzioni che negano le loro credenze politiche, il cervello mobilita l’amigdala (che sembra implicata nella paura di fronte a una minaccia), la corteccia insulare ed altre strutture   collegate alla regolazione delle emozioni, e la memoria – attivata alla ricerca di un contrattacco, di argomenti polemici di resistenza. Jonas Kaplan, il capo della ricerca, lo spiega così: “Le credenze politiche somigliano alle credenze religiose in questo senso: che fanno parte di ciò che voi siete e sono importanti per la cerchia sociale in cui vi riconoscete appartenere”. Per assurdo, “per prendere in considerazione un altro punto di vista, dovreste prendere in considerazione un’altra versione di voi stessi”. La ricerca è stata motivata, conclude, dalla constatazione che nei dibattiti politici pubblici non si vedeva mai nessuno cambiare la propria opinione su temi importanti e discutibili. Che dire? Forse l’esperimento conferma che “la gente vive di fede come mille anni fa”, come scrivevo in un recente articolo: di rado l’uomo “pensa” davvero in proprio e originalmente (è una gran fatica) e di solito aderisce alle opinioni del suo ambiente; opinioni che sono “credenze”, che sono molto diverse dalle idee: per le idee si combatte e si dibatte, nelle credenze “si sta”, ci si vive dentro come nel paesaggio circostante. Per esempio, i progressisti “stanno” nella credenza   nel progresso, della superiorità della modernità sull’antichità, del “nuovo” rispetto al “vecchio”, che   li rende tanto ridicoli ad occhi riflessivi, e disperatamente inattaccabili da ogni dubbio. D’altra parte, il piatto materialismo dell’esperimento per cui si è scomodata la risonanza magnetica onde mappare i cervelli, dimostra insieme troppo, e troppo poco. In ognuno giace, pronto a risvegliarsi, il riflesso primordiale “Noi contro Loro”,  biologicamente necessario nelle arcaiche caccie e in primitive guerre tribali,  ma non meno utile  nei reparti militari in operazione; chi lo  sa suscitare  nelle  folle, sia il demagogo, un colonnello  o la società calcistica, ha il gioco facile a suscitare fedeltà e  avversità irrazionali;  metti “Noi” contro  “Loro”  e non hai bisogno di argomenti , di  spiegazioni; crei spirito di corpo (Noi)  e inimicizia  settaria (Loro), fino alla tendenziale disumanizzazione di “Loro”. D’altra parte, questo non dà ragione del particolare, specifico dell’antropologia di sinistra: quello per cui le stesse azioni sono deplorevoli se le fa un governo “di destra”, mentre sono lodevoli, o spiegabili, se le fa un politico “di sinistra”. Perché per le Botteri o Boldrini, Obama (e persino la Clinton) restano più civili e moralmente superiori, benché abbiano fatto più guerre di Bush jr, più distruzioni e malvagità?

Nel solo 2016, ultimo anno della sua presidenza, Obama ha fatto lanciare su sette paesi – Irak, Somalia, Siria, Libia, Pakistan, Afghanistan, Yemen – tre bombe ogni ora, notte giorno, 24 ore su 24. Inoltre:  ha ridato una postura offensiva alla NATO; ha ammassato armi , missili ed armati alla frontiera della Russia; ha creato in Ucraina un colpo di Stato; ha straziato la Siria con la creazione e l’addestramento dei terroristi del  Califfato;  non ha chiuso – nonostante le promesse –  il carcere di Guantanamo;   ha aiutato i sauditi a bombardare i civili del miserabile Yemen…In base a quale allucinazione le opinioni pubbliche “di sinistra”, in Europa  come in Usa, continuano a  rimpiangerlo come un civile progressista?  Moralmente superiore a Putin (“un dittatore nazionalista”), e senza confronto migliore di Trump, spregevole, che però non ha bombardato nessuno? E che dire delle sue politiche “sociali”?  Ha compiaciuto sempre e in tutto Wall Street, la finanza miliardaria e speculativa; ha fallito   il sistema assicurativo sanitario, che è diventato costosissimo tanto che poche famiglie possono permetterselo; sotto la sua guida, i salari sono calati, e le ricchezze dell’1% plutocratico aumentate; alla   fine, lascia un paese dove il numero degli americani in età di lavoro che ne sono fuori è aumentato: oggi sono 102,632 milioni, un record storico assoluto. Il numero dei maschi capifamiglia disoccupati è uguale a quello della Grande Depressione.  Il 47 per cento degli americani non ha da parte 400 dollari per far fronte a un imprevisto. E come mai le opinioni pubbliche progressiste continuano a vedere in lui un presidente “democratico”, anche se ha fatto tutte politiche anti-popolari e anti-lavoro? Tre giorni fa Obama ha tenuto il discorso di addio nella sua Chicago; almeno speriamo sia l’ultimo, è un mese che   tiene ultimi discorsi di addio.  Di fronte a un pubblico di fan, ha descritto le cose meravigliose che lui ha fatto per l’America, e come l’America sia diventata migliore negli otto anni del suo governo, più progredita, progressista e amica degli omosessuali – s’è commosso più volte ricordando e magnificando “il mio retaggio”, e i presenti si sono commossi ed estasiati con lui.   Ha promesso di restare a Washington per sorvegliare, dall’alto della sua superiorità morale, il governo dell’impresentabile Donald, per timore che guasti “la mia legacy”, il làscito (di caos e fallimenti?) che   adesso affida all’America progressista…E’ stato notato che Obama, in questo discorso, s’è riferito a se stesso 75 volte. Precisamente, ha detto “Io” 33 volte, “mio” 20 volte, “me” 10, “io sono” e “io ho fatto” 12 volte.  Una presunzione, un egocentrismo così conclamati (ancorché probabilmente aggravati dalla “cultura” del negro, schiavo  risalito ad altezze a  cui era impreparato), e una distorsione del senso di realtà e  mancanza di autocritica  così  patologico, che forse ci dà la chiave per capire  – su  questo caso clinico  estremo  messo sul tavolo anatomico  – l’organo difettoso  per cui “la sinistra”  è sempre sicura della propria superiorità morale, qualsiasi cosa faccia  –  al punto  da santificare, se le fa lei, azioni “di destra”. Come spiegarlo? Vi dirò: tutte le volte che mi capita di scrivere della mia fede cristiana c’è sempre qualche lettore che mi deride per questa mia debolezza mentale, da vecchierella; e poi, gonfiando il petto, scrive qualcosa come: “Io sono ateo, eppure sono perfettamente morale. Non ho bisogno di immaginarmi un Dio punitore, come lei, per aderire al mio codice etico”. Da qui riconosco immediatamente di trovarmi davanti a un progressista-tipo.  Questa è gente che non ha mai fatto un esame di coscienza. Non ha mai avuto modo di giudicarsi sinceramente e senza sconti.  Semplicemente perché “non è possibile” giudicarsi da sé; senza porsi alla presenza del Padre, senza confrontarsi con l’Altro, il Vivente che ti scruta dentro, non si trova altro che il proprio “Io”, e la sua inflazione – anzi enfiagione aerostatica al ridicolo livello di Obama. Ovviamente, si diventa il dio di se stessi. E infatti si può affermare: “Io sono ateo ma perfettamente morale”: è questa appunto la fase in cui il progressista può compiere atti mostruosi.

ITALIANI: VITTIME PATOLOGICHE.

Vittimismo patologico: Persone che funzionano in modalità “lamento”, scrive la Psicologa di professione e per passione Jennifer Delgado Suárez su "Angolo psicologia". Tutti, prima o poi, abbiamo assunto il ruolo della vittima. Ma ci sono persone che si trasformano in vittime permanenti arrivando a soffrire di ciò che si potrebbe definire "vittimismo cronico". Queste persone si travestono da false vittime, consapevolmente o inconsapevolmente, per simulare un’aggressione inesistente e, allo stesso tempo, scaricare la colpa sugli altri, liberandosi così da ogni responsabilità. Infatti, il vittimismo cronico non è una malattia, ma potrebbe portare con il tempo a sviluppare un disturbo paranoico quando la persona insiste continuamente a incolpare gli altri di tutti i mali di cui soffre. Inoltre, questo modo di affrontare il mondo genera una visione pessimistica della realtà, terminando per causare malessere tanto in chi si lamenta come in chi riceve la colpa. In molti casi, la persona che cade nel vittimismo cronico finisce per alimentare sentimenti molto negativi, come rancore e rabbia, che sfociano in un vittimismo aggressivo. È il tipico caso di chi non si limita a lamentarsi ma attacca e accusa gli altri, mostrandosi intollerante e violando in continuazione i loro diritti. Radiografia di una vittima cronica:

- Distorce la realtà. Si tratta di persone che credono fortemente che la colpa di ciò che accade loro sia sempre degli altri. In realtà, il problema è che hanno una visione distorta della realtà, hanno un locus of control esterno, e credono che tanto le cose positive come quelle negative che accadono loro non dipendano direttamente dalla loro volontà, ma da circostanze esterne. Inoltre, esagerano gli aspetti negativi, sviluppando un pessimismo esacerbato che le porta a concentrarsi solo sulle cose negative che accadono, ignorando quelle positive.

- Si consola lamentandosi. Queste persone credono di essere vittime degli altri e delle circostanze, così non si sentono colpevoli o responsabili per nulla di ciò che accade loro. Di conseguenza, l'unica cosa che gli rimane da fare è “lamentarsi”. Infatti, questi individui provano spesso piacere nell'atto di lamentarsi perché permette loro di assumere meglio il ruolo di "povere vittime" riuscendo così ad attirare l'attenzione degli altri. Queste persone non cercano aiuto per risolvere i loro problemi, si limitano esclusivamente a lamentarsi alla ricerca di compassione e protagonismo.

- Cerca continuamente dei colpevoli. Le persone che assumono il ruolo di eterne vittime sviluppano un atteggiamento sospettoso, credono che gli altri agiscano sempre in mala fede. A questo proposito, spesso si affannano a scoprire piccole mancanze solo per sentirsi discriminati o maltrattati, e questo solo per riaffermare il loro ruolo di vittime. Così, finiscono per sviluppare ipersensibilità e diventano specialisti a scatenare una tempesta in un bicchiere d'acqua.

- Non è in grado di fare una autocritica onesta. Queste persone sono convinte di non avere nessuna colpa, che non ci sia niente da criticare nei loro comportamenti. Dal momento che la responsabilità è degli altri, non accettano le critiche costruttive e tanto meno fanno un esame di coscienza approfondito che potrebbe portarle a cambiare il loro atteggiamento. Per queste persone, gli errori e le colpe degli altri sono intollerabili, mentre le loro sono sottigliezze. Dopo tutto, sono loro le vittime.

Perché una persona assuma il ruolo della vittima ci deve essere un colpevole. Di conseguenza, è necessario sviluppare una serie di strategie allo scopo di far sì che l’altro assuma la colpa. Se non siamo consapevoli di queste strategie è probabile che cadiamo nella loro rete e prendiamo tutta la colpa su di noi.

1. Retorica vittimista. In sostanza, la retorica di questa persona ha come obiettivo delegittimare gli argomenti del suo avversario. Ma non smentendo le sue affermazioni con argomenti più validi, piuttosto facendo in modo che l'altra persona assuma, inconsapevolmente, il ruolo di aggressore. Come lo fanno? Semplicemente assumendo il ruolo di vittima nella discussione, in modo tale che l'altra persona sembri autoritaria, poco empatica o addirittura aggressiva. Questa strategia si conosce come "retorica centrista", dato che la persona cerca di mostrare il suo avversario come un estremista, invece di preoccuparsi di confutarne le affermazioni. Pertanto, qualsiasi argomentazione che avanzi il suo avversario sarà solo una dimostrazione di malafede. Ad esempio, se una persona osa contrastare una lamentela con prove indiscutibili o statistiche provenienti da fonti attendibili, la vittima non risponderà con dei fatti, ma dirà qualcosa del tipo: "Mi aggredisci continuamente, ora dici che sto mentendo" o "Stai cercando di imporre le tue opinioni, fammi il favore di chiedermi scusa".

2. Ritirata vittimista. In alcuni casi, l'argomento della vittima ha lo scopo di permettergli di sottrarsi alle sue responsabilità ed evitare di dover chiedere scusa o riconoscere il suo errore. Pertanto, cercherà di divincolarsi dalla situazione. Per raggiungere questo obiettivo la strategia è quella di screditare l'argomento del vincitore, ma senza ammettere che si era sbagliato. Come lo fa? Anche in questo caso, assume il ruolo della vittima, gioca con i dati a suo piacimento e li manipola come gli conviene per seminare confusione. Fondamentalmente, questa persona proietterà i suoi errori sull'altro. Ad esempio, se una persona risponde con un dato verificato che nega quanto già affermato, la vittima non riconoscerà il suo errore. In ogni caso, cercherà di ritirarsi in modo dignitoso dicendo qualcosa del tipo: "Questo fatto non nega ciò che ho detto. Per favore, non creare più confusione e caos" o "Mi stai incolpando di confondere gli altri, sei un maleducato, è chiaro che è inutile discutere con te perché non vuoi sentire ragioni", quando in realtà a creare confusione è lei stessa.

3. Manipolazione emotiva. Una delle strategie preferite dalle vittime croniche è la manipolazione emotiva. Quando questa persona conosce abbastanza bene l'altra parte, non esiterà a giocare con le sue emozioni per portare il gioco a suo favore e assumere il ruolo della vittima. Infatti, queste persone sono molto abili nel riconoscere le emozioni, così approfittano di qualsiasi piccolo dubbio o errore per usarli a loro favore. Come lo fanno? Scoprendo il punto debole del loro avversario e sfruttando l’empatia che può provare. Così, finiscono per farlo cadere nella loro rete, facendogli assumere la piena responsabilità e il ruolo di carnefice, mentre loro restano tranquilli e comodi nel loro ruolo di vittime continuando a lamentarsi. Ad esempio, una madre che non vuole ammettere i propri errori, può dare la colpa al figlio dicendo qualcosa del tipo: "Con tutto quello che ho fatto per te, è così che mi ripaghi?" Ma questo tipo di manipolazione è piuttosto comune anche nelle relazioni, tra amici e sul posto di lavoro.

Come trattare con queste persone? Il primo passo è rendersi conto che si tratta di una persona che assume il ruolo di vittima. Quindi resistere all'attacco evitando di rimanere intrappolati nel suo gioco. La cosa più opportuna da fare è dire che non abbiamo tempo per ascoltare le sue lamentele, che se ha bisogno di aiuto saremo lieti di darglielo, ma non siamo disposti a sprecare tempo ed energie ad ascoltare le sue lamentele. Ricordate che la cosa più importante è che queste persone non vi rovinino la vita scaricandovi addosso la loro negatività e, soprattutto, che non vi facciano sentire in colpa. Non dimenticate che vi può fare del male emotivamente solo colui al quale voi date il potere di farlo.

L'ITALIA DEI SOCIAL. QUELLO CHE LA GENTE PENSA E SCRIVE...

Tutti contro le ovvie verità.

Bologna, il prete contro la minorenne stuprata: «Ti sballi e dovrei provare pietà?». «Tesoro… svegliarti seminuda direi che è il minimo che potesse accaderti… Ma dovrei provare pietà? No!!». Un post shock è apparso sul profilo Facebook di don Lorenzo Guidotti, parroco di San Domenico Savio, nel quartiere bolognese di San Donato, scrive Federico Marconi su “L’Espresso” il 9 novembre 2017. Don Guidotti è solito commentare sui propri account social gli articoli su ciò che succede in città, spesso con opinioni e toni sopra le righe. Il parroco, lunedì 6 novembre, ha commentato un articolo che racconta la vicenda di una ragazza che ha denunciato uno stupro. La ragazza, minorenne, ha raccontato alla polizia di aver subito violenza da un magrebino conosciuto a Piazza Verdi, nel pieno centro della zona universitaria bolognese. Si sarebbe svegliata poi mezza nuda e derubata della borsa. Il prete esprime tutta la sua indignazione scagliandosi non contro l'autore della violenza, ma contro la ragazza che l'ha subita. «Frequenti Piazza Verdi, il buco del culo di Bologna. Ti ubriachi da far schifo! Ma perché? Se hai la subcultura dello sballo sono solo cazzi tuoi poi se ti risvegli dopo la mattina dopo chissà dove. E dopo la cavolata di ubriacarti, con chi ti allontani? Con un magrebino?! Notoriamente veri gentleman, tutti liberi professionisti, insegnanti, gente di cultura, per bene» scrive don Guidotti nel post. Continua: «Adesso capisci che oltre agli alcolici ti eri già bevuta tutta la tiritera ideologica sull'“accogliamoli tutti”? Tesoro, a questo punto svegliarti seminuda direi che è il minimo che potesse accaderti». Guidotti poi conclude con la predica: «Chi sceglie la cultura dello sballo lasci che si “divertano” anche gli altri. Ragazze e ragazzi: ma non lo vedete che vi fanno il lavaggio del cervello? Ve lo state facendo mettere in quel posto e dite loro pure grazie!».

Bologna, minore denuncia uno stupro. Sacerdote su Fb: “Ti sballi e dovrei provare pietà?”, scrive il 09/11/2017 “La Stampa”. «Cioè, tesoro mi dispiace ma 1) frequenti piazza Verdi (che è diventato il buco del cu*o di Bologna!!! e a tal proposito Merola sempre sia lodato!) 2) Ti ubriachi da far schifo! Ma perché? Se hai la (sub) cultura dello sballo sono solo cazzi tuoi poi se la mattina dopo ti risvegli chissàddove. Io in 50 anni mi sono sempre risvegliato nello stesso letto (il mio). 3) E dopo la cavolata di ubriacarti con chi ti allontani? Con un magrebino? Notoriamente, soprattutto in piazza Verdi, veri gentleman, tutti liberi professionisti, insegnanti, gente di cultura, per bene. Adesso capisci che oltre agli alcolici ti eri già bevuta tutta la tirata ideologica sull’accogliamoli tutti?». Sta suscitando polemiche il post pubblicato su Facebook da don Lorenzo Guidotti, parroco di San Domenico Savio, quartiere San Donato a Bologna. Il post non è visibile a tutti per le impostazioni della privacy ma è stato rilanciato dal sito di Radio Città del Capo. Da quanto si può vedere però si capisce subito che Guidotti non è proprio il classico esempio del prete che apre le porte a tutti. Come foto del profilo ha messo un Lego vestito da soldato crociato e sulla foto di copertina si legge: «Etiamsi omnes, ego non! Anche se tutti, io no. Se qualcuno pensasse di trasformare la Chiesa cattolica in una delle tante Ong... se qualcuno pensasse di traghettare la Chiesa di Roma verso Lutero (...) beh, non avrebbe proprio capito nulla!» Il post che ha provocato tanto clamore stavolta si riferisce al caso di una minorenne che ha raccontato alla polizia di essere stata violentata da un magrebino conosciuto in piazza Verdi, dopo aver bevuto parecchio. I due sarebbero poi arrivati insieme in stazione, dove la minore sostiene di aver subìto la violenza. Quindi si sarebbe svegliata seminuda e senza più la borsa.  «Tesoro a questo punto svegliarti semi-nuda è il minimo che ti possa accadere, mi dispiace ma, se nuoti nella vasca dei pirana non puoi lamentarti se quando esci ti manca un arto. Ma dovrei provare pietà? No!». E poi aggiunge: «Chi sceglie la cultura dello sballo lasci che si divertano anche gli altri. La dobbiamo piantare!! A voi giovani, ragazzi e ragazze: ma non lo vedete che vi fanno il lavaggio del cervello?!? Ve lo state facendo mettere in quel posto e dite loro pure grazie!» conclude il post di don Guidotti. Le parole di don Lorenzo Guidotti corrispondono «ad opinioni sue personali, che non riflettono in alcun modo il pensiero e la valutazione della Chiesa, che condanna ogni tipo di violenza». Così l’arcidiocesi di Bologna, guidata da monsignor Matteo Zuppi, interviene sulle polemiche suscitate dal post del parroco. Nella stessa nota, viene riportata una dichiarazione di don Guidotti con cui si scusa con la ragazza che ha denunciato lo stupro. 

Stupro Bologna, prete choc: vai col marocchino ubriaca? Te la sei cercata, scrive Grazia Maria Coletti su "Il Tempo" il 9 Novembre 2017. Se vai ubriaca con il marocchino, ragazza mia te la sei cercata, non provo pietà. Prete choc su Facebook. Bufera per i commenti postati da don Lorenzo Guidotti, sulla violenza denunciata da una diciassettenne pochi giorni fa. La ragazza sarebbe stata violentata dentro un vagone della stazione di Bologna da un marocchino cui aveva chiesto aiuto dopo che gli era sparito il cellulare. Ma ecco cosa ha scritto don Guidotti. "Se nuoti nella vasca dei pirhana non puoi lamentarti se quando esci ti manca un arto... Cioè a me sembra di sognare!! Ma dovrei provare pietà? No!!» così ha commentato lo scorso 6 novembre sulla sua pagina Facebook (che non ha profilo pubblico, ma solo per gli amici) in un post la notizia della denuncia di una minorenne di Bologna che ha raccontato alla polizia di essere stata stuprata da un uomo, forse un nordafricano, in un vagone alla stazione di Bologna. Il post è stato pubblicato sul sito di Radio Città del Capo. Nel post del sacerdote rivolto alla ragazza come frequentatrice di piazza Verdi a Bologna, si legge anche «Se hai la (sub)cultura dello sballo sono solo cazzi tuoi, poi se ti risvegli la mattina dopo chissà dove...». Ma ecco l'incipit. «Tesoro mi dispiace», ha premesso Lorenzio nel suo post, «ma 1) frequenti piazza Verdi (che è diventato il buco del cu*o di Bologna, e a tal proposito Merola sempre sia lodato!) 2) Ti ubriachi da far schifo! Ma perchè? 3) E dopo la cavolata di ubriacarti con chi ti allontani? Con un magrebino? Notoriamente, soprattutto in piazza Verdi, veri gentleman, tutti liberi professionisti, insegnanti, gente di cultura, per bene. Adesso capisci che oltre agli alcolici ti eri già bevuta tutta la tirata ideologica sull’accogliamoli tutti?». In tanti gli hanno dato ragione. "Io sto con don Lorenzo" afferma Roberto Calderoli "premettendo che deve sempre esserci compassione e dolore per chi è vittima di una violenza, di qualunque genere - dice il vicepresidente del Senato - ma fatta questa premessa chi non si ritrova nelle parole di don Lorenzo Guidotti e nel suo sfogo su Facebook?".

LA DIOCESI PRENDE LE DISTANZE. «Quanto si legge nelle pagine facebook del sacerdote diocesano don Lorenzo Guidotti a proposito della violenza subita da una ragazza nei giorni scorsi nella nostra città e riferita dalla stampa quotidiana, corrisponde ad opinioni sue personali, che non riflettono in alcun modo il pensiero e la valutazione della Chiesa, che condanna ogni tipo di violenza». Così in una nota l’arcidiocesi di Bologna sulle polemiche per il post fb del parroco. La nota riporta una dichiarazione di don Guidotti di scuse.

IL SACERDOTE SI SCUSA.  «Don Lorenzo Guidotti - prosegue la nota - riconosce di essersi espresso in maniera inappropriata e intende chiarire il suo pensiero nella dichiarazione che segue: "In merito a quanto postato dal sottoscritto sulla pagina personale di FB, commentando un articolo di cronaca cittadina che riportava l’ennesimo caso di stupro, dichiaro in piena libertà quanto segue: "Non provo pietà"? Certo che provo pietà per questa ragazza come per tutte le altre vittime di violenza a cui assistiamo ogni giorno sfogliando i giornali. Non posso che dolermi con me stesso per i termini usati nel commentare e per le affermazioni che riesco a capire possano essere intese come un atto di accusa alla vittima. Io stesso leggendo oggi quel post ravviso questo. Ovviamente non era questo l’obiettivo del mio attacco, il mio obiettivo non era accusare la ragazza ma la cultura dello sballo. Che vi siano in particolare zone in cui tutto pare permesso. Ci sono riuscito? No! Certo che provo pietà per questa ragazza. Già all’origine ho più volte corretto il lungo post perché non volevo sembrasse quello che invece appare. Nel farlo pensavo: "questa ragazzina potrebbe essere una delle mie ragazze della Parrocchia, non sai chi sia". Pensavo al suo dramma e a quello della sua famiglia! o col mio intervento ho sbagliato, i termini, i modi, le correzioni. Non posso perciò che chiedere scusa a lei e ai suoi genitori se le mie parole imprudenti possono aver aggiunto dolore, come invece accadrà leggendole. Chiedo però a tutti, capaci magari di miglior linguaggio e possibilità (autorità, giornalisti, insegnanti, genitori) di aiutare a smantellare questa cultura dello sballo in cui i nostri ragazzi vivono. Altrimenti domani dovremo provare pietà per un’altra vittima e poi un’altra. Fino a quando? Fino a quando saremo in grado di dire "Basta. È necessario fornire una alternativa"».

Comunisti se li conosci li eviti.

La crociata del prete amico della destra che giustifica lo stupro di una ragazza. Don Guidotti. Recidivo: odia comunisti e gay e «lotta per evitare che la Chiesa diventi un'ong», scrive Giovanni Stinco il 9.11.2017 su "Il Manifesto". «E dopo la cavolata di ubriacarti con chi ti allontani? Con un Magrebino? Tesoro svegliarti seminuda direi che è il minimo potesse accaderti». Lo ha scritto don Lorenzo Guidotti, sacerdote della parrocchia di S. Domenico Savio a Bologna. Ex carabiniere, ordinato sacerdote 17 anni fa, Guidotti è un prete di periferia abituato a lavorare con i poveri e a dire le cose che ha in testa senza troppi giri di parole. Questa volta ha pensato bene di commentare su Facebook la notizia di uno stupro. Una ragazza di 17 anni ha denunciato giorni fa di essere stata violentata, ha raccontato di aver passato una sera con amici, di aver bevuto troppo, di essersi allontanata con un ragazzo forse nordafricano perché aveva smarrito il cellulare e lui si era offerto di aiutarla, infine di essere stata stuprata e derubata. Un racconto che il sacerdote bolognese ha deciso di accogliere con ben poca carità cristiana. «Ma dovrei provare pietà? Non per chi vive da barbara con i barbari. Mi spiace ma se nuoti nella vasca dei piranha non puoi lamentarti se quando esci ti manca un arto». Poi il tocco finale, concentrato del pensiero di un sacerdote che ama i crociati, ha simpatie di estrema destra, odia i comunisti, è allergico ai migranti, lotta per evitare che la Chiesa «si trasformi in una ong» e si augura che la «Francia laicista possa sprofondare con Sodoma e Gomorra». «Adesso capisci – ha scritto ancora il Don rivolgendosi alla ragazza – che oltre agli alcolici ti eri già bevuta tutta la tiritera ideologica sull’accogliamoli tutti?». Parole che sono rimaste in tranquillità sulla pagina social del sacerdote per tre giorni, finché la notizia, diffusa dalla bolognese Radio Città del Capo, non ha fatto scoppiare il caso. La difesa dell’uomo è arrivata abbinata ad una nota ufficiale della Curia dopo un primo iniziale «no comment» da parte del vescovo Matteo Zuppi. Quanto ha scritto Don Guidotti, si legge in uno stringatissimo comunicato, «corrisponde ad opinioni sue personali, che non riflettono in alcun modo il pensiero della Chiesa, che condanna ogni tipo di violenza». Nello stesso comunicato il prete si è scusato per le sue parole, ha ammesso di aver aggiunto dolore a dolore, ha detto che «certo che provo pietà per questa ragazza», infine ha specificato che il suo obiettivo era quello di attaccare non la 17 enne ma «la cultura dello sballo» e il fatto che a Bologna «vi siano zone in cui tutto pare permesso». La ragazza infatti prima di essere stuprata avrebbe raccontato di aver passato la serata nella zona universitaria di Bologna, al centro di annose polemiche e discussioni su degrado, spaccio e consumi di alcool e droghe. Per l’accusatore in particolare Piazza Verdi, cuore della movida studentesca, dovrebbe essere ripulita con forze dell’ordine blindati. «Quelle di Don Guidotti sono parole scomode ma vere in cui riconoscersi», ha detto il leghista Calderoli difendendo il sacerdote. «Il religioso ha passato il segno, nulla può giustificare la violenza su di una donna, tanto più se minorenne», ha replicato la senatrice Pd e presidente della commissione femminicidio Francesca Puglisi. Per il sacerdote bolognese non si tratta del primo scivolone, anzi. A marzo 2016 sentì l’esigenza di prendere posizione sulla notizia, a Rimini, di un 14enne violentato sotto minaccia da un cugino di tre anni più grande. «Non si facesse tanta reclame all’ideologia Lgbt facendo apparire i rapporti omosessuali come normali, il ragazzino avrebbe guardato il cuginetto e gli avrebbe risposto ‘Sei scemo? Son mica ricchione’», scrisse sempre su Facebook. Un anno fa la causa di quello stupro per il religioso fu «l’ideologia lgbt», oggi è colpa della «cultura dello sballo» che a suo dire la vittima avrebbe abbracciato. A replicare al sacerdote la rete femminista Non una di Meno di Bologna. «Noi riteniamo che la responsabilità della violenza maschile sulle donne e la violenza di genere sia sempre da attribuire a chi la compie e non a chi la subisce. La cultura che combattiamo è quella dello stupro, che permea la mascolinità e la società più in generale, e di cui non sembra scevra la comunità ecclesiastica».

Le parole della mamma della giovane rilasciate all’Ansa. “Mia figlia è stata vittima e va difesa, non solo da un prete. La colpa è di chi stupra, non di chi ne è vittima”, ha detto la madre della minorenne. "Alla gente, alla stampa, chiediamo: fermatevi. Abbiamo letto sulla nostra tragedia tante inesattezze e tanti giudizi trancianti che ci feriscono, quando nessuno, tranne noi, sa che cos'è successo". La donna ha lanciato un appello chiedendo rispetto. "Siamo una famiglia di forti valori. Mia figlia ha subito una violenza in un attimo di grande difficoltà. A questo oltraggio si è aggiunto il commento di uno stormo di sciacalli".

Alla gente, alla stampa, chiediamo: fermatevi. Abbiamo letto sulla nostra tragedia tante inesattezze e tanti giudizi trancianti che ci feriscono, quando nessuno, tranne noi, sa che cos'è successo. Quello che ci ha fatto più male è il commento del parroco don Guidotti: lo andrò ad incontrare e gli dirò qual è la mia idea di un comportamento cristiano, molto diverso dalla sua. Mia figlia è stata vittima e va difesa, non solo da un prete. La colpa è di chi stupra, non di chi ne è vittima", scrive il 10 novembre 2017 "La Repubblica". La mamma della ragazza di 17 anni che a Bologna ha denunciato di aver subito uno stupro, dopo una serata in piazza Verdi, lancia attraverso l'ANSA un appello chiedendo rispetto. "Siamo una famiglia di forti valori", ha aggiunto. "Mia figlia - ha detto ancora la madre della ragazza - ha subito una violenza in un attimo di grande difficoltà. A questo oltraggio si è aggiunto il commento di uno stormo di sciacalli". "Avrà pure usato una frase infelice don Lorenzo Guidotti, della quale ha fatto bene a scusarsi, ma nella sostanza ha perfettamente ragione nel denunciare la cultura dello sballo, e spiace che troppi abbiano cercato di fargli fare la fine del grillo parlante". Aveva detto Carlo Giovanardi, parlamentare di Idea Popolo e Libertà, che chiama in causa anche Collodi. "Ricorderete infatti che il grillo parlante sgrida Pinocchio chiamandolo “povero grulloncello” e gli pronostica o “l'ospedale o la prigione” quando il burattino gli spiega di volere nella vita “mangiare, bere, dormire, divertirsi e fare dalla mattina alla sera la vita del vagabondo”. Ma alla fine la "morale della favola" è che "i veri amici di Pinocchio non erano i tanti Lucignolo, che lo spingeva verso la rovina ma il fastidioso Grillo Parlante dalla cui parte mi schiero con convinzione". "La mia solidarietà alla ragazza - dice Matteo Salvini, segretario della Lega -  Nella violenza non esiste la differenza tra sobri e ubriachi. Nelle parole del prete c'è anche un fondo di verità: evidentemente bisogna stare attenti a quello che si fa e a chi si frequenta. È un invito per tutti. Piazza Verdi a Bologna non è esattamente il salotto buono della città: se ci vai minorenne, ubriaca (e vorrei sapere cosa ne pensano i genitori) evidentemente non vai alla prima del teatro alla Scala". Più severa dei due politici la Curia bolognese guidata dall'arcivescovo Zuppi, che ha preso le distanze e affisso il suo comunicato sul portone della Chiesa di San Domenico Savio: "opinioni sue personali, che non riflettono in alcun modo il pensiero e la valutazione della Chiesa, che condanna ogni tipo di violenza". Il comunicato diffuso ieri dalla curia è stato affisso all'ingresso della Parrocchia di San Domenico Savio, di cui è parroco don Guidotti.

Don Lorenzo Guidotti non è più su Facebook, scrive il 10 novembre 2017 "L'Ansa". Il profilo del sacerdote bolognese autore il 6 novembre di un post dove diceva di 'non provare pietà' per una minorenne che ha denunciato uno stupro, non risulta più accessibile. La pagina del social network, che pubblicava contenuti visibili solo agli 'amici', ora non è più disponibile neppure per loro: probabilmente è stato lo stesso prete a chiuderlo. Una scelta che potrebbe essere stata concordata con la curia bolognese, ieri intervenuta per chiarire che il pensiero di don Guidotti corrispondeva "ad opinioni sue personali, che non riflettono in alcun modo il pensiero e la valutazione della Chiesa, che condanna ogni tipo di violenza".  Il comunicato diffuso ieri dalla curia è stato affisso all'ingresso della Parrocchia di San Domenico Savio, di cui è parroco don Guidotti.

Il parroco chiede scusa ma i fedeli lo difendono: «Non è un mostro». Per il sindaco Merola «la cosa che davvero conta è sostenere la ragazza che ha denunciato lo stupro», scrive Maria Centuori il 10 novembre 2017 su "Il Corriere della Sera". In via Andreini le porte della chiesa di San Domenico Savio sono chiuse, c’è un cartello con le scuse che don Lorenzo Guidotti ha lasciato per i suoi fedeli, le stesse parole del messaggio di giovedì sera, mentre su Facebook non c’è più il suo profilo. Il parroco, che ha duramente criticato la 17enne bolognese che ha raccontato di essere stata stuprata da un magrebino dopo aver trascorso una notte tra piazza Verdi e piazza Aldrovandi, ha abbandonato la rete che lo ha travolto per il suo post choc. Tre giorni dopo la denuncia della minorenne aveva scritto «Dovrei provare pietà? Hai scelto lo sballo», e ancora commentando un articolo di stampa locale «Oltre agli alcolici ti sei bevuta la tiritera ideologica sull’accogliamoli tutti?». Poi ha spiegato: «Non volevo attaccare lei, ma far pensare gli altri. Con parole forti».

Fuori dalla chiesa. Intanto da venerdì mattina il parroco è chiuso all’interno dell’appartamento parrocchiale e non parla con la stampa, ma «riceve» al citofono i suoi fedeli che lo difendono: «Ok, uno stupro è uno stupro e va condannato sempre – spiega una donna – ma non possiamo fare un processo a don Lorenzo che è un bravo prete, ci ha sempre aiutato ed è sempre stato presente per tutta la nostra comunità». «Perché ci fate questo? – continua un’altra donna – abbiamo il cuore spezzato, il nostro parroco non è un mostro. Questa notizia ha fatto scalpore solo perché quelle frasi le ha dette un prete, ma chissà quanti la pensano così», aggiunge scuotendo la testa un’altra fedele fuori dalla chiesa.

I commenti Merola e Zacchiroli. Intanto sulla vicenda è intervenuto il sindaco Virginio Merola, che nel post incriminato è stato chiamato anche in causa dallo stesso parroco per piazza Verdi: «La cosa che davvero conta è sostenere la ragazza che ha denunciato lo stupro. Il resto lasciamolo a Facebook. Il caso vero di cui dobbiamo occuparci è che questa ragazza è’ stata violentata e quindi pensare a come sostenerla, alla sua famiglia e a come aiutarla a superare questo trauma». Alle parole del primo cittadino, si aggiungono poi quelle di Benedetto Zacchiroli, consulente di Palazzo Chigi per le questioni religiose, che frequentò il seminario con il parroco della chiesa in San Donato: «Don Lorenzo ha ragione. Lo sballo va fermato, ma non c’è solo quello di piazza Verdi, c’è anche quello da tastiera, che ti ubriaca nel non comprendere il peso di quello che scrivi». E ha aggiunto: «Conosco don Lorenzo. Abbiamo passato cinque anni assieme in seminario. È un buono. Le sue frasi gravissime - continua - sono però anche frutto di una solitudine non rara tra alcuni preti oggi. Penso il vescovo Zuppi lo sappia già, ma urge stare vicino ai preti ed è compito suo ma anche delle comunità parrocchiali. Un prete è prima di tutto un uomo».

La solidarietà di Salvini. Per la minorenne che ha denunciato la violenza sessuale arriva anche la solidarietà di Salvini che aggiunge: «La mia solidarietà alla ragazza. Nella violenza non esiste la differenza tra sobri e ubriachi. Nelle parole del prete c’è anche un fondo di verità: evidentemente bisogna stare attenti a quello che si fa e a chi si frequenta. È un invito per tutti. Piazza Verdi a Bologna non è esattamente il salotto buono della città: se ci vai minorenne, ubriaca (e vorrei sapere cosa ne pensano i genitori) evidentemente non vai alla prima del teatro alla Scala».

Grazie al prete che dice la verità ai nostri figli, scrive Alessandro Sallusti, Venerdì 10/11/2017, su "Il Giornale". Don Lorenzo Guidotti è parroco in un quartiere di Bologna e da ieri al centro di un linciaggio politico e mediatico per avere scritto su Facebook parole dure sulla ragazzina che ha raccontato ai carabinieri di essersi svegliata seminuda, ancora ubriaca e derubata dopo essere stata violentata da un immigrato che aveva incontrato poco prima. Quella del parroco («te la sei cercata») è un'omelia scorretta, ma è la stessa che ogni genitore dovrebbe fare ogni giorno ai propri figli. E siccome ciò non avviene, o almeno non quanto dovrebbe, grazie a Dio un saggio prete vecchio stile ci riporta alla dura realtà. Cosa avrebbe detto di così sconveniente don Lorenzo, attaccato al punto che ha dovuto scusarsi? Vediamo. Nel suo post scrive che: una ragazzina non deve uscire sola di sera; che se esce di sera da sola non deve frequentare una delle piazze più malfamate della sua città; che se esce sola in luoghi a rischio non deve ubriacarsi fino a perdere il controllo; che se si ubriaca in una piazza malfamata non deve accettare inviti da un maghrebino sconosciuto. Perché se invece fa esattamente il contrario, lo stupro «se l'è cercato». Che ne dite? Un uomo così merita il linciaggio, la gogna? Io dico: grazie di esistere, don Lorenzo. Grazie per il coraggio di dire cose semplici, vere e sagge. Che magari fanno storcere il naso a Papa Francesco (dubito al suo Superiore) e alla Boldrini, ma che per noi sono musica. Intendiamoci: in quel «se lo è cercato» non c'è nessun compiacimento, solo un intento educativo. Se metti la mano sul fuoco e ti bruci, se attraversi con il rosso e vieni investito, se non studi e sei bocciato, il danno «te lo sei cercato». Speriamo che anche a Modena ci sia un don Lorenzo che uno di questi giorni dica alle sessanta liceali che si sono scambiate tra di loro autoscatti intimi fatti con il telefonino (e poi andati in rete) che se non hai rispetto del tuo corpo e della tua dignità «te lo sei cercato» di finire alla berlina. E che spieghi alle malcapitate (che dicono di averlo fatto «per noia») che la noia si supera leggendo un libro, con una risata in compagnia o con un po' di sport. Non so se questo accadrà. Perché la cosa peggiore della vicenda di don Lorenzo è che il vescovo ha preso le distanze dalle sue parole e lo ha zittito. I preti di una volta ancora ci sono, purtroppo non c'è più la Chiesa.

Il popolo ex Pci e Dc non pensa come i burocrati Pd: profughi, Giuliani, donne…, scrive Sergio Carli su "Blitz Quotidiano" il 22 luglio 2017. Il popolo ex Pci e Dc non pensa come i burocrati Pd: profughi, Giuliani, donne…Nella foto il ministro dell’Interno Marco Minniti, che cerca di adeguare la morale post comunista alla domanda di ordine e legalità. Tre casi che dovrebbero destare allarme in chi ancora crede che il Pd sia, nonostante tutto, il partito “migliore” anche se non più del Migliore. L’orchestra continua a suonare, come sul Titanic, ma la musica è cambiata e pochi se ne sono accorti. Sono sempre più divaricate le posizioni della popolo che una volta votava Pci e Dc e quelle dell’apparato del partito, gente che non ha mai lavorato, la sinistra del birignao e del rolex. Renzi un po’ lo ha capito: ma poi reagisce alla sua maniera. In modo episodico, farfugliato, senza una esposizione sistematica preventiva. Forse fa così perché sa che con la sinistra del birignao e dei luoghi comuni è inutile ragionare, fra le battute da bar di campagna di Bersani e la arroganza apodittica e biliosa di D’Alema.

1. Immigrazione, migranti, clandestini, profughi sono tutti nomi di un ciclopico problema. Lo hanno aggravato i conflitti di interesse che tolgono credibilità ai buonisti della accoglienza: la Caritas e le cooperative. Dentro il Pd ancora discutono sulla modifica della Bossi-Fini. Contro il ministro dell’Interno, Marco Minniti, uomo di cappa più che di spada, che pur cerca di fare del suo meglio nel marasma, l’assessore comunale di Milano alle Politiche sociali Pierfrancesco Majorino, il promotore del corteo pro-migranti del 20 maggio. Majorino pontifica e butta la palla in gradinata. Lo hanno sempre fatto, da prima del ’68: “Serve un grande progetto per l’integrazione, che è colpevolmente mancato”. “Non si può dire solo che bisogna rimpatriare tutti gli illegali, perché sappiamo bene che ciò non può avvenire”. Minniti: “Abbiamo 25 navi che portano migranti sulle nostre coste, se oltre ai flussi illegali aprissimo ai flussi legali temo che qualcuno chiamerebbe il 118”. “L’accoglienza ha un limite nella capacità di integrazione. Il Pd deve tenere insieme il diritti chi è accolto e il diritto di chi accoglie”. Ma la gente è furibonda. Leggete cosa succede a Rapallo. C’erano case di proprietà statale vuote per anni. Agli italiani che chiedevano alloggio venivano negate. Ora il prefetto le vuole usare per ospitare 15 profughi, imposti al Comune che li aveva rifiutati. Il sindaco: «Scorrettezza inaudita». E dice che delle case non sapeva niente. Una notizia della Stampa fornisce una cifra che svela il gigantesco business della accoglienza. Lo Stato paga 35 euro al giorno per profugo ospitato. Quanto costa dargli da mangiare e poco più? La differenza è tutta profitto per preti, cooperatori…Questo spiegala “strana scelta” degli albergatori di Salsomaggiore: “No a Miss Italia, sì ai 34 euro per i migranti”. A Salsomaggiore, località termale nel parmense “di glorioso passato e incerto presente”, gli albergatori hanno detto di no al ritorno del concorso di bellezza, troppa spesa per poca resa. E intanto alcuni, scatenando grandi polemiche nella categoria, si sono riciclati nel business degli immigrati.

2. Ordine pubblico. Il caso Giuliani. Un consigliere comunale del Pd di Ancona Diego Urbisaglia, di mestiere vigile del fuoco, scrive in un post privato su Facebook quello che tanti pensano in Italia: «Estate 2001. Ho portato le pizze tutta l’estate per aiutare i miei a pagarmi l’università e per una vacanza che avrei fatto a settembre. Guardavo quelle immagini e dentro di me tra Carlo Giuliani con un estintore in mano e un mio coetaneo in servizio di leva parteggiavo per quest’ultimo». «Oggi nel 2017 che sono padre, se ci fosse mio figlio dentro quella campagnola gli griderei di sparare e di prendere bene la mira. Sì sono cattivo e senza cuore, ma lì c’era in ballo o la vita di uno o la vita dell’altro. Estintore contro pistola. Non mi mancherai Carlo Giuliani…». Lo fa in modo un po’ rozzo e estremo, tanto da chiedere scusa per la forma, ma…senza cambiare, “certo il mio giudizio… dentro quella Campagnola c’era un ragazzo, intorno il delirio, di fronte uno con un estintore, di fianco uno con una palanca di legno…io sto con il carabiniere…punto!”. Diego Urbisaglia alza un velo dopo anni di ipocrisia che hanno trasformato un mancato assassino (Carlo Giuliani) in un martire al punto che una stanza al Senato gli è stata intitolata e un carabiniere, Mario Placanica, abbandonato dai suoi capi ma riconosciuto innocente dalla Magistratura, in criminale. Cosa fa il Pd? Manda sotto processo il suo assessore, davanti alla Commissione di Garanzia del Partito per i provvedimenti sanzionatori previsti dallo Statuto, come chiesto dai deputati Pd, Emanuele Fiano e Alessia Morani, e annunciato dall’ex democristiano Lorenzo Guerini.

3. Le quote rosa. Sono un mito cui poche donne credono, ma il Pd ci perde tempo, invece di occuparsi di cose serie, e la faccia. In Friuli la ineffabile Barbara Serracchiani ha perso il voto sulla riforma della legge elettorale nazionale. Ecco il titolo del Messaggero Veneto: “Il centrosinistra non ha i voti, opposizioni compatte. Salta anche la preferenza di genere”.

L'Italia dei social, scrive Filippo Facci il 19 gennaio 2017 su “Libero Quotidiano”. L'euro è una fregatura. Angela Merkel salva le banche coi nostri soldi. I politici sono corrotti e pensano solo al vitalizio. Renzi è uguale a Berlusconi. D'Alema vuole la vecchia politica. Berlusconi pensa alle aziende. La Meloni è fascista. Salvini è razzista. Alfano è inutile. Manca una destra liberale. I Cinque Stelle hanno deluso. I politici sono sempre in tv a litigare e basta. I giornalisti sono dei falsari. I giudici sono impuniti. La burocrazia è arrogante. I sindacati proteggono chi non fa un cazzo. Gli industriali sfruttano gli operai e fanno strada con le relazioni. I manager fanno disastri e prendono buonuscite milionarie. I professionisti frodano il fisco. Gli esercenti non danno lo scontrino. I baroni universitari piazzano i parenti. I concorsi sono truccati. Gli studenti protestano e non vogliono studiare. I giovani sono bamboccioni senza palle. Gli immigrati stanno negli hotel e vogliono il wi-fi. I romeni stuprano. Gli arabi ammazzano. La tua pensione la pago io. Anche la Rai la pago io, ma non fa servizio pubblico. Vedi quella tizia in tv? L'ha data a tutti. Roma è un troiaio. Gli statali sono intoccabili e non vogliono lavorare. Come gli insegnanti. E i medici. Gli avvocati. Poi i meridionali e i napoletani e i siciliani. Anche i bresciani. Il mio vicino ha comprato l'Audi ma io fatico a pagare il mutuo, dove li ha presi i soldi?

La maggioranza silenziosa c'è e vive soprattutto online. Dalla Brexit a Trump i sondaggi non funzionano più. Tre studiosi spiegano perché. E come rimediare, scrivono Andrea Marcia e Simone Bressan, Giovedì 06/04/2017, su "Il Giornale".  Cosa hanno in comune Silvio Berlusconi, Beppe Grillo, Donald Trump, la Brexit e il no al referendum costituzionale? Politicamente poco o nulla, ma per gli appassionati del genere siamo davanti a fenomeni elettorali che tutti i principali istituti di ricerca hanno, sistematicamente, sottovalutato. Nelle principali competizioni elettorali di questi ultimi anni, infatti, è emerso un crescente scollamento tra le rilevazioni dei sondaggisti e le opinioni del pubblico votante. Partendo da casa nostra, nel 2013, con la clamorosa rimonta di Berlusconi e la sorprendente affermazione del Movimento 5 Stelle alle Politiche, passando poi per la rotonda vittoria di David Cameron nel 2015, la Brexit l'anno successivo, il clamoroso approdo di Donald Trump alla Casa Bianca e, ritornando in Italia, con la schiacciante maggioranza di no al referendum costituzionale: se tre indizi fanno una prova, qui siamo ben oltre il terzo grado di giudizio. Cosa sta succedendo? Una risposta interessante è prova a darla il libro Politics and Big Data: Nowcasting and Forecasting Elections with Social Media, un saggio di tre autori italiani (Luigi Curini, Andrea Ceron e Stefano Maria Iacus) pubblicato recentemente dalla casa editrice britannica Routledge. Il lavoro spiega, con rigore scientifico, perché i sondaggi non possono più essere l'unico pilastro su cui fondare le previsioni elettorali.

«Questo tipo di ricerche spiega Luigi Curini, co-autore del libro, Professore Associato in Scienza Politica all'Università di Milano e visiting professor presso l'Università di Waseda a Tokyo si basa su sistemi di pesatura del campione: numeri che non sono pubblici e che funzionavano in passato, quando le elezioni producevano risultati tutto sommato stabili e prevedibili. Oggi, appena compare sulla scena qualcosa di nuovo, come il Movimento 5 Stelle, Trump o Podemos, questo sistema di identificazione di un universo rappresentativo salta». Senza contare poi che i tassi di risposta sono sempre più bassi e che, come ricorda Curini, «c'è una fetta importate di popolazione infuriata contro l'establishment, che ritiene i sondaggi parte integrante di quell'establishment contro cui protesta e che quindi non ha nessuna intenzione di far parte del campione, falsando irrimediabilmente il risultato».

L'analisi si concentra giocoforza sulla distanza tra sondaggi elettorali e risultati reali. «Ma ricorda Curini noi misuriamo questo scollamento perché le elezioni rappresentano un chiaro controfattuale rispetto alle rilevazioni precedenti. Non per tutti i sondaggi siamo in grado di fare questa prova del 9. Pensiamo ai numeri resi noti recentemente sul gradimento di Trump: stiamo dando per scontato che siano attendibili gli stessi sondaggisti che solo tre mesi prima avevano sbagliato tutto. Questo è possibile perché non ci sono, nel futuro immediato, elezioni in grado di dimostrare se questi numeri siano reali oppure no».

I risultati elettorali di cui abbiamo parlato, però, sono sorprendenti solo in parte. L'analisi della Rete, infatti, può aiutare a colmare questo gap di informazioni e restituire una base di dati interessante su cui lavorare. Mentre i sondaggi tradizionali venivano respinti dagli intervistati, online era possibile osservare il comportamento degli elettori in un contesto in cui impulsività e anonimato rendevano più credibili le risposte ottenute. E così anche se larga parte dei modelli matematici basati sui sondaggi assegnava a Hillary Clinton più del 90% di possibilità di vincere le elezioni, il sentiment misurato in rete permetteva agli autori del saggio di identificare una partita molto più aperta, assegnando con certezza (e contro larga parte dei pronostici) l'Ohio e la Florida a Trump e segnalando come Michigan, Wisconsin e Pennsylvania sarebbero stati in bilico fino all'ultimo. Lo stesso si potrebbe dire della crescita del Movimento 5 Stelle nelle ultime settimane della campagna elettorale per le Politiche 2013 o del solido consenso che, nella stessa tornata elettorale, ha spinto Berlusconi e il centrodestra verso un sostanziale pareggio con la coalizione guidata dal Pd e da Bersani.

«L'errore che spesso si commette in Italia spiega ancora Curini è quello di considerare la rete come qualcosa di negativo a prescindere e di completamente scollegato dalla realtà. La dicotomia con il mondo offline, invece, non esiste: l'informazione, i comportamenti, le regole passano rapidamente da una parte all'altra. Per fare analisi accurate non basta, quindi, concentrarsi su pochi opinion leader ma bisogna avere la pazienza di analizzare l'universo online nella sua completezza».

Puntare sulla sentiment analysis non determina, automaticamente, la fine dei sondaggi o di altre forme di rilevazione statistica. Il nuovo orizzonte è piuttosto quello del data mash up: «unire diverse fonti e una pluralità di dati. Ogni fonte porta con sé un tasso di parzialità che, combinato a quello di altre fonti, può permettere di diminuire l'errore», riuscendo attraverso la Rete a rappresentare quel pezzo di elettorato che ormai i sondaggi non riescono più a mappare con precisione.

La lezione, insomma, è che in Italia, in Francia, in Gran Bretagna, negli Stati Uniti, la maggioranza silenziosa esiste ancora. Solo che ormai esprime se stessa soprattutto online. E, per chi la sa ascoltare, riesce a fare ancora parecchio rumore.

Perché siamo nell'era in cui buonista è un insulto. Un'umanità, impotente, rabbiosa, piena di odio. Che si identifica sempre di più con la cattiveria, con il male. E con i politici che ne fanno una bandiera, scrive Wlodek Golgkorn il 5 maggio 2017 su “L’Espresso". E se il Male non fosse, affatto banale? E se, contrariamente a quanto pensava Hanna Arendt (“La banalità del Male. Eichmann a Gerusalemme”), il Male non fosse risultato di stupidità e procedimenti burocratici, ma facesse parte della natura di ciascuno di noi e in periodi di crisi fosse pronto a manifestarsi sotto la forma del godimento per le sofferenze e la morte altrui? Partiamo da alcuni fatti, suggestioni, atmosfere. A cominciare dall’alto: vanno di moda politici che hanno demolito il politicamente corretto, che non disdegnano usare un linguaggio razzista, da Donald Trump a Marine Le Pen, da Frauke Petry a Gert Wilders, mentre per Matteo Salvini, ogni occasione è buona per invocare la Santa Ruspa, difendere la purezza delle nostre città contro la blasfemia dei kebab e spiegare che ogni empatia nei confronti di coloro che annegano nel Mar Mediterraneo (lui li definisce clandestini, ma noi parafrasando Primo Levi possiamo chiamarli i sommersi) è segno di “buonismo”. “Buonismo”, declinazione del Bene, da condannare per fare spazio al Male? Vedremo in seguito. Intanto, il settimanale “Vita” segnala un vertiginoso aumento di aggressioni a sfondo razzista in Italia, e viene da pensare al ragazzo bengalese, massacrato su un treno a Roma. Se non basta, quasi ogni mese scopriamo (grazie alle procure della Repubblica e alle testimonianze dei migranti) l’esistenza di personaggi che nei campi di raccolta dei profughi in Libia, di fronte quindi alle nostre finestre e con la nostra sebbene passiva complicità, uccidono, torturano, stuprano: non solo per soldi, ma per il piacere di uccidere, torturare e stuprare. I Pm di Milano hanno parlato di campi che ricordano i lager nazisti. E ancora; qualche settimana fa due buontemponi (si fa per dire) di Follonica hanno chiuso in una gabbia due donne rom che rovistavano nella spazzatura, hanno postato la scena, ai loro occhi comica, sui social media. Si sono guadagnati gli applausi del pubblico e un commento benevole del già citato capo della Lega. Salvini, in proposito ha usato la parola “frugatrici”. Virginia Raggi invece, sindaca della capitale, preoccupata del decoro della sua città, ha trovato un altro neologismo: “rovistaggio”. Vale per chi frequenta la spazzatura alla ricerca di mezzi di sostentamento. Il “rovistaggio”, ha detto la prima cittadina della città di papa Francesco, andrebbe vietato. Soffermiamoci sulle due parole: frugatrici e rovistaggio. È nella Bibbia il racconto delle spigolatrici: le frugatrici o rovistatrici odierne. Spigolatrice era Rut, bisnonna di re David e il diritto di spigolare è codificato nelle Scritture. È infatti antico come l’umanità l’uso per cui i poveri, gli affamati, i bisognosi hanno il diritto di frugare, rovistare, raccogliere quello che resta dal pasto degli abbienti. Il mendicante, così come lo Straniero, l’Altro, il Migrante, è lo specchio di noi stessi; ed è per questo che nella letteratura e nel mito è una figura nobile, sebbene inquietante. E allora che cosa ci sta succedendo? O meglio, sappiamo che il nesso tra progresso, benessere e democrazia è saltato; sappiamo che l’illuminismo e il razionalismo non producono solo il Bene. E quindi, in questo momento della crisi radicale del nostro essere società in Occidente, incontro a che cosa stiamo andando? E per dirla tutta: i demoni davvero albergano nell’animo di ciascuno di noi, come intuiva Dostoevskij? E se sì, il Male finirà per diventare il linguaggio corrente ed egemone? L’abbiamo chiesto a uno psicoanalista, a un poeta, a un uomo di teatro e a un filosofo. Giovanni Foresti è psicoanalista, appunto e psichiatra, insegna all’Università Bicocca di Milano. Dice: «Quando ci sentiamo impotenti proviamo a rovesciare la situazione riversando sull’Altro i sentimenti dell’odio che albergano dentro la nostra psiche. Pensiamo di poter uscire dalla situazione della vittima (dei poteri che non conosciamo, che ignoriamo) diventando delle specie di gorilla, minacciosi, forti, invincibili e irriflessivi». Spiega: «Nel momento in cui ci piace fare del Male, usiamo un altro registro emotivo, rispetto a quello abituale quando ci costringono a essere per bene e gentili. In quei momenti, le istanze sadiche prevalgono. E se agiamo in gruppo diventano dominanti, si trasformano in linguaggio corrente». E in concreto? «Siamo alla guerra di tutti contro tutti, perché non esistono più grandi narrazioni, in grado di spiegare il mondo, dare una speranza, elaborare il passato e preservare la memoria. E allora tanto vale essere “carogna”. E anche: posto che io non valgo niente o poco, insulto i profughi o gioisco per la loro sorte perché così penso che ci sia qualcuno che vale meno di me». In sostanza, il sadismo e la cattiveria, come meccanismo di difesa dal mondo, ma anche come strumento di potere. Ne parlano alcuni libri, pubblicati in queste settimane. “I fantasmi dell’Impero” di Marco Cosentino, Domenico Dodaro e Luigi Panella, uscito con Sellerio, racconta (sotto la forma di un giallo) di militari italiani in Etiopia che stuprano a uccidono donne, ammazzano bambini, incendiano villaggi non solo nel quadro della guerra coloniale (che di solito favorisce le peggiori atrocità), ma per il puro piacere di farlo. Per sentirsi appunto superiori ai “negri”. “La bellezza che resta” (Melville), è una meditazione su nichilismo, arte e morte, dove il critico letterario Fabrizio Coscia rievoca la vicenda della scuola di Beslan quando terroristi ceceni uccisero 186 bambini e costrinsero alcune madri a scegliere quali dei due o più figli far sopravvivere. “Il sacrificio del fuoco” (Giuntina) di Albrecht Goes parla della Germania anni Trenta. Emergono episodi di pura, sadica brutalità che non è funzionale ad altro che stabilire la presunta superiorità del piccolo boia (sottufficiali nazisti) che godono vedendo gli ebrei impauriti, bambini tristi e sofferenti, uomini ridotti allo status di non persone. E infine, in “Un mondo senza ebrei” (Mondadori), lo storico Alon Confino racconta come i nazisti abbiano voluto dar sfogo alle pulsioni sadiche e profonde di molti tedeschi; narra le umiliazioni ritualizzate e pubbliche subite dagli ebrei; si sofferma sulla gioia nel veder bruciare i libri sui roghi e insiste sul fatto che i seguaci di Hitler volessero estirpare il ricordo e la memoria della Torah e dell’ebraismo, perché la loro intenzione era abolire ogni etica che avesse a che fare con la trascendenza. Insomma, il Male come godimento nichilista e trasformazione della trasgressione in normalità. Ne sanno moltissimo gli intellettuali di Sarajevo, che durante le 1.425 giornate dell’assedio della città, con i vicini di casa diventati all’improvviso nemici e carnefici, hanno avuto tempo e modo per riflettere sulla malvagità umana. Ma non solo i nemici dichiarati erano i cattivi. Il poeta Marko Vesovic racconta un episodio: «Un giorno, mentre la popolazione era affamata, alcuni potenti locali portarono in una piazzetta un agnello. Lo cucinarono allo spiedo, annaffiato da birra, davanti a tutti. E lo mangiarono, godendo dello spettacolo che davano». Spiega: «Il potere, consiste nel far soffrire gli altri, nel farli sentire inferiori». Aggiunge: «Io e mia moglie (scomparsa poche settimane fa), abbiamo anche scoperto la sofferenza degli animali, abbiamo visto cani impazziti dalla fame, smarriti, terrorizzati. Non è differente dalla sofferenza degli umani». Annota: «Oggi, abbiamo una serie di democrazie “etniche”, nella ex Jugoslavia e l’ossessione identitaria, etnocentrica, non è altro che un’espressione della malvagità, della cattiveria; perché è la non volontà di riconoscere l’Altro come tuo pari». Parte invece da lontano Dzevan Karahasan, altro sarajavese, autore e regista di teatro e uno dei più acuti intellettuali del nostro continente. Cita Empedocle per cui l’uomo può pensare solo ciò che conosce e che ha visto. «Io ho visto il Male con i miei occhi», dice. Spiega: «Il Male si manifesta quando l’uomo pensa di essere un piccolo dio. Quando succede questo, l’uomo è capace di radunare 74 suoi vicini di casa, chiuderli in un edificio, dargli fuoco, e goderne. Io l’ho visto in Bosnia. Non era un procedimento burocratico anonimo. Era il piacere di essere carnefice, un piccolo dio, appunto». Cita infine Baudelaire che considerava la risata, volgare, come qualcosa di diabolico: «Sì, in ognuno di noi è presente un elemento diabolico, non banale, e che viene fuori quando non conosciamo più i nostri limiti». Limiti? Quelli delle immagini sono stati aboliti, e da tempo. Lo dice Sergio Givone, filosofo, studioso dell’estetica e del nichilismo. «È la proliferazione delle immagini ad aver riportato il Male radicale al centro della nostra esperienza collettiva», dice. «L’immagine, moltiplicata, ripetuta, seriale diventa oscena, nel senso che non è più specchio di noi stessi e della nostra umanità, ma riporta a qualcosa d’altro». Riflette: «L’hanno capito bene i terroristi. L’11 settembre, dal punto di vista spettacolare assomigliava a un B-Movie, un film di serie B. Così, come le decapitazioni fatte dai militanti dell’Isis sono la messa in scena dei film dell’orrore». E ancora: «Il Male non fa più scandalo. È considerato un dato di fatto, un fenomeno da comprendere, ma senza indignazione». Torna alle immagini: «Ecco, nella proliferazione delle immagini oscene, l’altro non è più persona, ma solo corpo, nuda vita». E allora? «E allora la vita dell’altro, l’Altro è il nulla. Quando la sofferenza è una messa in scena tutto è possibile, tutto diventa questione di decoro, di ordine, e non dell’etica che deriva invece dalla trascendenza e quindi dal riconoscimento dell’Altro come assoluto». Ne sanno qualcosa in Argentina. Nel terreno dell’ex Esma, il principale centro delle torture sotto la dittatura, c’è oggi un memoriale. Nei sotterranei dell’edificio dove venivano tenuti i prigionieri, diventa palpabile la scena del film “Garage Olimpo” di Marco Bechis. Ecco: una donna nuda è legata al tavolo di ferro. Il boia chino sopra di lei. L’interrogatorio non serve a niente; è solo una gigantesca, mostruosa messa in scena; il teatro del Male; la rappresentazione del potere che non ha altro scopo che distruggere l’umanità dell’Altro e propria. Da questo punto di vista è peggio di Auschwitz. E per tornare a noi. Chi ride per le due “zingare” racchiuse in una gabbia, a chi fa schifo il rovistaggio, prima o poi rischia di creare tante Sarajevo e tante Esma.

Ammettiamolo: il pacifismo oggi è morto. Trump sgancia bombe in Afghanistan, minaccia la Corea del Nord e promette di entrare nel conflitto siriano. E non si vede un solo corteo di opposizione. Ecco perché, scrive Gigi Riva il 5 maggio 2017 su "L'Espresso". Essere pacifisti con le guerre degli altri è facile. Si testimonia un’opposizione di principio, astratta come la lontananza. Più complicato essere pacifisti quando si ha la sensazione di avere la guerra in casa. È il caso dell’Occidente oggi. La neutralità diventa un lusso che non ci si può permettere, scompaiono i grigi, vincono le posizioni nette. Ogni tentennamento davanti a un’aggressione viene bollato come intelligenza col nemico, il rifiuto delle armi una complicità tecnica: e si diventa delle “quinte colonne”. Il pacifismo è un “ismo” che chiama l’assoluto. È, o almeno è stato nella sua versione recente, “senza se e senza ma”. Non contempla nemmeno il pronto soccorso. La sua variante metadonica è la non violenza, predicata e praticata, in Italia, quasi esclusivamente dal partito radicale. Prevede che le vittime abbiano il diritto-dovere di difendersi davanti a un’aggressione. Fu anche la “scandalosa” posizione di Giovanni Paolo II. Questa rigidità ideologica mette il pacifismo fuorigioco quando c’è il nemico alle porte. In mancanza di una possibile diversa elaborazione, ammaina le sue bandiere e le ripone in cantina in vista di tempi migliori. Lo abbiamo visto. Donald Trump, come un dottor Stranamore, sgancia la superbomba in Afghanistan, minaccia la Corea del Nord, dice di voler entrare nella mischia siriana, altro ancora promette: e non si vede un corteo. Purtroppo, viene da aggiungere, perché se era deleterio un eccesso di pacifismo, è ugualmente nefasta un’assenza di pacifismo. La Terza guerra mondiale a pezzi (papa Francesco dixit) ci induce a far apparentare ogni conflitto. Non è così e bisognerebbe rimboccarsi le maniche, distinguere caso per caso, per decidere quando il ricorso all’arsenale aumenta o riduce il livello di violenza. Invece, se tutto è uguale, nessuno corre il rischio di essere additato come colui che vuole disarmare la mano in grado di colpire lo Stato islamico, sanguinario e genocida (degli ezidi). Il Califfo assassino è la carta assorbente dei dubbi. Alla dimensione psicologica e contingente, se ne aggiunge una politica per spiegare la fine momentanea del movimento arcobaleno. Esattamente 14 anni fa subì una sconfitta storica, quando portò in piazza cento milioni di persone (un milione in Italia) per fermare, senza riuscirci, l’armata di George W. Bush e dei “volenterosi” che stavano con lui per invadere l’Iraq. Allora esisteva ancora nel mondo la sinistra. Una sua declinazione era orientata al pacifismo e si era trovata i suoi pensatori, pur dimentichi del fatto che una loro icona indiscussa, il Che Guevara, portava il fucile. La sinistra è in crisi, il pacifismo è morto. Persino chi lo osteggiava non si deve sentire molto bene: manca l’Altro, cioè la dialettica.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

Dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.  Il Potere ti impone: subisci e taci…e noi, coglioni, subiamo la divisione per non poterci ribellare.

Una locuzione latina, un motto degli antichi romani, è: dividi et impera! Espediente fatto proprio dal Potere contemporaneo, dispotico e numericamente modesto, per controllare un popolo, provocando rivalità e fomentando discordie.

Comunisti, e media a loro asserviti, istigano le rivalità.

Dove loro vedono donne o uomini, io vedo persone con lo stesso problema.

Dove loro vedono lgbti o eterosessuali, io vedo amanti con lo stesso problema.

Dove loro vedono bellezza o bruttezza, io vedo qualcosa che invecchierà con lo stesso problema.

Dove loro vedono madri o padri, io vedo genitori con lo stesso problema.

Dove loro vedono comunisti o fascisti, io vedo elettori con lo stesso problema.

Dove loro vedono settentrionali o meridionali, io vedo cittadini italiani con lo stesso problema.  

Dove loro vedono interisti o napoletani, io vedo tifosi con lo stesso problema.

Dove loro vedono ricchi o poveri, io vedo contribuenti con lo stesso problema.

Dove loro vedono immigrati o indigeni, io vedo residenti con lo stesso problema.

Dove loro vedono pelli bianche o nere, io vedo individui con lo stesso problema.

Dove loro vedono cristiani o mussulmani, io vedo gente che nasce senza volerlo, muore senza volerlo e vive una vita di prese per il culo.

Dove loro vedono colti od analfabeti, io vedo discultura ed oscurantismo, ossia ignoranti con lo stesso problema.

Dove loro vedono grandi menti o grandi cazzi, io vedo geni o cazzoni con lo stesso problema.

L’astensione al voto non basta. Come la protesta non può essere delegata ad una accozzaglia improvvisata ed impreparata. Bisogna fare tabula rasa dei vecchi principi catto comunisti, filo massonici-mafiosi.

Noi siamo un unicum con i medesimi problemi, che noi stessi, conoscendoli, possiamo risolvere. In caso contrario un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.

Ed io non sarò tra quei coglioni che voteranno dei coglioni.

La legalità è un comportamento conforme alla legge. Legalità e legge sono facce della stessa medaglia.

Nei regimi liberali l’azione normativa per intervento statale, per regolare i rapporti tra Stato e cittadino ed i rapporti tra cittadini, è limitata. Si lascia spazio all’evolvere naturale delle cose. La devianza è un’eccezione, solo se dannosa per l'equilibrio sociale.

Nei regimi socialisti/comunisti/populisti l’intervento statale è inflazionato da miriadi di leggi, oscure e sconosciute, che regolano ogni minimo aspetto della vita dell’individuo, che non è più singolo, ma è massa. Il cittadino diventa numero di pratica amministrativa, di cartella medica, di fascicolo giudiziario. Laddove tutti si sentono onesti ed occupano i posti che stanno dalla parte della ragione, c’è sempre quello che si sente più onesto degli altri, e ne limita gli spazi. In nome di una presunta ragion di Stato si erogano miriadi di norme sanzionatrici limitatrici di libertà, spesso contrastati, tra loro e tra le loro interpretazioni giurisprudenziali. Nel coacervo marasma normativo è impossibile conformarsi, per ignoranza o per necessità. Ne è eccezione l'indole. Addirittura il legislatore è esso medesimo abusivo e dichiarato illegittimo dalla stessa Corte Costituzionale, ritenuto deviante dalla suprema Carta. Le leggi partorite da un Parlamento illegale, anch'esse illegali, producono legalità sanzionatoria. Gli operatori del diritto manifestano pillole di competenza e perizia pur essendo essi stessi cooptati con concorsi pubblici truccati. In questo modo aumentano i devianti e si è in pochi ad essere onesti, fino alla assoluta estinzione. In un mondo di totale illegalità, quindi, vi è assoluta impunità, salvo l'eccezione del capro espiatorio, che ne conferma la regola. Ergo: quando tutto è illegale, è come se tutto fosse legale.

L’eccesso di zelo e di criminalizzazione crea un’accozzaglia di organi di controllo, con abuso di burocrazia, il cui rimedio indotto per sveltirne l’iter è la corruzione.

Gli insani ruoli, politici e burocratici, per giustificare la loro esistenza, creano criminali dove non ne esistono, per legge e per induzione.

Ergo: criminalizzazione = burocratizzazione = tassazione-corruzione.

Allora, si può dire che è meglio il laissez-faire (il lasciare fare dalla natura delle cose e dell’animo umano) che essere presi per il culo e …ammanettati per i polsi ed espropriati dai propri beni da un manipolo di criminali demagoghi ed ignoranti con un’insana sete di potere.

Prendiamo per esempio il fenomeno cosiddetto dell'abusivismo edilizio, che è elemento prettamente di natura privata. I comunisti da sempre osteggiano la proprietà privata, ostentazione di ricchezza, e secondo loro, frutto di ladrocinio. Sì, perchè, per i sinistri, chi è ricco, lo è perchè ha rubato e non perchè se lo è guadagnato per merito e per lavoro.

Il perchè al sud Italia vi è più abusivismo edilizio (e per lo più tollerato)? E’ presto detto. Fino agli anni '50 l'Italia meridionale era fondata su piccoli borghi, con case di due stanze, di cui una adibita a stalla. Paesini da cui all’alba si partiva per lavorare nelle o presso le masserie dei padroni, per poi al tramonto farne ritorno. La masseria generalmente non era destinata ad alloggio per i braccianti.

Al nord Italia vi erano le Cascine a corte o Corti coloniche, che, a differenza delle Masserie, erano piccoli agglomerati che contenevano, oltre che gli edifici lavorativi e magazzini, anche le abitazioni dei contadini. Quei contadini del nord sono rimasti tali. Terroni erano e terroni son rimasti. Per questo al Nord non hanno avuto la necessità di evolversi urbanisticamente. Per quanto riguardava gli emigrati bastava dargli una tana puzzolente.

Al Sud, invece, quei braccianti sono emigrati per essere mai più terroni. Dopo l'ondata migratoria dal sud Italia, la nuova ricchezza prodotta dagli emigranti era destinata alla costruzione di una loro vera e bella casa in terra natia, così come l'avevano abitata in Francia, Germania, ecc.: non i vecchi tuguri dei borghi contadini, nè gli alveari delle case ringhiera o dei nuovi palazzoni del nord Italia. Inoltre quei braccianti avevano imparato un mestiere, che volevano svolgere nel loro paese di origine, quindi avevano bisogno di costruire un fabbricato per adibirlo a magazzino o ad officina. Ma la volontà di chi voleva un bel tetto sulla testa od un opificio, si scontrava e si scontra con la immensa burocrazia dei comunisti ed i loro vincoli annessi (urbanistici, storici, culturali, architettonici, archeologici, artistici, ambientali, idrogeologici, di rispetto, ecc.), che inibiscono ogni forma di soluzione privata. Ergo: per il diritto sacrosanto alla casa ed al lavoro si è costruito, secondo i canoni di sicurezza e di vincoli, ma al di fuori del piano regolatore generale (Piano Urbanistico) inesistente od antico, altrimenti non si potrebbe sanare con ulteriori costi sanzionatori che rende l’abuso antieconomico. Per questo motivo si pagano sì le tasse per una casa od un opificio, che la burocrazia intende abusivo, ma che la stessa burocrazia non sana, nè dota quelle costruzioni, in virtù delle tasse ricevute e a tal fine destinate, di infrastrutture primarie: luce, strade, acqua, gas, ecc.. Da qui, poi, nasce anche il problema della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti. Burocrazia su Burocrazia e gente indegna ed incapace ad amministrarla.

Per quanto riguarda, sempre al sud, l'abusivismo edilizio sulle coste, non è uno sfregio all'ambiente, perchè l'ambiente è una risorsa per l'economia, ma è un tentativo di valorizzare quell’ambiente per far sviluppare il turismo, come fonte di sviluppo sociale ed economico locale, così come in tutte le zone a vocazione turistica del mediterraneo, che, però, la sinistra fa fallire, perchè ci vuole tutti poveri e quindi, più servili e assoggettabili. L'ambientalismo è una scusa, altrimenti non si spiega come al nord Italia si possa permettere di costruire o tollerare costruzioni alle pendici dei monti, o nelle valli scoscese, con pericolo di frane ed alluvioni, ma per gli organi di informazione nazionale, prevalentemente nordisti e razzisti e prezzolati dalla sinistra, è un buon viatico, quello del tema dell'abusivismo e di conseguenza della criminalità che ne consegue, o di quella organizzata che la si vede anche se non c'è o che è sopravalutata, per buttare merda sulla reputazione dei meridionali.

Prima della rivoluzione francese “L’Ancien Régime” imponeva: ruba ai poveri per dare ai ricchi.

Erano dei Ladri!!!

Dopo, con l’avvento dei moti rivoluzionari del proletariato e la formazione ideologica/confessionale dei movimenti di sinistra e le formazioni settarie scissioniste del comunismo e del fascismo, si impose il regime contemporaneo dello stato sociale o anche detto stato assistenziale (dall'inglese welfare state). Lo stato sociale è una caratteristica dei moderni stati di diritto che si fondano sul presupposto e inesistente principio di uguaglianza, in quanto possiamo avere uguali diritti, ma non possiamo essere ritenuti tutti uguali: c’è il genio e l’incapace, c’è lo stakanovista e lo scansafatiche, l’onesto ed il deviante. Il capitale di per sé produce reddito, anche senza il fattore lavoro. Lavoro e capitale messi insieme, producono ricchezza per entrambi. Il lavoro senza capitale non produce ricchezza. Il ritenere tutti uguali è il fondamento di quasi tutte le Costituzioni figlie dell’influenza della rivoluzione francese: Libertà, Uguaglianza, Solidarietà. Senza questi principi ogni stato moderno non sarebbe possibile chiamarlo tale. Questi Stati non amano la meritocrazia, né meritevoli sono i loro organi istituzionali e burocratici. Il tutto si baratta con elezioni irregolari ed a larga astensione e con concorsi pubblici truccati di cooptazione. In questa specie di democrazia vige la tirannia delle minoranze. L’egualitarismo è una truffa. E’ un principio velleitario detto alla “Robin Hood”, ossia: ruba ai ricchi per dare ai poveri.

Sono dei ladri!!!

Tra l’antico regime e l’odierno sistema quale è la differenza?

Sempre di ladri si tratta. Anzi oggi è peggio. I criminali, oggi come allora, saranno coloro che sempre si arricchiranno sui beoti che li acclamano, ma oggi, per giunta, ti fanno intendere di fare gli interessi dei più deboli.

Non diritto al lavoro, che, come la manna, non cade dal cielo, ma diritto a creare lavoro. Diritto del subordinato a diventare titolare. Ma questo principio di libertà rende la gente libera nel produrre lavoro e ad accumulare capitale. La “Libertà” non è statuita nell’articolo 1 della nostra Costituzione catto comunista. Costituzioni che osannano il lavoro, senza crearne, ma foraggiano il capitale con i soldi dei lavoratori.

Le confessioni comuniste/fasciste e clericali ti insegnano: chiedi e ti sarà dato e comunque, subisci e taci!

Io non voglio chiedere niente a nessuno, specie ai ladri criminali e menzogneri, perché chi chiede si assoggetta e si schiavizza nella gratitudine e nella riconoscenza. 

Una vita senza libertà è una vita di merda…

Cultura e cittadinanza attiva. Diamo voce alla piccola editoria indipendente.

Collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”. Una lettura alternativa per l’estate, ma anche per tutto l’anno. L’autore Antonio Giangrande: “Conoscere per giudicare”.

"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI.

La collana editoriale indipendente “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” racconta un’Italia inenarrabile ed inenarrata.

È così, piaccia o no ai maestrini, specie quelli di sinistra. Dio sa quanto gli fa torcere le budella all’approcciarsi del cittadino comune, ai cultori e praticanti dello snobismo politico, imprenditoriale ed intellettuale, all’élite che vivono giustificatamente separati e pensosi, perennemente con la puzza sotto il naso.

Il bello è che, i maestrini, se è contro i loro canoni, contestano anche l’ovvio.

Come si dice: chi sa, fa; chi non sa, insegna.

In Italia, purtroppo, vigono due leggi.

La prima è la «meritocrazia del contenuto». Secondo questa regola tutto quello che non è dichiaratamente impegnato politicamente è materia fecale. La conseguenza è che, per dimostrare «l'impegno», basta incentrare tutto su un contenuto e schierarsene ideologicamente a favore: mafia, migranti, omosessualità, ecc. Poi la forma non conta, tantomeno la realtà della vita quotidiana. Da ciò deriva che, se si scrive in modo neutro (e quindi senza farne una battaglia ideologica), si diventa non omologato, quindi osteggiato o emarginato o ignorato.

La seconda legge è collegata alla prima. La maggior parte degli scrittori nostrani si è fatta un nome in due modi. Primo: rompendo le balle fin dall'esordio con la superiorità intellettuale rispetto alle feci che sarebbero i «disimpegnati».

Secondo modo per farsi un nome: esordire nella medietà (cioè nel tanto odiato nazional-popolare), per poi tentare il salto verso la superiorità.

Il copione lo conosciamo: a ogni gaffe di cultura generale scatta la presa in giro. Il problema è che a perderci sono proprio loro, i maestrini col ditino alzato. Perché è meno grave essere vittime dello scadimento culturale del Paese che esserne responsabili. Perché, nonostante le gaffe conclamate e i vostri moti di sdegno e scherno col ditino alzato su congiuntivi, storia e geografia, gli errori confermano a pieno titolo come uomini di popolo, gente comune, siano vittime dello scadimento culturale del Paese e non siano responsabili di una sub cultura menzognera omologata e conforme. Forse alla gente comune rompe il cazzo il sentire le prediche e le ironie di chi - lungi dall’essere anche solo avvicinabile al concetto di élite - pensa di saperne un po’ di più. Forse perché ha avuto insegnanti migliori, o un contesto famigliare un po’ più acculturato, o il tempo di leggere qualche libro in più. O forse perchè ha maggior dose di presunzione ed arroganza, oppure occupa uno scranno immeritato, o gli si dà l’opportunità mediatica immeritata, che gli dà un posto in alto e l’opportunità di vaneggiare.

Non c'è nessun genio, nessun accademico tra i maestrini. Del resto, mai un vero intellettuale si permetterebbe di correggere una citazione errata, tantomeno di prenderne in giro l'autore. Solo gente normale con una cultura normale pure loro, con una alta dose di egocentrismo, cresciuti a pane, magari a videocassette dell’Unità di Veltroni e citazioni a sproposito di Pasolini. Maestrini che vedono la pagliuzza negli occhi altrui, pagliuzza che spesso non c'è neppure, e non hanno coscienza della trave nei loro occhi o su cui sono appoggiati.

Intervista all’autore, il dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.  

«Quando ero piccolo a scuola, come in famiglia, mi insegnavano ad adempiere ai miei doveri: studiare per me per sapere; lavorare per la famiglia; assolvere la leva militare per la difesa della patria; frequentare la chiesa ed assistere alla messa domenicale; ascoltare i saggi ed i sapienti per imparare, rispettare il prossimo in generale ed in particolare i più grandi, i piccoli e le donne, per essere rispettato. La visita giornaliera ai nonni ed agli zii era obbligatoria perché erano subgenitori. I cugini erano fratelli. Il saluto preventivo agli estranei era dovuto. Ero felice e considerato. L'elargizione dei diritti era un premio che puntuale arrivava. Contava molto di più essere onesti e solidali che non rivendicare o esigere qualcosa che per legge o per convenzione ti spettava. Oggi: si pretende (non si chiede) il rispetto del proprio (e non dell'altrui) diritto, anche se non dovuto; si parla sempre con imposizione della propria opinione; si fa a meno di studiare e lavorare o lo si impedisce di farlo, come se fosse un dovere, più che un diritto; la furbizia per fottere il prossimo è un dono, non un difetto. Non si ha rispetto per nessun'altro che non sia se stesso. Non esiste più alcun valore morale. Non c'è più Stato; nè Famiglia; nè religione; nè amicizia. Sui social network, il bar telematico, sguazzano orde di imbecilli. Quanto più amici asocial si hanno, più si è soli. Questa è l'involuzione della specie nella società moderna liberalcattocomunista».

Quindi, oggi, cosa bisogna sapere?

«Non bisogna sapere, ma è necessario saper sapere. Cosa voglio dire? Affermo che non basta studiare il sapere che gli altri od il Sistema ci propinano come verità e fermarci lì, perché in questo caso diveniamo quello che gli altri hanno voluto che diventassimo: delle marionette. E’ fondamentale cercare il retro della verità propinata, ossia saper sapere se quello che sistematicamente ci insegnano non sia una presa per il culo. Quindi se uno già non sa, non può effettuare la verifica con un ulteriore sapere di ricerca ed approfondimento. Un esempio per tutti. Quando si studia giurisprudenza non bisogna fermarsi alla conoscenza della norma ed eventualmente alla sua interpretazione. Bisogna sapere da chi e con quale maggioranza ideologica e perchè è stata promulgata o emanata e se, alla fine, sia realmente condivisa e rispettata. Bisogna conoscere il retro terra per capirne il significato: se è stata emessa contro qualcuno o a favore di qualcun'altro; se è pregna di ideologia o adottata per interesse di maggioranza di Governo; se è un'evoluzione storica distorsiva degli usi e dei costumi nazionali o influenzata da pregiudizi, o sia una conformità alla legislazione internazionale lontana dalla nostra cultura; se è stata emanata per odio...L’odio è un sentimento di rivalsa verso gli altri. Dove non si arriva a prendere qualcosa si dice che non vale. E come quel detto sulla volpe che non riuscendo a prendere l’uva disse che era acerba. Nel parlare di libertà la connessione va inevitabilmente ai liberali ed alla loro politica di deburocratizzazione e di delegificazione e di liberalizzazione nelle arti, professioni e nell’economia mirante all’apoteosi della meritocrazia e della responsabilità e non della inadeguatezza della classe dirigente. Lo statalismo è una stratificazione di leggi, sanzioni e relativi organi di controllo, non fini a se stessi, ma atti ad alimentare corruttela, ladrocinio, clientelismo e sopraffazione dei deboli e degli avversari politici. Per questo i liberali sono una razza in estinzione: non possono creare consenso in una massa abituata a pretendere diritti ed a non adempiere ai doveri. Fascisti, comunisti e clericali sono figli degeneri di una stessa madre: lo statalismo ed il centralismo. Si dicono diversi ma mirano tutti all’assistenzialismo ed alla corruzione culturale per influenzare le masse: Panem et circenses (letteralmente «pane e [giochi] circensi») è una locuzione latina piuttosto nota e spesso citata, usata nell'antica Roma e al giorno d'oggi per indicare in sintesi le aspirazioni della plebe (nella Roma di età imperiale) o della piccola borghesia, o d'altro canto in riferimento a metodi politici bassamente demagogici. Oggi la politica non ha più credibilità perchè non è scollegata dall’economia e dalle caste e dalle lobbies che occultamente la governano, così come non sono più credibili i loro portavoce, ossia i media di regime, che tanto odiano la "Rete". Internet, ormai, oggi, è l'unico strumento che permette di saper sapere, dando modo di scoprire cosa c'è dietro il fronte della medaglia, ossia cosa si nasconda dietro le fake news (bufale) di Stato o dietro la discultura e l'oscurantismo statalista».

Cosa racconta nei suoi libri?

«Sono un centinaio di saggi di inchiesta composti da centinaia di pagine, che raccontano di un popolo difettato che non sa imparare dagli errori commessi. Pronto a giudicare, ma non a giudicarsi. I miei libri raccontato l’indicibile. Scandali, inchieste censurate, storie di ordinaria ingiustizia, di regolari abusi e sopraffazioni e di consueta omertà. Raccontano, attraverso testimonianze e documenti, per argomento e per territorio, i tarli ed i nei di una società appiattita che aspetta il miracolo di un cambiamento che non verrà e che, paradosso, non verrà accettato. In più, come chicca editoriale, vi sono i saggi con aggiornamento temporale annuale, pluritematici e pluriterritoriali. Tipo “Selezione dal Reader’s Digest”, rivista mensile statunitense per famiglie, pubblicata in edizione italiana fino al 2007. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi nei saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali di distribuzione internazionale in forma Book o E-book. Canali di pubblicazione e di distribuzione come Amazon o Google libri. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche. I testi hanno una versione video sui miei canali youtube».

Qual è la reazione del pubblico?

«Migliaia sono gli accessi giornalieri alle letture gratuite di parti delle opere su Google libri e decine di migliaia sono le pagine lette ogni giorno. Accessi da tutto il mondo, nonostante il testo sia in lingua italiana e non sia un giornale quotidiano. Si troveranno, anche, delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato».

Perché è poco conosciuto al grande pubblico generalista?

«Perché sono diverso. Oggi le persone si stimano e si rispettano in base al loro grado di utilità materiale da rendere agli altri e non, invece, al loro valore intrinseco ed estrinseco intellettuale. Per questo gli inutili sono emarginati o ignorati. Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti. In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è? Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo. Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso. Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte. Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”».

Qual è la sua missione?

«“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente…Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili”. Citazioni di Bertolt Brecht. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»

Perché è orgoglioso di essere diverso?

«E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta...” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso...” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale».

Dr. Antonio Giangrande. Orgoglioso di essere diverso.

La massa ti considera solo se hai e ti votano solo se dai. Nulla vali se tu sai. Victor Hugo: "Gli uomini ti stimano in rapporto alla tua utilità, senza tener conto del tuo valore." Le persone si stimano e si rispettano in base al loro grado di utilità materiale, tangibile ed immediata, da rendere agli altri e non, invece, al loro valore intrinseco ed estrinseco intellettuale. Per questo gli inutili da sempre, pur con altissimo valore, sono emarginati o ignorati, inibendone, ulteriormente, l’utilità.

Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

Fa quello che si sente di fare e crede in quello che si sente di credere.

La Democrazia non è la Libertà.

La libertà è vivere con libero arbitrio nel rispetto della libertà altrui.

La democrazia è la dittatura di idioti che manipolano orde di imbecilli ignoranti e voltagabbana.

Cattolici e comunisti, le chiese imperanti, impongono la loro libertà, con la loro morale, il loro senso del pudore ed il loro politicamente corretto.

Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni.

Facciamo sempre il solito errore: riponiamo grandi speranze ed enormi aspettative in piccoli uomini senza vergogna.

Un altro errore che commettiamo è dare molta importanza a chi non la merita.

"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI

Le pecore hanno paura dei lupi, ma è il loro pastore che le porta al macello.

Da sociologo storico ho scritto dei saggi dedicati ad ogni partito o movimento politico italiano: sui comunisti e sui socialisti (Craxi), sui fascisti (Mussolini), sui cattolici (Moro) e sui moderati (Berlusconi), sui leghisti e sui pentastellati. Il sottotitolo è “Tutto quello che non si osa dire. Se li conosci li eviti.” Libri che un popolo di analfabeti mai leggerà.

Da queste opere si deduce che ogni partito o movimento politico ha un comico come leader di riferimento, perché si sa: agli italiani piace ridere ed essere presi per il culo. Pensate alle battute di Grillo, alle barzellette di Berlusconi, alle cazzate di Salvini, alle freddure della Meloni, alle storielle di Renzi, alle favole di D’Alema e Bersani, ecc. Partiti e movimenti aventi comici come leader e ladri come base.

Gli effetti di avere dei comici osannati dai media prezzolati nei tg o sui giornali, anziché vederli esibirsi negli spettacoli di cabaret, rincoglioniscono gli elettori. Da qui il detto: un popolo di coglioni sarà sempre amministrato o governato, informato, istruito e giudicato da coglioni.

Per questo non ci lamentiamo se in Italia mai nulla cambia. E se l’Italia ancora va, ringraziamo tutti coloro che anziché essere presi per il culo, i comici e la loro clack (claque) li mandano a fanculo.

Antonio Giangrande, scrittore, accademico senza cattedra universitaria di Sociologia Storica, giornalista ed avvocato non abilitato. "Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io, vivi i miei dolori, i miei dubbi, le mie risate...vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e rialzati come ho fatto io. Ognuno ha la propria storia. E solo allora mi potrai giudicare." Luigi Pirandello.

Dapprima ti ignorano. Poi ti deridono. Poi ti emarginano. Poi ti combattono. Tu sei solo, ma non per sempre. Loro sono tanti, ma non per sempre. Ed allora sarai vincente, ma solo dopo la tua morte. I primi a combatterti sono i prossimi parenti ed i compaesani ed allor "non ragioniam di loro, ma guarda e passa" (Dante Alighieri). “Gesù, venuto nella sua patria, insegnava nella loro sinagoga e la gente rimaneva stupita e diceva: «Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi? Non è costui il figlio del falegname? E sua madre, non si chiama Maria? E i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle, non stanno tutte da noi? Da dove gli vengono allora tutte queste cose?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua». E lì, a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi”. Mt 13, 54-58.

Se si disprezza quello che gli altri sono e fanno, perché, poi, si è come gli altri e si osteggiano i diversi?

"C’è un’azione peggiore che quella di togliere il diritto di voto al cittadino e consiste nel togliergli la voglia di votare.” (R. Sabatier)

«La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile» - Corrado Alvaro, Ultimo diario, 1961.

Vivere senza leggere, o senza sfogliare i libri giusti scritti fuori dal coro o vivere studiando dai saggi distribuiti dal sistema di potere catto comunista savoiardo nelle scuole e nelle università, è molto pericoloso. Ciò ti obbliga a credere a quello che dicono gli altri interessati al Potere e ti conforma alla massa. Allora non vivi da uomo, ma da marionetta.

Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate. Chi siamo noi? Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti. Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”. Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi. Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani. Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni. Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.

John Keating: Qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo. Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a vedere voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un'altra prospettiva. Carpe diem. Cogliete l'attimo, ragazzi... Rendete straordinaria la vostra vita!

Gerard Pitts: Cogli la rosa quando è il momento, che il tempo, lo sai, vola e lo stesso fiore che sboccia oggi, domani appassirà. John Keating: Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l'amore, sono queste le cose che ci tengono in vita. Dal film L'attimo fuggente (Dead Poets Society), film del 1989 diretto da Peter Weir e con protagonista Robin Williams.

Studiare non significa sapere, volere non significa potere. Ai problemi non si è capaci di trovare una soluzione che accontenti tutti, perché una soluzione per tutti non esiste. Alla fine nessuno è innocente, perché in questa società individualista, violenta e superficiale tutti sono colpevoli. Io ho preso la mia decisione mentre la totalità di voi non sa prenderne alcuna (anche nelle cose più semplici). Come potreste capire cosa è veramente importante nella vita? Non saprete mai se avete preso la decisione giusta perché non vi siete fidati di voi stessi. Accusate il sistema, ma il sistema è freddo inesorabile matematico, solo chi è deciso a raggiungere la riva la raggiungerà. Vi auguro tutto il meglio per la vostra vita. “Class Enemy”, di Rok Bicek film del 2013. 

Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, destinatario delle denunce presentate dai magistrati per tacitarlo e ricevente da tutta Italia di centinaia di migliaia di richieste di aiuto o di denunce di malefatte delle istituzioni. Ignorato dai media servi del potere.

Come far buon viso a cattivo gioco ed aspettare che dal fiume appaia il corpo del tuo nemico. "Subisci e taci" ti intima il Sistema. Non sanno, loro, che la vendetta è un piatto che si gusta freddo. E non si può perdonare...

Un padre regala al figlio un sacchetto di chiodi. “Tieni figliolo, ecco un sacchetto di chiodi. Piantane uno nello steccato Ogni volta che che perdi la pazienza e litighi con qualcuno perchè credi di aver subito un'ingiustizia” gli dice. Il primo giorno il figlio piantò ben 37 chiodi ma nelle settimane successive imparò a controllarsi e il numero di chiodi cominciò piano piano a diminuire. Aveva infatti scoperto che era molto più facile controllarsi che piantare chiodi e così arrivò un giorno in cui non ne piantò nemmeno uno. Andò quindi dal padre e gli disse che per quel giorno non aveva litigato con nessuno, pur essendo stato vittima d'ingiustizie e di soprusi, e non aveva piantato alcun chiodo. Il padre allora gli disse: “Benissimo figliolo, ora leva un chiodo dallo steccato per ogni giorno in cui non hai perso la pazienza e litigato con qualcuno”. Il figlio ascoltò e tornò dal padre dopo qualche giorno, comunicandogli che aveva tolto tutti i chiodi dallo steccato e che non aveva mai più perso la pazienza. Il padre lo portò quindi davanti allo steccato e guardandolo gli disse: “Figliolo, ti sei comportato davvero bene. Bravo. Ma li vedi tutti quei buchi? Lo steccato non potrà più tornare come era prima. Quando litighi con qualcuno, o quando questi ha usato violenza fisica o psicologica nei tuoi confronti, rimane una ferita come questi buchi nello steccato. Tu puoi piantare un coltello in un uomo e poi levarlo, e lo stesso può fare questi con te, ma rimarrà sempre una ferita. E non importa quante volte ti scuserai, o lui lo farà con te, la ferita sarà sempre lì. Una ferita verbale è come il chiodo nello steccato e fa male quanto una ferita fisica. Lo steccato non sarà mai più come prima. Quando dici le cose in preda alla rabbia, o quando altri ti fanno del male, si lasciano delle ferite come queste: come i buchi nello steccato. Possono essere molto profonde. Alcune si rimarginano in fretta, altre invece, potrebbero non rimarginare mai, per quanto si possa esserne dispiaciuti e si abbia chiesto scusa". 

Io non reagisco, ma mi si permetta di raccontare l'accaduto. Voglio far conoscere la verità sui chiodi piantati nelle nostre carni.

La mia esperienza e la mia competenza mi portano a pormi delle domande sulle vicende della vita presente e passata e sul perché del ripetersi di eventi provati essere dannosi all’umanità, ossia i corsi e i ricorsi storici. Gianbattista Vico, il noto filosofo napoletano vissuto fra il XVII e XVIII secolo elaborò una teoria, appunto dei corsi e ricorsi storici. Egli era convinto che la storia fosse caratterizzata dal continuo e incessante ripetersi di tre cicli distinti: l’età primitiva e divina, l’età poetica ed eroica, l’età civile e veramente umana. Il continuo ripetersi di questi cicli non avveniva per caso ma era predeterminato e regolamentato, se così si può dire, dalla provvidenza. Questa formulazione di pensiero è comunemente nota come “teoria dei corsi e dei ricorsi storici”. In parole povere, tanto per non essere troppo criptici, il Vico sosteneva che alcuni accadimenti si ripetevano con le medesime modalità, anche a distanza di tanto tempo; e ciò avveniva non per puro caso ma in base ad un preciso disegno stilato della divina provvidenza.” Io sono convinto, invece, che l’umanità dimentica e tende a sbagliare indotta dalla stupidità e dall’egoismo di soddisfare in ogni modo totalmente i propri bisogni in tempi e spazi con risorse limitate. Trovare il perché delle discrepanze dell’ovvio raccontato. Alle mie domando non mi do io stesso delle risposte. Le risposte le raccolgo da chi sento essere migliore di me e comunque tra coloro contrapposti con le loro idee sullo stesso tema da cui estrapolare il sunto significativo. Tutti coloro che scrivono, raccontano il fatto secondo il loro modo di vedere e lo ergono a verità. Ergo: stesso fatto, tanti scrittori, quindi, tanti fatti diversi. La mia unicità e peculiarità, con la credibilità e l’ostracismo che ne discende, sta nel raccontare quel fatto in un’unica sede e riportando i vari punti di vista. In questo modo svelo le mistificazioni e lascio solo al lettore l’arbitrio di trarne la verità da quei dati.

Voglio conoscere gli effetti, sì, ma anche le cause degli accadimenti: il post e l’ante. La prospettiva e la retrospettiva con varie angolazioni. Affrontare le tre dimensioni spaziali e la quarta dimensione temporale.

Si può competere con l’intelligenza, mai con l’idiozia. L’intelligenza ascolta, comprende e pur non condividendo rispetta. L’idiozia si dimena nell’Ego, pretende ragione non ascoltando le ragioni altrui e non guarda oltre la sua convinzione dettata dall’ignoranza. L’idiozia non conosce rispetto, se non pretenderlo per se stessa.

Quando fai qualcosa hai tutti contro: quelli che volevano fare la stessa cosa, senza riuscirci, impediti da viltà, incapacità, ignavia; quelli che volevano fare il contrario; e quelli, ossia la stragrande maggioranza, che non volevano fare niente.

Certe persone non sono importanti, siamo noi che, sbagliando, gli diamo importanza. E poi ci sono quelle persone che non servono ad un cazzo, non fanno un cazzo e si credono sto cazzo.

Correggi un sapiente ed esso diventerà più colto. Correggi un ignorante ed esso diventerà un tuo acerrimo nemico.

Molti non ti odiano perché gli hai fatto del male, ma perché sei migliore di loro.

Più stupido di chi ti giudica senza sapere nulla di te è colui il quale ti giudica per quello che gli altri dicono di te. Perché le grandi menti parlano di idee; le menti medie parlano di fatti; le infime menti parlano solo male delle persone.

E’ importante stare a posto con la propria coscienza, che è molto più importante della propria reputazione. La tua coscienza sei tu, la reputazione è ciò che gli altri pensano di te e quello che gli altri pensano di te è un problema loro.

Le bugie sono create dagli invidiosi, ripetute dai cretini e credute dagli idioti, perché un grammo di comportamento esemplare, vale un quintale di parole. Le menti mediocri condannano sempre ciò che non riescono a capire.

E se la strada è in salita, è solo perché sei destinato ad attivare in alto.

Ci sono persone per indole nate per lavorare e/o combattere. Da loro ci si aspetta tanto ed ai risultati non corrispondono elogi. Ci sono persone nate per oziare. Da loro non ci si aspetta niente. Se fanno poco sono sommersi di complimenti. Guai ad aspettare le lodi del mondo. Il mondo è un cattivo pagatore e quando paga lo fa sempre con l’ingratitudine.

Il ciclo vitale biologico della natura afferma che si nasce, si cresce, ci si riproduce, si invecchia e si muore e l’evoluzione fa vincere i migliori. Solo a noi umani è dato dare un senso alla propria vita.

Ergo. Ai miei figli ho insegnato:

Le ideologie, le confessioni, le massonerie vi vogliono ignoranti;

Le mafie, le lobbies e le caste vi vogliono assoggettati;

Le banche vi vogliono falliti;

La burocrazia vi vuole sottomessi;

La giustizia vi vuole prigionieri;

Siete nati originali…non morite fotocopia.

Siate liberi. Studiare, ma non fermarsi alla cultura omologata. La conoscenza è l'arma migliore per vincere. 

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

Lettera ad un amico che ha tentato la morte.

Le difficoltà rinforzano il carattere e certo quello che tu eri, oggi non lo sei.

Le difficoltà le affrontano tutti in modi diversi, come dire: in ogni casa c’è una croce. L’importante portarla con dignità. E la forza data per la soluzione è proporzionale all’intelligenza.

Per cui: x grado di difficoltà = x grado di intelligenza. 

Pensa che io volevo studiare per emergere dalla mediocrità, ma la mia famiglia non poteva.

Per poter studiare dovevo lavorare. Ma lavoro sicuro non ne avevo.

Per avere un lavoro sicuro dovevo vincere un concorso pubblico, che lo vincono solo i raccomandati.

Ho partecipato a decine di concorsi pubblici: nulla di fatto.

Nel “mezzo del cammin della mia vita”, a trentadue anni, avevo una moglie e due figli ed una passione da soddisfare.

La mia vita era in declino e le sconfitte numerose: speranza per il futuro zero!

Ho pensato ai miei figli e si è acceso un fuoco. Non dovevano soffrire anche loro.

Le difficoltà si affrontano con intelligenza: se non ce l’hai, la sviluppi.

Mi diplomo in un anno presso la scuola pubblica da privatista: caso unico.

Mi laureo alla Statale di Milano in giurisprudenza in due anni: caso raro.

Sembrava fatta, invece 17 anni per abilitarmi all’avvocatura senza successo per ritorsione di chi non accetta i diversi. Condannato all’indigenza e al discredito, per ritorsione dei magistrati e dei media a causa del mio essere diverso.

Mio figlio ce l’ha fatta ad abilitarsi a 25 anni con due lauree, ma è impedito all’esercizio a causa del mio disonore.

Lui aiuta gli altri nello studio a superare le incapacità dei docenti ad insegnare.

Io aiuto gli altri, con i miei saggi, ad essere orgogliosi di essere diversi ed a capire la realtà che li circonda.

Dalla mia esperienza posso dire che Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi o valutazioni lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni.

Quindi, caro amico, non guardare più indietro. Guarda avanti. Non pensare a quello che ti manca o alle difficoltà che incontri, ma concentrati su quello che vuoi ottenere. Se non lasci opere che restano, tutti di te si dimenticano, a prescindere da chi eri in vita.

Pensa che più difficoltà ci sono, più forte diventerai per superarle.

Volere è potere.

E sii orgoglioso di essere diverso, perché quello che tu hai fatto, tentare la morte, non è segno di debolezza. Ma di coraggio.

Le menti più eccelse hanno tentato o pensato alla morte. Quella è roba da diversi. Perché? Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Per questo bisogna vivere, se lo hai capito: per ribellione e per rivalsa!

Non si deve riporre in me speranze mal riposte.

Io posso dare solidarietà o prestare i miei occhi per leggere o le mie orecchie per sentire, ma cosa posso fare per gli altri, che non son stato capace di fare per me stesso?

Nessuno ha il potere di cambiare il mondo, perché il mondo non vuol essere cambiato.

Ho solo il potere di scrivere, senza veli ideologici o religiosi, quel che vedo e sento intorno a me. E’ un esercizio assolutamente soggettivo, che, d’altronde, non mi basta nemmeno a darmi da vivere.

E’ un lavoro per i posteri, senza remunerazione immediata.

Essere diversi significa anche essere da soli: senza un gruppo di amici sinceri o una claque che ti sostenga.

Il fine dei diversi non combacia con la meta della massa. La storia dimostra che è tutto un déjà-vu.

Tante volte ho risposto no ai cercatori di biografie personali, o ai sostenitori di battaglie personali. Tante volte, portatori delle loro bandiere, volevano eserciti per lotte personali, elevandosi a grado di generali.

La mia missione non è dimostrare il mio talento o le mie virtù rispetto agli altri, ma documentare quanto questi altri siano niente in confronto a quello che loro considerano di se stessi.

Quindi ritienimi un amico che sa ascoltare e capire, ma che nulla può fare o dare ad altri, perché nulla può fare o dare per se stesso.

Sono solo un Uomo che scrive e viene letto, ma sono un uomo senza Potere.

Dell’uomo saggio e giusto si segue l’esempio, non i consigli.

Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.

Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.

Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Il ciclo vitale, in biologia, è l'intervallo tra il susseguirsi di generazioni di una specie. L'esistenza di ogni organismo si svolge secondo una sequenza ciclica di stadi ed eventi biologici, caratterizzata in base alla specie di appartenenza. Queste sequenze costituiscono i cosiddetti Cicli Biologici. Ogni essere vivente segue un ciclo vitale biologico composto dai seguenti stadi: nascita, crescita, riproduzione, senescenza e morte. Per quanto possa essere breve o corta la vita, nessun essere vivente preso singolarmente è immortale. Ma la sua specie diventa immortale attraverso la riproduzione e l'evoluzione. Gli esseri viventi si evolvono nel corso del tempo per potersi meglio adattare alla natura che li circonda. Attraverso la riproduzione le generazioni trasmettono i propri geni a quelle future. Durante questo passaggio le nuove generazioni possono assumere caratteristiche nuove o perderne alcune. Le differenze si traducono in vantaggi o in handicap per chi le possiede, agendo direttamente sul processo evolutivo tramite la selezione naturale degli individui. Le nuove caratteristiche che agevolano l'adattamento all'ambiente offrono all'individuo maggiori probabilità di sopravvivenza e, quindi, di riproduzione. E' innaturale non riprodursi. Senza riproduzione non vi è proseguimento ed evoluzione della specie. Senza riproduzione il ciclo vitale biologico cessa. Ciò ci rende mortali. Parlare in termini scientifici dell'eterosessualità e del parto, quindi di stati naturali, fa di me un omofobo ed un contrabortista, quindi un non-comunista? Cercare di informare i simili contro la deriva involutiva, fa di me un mitomane o pazzo? 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.

Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.

Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che nel disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.

Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati.  Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza.  Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.

Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it , mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.

Ho la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?

Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le magagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.

Alle sentenze irrevocabili di proscioglimento del Tribunale di Taranto a carico del dr Antonio Giangrande, già di competenza della dr.ssa Rita Romano, giudice di Taranto poi ricusata perché denunciata, si aggiunge il verbale di udienza dell’11 dicembre 2015 della causa n. 987/09 (1832/07 RGNR) del Tribunale di Potenza, competente su fatti attinenti i magistrati di Taranto, con il quale si dispone la perfezione della fattispecie estintiva del processo per remissione della querela nei confronti del dr Antonio Giangrande da parte del dr. Alessio Coccioli, già Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, poi trasferito alla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce. Remissione della querela volontaria, libera e non condizionata da alcun atto risarcitorio.

Il Dr Antonio Giangrande era inputato per il reato previsto e punito dall’art. 595 3° comma c.p. “perchè inviando una missiva a sua firma alla testata giornalistica La Gazzetta del Sud Africa e pubblicata sui siti internet lagazzettadelsudafrica.net, malagiustizia.eu, e associazionecontrotuttelemafie.org, offendeva l’onore ed il decoro del dr. Alessio Coccioli, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, riportando in detto su scritto la seguente frase: “…il PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, ha reso lecito tale modus operandi (non rilasciare attestato di ricezione da parte dell’Ufficio Protocollo del Comune di Manduria ndr), motivandolo dal fatto che non è dannoso per il denunciante. Invece in denuncia si è fatto notare che tale usanza di recepimento degli atti, prettamente manduriana, può nascondere alterazioni procedurali in ambito concorsuale e certamente abusi a danno dei cittadini. Lo stesso PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, per la colleganza con il comandante dei Vigili Urbani di Manduria, ha ritenuto le propalazioni del Giangrande, circa il concorso per Comandante dei Vigili Urbani, ritenuto truccato (perché il medesimo aveva partecipato e vinto in un concorso da egli stesso indetto e regolato in qualità di comandante pro tempore e dirigente dell’ufficio del personale), sono frutto di sue convinzioni non supportate da riscontri di natura obbiettiva e facendo conseguire tali riferimenti, al predetto dr. Coccioli, ad altre notazioni, contenute nello stesso scritto, nelle quali si denunciavano insabbiamenti, o poche richieste di archiviazioni strumentali attribuite ai magistrati della Procura della Repubblica di Taranto”.

Il Processo di Potenza, come i processi tenuti a Taranto, sono attinenti a reati di opinione. Lo stesso dr. Alessio Coccioli, una volta trasferito a Lecce, ha ritenuto che le opinioni espresse dal Dr Antonio Giangrande riguardo la Giustizia a Taranto non potessero continuare ad essere perseguite. 

Ultimo atto. Esame di Avvocato 2015. A Lecce uno su quattro ce l’ha fatta. Sono partiti in 1.108: la prova scritta è stata passata da 275 praticanti. Preso atto.....

All'attenzione dell'avv. Francesco De Jaco. Illustre avv. Francesco De Jaco, in qualità di Presidente della Commissione di Esame di Avvocato 2014-2015, chi le scrive è il dr Antonio Giangrande. E’ quel signore, attempato per i suoi 52 anni e ormai fuori luogo in mezzo ai giovani candidati, che in sede di esame le chiese, inopinatamente ed invano, Tutela. Tutela, non raccomandazione. Così come nel 2002 fu fatto inutilmente con l’avv. Luigi Rella, presidente di commissione e degli avvocati di Lecce. Tutela perché quel signore il suo futuro lo ha sprecato nel suo passato. Ostinatamente nel voler diventare avvocato ha perso le migliori occasioni che la vita possa dare. Aspettava come tutti che una abilitazione, alla mediocrità come è l’esame forense truccato, potesse, prima o poi, premiare anche lui. Pecori e porci sì, lui no! Quel signore ha aspettato ben 17 anni per, finalmente, dire basta. Gridare allo scandalo per un esame di Stato irregolare non si può. Gridare al complotto contro la persona…e chi gli crede. Eppure a Lecce c’è qualcuno che dice: “quello lì, l’avvocato non lo deve fare”. Qualcuno che da 17 anni, infastidito dal mio legittimo operato anche contro i magistrati, ha i tentacoli tanto lunghi da arrivare ovunque per potermi nuocere. Chi afferma ciò è colui il quale dimostra con i fatti nei suoi libri, ciò che, agli ignoranti o a chi è in mala fede, pare frutto di mitomania o pazzia. Guardi, la sua presidenza, in sede di scritto, è stata la migliore tra le 17 da me conosciute. Purtroppo, però, in quel di Brescia quel che si temeva si è confermato. Brescia, dove, addirittura, l’ex Ministro Mariastella Gelmini chiese scampo, rifugiandosi a Reggio Calabria per poter diventare avvocato. Il mio risultato delle prove fa sì che chiuda la fase della mia vita di aspirazione forense in bruttezza. 18, 18, 20. Mai risultato fu più nefasto e, credo, immeritato e punitivo. Sicuro, però, che tale giudizio non è solo farina del sacco della Commissione di esame di Brescia. Lo zampino di qualche leccese c’è! Avvocato… o magistrato… o entrambi…: chissà? Non la tedio oltre. Ho tentato di trovare Tutela, non l’ho trovata. Forse chiedevo troppo. Marcire in carcere da innocente o pagare fio in termini professionali, credo che convenga la seconda ipotesi. Questo è quel che pago nel mettermi contro i poteri forti istituzionali, che io chiamo mafiosi. Avvocato, grazie per il tempo che mi ha dedicato. Le tolgo il disturbo e, nel caso l’importasse, non si meravigli, se, in occasione di incontri pubblici, se e quando ci saranno, la priverò del mio saluto. Con ossequi.

Avetrana lì 26 giugno 2015. Dr Antonio Giangrande, scrittore per necessità.

E’ da scuola l’esempio della correzione dei compiti in magistratura, così come dimostrato, primo tra tutti gli altri, dall’avv. Pierpaolo Berardi, candidato bocciato. Elaborati non visionati, ma dichiarati corretti. L’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Risultato: un buco nell'acqua. Questi magistrati, nel frattempo diventati dei, esercitano. Esperienza diretta dell'avvocato Giovanni Di Nardo che ha scoperto temi pieni di errori di ortografia giudicati idonei alle prove scritte del concorso in magistratura indetto nel 2013 le cui prove si sono tenute nel Giugno del 2014. Se trovate che sia vergognoso condividete il più possibile, non c'è altro da fare.

Concorsi Pubblici ed abilitazioni Truccati. Chi è senza peccato scagli la prima pietra.

CUORI, TRUFFE E MAZZETTE: È LA FARSA “CONCORSONI”, scrive Virginia Della Sala su "Il Fatto Quotidiano" il 15 agosto 2016. Erano in 6mila per 340 posti. Luglio 2015, concorso in magistratura, prova scritta. Passano in 368. Come in tutti i concorsi, gli altri sono esclusi. Stavolta però qualcosa va diversamente. “Appena ci sono stati comunicati i risultati, a marzo di quest’anno, abbiamo deciso di fare la richiesta di accesso agli atti. Abbiamo preteso di poter visionare non solo i nostri compiti ma anche quelli di tutti i concorrenti risultati idonei allo scritto”, spiega uno dei concorrenti, Lugi R. Milleduecento elaborati, scansionati e inviati tramite mail in un mese. Per richiederli, i candidati hanno dovuto acquistare una marca da bollo da 600 euro. Hanno optato per la colletta: 230 persone hanno pagato circa 3 euro a testa per capire come mai non avessero passato quel concorso che credevano fosse andato bene. E, soprattutto, per verificare cosa avessero di diverso i loro compiti da quelli di chi il concorso lo aveva superato. “Ci siamo accorti che su diversi compiti compaiono segni di riconoscimento: sottolineature, cancellature, strani simboli, schemi”. Anche il Fatto ha potuto visionarli: asterischi, note a piè di pagina, cancellature, freccette. In uno si contano almeno due cuoricini. In un altro, il candidato ha disegnato una stellina. “Ora non c’è molto che possiamo fare per opporci a questi risultati – spiega Luigi – visto che sono scaduti i termini per ricorrere al Tar. Inoltre, molti di noi stanno tentando di nuovo il concorso quest’anno. Ecco perché preferiamo non esporci molto mediaticamente”. 

IL RAPPORTO DI BANKITALIA. Eppure, decine di sentenze dimostrano come sia possibile richiedere l’annullamento anche per un solo puntino. “Cancellature, scarabocchi, codici alfanumerici. Decisamente un cuoricino è un segno distintivo per cui può essere sollecitata l’amministrazione – spiega l’avvocato Michele Bonetti –. Qui si parla di un concorso esteso. Ma mi è capitato di assistere persone che partecipavano a un concorso in cui, dei cinque candidati, c’era solo un uomo. Capirà che la grafia di un uomo è facilmente riconoscibile come tale”. Al di là delle scorrettezze, una ricerca della Banca d’Italia pubblicata qualche giorno fa ha dimostrato che in Italia, i concorsi pubblici non funzionano. O, per dirlo con le parole dei quattro economisti autori del dossier Incentivi e selezione nel pubblico impiego (Cristina Giorgiantonio, Tommaso Orlando, Giuliana Palumbo e Lucia Rizzica), “i concorsi non sembrano adeguatamente favorire l’ingresso dei candidati migliori e con il profilo più indicato”. Si parla di bandi frammentati a livello locale, di troppe differenze metodologiche tra le varie gare, di affanno nella gestione coordinata a livello nazionale. Tra il 2001 e il 2015, ad esempio, Regioni ed Enti locali hanno bandito quasi 19mila concorsi per assunzioni a tempo indeterminato, con una media di meno di due posizioni disponibili per concorso. Macchinoso anche il metodo: “Prove scritte e orali, prevalentemente volte a testare conoscenze teorico-nozionistiche” si legge nel paper. Ogni concorrente studia in media cinque mesi e oltre il 45 per cento dei partecipanti rinuncia a lavorare. Così, se si considera che solo nel 2014, 280mila individui hanno fatto domanda per partecipare a una selezione pubblica, si stima che il costo opportunità per il Paese è di circa 1,4 miliardi di euro l’anno. La conseguenza è che partecipa solo chi se lo può permettere e chi ha più tempo libero per studiare. Anche perché si preferisce la prevalenza di quesiti “nozionistici” che però rischiano di “inibire la capacità dei responsabili dell’organizzazione di valutare il possesso, da parte dei candidati, di caratteristiche pur rilevanti per le mansioni che saranno loro affidate, quali le ambizioni di carriera e la motivazione intrinseca”. A tutto questo si aggiungono l’eccesso delle liste degli idonei – il loro smaltimento determina “l’irregolarità della cadenza” dei concorsi e quindi l’incertezza e l’incostanza dell’uscita dei bandi, dice il dossier. 

LA BEFFA SICILIANA. Palermo, concorsone scuola per la classe di sostegno nelle medie. Quest’anno, forse per garantire l’anonimato e l’efficienza, il concorso è stato computer based: domande e risposte al pc. Poi, tutto salvato su una penna usb con l’attribuzione di un codice a garanzia dell’anonimato. Eppure, la settimana scorsa i 32 candidati che hanno svolto la prova all’istituto Pio La Torre a fine maggio sono stati riconvocati nella sede. Dovevano indicare e ricordarsi dove fossero seduti il giorno dell’esame perché, a quanto pare, erano stati smarriti i documenti che avrebbero permesso di abbinare i loro compiti al loro nome. “È assurdo – commenta uno dei docenti – sembra una barzelletta: dovremmo fare ricorso tutti insieme, unirci e costringere una volta per tutte il Miur ad ammettere che forse non si era ancora pronti per questa svolta digitale”. 

IL VOTO SUL COMPITO CHE NON È MAI STATO FATTO. Maria Teresa Muzzi è invece una docente che si era iscritta al concorso nel Lazio ma poi aveva deciso di non parteciparvi. Eppure, il 2 agosto, ha ricevuto la convocazione per la prova orale per la classe di concorso di lettere e, addirittura, un voto per uno scritto che però non ha mai fatto: 30,4. Avrebbe potuto andare a fare l’orale con la carta d’identità e ottenere una cattedra, mentre il legittimo concorrente avrebbe perso la sua chance di cambiare vita. Ha deciso di non farlo e ancora si attende la risposta dell’ufficio scolastico regionale che spieghi come sia stato possibile un errore del genere. In Liguria per la classe di concorso di sostegno nella scuola secondaria di I grado, l’ufficio scolastico regionale ha disposto la revoca della nomina della Commissione giudicatrice e l’annullamento di tutti i suoi atti perché sarebbero emersi “errori che possono influire sull’esito degli atti e delle operazioni concorsuali”. I candidati ancora attendono di avere nuovi esiti delle prove svolte. E, va ricordato, la correzione dei compiti a risposta aperta nei concorsi pubblici ha una forte componente discrezionale. “Ogni concorso pubblico ha margini di errore ed è perfettibile – spiega Bonetti –. In Italia, però, di lacune ce ne sono troppe e alcune sono strutturali al tipo di prova che si sceglie di far svolgere. L’irregolarità vera è propria, invece, riguarda le scelte politiche che, se arbitrarie e ingiuste, sono sindacabili”. 

LE BUSTARELLE DI NAPOLI. Il problema è che si alza sempre più la soglia di accesso in nome della meritocrazia, ma si continuano a lasciare scoperti posti che invece servirebbe coprire. Favorendo così le chiamate dirette e i contratti precari. “Dalla scuola al ministero degli esteri all’autority delle telecomunicazioni – spiega Bonetti. La scelta politica è ancora più evidente nel settore della sanità: ci sono meccanismi di chiusura già nel mondo universitario. Oggi il corso di medicina è previsto per 10mila studenti in tutta Italia mentre le statistiche Crui dal 1990 hanno sempre registrato una media di 130mila immatricolati. Sono restrizioni con un’ideologia. Una volta entrati, ad esempio, c’è prima un altro concorso per la scuola di specializzazione e poi ancora un concorso pubblico che però è per 5mila persone. E gli altri? Attendono e alimentano il settore privato, che colma le lacune del sistema pubblico. O sono chiamati come collaboratori, con forme contrattuali che vanno dalla partita iva allo stage”. Nelle settimane scorse, il Fatto Quotidiano ha raccontato dell’algoritmo ritrovato dalla Guardia di Finanza di Napoli che avrebbe consentito ai partecipanti di rispondere in modo corretto ai quiz di accesso per un concorso. Ad averlo, uno degli indagati di un’inchiesta sui concorsi truccati per accedere all’Esercito. Nel corso delle perquisizioni la Finanza ha ritrovato 100mila euro in contanti, buste con elenchi di nomi (forse i clienti) e un tariffario: il prezzo per superare i concorsi diviso “a pacchetti”, a seconda dell’esame e del corpo al quale accedere (esercito, polizia, carabinieri). La tariffa di 50.000 euro sarebbe relativa al “pacchetto completo”: dai test fisici fino ai quiz e alle prove orali. Solo 20.000 euro, invece, per chi si affidava ai mediatori dopo aver superato le prove fisiche. Uno sconto consistente. Tutto è partito da una soffiata: un ragazzo al quale avevano fatto la proposta indecente, ha rifiutato e ha denunciato. Un altro pure ha detto no, ma senza denunciare. Virginia Della Sala, il Fatto Quotidiano 15/8/2016.

Concorsi truccati all’università, chi controlla il controllore? Scrive Alessio Liberati il 27 settembre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Sta avendo una grande eco in questi giorni l’inchiesta sui concorsi truccati all’università, ove, come la scoperta dell’acqua calda verrebbe da dire, la procura di Firenze ha individuato una sorta di “cupola” che decideva carriere e futuro dei professori italiani. La cosiddetta “raccomandazione” o “spintarella” (una terminologia davvero impropria per un crimine tanto grave) è secondo me uno dei reati più gravi e meno puniti nel nostro ordinamento. Chi si fa raccomandare per vincere un concorso viene trattato meglio, nella considerazione sociale e giuridica (almeno di fatto) di chi ruba un portafogli. Ma chi ti soffia il posto di lavoro o una progressione in carriera è peggio di un ladro qualunque: è un ladro che il portafogli te lo ruba ogni mese, per sempre. Gli effetti di delitti come questo, in sostanza, sono permanenti.

Ma come si è arrivati a ciò? Va chiarito che il sistema giuridico italiano prevede due distinti piani su cui operare: quello amministrativo e quello penale. Di quest’ultimo ogni tanto si ha notizia, nei (rari) casi in cui si riesce a scoperchiare il marcio che si cela dietro ai concorsi pubblici italiani. Di quello relativo alla giustizia amministrativa si parla invece molto meno. Ma tale organo è davvero in grado di assicurare il rispetto delle regole quando si fa ricorso?

Personalmente, denuncio da anni le irregolarità che sono state commesse proprio nei concorsi per l’accesso al Consiglio di Stato, massimo organo di giustizia amministrativa, proprio quell’autorità, cioè, che ha l’ultima parola su tutti i ricorsi relativi ai concorsi pubblici truccati. Basti pensare che uno dei vincitori più giovani del concorso (e quindi automaticamente destinato a una carriera ai vertici) non aveva nemmeno i titoli per partecipare. E che dire dei tempi di correzione? A volte una media di tre pagine al minuto, per leggere, correggere e valutare. E la motivazione dei risultati attribuiti? Meramente numerica e impossibile da comprendere. Tutti comportamenti, si intende, che sono in linea con i principi giurisprudenziali sanciti proprio dalla giurisprudenza dei Tar e del Consiglio di Stato.

E allora il problema dei concorsi truccati in Italia non può che partire dall’alto: si prenda atto che la giustizia amministrativa non è in grado di assicurare nemmeno la regolarità dei concorsi al proprio interno e che, quindi, non può certo esserle affidato il compito istituzionale di decidere su altri concorsi: con un altro organo giurisdizionale che sia davvero efficace nel giudicare le irregolarità dei concorsi pubblici, al punto da costituire un effettivo deterrente, si avrebbe una riduzione della illegalità cui si assiste da troppo tempo nei concorsi pubblici italiani.

Se questa è antimafia…. In Italia, con l’accusa di mafiosità, si permette l’espropriazione proletaria di Stato e la speculazione del Sistema su beni di persone che mafiose non lo sono. Persone che non sono mafiose, né sono responsabili di alcun reato, eppure sottoposte alla confisca dei beni ed alla distruzione delle loro aziende, con perdita di posti di lavoro. Azione preventiva ad ogni giudizio. Alla faccia della presunzione d’innocenza di stampo costituzionale. Interventi di antimafiosità incentrati su un ristretto ambito territoriale o di provenienza territoriale.

Questa antimafia, per mantenere il sistema, impone la delazione e la calunnia ai sodalizi antiracket ed antiusura iscritti presso le Prefetture provinciali. Per continuare a definirsi tali, ogni anno, le associazioni locali sono sottoposte a verifica. L’iscrizione all’elenco è condizionata al numero di procedimenti penali e costituzioni di parti civili attivate. L’esortazione a denunciare, anche il nulla, se possibile. Più denunce per tutti…quindi. Chi non denuncia, anche il nulla, è complice od è omertoso.

A tal fine, per non aver adempito ai requisiti di delazione, calunnia e speculazione sociale, l’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS, sodalizio nazionale di promozione sociale già iscritta al n. 3/2006 presso il registro prefettizio della Prefettura di Taranto Ufficio Territoriale del Governo, il 23 settembre 2017 è stata cancellata dal suddetto registro.

I magistrati favoriscono la mafia, scrive Barbara Di il 12 novembre 2017 su "Il Giornale".

(Quando diventano magistrati con un concorso truccato, spodestando i meritevoli, e per gli effetti sentendosi dio in terra, al di sopra della legge e della morale, ndr).

Quando lasciano indifesi i cittadini davanti ai soprusi.

Quando costringono un cittadino ad un processo eterno per vedersi dichiarare di aver ragione.

Quando non si studiano le carte di un processo e danno torto a chi ha ragione.

Quando per ignoranza applicano una legge nel modo sbagliato.

Quando ritardano anni una sentenza.

Quando un creditore con una sentenza esecutiva ci mette altri anni per avere una minima parte dei soldi spettanti.

Quando un creditore è costretto ad accettare pochi soldi, maledetti e subito per evitare un lungo e costoso processo.

Quando un proprietario di una casa occupata non riesce a riottenerla.

Quando non cacciano chi occupa abusivamente una casa popolare e chi ne avrebbe diritto dorme per strada.

Quando nei tribunali amministrativi devi attendere anni per vedere annullare provvedimenti assurdi della burocrazia o avere un’inutile autorizzazione ingiustamente negata.

Quando un cittadino è costretto a oliare la burocrazia con favori e bustarelle per non attendere anni quell’inutile autorizzazione o per non subire gli assurdi provvedimenti della burocrazia.

Quando un datore di lavoro si vede annullare il licenziamento di un ladro sindacalizzato.

Quando un lavoratore è costretto ad accettare una conciliazione e una buonuscita ridicola perché non ha soldi per un processo eterno.

Quando un cittadino vede impunito il ladro che lo ha derubato.

Quando lasciano impuniti i delinquenti perché non sono cittadini.

Quando incriminano i cittadini che tentano di difendersi da soli.

Quando danno pene ridicole e mai scontate a rapinatori e violentatori.

Quando danno pene esemplari solo ai violentatori che finiscono sui giornali.

Quando lasciano impuniti violenti devastatori che mettono a ferro e fuoco una città per ideologia.

Quando non indagano sui reati che non finiscono sui giornali.

Quando indagano sui reati solo per finire sui giornali.

Quando si inventano i reati per finire sui giornali.

Quando le assoluzioni per reati mediatici sono relegate in un trafiletto sui giornali.

Quando si inventano condanne assurde per reati mediatici che finiscono puntualmente riformate in appello.

Quando indagano sui politici per ideologia.

Quando arrestano i politici per ideologia e poi li assolvono a elezioni passate.

Quando fanno cadere i governi per impedire la riforma della giustizia.

Quando fanno carriera solo per ideologia o per i processi mediatici che si sono inventati.

Quando impediscono ai bravi magistrati di far carriera perché non appartengono alla corrente giusta o lavorano lontani dalle luci dei riflettori.

Quando non indagano sui colleghi che delinquono.

Quando non puniscono i colleghi per i loro clamorosi errori giudiziari.

Quando non applicano provvedimenti disciplinari ai colleghi che meriterebbero di essere cacciati.

Quando archiviano casi di scomparsa e li riaprono per trovare un cadavere in giardino solo dopo un servizio in televisione.

Quando invocano l’obbligatorietà dell’azione penale solo per i reati mediatici e politici anche se sono privi di riscontro.

Quando si dimenticano dell’obbligatorietà dell’azione penale quando i reati sono comuni e colpiscono i cittadini.

Quando si ricordano che un mafioso è mafioso solo quando dà una testata di stampo mafioso.

Quando un cittadino per avere ciò che gli spetta finisce per rivolgersi agli scagnozzi di un boss mafioso.

Quando gli unici territori dove i cittadini non subiscono furti, violenze e soprusi sono quelli controllati dalla mafia.

Quando i cittadini sono costretti a pagare il pizzo ai mafiosi per essere protetti.

Quando non fanno l’unica cosa che dovrebbero fare: dare giustizia per proteggere loro i cittadini.

Quando per colpa dei loro errori ed orrori in Italia ormai siamo tornati alla legge del più forte.

Quando i magistrati non fanno il loro mestiere, la mafia vince perché è il più forte.

A proposito di interdittive prefettizie.

Proviamo a spiegarci. Le interdittive funzionano così: sono discrezionali. Decide il prefetto. Non c’è bisogno di una condanna penale, addirittura – nel caso ad esempio, del quale stiamo parlando – nemmeno di un avviso di garanzia o di una ipotesi di reato. Il reato non c’è, però a me tu non mi convinci. Punto e basta. Inoltre l’antimafia preventiva diventata definitiva.

Infine, l’età adulta dell’informativa antimafia? Limiti e caratteri dell’istituto secondo una ricostruzione costituzionalmente orientata, scrive Fulvio Ingaglio La Vecchia. Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana in sede giurisdizionale, sentenze 29 luglio 2016, n. 247 e 3 agosto 2016, n. 257.

Interdittive antimafia, una sentenza esemplare, scrive Domenica 12/11/2017 "La Riviera on line". Di recente il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana ha emesso una sentenza in cui vengono precisate le condizioni necessarie affinché l'interdittiva antimafia, figlia della cultura del sospetto portata avanti dai professionisti del rancore, non porti a un regime di polizia che metta a rischio diritti fondamentali. In questa continua corsa alla giustizia penale, figlia del populismo antimafia fatto di santoni e tromboni che, dai sottoscala di procure e prefetture, con le stimmate delle loro immacolate esistenze, sono sempre in cerca di un succoso cattivo da dare in pasto all’opinione pubblica, capita di imbattersi in una sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, una sentenza di cui tutti dovrebbero avere una copia da conservare con cura nel proprio portafoglio, in mezzo ai santini e alla tessera sanitaria. La sentenza riguarda il ricorso presentato da un gruppo di imprese contro la Prefettura di Agrigento, l'Autorità nazionale Anticorruzione e il Comune di Agrigento. Le imprese in questione sono tutte state raggiunte da interdittiva antimafia. Ricordiamo che l’interdittiva antimafia permette all’amministrazione pubblica di interrompere qualsiasi rapporto contrattuale con imprese che presentano un pericolo di infiltrazione mafiosa, anche se non è stato commesso un illecito per cui titolari o dirigenti siano stati condannati. Per dichiarare l’inaffidabilità di un’impresa è sufficiente un’inchiesta in corso, una frequentazione sospetta, un socio “opaco”, una parentela pericolosa che potrebbe condizionarne le scelte, o anche solo la mera eventualità che l’impresa possa, per via indiretta, favorire la criminalità. La sentenza in questione rompe clamorosamente con questa cultura del sospetto portata avanti dai professionisti del rancore. "Benché un provvedimento interdittivo - argomentano i Giudici - possa basarsi anche su considerazioni induttive o deduttive diverse dagli “indici presuntivi”, è tuttavia necessario che le norme che conferiscono estesi poteri di accertamento ai Prefetti al fine di consentire loro di svolgere indagini efficaci e a vasto raggio, non vengano equiparate a un’autorizzazione a tralasciare di compiere indagini fondate su condotte o su elementi di fatto percepibili poiché, se con le norme in questione il Legislatore ha certamente esteso il potere prefettizio di accertamento della sussistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa, non ha affatto conferito licenza di basare le comunicazioni interdittive su semplici sospetti, intuizioni o percezioni soggettive non assistite da alcuna evidenza indiziaria". Non è quindi permesso far patire all'azienda un danno di immagine, sulla base di un fumus che non trovi riscontro nei fatti. In mancanza di condotte che facciano presumere che il titolare o il dirigente di un'azienda sia in procinto di commettere un reato (o che stia determinando le condizioni favorevoli per delinquere o per “favoreggiare” chi lo compia), non è legittimo che questi sia considerato come "soggetto socialmente pericoloso" e che debba, pertanto, sottostare a "misure di prevenzione" che vanno a incidere su diritti fondamentali. Per giustificare l'invio di una interdittiva antimafia, "non è sufficiente - proseguono i Giudici - affermare che uno o più parenti o amici del soggetto richiedente la certificazione antimafia risultano mafiosi, o vicini a soggetti mafiosi; o vicini o affiliati a cosche mafiose e/o a famiglie mafiose". Occorrerà innanzitutto precisare la ragione per la quale un soggetto viene considerato mafioso. "La pericolosità sociale di un individuo - dichiarano i Giudici - non può essere ritenuta una sua inclinazione strutturale, congenita e genetico-costitutiva (alla stregua di una infermità o patologia che si presenti - sia consentita l’espressione - "lombrosanamente evidente" o comunque percepibile mediante indagini strumentali o analisi biologiche), né può essere presunta o desunta in via automatica ed esclusiva dalla sua posizione socio-ambientale e/o dal suo bagaglio culturale; né, dunque, dalla mera appartenenza a un determinato contesto sociale o a una determinata famiglia (semprecchè, beninteso, i soggetti che ne fanno parte non costituiscano un’associazione a delinquere)". Nel provvedimento interdittivo vanno, inoltre, specificate le circostanze di tempo e di luogo in cui imprenditore e soggetto "mafioso" sono stati notati insieme; le ragioni logico-giuridiche per le quali si ritiene che si tratti non di mero incontro occasionale (o di incontri sporadici), ma di “frequentazione effettivamente rilevante", ossia di relazione periodica, duratura e costante volta a incidere sulle decisioni imprenditoriali. In poche parole, prendere il caffè con un mafioso o presunto tale non è sufficiente. Inoltre, emerge dalla sentenza, qualificare un soggetto “mafioso” sulla scorta di meri sospetti e a prescindere dall’esame concreto della sua condotta penale e della sua storia giudiziaria comporterebbe un aberrante meccanismo di estensione a catena della pericolosità "simile a quello su cui si fondava, in un non recente passato, l’inquisizione medievale che, com’è noto, fu un meccanismo di distruzione di soggetti ‘scomodi’ e non già di soggetti ‘delinquenti’; mentre il commendevole e imprescindibile scopo che il Legislatore si pone è quello di depurare la società da incrostazioni e infiltrazioni mafiose realmente inquinanti". L'interdittiva che inchioda per ipotesi non combatte la delinquenza e la criminalità ma diviene strumentale per sgomberare il campo da personaggi scomodi. "D’altro canto - concludono i giudici - se per attribuire a un soggetto la qualifica di ‘mafioso’ fosse sufficiente il mero sospetto della sua appartenenza a una famiglia a sua volta ritenuta mafiosa e se anche la qualifica riferita alla sua famiglia potesse essere attribuita sulla scorta di sospetti; e se la mera frequentazione di un presunto mafioso (ma tale considerazione vale anche per l’ipotesi di mera frequentazione di un soggetto acclaratamente mafioso) potesse determinare il ‘contagio’ della sua (reale o presunta) pericolosità, si determinerebbe una catena infinita di presunzioni atte a colpire un numero enorme di soggetti senza alcuna seria valutazione in ordine alla loro concreta vocazione criminogena. E l’effetto sarebbe l’instaurazione di un regime di polizia nel quale la compressione dei diritti dei cittadini finirebbe per dipendere dagli orientamenti culturali e dalle suggestioni ideologiche (quand’anche non dalle idee politiche) dei funzionari o, peggio, degli organi dai quali essi dipendono". Amen. Ripeto: questa è una sentenza da conservare accanto ai santini. E plastificatela, per evitare che si sgualcisca col tempo.

La strada dell'inquisizione è lastricata dalla cattiva antimafia. Una sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione siciliana mette in guardia dagli abissi in cui rischiamo di sprofondare perdendo di vista i capisaldi dello Stato di diritto, scrive Rocco Todero il 29 Settembre 2017 su "Il Foglio". Nell’Italia che si è presa il vizio di accusare a sproposito la giustizia amministrativa di essere la causa della propria arretratezza economica e sociale capita di leggere una sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana (una sezione del Consiglio di Stato distaccata a Palermo) che dovrebbe essere mandata giù a memoria da quanti nel nostro Paese vivono facendo mostra di stellette meritocratiche (più o meno veritiere) negli uffici delle prefetture, nelle aule dei tribunali, nelle sedi delle università, nelle redazioni di molti giornali e, in ultimo, anche nelle aule del Parlamento. Da molti anni, oramai, si combatte in sede giudiziaria una battaglia sulle modalità di applicazione delle misure di prevenzione, le cosiddette informative antimafia, per mezzo delle quali l’eccessiva solerzia inquisitoria degli uffici periferici del Ministero dell’Interno cerca di realizzare quella che nel linguaggio giuridico si definisce una “tutela anticipata” del crimine, un’azione cioè volta a contrastare i tentativi di infiltrazione mafiosa nel tessuto economico - sociale senza che, tuttavia, si manifestino azioni delittuose vere e proprie da parte dei soggetti interdetti. Il risultato nel corso degli anni è stato abbastanza sconfortante, poiché decine di imprese individuali e società commerciali sono state colpite dall’informativa antimafia e poste, molto spesso, sotto amministrazione prefettizia sulla base di un semplice sospetto coltivato dalle forze dell’ordine. A molti, troppi, è capitato, così, di trovarsi sotto interdittiva antimafia (solo per fare alcuni esempi) a causa di un parente accusato di appartenere ad un’associazione mafiosa o per colpa di un’indagine penale per 416 bis poi sfociata nel proscioglimento o nell’assoluzione o perché una società con la quale s’intrattengono rapporti commerciali è stata a sua volta interdetta per avere stipulato contratti con altra impresa sospettata di subire infiltrazioni mafiose (si, è proprio cosi, si chiama informativa a cascata o di secondo o terzo grado: A viene interdetto perché intrattiene rapporti commerciali con B, il quale non è mafioso, ma coltiva contatti economici con C, il quale ultimo è sospettato di essere, forse, soggetto ad infiltrazioni mafiose. A pagarne le conseguenze è il soggetto A, perché l’infiltrazione mafiosa passerebbe per presunzione giudiziaria da C a B e da B ad A). Spesso i Tribunali amministrativi competenti a conoscere della legittimità delle informative antimafia emanate dalle Prefettura sono stati sin troppo indulgenti con l’Amministrazione pubblica, sacrificando l’effettività della tutela dei diritti fondamentali dei cittadini sull’altare di una lotta alle infiltrazioni mafiose che risente oramai troppo della pressione atmosferica di un clima allarmistico pompato ad arte per ben altri e meno nobili fini politici. Qualche settimana fa, invece, il Consiglio di Giustizia Amministrativa siciliano (composto dai magistrati Carlo Deodato, Carlo Modica de Mohac, Nicola Gaviano, Giuseppe Barone e Giuseppe Verde), dovendo decidere in sede d'appello dell’ennesima informativa antimafia emessa dalla Prefettura di Agrigento, ha sostanzialmente scritto un bellissimo e coraggioso saggio di cultura giuridica liberale, dimostrando che la lotta alla mafia si può ben coltivare salvaguardando i capisaldi di uno Stato di diritto liberal democratico moderno. Il Tribunale ha preso atto del fatto che per stroncare sul nascere la diffusione di alcune condotte criminose non si può fare altro che emettere “giudizi prognostici elaborati e fondati su valutazioni a contenuto probabilistico” che colpiscono soggetti in uno stadio “addirittura anteriore a quello del tentato delitto”. Ma alla pubblica amministrazione, argomentano i Giudici, non è permesso di scadere nell’arbitrio, cosicché non sarà mai sufficiente un mero “sospetto” per giustificare la limitazione delle libertà fondamentali dell’individuo. Si dovranno piuttosto documentare fatti concreti, condotte accertabili, indizi che dovranno essere allo stesso tempo gravi, precisi e concordanti. Non potranno mai essere sufficienti, continua il Tribunale, mere ipotesi e congetture e non potrà mai mancare un “fatto” concreto, materiale, da potere accertare nella sua esistenza, consistenza e rilevanza ai fini della verosimiglianza dell’infiltrazione mafiosa. Per potere affermare che l’impresa di Tizio è sospettata d'infiltrazioni mafiose, allora, non sarà sufficiente affermare che essa intrattiene rapporti con l’impresa di Caio (non mafiosa) che a sua volta, però, ha stipulato accordi con Mevio (lui si, sospettato di collusioni con la mafia), ma sarà necessario dimostrare che una qualche organizzazione mafiosa (ben individuata attraverso i soggetti che agiscono per essa, non la “mafia” genericamente intesa) stia tentando, in via diretta, d’infiltrarsi nell’azienda del primo soggetto. Il legame di parentela con un mafioso, chiariscono ancora i magistrati, non può avere alcuna rilevanza ai fini del giudizio sull’informativa antimafia se non si dimostrerà che chi è stato colpito dal provvedimento interdittivo, lui e non altri, abbia posto in essere comportamenti che possano destare allarme sociale per il loro potenziale offensivo dell’interesse pubblico, “non essendo giuridicamente e razionalmente sostenibile che il mero rapporto di parentela costituisca di per sé, indipendentemente dalla condotta, un indice sintomatico di pericolosità sociale ed un elemento prognosticamente rilevante”. La nostra non è l'epoca del medioevo, conclude il Consiglio di Giustizia Amministrativa, e l'ordinamento giuridico non può svestire i panni dello Stato di diritto: “Sicché, ove fosse possibile qualificare “mafioso” un soggetto sulla scorta di meri sospetti ed a prescindere dall’esame concreto della sua condotta penale e della sua storia giudiziaria si perverrebbe ad un aberrante meccanismo di estensione a catena della pericolosità simile a quello su cui si fondava, in un non recente passato, l’inquisizione medievale (che, com’è noto, fu un meccanismo di distruzione di soggetti ‘scomodi’ e non già di soggetti ‘delinquenti’; mentre il commendevole ed imprescindibile scopo che il Legislatore si pone è quello di depurare la società da incrostazioni ed infiltrazioni mafiose realmente inquinanti). D’altro canto, se per attribuire ad un soggetto la qualifica di ‘mafioso’ fosse sufficiente il mero sospetto della sua appartenenza ad una famiglia a sua volta ritenuta mafiosa e se anche la qualifica riferita alla sua famiglia potesse essere attribuita sulla scorta di sospetti; e se la mera frequentazione di un presunto mafioso (ma tale considerazione vale anche per l’ipotesi di mera frequentazione di un soggetto acclaratamente mafioso) potesse determinare il ‘contagio’ della sua (reale o presunta) pericolosità, si determinerebbe una catena infinita di presunzioni atte a colpire un numero enorme di soggetti senza alcuna seria valutazione in ordine alla loro concreta vocazione criminogena. E l’effetto sarebbe l’instaurazione di un regime di polizia nel quale la compressione dei diritti dei cittadini finirebbe per dipendere dagli orientamenti culturali e dalle suggestioni ideologiche (quand’anche non dalle idee politiche) dei funzionari o, peggio, degli organi dai quali essi dipendono.” Da mandare giù a memoria. Altro che il nuovo codice antimafia con il quale fare propaganda manettara a buon mercato.

A proposito di sequestri preventivi giudiziari.

Finalmente la giurisprudenza ha cominciato a fare qualche passo in avanti verso la civiltà giuridica. Merita il plauso l'ordinanza n. 48441 del 10 Ottobre 2017 con la quale la Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione ha riconosciuto il principio secondo il quale, se una persona viene assolta dall'accusa di associazione mafiosa, per gli stessi fatti non può essere considerata socialmente pericolosa. Riporto i passaggi più significativi dell'ordinanza.

"Lì dove le condotte sintomatiche della pericolosità siano legislativamente caratterizzate [...] in termini per lo più evocativi di fattispecie penali [...] è evidente che il giudice della misura di prevenzione (nel preliminare apprezzamento di tali 'fatti') non può evitare di porsi il problema rappresentato dalla esistenza di una pronunzia giurisdizionale che proprio su quella condotta [...] ha espresso una pronunzia in termini di insussistenza o di non attribuibilità del fatto all'individuo di cui si discute. [...] L'avvenuta esclusione del rilievo penale di una condotta, almeno tendenzialmente, impedisce di porre quel segmento di vita a base di una valutazione di pericolosità ed impone il reperimento, in sede di prevenzione, di ulteriori e diverse forme di conoscenza, capaci - in ipotesi - di realizzare ugualmente l'effetto di inquadramento nella categoria criminologica. [...] Lì dove il giudizio penale su un fatto rilevante a fini di inquadramento soggettivo abbia avuto un esito definitivo, tale aspetto finisce con il ricadere inevitabilmente nella cd. parte constatativa del giudizio di pericolosità". Questo principio, soprattutto alla luce dell'insegnamento della sentenza De Tommaso, dovrebbe rimettere in discussione la legittimità delle confische disposte nei confronti di persone assolte.

Dove non arrivano con le interdittive prefettizie, arrivano con i sequestri preventivi.

 Interdittive: decine di aziende uccise dal reato di parentela mafiosa, scrive Simona Musco il 4 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Il fenomeno delle interdittive è nazionale: in cinque anni, dopo la riorganizzazione del 2011, sono circa 400 le imprese allontanate dai lavori pubblici. Solo dalla Prefettura di Reggio Calabria, negli ultimi 14 mesi, sono partite 130 interdittive. Quasi dieci ogni 30 giorni, tutte frutto della gestione del Prefetto Michele Di Bari, approdato nella città dello Stretto ad agosto 2016. Un numero enorme che conferma una tendenza crescente, soprattutto in Calabria, dove in poco più di cinque anni le aziende hanno depositato quasi 500 ricorsi nelle cancellerie dei tribunali amministrativi di Catanzaro e Reggio Calabria. Ma il fenomeno – i cui dai sono ancora incerti – è nazionale: in cinque anni, dopo la riorganizzazione della materia nel 2011, sono circa 400 le imprese allontanate dai lavori pubblici. I numeri non sono ancora chiari, dato che gli archivi informatici dello Stato non hanno tutti i dati. E così succede che mentre dai siti dei tribunali amministrativi risulta un numero enorme di ricorsi (circa 2000 in cinque anni) e annullamenti (tra i 40 e i 90 l’anno), le cifre fornite dalla Dia, la Direzione investigativa antimafia, parlano di 31 annullamenti dal 2011 fino a maggio 2015. Numeri snelliti dal vuoto di informazioni dalle Prefetture di Napoli, Reggio Calabria e Vibo Valentia. La parte più corposa, dunque. La ratio dello strumento è chiara: «contrastare le forme più subdole di aggressione all’ordine pubblico economico, alla libera concorrenza ed al buon andamento della pubblica amministrazione», sentenzia il Consiglio di Stato. Un provvedimento preventivo, che prescinde quindi dall’accertamento di singole responsabilità penali e anticipa la soglia di difesa. «Per questo – dice ancora il Consiglio di Stato – deve essere respinta l’idea che l’informativa debba avere un profilo probatorio di livello penalistico e debba essere agganciata a eventi concreti ed a responsabilità addebitabili». Se c’è un sospetto, dunque, la Prefettura ha il potere e il dovere di tranciare i rapporti tra aziende private e pubblica amministrazione, attraverso tutta una serie di accertamenti ai quali non si può replicare fino a quando non diventano di pubblico dominio. Ovvero quando l’azienda colpita viene esclusa dai bandi pubblici e marchiata come infetta. Un’etichetta che, a volte, è giustificata da elementi tangibili e concreti, consentendo quindi di sfilare dalle mani dei clan l’appalto, ma altre decisamente meno. Tant’è che sono centinaia i ricorsi vinti, di una vittoria che però è solo parziale: sempre più spesso, infatti, chi si è visto colpire da un’interdittiva, pur vincendo il proprio ricorso, non riesce più a reinserirsi nel mondo del lavoro. Partiamo dal modus operandi: la Prefettura punta gran parte della sua decisione sui legami di parentela e su frequentazioni poco raccomandabili. Nulla o quasi, invece, si dice su fatti concreti che possano far temere effettivamente un condizionamento mafioso. Ed è proprio questo che fa crollare i provvedimenti davanti ai giudici amministrativi, per i quali non basta basarsi su rapporti commerciali e di parentela, «da soli insufficienti», dice ancora il Consiglio di Stato. Occorrono perciò, aggiunge, «altri elementi indiziari a dimostrazione del “contagio”». E «non possono bastare i precedenti penali» riferiti «ad indagini in seguito archiviate e, in altra parte, a condanne molto risalenti nel tempo», in quanto servono elementi «concreti e riferiti all’attualità». Un’interpretazione confermata anche dalla Corte costituzionale, secondo cui è arbitrario «presumere che valutazioni comportamenti riferibili alla famiglia di appartenenza o a singoli membri della stessa diversi dall’interessato debbano essere automaticamente trasferiti all’interessato medesimo». Ma è proprio questo il meccanismo che genera un circolo vizioso capace di far risucchiare una parte rilevante dell’economia dal vortice del sospetto. E le conseguenze non sono solo per le ditte: le interdittive, infatti, colpiscono aziende impegnate in appalti pubblici che così rimangono bloccati, cantieri aperti che si richiuderanno magari dopo anni. Dell’ambiguità dello strumento, lo scorso anno, aveva parlato il senatore Pd e membro della Commissione parlamentare antimafia Stefano Esposito, che al convegno “Warning on crime” all’Università di Torino aveva dichiarato che «lo strumento non funziona e nel 60% dei casi le interdittive vengono respinte» dai giudici amministrativi. Chiedendo dunque una riforma, che anche Rosy Bindi, poco prima, aveva annunciato, nel 2015. «Le interdittive antimafia sono uno strumento statico, mentre la lotta alla mafia ha bisogno di film», ha spiegato. Un film che nel nuovo codice antimafia coincide col controllo giudiziario delle aziende sospette, i cui risultati sono ancora tutti da vedere.

Che affare certe volte l’antimafia! Scrive Piero Sansonetti il 3 Novembre 2017 su "Il Dubbio".  I “paradossi” calabresi. Questa storia calabrese è molto istruttiva. La racconta nei dettagli, nell’articolo qui sopra, Simona Musco. La sintesi estrema è questa: un imprenditore incensurato, e senza neppure un grammo di carichi pendenti (che oltretutto è presidente di Confindustria), vince un appalto per costruire i parcheggi del palazzo di Giustizia a Reggio. Un lavoro grosso: più di 15 milioni. Al secondo posto, in graduatoria, una azienda amministrata da un deputato di Scelta Civica. L’azienda del deputato protesta per aver perso la gara e ricorre al Tar. Il Tar dà ragione all’imprenditore e torto all’azienda del deputato. Poi, all’improvviso, non si sa come, la Prefettura fa scattare l’interdittiva e cioè, per motivi cautelari, toglie l’appalto all’imprenditore e lo assegna all’azienda del deputato che aveva perso la gara. Come è possibile? Proviamo a spiegarci. Le interdittive funzionano così: sono discrezionali. Decide il prefetto. Non c’è bisogno di una condanna penale, addirittura – nel caso ad esempio, del quale stiamo parlando – nemmeno di un avviso di garanzia o di una ipotesi di reato. Il reato non c’è, però a me tu non mi convinci. Punto e basta. E allora io quell’appalto di 16 milioni di euro te lo levo e lo porgo all’azienda di un deputato. Il deputato in questione, peraltro, fa parte della commissione antimafia. E lo Stato di diritto? E la libera concorrenza? E l’articolo 3 del- la Costituzione? Beh, mettetevi il cuore in pace: esiste una parte del territorio nazionale, e in modo particolarissimo la Calabria, nel quale lo Stato di diritto non esiste, non esiste la libera concorrenza e l’Articolo 3 della Costituzione (quello che dice che tutti sono uguali davanti alla legge) non ha effetti. La ragione di questo Far West, in gran parte, è spiegabile con la presenza della mafia, che la fa da padrona, fuori da ogni regola. Ma anche lo Stato, che la fa da padrone, altrettanto al di fuori da ogni regola, e da ogni senso di giustizia, e mostrando sempre il suo volto prepotente, come questa storia racconta. Lo Stato, con la mafia, è responsabile del Far West. Allora il problema è molto semplice. È assolutamente impensabile che si possa condurre una battaglia seria contro la mafia e la sua grande estensione in alcune zone del Sud Italia, se non si ristabiliscono le regole e se non si riporta lo Stato alla sua funzione, che è quella di produrre equità e sicurezza sociale, e non di produrre prepotenza, incertezza e instabilità. La chiave di tutto è sempre la stessa: ristabilire lo Stato di diritto. E questo, naturalmente, vuol dire che bisogna impedire che i commercianti – ad esempio – siano taglieggiati dalla mafia, ma bisogna anche impedire che i diritti di tutti i cittadini – non solo quelli onesti – siano sistematicamente calpestati. La sospensione della legalità, gli strumenti dell’emergenza (come le interdittive, le commissioni d’accesso e simili) possono avere una loro utilità solo in casi rarissimi e in situazioni molto circoscritte. E solo se usati con rigore estremo e sempre con il terrore di commettere prevaricazioni e ingiustizie. Se invece diventano semplicemente – come succede molto spesso – strumenti di potere dell’autorità, magari frustrata dai suoi insuccessi nella battaglia contro la mafia, allora producono un effetto moltiplicatore, proprio loro, del potere mafioso. Perché la discrezionalità, l’arroganza, l’ingiustizia, creano una condizione sociale e psicologica di massa, nella quale la mafia sguazza. Naturalmente non ho proprio nessun elemento per immaginare che l’azienda che ha fatto le scarpe a quella dell’ex presidente di Confindustria (che si è dimesso dopo aver ricevuto questa interdittiva, che ha spezzato le gambe alla sua azienda e i nervi a lui), e cioè l’azienda del deputato dell’antimafia, abbia brigato per ottenere l’interdittiva contro il concorrente. Non ho mai sopportato la politica e il giornalismo che vivono di sospetti. Però il messaggio che è stato mandato alla popolazione di Reggio Calabria, oggettivamente, è questo: se non sei protetto dalla “compagnia dell’antimafia” qui non fai un passo. E se sei deputato, comunque, sei avvantaggiato. Capite che è un messaggio letale? P. S. Conosco molto bene l’imprenditore di cui sto parlando, e cioè Andrea Cuzzocrea, la cui azienda ora è al palo e rischia di fallire. Lo conosco perché insieme a un gruppo di giornalisti dei quali facevo parte, organizzò quattro anni fa la nascita di un giornale, che si chiamava “Il Garantista” e che durò poco perché dava fastidio a molti (personalmente, in quanto direttore di quel giornale, ho collezionato una trentina di querele) e non aveva una lira in cassa. “Il Garantista” era edito da una cooperativa, molto povera, della quale lui assunse per un periodo la presidenza. Non so quali telefonate ebbe con Teresa Munari. Però so per certo due cose. La prima è che Teresa Munari era una giornalista molto accreditata negli ambienti democratici di Reggio Calabria. L’ho conosciuta quattro o cinque anni fa, mi invitò a casa sua a una cena. C’erano anche il Procuratore generale di Reggio e una deputata molto famosa per il suo impegno “radicale” contro la mafia. La Munari collaborò a “Calabria Ora”, giornale regionale che al tempo dirigevo, e successivamente al “Garantista”. Non era raccomandata. E non fu mai, mai assunta. Non era in redazione, non partecipava alla vita del giornale, scriveva ogni tanto degli articoli, che siccome non avevamo il becco di un quattrino credo che non gli pagammo mai. Qualcuno è in grado di spiegarmi come si fa a dire che uno non può costruire un parcheggio perché una volta ha telefonato a Teresa Munari?

Levano l’appalto a un imprenditore incensurato e lo danno a un deputato dell’antimafia, scrive Simona Musco il 3 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Reggio Calabria: un imprenditore incensurato si vede annullata l’assegnazione, e i lavori per 16 milioni sono affidati all’azienda di un deputato.

PARADOSSI CALABRESI. Una azienda di Reggio Calabria, guidata da imprenditori incensurati e senza carichi pendenti, vince un appalto molto ricco: la costruzione del parcheggio del palazzo di Giustizia. È un lavoro grosso, da 16 milioni. L’azienda che è arrivata seconda, nella gara d’appalto, fa ricorso. Il Tar gli dà torto. E conferma l’appalto all’azienda che si è classificata prima (su 19). Allora interviene il Prefetto e fa scattare l’interdittiva per l’azienda vincitrice. Che vuol dire? Che il prefetto ha questo potere discrezionale di interdire una azienda, temendo infiltrazioni mafiose, anche se questa azienda non è inquisita. E il prefetto di Reggio ha esercitato questo potere. E così il lavoro è passato al secondo classificato. Chi è? È un deputato. Un deputato della commissione antimafia.

Un appalto da 16 milioni di euro per la costruzione del parcheggio del nuovo Palazzo di Giustizia. Diciannove aziende che decidono di provarci e due che arrivano in cima alla graduatoria con pochissimi punti di distacco. E un’interdittiva antimafia che fa transitare l’appalto dalle mani della prima – la Aet srl – alla seconda, la Cosedil, fondata da un parlamentare della Commissione antimafia, Andrea Vecchio, e patrimonio della sua famiglia. È successo a Reggio Calabria, dove l’ex presidente di Confindustria Andrea Cuzzocrea ha visto sparire, in pochi mesi, un lavoro imponente, la poltrona di presidente degli industriali e la credibilità. Tutto a causa di uno strumento preventivo – l’interdittiva – che ora rischia di mandare a gambe all’aria l’azienda, da sempre attiva negli appalti pubblici, e i due imprenditori che la amministrano, Cuzzocrea e Antonino Martino, entrambi incensurati.

UN APPALTO DIFFICILE. Tutto comincia nel 2016, quando la Aet srl vince l’appalto per la costruzione dei parcheggi del tribunale di Reggio Calabria. Un lavoro che la città attendeva da tempo e che, finalmente, sembra potersi sbloccare. Ma i tempi per la firma del contratto vengono rallentati dai ricorsi. In prima fila c’è la Cosedil spa, azienda siciliana, che chiede al Tar la verifica dell’offerta presentata dalla Aet e dei requisiti dell’azienda e di conseguenza l’annullamento dei verbali di gara. I giudici amministrativi valutano il ricorso, bocciando tutte le obiezioni tranne una, quella relativa la giustificazione degli oneri aziendali della sicurezza, per i quali la Commissione giudicatrice dell’appalto avrebbe commesso «un macroscopico difetto d’istruttoria». Un errore, si legge nella sentenza, dal quale però non deriva «automaticamente l’obbligo di escludere la società prima classificata». Il Tar, a gennaio, interpella dunque la Stazione unica appaltante, alla quale chiede di effettuare una nuova verifica sull’offerta dell’Aet. Risultato: viene confermata «la regolarità e la correttezza» dell’aggiudicazione dell’appalto. La firma sul contratto per l’avvio dei lavori, dunque, sembrano avvicinarsi.

L’INTERDITTIVA. Ma l’iter per far partire i cantieri subisce un altro stop, quando ad aprile la Prefettura emette un’informativa interdittiva a carico dell’azienda, escludendola, di fatto, dai giochi. Cuzzocrea, che nel 2013 aveva chiesto alla Commissione parlamentare antimafia di «istituire le white list obbligatorie per gli appalti pubblici, rendendo così più trasparente un settore delicatissimo», si dimette da presidente di Confindustria. L’interdittiva riassume elementi già emersi in precedenza nella corposa relazione che ha portato allo scioglimento dell’amministrazione di Reggio Calabria, elementi già confutati, ai quali si aggiunge un nuovo dato, relativo alla parentesi da editore di Cuzzocrea. Ed è sulla base di quello che la Prefettura rivaluta tutto il passato, sebbene esente da risvolti giudiziari. Si tratta del contatto (finito nell’operazione “Reghion”) tra Cuzzocrea e l’ex deputato Paolo Romeo, già condannato definitivamente per concorso esterno in associazione mafiosa e ora in carcere in quanto considerato dalla Dda reggina a capo della cupola masso- mafiosa che governa Reggio Calabria. Nessun rapporto, almeno documentato, prima del 2014: i due si conoscono a gennaio di quell’anno, in Senato, dove sono stati entrambi invitati, in quanto rappresentanti delle associazioni, per discutere della costituenda città metropolitana. Dopo quella volta un unico contatto: Cuzzocrea, presidente della società editrice del quotidiano Cronache del Garantista, viene contattato da Romeo, che gli chiede di valutare l’assunzione di una giornalista, Teresa Munari, secondo la Dda strumento nelle mani di Romeo. Cuzzocrea propone la giornalista, nota in città e ormai in pensione, al direttore Sansonetti, che la inserisce tra i collaboratori, pur senza un contratto. Tra i pezzi scritti dalla Munari su quella testata ce n’è uno in particolare, considerato dalla Dda utile alla causa di Romeo. Che avrebbe perorato la causa dell’amica facendola passare come «un’opportunità per il giornale e non come un favore che richiedeva per sé stesso o per la giornalista», si legge nel ricorso presentato al Consiglio di Stato dalla Aet. La Prefettura non contesta nessun altro contatto tra Romeo e Cuzzocrea, che, scrivono i legali dell’azienda, «non poteva pensare, visto il modo in cui la cosa era stata richiesta, che vi fossero doppi fini nel suggerimento ricevuto. Romeo – si legge ancora – non ha mai avuto altri contatti con l’ingegnere Cuzzocrea ed è detenuto. Non si comprende, quindi, perché ci sarebbe il rischio che possa, iniziando oggi (perché in passato non è successo), condizionare l’attività della Aet». Gli elementi vecchi riguardano invece il socio Antonino Martino, socio al 50 per cento, e coinvolto, nel 2004, nell’operazione antimafia “Prius”, assieme ad alcuni suoi familiari. Un’indagine conclusa, per Martino, con l’archiviazione, chiesta dallo stesso pm, il 5 marzo 2009. Di lui un pentito aveva detto, per poi essere smentito, di essersi intestato, tra il 1992 e il 1993, un magazzino, in realtà riconducibile al temibile clan Condello di Reggio Calabria. Intestazione fittizia, dunque, ipotesi che si basava anche sulla convinzione – sbagliata – che il padre di Martino, Paolo, fosse parente di Domenico Condello. Tali elementi, nel 2013, non erano bastati alla Prefettura per interdire la Aet, tanto che l’azienda aveva ricevuto il nulla osta e l’inserimento nella “white list”, la lista di aziende pulite che possono lavorare con la pubblica amministrazione. E se anche fossero potenzialmente fonte di pericolo non sarebbero più attuali, considerato che, contestano i legali dell’azienda, Paolo Martino è morto e Condello si trova in carcere.

LA COSEDIL. La Aet, dopo la richiesta di sospensiva dell’interdittiva rigettata dal Tar, attende ora il giudizio del Consiglio di Stato. Nel frattempo, alle spalle dell’azienda reggina, rimane la Cosedil, fondata nel 1965 dal parlamentare del Gruppo Misto Andrea Vecchio. La Spa, secondo le visure camerali, è amministrata dai figli del parlamentare che rimane, come recita il suo profilo Linkedin, presidente onorario. Ma Vecchio, componente della Commissione antimafia, nelle dichiarazioni patrimoniali pubblicate sul sito della Camera si dichiara amministratore unico di una delle aziende che partecipano la Cosedil (la Andrea Vecchio partecipazioni) e consigliere della Cosedil stessa. Che rimane l’unica titolata a prendere, con un iter formalmente impeccabile, l’appalto.

Antimafia mafiosa. Come reagire, scrive il 27 settembre 2017 Telejato. C’È, È INUTILE RIPETERLO TROPPE VOLTE, UNA CERTA PRESA DI COSCIENZA DELLA TURPITUDINE DELLA LEGISLAZIONE ANTIMAFIA, CHE MEGLIO SAREBBE DEFINIRE “LEGGE DEI SOSPETTI”. ANCHE I PIÙ COCCIUTI COMINCIANO AD AVVERTIRE CHE NON SI TRATTA DI “ABUSI”, DI DOTTORESSE SAGUTO, DI “CASI” COME QUELLO DEL “PALAZZO DELLA LEGALITÀ”, DI FRATELLANZE E CUGINANZE DI AMMINISTRATORI DEVASTANTI. È tutta l’Antimafia che è divenuta e si è rivelata mafiosa. Come si addice al fenomeno mafioso, questa presa di coscienza rimane soffocata dalla paura, dal timore reverenziale per le ritualità della dogmatica dell’antimafia devozionale, del komeinismo nostrano che se ne serve per “neutralizzare” la nostra libertà. Molti si chiedono e ci chiedono: che fare? È già qualcosa: se è vero, come diceva Manzoni, che il coraggio chi non c’è l’ha non se lo può dare, è vero pure che certi interrogativi sono un indizio di un coraggio che non manca o non manca del tutto. Non sono un profeta, né un “maestro” e nemmeno un “antimafiologo”, visto che tanti mafiologhi ci hanno deliziato e ci deliziano con le loro cavolate. Ma a queste cose ci penso da molto tempo, ci rifletto, colgo le riflessioni degli altri. E provo a dare un certo ordine, una certa sistemazione logica a constatazioni e valutazioni. E provo pure a dare a me stesso ed a quanti me ne chiedono, risposte a quell’interrogativo: che fare? Io credo che, in primo luogo, occorre riflettere e far riflettere sul fatto che il timore, la paura di “andare controcorrente” denunciando le sciagure dell’antimafia e la sua mafiosità, debbono essere messe da parte. Che se qualcuno non ha paura di parlar chiaro, tutti possono e debbono farlo. Secondo: occorre affermare alto e forte che il problema, i problemi non sono quelli dell’esistenza delle dott. Saguto. Che gli abusi, anche se sono tali sul metro stesso delle leggi sciagurate, sono la naturale conseguenza delle leggi stesse. Che si abusa di una legge che punisce i sospetti e permette di rovinare persone, patrimoni ed imprese per il sospetto che i titolari siano sospettati è cosa, in fondo, naturale. Sarebbe strano che, casi Saguto, scioglimenti di amministrazioni per pretesti scandalosi di mafiosità, provvedimenti prefettizi a favore di monopoli di certe imprese con “interdizione” di altre, non si verificassero. Terzo. Occorre che allo studio, alle analisi giuridiche e costituzionali delle leggi antimafia e delle loro assurdità, si aggiungano analisi, studi, divulgazioni degli uni e degli altri in relazione ai fenomeni economici disastrosi, alle ripercussioni sul credito, siano intrapresi, approfonditi e resi noti. Possibile che non vi siano economisti, commercialisti, capaci di farlo e di spendersi per affrontare seriamente questi aspetti fondamentali della questione? Cifre, statistiche, comparazioni tra le Regioni. Il quadro che ne deriverà è spaventoso. Quindi necessario. E’ questo l’aspetto della questione che più impressionerà l’opinione pubblica. E poi: non tenersi per sé notizie, idee, propositi al riguardo. Questo è il “movimento”. Il movimento di cui molti mi parlano. Articolo di Mauro Mellini. Avvocato e politico italiano. È stato parlamentare del Partito Radicale, di cui fu tra i fondatori.

Ma cosa sarebbe codesta antimafia, che tutto gli è concesso, se non ci fosse lo spauracchio mediatico della mafia di loro invenzione? E, poi, chi ha dato la patente di antimafiosità a certi politicanti di sinistra che incitano le masse…e chi ha dato l’investitura di antimafiosità a certi rappresentanti dell’associazionismo catto-comunista che speculano sui beni…e chi ha dato l’abilitazione ad essere portavoci dell’antimafiosità a certi scribacchini di sinistra che sobillano la società civile? E perché questa antimafiosità ha immenso spazio su tv di Stato e giornali sostenuti dallo Stato per fomentare questa deriva culturale contro la nostra Nazione o parte di essa. Discrasia innescata da gruppi editoriali che influenzano l’informazione in Italia?

Fintanto che le vittime dell’antimafia useranno o subiranno il linguaggio dei loro carnefici, continueremo ad alimentare i cosiddetti antimafiosi che lucreranno sulla pelle degli avversari politici.

Se la legalità è l’atteggiamento ed il comportamento conforme alla legge, perché l’omologazione alla legalità non è uguale per tutti,…uguale anche per gli antimafiosi? La legge va sempre rispettata, ma il legislatore deve conformarsi a principi internazionali condivisi di più alto spessore che non siano i propri interessi politici locali prettamente partigiani.

Va denunciato il fatto che l’antimafiosità è solo lotta politica e di propaganda e la mafia dell’antimafia è più pericolosa di ogni altra consorteria criminale, perchè: calunnia, diffama, espropria e distrugge in modo arbitrario ed impunito per sola sete di potere. La mafia esiste ed è solo quella degli antimafiosi, o delle caste o delle lobbies o delle massonerie deviate. E se per gli antimafiosi, invece, tutto quel che succede è mafia…Allora niente è mafia. E se niente è mafia, alla fine gli stranieri considereranno gli italiani tutti mafiosi.

Invece mafioso è ogni atteggiamento e comportamento, da chiunque adottato, di sopraffazione e dall’omertà, anche istituzionale, che ne deriva.

Non denunciare ciò rende complici e di questo passo gli sciasciani non avranno mai visibilità se rimarranno da soli ed inascoltati.

Finalmente la giurisprudenza ha cominciato a fare qualche passo in avanti verso la civiltà giuridica. Merita il plauso l'ordinanza n. 48441 del 10 Ottobre 2017 con la quale la Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione ha riconosciuto il principio secondo il quale, se una persona viene assolta dall'accusa di associazione mafiosa, per gli stessi fatti non può essere considerata socialmente pericolosa. Riporto i passaggi più significativi dell'ordinanza.

"Lì dove le condotte sintomatiche della pericolosità siano legislativamente caratterizzate [...] in termini per lo più evocativi di fattispecie penali [...] è evidente che il giudice della misura di prevenzione (nel preliminare apprezzamento di tali 'fatti') non può evitare di porsi il problema rappresentato dalla esistenza di una pronunzia giurisdizionale che proprio su quella condotta [...] ha espresso una pronunzia in termini di insussistenza o di non attribuibilità del fatto all'individuo di cui si discute. [...] L'avvenuta esclusione del rilievo penale di una condotta, almeno tendenzialmente, impedisce di porre quel segmento di vita a base di una valutazione di pericolosità ed impone il reperimento, in sede di prevenzione, di ulteriori e diverse forme di conoscenza, capaci - in ipotesi - di realizzare ugualmente l'effetto di inquadramento nella categoria criminologica. [...] Lì dove il giudizio penale su un fatto rilevante a fini di inquadramento soggettivo abbia avuto un esito definitivo, tale aspetto finisce con il ricadere inevitabilmente nella cd. parte constatativa del giudizio di pericolosità". Questo principio, soprattutto alla luce dell'insegnamento della sentenza De Tommaso, dovrebbe rimettere in discussione la legittimità delle confische disposte nei confronti di persone assolte.

La procura di Caltanissetta ha chiesto il rinvio a giudizio per la Saguto e per 15 suoi amici, scrive il 26 ottobre 2017 Telejato. DOPO MESI DI INDAGINI, INTERROGATORI, INTERCETTAZIONI, IL NODO È ARRIVATO AL PETTINE. La procura di Caltanissetta ha chiesto il rinvio a giudizio per la signora Silvana Saguto, già presidente dell’Ufficio Misure di prevenzione, accusata assieme ad altri 15 imputati, di corruzione, abuso d’ufficio, concussione, truffa aggravata, riciclaggio, dopo una requisitoria durata cinque ore. Saranno invece processati col rito abbreviato i magistrati Tommaso Virga, Fabio Licata e il cancelliere Elio Grimaldi. Tra coloro per cui è stato chiesto il rinvio figurano il padre, il figlio Emanuele e il marito della Saguto, il funzionario della DIA Rosolino Nasca, i docenti universitari Roberto Di Maria e Carmelo Provenzano, assieme ad altri suoi parenti, l’ex prefetto di Palermo Francesca Cannizzo. Posizione stralciata anche per l’altro ex giudice dell’ufficio misure di prevenzione Chiaramontee per il suo compagno Antonio Ticali, per il quale la procura ha chiesto l’archiviazione, e per l’altro professore universitario Luca Nivarra e rito abbreviato per Cappellano Seminara. Prossima udienza il 6 novembre, con la parola alle parti civili e al collegio di difesa. Inutile soffermarci ancora sull’allegro e criminoso modo, portato avanti dalla Saguto, di mettere sotto sequestro aziende alle quali, in qualche modo spesso solo indiziario, si attribuiva una patente di mafiosità per procedere alla loro requisizione e affidarne la gestione agli avvocati o economisti che facevano parte del cerchio magico. L’amministrazione giudiziaria di questi beni ha arrecato danni irreversibili all’economia siciliana, poiché le aziende sono state smantellate e non più restituite, anche quando i proprietari sono stati penalmente assolti da ogni imputazione. E proprio oggi arriva la notizia del dissequestro di due aziende finite nel mirino della Saguto, che nel febbraio 2014 ne aveva disposto il sequestro: si tratta della Fattoria Ferla e della Special Fruit, che hanno operato da anni all’interno del settore ortofrutticolo e che oggi, dopo la disamministrazione affidata a Nicola Santangelo, oggi anche lui sotto processo, sono finite in liquidazione, lasciando disoccupati una decina di lavoratori. Le due aziende erano state accusate di essere sotto la protezione del boss dell’Acquasanta Galatolo, nell’ambito di un sequestro di 250 milioni, ma dopo l’attenta valutazione condotta dai magistrati dell’ufficio misure di prevenzione, oggi affidato al nuovo presidente Malizia e ai giudici Luigi Petrucci e Giovanni Francolini, è stato disposto il dissequestro, in quanto non esiste “neanche il sospetto” di infiltrazioni mafiose. Restano ancora sotto sequestro altri beni ed è in corso il procedimento per il successivo dissequestro.

L’antimafia preventiva diventata definitiva, scrive il 13 ottobre 2017 Telejato.

LA PREVENZIONE. Il caso Saguto ha causato l’implosione di un sistema concepito in origine per aggredire i patrimoni mafiosi e colpire i mafiosi nelle loro ricchezze costruite con l’illegalità. Il sistema, giorno dopo giorno è diventato un metodo in virtù del grande potere attribuito ai giudici di poter sequestrare i beni, anche attraverso la semplice “legge del sospetto”, e di poterli tenere sotto sequestro anche quando i procedimenti penali hanno ufficialmente decretato l’infondatezza di questo sospetto e prosciolto i cosiddetti “preposti”, cioè soggetti a sequestro da ogni imputazione di associazione, contiguità, concorso con il malaffare mafioso. Ancora oggi restano sotto sequestro immensi patrimoni di soggetti che, in altri periodi si sono piegati alla legge del pizzo, in alcuni casi per continuare a lavorare, in altri casi, è giusto dirlo, anche per avere mano libera nel badare ai propri affari. Quello che per loro era un “piegarsi alla regola” della “messa a posto”, per sopravvivere, diventa accusa di collaborazione e concorso in associazione mafiosa, così che le vittime diventano complici. L’imprenditoria siciliana, soprattutto nei suoi risvolti commerciali e nell’edilizia, ha subito tremende battute d’arresto, poiché la mannaia della prevenzione si è abbattuta su aziende che davano lavoro a migliaia di siciliani oggi disoccupati, senza preoccuparsi di sorvegliare la gestione dei beni confiscati, affidati ad amministratori giudiziari, alcuni senza scrupoli, altri del tutto incapaci e incompetenti, che hanno prosciugato i beni dell’azienda loro affidata per foraggiare se stessi e i propri collaboratori. In tal modo quello che avrebbe dovuto essere un momento “preventivo”, al fine di evitare la reiterazione del reato, diventa un momento definitivo, dato il prolungamento all’infinito delle misure di prevenzione, anche ad assoluzione penale avvenuta.

LA NUOVA LEGGE ANTIMAFIA. Da parte di alcuni settori si è gridato alla vittoria e al passo in avanti dato dal nuovo codice antimafia, approvato nel settembre scorso, ma, come abbiamo più volte scritto, si tratta di una legge nata vecchia, con qualche ritocco alla vecchia legge del 2012, senza che siano indicate regole precise né sul periodo, cioè sulla durata in cui un bene deve essere tenuto sotto sequestro, né sulle prove e sulle condizioni che dovrebbero giustificare il sequestro, né sulle penalità da attribuire agli amministratori incompetenti o ai magistrati che hanno agito frettolosamente, senza che la loro azione sia stata giustificata da un minimo di sentenza. È rimasto il solco tra procedimento penale e procedimento di prevenzione, anzi il procedimento di prevenzione è stato esteso anche ai reati di corruzione, commessi in associazione, senza garanzie sulla possibile restituzione e sul risarcimento dei danni causati dalla disamministrazione. Insomma, come al solito non pagherà nessuno e i magistrati potranno continuare ad agire nel massimo della libertà che non è sempre garanzia di giustizia.

I RESPONSABILI. Dopo questa premessa citiamo, e ricordiamo i numerosi nomi di amministratori che, in un modo o in un altro hanno contribuito a creare sfiducia nella possibilità di potere portare avanti un’azione antimafia decisa e corretta, che avrebbe dovuto avere come finalità primaria la possibilità di non affossare l’economia siciliana, ma di salvaguardarla dalle infiltrazioni mafiose e di costruirla nel rispetto delle regole parallelamente alle condizioni di crisi, di cui ancora non si vede l’uscita, nonostante lo strombazzamento di miglioramenti dei quali in Sicilia non vediamo nemmeno l’ombra. La salvaguardia di quel poco esistente, spesso dovuto al coraggio di imprenditori che hanno rischiato tutto e si sono anche indebitati per costruire un’azienda, non è stata in alcun modo presa in considerazione, e ciò ha causato il crollo di strutture e aziende, come quelle dei Niceta, dei Cavallotti, di Calcedonio Di Giovanni, della catena di alberghi Ponte, della Motoroil, della Clinica Villa Teresa di Bagheria, (sia nel settore sanitario che in quello edilizio), della Meditour degli Impastato, dei supermercati Despar di Grigoli in provincia di Trapani e Agrigento, dell’impero televisivo e concessionario dei Rappa e così via. Responsabili i vari a Cappellano Seminara, Sanfilippo, Santangelo, Aulo Giganti, Ribolla, Scimeca, Benanti, Walter Virga, Rizzo, Modica de Moach e così via. Molti di questi sono ancora al loro posto, mentre altri sono stati sostituiti. Di questo lungo elenco faceva parte Luigi Miserendino che, ieri, si è dimesso da tutti gli incarichi, per avere lasciato al suo posto il re dei detersivi Ferdico, il quale è stato assolto da tutto, ma ricondotto in carcere, mentre il carcere è stato revocato a Miserendino, poiché, dimessosi, non potrà più reiterare il reato.

IL PROFESSORE. Oggi spunta la notizia, altrettanto grave dell’interrogatorio del prof. Carmelo Provenzano, il quale, dopo avere sistemato nelle varie amministrazioni moglie, fratello, cognata e altri amici, dopo avere rifornito di frutta fresca il frigorifero della Saguto e del prefetto di Palermo Cannizzo, dopo avere agevolato la laurea del figlio della Saguto, anche con l’aiuto del rettore dell’Università di Enna Di Maria, oggi dichiara candidamente al giudice Bonaccorso che lo sta interrogando, di avere fatto tutto questo perché rientrava nelle sue funzioni di docente aiutare gli alunni, tra i quali cita anche il figlio dell’ex procuratore capo di Caltanissetta Sergio Lari e si lamenta addirittura che le sue telefonate al figlio di Lari non sono agli atti del procedimento contro di lui. Va tenuto presente comunque che Lari è stato quello che ha dato il via all’inchiesta aperta dei giudici di Caltanissetta contro la Saguto e i suoi collaboratori, o, se vogliamo, complici. Secondo Provenzano tutto quello che è successo era “normale”, tutti facevano così, rientrava nel normale modo di gestire i beni sequestrati quello di aiutarsi e appoggiarsi reciprocamente tra i vari componenti del cerchio magico. Né più né meno come quando Craxi dichiarò in parlamento che il sistema delle tangenti ai partiti era normalità, che tutti facevano così, tutti mangiavano e non poteva essere lui solo a pagare per tutti. E se tutto è normale, non è successo niente, abbiamo scherzato, hanno scherzato i giudici di Caltanissetta ad aprire il procedimento, sono tutti innocenti e tutti dovrebbero essere assolti, Cappellano compreso, perché hanno fatto egregiamente il loro lavoro. Conclusione, ma non solo per Provenzano, è che tutto quello che dovrebbe essere anormale, anche il malaffare, è normale, mentre è anormale il corretto funzionamento della giustizia e l’applicazione di eventuali pene nei confronti di chi sbaglia. Ovvero fuori i mascalzoni e dentro chi si comporta onestamente o chi si permette di denunciare il disonesto modo di amministrare la cosa pubblica, i beni dello stato, il corretto funzionamento della giustizia. Come succede molto spesso in Italia, secondo un detto antichissimo cui ostinatamente non possiamo e non dobbiamo rassegnarci: “La furca è pi li poviri, la giustizia pi li fissa

L’Italia non è un paese per giovani (avvocati): elevare barriere castali e di censo non è una soluzione, scrive il 28 Aprile 2017 “L’Inkiesta”. Partiamo da due disfunzioni che affliggono il nostro Paese e che stanno facendo molto parlare di sé. Da una parte, la crisi delle libere professioni e, in generale, delle lauree, con importanti giornali nazionali che ci informano, per esempio, che i geometri guadagnano più degli architetti. Dall’altra, le inefficienze del sistema giudiziario. Queste, sono oggetto di dibattito da tempo immemorabile, ci rendono tra i Paesi peggiori dell’area OCSE e ci hanno fatti condannare da niente-popò-di-meno-che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Incrociate ora i due trend. Indovinate chi ci rimane incastrato in mezzo? Ovviamente i giovani laureati/laureandi in giurisprudenza, chiusi tra un percorso universitario sempre più debole e una politica incapace di portare a termine una riforma complessiva e decente dell’ordinamento forense. Come risolvere la questione? Con il numero chiuso a giurisprudenza? Liberalizzando la professione legale? Niente di tutto questo, ci mancherebbe. In un Paese dove gli avvocati rappresentano una fetta rilevante dei parlamentari, la risposta fornita dall’ennesima riforma è facile facile. Porre barriere di censo e di casta all’accesso alla professione. Da questa prospettiva tutte le recenti novità legislative acquistano un senso e rivelano una logica agghiacciante. I malcapitati che si laureeranno in Giurisprudenza a partire dall’anno 2016/2017 avranno una prima sorpresina: l’obbligo di frequentare una scuola di formazione per almeno 160 ore. Anche a pagamento se necessario, come da parere positivo del Consiglio Nazionale Forense.

La questione sarebbe da portare all’attenzione di un bravo psicanalista. Giusto qualche osservazione: (1) se la pratica deve insegnare il mestiere, perché aggiungere un’altra scuola obbligatoria?; (2) Se la Facoltà di Legge - che in Italia è lunghissima: 5 anni, contro i 3 di Stati Uniti e Regno Unito e i 4 della Francia, per esempio – serve a così poco, tanto da dover essere integrata anche dopo la laurea, perché non riformarla?; (3) perché fermare i ragazzi dopo la laurea, invece di farlo prima? Ci sarebbero anche altre questioni. Per esempio, 160 ore di formazione spalmate su 18 mesi, per i fortunati ammessi, non sono molte in teoria. Tuttavia, basta vedere le sempre maggiori proteste riportate dai giornali, e rigorosamente anonime, di praticanti-fotocopisti senza nome, sfruttati e non pagati, per accorgersi che la realtà è molto diversa dalla visione irenica (ipocrita è offensivo?) dei riformatori. E, in ogni caso, anche se il praticante fosse sufficientemente fortunato da avere qualche soldo in tasca, ciò non gli permetterebbe di godere del dono dell’ubiquità. Ma così si passerebbe dal settore della psicanalisi a quello della parapsicologia. Meglio evitare. Andiamo oltre.

Abbiamo superato la prima trincea. Coi soldi del nonno ci manteniamo nella nostra pratica non pagata o mal pagata. Magari siamo bravissimi ed accediamo ai corsi di formazione a gratis o con borsa. Arriva il momento dell’esame. Presto l’esame scritto sarà senza codice commentato. E fin qui, nessun problema. Meglio ragionare con la propria testa che affannarsi a cercare la “sentenza giusta”, magari senza capirla. Le prove verteranno sempre su diritto civile, diritto penale e un atto. Segue un esame orale con quattro materie obbligatorie: diritto civile, diritto penale, le due relative procedure, due materie a scelta e la deontologia forense. E qui il fine giurista si deve trasformare in una specie di Pico de La Mirandola, mandando a memoria tutto in poco tempo. Magari col capo che non ti concede più di un mese di assenza dalla tua scrivania. Ma il problema di questo esame è un altro. Poniamo che io sia un praticante in gamba e che abbia trovato lavoro in un grosso studio internazionale leader nel settore del diritto bancario. Plausibilmente, lavorerò con professionisti fantastici e avrò clienti prestigiosi. Serve a qualcosa per l’esame di stato? Risposta: no. Riformuliamo la questione. Se io mi occupo di diritto bancario o di diritto societario, cosa me ne frega di studiare diritto penale, materia che non mi interessa e che non praticherò mai? Mistero. L’esame di abilitazione fu regolato per la prima volta nel 1934 e la sua logica è rimasta ferma lì. Come se l’avvocato fosse ancora un piccolo professionista individuale che fa indifferentemente tutto. Pensateci la prossima volta che sentite qualcuno sciacquarsi la bocca con fregnacce sulla specializzazione degli avvocati e sulla dipartita dell’avvocato generico. Pensateci.

Passata anche la seconda trincea. Siete avvocati. Tutto bene? No. Tutto male. Finirete sotto il fuoco della Cassa Forense, obbligatoria, che vi mitraglierà. Non importa se siete potentissimi astri nascenti o piccoli professionisti. I risultati? Migliaia di giovani avvocati che si cancellano dall’albo ogni anno. Sgombriamo subito il campo da equivoci. Spesso quando si introduce questo tema ci si sente rispondere che in Italia ci sono troppi avvocati e se si sfoltiscono è meglio. Giusto. Ma ciò non può condurre ad affermare che dei giovani siano tagliati fuori da un sistema disfunzionale. La selezione dura va bene; il terno al lotto no. La competizione, anche spietata, va bene; le barriere all’accesso strutturate senza la minima logica no. Dietro le belle parole, si nasconde un sistema che, come avviene anche per altre professioni, cerca di tutelare se stesso sbattendo la porta in faccia ai giovani che vorrebbero entrare. Non tutti ovviamente. Senza troppa malizia vediamo che avrà meno crucci: (1) chi ha il padre, nonno, zio, fratello maggiore ecc… titolare di uno studio legale. Una mancetta arriverà sempre, con essa il tempo libero per frequentare la formazione obbligatoria e una study leave succulenta di un paio di mesi per preparare l’esame; (2) chi è ricco di famiglia e che, dunque, può godere dei vantaggi di cui sopra per vie traverse; (3) chi, date le condizioni di cui ai punti 1 e 2, può sostenere l’esame due, tre, quattro, cinque volte. E la meritocrazia? Naaaa, quello è uno slogan da sbandierare in campagna elettorale, cosa avete pensavate, sciocconi? In definitiva, il sistema come si sta concependo non fa altro che porre barriere all’ingresso che favoriscono il ceto e di casta. Una volta che si è entrati, invece, si fa in modo di cacciare fuori coloro che non arrivano a fine mese, tendenzialmente i più giovani o i più piccoli.

Ci sono alternative? Guardiamo un paese come la Francia. Lì, l’esame duro e temutissimo è quello per l’accesso all’école des Avocats, superato ogni anno da meno di un terzo dei candidati. Ma, (1) lo si sostiene appena terminata l’università, quando si è “freschi”; (2) è la precondizione per l’accesso al tirocinio, non un terno al lotto che viene al termine di 18/24 mesi di servaggio, spesso inutile ai fini del superamento dell’esame. Quindi, se si fallisce, al netto della delusione, si può subito andare a fare altro. Oppure si riprova (fino a tre volte). In ogni caso, però, non si buttano due anni di vita. La conclusione è sempre la stessa. L’Italia è un Paese che investe poco nei giovani. E che ci crede poco, a giudicare dalle frequenti sparate e rimbrotti di ministri vari. Sperando che non si cerchi, di fatto, di risolvere il problema con l’emigrazione, il messaggio deve essere chiaro. Non si faccia pagare ai giovani l’incapacità del sistema di riformarsi seriamente e organicamente. Le alternative ci sono.

Giornalisti? E’ meglio se andate a fare gli operai, scrive di Andrea Tortelli, Responsabile di "GiornalistiSocial.it". E’ meglio se andate a fare gli operai, credetemi. Lo dicono i numeri. Chiunque aspiri a fare il giornalista, in Italia, deve confrontarsi con un quadro di mercato ben più drammatico di quello di altri settori in crisi. Il giornalista rimane una professione molto (troppo) ambita, ma non conferisce più prestigio sociale a chi la pratica e soprattutto non è più remunerativa. Diverse classifiche, non solo italiche, inseriscono quello del reporter fra i lavori a maggiore rischio di indigenza. E chi pratica bazzica in questo mondo non può stupirsene.

Qualche numero sui media. Il mondo dei media è in crisi da tempo, ben prima che arrivassero i social a dare il colpo di grazia. In una provincia come Brescia, dove vivo, non c’è un solo giornale cartaceo o una televisione locale che nell’ultimo quinquennio non abbia ridotto il proprio organico e chiuso qualche bilancio in rosso. Tutto ciò mentre gli on line sopravvivono, ma non prosperano: generando numeri, ma recuperando ben poche delle risorse perse per strada dai media tradizionali. In Italia, va detto, i giornali non hanno mai goduto di troppa gloria. Da sempre siamo una delle popolazioni al mondo che legge meno. Meno di una persona su venti, oggi, compra un quotidiano in edicola e il calo è costante. Il Corriere della Sera, solo per fare un esempio, tra il 2004 e il 2014 ha dimezzato le proprie copie (l’on line, nello stesso periodo, è passato da 2 milioni di utenti al mese a 1,5 al giorno, Facebook da zero a 2 milioni di fan…). Nel 2016, ancora, i cinque giornali cartacei più venduti (Corsera, Repubblica, Sole 24 Ore, La Stampa e Gazzetta dello Sport) hanno perso un decimo esatto delle copie.

Non va meglio sul fronte dei fatturati. Dal 2004 al 2014 – permettetemi di riciclare un vecchio dato – il mercato pubblicitario italiano è passato da 8 miliardi 240milioni di euro a 5 miliardi e 739milioni (fonte DataMediaHub). La tv è scesa da 4 miliardi 451 milioni a 3.510 milioni, la stampa si è più che dimezzata da 2 miliardi 891 milioni a 1 miliardo 314 milioni, il web è cresciuto sì. Ma soltanto da 116 milioni a 474. Vuol dire che – dati alla mano – per ogni euro perso dalla carta stampata in questo decennio sono arrivati sul web soltanto 22 centesimi (del resto, agli attuali prezzi di mercato, mille clic vengono pagati oggi meno di due euro…). E gli altri 80 centesimi dove sono finiti? Un po’ si sono persi a causa della crisi. Ma una grossa fetta – non misurabile – è finita alle big del web, nel grande buco nero fiscale di Google e Facebook. Cioè è uscita dal circuito dell’informazione e dell’editoria.

I giornalisti che fanno? A una drastica riduzione delle copie e dei fatturati consegue ovviamente una drastica riduzione degli organici. Ma a questo dato si somma un aumento significativo dell’offerta (complici le scuole di giornalismo, ma non solo…) e un aumento esponenziale della concorrenza “impropria”, dovuta al fatto che Facebook è ormai la prima fonte di informazione degli italiani e sono molti a operare fuori dal circuito tradizionale (e spesso anche fuori dal circuito legale) dei media. In questo contesto, le possibilità di spuntare un contratto ex Articolo 1 (Cnlg) per un giovane sono praticamente nulle. Ma anche portare a casa almeno mille euro lordi al mese è un’impresa se ci sono quotidiani locali, anche di gruppi importanti, che pagano meno di 10 euro un articolo. E on line, a quotazioni di “mercato”, un pezzo viene pagato anche un euro. Lordo. Non è un caso che sempre più colleghi abbiano decisi di cambiare vita, e molto spesso sono i più validi. Ne conosco molti. C’è chi fa l’operaio part time a tempo indeterminato e arrotonda scrivendo (quasi per passione), chi ha mollato tutto per una cattedra da precario alle superiori, chi all’ennesima crisi aziendale ha deciso di andare a lavorare a tempo pieno in fabbrica per mantenere i figli e chi ancora era caporedattore di un noto giornale – oltre che penna di grandissimo talento – e ora si dedica alla botanica. Con risultati di eguale livello, pare. I dati dell’Osservatorio Job pricing, del resto, indicano che nel 2016 un operaio italiano guadagnava mediamente 1.349 euro. Il collaboratore di una televisione locale, a 25 euro lordi a servizio, dovrebbe fare più di 50 uscite (con montaggio annesso) per portare a casa la stessa cifra. Il collaboratore di un quotidiano locale dovrebbe firmare almeno 100 pezzi, tre al giorno. Senza ferie, tredicesima, malattia e possibilità di andare in banca a chiedere un mutuo se privo della firma di papi. Insomma: il vecchio adagio del “sempre meglio che lavorare” è ancora attuale, ma ha drammaticamente cambiato significato. Visto che il giornalismo è diventato per molti un hobby o una moderna forma di schiavitù, quasi al livello dei raccoglitori di pomodori pugliesi. Dunque?

La soluzione. Dunque… Quando qualcuno mi contatta per chiedermi come si fa a diventare giornalista (circostanza piuttosto frequente, visto che gestisco GiornalistiSocial.it) cerco sempre di fornirgli un quadro completo e oggettivo della situazione, per non illudere nessuno. Alcuni si incazzano e spariscono. Altri ringraziano delusi. I più ascoltano, ma non sentono. Una piccola parte comprende che il mestiere del giornalista, nel 2017, ha un senso solo se sussistono due elementi: una grande passione e la volontà di fare gli imprenditori di se stessi. Fare il giornalista, in Italia ma non solo, richiede oggi una grande capacità di adattamento al sistema della comunicazione e un sistema di competenze tecniche estese (fotografia, grafica, video, social, web, seo e anche marketing, parola che farebbe accapponare la pelle a quelli della vecchia scuola) per sopravvivere a un mercato sempre meno chiuso, in cui i concorrenti sono tanto i colleghi e gli aspiranti colleghi, quanto tutti i laureati privi di occupazione e i liberi professionisti dell’articolato mondo web. Ma questo è un altro capitolo. Nel frattempo, è meglio che andiate a fare gli operai. Oppure ribellatevi.

Mi sono laureata nonostante gli abusi dei professori. Mi chiamo Carolina, e sono una neolaureata all'Università Statale di Milano. Mi sono sentita moralmente obbligata a scrivere questa lettera, che spero potrà avere una sua risonanza. So che qualche anno fa i quotidiani si erano già occupati dell'incresciosa situazione logistica in alcune facoltà della Statale, una situazione che ha costretto me come centinaia di altri studenti a seguire per interi semestri le lezioni seduti sul pavimento, quando non addirittura in piedi fuori dalle porte e dalle finestre delle aule. Ma in questa sede vorrei invece parlare della condotta dei professori, della quale ingiustamente non si è mai fatto parola. Per natura tendo a non parlare mai di ciò che non conosco direttamente, quindi mi riferirò esclusivamente alle facoltà sotto la dicitura di Studi Umanistici della Statale. Volendo evitare di fare di tutta l'erba un fascio, ammetto volentieri il fatto di aver incontrato durante la mia carriera universitaria professori competenti e disponibili, e mi piacerebbe poter dire che sono la maggioranza. Ma ciò di cui non si parla mai sono gli altri, una vera e propria casta che segue solamente le proprie regole anche e spesso a dispetto degli studenti. Urge fare qualche esempio pratico. Ci sono professori che perdono esami di studenti e non solo non denunciano l'accaduto, ma bocciano gli studenti interessati sperando che loro non arrivino mai a scoprirlo, ma si limitino semplicemente a ripetere l'esame in questione. Ci sono professori che in una giornata di interrogazioni d'esame si prendono ben tre ore di pausa pranzo. Ce ne sono altri che con appelli programmati da mesi, fanno presentare tutti gli studenti iscritti e poi annunciano di dover partire per un viaggio, e che quelli non interrogati si devono ripresentare due settimane dopo. Alcuni si rifiutano, benché avvisati con anticipo, di interrogare gli studenti che hanno seguito il corso con un altro professore non disponibile per l'appello d'esame. E ultimi, ma certamente non per importanza, ci sono i professori che ogni anno mandano fuori corso decine di studenti che hanno finito per tempo gli esami, impedendogli di laurearsi nell'ultima sessione disponibile per loro e costringendoli a pagare un anno intero di retta universitaria perché "non hanno tempo di seguire questa tesi" oppure perché il candidato "è troppo indietro con la stesura, ci sarebbe troppo da fare". Tutti gli episodi sopra citati sono accaduti ad una sola persona, me. E per quanto io mi renda conto di essere stata particolarmente sfortunata, mi riesce difficile pensare di essere l'unica alla quale cose del genere sono successe. Questi veri e propri abusi di potere rendono quasi impossibile per gli studenti godere del generalmente buon livello di istruzione offerto dall'università. Mi includo nel gruppo quando mi chiedo come mai gli studenti non si siano mai fatti sentire, e mi vergogno quasi un po' a scrivere questa lettera con il mio bell'attestato di laurea appeso in stanza, ma la verità è che mi è costato fin troppa fatica, e non ero disposta a mettere a rischio la possibilità di ottenerlo, dal momento che non ero io ad avere il coltello dalla parte del manico. Ma non mi sembrava ad ogni modo corretto lasciare che tali comportamenti passassero sotto silenzio. L'istruzione pubblica dovrebbe essere un diritto, non un privilegio, ed insegnare dovrebbe essere una grande responsabilità, qualcosa di cui non abusare mai. Carolina Forin 14 ottobre 2017 “L’Espresso”

I mediocri del Politically Correct negano sempre il merito. Sostituiscono sempre la qualità con la quantità. Ma è la qualità che muove il mondo, cari miei, non la quantità. Il mondo va avanti grazie ai pochi che hanno qualità, che valgono, che rendono, non grazie a voi che siete tanti e scemi. La forza della ragione (Oriana Fallaci)

 “L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere.

La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione."

TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).

"Quando si cerca di far progredire la conoscenza e l'intelligenza umana si incontra sempre la resistenza dei contemporanei, simile a un fardello che bisogna trascinare e che grava pesantemente al suolo, ribelle ad ogni sforzo. Ci si deve consolare allora con la certezza che, se i pregiudizi sono contro di noi, abbiamo con noi la Verità, la quale, dopo essersi unita al suo alleato, il Tempo, è pienamente certa della sua vittoria, se non proprio oggi, sicuramente domani."(Arthur Schopenhauer)

Il pregio di essere un autodidatta è quello che nessuno gli inculcherà forzosamente della merda ideologica nel suo cervello. Il difetto di essere un autodidatta è quello di smerdarsi da solo.

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo con la discultura e la disinformazione. Ci si deve chiedere: perchè a scuola ci hanno fatto credere con i libri di testo che Garibaldi era un eroe ed i piemontesi dei salvatori; perché i media coltivano il luogo comune di un sud Italia cafone ed ignorante; perché la prima cosa che insegnano a scuola è la canzone “bella ciao”? Per poi scoprire da adulti e solo tramite il web: che il Sud Italia è stato depredato a causa proprio di Garibaldi a vantaggio dei Piemontesi; che solo i turisti che scendono a frotte nel meridione d’Italia scoprono quanto ci sia tanto da conoscere ed apprezzare, oltre che da amare; che “Bella ciao” è solo l’inno di una parte della politica italiana che in nome di una ideologia prima tradì l’Italia e poi, con l’aiuto degli americani, vinse la guerra civile infierendo sui vinti, sottomettendoli, con le sue leggi, ad un regime illiberale e clericale.

Ad Avetrana, il paese di Sarah Scazzi, non sono omertosi, sempre che non si tratti di poteri forti. Ma qualcuno certamente vigliacco e codardo lo è. Sapendo che io ho le palle per denunciare le illegalità, questi deficienti usano il mio nome ed appongono falsamente la mia firma in calce a degli esposti che colpiscono i poveri cristi rei di abusi edilizi o commerciali. I cretini, che poi fanno carriera politica, non sanno che i destinatari dei miei strali sono magistrati, avvocati, forze dell’ordine, e comunque pubblici ufficiali o esercenti un pubblico servizio. Che poi queste denunce finiscono nell’oblio perché “cane non mangia cane” e per farmi passare per mitomane o pazzo o calunniatore o diffamatore, è un’altra cosa. Però da parte di questi coglioni prendersela con i poveri cristi per poi far addossare la colpa a me ed essere oggetto di ritorsioni ingiustificate è da veri vigliacchi. D'altronde un paese di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato, istruito ed informato da coglioni.

È molto meglio osare cose straordinarie, vincere gloriosi trionfi, anche se screziati dall'insuccesso, piuttosto che schierarsi tra quei poveri di spirito che non provano grandi gioie né grandi dolori, perché vivono nel grigio e indistinto crepuscolo che non conosce né vittorie né sconfitte. (...) Non è il critico che conta, né l'individuo che indica come l'uomo forte inciampi, o come avrebbe potuto compiere meglio un'azione. L'onore spetta all'uomo che realmente sta nell'arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perchè non c'è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l'obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza. Dunque il suo posto non sarà mai accanto a quelle anime timide che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta. Franklin Delano Roosevelt

Cari signori, io ho iniziato a destare le coscienze 20 anni prima di Beppe Grillo e nulla è successo. Io non cercavo gli onesti, ma le vittime del sistema, per creare una rivoluzione culturale…ma un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.

"Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l'appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna... Siamo al discorso di prima: non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi; cornuti dall'antichità, una generazione appresso all'altra...- Io non mi sento cornuto - disse il giovane - e nemmeno io. Ma noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo..." Leonardo Sciascia dal libro "Il giorno della civetta". 

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

In una Italia dove nulla è come sembra, chi giudica chi è onesto e chi no?

Lo hanno fatto i comunisti, i dipietristi, i leghisti, i pentastellati. Lor signori si son dimostrati peggio degli altri e comunque servitori dei magistrati. E se poi son questi magistrati a decidere chi è onesto e chi no, allora se tutti stanno dalla parte della ragione, io mi metto dalla parte del torto.

Ognuno di noi, anziché migliorarsi, si giova delle disgrazie altrui. Non pensando che a cercar l’uomo onesto con il lanternino si perde la ragione. Ma anche a cercarlo con la lanterna di Diogene si perde la retta via. Diogene di Sinope (in greco antico Διογένης Dioghénes) detto il Cinico o il Socrate pazzo (Sinope, 412 a.C. circa – Corinto, 10 giugno 323 a.C.) è stato un filosofo greco antico. Considerato uno dei fondatori della scuola cinica insieme al suo maestro Antistene, secondo l'antico storico Diogene Laerzio, perì nel medesimo giorno in cui Alessandro Magno spirò a Babilonia. «[Alessandro Magno] si fece appresso a Diogene, andandosi a mettere tra lui e il sole. "Io sono Alessandro, il gran re", disse. E a sua volta Diogene: "Ed io sono Diogene, il cane". Alessandro rimase stupito e chiese perché si dicesse cane. Diogene gli rispose: "Faccio le feste a chi mi dà qualcosa, abbaio contro chi non dà niente e mordo i ribaldi."» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Vita di Diogene il Cinico, VI 60). Diogene aveva scelto di comportarsi, dunque, come "critico" pubblico: la sua missione era quella di dimostrare ai Greci che la civiltà è regressiva e di dimostrare con l'esempio che la saggezza e la felicità appartengono all'uomo che è indipendente dalla società. Diogene si fece beffe non solo della famiglia e dell'ordine politico e sociale, ma anche delle idee sulla proprietà e sulla buona reputazione. Una volta uscì con una lanterna di giorno. Questi non indossava una tunica. Portava come solo vestito un barile ed aveva in mano una lanterna. "Diogene! - esclamo Socrate - con quale nonsenso tenterai di ingannarci oggi? Sei sempre alla ricerca, con questa lanterna, di un uomo onesto? Non hai ancora notato tutti quei buchi nel tuo barile?". Diogene rispose: "Non esiste una verità oggettiva sul senso della vita". A chi gli chiedeva il senso della lanterna lui rispondeva: "cerco l'uomo!". “... (Diogene) voleva significare appunto questo: cerco l’uomo che vive secondo la sua più autentica natura, cerco l’uomo che, aldilà di tutte le esteriorità, le convenzioni o le regole imposte dalla società e aldilà dello stesso capriccio della sorte e della fortuna, ritrova la sua genuina natura, vive conformemente a essa e così è felice."

Aste e usura: chiesta ispezione nei tribunali di Taranto e Potenza. Interrogazione dei Senatori Cinque Stelle: “Prassi illegali e vicende inquietanti”, titola “Basilicata 24” nel silenzio assordante dei media pugliesi e tarantini.

Da presidente dell’ANPA (Associazione Nazionale Praticanti ed Avvocati) già dal 2003, fin quando mi hanno permesso di esercitare la professione forense fino al 2006, mi sono ribellato a quella realtà ed ho messo in subbuglio il Foro di Taranto, inviando a varie autorità (Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, Procura della Repubblica di Taranto, Ministro della Giustizia) un dossier analitico sull’Ingiustizia a Taranto e sull’abilitazione truccata degli avvocati. Da questo dossier è scaturita solo una interrogazione parlamentare di AN del Senatore Euprepio Curto (sol perché ricoprivo l’incarico di primo presidente di circolo di Avetrana di quel partito). Eccezionalmente il Ministero ha risposto, ma con risposte diffamatorie a danno dell’esponente. Da allora e per la mia continua ricerca di giustizia come Vice Presidente provinciale di Taranto dell’Italia dei Valori (Movimento da me lasciato ed antesignano dei 5 Stelle, entrambi a me non confacenti per mia palese “disonestà”) e poi come presidente nazionale dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno, per essermi permesso di rompere l’omertà, gli abusi e le ingiustizie, ho subito decine di procedimenti penali per calunnia e diffamazione, facendomi passare per mitomane o pazzo, oltre ad inibirmi la professione forense. Tutte le mie denunce ed esposti e la totalità dei ricorsi presentati a tutti i Parlamentari ed alle autorità amministrative e politiche: tutto insabbiato, nonostante la mafiosità istituzionale è sotto gli occhi di tutti.

I procedimenti penali a mio carico sono andati tutti in fumo, non riuscendo nell’intento di condannarmi, fin anche a Potenza su sollecitazione dei denuncianti magistrati.

Il 3 ottobre 2016, dopo un po’ di tempo che mancavo in quel di Taranto, si apre un ulteriore procedimento penale a mio carico per il quale già era intervenuta sentenza di assoluzione per lo stesso fatto. Sorvolo sullo specifico che mi riguarda e qui continuo a denunciare alla luna le anomalie, così già da me riscontrate molti anni prima. Nei miei esposti si parlava anche di mancata iscrizione nel registro generale delle notizie di reato e di omesse comunicazioni sull’esito delle denunce.

L’ufficio penale del Tribunale è l’ombelico del disservizio. Non vi è traccia degli atti regolarmente depositati, sia ufficio su ufficio (per le richieste dell’ammissione del gratuito patrocinio dall’ufficio del gratuito patrocinio all’ufficio del giudice competente), sia utenza su ufficio per quanto riguarda in particolare la lista testi depositata dagli avvocati nei termini perentori. Per questo motivo è inibito a molti avvocati percepire i diritti per il gratuito patrocinio prestato, non essendo traccia né delle istanze, né dei decreti emessi. Nell’udienza del 3 ottobre 2016, per gli avvocati presenti, al disservizio si è provveduto con una sorta di sanatoria con ripresentazione in udienza di nuove istanze di ammissione di Gratuito patrocinio e di nuove liste testi (fuori tempo massimo); per i sostituiti avvocati, invece, ogni diritto è decaduto con pregiudizio di causa. Non un avvocato si è ribellato e nessuno mai lo farà, perché mai nessuno in quel foro si è lamentato di come si amministra la Giustizia e di come ci si abilita. Per quanto riguarda la gestione degli uffici non si può alludere ad una fantomatica mancanza di personale, essendo l’ufficio ben coperto da impiegate, oltretutto, poco disponibili con l’utenza.

Io ho già dato per fare casino, non foss’altro che ormai sono timbrato tra i tarantini come calunniatore, mitomane o pazzo, facendo arrivare la nomea oltre il Foro dell’Ingiustizia.

La presente, giusto per rendere edotti gli ignoranti giustizialisti e sinistroidi in che mani è la giustizia, specialmente a Taranto ed anche per colpa degli avvocati.

Cane non mangia cane. E questo a Taranto, come in tutta Italia, non si deve sapere.

Questo il commento del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS che ha scritto un libro “Tutto su Taranto. Quello che non si osa dire”.

Un’inchiesta di cui nessuno quasi parla. Si scontrano due correnti di pensiero. Chi è amico dei magistrati, dai quali riceve la notizia segretata e la pubblica. Chi è amico degli avvocati che tace della notizia già pubblicata. "Siediti lungo la riva del fiume e aspetta, prima o poi vedrai passare il cadavere del tuo nemico", proverbio cinese. Qualcuno a me disse, avendo indagato sulle loro malefatte: “poi vediamo se diventi avvocato”...e così fu. Mai lo divenni e non per colpa mia.

Dei magistrati già sappiamo. C’è l’informazione, ma manca la sanzione. Non una condanna penale o civile. Questo è già chiedere troppo. Ma addirittura una sanzione disciplinare.

Canzio: caro Csm, quanto sei indulgente coi magistrati…, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 19 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Per il vertice della Suprema Corte questo appiattimento verso l’alto è l’esempio che qualcosa nel sistema di valutazione “non funziona”. La dichiarazione che non ti aspetti. Soprattutto per il prestigio dell’autore e del luogo in cui è stata pronunciata. «Il 99% dei magistrati italiani ha una valutazione positiva. Questa percentuale non ha riscontro in nessuna organizzazione istituzionale complessa». A dirlo è il primo presidente della Corte di Cassazione Giovanni Canzio che, intervenuto ieri mattina in Plenum a Palazzo dei Marescialli, ha voluto evidenziare questa “anomalia” che contraddistingue le toghe rispetto alle altre categorie professionali dello Stato. La valutazione di professionalità di un magistrato che era stato in precedenza oggetto di un procedimento disciplinare ha offerto lo spunto per approfondire il tema, particolarmente scottante, delle “note caratteristiche” delle toghe. «È un dato clamoroso – ha aggiunto il presidente Canzio che i magistrati abbiano tutti un giudizio positivo». Questo appiattimento verso l’alto è l’esempio che qualcosa nel sistema di valutazione “non funziona” e che necessita di essere “rivisto” quanto prima. Anche perché fornisce l’immagine di una categoria particolarmente indulgente con se stessa. In effetti, leggendo i pareri delle toghe che pervengono al Consiglio superiore della magistratura, ad esempio nel momento dell’avanzamento di carriera o quando si tratta di dover scegliere un presidente di tribunale o un procuratore, si scopre che quasi tutti, il 99% appunto, sono caratterizzati da giudizi estremamente lusinghieri. Ciò stride con le cronache che quotidianamente, invece, descrivono episodi di mala giustizia. In un sistema “sulla carta” composto da personale estremamente qualificato, imparziale e scrupoloso non dovrebbero, di norma, verificarsi errori giudiziari se non in numeri fisiologici. La realtà, come è noto, è ben diversa. Qualche mese fa, parlando proprio delle vittime di errori giudiziari e degli indennizzi che ogni anno vengono liquidati, l’allora vice ministro della Giustizia Enrico Costa, parlò di «numeri che non possono essere considerati fisiologici ma patologici». Ma il problema è anche un altro. Nel caso, appunto, della scelta di un direttivo, è estremamente arduo effettuare una valutazione fra magistrati che presentato le medesime, ampiamente positive, valutazioni di professionalità. Si finisce per lasciare inevitabilmente spazio alla discrezionalità. Sul punto anche il vice presidente del Csm Giovanni Legnini è d’accordo, in particolar modo quando un magistrato è stato oggetto di una condanna disciplinare. «Propongo al Comitato di presidenza di aprire una pratica per approfondire i rapporti fra la sanzione disciplinare e il conferimento dell’incarico direttivo o la conferma dell’incarico». Alcuni consiglieri hanno, però, sottolineato che l’1% di giudizi negativi sono comunque tanti. Si tratta di 90 magistrati su 9000, tante sono le toghe, che annualmente incappano in disavventure disciplinari. Considerato, poi, che l’attuale sistema disciplinare è in vigore da dieci anni, teoricamente sarebbero 900 le toghe ad oggi finite dietro la lavagna. Un numero, in proporzione elevato, ma che merita una riflessione attenta. Il Csm è severo con i giudici che depositano in ritardo una sentenza ma è di “manica larga” con il pm si dimentica un fascicolo nell’armadio facendolo prescrivere.

Solo un rimbrotto per il pm che "scorda" l'imputato in galera, scrive Rocco Vazzana il 30 novembre 2016 su "Il Dubbio".  Il Csm ha condannato 121 magistrati in due anni. Ma si tratta di sanzioni molto leggere. Centoventuno condanne in più di due anni. È il numero di sanzioni che la Sezione Disciplinare del Csm ha irrogato nei confronti di altrettanti magistrati. Il dato è contenuto in un file che in queste ore gira tra gli iscritti alla mailing list di Area, la corrente che racchiude Md e Movimenti. Su 346 procedimenti definiti - dal 25 settembre 2014 al 30 novembre 2016 - 121 si sono risolti con una condanna (quasi sempre di lieve entità), 113 sono le assoluzioni, 15 le «sentenze di non doversi procedere» e 124 le «ordinanze di non luogo a procedere». L'illecito disciplinare riguarda «il magistrato che manchi ai suoi doveri, o tenga, in ufficio o fuori, una condotta tale che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere, o che comprometta il prestigio dell'ordine giudiziario». Le eventuali condanne hanno una gradazione articolata in base alla gravità del fatto contestato. La più lieve è l'ammonimento, un semplice «richiamo all'osservanza dei doveri del magistrato», seguito dalla censura, una formale dichiarazione di biasimo. Poi le sanzioni si fanno più severe: «perdita dell'anzianità» professionale, che non può essere superiore ai due anni; «incapacità temporanea a esercitare un incarico direttivo o semidirettivo»; «sospensione dalle funzioni», che consiste nell'allontanamento con congelamento dello stipendio e con il collocamento fuori organico; fino arrivare alla «rimozione» dal servizio. C'è poi una sanzione accessoria che riguarda il trasferimento d'ufficio. Per questo, la sezione Disciplinare può essere considerata il cuore dell'autogoverno. Perché se il Csm può promuovere può anche bloccare una carriera: ai fini interni non serve ricorrere alle pene estreme, basta decidere un trasferimento. E a scorrere il file con le statistiche sui procedimenti disciplinari salta immediatamente all'occhio un dato: su 121 condanne, la maggior parte (90) comminano una sanzione non grave (la censura) e 11 casi si tratta di semplice ammonimento. Le toghe non si accaniscono sulle toghe. La perdita d'anzianità, infatti, è stata inflitta solo a dieci magistrati (due sono stati anche trasferiti d'ufficio), mentre sette sono stati rimossi. Uno solo è stato trasferito d'ufficio senza ulteriori sanzioni, un altro è stato sospeso dalle funzioni con blocco dello stipendio, un altro ancora è stato sospeso dalle funzioni e messo fuori organico. Ma il dato più interessante riguarda le tipologie di illecito contestate. La maggior parte dei magistrati viene sanzionato per uno dei problemi tipici della macchina giudiziaria: il ritardo nel deposito delle sentenze, quasi il 40 per cento dei "condannati" è accusato di negligenze reiterate, gravi e ingiustificate. Alcuni, però, non si limitano al ritardo: il 4 per cento degli illeciti, infatti, riguarda «provvedimenti privi di motivazione», come se si trattasse di un disinteresse totale nei confronti degli attori interessati. Il 23 per cento delle condanne, invece, riguarda una questione che tocca direttamente la vita dei cittadini: la ritardata scarcerazione. E in un Paese in cui si ricorre facilmente allo strumento delle misure cautelari, questo tipo di comportamento determina spesso anche il peggioramento delle condizioni detentive. Quasi il 10 per cento dei giudici e dei pm è stato sanzionato poi per «illeciti conseguenti a reato». Solo il 6,6 per cento delle condanne, infine, è motivato da «comportamenti scorretti nei confronti delle parti, difensori, magistrati, ecc.. ».

Truccati anche i loro concorsi. I magistrati si autoriformino, scrive Sergio Luciano su “Italia Oggi”. Numero 196 pag. 2 del 19/08/2016. Il Fatto Quotidiano ha coraggiosamente documentato, in un'ampia inchiesta ferragostana, le gravissime anomalie di alcuni concorsi pubblici, tra cui quello in magistratura. Fogli segnati con simboli concordati per rendere identificabile il lavoro dai correttori compiacenti pronti a inquinare il verdetto per assecondare le raccomandazioni: ecco il (frequente) peccato mortale. Ma, più in generale, nell'impostazione delle prove risalta in molti casi – non solo agli occhi degli esperti – la lacunosità dell'impostazione qualitativa, meramente nozionistica, che soprattutto in alcune professioni socialmente delicatissime come quella giudiziaria, può al massimo – quando va bene – accertare la preparazione dottrinale dei candidati ma neanche si propone di misurarne l'attitudine e l'approccio mentale a un lavoro di tanta responsabilità. Questo genere di evidenze dovrebbe far riflettere. E dovrebbe essere incrociato con l'altra, e ancor più grave, evidenza della sostanziale impunità che la casta giudiziaria si attribuisce attraverso l'autogoverno benevolo e autoassolutorio che pratica (si legga, al riguardo, il definitivo I magistrati, l'ultracasta, di Stefano Livadiotti).

Ora parliamo degli avvocati. C’è il caso per il quale l’informazione abbonda, ma manca la sanzione.

Un "fiore" da 20mila euro al giudice e il processo si aggiusta. La proposta shock di un curatore fallimentare a un imprenditore. Che succede nei tribunali di Taranto e Potenza? Scrivono di Giusi Cavallo e Michele Finizio, Venerdì 04/11/2016 su “Basilicata 24". L’audio che pubblichiamo, racconta in emblematica sintesi, le dinamiche, di quello che, da anni, sembrerebbe un “sistema” illegale di gestione delle procedure delle aste fallimentari. I fatti riguardano, in questo caso, il tribunale di Taranto. I protagonisti della conversazione nell’audio sono un imprenditore, Tonino Scarciglia, inciampato nei meccanismi del “sistema”, il suo avvocato e il curatore fallimentare nominato dal Giudice.

Aste e tangenti, studio legale De Laurentiis di Manduria nell’occhio del ciclone, scrive Nazareno Dinoi il 9 e 10 novembre 2016 su “La Voce di Manduria”. C’è il nome di un noto avvocato manduriano nell’inchiesta aperta dalla Procura della Repubblica di Taranto sulle aste giudiziarie truccate. Il professionista (che non risulta indagato), nominato dal tribunale come curatore fallimentare di un azienda in dissesto, avrebbe chiesto “un fiore” (una mazzetta) da ventimila euro ad un imprenditore di Oria interessato all’acquisto di un lotto che, secondo l’acquirente, sarebbero serviti al giudice titolare della pratica fallimentare. Questo imprenditore che è di Oria, rintracciato e intervistato ieri da Telenorba, ha registrato il dialogo avvenuto nello studio legale di Manduria in cui l’avvocato-curatore avrebbe avanzato la richiesta “del fiore” da 20mila euro. Tutto il materiale, compresi i servizi mandati in onda dal TgNorba, sono stati acquisiti ieri dalla Guardia di Finanza e dai carabinieri di Taranto.

I presunti brogli nella gestione dei fallimenti. «Infangata la giustizia per scopi elettorali». Il presidente dell’Ordine degli Avvocati, Vincenzo Di Maggio, attacca il M5S: preferisce il sensazionalismo all’impegno per risolvere i problemi, scrive il 15 novembre 2016 Enzo Ferrari Direttore Responsabile di "Taranto Buona Sera". «Ma quale difesa di casta, noi come avvocati abbiamo soltanto voluto dire che il Tribunale non è un luogo dove si ammazza la Giustizia». Vincenzo Di Maggio, presidente dell’Ordine degli Avvocati, torna sulla polemica che ha infiammato gli operatori della giustizia negli ultimi giorni: l’interpellanza di un nutrito gruppo di senatori Cinquestelle su presunte nebulosità nella gestione delle procedure fallimentari ed esecutive al Tribunale di Taranto.

«Fallimenti ed esecuzioni, le procedure sono corrette». Documento delle Camere delle Procedure Esecutive e delle Procedure Concorsuali, scrive "Taranto Buona Sera” il 10 novembre 2016. Prima l’interrogazione parlamentare del M5S su presunte anomalie nella gestione delle procedure fallimentari, a scapito di chi è incappato nelle procedure come debitore; poi il video della registrazione di un incontro che sarebbe avvenuto tra un imprenditore, il suo avvocato e un curatore fallimentare. Un video dagli aspetti controversi e dai contenuti comunque tutti da verificare. Un’accoppiata di situazioni che ha destato clamore e che oggi fa registrare la netta presa di posizione della Camera delle Procedure Esecutive Immobiliari e della Camera delle Procedure Concorsuali. In un documento congiunto, i rispettivi presidenti, gli avvocati Fedele Moretti e Cosimo Buonfrate, fanno chiarezza a tutela della onorabilità dei professionisti impegnati come curatori e custodi giudiziari ed esprimendo piena fiducia nell’operato dei magistrati.

Taranto, rimborsi non dovuti. Procura indaga sugli avvocati. Riflettori accesi su 93mila euro spesi tra il 2014 e il 2015 dopo un esposto del Consiglio, scrive Mimmo Mazza su “La Gazzetta del Mezzogiorno” dell’11 aprile 2016. Finiscono all’attenzione della Procura della Repubblica i conti dell’Ordine degli avvocati di Taranto. A rivolgersi alla magistratura è stato lo stesso Consiglio, presieduto da Vincenzo Di Maggio, dopo che sarebbero emerse irregolarità contabili riguardanti le anticipazioni e i rimborsi alle cariche istituzionali nell’anno 2014, l’ultimo da presidente per Angelo Esposito, ora membro dal Consiglio nazionale forense. Il fascicolo è stato assegnato al sostituto procuratore Maurizio Carbone, l’ipotesi di reato è quella di peculato essendo l’Ordine degli avvocati ente di diritto pubblico (altrimenti si procederebbe per appropriazione indebita, ma il pm non sarebbe Carbone in quanto quest’ultimo fa parte del pool reati contro la pubblica amministrazione). Di questo se ne è parlato agli inizi, perché l’esposto era dello stesso Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, ma poi nulla si è più saputo: caduto nell’oblio. Il silenzio sarà rotto, forse, dalla inevitabile prescrizione, che rinverdirà l’illibatezza dei presunti responsabili.

E poi c’è il caso, segnalato da un mio lettore, di una eccezionale sanzione emessa dalla magistratura tarantina e taciuta inopinatamente da tutta la stampa.

La notizia ha tutti i crismi della verità, della continenza e dell’interesse pubblico e pure non è stata data alla pubblica opinione.

Il caso di cui trattasi si riferisce ad un esposto di un cittadino, presentato al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto contro un avvocato di quel foro per infedele patrocinio, di cui già pende giudizio civile.

Ma facciamo parlare gli atti pubblicabili.

L’11 maggio 2012 viene presentato l’esposto, il 3 aprile 2013 con provvedimento di archiviazione, pratica 2292, si emette un documento in cui si dichiara che il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Taranto delibera la sua archiviazione in quanto “non risultano elementi a carico del professionista tali da configurare alcuna ipotesi di infrazione disciplinare”. L’atto è sottoscritto il 17 novembre 2014, nella sua copia conforme, dall’avv. Aldo Carlo Feola, Consigliere Segretario. Mansione che il Feola ricompre da decenni.

Fin qui ancora tutto legittimo e, forse, anche, opportuno.

E’ successo che, con procedimento penale 2154/2016 R.G.N.R. Mod. 21, il 3 ottobre 2016 (depositata il 6) il Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, dr Maurizio Carbone, chiede il Rinvio a Giudizio dell’avv. Aldo Carlo Feola, difeso d’ufficio, “imputato del delitto di cui all’art. 476 c.p. (falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici), perché, in qualità di Consigliere con funzione di Segretario del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, rilasciava copia conforme all’originale della delibera datata 3 aprile 2013 del Consiglio, con la quale si disponeva di non dare luogo ad apertura di procedimento disciplinare nei confronti dell’avv. Addolorata Renna, con conseguente archiviazione dell’esposto presentato nei suoi confronti da Blasi Giuseppe. Provvedimento di archiviazione risultato in realtà inesistente e mai sottoscritto dal Presidente del Consiglio dell’Ordine di Taranto. In Taranto il 17 novembre 2014.”

Il Giudice per le Indagini Preliminari, con proc. 6503/2016, il 21 novembre 2016 fissa l’Udienza Preliminare per il 12 dicembre 2016 e poi rinvia per il Rito Abbreviato per il 10 aprile 2017 con interrogatorio dell’imputato ed audizione del teste, con il seguito.

Il Giudice per l’Udienza Preliminare, dr. Pompeo Carriere, il 16 ottobre 2017 con sentenza n. 945/2017 “dichiara Feola Aldo Carlo colpevole del reato ascrittogli, e, riconosciute le circostanze attenuanti generiche, e applicata la diminuente per la scelta del rito abbreviato, lo condanna alla pena di cinque mesi e dieci giorni di reclusione, oltre al pagamento delle spese del procedimento. Pena sospesa per cinque anni, alle condizioni di legge, e non menzione. Visti gli artt. 538, 539, 541 c.p.p., condanna Feola Aldo Carlo al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile, da liquidarsi in separato giudizio, nonché alla rifusione delle spese processuali dalla medesima sostenute, che si liquidano in complessivi euro 3.115,00 (tremilacentoquindici) oltre iva e cap come per legge”.

Da quanto scritto è evidente che ci sia stata da parte della stampa una certa ritrosia dal dare la notizia. Gli stessi organi di informazione che sono molto solerti ad infangare la reputazione dei poveri cristi, sennonchè non ancora dichiarati colpevoli.

Travaglio: “I giornali a Taranto non scrivono nulla perchè sono comprati dalla pubblicità”. “E’ vero, ma non per tutti…” Lettera aperta al direttore de IL FATTO QUOTIDIANO, dopo il suo intervento-show al Concerto del 1 maggio 2015 a Taranto, di Antonello de Gennaro del 2 maggio 2015 su "Il Corriere del Giorno". "Caro Travaglio, come non essere felice nel vedere Il Fatto Quotidiano, quotidiano libero ed indipendente da te diretto, occuparsi di Taranto? Lo sono anche io, ma nello stesso tempo, non sono molto soddisfatto della tua “performance” sul palco del Concerto del 1° maggio di Taranto. Capisco che non è facile leggere il solito “editoriale”, senza il solito libretto nero che usi in trasmissione da Michele Santoro, abitudine questa che deve averti indotto a dire delle inesattezze in mezzo alle tante cose giuste che hai detto e che condivido. Partiamo da quelle giuste. Hai centrato il problema dicendo: “A Taranto i giornali non scrivono nulla perchè sono comprati dalla pubblicità”. E’ vero e lo provano le numerose intercettazioni telefoniche contenute all’interno degli atti del processo “Ambiente Svenduto” e per le quali il Consiglio di Disciplina dell’Ordine dei Giornalisti di Puglia tergiversa ancora oggi nel fare chiarezza sul comportamento dei giornalisti locali coinvolti, cercando evidentemente di avvicinarsi il più possibile alla prescrizione amministrativa dei procedimenti disciplinari e salvarli”.

Comunque, a parte i distinguo di rito dalla massa, di fatto, però, nessuno di questa sentenza ne ha parlato.

In conclusione, allora, va detto che si è fatto bene, allora, ad indicare la notizia della condanna del Consigliere Segretario del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, come un fatto tra quelli che a Taranto son si osa dire…

Chi dice Terrone è solo un coglione. La sperequazione inflazionata di un termine offensivo come nota caratteristica di un popolo fiero. L’approfondimento del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, che sul tema ha scritto “L’Italia Razzista” e “Legopoli”.

Sui media spopola il termine “Terrone”. Usato dai razzisti del centro Nord Italia in modo dispregiativo nei confronti degli italiani del Sud Italia ed usati dai deficienti meridionali come caratteristica di vanto.

«Non è un reato dare dei terroni ai terroni, indi per cui i terroni sono terroni, punto. Arrivano dalla Terronia, terra di mezzo», diceva al telefono, parlando di un calabrese, una delle campionesse della Capitale Morale, quella Maria Paola Canegrati che smistava affarucci e mazzette per appalti nella Sanità, per circa 400 milioni di euro, a quanto è venuto fuori sinora. Naturalmente, lady Mazzetta, non sa che, invece, dire “terrone” con l'intento di offendere, è reato: ci sono sentenze, anche della Cassazione. Ma a lei deve sembrare un'ingiustizia! «Che cazzo ti devo dire, se adesso è un reato dare del terrone a un terrone, a 'sto punto qui io voglio diventare cittadina omanita»...., scrive Pino Aprile il 22 febbraio 2016.

«Io litigioso? È vero, ma sono migliorato… Mi chiamavano terun, africa, baluba, altro che non incazzarsi…» Dice Teo Teocoli in un intervista a Gian Luigi Paracchini il 22 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera".

Gli opinionisti del centro Italia “po’ lentoni” (lenti di comprendonio, anche se oggi l’epiteto, equivalente a “Terrone”, da rivolgere al settentrionale è “Coglione”) su tutti i media la menano sulla terronialità. Cioè l’usare il termine “terrone” come una parola neutra. Come se fossero un po’ tutti leghisti.

Scandali e le mani della giustizia sulla Lega Padania. Come tutti. Più di tutti. I leghisti continuano a parlare, anziché mettersi una maschera in faccia per la vergogna. Su di loro io, Antonio Giangrande, ho scritto un libro a parte: “Ecco a voi i leghisti: violenti, voraci, arraffoni, illiberali, furbacchioni, aspiranti colonizzatori. Non (ri)conoscono la Costituzione Italiana e la violano con disprezzo”. Molti di loro, oltretutto, sono dei meridionali rinnegati. Terroni e polentoni: una litania che stanca. Terrone come ignorante e cafone. Polentone come mangia polenta o, come dicono da quelle parti, po’ lentone: ossia lento di comprendonio. Comunque bisognerebbe premiare per la pazienza il gestore della pagina Facebook “Le perle di Radio Padania”, ovvero quelli che per fornire una “Raccolta di frasi, aforismi e perle di saggezza dispensate quotidianamente dall’emittente radiofonica “Radio Padania Libera” sono costretti a sentirsela tutto il giorno. Una gallery di perle pubblicate sulla radio comunitaria che prende soldi pubblici per insultare i meridionali.

Si perde se si rincorre il Sud come passato, si vince se il Sud è vissuto oggi come consapevolezza di non poterne fare a meno. Accettare di essere comunque meridionale e non terrone a qualunque latitudine. Il treno porta giù, un altro mezzo ti può portare in qualunque altro luogo senza farti dimenticare chi sei e da dove vieni. A chi appartieni? Così si dice al Sud quando ti chiedono chi sia la tua famiglia. È un'espressione meravigliosa: si appartiene a qualcuno, si appartiene anche ai luoghi che vivono dentro di te.

Essere orgogliosi di essere meridionali. Il meridionale non è migrante: è viaggiante con nostalgia e lascia il cuore nella terra natia.

Ciononostante i nordisti, anziché essere grati al contributo svolto dagli emigrati meridionali per il loro progresso sociale ed economico, dimostrano tutta la loro ingratitudine.

Mutuiamo il titolo del libro di Lino Patruno “Alla riscossa Terroni” e “Terroni” di Pino Aprile per farne un motivo di orgoglio meridionale che deve portarci ad invertire una tendenza che data 150 anni. Non rivendichiamo un passato di benessere del Meridione, rivendichiamo un presente migliore per un Sud messo alle corde.

I terroni nascono anche a Gemonio e nelle valli bergamasche, scrive "L'Inkiesta" il 6 aprile 2012. Leggendo le cronache, ma, soprattutto, vedendo le immagini, relative al marciume che sta venendo a galla dai sottoscala leghisti, mi par che si possa dire una grande verità: l'aggettivo spregiativo "terrone" non si può appioppare solo ai meridionali, ma, con grande precisione, anche ai miei conterronei nordici. Devo dire la verità. Io - nordico e fieramente antileghista da molto tempo - che le storie di Roma ladrona, dell'uccello duro, del barbarossa, dell'ampolla sul diopò (che, a dire il vero, mi par più una saracca che un rito), di riti celtici, di fazzolettini verdi come il moccio, erano tutte una rozza e ignorante presa per il culo per ammansire i buoi e farsi in comodo i sollazzi propri, ne ero convinto da tempo. Da ben prima che si svegliassero i soliti magistrati (verrà il giorno, in questo paese dei matocchi, che qualche rivoluzione la farò il popolo?), bastava un po' di fiuto per capire che il sottobosco era questo. Ma le vedete le facce del cerchio magico? Ma avete presente la pacchianità della villa di Gemonio? E poi, la priorità alla "family", come la più bieca usanza del troppo noto familismo amorale, perchè parlare di "famigghia" era troppo terrone. Ma il dato è che questi sono - culturalmente, esteticamente e antropologicamente - terroni. Perchè terrone, per me, non è un epiteto riferibile a una provenienza geografica I.G.P.; è uno stile deteriore di rappresentarsi, chiuso, retrivo, in cui il dialetto non è cultura, ma rozzume esibito con orgoglio (e questo vale tanto per i napoletani, quanto per i veneti), in cui prevale la logica del clan su quella della civile società, in cui si deve fare sfoggio dell'ignoranza perchè questo è "popolare". Terrone è un ignorante retrogrado, cafone, ineducato. Con il risultato che il Bossi e la family sprofondano, il terronismo impera e un peloso, stantio e pietistico meridionalismo riprende fiato. Grazie Bossi, grazie leghisti: avete ucciso non solo la dignità del nord, ma anche la speranza vera che una riforma moderna di questo paese, tenuto insieme con una scatarrata, si potesse fare. Ah, dimenticavo. Se qualcuno mi dovesse dire "parla lui, di ignoranza presentata con orgoglio.

Da che pulpito vien il sermone!", dico: "Non perdete tempo in analisi: son diverso e me ne vanto. Si vuol che dica che sono ignorante e delinquente. Bene lo sono, in un mondo di saccenti ed onesti mafiosi, sono orgoglioso di esser diverso.  Cosa concludere, di fronte a tali notizie di carattere storico? Questo: trovo triste che i nostri bravi leghisti rinneghino le proprie radici arabe, albanesi, meridionali, mediterranee. Da loro, così orgogliosi della Tradizione, non me lo aspettavo. Anzi dirò di più. Buon per loro avere origini meridionali, perchè ad essere POLENTONI si rischia di avere una considerazione minore che essere TERRONE.

Secondo Wikipedia Il termine polentone è un epiteto, con una connotazione negativa, utilizzato per indicare gli abitanti dell'Italia settentrionale. Origine e significato. Letteralmente significa mangiatore di polenta, un alimento, questo, storicamente molto diffuso nella cucina povera dell'Italia settentrionale. Fino ai primi anni del XX secolo, infatti, la polenta rappresentava l'alimento base, se non esclusivo, delle popolazioni del nord Italia (Lombardia, Veneto, Piemonte ecc.) con conseguenze nefaste sulla salute di molti soggetti spesso vittime della pellagra. Polentone, come stereotipo linguistico, ha assunto, quindi, un significato spregiativo, e sta ad indicare una persona zotica un pò lenta di comprendonio (po' lentone). Il termine si è inserito nella dialettica campanilistica fra abitanti del nord e del sud della penisola, essendo usato in contrapposizione all'appellativo terrone: ambedue le parole hanno connotazioni antietniche, tese a rimarcare una asserita inferiorità etnica e culturale. Lo stesso epiteto è utilizzato in Val Padana, soprattutto in Lombardia (pulentùn), per indicare una persona lenta e dai movimenti goffi e impacciati.

Analisi dei termini offensivi. Il termine polentone è un epiteto, con una connotazione negativa, utilizzato dagli abitanti dell'Italia meridionale per indicare gli abitanti dell'Italia settentrionale, scrive Wikipedia. Letteralmente significa mangiatore di polenta, un alimento, questo, storicamente molto diffuso nella cucina povera dell'Italia settentrionale. Fino ai primi anni del XX secolo, infatti, la polenta rappresentava l'alimento base, se non esclusivo, delle popolazioni del nord Italia (Lombardia, Veneto, Piemonte ecc.) purtroppo con conseguenze nefaste sulla salute di molti soggetti spesso vittime della pellagra, anche se li ha salvati da tante carestie alimentari. Polentone, come stereotipo linguistico, ha assunto, quindi, un significato spregiativo nell'Italia del Sud, e sta ad indicare una persona zotica. Il termine si è inserito nella dialettica campanilistica fra abitanti del nord e del sud della penisola, essendo usato in contrapposizione all'appellativo terrone: ambedue le parole hanno connotazioni antietniche, tese a rimarcare una asserita inferiorità etnica e culturale, anche se spesso usate solo in modo bonario. Lo stesso epiteto è utilizzato in Val Padana, soprattutto in Lombardia (pulentùn), per indicare una persona lenta di comprendonio (tonta) e dai movimenti goffi e impacciati.

La Padania o Patanìa (lett. Terra dei Patanari, coltivatori di patate) si estende in tutte le regioni del nord Italia: dalla Val d'Aosta alla Toscana fino al Friuli Venezia Giulia. È facile collocare geograficamente la Patanìa vera e pura: si traccia una retta che attraversa interamente il Po, passando rigorosamente al centro, perché solo la parte nord del Po è padana. La Padania si definisce anche Barbaria, cioè terra di barbari. Il mito di una terra popolata da eroi celtici, circondata da terribili barbari di matrice slava, è il concetto su cui si basa la Lega Nord. Trascurabile il dettaglio che un tempo la Padania fosse abitata da un'accozzaglia di popoli oltre ai Celti.

Terrone è un termine della lingua italiana, utilizzato dagli abitanti dell'Italia settentrionale e centrale come spregiativo per designare un abitante dell'Italia meridionale, talvolta anche in senso semplicemente scherzoso, scrive Wikipedia. In passato il termine era utilizzato con un altro significato e valenza; solo nel corso degli anni sessanta ha acquisito il senso attuale. Con il termine "terrone" (da teróne, derivazione di terra) si indicava nel XVII secolo un proprietario terriero, o meglio un latifondista. Già tra le Lettere al Magliabechi, l'erudito bibliotecario Antonio Magliabechi (1633-1714) il cui lascito, i cosiddetti Codici Magliabechiani costituiscono un prezioso fondo della Biblioteca Nazionale di Firenze, scriveva (CXXXIV -II - 1277): «Quattro settimane sono scrissi a Vostra Signoria illustrissima e l'informai del brutto tiro che ci fanno questi signori teroni di volerci scacciare dal partito delle galere, contro ogni equità e giustizia, già che ho lavorato tant'anni per terminarlo, e ora che vedano il negozio buono, lo vogliono per loro». Il termine in seguito fu utilizzato per denominare chi era originario dell'Italia meridionale e con particolare riferimento a chi emigrava dal Sud al Nord in cerca di lavoro, al pari dei nordici milanesi, etichettati come baggiani, che emigravano nelle valli del Bergamasco, come menzionato da Alessandro Manzoni. Il termine si diffuse dai grandi centri urbani dell'Italia settentrionale con connotazione spesso fortemente spregiativa e ingiuriosa e, come altri vocaboli della lingua italiana (quali villano, contadino, burino e cafone) stava per indicare "servo della gleba" e "bracciante agricolo" ed era riferita agli immigrati del meridione. Gli immigrati venivano quindi considerati, sia pure a livello di folklore, quasi dei contadini sottosviluppati. Il termine, che deriva evidentemente da "terra" con un suffisso con valore d'agente o di appartenenza (nel senso di persona appartenente strettamente alla terra) è stato variamente interpretato come frutto di incrocio fra terre (moto) e (meridi)one, come "mangiatore di terra" parallelamente a polentone, "mangiapolenta", cioè l'italiano del nord; come "persona dal colore scuro della pelle, simile alla terra" o anche come "originario di terre soggette a terremoti" ("terre matte", "terre ballerine"). Il suo maggiore utilizzo data comunque essenzialmente agli anni sessanta e settanta e limitatamente ad alcune zone del nord Italia, in seguito alla forte ondata di emigrazione di lavoratori e contadini del meridione d'Italia in cerca di lavoro verso le industrie del nord e in particolare del triangolo industriale (Genova – Milano – Torino). In tale ambito si spiega anche la diffusione del termine: storicamente, grossi movimenti di popolazioni hanno sempre portato con sé anche fenomeni di intolleranza o razzismo più o meno larvati. Successivamente, allo stesso modo è sorta la locuzione "terrone del nord", generalmente per indicare gli italiani del nord-est (principalmente i veneti, detti "boari"), che per ragioni simili cominciarono negli stessi anni ad emigrare verso il nord-ovest, venendo così accomunati agli emigranti meridionali. Il riconoscimento di terrone come insulto e non come termine folkloristico è un processo che storicamente ha subito molte battute d'arresto e incomprensioni, probabilmente dovute al fatto che solo una parte della popolazione italiana ne riconosceva pienamente la gravità e il suo carattere offensivo. La Corte di Cassazione ha ufficialmente riconosciuto che tale termine ha un'accezione offensiva, confermando una sentenza del Giudice di Pace di Savona e confermando che la persona che l'aveva pronunciata dovesse risarcire la persona offesa dei danni morali. Spesso vengono associati a questo epiteto caratteristiche personali negative, tra le quali ignoranza, scarsa voglia di lavorare, disprezzo di alcune norme igieniche e soprattutto civiche. Analogamente, soprattutto in alcune accezioni gergali, il termine ha sempre più assunto il significato di "persona rozza" ovvero priva di gusto nel vestire, inelegante e pacchiana, dai modi inurbani e maleducata, restando un insulto finalizzato a chiari intenti discriminatori. Inoltre vengono spesso associati al termine anche tratti somatici e fisici, come la carnagione scura, la bassa statura, le gote alte, caratteristiche fisiche storicamente preponderanti al Sud rispetto al Nord Italia.

In conclusione c’è da affermare che bisogna essere orgogliosi di essere meridionali. Il meridionale non è migrante: è viaggiante con nostalgia e lascia il cuore nella terra natia.

Chi proferisce ingiurie ad altri o a se stesso con il termine terrone non resta che rispondergli: SEI SOLO UN COGLIONE.

Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.

LA BALLA DELLA SPEREQUAZIONE FINANZIARIA DELLE REGIONI DEL NORD A FAVORE DI QUELLE DEL SUD.

In Regione Lombardia non tornano 54 miliardi di tasse versate. (Lnews - Milano 06 settembre 2017). "La Lombardia è la regione che versa più tasse allo Stato ricevendo, in cambio, meno trasferimenti in termini di spesa pubblica. In questi anni, infatti, il residuo fiscale della Lombardia ha raggiunto la cifra record di 54 miliardi (fonte: Eupolis Lombardia). Si tratta del valore in assoluto più alto tra tutte le regioni italiane. Un'immensità anche a livello europeo se si pensa che due regioni tra le più industrializzate d'Europa come la Catalogna e la Baviera hanno rispettivamente un residuo fiscale di 8 miliardi e 1,5 miliardi". Lo scrive una Nota pubblicata oggi dal sito lombardiaspeciale.regione.lombardia.it.

RESIDUO FISCALE - "Con il termine residuo fiscale - spiega la Nota - s'intende la differenza tra quanto un territorio verso allo Stato sotto forma di imposte e quanto riceve sotto forma di spesa pubblica. Se il residuo fiscale abbia segno positivo, il territorio versa più di quanto riceve; se c'è un residuo negativo il territorio riceve più di quanto versa. Secondo James McGill Buchanan Jr, premio Nobel per l'Economia nel 1986, cui si attribuisce la paternità della definizione, il trattamento che lo Stato riserva ai cittadini può considerarsi equo se determina residui fiscali minimi in capo a individui, a prescindere dal territorio nel quale risiedono. Differenze marcate denotano una violazione dei principi di equità basilari".

I DATI PER REGIONE - "Dopo la Lombardia - appunta il teso - si colloca l'Emilia Romagna, con un residuo fiscale di 18.861 milioni di euro. Seguono Veneto (15.458 mln), Piemonte (8.606 mln), Toscana (5.422 mln), Lazio (3.775 mln), Marche (2.027 mln), Bolzano (1.100 mln), Liguria (610 mln), Friuli Venezia Giulia (526 mln), Valle d'Aosta (65 mln). In coda alla classifica: Umbria (-82 mln), Molise (-614 mln), Trento (-249 mln), Basilicata (-1.261 mln), Abruzzo (-1.301 mln), Sardegna (-5.262 mln), Campania (-5.705 mln), Calabria (-5.871 mln), Puglia (-6.419 mln) e Sicilia (-10.617 mln)".

IL DATO PRO CAPITE - Anche per quanto riguarda il residuo fiscale pro capite, la Lombardia presenta i valori più alti d'Italia, con 5.217 euro. Seguono Emilia Romagna (4.239), Veneto (3.141), Provincia Autonoma di Bolzano (2.117), Piemonte (1.950), Toscana (1.447), Marche (1.310), Lazio (641), Valle d'Aosta (508), Friuli Venezia Giulia (430), Liguria (386), Umbria (-92), Provincia Autonoma di Trento (-464), Campania (-974), Abruzzo (-979), Puglia (-1.572), Molise (-1.963), Sicilia (-2.089), Basilicata (-2.192), Calabria (-2.975) e Sardegna (-3.169)", spiega la Nota pubblicata.

Da sempre i giornali e le tv nordiste, spalleggiate dagli organi d’informazione stataliste, ce la menano sul fatto che ci sia un grande disavanzo finanziario tra le regioni del centro-nord ricco e le regioni povere del sud Italia. I conti, fatti in modo bizzarro, rilevano che il centro-nord paga molto di più di quanto riceva e che la differenza vada in solidarietà a quelle regioni che a loro volta sono votate allo spreco ed al ladrocinio. A fronte di ciò, i settentrionali, hanno deciso che è meglio tagliare quel cordone ombelicale e lasciar cadere quella zavorra che è il sud Italia. Ed il referendum secessionista è stato organizzato per questo, facendo leva sull’ignoranza della gente.

Ora facciamo degli esempi scolastici che si studiano negli istituti tecnici commerciali, per dimostrare di quanta malafede ed ignoranza sia propagandato questo referendum.

Una partita iva, persona o società, registra in contabilità la gestione e versa tasse, imposte e contributi nel luogo della sede legale presso cui redige i suoi bilanci semplici o consolidati (gruppi d’impreso con un capogruppo).

Il Centro-Nord Italia, con la Lombardia ed il Lazio in particolare, è territorio privilegiato per eleggere sede legale d’azienda, per la vicinanza con i mercati europei. Dove c’è sede legale vi è iscrizione al registro generale dell’imprese. Ergo: sede di versamento fiscale che alimenta quei numeri, oggetto di nota della Regione Lombardia. Quei dati, però, spesso, nascondono la ricchezza prodotta al sud (stabilimenti, appalti, manodopera, ecc.), ma contabilizzata al nord.

E’ risaputo che nel centro-nord Italia hanno stabilito le loro sedi legali le più grandi aziende economiche-finanziarie italiane e lì pagano le tasse. Il Sud Italia è di fatto una colonia di mercato. Di là si produce merce e lavoro (e disinformazione), di qua si consuma e si alimenta il mercato.

E’ risaputo che le aziende del centro nord appaltano i grandi lavori pubblici, specialmente se le aziende del sud Italia le fanno chiudere con accuse artefatte di mafiosità.

E’ risaputo che al nord il costo della vita è più caro e questo si trasforma proporzionalmente in reddito maggiorato rispetto ai cespiti collegati, come quelli immobiliari.

Il residuo fiscale era tollerato e l’assistenzialismo era alimentato, affinchè il mercato meridionale non cedesse e le aziende del nord potessero continuare a produrre beni e servizi e ad alimentare ricchezza nell’Italia settentrionale, condannando il sud ad un perenne sottosviluppo e terra di emigrazione.

Oggi lo Stato centralista assorbe tutta la ricchezza nazionale prodotta e l'assistenzialismo si è bloccato, ma il sud Italia continua ad essere un mercato da monopolizzare da parte delle aziende del Centro-Nord Italia. Una eventuale secessione a sfondo razzista-economica votata dai nordisti sarebbe un toccasana per i meridionali, che imporrebbero diversi rapporti commerciali, imponendo dei dazi od altre forme di limitazioni alle merci del nord. Il maggior costo di beni e servizi del nord Italia favorirebbe la nascita nel sud Italia di aziende, favorite economicamente dal minor costo della mano d’opera del posto e delle spese di trasporto e logistica locale. Inoltre quello che produce il centro nord è acquisibile su altri mercati. Quello che si produce al Sud Italia è peculiare e da quel mercato, per forza, bisogna attingere e comprare...

Quindi, viva il referendum…secessionista 

A votare per questo referendum sono andati i mona. Questo l'ha detto lei, ma è vero". Risponde così il 24 ottobre 2017 all'intervistatore del programma Morning Showdi di Radio Padova il milanese Oliviero Toscani, il noto fotografo già protagonista, nel recente passato, di polemiche sui "veneti popolo di ubriaconi". "Sono andati a votare quattro contadini - rincara la dose - che non parlano neanche l'italiano". E ancora: "Nelle campagne la gente è isolata, incestuosa e vota queste cagate qua". Per lo stesso Toscani, invece, a non votare è stata "la minoranza intellettuale". Così il fotografo, maestro della provocazione, ritorna ad aprire una ferita solo apparentemente chiusa che aveva portato a querele all'epoca degli “imbriagoni”. Nell'intervista radiofonica sui referendum ha anche evidenziato un confronto con la Lombardia dove la percentuale di voto è stata minore. «Non a caso Milano - ha rilevato - è la prima città d'Italia per intellighenzia, e non a caso Milano è una città piena di immigrati. Milano è fatta così, è civile. Mentre i contadini là, che non parlano neanche italiano, cosa vuoi che votino?».

Un referendum da presa per il culo. Il 22 ottobre 2017 si chiede ai cittadini interessati. “Volete essere autonomi e tenere per voi tutto l’incasso?” E’ logico che tutti direbbero sì, senza distinzione di ideologia o natali. Ed i quorum raggiunti sono fallimentari tenuto conto dell’interesse intrinseco del quesito.

Specialmente, poi, se è stato enfatizzato tanto dai giornali e le tv del Nord, comprese quelle di Berlusconi.

“Al di là dell’enorme spreco di soldi pubblici per organizzare due referendum buoni solo a fare un po’ di propaganda elettorale a spese dei contribuenti, ha evidenziato il trionfo dell’egoismo di chi è più ricco e pensa di poter vivere meglio mantenendo sul territorio le risorse derivante dalle imposte dopo aver beneficiato per decenni di aiuti statali e del sostegno dello Stato”. Lo ha detto il consigliere regionale dei Verdi della Campania, Francesco Emilio Borrelli, per il quale “la Lega ha mostrato, ancora una volta, il suo vero volto che è fatto di odio verso il Sud e i meridionali”.

“Così come ha ricordato anche Prodi, chiedere ai cittadini se vogliono pagare meno tasse ancora una volta a danno dei meridionali è come un invito a nozze che non si può rifiutare, ma il problema è che, per chiederlo, in questo caso, Zaia e Maroni hanno speso milioni di euro di soldi pubblici per farlo” ha aggiunto Borrelli chiedendo ai cittadini lombardi e veneti: “Visto come sprecano i vostri soldi e come hanno speso, in passato, quelli, sempre pubblici, per il finanziamento ai partiti, siete proprio sicuri di volergliene affidare ancora di più?” “La Regione Campania viene privata ogni anno di 250 milioni di euro che vengono sottratti ai servizi sanitari e ai nostri concittadini perché considerata la regione più giovane d’Italia e grazie a una norma introdotta dai governatori leghisti e mai tolta” ha continuato Borrelli, sottolineando che “ogni anno la sola Campania viene depredata di centinaia di milioni di euro di fondi che invece vengono destinati al ricco Nord senza alcuna reale motivazione”. “La Rampa” 23 ottobre 2017.

In Italia conviene non fare nulla e non avere nulla, perché se hai o fai si fotte tutto lo Stato, per dare il tuo, non a chi è bisognoso, ma a chi non sa o non fa un cazzo. Cioè ai suoi amici o ai suoi scagnozzi professionisti corporativi.

L’Italia uccisa dai catto-comunisti, scrive Andrea Pasini il 30 ottobre 2017 su “Il Giornale”. Il comunismo ha ucciso l’Italia. “Max Horkheimer fornì d’altra parte, al termine della sua vita, con una sorprendete confessione, la spiegazione di questa incapacità di analisi da parte dei membri della scuola di Francoforte: riconobbe infatti con dolore che il marxismo aveva preparato il Sistema, che esso ne era responsabile allo stesso titolo dell’ideologia liberale borghese, in quanto la sua visione del mondo si fonda ugualmente su un progetto mondiale economicista e messianico”. Guillaume Faye, all’interno dello scritto "Il sistema per uccidere i popoli", recentemente ripubblicato dai tipi di Aga Editrice, ha fotografato l’evolversi delle idee forti provenienti dal diciannovesimo secolo. Loro ci odiano, odiano il nostro Paese, ma guardandosi allo specchio non possono fare a meno di odiarsi a loro volta. Una spirale senza fine, laddove astio, animosità ed acredini bruciano la base solida di questa nazione. Vittorio Feltri, in un animoso e vitale articolo apparso qualche anno fa sulle colonne di Libero, scrisse: “Gli stessi comunisti si vergognano di esserlo stati, ma la mentalità pauperistica è rimasta e non ha cessato di provocare danni. Risultato: in Italia è impossibile fare impresa o artigianato, aprire un’azienda, essere liberi professionisti senza essere considerati sfruttatori, evasori fiscali se non addirittura ladri”.

Proprio per questo motivo, ogni giorno, metto in campo tutte le mie energie al fine di stoppare, innanzitutto fisicamente, un oblio vertiginoso. Anche questo è il mio dovere in qualità di imprenditore. Lo Stato è in pericolo, la franata negli ultimi decenni è stata infausta. Ma davanti al fatalismo che attanaglia i popoli dobbiamo mettere in campo la nostra fede. Gli uomini di fede, uomini animati da un ardire che non conosce limiti, fanno paura ai catto-comunisti colpevoli di aver ridotto in cenere le speranze del domani. L’avvenire non sarà mai rosso di colore. Tornando ai piedi dello scrittore francese Faye leggiamo: “Gli intellettuali confessano, come Débray o Lévy, di fare oramai solamente della morale e non importa più che la loro verità si opponga alla realtà. La ragione ammette di non aver più ragione”. Il paradosso del marxismo 160 anni dopo. La ragione aveva torto scomodando, il sempre attuale, Massimo Fini. Ora conta credere, ciò che importa è come e quello che si fa per invertire la rotta, per non perdere il timone. Il Paese suona il corno e ci chiama a raccolta. Impossibile, a pochi giorni dal centenario di Caporetto, non rispondere, con tutto il proprio animo in tensione, presente.

In questo rimpallo, tra menti eccelse, contro il dominio sinistrato del presente e del futuro passiamo, nuovamente, la palla a Feltri: “E anche lo Stato, influenzato da alcuni partiti di ispirazione marxista, non aiuta con tutta una serie di vincoli burocratici, lacci e lacciuoli. E i sindacati hanno completato l’opera, contribuendo ad avvelenare i rapporti tra datore di lavoro e dipendenti, trasformando le fabbriche in luoghi d’odio e di lotta violenta, per umiliare i padroni e il personale non ideologizzato”. La storia non scorre più è tutto fermo nella mente dei retrogradi. Si avvinghiano alla legge Fiano i talebani di quest’epoca, per fare il verso a "Il Primato Nazionale", dimenticandosi dei problemi reali dell’Italia. Burocrati, sordidi e grigi, in doppio petto che accoltellano il ventre molle dello stivale, una carta bollata dopo l’altra. Alzare lo sguardo e tornare a cantare, davanti alle manette rosse della coscienza, non è facile, ma abbiamo il compito di tornare a farlo. Considerando il detto, “il lupo perde il pelo, ma non il vizio”, associandolo con le profetiche lezioni di Padre Tomas Tyn, scopriamo che il comunismo non è sparito, anzi si è rafforzato ed ha trovato gli alleati nei cattolici “non praticanti”. Potrà sembrare un’assurdità, invece è la mera realtà.

L’indiscutibile commistione di progressismo e comunismo, spesso umanitario ed accatto, ha creato con l’unione di un cattolicesimo snaturato una via collegata direttamente con i diritti civili, che non interseca, mai e poi mai, la sua strada con i diritti sociali. Aborto, divorzio, pacs, dico, unioni civili, matrimoni gay e chi più ne ha più ne metta. Fanno tutto ciò che non serve per gli italiani, fanno tutto ciò che non serve per difendere le fasce deboli della nazione. Tanti nostri connazionali hanno abbracciato il nemico, sono diventati uno di loro, per questo dobbiamo denunciare gli errori di chi sfida il tricolore e salvare la Patria. Il peccato, originale e capitale, è insito nell’ideologia marxista e rappresenta il male che sta distruggendo il nostro Paese, senza dimenticare il liberismo a tutti i costi della generazione Macron. 

Milano, il paradosso: se la pena è la stessa per il giudice corrotto e per chi ha rubato una bottiglia di vino. Un noto avvocato, che ha svenduto sentenze tributarie in contenziosi da milioni di euro, grazie a vari sconti di pena ha concordato 4 anni in Appello. Quasi la stessa pena, 3 anni e 8 mesi, patteggiata in Tribunale per un reato da 8 euro, scrive Luigi Ferrarella il 30 ottobre 2017 su "Il Corriere della Sera”. Il problema è quando la combinazione dell’algebra giudiziaria, del tutto aderente alle regole, stride al momento di tirare la riga e, come risultato, fa patteggiare 3 anni e 8 mesi a chi ha rubato al supermercato una bottiglia di vino da 8 euro, mentre chi ha svenduto sentenze tributarie in contenziosi da milioni di euro esce dalla Corte d’Appello condannato a poco più: e cioè a pena concordata di 4 anni, ridotta rispetto ai 6 anni e 10 mesi del primo grado, che grazie allo sconto del rito abbreviato aveva già ridimensionato i teorici 10 anni iniziali. Luigi Vassallo è l’avvocato cassazionista che, nelle vesti di giudice tributario di secondo grado, alla vigilia di Natale 2015 fu fermato in flagranza di reato a Milano mentre intascava i primi 5.000 dei 30.000 euro chiesti ai legali di una multinazionale per intervenire su una collega di primo grado e «aggiustare» un contenzioso da milioni di euro. Due «corruzioni in atti giudiziari» nel giudizio immediato, e una «corruzione» e una «induzione indebita» nel successivo giudizio ordinario, lo avevano indotto ad accordarsi con il Fisco per 140.00 euro e a scegliere il rito abbreviato, il cui automatico sconto di un terzo gli aveva abbassato la prima sentenza a 4 anni e 8 mesi, e la seconda a 2 anni e 2 mesi. Per un totale, cioè un cumulo materiale, di 6 anni e 10 mesi. Ora in Appello arriva - come contemplato dalla recente legge in cambio del risparmio di tempo e risorse in teoria legato alla rinuncia difensiva a far celebrare il dibattimento di secondo grado - un altro sconto di un terzo, e si aggiunge già alla limatura di pena dovuta alla «continuazione» tra le 4 imputazioni delle due sentenze di primo grado riunite in secondo grado. Alla vigilia dell’udienza, dunque, l’avvocato Fabio Giarda rinuncia ai motivi d’appello diversi dal trattamento sanzionatorio, a fronte del sì del pg Massimo Gaballo all’accordo su una pena di 4 anni, ratificato dalla II Corte d’Appello presieduta da Giuseppe Ondei. Undici mesi Vassallo li fece in custodia cautelare (fra carcere e domiciliari), sicché non appare irrealistico l’agognato tetto dei 3 anni di pena da eseguire, sotto i quali potrà chiedere di scontarla in affidamento ai servizi sociali senza ripassare dal carcere. In Tribunale, invece, da detenuto arriva e da detenuto va via (senza sospensione condizionale della pena e senza attenuanti generiche) un altro imputato che nello stesso momento patteggia 3 anni e 8 mesi – quasi la stessa pena del giudice tributario – per aver rubato da un supermercato una bottiglia di vino da 8 euro e mezzo: il fatto però che avesse dato una spinta al vigilantes privato che all’uscita gli si era parato davanti, minacciandolo confusamente («non vedi i tuoi figli stasera») e agitando un taglierino, ha determinato il passaggio dell’accusa da «furto» a «rapina impropria», la cui pena-base è stata inasprita dai vari decreti-sicurezza, tanto più per chi come lui risulta «recidivo» a causa di due vecchi furti. Per ridurre i danni, il patteggiamento non scende a meno di 3 anni e 8 mesi. Quasi un anno di carcere per ogni 2 euro di vino.

AI MIEI TEMPI...AI MIEI TEMPI...

1. “La nostra gioventù ama il lusso, è maleducata, se ne infischia dell’autorità e non ha nessun rispetto per gli anziani. I ragazzi d’oggi sono tiranni. Non si alzano in piedi quando un anziano entra in un ambiente, rispondono male ai loro genitori...” 

2. “Non ho più speranza alcuna per l’avvenire del nostro Paese, se la gioventù d’oggi prenderà domani il comando, perché è una gioventù senza ritegno e pericolosa”.

3. “Il nostro mondo ha raggiunto uno stadio critico. I ragazzi non ascoltano più i loro genitori. La fine del mondo non può essere lontana”.

4. “Questa gioventù è guasta fino in fondo al cuore. Non sarà mai come quella di una volta. Quella di oggi non sarà capace di conservare la nostra cultura...” 

5. “Oggi i ragazzi amano troppo i propri comodi. Mancano di educazione, disprezzano l'autorità, i figli sono diventati tiranni anziché essere servizievoli. Contraddicono i genitori, schiamazzano, si comportano da maleducati con i loro maestri. Oggi il padre teme i figli. I figli si credono uguali al padre e non hanno né rispetto né stima per i genitori. Ciò che essi vogliono è essere liberi. Il professore ha paura degli allievi, gli allievi insultano i professori; i giovani esigono immediatamente il posto degli anziani; gli anziani, per non apparire retrogradi o dispotici, acconsentono a tale cedimento e, a corona di tutto, in nome della libertà e dell'uguaglianza, si reclama la libertà dei sessi”.

6. «In questi ultimi tempi, il mondo si è degenerato al di là di ogni immaginazione. La corruzione e la confusione sono diventate cose comuni. I figli non obbediscono più ai genitori e ormai non può che essere imminente la fine del mondo».

Di chi sono queste frasi? Di qualche scrittore contemporaneo? Di genitori o professori amareggiati d'oggi? No! Sentite!

La prima citazione è di Socrate, filosofo greco, che visse dal 469 al 399 prima di Cristo.

La seconda citazione è del poeta greco Esidio, vissuto 720 anni prima di Cristo. 

La terza citazione è di un sacerdote egiziano che viveva 2000 anni prima di Cristo. 

La quarta è stata scoperta recentemente in una cava di argilla tra le rovine di Babilonia, ed avrebbe più di 3000 anni.

Quanto alla quinta, è tolta dal libro VIII de "La Repubblica" di Platone, vissuto dal 428 al 347 prima di Cristo. 

La sesta è una tavoletta assira del 2.800.

Conclusione? Tutto quello che si dice o si scrive, è già stato detto o scritto.

PARLAR MALE DELL'ITALIA? LA GODURIA DEGLI ITALIANI.

"Quando me la prendo con i gufi, non dico che non si può parlare male del governo, ma che non si può parlare male dell’Italia. Se all’esterno raccontiamo che siamo un insieme di difficoltà come facciamo ad attrarre investimenti?". Lo ha detto a Palermo il premier Matteo Renzi a Palermo il 16 novembre 2016.

Parlare male dell’Italia è il nostro sport nazionale? Risponde Luciano Fontana il 13 febbraio 2017 su “Il Corriere della Sera”. "Caro direttore, si leggono sovente nella posta grandi elogi del sistema di comportamento e altro, solo all’estero, il peggio solo a noi ma non è così. Una signora russa che viene per lavori a casa mia l’altro giorno mi ha detto: «Grazie Italia, grazie Italia. In questi anni ho potuto curare e guarire mio figlio!». Ha ultimato inoltre l’acquisto di un appartamentino nel suo Paese. Insomma: «Italiani, brava gente». Valeria Forti, Milano".

Cara signora Forti. Parlare male dell’Italia è lo sport nazionale più diffuso, nella politica, nelle professioni, nella vita quotidiana. Il motto americano «Right or wrong, it’s my country» («giusto o sbagliato è il mio Paese») non ha mai avuto fortuna nella nostra discussione pubblica e privata. Ritrovare un po’ d’orgoglio di quello che siamo e di quello che siamo riusciti a fare dal dopoguerra in poi non sarebbe male. Il nostro sistema sanitario, lodato dalla signora russa, offre cure a tutti ed è certamente migliore, per tanti aspetti, di quelli di altri Paesi. Provate a chiedere a chi, non essendo ricco, ha dovuto rivolgersi a un ospedale americano. Così come possiamo essere orgogliosi non solo di quello che ci rende unici al mondo (paesaggio, arte, cultura, borghi storici) ma anche dei primati che abbiamo saputo conquistare nella moda, nel design, nella cucina, nella manifattura. Qui però dobbiamo fermarci e guardare all’altra faccia della medaglia. Il sistema sanitario italiano, spesso molto efficiente soprattutto al centro-nord, è lo stesso che a Nola lascia i pazienti sul pavimento, e offre quotidiani esempi di inefficienza, sprechi e corruzione. Ogni sondaggio sul Paese più desiderato al mondo dai turisti mette l’Italia al primo posto: perché allora non siamo mai primi negli arrivi e nei soggiorni, perché consideriamo gli stranieri solo persone a cui spillare il massimo dei soldi? Per non parlare di quanto poco ci occupiamo della tutela dell’ambiente e del territorio, di quanto sia bassa la competitività del nostro sistema economico e alte invece la corruzione e le complicazioni burocratiche, di come abbiamo aperto una voragine nei conti pubblici. Insomma abbiamo molti motivi per non essere contenti del nostro Paese. Non dobbiamo offenderci se qualcuno ce li ricorda. Ma oggi può essere uno di quei giorni in cui l’Italia «giusta o sbagliata» è il nostro Paese. E dunque ringraziare la signora russa che ci ricorda gli aspetti positivi.

Perché solo gli italiani (che vivono in Italia) possono parlar male dell'Italia? Scrive Daria Simeone, Mamma italiana a Londra, il 9/08/2015 15:27 su "Huffingtonpost.it". Una mia amica del cuore qualche tempo fa sosteneva che i rosiconi sono la peggiore specie. Seguita dai permalosi. Io le confessavo di essere molto permalosa e un po' rosicona. Per fortuna mi vuole bene e resterà mia amica. Dal basso della mia permalosità capisco i tanti italiani che diventano permalosi - e un po' rosiconi - quando ci toccano la "Madreh Patriah". L'ultima volta è capitato ieri sera. Ero su la Rambla del Poblenou a Barcellona in compagnia di amici e mendicanti. Una processione niente male, alcuni chiedevano 50 centesimi e portavano delle scarpe da ginnastica migliori delle mie. Comunque, siamo finiti a parlare di senzatetto. Notavo quanti ce ne fossero a Barcellona, ma anche a Roma e Milano. "Ah beh a Londra non ce ne sono perché con quel tempo di merda morirebbero di reumatismi" mi ha risposto prontamente un compatriota, prima ancora che tirassi in ballo la città in cui vivo. Così come i cani randagi che secondo un mio collega italiano non esistono in Inghilterra perché finiscono tritati nel Christmas pudding. Oppure quando si parla dei negozi che, dove sono nata io, non fanno orario continuato "perché da noi tra le 13 e le 17 fa caldo, se esci per andare in un negozio ti dissolvi al sole come un lemonissimo". E d'inverno? "Beh perché gli inglesi pensano solo a fare soldi, noi vogliamo pranzare tutti assieme come una vera famiglia che ha un tavolo su cui mangiare, mica come quei disadattati inglesi che mangiano sui divani". E la Svezia che ha i latte papas che possono prendersi un congedo di paternità proprio come le madri? "E vabbé, tanto poi si suicidano tutti da quelle parti". Un'altra cosa tipica è: "E comunque che palle questi expat che parlano male dell'Italia come se avessero trovato la terra promessa: bravi, restatevene pure lì". Oppure: "Qui si cerca di mettere l'Italia in cattiva luce per screditare Renzi". Italiani permalosi (come me), una cosa: Ma chi se ne importa di screditare Renzi. Anzi due: non è che il congedo di paternità, in Inghilterra o in Svezia, l'ho ottenuto io dopo estenuanti lotte e proteste in piazza. Non è un mio merito di cui mi posso vantare. E'un esempio, un buon esempio, a cui non farebbe male guardare. Ciò non toglie che ci sono cose del Regno Unito che mi hanno indignato, a parte il tempaccio intendo. Come il potere quasi mafioso degli agenti immobiliari, la regolamentazione del mercato del lavoro così liberale da essere spesso crudele. Su tante cose potremmo vantarci di essere migliori, ma non faremmo altro che il "gallo 'ncoppa 'a munnezza", tradotto: non possiamo usare le debolezze altrui per distrarre l'attenzione dalle nostre. Gli expat, poi, non è che smettono di essere italiani solo perché vivono altrove. Non sono alieni, non appartengono ad un'altra categoria umana. Non vi raccontano i fatti loro per screditare Renzi o l'Italia. L'Italia sono anche loro. E soprattutto, statene pur certi, quando c'è da difendere l'Italia dagli "attacchi dello Straniero" sono i primi a farlo.

a) perché solo gli italiani hanno il diritto di parlare male dell'Italia, non ci allarghiamo.

b) perché sono permalosi, proprio uguali uguali a voi.

c) perché per molti di loro la terra promessa è ancora l'Italia.

Degli italiani all’estero e di quelli in Italia, scrive Patrizia La Daga il 13 giugno 2016 su "Leultime20.it". Chi segue Leultime20.it da tempo sa bene che la sottoscritta risiede in Spagna, a Barcellona, ormai da molti anni. La condizione di espatriata, oltre alla passione per i libri e la cultura, ha fatto sì che nel 2012 nascesse questo sito, un modo per riavvicinarmi al mio Paese natale e alla sua lingua, nella quale tanto amo scrivere. Il mio vivere in terra straniera non è stato soltanto fonte di ispirazione di molti post, bensì mi ha aiutato ad avere una visione più ampia sul nostro Paese e in particolare sugli italiani. Un popolo che troppo spesso, purtroppo, appare pronto ad applaudire le mediocrità altrui e a rinnegare le eccellenze proprie. Questa scarsa autostima collettiva si accentua quando si parla degli italiani che vivono in Italia. La differenza tra gli italiani che risiedono in Patria e quelli all’estero, infatti, è spesso enorme e me ne sono resa conto soprattutto in questi ultimi mesi, grazie a un progetto dedicato ai connazionali nel mondo, che molti di voi forse già conoscono: il portale ItalianiOvunque.com Per sviluppare i contenuti del nuovo magazine online ho avuto modo di confrontarmi con centinaia di persone, sia attraverso interviste e colloqui individuali, che mediante conversazioni sui numerosi gruppi di Facebook e altri canali sociali riservati agli italiani all’estero. In tutti questi incontri ho potuto constatare che, a eccezione di una piccola percentuale di “delusi e incazzati” (passatemi il termine poiché “arrabbiati” non dava l’idea), chi vive lontano dall’Italia la ama di più e ne apprezza in misura maggiore la bellezza e la cultura. Facile, dirà qualcuno, chi non vive in Italia non è costretto a subire le innumerevoli mancanze che affliggono il nostro Paese. Malasanità, corruzione, amministrazioni cittadine inefficienti e chi ne ha più ne metta…Sì, è vero, gli italiani all’estero non vivono le situazioni di disagio dei concittadini in Patria, ma ne vivono altre, spesso molto più simili di quel che si crede e aggravate dall’essere stranieri. Perché l’erba del vicino poche volte è davvero più verde. La corruzione affligge la classe politica di mezzo mondo, le liste d’attesa per una visita medica sono lunghe in numerosi paesi stranieri, il sistema scolastico non è migliore per definizione all’estero, le città difficilmente raggiungono la bellezza di quelle italiane e il clima di alcune nazioni deprime persino i nativi. Gli italiani all’estero quando tornano in Italia trovano un paese pieno di problemi, è vero, ma sanno anche apprezzarne il valore. Cosa che molti residenti in Patria finiscono per dimenticare. Il cibo non è un dettaglio indifferente quando si parla di qualità della vita. E vi garantisco che per la maggior parte degli italiani all’estero avere a disposizione un supermercato italiano è un sogno ricorrente, ma non l’unico. Lo stile di vita, le abitudini, i libri, i film, la possibilità di partecipare agli eventi (culturali, musicali etc.) sono tutti aspetti che creano nostalgia tra gli espatriati. Perché gli italiani all’estero sono cittadini del mondo, non amano muri e confini, ma uno spazio nel cuore per la terra natale lo conservano sempre. Mi è anche capitato di confrontarmi con persone ostili, che invece di cercare di “fare comunità” per condividere il meglio di quello che il Paese può offrire, hanno deciso di distanziarsene quanto più possibile. Una scelta che fatico a comprendere, ma che rispetto, naturalmente. In genere, tuttavia, quando si presenta agli italiani all’estero un progetto che consente loro di raccontare le proprie esperienze, di ottenere informazioni, di accedere ai prodotti del proprio Paese e di creare una comunità, l’accoglienza è entusiasta. La cultura italiana, si tratti di quella legata al cibo e al made in Italy, ma anche alla storia, alla letteratura e all’arte, è un collante che dovrebbe unire tutti gli italiani nel mondo, ovunque essi risiedano. Perché non è giustificabile che spesso ci amino più gli stranieri di quanto sappiamo fare noi. Concludo questo post chiedendo un piacere a tutti voi lettori: se avete notizia di belle storie di italiani in Patria o all’estero, fatemele conoscere. Perché quella parte d’Italia che funziona, insieme agli italiani che la fanno funzionare o che le rendono onore all’estero, non meritano di restare nell’ombra.

L'ITALIA DEI CAMPANILI.

Giordano Bruno Guerri: l’Italia è una repubblica fondata sulla rimozione. Fratelli d'Italia non lo saremo mai, perché l'identità italiana è fondata sui conflitti di campanile. Ma per capire la storia non bisogna rimuovere i periodi considerati negativi, scrive Bruno Giurato il 28 Maggio 2016 su "L’Inkiesta”. L'identità storica e politica dell'Italia è fondata su due elementi base: la baruffa e la rimozione. 

La baruffa, perché la faziosità, il fare la guerra o le pernacchie (o meglio: la guerra e le pernacchie insieme) al vicino è una costante italiana che troviamo praticamente ovunque e da sempre. Un'occhiata allo splendido volume di Giancarlo Schizzerotto, Sberleffi di Campanile, da poco uscito per Olschki potrà confortare in questo giudizio: dai palii "di scherno" nella Toscana del Trecento, alle squadracce col manganello e l'olio di ricino, fino ai servizi completi dei partigiani post 45, comprensivi di rasatura e stupro alle repubblichine.

La rimozione perché, con altrettale regolarità, ogni nuova stagione politica è stata costruita sulla damnatio memoriae di quella precedente. Gli esempi di un'identità storica costruita sull'oblio forzato di quello che c'è stato prima sono anche questi moltissimi. Una perfetta -e perfino ovvia e noiosa nell'aderire a un modello- applicazione del concetto freudiano di "rimozione". La politica, la pubblicistica, la storiografia italiana sono spesso costruite su un fondo di appartenenza ideologica e identitaria che è l'esatto contrario della critica. E anche del pensiero.

Ma naturalmente ci sono delle eccezioni. Una di queste è Giordano Bruno Guerri. Individualista, libertario, vicino, da sempre e "de core", alle posizioni dei Radicali, ha ottenuto fama e successo come storico con la sua biografia del Giuseppe Bottai, il "ministro della cultura" del fascismo. Ora è il presidente della fondazione del Vittoriale con risultati, in termini di marketing culturale oltre che di valore scientifico, notevoli. L'argomento del nostro Dossier è l'occasione per fare due chiacchiere con lui sull'ineliminabile faziosità italiana.

In Russia, nella parata annuale sulla Piazza Rossa sfilano insieme le bandiere dello Zar, quelle dei Partito Comunista, quelle della Russia attuale. In Italia ogni stagione successiva si attua sulla rimozione della precedente.

«E invece sono sempre stato uno studioso di periodi storici "bui". Essendo bui bisogna illuminarli. Ma battute a parte in Italia c'è sempre la damnatio memoriae del passato, dai Guelfi e Ghibellini a mille divisioni, fino ai campanili e allo sport. Ma per capire l'origine di queste contrapposizioni in ogni aspetto dello scibile umano dobbiamo risalire alle divisioni delle città comunali: un confine ogni dieci chilometri».

Un sistema di potere labirintico.

«L'Imperatore, il Re, quando non tutti e due. E poi il Papa, i feudatari. Il cittadino doveva soggiacere a un sacco di poteri in contrasto. Tutto questo ha provocato la nostra divisione su tutto».

Quindi in Italia finiamo per non conoscere la storia, perché ne rimuoviamo una parte, oscurandola, ad ogni cambio di epoca?

«Esattamente. Abbiamo un milione di esempi».

Ecco, un esempio?

«Il brigantaggio meridionale. Per un secolo e mezzo ci hanno raccontato il Risorgimento come una passeggiata trionfale, e il brigantaggio come una serie di episodi di criminalità pura. E invece il brigantaggio, bisognerà dirlo, è stato una forma di resistenza a un invasore».

I Borboni non erano il male assoluto, quindi?

«Certamente avevano delle forme di governo piuttosto arcaiche. Ma avevano anche non poche forme di tollarenza e di viver civile. Erano lo stato che non faceva guerre. Avevano una grande flotta mercantile, delle industrie e una buona riserva di danaro, che venne saccheggiata dall'Italia del Nord: lo stato unitario certamente depredò il Sud, che venne risarcito dopo decenni e decenni. Ma vorrei farle un caso più recente».

Quale?

«Naturalmente il fascismo. Che si è cominciato a studiare dopo decenni, con Renzo De Felice, e anche con i miei lavori, solo nel 1976. Con il libro di De Felice sul consenso si è cominciato ad ammettere che gli italiani erano in buona parte fascisti. E con il mio libro su Bottai si cominciò ad ammettere che esisteva una cultura fascista. Adesso, quarant'anni dopo, al museo di Salò, ho ritenuto opportuno far allestire una mostra sul culto del Duce. Un fenomeno che conosciamo».

E l'hanno contestata

«Hanno detto che è una mostra che rinfocolerà le nostalgie, ci sono state contestazioni molto dure».

Un paradosso: non è che l'antifascismo (in forme patinate, vintage, strumentali) è più in voga adesso di trent'anni fa?

«Non ho questa sensazione. Quella dei contestatori di una mostra su Mussolini mi sembra solo una battaglia di retroguardia. Quando facemmo la grande mostra sugli anni 30 a Milano, che fece vedere come nel periodo fascista ci fosse stata una grande architettura successe l'Ira di Dio. Ora qui invece sembra più una polemica sociale: Salò non vuole essere associata all'ultima fase del fascismo».

Quindi nemmeno il fascismo è stato un male assoluto?

«Il male assoluto non esiste. Il male assoluto sarebbe il demonio: un concetto religioso che non prendo nemmeno in considerazione. Che in un regime durato vent'anni siano state fatte delle cose nessuno lo può negare».

Anche Togliatti arruolò alcuni degli intellettuali del fascismo nel partito comunista. Ma non ci sono solo i Borboni e il Fascismo. Oggi, si parva licet, lo schema delle fazioni è sempre in moto. Renzi contro antirenziani; Berlusconi contro antiberlusconiani; Mani pulite contro ex-socialisti.

«Mi sembra evidente, lo leggiamo tutti i giorni. Basta guardare i toni della battaglia nel Pd, o nella lotta a destra tra berlusconiani e antibelusconiani. I popoli hanno un carattere».

Qual è la ricaduta della nostra genetica faziosità sugli intellettuali italiani? Non è che per non finire nella fossa degli impresentabili, gli intellò di casa nostra finiscono per apparire sempre più conformisti e corrivi alle idee comuni?

«Anche, ma c'è un altro elemento: il prototipo dell'intellettuale italiano è il Cortigiano. I poeti e i pittori e i filosofi stavano a casa del Principe, a produrre cultura sì, ma per il Principe. Badando bene a non disturbarlo. E' un marchio che si paga nei secoli a venire».

E poi?

«E poi il popolo italiano non è un popolo di rivoluzionari. Non abbiamo mai fatto rivoluzioni. E gli intellettuali non guidano il popolo, ne sono solo un'espressione, ma raffinata. Quindi gli intellettuali "scomodi" da noi sono davvero pochissimi».

Il Paese dei campanili così legato alle tradizioni: "Noi prima di tutto italiani". Nell’indagine realizzata da Demos, Veneto e Lombardia sono lontani da Barcellona: i venti d’autonomia spirano sempre più deboli, scrive Ilvo Diamanti il 25 settembre 2017 su "La Repubblica". L'Identità territoriale, in Italia, appare, fin dai tempi dell'Unità, attraversata da tensioni profonde. I referendum sull'autonomia, che si svolgeranno in Lombardia e nel Veneto, fra meno di un mese, sono destinati ad acuire le divisioni. Tanto più perché il clima del confronto fra centro e periferia, fra Stato e Regioni, si è surriscaldato, dopo l'intervento del governo contro la legge veneta che prevede l'esposizione del gonfalone di San Marco negli edifici pubblici. Un provvedimento che rischia di accendere una campagna elettorale fin qui piuttosto spenta. Evocando, con qualche forzatura, l'esempio catalano. L'Italia è storicamente segnata dalla distinzione, per alcuni versi una "frattura", fra Nord e Sud. E, quindi, dalla "questione meridionale", affiancata e sfidata, negli ultimi decenni, da una "questione settentrionale", polemica non solo verso il Mezzogiorno, ma, anzitutto, contro lo Stato. L'Italia, peraltro, ha sempre presentato un'identità frammentata da particolarismi. Carlo Azeglio Ciampi, Presidente della Repubblica nella seconda metà degli anni Novanta, una fase particolarmente accesa da conflitti territoriali, era solito dire che "l'Italia è un Paese di paesi. E di città. Unito dalle sue differenze." In altri termini, dal suo pluralismo di tradizioni, culture, paesaggi. Un "Paese di paesi". Mi sembra una definizione efficace e di lunga durata dell'Italia. Evoca, infatti, un profilo che si ripropone ancora oggi, quando si indaga sulle diverse e principali appartenenze territoriali dei cittadini. Lo dimostrano i dati di un sondaggio di Demos (per Intesa Sanpaolo), condotto nelle scorse settimane. Dal quale emerge un sentimento di appartenenza territoriale composito e frastagliato. I contesti nei quali si riconoscono gli italiani, infatti, sono diversi. Anzitutto, l'Italia, indicata come primo riferimento dal 23% del campione. Quasi 1 italiano su 4. Ma ciò significa che gli altri 3 guardano altrove. In particolare: alla loro città (quasi 2 su 10). Quindi, alla loro Regione (12%). Poi alla "macro- area". Nord, Centro e Sud, insieme, raccolgono quasi il 20% delle preferenze "territoriali". Ci sono, infine, molte persone che si orientano oltre i confini nazionali e locali. L'8% si definisce, anzitutto, europeo. Mentre il 18% si rivolge in primo luogo "al mondo". Esprime, dunque, uno spirito apertamente "cosmopolita".

Nell'insieme, dunque, circa metà delle persone intervistate si richiama anzitutto all'ambito "locale". Gli italiani. Si dicono milanesi, napoletani, siciliani, veneti, piemontesi. Bolognesi, toscani. Romani. Marchigiani. Ma anche: del Nord oppure meridionali. Nel Mezzogiorno, in particolare, il sentimento "meridionalista" scavalca il 22%. Tuttavia, se consideriamo anche la seconda indicazione, cioè l'altra identità territoriale possibile per i cittadini, l'Italia si ripropone con forza, su livelli molto elevati. E ciò sottolinea una tendenza anch'essa di "lunga durata", del nostro "Paese di paesi". Ne ho scritto altre volte, in passato, visto il mio vizio di osservare il territorio, come chiave di lettura degli orientamenti politici, ma anche sociali. Noi siamo un popolo di "e italiani". Oppure, reciprocamente, di "italiani e". Detto in altri termini: siamo milanesi, napoletani, siciliani, veneti, piemontesi. Bolognesi, toscani. Cuneesi e vicentini. Romani. Marchigiani. Meridionali, settentrionali. "E" italiani. Ma anche viceversa. Italiani "e"... romani, napoletani, emiliani. E via dicendo. Le diverse identità territoriali, dunque, non appaiono in contrasto con quella nazionale. Ma ne costituiscono, semmai, il complemento. La conferma giunge se osserviamo questi orientamenti in controluce. Attraverso il contesto territoriale ritenuto "più lontano". Il distacco dall'Italia, infatti, continua ad apparire limitato. Espresso da una quota di persone inferiore al 10% (il 7%, per la precisione). Nonostante i localismi e le pulsioni indipendentiste - anche se non più apertamente secessioniste - che agitano il Paese. L'ambito che ha visto crescere maggiormente il distacco dei cittadini, negli ultimi 10 anni, è, invece, l'Europa. Com'era prevedibile. Dunque, siamo e restiamo un "Paese di paesi". Di città e di regioni. Un Paese dall'identità incompiuta e, quindi, "debole". Ma, per questo, dotato di "resistenza". In grado di superare le sfide che vengono dall'esterno. Dalla globalizzazione. Dal cammino incerto dell'Europa. Dalle presunte "invasioni". Perché il perimetro delle nostre appartenenze è aperto e flessibile. Capace, per questo, meglio di altri, di adattarsi ai cambiamenti e alle tensioni che giungono anche dall'interno.

Così, i referendum che si svolgeranno nel Lombardo-Veneto vanno ricondotti al significato reale che assumono presso i cittadini. Esprimono, cioè, una domanda di autonomia, non di distacco. (Il quesito referendario, d'altronde, parla di autonomia, non di indipendenza). Ma riflettono anche la ricerca di consenso politico e personale, da parte dei partiti e dei governatori - leghisti - che guidano le Regioni. (Come suggerisce un sondaggio dell'Osservatorio Nordest di Demos, di prossima pubblicazione sul Gazzettino). Così, a mio avviso, ha ragione Massimo Cacciari quando recrimina contro coloro (il governo regionale del Veneto) che hanno approvato la legge sull'esposizione della bandiera con il "Leone di San Marco". Ma anche contro chi l'ha "impugnata" (il governo nazionale). Perché: "queste cose non fanno che alimentare le pulsioni di quelli che andranno a votare al referendum". In altri termini: questa polemica rischia di amplificare la campagna elettorale in vista del referendum autonomista. Con l'effetto - imprevisto e non voluto dal governo nazionale - di mobilitare i cittadini. Fino ad oggi piuttosto distratti, intorno a questa scadenza. Peraltro, anche l'iniziativa del governo regionale del Veneto potrebbe avere effetti imprevisti, dai promotori. Perché la bandiera "venetista" issata non "al posto di", ma "accanto a" quella italiana potrebbe essere concepita come una conferma ai dati presentati in questa Mappa. Che non prevedono l'alternativa: veneti O italiani. Ma, al contrario, l'integrazione reciproca: veneti E italiani. Guidati da Luca Zaia: il governatore di una Regione italiana. Perché il Lombardo-Veneto non è la Catalogna.

È ora di dirselo: l'Italia dei comuni, dei campanili (e del partito dei sindaci) è un disastro. Gli enti locali in dissesto aumentano in modo esponenziale anno dopo anno. Non si contano più i Comuni sciolti per mafia. Così l'Italia "provinciale" arranca, e i sindaci possono (o sanno) fare poco o niente per migliorare le cose, scrive Flavia Perina il 4 Aprile 2017 su “L’Inkiesta”. L’Italia dei sindaci, l’Italia dei Comuni, dei campanili, l’Italia “local” che funziona bene in contrapposizione all’Italia “glocal” che arranca, l’Italia che ci piace esaltare per luogo comune, quella del mitizzato “territorio” che sarebbe poi l’insieme di forze politiche, economiche, sociali che fanno rete per gestire le città: sicuri che sia vera? Viene da chiederselo dopo il litigio tra Chiara Appendino e Maria Elena Boschi sui fondi Imu e Ici da restituire a Torino, che ha rivelato nervi tesi da entrambe le parti ma soprattutto un colossale deficit della Città della Mole, solitamente considerata feudo di efficienza nordica. Senza quei soldi, dice la sindaca Cinque Stelle, Torino dovrà tagliare i fondi a scuole paritarie, cultura, turismo, oltreché le agevolazioni alle famiglie a basso reddito sulla tassa rifiuti. Magari esagera. E però se una città come Torino sta messa così, figuriamoci il resto, figuriamoci dove la rinomata eccellenza sabauda non ci sta. Sono 146 gli enti locali in pre-dissesto, 84 quelli in dissesto vero e proprio (praticamente falliti). Nell’elenco c’è persino Taormina, la “Perla dello Jonio” scelta da Matteo Renzi per il G7 del prossimo maggio. L’escalation negli ultimi anni è esponenziale. Nel 2009 c’erano solo due Comuni in bancarotta, e facevano notizia: oggi si è così abituati che le classifiche non vanno nemmeno più sui giornali malgrado le imponenti conseguenze per i cittadini. A Casal di Principe, per citare un esempio al top, restano inevase 700 domande di assegni familiari per mancanza di assistenti sociali che le esaminino, le scuole non hanno ottenuto il certificato di agibilità sanitaria e più di metà dei 20mila cittadini non usufruisce dell’acqua corrente. Fosse solo questione di soldi, si potrebbe dire: è la crisi. Ma tra il 2011 e il 2012 sono aumentati del 380 per cento anche gli scioglimenti di comuni per infiltrazioni mafiose, e un altro balzo del 220 per cento si è registrato l’anno successivo. Sono 146 gli enti locali in pre-dissesto, 84 quelli in dissesto vero e proprio (praticamente falliti). Nell’elenco c’è persino Taormina, la “Perla dello Jonio” scelta da Matteo Renzi per il G7 del prossimo maggio. L’escalation negli ultimi anni è esponenziale. Nel 2009 c’erano solo due Comuni in bancarotta, e facevano notizia: oggi si è così abituati che le classifiche non vanno nemmeno più sui giornali. Il “partito dei sindaci”, nonostante ciò, è il solo partito italiano a cui non siano state fatte le bucce. Questa categoria gode di simpatie sconosciute al resto della politica, un po' perché eletta direttamente dal popolo, un po’ perché talmente abile nel gioco dello scaricabarile – la colpa è sempre di qualcun altro – da aver resistito assai bene all’offensiva contro le caste che ha messo in ginocchio le classi dirigenti nazionali. Con le sue ordinanze creative – dal divieto di rovistaggio alle multe per il pallone ai giardinetti, dalle sanzioni ai burqa a quelle per chi dorme sulle panchine – alimenta l’immagine di saggio e severo pater familias, e grazie al contenzioso col governo può giustificare ogni inefficienza con l’avarizia delle autorità centrali. Il combinato disposto delle due cose, paternalismo e ossessione contabile, ha trasformato l'arte di costruire città in amministrazione di condominio e il risultato è un'«Italia dei Comuni» assai malmessa, immobile, anche anagraficamente vecchia - nei piccoli centri l'indice di vecchiaia è quasi cento punti sopra la media nazionale, 226 contro 144 – che ha abbandonato ogni ambizione e progetto oltre la routine della sopravvivenza. Non sarà da questo tipo di territorio che potranno arrivare energie per il Paese, e dovremmo tutti mettere un punto all'astratta esaltazione della dimensione “local”, rovinosa anche sotto altri profili: basta vedere la vicenda delle banche popolari, con i loro traffici di paese, e i costi che sta comportando per tutti i contribuenti (oltrechè per i loro clienti). Piccolo non è bello. O almeno, è bello se fai parte del “giro” dei feudatari del villaggio, pessimo per tutti gli altri che infatti fuggono nelle grandi città, nazionali ed estere, in cerca di fortuna. Piccolo non è necessariamente virtuoso. Piccolo oggi è diverso dal passato, piccolo è spesso povero, spaventato, prigioniero dei clan. E un soffio metropolitano ed europeo è l'unica speranza per questa Italia piccola, che scivola nell'indigenza senza che nessuno se ne accorga, privata anno dopo anno dei servizi più banali, dai trasporti pubblici all'acqua potabile, soffocata dalla piccineria di chi la amministra.

Sul water o in piazza, l’Italia dei campanili che ripudia i “cugini”. Da Pisa-Livorno a Modena-Reggio, le unioni “impossibili”, scrive l'01/11/2012 Pierangelo Sapegno su “La Stampa”. Può darsi che l’Italia dei campanili trovi persino difficile farsi rappresentare da Roberto Cenni, il sindaco di Prato che ha parlato ai giornalisti seduto sul water, tutto così elegante, in giacca e cravatta, il panciotto e il ciuffo brizzolato che scivola sulla fronte come un riporto, se non fosse per quella toilette con lo sciacquone da tirare. Però, nel mare di ricorsi e di insulti piovuti sul taglio delle Province, non c’è solo il radicalismo di un’identità quasi paesana, ma anche - addirittura - qualche antica rivalità storica. Prendete Modena e Reggio Emilia, o Pisa e Livorno, costrette da ieri a stare insieme, sotto lo stesso tetto, come in una buona famiglia. I livornesi quando parlano con uno di Pisa, glielo dicono in faccia, «Deh, ma te ne rendi conto? Tu sei di Pisa». E il proverbio, di quelle parti, dice che «è meglio un morto in casa, che un pisano sull’uscio», perché, nella leggenda popolare, i pisani erano gli esattori delle tasse. In realtà, la Storia racconta che Livorno viene inventata dai Medici per dare il colpo di grazia alla grande Repubblica marinara in crisi. Prima era solo una galera. All’improvviso, Firenze costruisce il porto e lo riempie di gente raccattata da tutti gli angoli, per togliere così l’ultimo respiro alla sua rivale. La missione riesce, ed è da allora che le due città, distanti l’una dall’altra neanche un tiro di schioppo, si odiano così cordialmente. Pure Modena e Reggio Emilia stanno vicine vicine: 30 km d’autostrada a malapena. Però sono lontanissime fra loro, essendo Modena un ducato degli Este, città universitaria, molto raffinata e quasi snob, con le sue imprese eccellenti e il suo nobile passato, al contrario di Reggio Emilia, non a caso la provincia di Peppone e don Camillo, città fortemente terrigna e contadina, dove nella piazza grande del Municipio si portavano ancora le mucche fino a qualche tempo fa. Erano tutt’e due insieme sotto gli Este, ma Modena era la capitale. Solo che anche questa lontananza finisce per scadere nel ridicolo assieme al suo campanilismo più becero, con gli Ultràs del Modena che arrivano perfino a disegnare una coreografia allo stadio tutta in gialloblu, per bocciare l’unione con la vicina nemica, come recitava l’enorme striscione appeso sugli spalti: «Modena è provincia ed è solo gialloblu». Certo, non sono gli unici che protestano, e lì vicino a loro, per sfuggire questo comune destino, Piacenza ha pensato persino di organizzare un referendum per togliersi dall’Emilia: meglio in Lombardia che assieme a Parma. E invece, da ieri, è finita proprio sotto il mantello di Maria Luigia.  Dall’altra parte non è che avrebbe avuto vita tanto diversa: la via era quella di stare con Mantova, Cremona e Lodi, che già protestano e urlano di loro. Niente in confronto a Monza, Varese e zone limitrofe. Lì sono finiti tutti sotto Como, a parte Monza, anche perché Como non la voleva (Leonardo Carioni, Lega Nord: «Noi non abbiamo niente a che fare con Monza, come logistica, territorio e identità. È impensabile una cosa del genere»). Risultato: Monza è stata accorpata a Milano e per questo ora protesta. Dario Allevi, pdl, presidente di Monza e Brianza dice che è «indecente. Non capisco per quale motivo sia stata prevista una deroga solo per Sondrio e Mantova. È arrivato il momento di alzare i toni». A Varese li hanno levati così in alto da appellarsi persino a Mario Monti «in quanto varesino come noi», come ha fatto Lara Comi, europarlamentare pdl.

Naturalmente, il governo è andato avanti per la sua strada, e forse non solo a Palazzo Chigi, perché se chiedi alla gente, a quanti sta davvero a cuore questa dispersione di Province come ai politici? Sta di fatto che la partita non si è chiusa certo qui. Non c’è Provincia che non abbia annunciato il suo bel ricorso al Tar, come Dario Galli, leghista, presidente di Varese, o alla Corte Costituzionale, come ha deciso la regione del Molise, dopo che le hanno accorpato Isernia e Campobasso. Il presidente Michele Iorio ne ha promessi addirittura due, a scanso di equivoci. Melius abundare. «Aspettiamo la risposta il 6 novembre», ha detto, mentre Rosario De Matteis, dalla sua roccaforte di Campobasso, tuonava che «il governo Monti è come l’Armata Brancaleone: ormai non sanno più che fare». Poco importa che molte di queste Province ritornino in fondo nel loro alveo, come Lecco che in fondo era già con Como, o Biella che era con Vercelli, e Rimini con Forlì, e tante altre così, da Vibo Valentia a Verbania. Il campanile e i suoi interessi sono più forti di tutto. Treviso, ad esempio, aveva i giorni contati, bocciata com’era dalla legge, essendo troppo piccola con i suoi 23 mila chilometri quadrati appena. L’hanno messa con Padova, e Rovigo con Verona. Però, è insorta lo stesso.  

Fra le storie diverse («che c’entra Siena con Grosseto?», si lamentano a piazza del Campo) e odi fraterni, il linguaggio molte volte è trasversale, dalla Basilicata alle Alpi, come se i nostri campanili almeno in questo avessero trovato una cosa in comune. Purtroppo, non è un bel linguaggio, tipo quello che usa il presidente della Provincia di Avellino, Cosimo Sibilia, per differenziare - si dice così - «la peculiarità delle due aree». È che l’Italia dei campanili sembra proprio aver trovato nel politichese e negli slogan degli ultrà il suo minimo comune denominatore. Sibilia è arrabbiatissimo perché Avellino è finita nel calderone della nuova grande provincia «Ave-Sannio», con capitale Benevento. Se non deve dilungarsi sulle peculiarità, è molto più diretto: e allora «è un provvedimento devastante» (uno), «hanno umiliato e mortificato il nostro territorio» (due), e «siamo ai limiti del colpo di Stato» (e tre!). Naturalmente, a questo punto, anche lui andrà al Tar. Alla fine, Roberto Cenni, il sindaco offeso di Prato, è davvero la rappresentazione, un po’ ridicola, del nostro campanilismo a oltranza. E i toni giusti sono quelli di Cristiano Vignali, «politologo e storico teatino», che ha lasciato ai posteri questa cronaca: «Migliaia di giovani lunedì mattina hanno sfilato in corteo tra ali di folla osannanti per riconsegnare la città in mano ai teatini e salvare la provincia di Chieti». Purtroppo, Chieti è stata cancellata. E abbiamo chiesto: ci hanno detto che erano qualche decina. Facciamo trenta?  

Email di Cristiano Vignali del  02/01/2020 22:16. Salve Dott. Antonio Giangrande, ho letto l'ebook del suo libro  ITALIA ALLO SPECCHIO IL DNA DEGLI ITALIANI ANNO 2017 PRIMA PARTE, nell'opera a pag 114 lei cita il sottoscritto scrivendo delle inesattezze  che eravamo solo qualche decina e che la Provincia di Chieti nel 2012 è stata cancellata, ma invece ciò non è assolutamente vero, sia perché la nostra protesta bloccò la riforma delle Province, visto che le Province esistono ancora, sia perché come si evince dal video non eravamo assolutamente una trentina ma molti di più. Questi sono solo alcuni dei filmati che ho ritrovato su youtube  ma anche quelli delle televisioni nazionali e locali fanno vedere molte più persone. Perché non si è informato direttamente alla fonte originaria prima di scrivere nel suo libro una inesattezza? Pertanto, le chiedo gentilmente di rettificare nell'ebook quanto scritto e se è possibile di rettificare nella prossima ristampa le copie cartacee del libro. 

Risposta dell'autore: La rettifica di parte è stata effettuate. Cristiano Vignali, se avesse letto il libro si sarebbe accorto che l’articolo è stato scritto l’1/11/2012 da Pierangelo Sapegno su “La Stampa”, doverosamente citato, in ambito di una discussione più ampia sul tema.

Non approfondire ed informarsi è il limite di chi si limita a leggere lo spazio di un tweet  o ricerca il suo nome sui motori di ricerca, limitandosi a leggere la frase ove questi è citato.

L’Italia dei 100 campanili… e nessuno Stato, scrive il 27 novembre 2016 Pino Marchionna. E “Fatta l’Italia, ora facciamo gli italiani”. Mai come in questi giorni la celebre frase di Camillo Benso Conte di Cavour ben si attaglia alla situazione paradossale che stiamo vivendo. Ad oltre centocinquant’anni dall’unità d’Italia, siamo ancora “la terra dei cento campanili”, a causa di quell’approccio politico che spesso trasforma le differenze in divisioni e mette gli uni contro gli altri, attraverso rivendicazioni territoriali, giurisdizionali, culturali ed economiche proprie del campanilismo. Da sempre gli italiani si sono dimostrati legati al proprio campanile, per il ruolo simbolico di identificazione che svolge, a tutela del proprio linguaggio, delle proprie tradizioni, della propria storia. E come ricordava lo storico Fernand Braudel “la ricchezza della realtà italiana è anche il segno della sua “insigne debolezza”, giacché la pluralità di tradizioni, di culture e linguaggi, ha sempre costituito un elemento di volubilità rispetto a quel “cemento” sociale che ha caratterizzato la storia di altre grandi nazioni europee”. Questo tratto distintivo della nostra millenaria ed insufficiente storia nazionale è riapparso – come un fiume carsico, che improvvisamente risbuca in superficie – con il ricorso della Regione Veneto alla Corte Costituzionale avverso la Legge Delega 124/2015, meglio nota come Legge Madia. Non sono certo nelle condizioni tecniche di commentare la sentenza della Corte Costituzionale che ha dichiarato incostituzionali gli articoli 11, 17, 18 e 19 della Legge Delega. Sottolineo soltanto come la motivazione dell’illegittimità sia incardinata sull’insufficienza del semplice parere della Conferenza Unificata Stato-Regioni al posto della necessaria e previa intesa. Nel momento storico in cui la globalizzazione genera interdipendenze e commistioni inedite, soprattutto in seguito al fenomeno dei flussi migratori dai paesi più poveri del mondo, in una Italia che dovrebbe cogliere e valorizzare la sfida della pluralità culturale, modernizzando la propria struttura istituzionale, torniamo al punto di partenza: ognuno pensa a sé stesso, guardando sempre e comunque al proprio campanile. Questa è la nuova frontiera delle minoranze rilevanti, i cosiddetti “veto players”, che da partiti caratterizzati da una forte ideologia autonomistica si sono trasformati in grumi di potere finalizzati alla difesa di interessi locali che si sovrappongono a quelli più generali del Paese, anzi spesso li superano, in sfregio alla collettività nazionale.

Catalogna, ma anche Lombardia e Veneto. La prova dei referendum per l’indipendenza, scrive il 23 settembre 2017 "Quasi Mezzogiorno". Da una parte la capitale spagnola, Madrid, dall’altra la ribelle Barcellona che invoca più spazio per la Catalogna. Una vecchia storia fatta di voglia di indipendenza e senso di rivalsa, una guerra che si sta consumando oggi a colpi di sentenze e richiamo alle urne. Madrid ha detto no al referendum per l’indipendenza invocando la giustizia e per due volte la Corte Costituzionale è intervenuta, prima bocciando la convocazione alle urne, e quindi la legge che rendeva possibile il voto, e poi sospendendo la legge di “rottura” dalla Spagna adottata la settimana scorsa dal parlamento di Barcellona, che entrerebbe in vigore se al referendum dovesse vincere il Sì. Tentativi falliti, si passa alla forza: a dieci giorni dal voto gli agenti della Guardia Civil hanno arrestato Josep Maria Jové, braccio destro del vice presidente catalano, insieme ad altre 13 persone tra funzionari ed esponenti del governo regionale. I principali organizzatori del referendum non riconosciuto da Madrid finiscono nei guai per aver sfidato il governo centrale. Non ci sta il governo catalano, non ci sta il popolo, sceso in piazza per protestare, non ci sta neanche il Barca, il club-bandiera della Catalogna che esprime la sua condanna per qualsiasi azione contro il diritto di decidere. Venti di guerra civile soffiano in piazza e nei palazzi del potere con il duro scontro tra il primo ministro spagnolo Mariano Rajoy, che invoca “la tutela dei diritti di tutti gli spagnoli”, e il dirigente della sinistra repubblicana catalana Gabriel Rufian che gli ha intimato di togliere “le sue sporche mani dalla Catalogna”. Attacco alla democrazia sono le tre parole più usate da chiunque commenti quello che è successo il 20 settembre a Barcellona (agli arresti si aggiungono una ventina di perquisizioni e milioni di schede elettorali sequestrate) e in Italia già si pensa al 22 ottobre, quando ci sarà il referendum – questo del tutto costituzionale – con il quale Lombardia e Veneto chiedono di entrare nel “club” delle Regioni autonome.

Crimea, Scozia e Catalogna, tutti i perché delle secessioni in atto, scrive Stefano Cingolani il 24/03/2014. E' impressionante come oggi, mentre a Ovest si diffonde l’euroscetticismo, a Oriente, là dove il limes è ancor oggi confuso e mobile, si minacci una guerra per entrare nell’Unione...Con le armi o con le urne, ormai da tempo è tutto un correre a ridisegnare le mappe, un gioco di separazioni più o meno consensuali, una corsa alla secessione: la Scozia e la Catalogna, i paesi Baschi e la Corsica, le Fiandre o la Sicilia (passando per la Sardegna), il Veneto e il Tirolo. Per non parlare dei Balcani dove la Bosnia, grande come il Lombardo-Veneto, è divisa in tre. Il Kosovo, il Montenegro, la Macedonia, anzi le due Macedonie, in lite tra loro anche sul nome (la Grecia sostiene che solo la sua ha il diritto di chiamarsi come la patria di Alessandro). E poi la Slovacchia che ha tranciato un solco con la Repubblica ceca, la Moldova piccolo cuscinetto tra Ucraina e Romania. E via via divorziando. Insomma, non c’è solo la Crimea, siamo di fronte alla “balcanizzazione dell’Europa”, secondo Lord Robertson ex segretario generale della Nato, laburista scozzese che si rivolge ai suoi compatrioti per invitarli a pensarci due volte prima di chiudere il vallo di Adriano. Ma attenti, c’è secessione e secessione, ci ammonisce Bernard-Henri Levy, l’ormai appassito nouveau philosophe che si è fatto immortalare sulle barricate di Kiev: “Non si può paragonare Kosovo e Crimea”, sentenzia BHL tra le piume della sua vanità. Un vero truismo, direbbero i vecchi filosofi. E poi c’è sempre un distinguo, esiste sempre un’eccezione. Prendete il Kurdistan, mica può essere paragonato ai paesi sotto il tallone di zar Putin? Certo che no, infatti non esiste. I curdi sono schiacciati da almeno tre talloni: quello siriano, quello iracheno e quello turco e anche gli stivali sono diversi, la Turchia se non altro fa parte della Nato. Princìpi puri e principio di realtà, del resto, si sono sempre scontrati da che mondo è mondo. La separazione democratica è diversa da quella imposta con il ferro e il fuoco, è ovvio. Eppure l’adesione alla Germania, l’Anschluss, venne approvato dagli austriaci (seppure sotto una qualche minaccia dell’esercito hitleriano). Dunque, non basta il voto, bisogna che sia libero, consapevole, trasparente e non come le urne di vetro usate in Crimea dal gran burlador di Mosca. Ma dividersi non è affatto facile, per i popoli e gli stati ancor meno che per le famiglie; anzi spesso non funziona proprio e si finisce per cercare un protettore, un grande amico, magari un imperatore benevolente pronto ad accogliere nelle sue braccia amorevoli la pecorella smarrita. E non vale solo per i nuovi staterelli dell’est europeo o del Caucaso, ma anche per entità con ben altro pedigree. Come ad esempio la Scozia.

Qual è la linea di demarcazione? Etnica? Linguistica? C’è di mezzo il mito, la storia, l’economia, la politica? Di tutto un po’, ma certo nelle Highlands il mito ha una importanza altrettanto grande che sulle montagne della Serbia. Gli scozzesi hanno combattuto per secoli gli inglesi. Morta Elisabetta I, fin dal 1603 con Giacomo VI Stuart hanno piazzato un loro re in Inghilterra aprendo la strada all’ Unione. L’autonomia è sempre rimasta viva, l’indipendenza è rifiorita con i nazionalismi ottocenteschi e di nuovo nell’ultima parte del secolo scorso. E tuttavia, una divisione etnica è difficile da digerire tanto profondo è il metissage nelle isole britanniche. William Wallace, l’eroe popolare, è riemerso agli onori con la cultura pop. Braveheart, il film di Mel Gibson, coglie il nuovo spirito del tempo, anche se trasforma il figlio di un latifondista che conosceva il latino e il francese in una sorta di capo di sanculotti in tartan. Persino il gruppo metal rock Iron Maiden ne fa l’eroe delle sue canzoni come The Clansman. La trasfigurazione conta più della realtà. Prendete il kilt.

William Wallace non indossava il gonnellino come lo conosciamo oggi. Ma, quando deponeva l’armatura di cavaliere la classica tunica medievale. Persino il plaid a scacchi e colori dei clan, il breacan, con il quale si cingevano i fianchi passandolo attraverso una spalla, è una moda introdotta solo due secoli dopo nel corso del ‘500. Quanto all’indumento a pieghe con tutti i suoi orpelli, diventato emblema di ogni “cultura e società celtica, irlandese, gallese, galiziana, è un’invenzione inglese e ha solo un flebile legame con il folklore o con indumenti degli antichi celti più o meno ricostruiti dagli archeologi. Proprio così. Nasce nei primi decenni del ‘700 grazie a tal Thomas Rawlison che si era rifugiato nelle Highlands anche per sfuggire alla chiesa d’Inghilterra che non amava le sette calviniste (tanto che furono costrette a emigrare in America). Altro che tradizione, è una operazione commerciale, del tutto capitalistica, al pari di Braveheart. Adesso li vediamo sventolare ovunque, in guerra e in pace, da settembre probabilmente copriranno gli scranni del parlamento scozzese. E’ stato il romanticismo a trasfigurare tutto, anche il kilt, ed è il nazionalismo che l’ha mistificato, rendendolo un simbolo importante quanto la croce di Sant’Andrea. E’ accaduto lo stesso a tantissime leggende che formano la cosiddetta cultura etnica e che con l’etné non hanno nulla a che vedere. Trasformare un plaid in kilt è molto più facile che scegliere una nuova moneta. Infatti, i primi intoppi per il progetto di Salmond sono insorti proprio sulla sterlina. Un’idea, infatti, è quella di continuare ad usare la valuta inglese. “E già, e chi garantisce per il vostro debito”, ha subito replicato Mark Carney, il canadese che guida la Banca d’Inghilterra. Bisognerebbe introdurre dei meccanismi simili a quell’ambaradan che la Bce ha creato per i paesi che partecipano all’euro. Ma attenzione: la moneta unica continentale nasce con una debolezza di fondo, perché è priva di una politica fiscale comune. Dunque la Scozia potrebbe sì distaccarsi, ma dovrebbe lasciare a Londra quanto meno il controllo ferro sulle tasse e le spese, cioè sui due attributi fondamentali della sovranità di uno stato. Gli scozzesi fanno leva sulle riserve petrolifere nel Mare del Nord, molte delle quali sono al largo delle loro coste. Già, ma quanto al largo? E poi oggi sono gestite dalle grandi compagnie inglesi come la Bp e la Shell. Che cosa vuol fare Salmond, appropriarsene? Nazionalizzarle come Chavez in Venezuela? Ci provi pure sghignazzano i boss delle multinazionali. Dunque, la Scozia può essere indipendente, ma non sovrana. E qui comincia una discussione, anzi una trattativa durissima perché gli inglesi cercheranno di far valere il loro potere monetario contro la secessione.

“Ah sì? Allora noi adottiamo l’euro”, replicano gli indipendentisti. Fermi tutti. Il problema del debito si pone lo stesso. E in questo caso Londra avrebbe l’ultima parola. Non solo. All’idea di una Scozia indipendente che viene accolta a braccia aperte a Bruxelles, comincia a rumoreggiare Madrid. Indiscrezioni su un veto spagnolo sono circolate nelle capitali europee al punto che il governo di Mariano Rajoy ha dovuto smentirle ufficialmente. Una cosa è certa: la Scozia è il vessillo che sventolano in piazza anche i catalani i quali mai come questa volta chiedono non solo ancor più autonomia e poteri, ma di separarsi dai castigliani. Una catastrofe per il resto della Spagna perché a Barcellona e nella sua regione è concentrata la maggiore ricchezza. Ma anche per la portata davvero storica di una frattura che metterebbe fine a cinquecento anni di unità.

A differenza dalla Scozia, la Catalogna non avrebbe problemi di carattere monetario, visto che fa già parte della zona euro. L’integrazione piena in una struttura sovranazionale, infatti, favorisce il distacco dagli stati nazionali, anzi lo rende non solo fattibile, ma addirittura legittimo. E’ quel che sosteneva in Italia Gianfranco Miglio quando agli esordi della Lega Nord progettava le macroregioni e dialogava con i bavaresi della CSU, affascinati lì per lì dall’idea, o con gli svizzeri del Canton Ticino. E oggi Luca Zaia, tardo epigono proclama: “Il Veneto come la Catalogna, sono in ballo 21 miliardi di euro” (calcola le tasse che non andrebbero versate a Roma non quello che gli altri contribuenti italiani versano al Veneto). Il movimento Plebiscito.eu vuole la secessione e la regione guidata dalla Lega ha in discussione un progetto di legge per un referendum. Ma c’è anche chi chiede, con un sondaggio on line su affaititaliani.it, se la Sicilia deve seguire l’esempio della Crimea. Già, per andare dove? Verso gli Stati Uniti come sognava Finocchiaro Aprile nel 1943 quando sbarcavano i marines? A Barcellona si voterà il 9 novembre, dunque dopo la Scozia che farà da battistrada e influenzerà necessariamente le altre iniziative indipendentiste. E il paradosso dei paradossi vuole che proprio questa Europa dei tecnocrati odiata dalle “estreme” e disprezzata da Beppe Grillo, questo super-stato burocratico, lontano dai popoli come dice anche Matteo Renzi, potrà consentire proprio ai popoli di esprimersi liberamente senza paura di restare appesi al nulla o di finire nelle fauci di un lupo siberiano o di un leone dell’Atlante. Perché il mosaico di stati europei è in gran parte una costruzione artificiosa.

Scrive Tony Judt in “Dopoguerra” che dopo il primo conflitto mondiale, con il disfacimento degli Imperi centrali e quello ottomano, vennero cambiati i confini, dopo la seconda guerra mondiale vennero spostati interi popoli, costruendo stati su base “etnica”. I singoli paesi nel 1939 erano ancora multiculturali e multireligiosi, nonostante i regimi fascisti, nel 1949 non più. Sono pressoché scomparsi gli ebrei, ma non solo: in Polonia i polacchi erano il 68% della popolazione oggi sono oltre il 90, la stessa Italia diventa più omogenea, mentre nei Balcani e nei territori occupati dall’Armata rossa, avviene un rimescolamento all’insegna di vere e proprie deportazioni. L’Europa degli alleati vincitori, dunque, anche in occidente nasce alimentando il pregiudizio, una grave colpa che attraversa i decenni come un fiume carsico e riesplode prepotente con la fine della guerra fredda. Le guerre di Jugoslavia lo dimostrano. Gli Stati Uniti erano “distratti” da Saddam Hussein e l’Unione europea era ossessionata dalla “questione tedesca”, così la Germania che impose il riconoscimento unilaterale della Slovenia e della Croazia, considerati paesi satelliti, proprio mentre era impegnata a digerire il boccone degli Ossie. E cominciarono sette anni di stragi e flagelli le cui ferite non sono ancora rimarginate.

Il pregiudizio etnico è lo stesso che oggi opera come un verme nella pancia degli ucraini e dei russi, così simili da tutti i punti di vista e così lontani. Dove possono andare da soli questi staterelli che dovremmo chiamare da operetta se sul palcoscenico d’Europa non si recitasse un dramma? Non sono autosufficienti né sul piano economico né su quello militare. Quindi cercano un padrino. Il patronage può essere rude e opprimente come quello russo o morbido e avvolgente come quello europeo. Ma esiste un modello ideale al quale riferirsi? E’ impressionante come oggi, mentre a ovest si diffonde l’euroscetticismo, a oriente, là dove il limes è ancor oggi confuso e mobile, si minacci una guerra per entrare nell’Unione, la versione moderna e benevolente del Sacro romano impero. Non è, dunque, una mera bizzarria da studioso, è emerso in questo mondo non più piatto, ma diviso in placche tettoniche, un desiderio di separarsi e riaggregarsi in modo diverso all’interno di entità nuove che meglio rispondano (o almeno così si pensa) ai bisogni di questa era. E che mettano in qualche modo rimedio agli errori dei vincitori, quelli compiuti nel 1945, ma anche quelli del 1989 e degli anni successivi all’implosione dell’Unione sovietica. E’ il messaggio che arriva dalla Crimea e dalla Scozia (o dalla Catalogna), luoghi opposti gli uni agli altri anche sulla mappa geografica, ma luoghi dell’ira per il passato, dello scontento per il presente e (forse) della speranza per il futuro.

Non solo Crimea, ecco le Regioni europee che puntano all’indipendenza. Citando il Kosovo, dopo la vittoria schiacciante dei sì al referendum in cui si chiedeva agli abitanti della Penisola di voler far parte della Russia, Putin ha lanciato l’assist perfetto ai movimenti separatisti di mezza Europa: dalla Catalogna alla Scozia (che va al voto il 18 settembre), fino all’Irlanda del Nord, passando per le Fiandre. Anche in Italia c'è chi vorrebbe fare del Veneto una Repubblica a sé stante, scrive Silvia Ragusa il 23 marzo 2014 su "Il Fatto Quotidiano".

Il popolo di Crimea, secondo il presidente russo Vladimir Putin, si è comportato in base alla “regola dell’autodeterminazione dei popoli”. Lo ha detto nel suo discorso al Parlamento di Mosca, il giorno dopo aver firmato il decreto che riconosce l’indipendenza della penisola ucraina. Non è cosa nuova. L’altro precedente, continuava Putin davanti a una platea entusiasta, si è avuto quando “l’Occidente ha riconosciuto legittimo il distacco del Kosovo dalla Serbia, dicendo che non c’era bisogno di alcun permesso dal potere centrale”. Il leader russo ha accusato gli Usa di usare la “legge del più forte” e di aver ignorato le risoluzioni dell’Onu. Nel 2008, infatti, Pristina dichiarò unilateralmente la sua secessione dalla Serbia con una risoluzione votata dal suo parlamento provvisorio: esattamente come oggi la Crimea si sente russa, ai tempi il Kosovo – prevalentemente albanese - voleva la separazione dalla Serbia. Non servì alcuna consultazione popolare, il voto dei deputati fu risolutivo.

Il Kosovo quindi non è la Crimea. Se oggi Putin porta come esempio la crisi dei Balcani per sottolineare l’ipocrisia della comunità internazionale, dovrebbe ricordarsi di quando, insieme alla Cina, si oppose fermamente alla secessione del Kosovo appoggiando i tentativi serbi di non concedere alcuna sovranità a Pristina, a differenza di Europa e Stati Uniti che riconobbero immediatamente la sua autonomia. Tuttavia, facendo leva sul principio di autodeterminazione dei popoli, Putin ha lanciato l’assist perfetto ai movimenti separatisti di mezza Europa: dal meridione catalano al settentrione scozzese, passando per l’Irlanda, le Fiandre giù fino all’Italia. Così, proprio pochi mesi dopo le elezioni europee del prossimo maggio, l’Europa si troverà a dover gestire le spinte separatiste di alcune sue zone strategiche. 

Catalogna, la Crimea spagnola. “L’ultimo trucco di Mas: portare la gente in strada come in Ucraina”. Il titolo in prima pagina è del quotidiano spagnolo La Razón. I mass media di Madrid hanno guardato al referendum in Crimea con apprensione. Esiste infatti un “parallelismo” tra il voto in Crimea e il referendum del prossimo 9 novembre sull’autonomia catalana. Almeno secondo il ministro degli Esteri spagnolo, José Manuel García-Margallo. Gli articoli della Costituzione ucraina “sono uguali alle leggi della Costituzione spagnola”. Insomma per García-Margallo il parallelismo tra Catalogna è Crimea è “assoluto”. Artu Mas, presidente della Catalogna, non si è scomposto: ha allontanato i parallelismi e ha garantito che i catalani sono come il biblico David che riuscirà a vincere Golia con “astuzia, determinazione e volontà”. Poi però Mas ha spiegato di non scartare “una dichiarazione unilaterale d’indipendenza”, se quella che lui stesso chiama “via britannica” – l’accordo tra inglesi e scozzesi per un referendum simile – sarà ancora ostacolata da Madrid.

Se ce la fa Barcellona, ce la fa anche Venezia. “Vuoi tu che il Veneto diventi una Repubblica federale indipendente e sovrana?”. La domanda è semplice e diretta, valida fino al 21 marzo. In soli tre giorni ha già raccolto 1 milione e 300mila voti: il referendum per l’indipendenza del Veneto, promosso da Plebiscito.eu, ha superato le più rosee aspettative degli organizzatori. Tant’è che i riflettori della stampa mondiale, non solo italiana, si sono accesi su Gianluca Busato, che ha così commentato i risultati: “L’obiettivo di due milioni di veneti che votano il referendum di indipendenza del Veneto è raggiungibile”. Il governatore Luca Zaia ha preso come fonte d’ispirazione quello che accade in Catalogna: “Dobbiamo capire se sull’indipendenza riescono ad aprirci un varco. La loro deadline è il 9 novembre 2014. Se l’indipendenza la ottiene Barcellona, seguendo il loro metodo potrebbe ottenerla anche Venezia”.

Scozia libera, sotto la regina Elisabetta. A nord del vallo di Adriano è già tutto deciso. Il leader dello Scottish national party, Alex Salmond, ha trovato l’accordo con il premier britannico David Cameron riguardo l’indipendenza della Scozia: il 18 settembre 2014 verrà indetto un referendum per la secessione dal Regno Unito. Gli scozzesi andranno al voto per rispondere a un’unica domanda: “La Scozia dovrebbe essere un paese indipendente?”. I sondaggi dicono che perderanno. Ma da Edimburgo potrebbero arrivare delle sorprese. Secondo il progetto di Salmond, la Scozia diverrebbe nei fatti una nazione autonoma ma parte del Commonwealth, con governo indipendente sotto l’egida della regina Elisabetta. Il partito nazionalista sostiene che le risorse di petrolio nel mare del Nord, l’industria locale agricola, la pesca e il whisky consentono a una Scozia indipendente di essere prospera in termini economici. Altri partiti di Edimburgo e il governo britannico invece pensano che la secessione sia svantaggiosa per entrambi i Paesi.

Referendum anche in Irlanda del Nord. Il movimento indipendentista irlandese, il Sinn Fein, vuole realizzare un referendum per decidere se continuare a far parte del Regno Unito o unirsi al resto dell’isola. Il numero due del partito, Martin McGuinness, ritiene che il Nord sia pronto per un referendum nel 2016, proprio in coincidenza con il centenario della rivolta di Pasqua, la sanguinosa ribellione che ha portato alla guerra d’indipendenza contro l’Inghilterra.

Guerra tra Fiandre e Sud francofono. Anche in Belgio si respira aria di scissione. La trasformazione delle Fiandre in uno stato indipendente e sovrano è l’obiettivo della Nieuw vlaamse alliantie (Nuova alleanza fiamminga), il partito che ha trionfato alle ultime elezioni del 2010, dopo la crisi del governo, accanto agli indipendentisti fiamminghi di destra del Vlaams Belang, fautori della separazione dai valloni. Motivazione etno-culturale ed economica, perché spesso le regioni più ricche spingono per sganciarsi dal resto del Paese. Secondo i sondaggi però solo il 30 per cento degli abitanti delle Fiandre vorrebbe una piena indipendenza.

Lo stadio di Verona grida “scimmia” a ogni giocatore del Napoli annunciato dallo speaker, scrive il 20 agosto 2017 "Il Napolista". Con l’avvento di Tavecchio il calcio italiano ha deciso di arrendersi al razzismo, e questi sono i risultati. Una multa di 15mila euro potrà mai invertire il trend? Lo “storico” striscione dei veronesi all'indirizzo dei tifosi del Napoli: “Benvenuti in Italia”.

L’annacquamento voluto da Tavecchio. Il calcio italiano si è ufficialmente arreso al razzismo e alla cosiddetta discriminazione territoriale con l’avvento del presidente della Federcalcio Carlo Tavecchio. L’annacquamento delle norme fu al primo posto del suo programma politico e venne votato praticamente da tutti presidenti di Serie A (compreso De Laurentiis). La correzione Tavecchio pose fine alla breve stagione della chiusura dei settori e degli stadi italiani per razzismo. Stagione che venne ferocemente contestata da tanti media, Sky Sport in testa, che derubricarono i cori discriminatori al rango di sfottò.

Una pratica diffusa al Bentegodi, non solo col Napoli. E così oggi negli stadi italiani è possibile ascoltare quel che è avvenuto ieri sera a Verona, con lo stadio intero che accompagnava col grido “scimmia” ogni calciatore del Napoli annunciato dallo speaker. Un’usanza, se così la vogliamo chiamare, che al Bentegodi accompagna più squadre avversarie, non soltanto il Napoli. Ma in questo caso non vale il detto: mal comune mezzo gaudio. Una pratica indecente, da sottosviluppo culturale. La società scaligera se la caverà – come da legge – con una multa che sarà più o meno di 15mila euro. La domande adesso è: davvero il calcio italiano pensa di risolvere il problema – sempre che si ponga l’obiettivo di risolverlo – con multe di 15mila euro?

Indipendenza veneta, una provocazione da non sottovalutare, scrive Ettore Bonalberti il 2/03/2014. Sono stati 2 milioni 360mila 235 voti, pari al 73% del corpo elettorale regionale i voti espressi. I sì sono stati 2 milioni 102mila 969, pari all’89%, i no 257.276 (10,9%). Almeno questi sono i dati comunicati dagli organizzatori. Come promesso, Gianluca Busatto ha proceduto a proclamare di fronte a qualche migliaio di persone “l’indipendenza del Veneto”, con queste parole: “quando la testimonianza della storia viene convocata dal tribunale del presente come retaggio e forte voce di libertà e modello di serenità e giustizia. Quando un popolo invoca il diritto di autodeterminazione come diritto naturale e fondamentale dell’individuo e che da questi si estende alla famiglia, alla comunità e alla nazione.” La consultazione referendaria e la proclamazione di ieri sera, Costituzione alla mano, non hanno, ovviamente, alcun valore formale, men che meno istituzionale. L’art. 5 della Carta sancisce che “la Repubblica italiana è una e indivisibile”. Una proposta di referendum per il Veneto indipendente esiste, tuttavia, anche in Consiglio regionale Veneto, ferma in prima commissione, dopo che già un comitato di giuristi aveva spiegato che la “via legale” alla separazione dall’Italia non esiste. I leghisti in consiglio stanno sollecitandone la più rapida approvazione che, la consultazione on line appena conclusa, ovviamente, concorre a velocizzare. Sebbene ci si trovi di fronte a un’evidente provocazione, abilmente sfruttata dagli improvvisati nuovi leader secessionisti, sarebbe assai grave non coglierne tutta la portata politica. Al di là della veridicità reale delle cifre annunciate, trattasi di una dimostrazione di malessere che sembra riprendere, in maniera assai più ampia e generalizzata, la vecchia partita avviata agli inizi degli anni’80 da Franco Rocchetta, presente in Piazza dei Signori a Treviso e Achille Tramarin, fondatori della primigenia Liga Veneta. Come “libera manifestazione del pensiero” nulla da eccepire, guai se, però, ne sottovalutassimo il suo significato e le conseguenze politiche di tale pronunciamento. Ogni anno, come ha ricordato il governatore Zaia, il Veneto consegna a Roma 21 miliardi di tasse che non rientrano e basta leggere il bell’articolo del prof. Ulderico Bernardi, espressione autorevole dell’idea autonomistica sturziana e popolare dei veneti, sul Gazzettino di ieri, per comprendere che il più grave errore sarebbe quello di mettere la testa sotto la sabbia e non dare risposte politiche e istituzionali alla rabbia dei veneti.

Alla vigilia delle elezioni europee solo una ripresa delle grandi culture politiche, tra cui quella popolare resta la più genuinamente legata all’idea di un’Europa diversa dall’attuale, ispirata ai valori comunitari propri dei padri fondatori: Adenauer, De Gasperi e Schuman, può offrire qualche risposta positiva alle attese che anche questo referendum virtuale esprime.

La secessione dovremo farla noi meridionali, scrive Giovanni Valentini il 9 Aprile 2014 su “La Gazzetta del Mezzogiorno". Il vento della secessione che spira dal Veneto non è solo il vento del separatismo e dell’egoismo sociale che anima il ricco Nord-Est contro il resto dell’Italia, e in particolare contro il nostro povero Sud. Fin qui, si potrebbe anche interpretare come una rivendicazione più o meno legittima di autonomia e indipendenza, in difesa degli interessi locali. E magari come una reazione ai tanti vizi, presunti o reali, attribuiti ai meridionali: l’assenteismo, l’assistenzialismo, il clientelismo, la corruzione, l’evasione fiscale, la criminalità organizzata e chi più ne ha più ne metta. Ma in realtà questa corrente secessionista rappresenta qualche cosa di più e di peggio. È il risultato di una rozza predicazione leghista che ha già arrecato molti danni al Paese e soprattutto al Mezzogiorno. Un effetto e una conseguenza di quella propaganda politica che, nel segno di un malinteso federalismo, ha prodotto nel 2001 la modifica del Titolo V della Costituzione, di cui oggi s’invoca a gran voce la riforma: un federalismo malinteso perché, da Carlo Cattaneo in poi, il vero federalismo serve a unire e non a dividere. Quella, come si ricorderà, fu una precisa responsabilità del centrosinistra. Un misfatto compiuto nel tentativo maldestro e illusorio di inseguire la Lega sul piano elettorale. E perciò, ora tocca proprio al centrosinistra riparare i danni, promuovendo finalmente la riforma annunciata dal governo Renzi. Attraverso l’improvvida modifica di quattro articoli della Costituzione (114, 117, 118 e 119), vennero diversamente ripartire le competenze fra Stato e Regioni, assegnando a queste ultime poteri esclusivi in settori nevralgici come la sanità, l’ambiente e i trasporti. Con l’articolo 119, in particolare, si attribuì agli enti locali autonomia finanziaria di entrata e di spesa. È così che il federalismo fiscale è diventato uno strumento che minaccia ormai di scardinare l’assetto e i conti dello Stato. Nell’ultimo decennio, secondo le stime della CGIA di Mestre, le Regioni italiane hanno speso 89 miliardi di euro in più, di cui oltre la metà sono stati assorbiti dalla sanità (49,1). A fronte di un aumento dell’inflazione pari al 23,9%, la spesa pubblica è cresciuta addirittura del 74,6. E nel 2010, ultimo dato disponibile riferito ai bilanci di previsione, le uscite regionali hanno superato complessivamente i 208 miliardi. In questa abnorme dilatazione, rientrano anche le spese incontrollate che hanno suscitato e continuano a suscitare scandali: dalle “mutande verdi” del Piemonte ai viaggi all’estero, dai fuoristrada “di servizio” ai pranzi o alle cene di lavoro del Lazio e della Calabria. Di quale federalismo, dunque, stiamo parlando? E di quale secessione? Qui occorre, semmai, accentrare di nuovo competenze e funzioni sia per organizzare meglio la politica nazionale, dal governo del territorio alla sanità, dall’energia e ai trasporti; sia per ridurre drasticamente le spese. È proprio questo l’obiettivo strategico a cui punta la riforma del Titolo V, proposta da Renzi. Sono le regioni meridionali, piuttosto, che hanno pagato finora il prezzo più alto di questa degenerazione federalista e che dovrebbero invocare una secessione riparatrice. Negli ultimi dieci anni, infatti, il divario Nord-Sud s’è ulteriormente aggravato, com’è stato documentato nei giorni scorsi in un seminario della Svimez, l’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno. E questo è accaduto in particolare a danno del welfare e delle prestazioni sanitarie, penalizzando ancora una volta la popolazione meridionale. Da qui, senza rinnegare il modello federalista, deriva la richiesta - da una parte - di garantire “livelli essenziali delle prestazioni” (Lep) uguali su tutto il territorio nazionale e - dall’altra - di riconoscere priorità al Mezzogiorno nell’utilizzo del Fondo per le politiche perequative: soprattutto in materia di istruzione, assistenza sociale, sanità, ma anche nella difesa dell’ambiente, come nella gestione dei rifiuti e delle acque. Se le Regioni più ricche possono permettersi tassazioni maggiori per assicurare un livello superiore di servizi, buon per loro. Ma questo non deve andare a discapito dei cittadini meridionali, sottoposti tuttora a un regime fiscale più alto a fronte di un livello di servizi erogati nettamente inferiore. In forza dell’unità nazionale sancita dalla Costituzione, lo Stato non può accettare né referendum secessionisti né questo separatismo strisciante che di fatto continua ad allargare il “gap” fra il Sud e il Centro-Nord. Anche se il nuovo presidente del Consiglio non ha neppure menzionato il Mezzogiorno nel suo discorso di presentazione alle Camere, e anzi ha abolito il ministero della Coesione territoriale che aveva prodotto risultati rilevanti sotto la gestione di Fabrizio Barca, ora la riforma del Titolo V è l’occasione propizia per rafforzare i poteri di riequilibrio dello Stato nelle aree più arretrate, in nome di un federalismo più equo e solidale. Oggi resta più attuale che mai l’assunto che il Paese o riparte dal Sud o non riparte.

IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD. Economia Sommersa: Il Nord onesto e diligente evade più del Sud, scrive Emanuela Mastrocinque su “Vesuviolive”. Sono queste le notizie che non dovrebbero mai sfuggire all’attenzione di un buon cittadino del Sud. Per anni ci hanno raccontato una storia che, a furia di leggerla e studiarla, è finita con il diventare la nostra storia, l’unica che abbiamo conosciuto. Storia di miseria e povertà superata dai meridionali grazie all’illegalità o all’emigrazione, le due uniche alternative rimaste a “quel popolo di straccioni” (come ci definì quella “simpatica” giornalista in un articolo pubblicato su “Il Tempo” qualche anno fa) . Eppure negli ultimi anni il revisionismo del risorgimento ci sta aiutando a comprendere quanto lo stereotipo e il pregiudizio sia stato utile e funzionale ai vincitori di quella sanguinosa guerra da cui è nata l‘Italia. Serviva (e serve tutt‘ora) spaccare l’Italia. Da che mondo e mondo le società hanno avuto bisogno di creare l’antagonista da assurgere a cattivo esempio, così noi siamo diventati fratellastri, figli di un sentimento settentrionale razzista e intollerante. Basta però avere l’occhio un po’ più attento per scoprire che spesso la verità, non è come ce la raccontano. Se vi chiedessimo adesso, ad esempio, in quale zona d’Italia si concentra il tasso più alto di evasione fiscale, voi che rispondereste? Il Sud ovviamente. E invece non è così. Dopo aver letto un post pubblicato sulla pagina Briganti in cui veniva riassunta perfettamente l’entità del “sommerso economico in Italia derivante sia da attività legali che presentano profili di irregolarità, come ad esempio l’evasione fiscale, che dal riciclaggio di denaro sporco proveniente da attività illecite e mafiose” abbiamo scoperto che in Italia la maggior parte degli evasori non è al Sud. Secondo i numeri pubblicati (visibili nell‘immagine sotto), al Nord il grado di evasione si attesta al 14, 5%, al centro al 17,4% mentre al Sud solo al 7,9%. I dati emersi dal Rapporto Finale del Gruppo sulla Riforma Fiscale, sono stati diffusi anche dalla Banca d’Italia. Nel lavoro di Ardizzi, Petraglia, Piacenza e Turati “L’economia sommersa fra evasione e crimine: una rivisitazione del Currency Demand Approach con una applicazione al contesto italiano” si legge “dalle stime a livello territoriale si nota una netta differenza tra il centro-nord e il sud, sia per quanto attiene al sommerso di natura fiscale che quello di natura criminale. Per quanto riguarda infine l’evidenza disaggregata per aree territoriali, è emerso che le province del Centro-Nord, in media, esibiscono un’incidenza maggiore sia del sommerso da evasione sia di quello associato ad attività illegali rispetto alle province del Sud, un risultato che pare contraddire l’opinione diffusa secondo cui il Mezzogiorno sarebbe il principale responsabile della formazione della nostra shadow economy. Viene meno, di conseguenza, la rappresentazione del Sud Italia come territorio dove si concentrerebbe il maggiore tasso di economia sommersa". E ora, come la mettiamo?

Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.

Ma quale Sud, è il Nord che ha la palma dell’evasione, scrive Vittorio Daniele su “Il Garantista”. Al Sud si evade di più che al Nord. Questo è quanto comunemente si pensa. Non è così, invece, secondo i dati della Guardia di Finanza, analizzati da Paolo di Caro e Giuseppe Nicotra, dell’Università di Catania, in uno studio di cui si è occupata anche la stampa (Corriere Economia, del 13 ottobre). I risultati degli accertamenti effettuati dalla Guardia di Finanza mostrano come, nelle regioni meridionali, la quota di reddito evaso, rispetto a quello dichiarato, sia inferiore che al Nord. E ciò nonostante il numero di contribuenti meridionali controllati sia stato, in proporzione, maggiore. Alcuni esempi. In Lombardia, su oltre 7 milioni di contribuenti sono state effettuate 14.313 verifiche che hanno consentito di accertare un reddito evaso pari al 10% di quello dichiarato. In Calabria, 4.480 controlli, su circa 1.245.000 contribuenti, hanno consentito di scoprire un reddito evaso pari al 3,5% di quello dichiarato. Si badi bene, in percentuale, le verifiche in Calabria sono state quasi il doppio di quelle della Lombardia. E ancora, in Veneto il reddito evaso è stato del 5,3%, in Campania del 4,4% in Puglia, del 3,7% in Sicilia del 2,9%. Tassi di evasione più alti di quelle delle regioni meridionali si riscontrano anche in Emilia e Toscana. Alcune considerazioni. La prima riguarda il fatto che nelle regioni del Nord, dove più alta è la quota di evasione, e dove maggiore è il numero di contribuenti e imprese, si siano fatti, in proporzione, assai meno accertamenti che nel meridione. Poiché, in Italia, le tasse le paga chi è controllato, mentre chi non lo è, se può, tende a schivarle, sarebbe necessario intensificare i controlli là dove la probabilità di evadere è maggiore. E questa probabilità, secondo i dati della Guardia di Finanza, è maggiore nelle regioni più ricche. La seconda considerazione è che il luogo comune di un’Italia divisa in due, con un Nord virtuoso e un Sud di evasori, non corrisponde al vero. L’Italia è un paese unito dall’evasione fiscale. Il fatto che in alcune regioni del Nord si sia evaso di più che al Sud non ha nulla a che vedere né con l’etica, né con l’antropologia. Dipende, più realisticamente, da ragioni economiche. L’evasione difficilmente può riguardare i salari, più facilmente i profitti e i redditi d’impresa. E dove è più sviluppata l’attività d’impresa? Come scrivevano gli economisti Franca Moro e Federico Pica, in un saggio pubblicato qualche anno fa della Svimez: «Al Sud ci sono tanti evasori per piccoli importi. Al Nord c’è un’evasione più organizzata e per somme gigantesche». Quando si parla del Sud, pregiudizi e stereotipi abbondano. Si pensa, così, che la propensione a evadere, a violare le norme, se non a delinquere, sia, per così dire, un tratto antropologico caratteristico dei meridionali. Ma quando si guardano i dati, e si osserva la realtà senza la lente deformante del pregiudizio, luoghi comuni e stereotipi quasi mai reggono. Di fronte agli stereotipi e alle accuse – e quella di essere evasori non è certo la più infamante – che da decenni, ogni giorno e da più parti, si rovesciano contro i meridionali, non sarebbe certo troppo se si cominciasse a pretendere una rappresentazione veritiera della realtà. Insieme a pretendere, naturalmente, e in maniera assai più forte di quanto non si sia fatto finora, che chi, al Sud, ha responsabilità e compiti di governo, faccia davvero, e fino in fondo, il proprio dovere.

Quante bugie ci hanno raccontato sul Mezzogiorno! Scrive Pino Aprile su “Il Garantista”. L’Italia è il paese più ingiusto e disuguale dell’Occidente, insieme a Stati Uniti e Gran Bretagna: ha una delle maggiori e più durature differenze del pianeta (per strade, treni, scuole, investimenti, reddito…) fra due aree dello stesso paese: il Nord e il Sud; tutela chi ha già un lavoro o una pensione, non i disoccupati e i giovani; offre un reddito a chi ha già un lavoro e lo perde, non anche a chi non riesce a trovarlo; è fra i primi al mondo, per la maggiore distanza fra lo stipendio più alto e il più basso (alla Fiat si arriva a più di 400 volte); ha i manager di stato più pagati della Terra, i vecchi più garantiti e i giovani più precari; e se giovani e donne, pagate ancora meno. È in corso un colossale rastrellamento di risorse da parte di chi ha più, ai danni di chi ha meno: «una redistribuzione dal basso verso l’alto». È uscito in questi giorni nelle librerie il nuovo libro di Pino Aprile («Terroni ’ndernescional», edizioni PIEMME, pagine 251, euro 16,50). Pubblichiamo un brano, per gentile concessione dell’autore. Quante volte avete letto che la prova dell’estremo ritardo dell’Italia meridionale rispetto al Nord era l’alta percentuale di analfabeti? L’idea che questo possa dare ad altri un diritto di conquista e annessione può suonare irritante. Ma una qualche giustificazione, nella storia, si può trovare, perché i popoli con l’alfabeto hanno sottomesso quelli senza; e í popoli che oltre all’alfabeto avevano anche “il libro” (la Bibbia, il Vangelo, il Corano, Il Capitale, il Ko Gi Ki…) hanno quasi sempre dominato quelli con alfabeto ma senza libro. Se questo va preso alla… lettera, la regione italiana che chiunque avrebbe potuto legittimamente invadere era la Sardegna, dove l’analfabetismo era il più alto nell’Italia di allora: 89,7 per cento (91,2 secondo altre fonti); quasi inalterato dal giorno della Grande Fusione con gli stati sabaudi: 93,7. Ma la Sardegna era governata da Torino, non da Napoli. Le cose migliorarono un po’, 40 anni dopo l’Unità, a prezzi pesanti, perché si voleva alfabetizzare, ma a spese dei Comuni. Come dire: noi vi diamo l’istruzione obbligatoria, però ve la pagate da soli (più o meno come adesso…). Ci furono Comuni che dovettero rinunciare a tutto, strade, assistenza, per investire solo nella nascita della scuola elementare: sino all’87 per cento del bilancio, come a Ossi (un secolo dopo l’Unità, il Diario di una maestrina, citato in Sardegna, dell’Einaudi, riferisce di «un evento inimmaginabile»: la prima doccia delle scolare, grazie al dono di dieci saponette da parte della Croce Rossa svizzera). Mentre dal Mezzogiorno non emigrava nessuno, prima dell’Unità; ed era tanto primitivo il Sud, che partoriva ed esportava in tutto il mondo facoltà universitarie tuttora studiatissime: dalla moderna storiografia all’economia politica, e vulcanologia, sismologia, archeologia… Produzione sorprendente per una popolazione quasi totalmente analfabeta, no? Che strano. Solo alcune osservazioni su quel discutibile censimento del 1861 che avrebbe certificato al Sud indici così alti di analfabetismo: «Nessuno ha mai analizzato la parzialità (i dati sono quelli relativi solo ad alcune regioni) e la reale attendibilità di quel censimento realizzato in pieno caos amministrativo, nel passaggio da un regno all’altro e in piena guerra civile appena scoppiata in tutto il Sud: poco credibile, nel complesso, l’idea che qualche impiegato potesse andare in  giro per tutto il Sud bussando alle porte per chiedere se gli abitanti sapevano leggere e scrivere» rileva il professor Gennaro De Crescenzo in Il Sud: dalla Borbonia Felix al carcere di Penestrelle. Come facevano a spuntare oltre 10.000 studenti universitari contro i poco più di 5.000 del resto d’Italia, da un tale oceano di ignoranza? Né si può dire che fossero tutti benestanti, dal momento che nel Regno delle Due Sicílie i meritevoli non abbienti potevano studiare grazie a sussidi che furono immediatamente aboliti dai piemontesi, al loro arrivo. Sull’argomento potrebbero gettare più veritiera luce nuove ricerche: «Documenti al centro di studi ancora in corso presso gli archivi locali del Sud dimostrano che nelle Due Sicilie c’erano almeno una scuola pubblica maschile e una scuola pubblica femminile per ogni Comune oltre a una quantità enorme di scuole private» si legge ancora nel libro di De Crescenzo, che ha studiato storia risorgimentale con Alfonso Scirocco ed è specializzato in archivistica. «Oltre 5.000, infatti, le “scuole” su un totale di 1.845 Comuni e con picchi spesso elevati e significativi: 51 i Comuni in Terra di Bari, 351 le scuole nel complesso; 174 i Comuni di Terra di lavoro, 664 le scuole; 113 i Comuni di Principato Ultra, 325 le scuole; 102 i Comuni di Calabria Citra, 250 le scuole…». Si vuol discutere della qualità di queste scuole? Certo, di queste e di quella di tutte le altre; ma «come si conciliano questi dati con quei dati così alti dell’analfabetismo?». E mentiva il conte e ufficiale piemontese Alessandro Bianco di Saint-Jorioz, che scese a Sud pieno di pregiudizi, e non li nascondeva, e poi scrisse quel che vi aveva trovato davvero e lo scempio che ne fu fatto (guadagnandosi l’ostracismo sabaudo): per esempio, che «la pubblica istruzione era sino al 1859 gratuita; cattedre letterarie e scientifiche in tutte le città principali di ogni provincia»? Di sicuro, appena giunti a Napoli, i Savoia chiusero decine di istituti superiori, riferisce Carlo Alianello in La conquista del Sud. E le leggi del nuovo stato unitario, dal 1876, per combattere l’analfabetismo e finanziare scuole, furono concepite in modo da favorire il Nord ed escludere o quasi il Sud. I soliti trucchetti: per esempio, si privilegiavano i Comuni con meno di mille abitanti. Un aiuto ai più poveri, no? No. A quest’imbroglio si è ricorsi anche ai nostri tempi, per le norme sul federalismo fiscale regionale. Basti un dato: i Comuni con meno di 500 abitanti sono 600 in Piemonte e 6 in Puglia. Capito mi hai? «Mi ero sempre chiesto come mai il mio trisavolo fosse laureato,» racconta Raffaele Vescera, fertile scrittore di Foggia «il mio bisnonno diplomato e mio nonno, nato dopo l’Unità, analfabeta». Nessun Sud, invece, nel 1860, era più Sud dell’isola governata da Torino; e rimase tale molto a lungo. Nel Regno delle Due Sicilie la “liberazione” (così la racconta, da un secolo e mezzo, una storia ufficiale sempre più in difficoltà) portò all’impoverimento dello stato preunitario che, secondo studi recenti dell’Università di Bruxelles (in linea con quelli di Banca d’Italia, Consiglio nazionale delle ricerche e Banca mondiale), era “la Germania” del tempo, dal punto di vista economico. La conquista del Sud salvò il Piemonte dalla bancarotta: lo scrisse il braccio destro di Cavour. Ma la cosa è stata ed è presentata (con crescente imbarazzo, ormai) come una modernizzazione necessaria, fraterna, pur se a mano armata. Insomma, ho dovuto farti un po’ di male, ma per il tuo bene, non sei contento? Per questo serve un continuo confronto fra i dati “belli” del Nord e quelli “brutti” del Sud. Senza farsi scrupolo di ricorrere a dei mezzucci per abbellire gli uni e imbruttire gli altri. E la Sardegna, a questo punto, diventa un problema: rovina la media. Così, quando si fa il paragone fra le percentuali di analfabeti del Regno di Sardegna e quelle del Regno delle Due Sicilie, si prende solo il dato del Piemonte e lo si oppone a quello del Sud: 54,2 a 87,1. In tabella, poi, leggi, ma a parte: Sardegna, 89,7 per cento. E perché quell’89,7 non viene sommato al 54,2 del Piemonte, il che porterebbe la percentuale del Regno sardo al 59,3? (Dati dell’Istituto di Statistica, Istat, citati in 150 anni di statistiche italiane: Nord e Sud 1861-2011, della SVIMEZ, Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno). E si badi che mentre il dato sulla Sardegna è sicuramente vero (non avendo interesse il Piemonte a peggiorarlo), non altrettanto si può dire di quello dell’ex Regno delle Due Sicilie, non solo per le difficoltà che una guerra in corso poneva, ma perché tutto quel che ci è stato detto di quell’invasione è falsificato: i Mille? Sì, con l’aggiunta di decine di migliaia di soldati piemontesi ufficialmente “disertori”, rientrati nei propri schieramenti a missione compiuta. I plebisciti per l’annessione? Una pagliacciata che già gli osservatori stranieri del tempo denunciarono come tale. La partecipazione armata dell’entusiasta popolo meridionale? E allora che ci faceva con garibaldini e piemontesi la legione straniera 11 domenica 4 gennaio 2015 ungherese? E chi la pagava? Devo a un valente archivista, Lorenzo Terzi, la cortesia di poter anticipare una sua recentissima scoperta sul censimento del 1861, circa gli analfabeti: i documenti originali sono spariti. Ne ha avuto conferma ufficiale. Che fine hanno fatto? E quindi, di cosa parliamo? Di citazioni parziali, replicate. Se è stato fatto con la stessa onestà dei plebisciti e della storia risorgimentale così come ce l’hanno spacciata, be’…Nei dibattiti sul tema, chi usa tali dati come prova dell’arretratezza del Sud, dinanzi alla contestazione sull’attendibilità di quelle percentuali, cita gli altri, meno discutibili, del censimento del 1871, quando non c’era più la guerra, eccetera. Già e manco gli originali del censimento del ’71 ci sono più. Spariti pure quelli! Incredibile come riesca a essere selettiva la distrazione! E a questo punto è legittimo chiedersi: perché il meglio e il peggio del Regno dí Sardegna vengono separati e non si offre una media unica, come per gli altri stati preunitari? Con i numeri, tutto sembra così obiettivo: sono numeri, non opinioni. Eppure, a guardarli meglio, svelano non solo opinioni, ma pregiudizi e persino razzismo. Di fatto, accadono due cose, nel modo di presentarli: 1) i dati “belli” del Nord restano del Nord; quelli “brutti”, se del Nord, diventano del Sud. Il Regno sardo era Piemonte, Liguria, Val d’Aosta e Sardegna. Ma la Sardegna nelle statistiche viene staccata, messa a parte. Giorgio Bocca, «razzista e antimeridionale», parole sue, a riprova dell’arretratezza del Sud, citava il 90 per cento di analfabeti dell’isola, paragonandolo al 54 del Piemonte. Ma nemmeno essere di Cuneo e antimerìdionale autorizza a spostare pezzi di storia e di geografia: la Sardegna era Regno sabaudo, i responsabili del suo disastro culturale stavano a Torino, non a Napoli;

2) l’esclusione mostra, ce ne fosse ancora bisogno, che i Savoia non considerarono mai l’isola alla pari con il resto del loro paese, ma una colonia da cui attingere e a cui non dare; una terra altra («Gli stati» riassume il professor Pasquale Amato, in Il Risorgimento oltre i miti e i revisionismi «erano proprietà delle famiglie regnanti e potevano essere venduti, scambiati, regalati secondo valutazioni autonome di proprietari». Come fecero i Savoia con la Sicilia, la stessa Savoia, Nizza… Il principio fu riconfermato con la Restaurazione dell’Ancièn Regime, nel 1815, in Europa, per volontà del cancelliere austriaco Klemens von Metternich). E appena fu possibile, con l’Unità, la Sardegna venne allontanata quale corpo estraneo, come non avesse mai fatto parte del Regno sabaudo. Lo dico in altro modo: quando un’azienda è da chiudere, ma si vuol cercare di salvare il salvabile (con Alitalia, per dire, l’han fatto due volte), la si divide in due società; in una, la “Bad Company”, si mettono tutti i debiti, il personale in esubero, le macchine rotte… Nell’altra, tutto il buono, che può ancora fruttare o rendere appetibile l’impresa a nuovi investitori: la si chiama “New Company”.

L’Italia è stata fatta così: al Sud invaso e saccheggiato hanno sottratto fabbriche, oro, banche, poi gli hanno aggiunto la Sardegna, già “meridionalizzata”. Nelle statistiche ufficiali, sin dal 1861, i dati della Sardegna li trovate disgiunti da quelli del Piemonte e accorpati a quelli della Sicilia, alla voce “isole”, o sommati a quelli delle regioni del Sud, alla voce “Mezzogiorno” (la Bad Company; mentre la New Company la trovate alla voce “Centro-Nord”). Poi si chiama qualcuno a spiegare che la Bad Company è “rimasta indietro”, per colpa sua (e di chi se no?). Ripeto: la psicologia spiega che la colpa non può essere distrutta, solo spostata. Quindi, il percorso segue leggi di potenza: dal più forte al più debole; dall’oppressore alla vittima. Chi ha generato il male lo allontana da sé e lo identifica con chi lo ha subito; rimproverandogli di esistere. È quel che si è fatto pure con la Germania Est e si vuol fare con il Mediterraneo.

L’egoismo sociale della Catalogna, scrive il 20 settembre 2017 Barbara Di su "Il Giornale". Quanto sta avvenendo in Catalogna in vista del referendum per l’indipendenza è molto significativo per comprendere il funzionamento dell’egoismo sociale e le conseguenze della violazione del suo principio base. Se i governanti di tutti i livelli di potere coinvolti, dai catalani, agli spagnoli fino agli europei, imparassero ad apprezzare gli egoismi umani ed il loro indispensabile contributo all’evoluzione ed al benessere di ogni società, comprenderebbero finalmente quali meccanismi governano ogni sfera sociale da che esiste l’umanità e riuscirebbero meglio a gestire una situazione che rischia di essere ogni giorno più esplosiva. L’egoismo sociale, infatti, è il prodotto più geniale e nobile dell’istinto di sopravvivenza umano e di tutti gli egoismi, più o meno evoluti, che da questo discendono. Si tratta della consapevolezza degli esseri umani della necessità di interagire e collaborare con gli altri membri di una società al fine di soddisfare al meglio gli egoismi di tutti, attraverso la collaborazione, la suddivisione dei compiti e lo scambio tra egoismi. Uno scambio continuo in cui ogni parte rinuncia ad un proprio egoismo (risorse, tempo, energie, denaro, appagamento autonomo dei bisogni) cedendolo alla controparte per appagare i suoi bisogni ed ottenerne in cambio l’appagamento di un egoismo, diverso o ritenuto di grado superiore nella sua scala di priorità.

È questo l’unico motivo per cui ci si riunisce in una sfera sociale, ossia ogni insieme, più o meno ampio e complesso, di individui riuniti al fine di soddisfare i propri egoismi. È da questo egoismo che nascono le relazioni sociali, che io immagino come un continuo movimento dei singoli all’interno di ogni sfera sociale, a partire dalla famiglia, che, nelle varie situazioni si muove ed agisce per appagare i bisogni di uno, di alcuni, di tutti contemporaneamente, a seconda di quale sfera egocentrica si trovi in un dato momento al centro comandi. Ciò che caratterizza la specie umana è, poi, proprio la capacità incredibile di espansione delle sfere; il singolo ha trovato modo di ampliare i propri desideri e obiettivi, inventandosene in continuazione di ulteriori, grazie alla creazione di sfere sempre più grandi in cui riunirsi ad altri e muoversi tutti insieme per l’appagamento dei bisogni dei membri. Ci si aiuta l’un l’altro, si suddividono i compiti, ciascuno dà il proprio contributo e così ognuno può ottenere ciò che da solo non avrebbe mai raggiunto. Più sono complicati da raggiungere gli obiettivi, più sono necessari diversi contributi coordinati tra loro, più la sfera si allarga, includendo innumerevoli sfere egocentriche che lavorano insieme per soddisfare i desideri comuni, così come dei singoli. Si formano così le associazioni di persone, con gli scopi e le dimensioni più diverse, a loro volta inserite in altre associazioni più grandi, sfere formate da altre sfere, fino ad includere l’intera umanità. In ambito pubblico, inoltre, le sfere sociali sono la struttura portante con cui i membri delle comunità locali soddisfano i bisogni più vari; sono sfere incluse in altre sempre più grandi, a seconda della complessità degli obiettivi che ci si prefigge e del territorio in cui coabitano tutti i pallini egocentrici coinvolti, in un modo o nell’altro, dalle decisioni pubbliche. E non è ancora finita, perché anche gli Stati fanno parte di sfere sociali più ampie, federazioni, unioni continentali, o anche solo collaborazioni, tramite accordi internazionali, commerciali o politici che siano, fino a giungere alle organizzazioni internazionali che possono abbracciare la quasi totalità degli Stati, proprio quando gli egoismi comuni perseguiti perdono la dimensione locale ed abbracciano l’intera umanità. È proprio analizzando tutte queste sfere sociali dal punto di vista egoistico che emerge sia la genialità dell’essere umano, sia la necessità di trovare il modo per coordinarle e farle funzionare al meglio, senza che si sovrappongano in modo inefficiente. In una parola: sussidiarietà. In tanti, infatti, fin troppo spesso, vorrebbero occuparsi di questioni che non gli competono, condizionare scelte che non li riguardano o che coinvolgono gli interessi di altri soggetti, pretendendo di escluderli da ogni decisione, arrogandosi il diritto di scegliere al posto dei diretti interessati. Posto che i singoli hanno creato una sfera sociale proprio per perseguire i loro egoismi particolari, sono solo i creatori ed i membri di quella sfera a poter decidere cosa sia meglio per sé, come farla muovere ed operare, se ingrandirla, se includere od escludere altri soggetti, quali regole di comportamento tenere, come punire o escludere chi non le rispetta, come difendersi dagli attacchi esterni. Ritengo allora che ogni sfera sociale dovrebbe avere competenza solo sugli egoismi delle sfere egocentriche, delle persone che racchiude, solo di quelle e solo di tutte; non di più, perché sarebbe un’imposizione inammissibile nei confronti di chi non ne fa parte; non di meno, perché sarebbe una prevaricazione della maggioranza sulla minoranza. Certo, le sfere spesso si sovrappongono, possono avere confini labili e variabili, ma se si pone attenzione agli obiettivi egoistici perseguiti da ogni sfera sociale in via diretta ed immediata, se se ne comprende lo scopo egoistico istituzionale, si possono individuare i diretti interessati e lasciare solo a loro il potere decisionale. Ecco, in estrema sintesi, questo non è altro che federalismo, o meglio ancora sussidiarietà. Se la applichiamo a qualsiasi attività umana svolta in forma aggregata, a qualsiasi servizio pubblico o interesse privato, vediamo come la logica egoistica degli interessi coinvolti possa essere la chiave di volta per trovare il migliore equilibrio tra le sfere sociali e, soprattutto, per la loro organizzazione. Così come è inefficiente che lo Stato centrale si occupi della perdita delle condutture dell’asilo di Pozzallo, altrettanto illogico che il sindaco di Pozzallo possa imporre le sue scelte su una centrale elettrica, anche se si dovesse trovare nel suo territorio. Se mi guardo intorno, soprattutto in Italia e ancor di più in Europa, vedo invece che si procede alla rinfusa, per passi avanti e indietro, a destra o sinistra, nella suddivisione delle competenze, più attenta ad una logica di mantenimento del potere che di efficienza. E ritengo sia proprio questo il morbo generatore della pesante burocrazia che soffoca, anziché aiutarla, l’attività dei cittadini che, invece, sono riuniti in una società per avere un vantaggio dall’unione e non certo un fardello che ne ostacola lo sviluppo. È, allora, ritornando al fondamento dell’egoismo sociale che si può tentare di mettere ordine in questo caos, che poi è pure il terreno di coltura prediletto della corruzione. Partendo dagli egoismi dei membri di ogni sfera sociale si può avviare un meccanismo di sussidiarietà che parta da un principio molto semplice: tutti coloro che hanno un interesse diretto decidono come far muovere la sfera sociale, tutti gli altri devono stare fuori dal centro comandi. Sì, ma mi si dirà, spesso certe decisioni o attività di una sfera sociale possono avere conseguenze dirette sugli interessi di persone esterne. È un’eccezione che però contiene già la soluzione: se tocca interessi diretti di altri, vuole dire che quella sfera più piccola, in quella determinata situazione, si trova all’interno di una sfera sociale più grande, dove coesistono anche gli altri interessati. Sarà, quindi, il centro comandi di questa sfera più ampia ad avere la competenza per quelle decisioni a cui la sfera più piccola dovrà adeguarsi, e via via così fin dove può espandersi l’inclusione di ogni sfera sociale in un’altra e poi in un’altra ancora. Ora, se questa è la base di ogni società, ecco che il caso della Catalogna evidenzia come il desiderio di indipendenza sia una richiesta di maggiore sussidiarietà che, a quanto pare, la Spagna non ha saputo gestire nel modo più corretto, andando ad occuparsi di questioni che dovevano rimanere gestite dal centro comandi catalano. Ciò ha comportato il pericolo maggiore in cui rischia di incorrere ogni società: la violazione del principio base dell’egoismo sociale. Perché una società possa, infatti, dirsi positiva da un punto di vista egoistico, in ogni scambio ed in ogni sfera sociale, il risultato, l’appagamento degli egoismi, ottenuto dal singolo deve essere superiore a quello che avrebbe ottenuto impiegando le proprie risorse per se stesso; in caso contrario, o si ha uno sfruttamento ingiustificato delle risorse altrui oppure la società è in perdita e non ha nessuna ragione di esistere, meglio scioglierla. Ecco quello che stanno chiedendo i catalani: sciogliere un vincolo sociale in cui si sentono sfruttati e da cui non ritengono di trarre benefici maggiori delle rinunce a cui sono sottoposti. E si tratta, peraltro, della stessa richiesta di tutti i movimenti indipendentisti, o sovranisti come si usa dire ora, che si stanno ribellando ad un’Europa che non riconoscono come utile ai loro bisogni. È proprio l’Unione Europea la prima, d’altronde, a violare il principio base dell’egoismo sociale, sia non contribuendo ad accrescere il benessere dei cittadini europei in misura superiore ai sacrifici imposti, sia soprattutto ad ingerirsi nel centro comandi degli Stati membri imponendo regole che non le competono. Nel momento in cui i burocrati europei hanno cominciato a perdere di vista quali siano gli unici interessi diretti su cui possono avere competenza, a distruggere lo spirito di sussidiarietà su cui era nata la Comunità Europea, ad ingerirsi nelle decisioni che dovevano rimanere di stretta competenza delle sfere sociali statali, ecco che hanno creato i presupposti perché fossero gli stessi cittadini europei a voler disgregare una sfera sociale che non soddisfaceva i loro egoismi né aumentava il loro benessere come avrebbe potuto e dovuto.

Ecco perché in fondo, il referendum catalano non è che l’inevitabile conseguenza del centralismo sia spagnolo che europeo. Per questo considero un controsenso che i catalani pensino di distaccarsi dalla Spagna, ma rimanere in Europa, così come la Scozia dopo la Brexit. Ma si tratta di un controsenso facilmente spiegabile se si pensa alle modalità con cui opera l’UE nei confronti degli Stati membri, imponendo loro misure che hanno ricadute sui cittadini dei singoli Paesi, ma di cui non si assumono la responsabilità diretta, scaricandola sui governanti locali. In altre parole, l’UE prende saldamente il controllo del centro comandi imponendo la rotta, ma lascia il volante radiocomandato in mano ai governanti locali, che non hanno la forza politica di opporsi alle loro decisioni, ma se ne prendono le colpe. Ed ecco che da qui nascono le spinte indipendentiste di Stati e staterelli che si illudono di poter riprendere finalmente il proprio centro comandi, salvo poi un domani ritrovarsi con gli stessi vincoli europei che ne impediscono lo sviluppo e il benessere. Il punto non è, infatti, chi abbia torto o ragione, ma proprio la mancanza di una chiara assunzione di responsabilità da parte di chi effettivamente gestisce il centro comandi. Devono essere i governanti statali ad assumersi la responsabilità delle proprie scelte nazionali e risponderne ai propri cittadini elettori, così come i governanti europei devono rispondere a tutti i cittadini europei delle scelte che riguardano tutto il continente, ma questo è possibile solo quando la suddivisione dei centri comandi e delle sfere sociali è ben delineata e risponde agli effettivi egoismi direttamente coinvolti. In caso contrario, se non ci preoccupa del principale difetto europeo, suddividendo in modo coerente le competenze tra tutte le sfere sociali con un effettivo equilibrio che solo la sussidiarietà può dare, il risultato inevitabile non può che essere la disgregazione sia degli Stati membri sia della stessa Unione Europea. È solo l’inizio di una morte annunciata.

L'ITALIA DEL PREGIUDIZIO E DEL PRECONCETTO.

Valeria e i pregiudizi su Napoli: «Mi sentivo come Bisio in Benvenuti al Sud». Valeria Genova, 31 anni, da Treviso in Campania per seguire il marito. «Mia nonna mi ha salutata dicendo: stai attenta ai proiettili volanti. Pensavo che fosse il Far West, ora piango a lasciarla», scrivono Michela Nicolussi Moro ed Elena Tebano l'8 agosto 2017 su "Il Corriere della Sera". «Vedi Napoli e poi muori» scriveva Goethe nelle lettere del suo Viaggio in Italia, 1787, citando il detto locale: è così bella che se l’hai vista non hai bisogno di vedere altro. Valeria Genova, trentaduenne di Treviso, l’aveva preso un po’ troppo alla lettera: «Quando nel 2015 ho saputo che avrei dovuto seguire mio marito a Napoli mi sono messa a piangere — racconta —. Avevo paura. Dico solo che mia nonna mi ha salutata con queste parole: “Stai attenta ai proiettili volanti”». Adesso per lei è venuto il momento di lasciare il capoluogo campano e ha scritto un addio su Facebook così pieno d’amore per la città da essere diventato virale, con oltre 34 mila like e più di 14 mila condivisioni in meno di una settimana. Tanto che i tifosi del Napoli l’hanno invitata in curva a vedere l’amichevole di oggi allo stadio San Paolo. Ha promesso che ci andrà, se possibile anche con la figlia di due anni, sicuramente con il marito. Lui è pilota dell’aereonautica e, dopo un periodo in Inghilterra e un altro in Veneto, era stato trasferito a Pozzuoli.

I preconcetti (sbagliati). Valeria però di Napoli conosceva solo il sentito dire. «Benvenuti al Sud non è un’esagerazione, è proprio realtà; io mi sentivo come Bisio, sfigata nel dover andare a vivere in una città piena di problemi, come se fossi in mezzo al Far West», ha scritto nel post. Preconcetti, ammette a ragion veduta: «Sono passati due anni in cui ho vissuto Napoli in tutte le sue sfaccettature e non posso sentirmi più scema per tutti i pregiudizi che avevo su di lei — confessa —. Posso affermare con assoluta certezza e convinzione che Napoli è casa mia». E ancora: «In Napoli mi sono tuffata e adesso non vorrei più uscirne, vorrei stare per sempre tra le sue braccia, cullata dalle tante cose che la rendono speciale. Sì il clima, sì il mare, sì il cibo... ma è molto di più! Napoli è cultura, è ricchezza e povertà, è un groviglio di storie e racconti, è poesia e musica, è allegria e caparbietà, è capacità di vivere appieno la vita, è amore e consapevolezza».

L’accoglienza meridionale. A cambiare le cose è stata l’accoglienza del quartiere di Posillipo prima, poi della città intera: «Non conoscevo nessuno, non avevo né amici né parenti. Ma dopo tre giorni — racconta — la mamma di un bambino che era al nido con mia figlia mi ha iscritta in un gruppo WhatsApp con altre mamme e ha organizzato una piccola festicciola. Sono diventate le mie grandi amiche. La gente del Sud ha una propensione verso l’altro, un affetto, un comportamento accogliente e accudente che al Nord ci scordiamo». Infine è arrivata la scoperta della cultura che affonda le radici nella storia partenopea: «L’anima di Napoli è il teatro —spiega —. Per me, abituata a vedere quelli al Nord che faticano a riempire la sala, assistere al San Carlo sempre pieno è stata una grande emozione». Questa settimana Valeria traslocherà a Roma, la nuova destinazione del marito. «Farò l’ambasciatrice di Napoli» ha promesso. Porterà con se orizzonti un po’ più ampi e le parole di Alessandro Siani in Benvenuti al Sud: «Quando un forestiero viene al Sud piange due volte, quando arriva e quando parte».

Un Popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni. Per essere omologati nell'esercitare una professione bisogna essere abilitati. Gli abilitati conformati disconosceranno sempre la loro abilitazione truccata mirata alla coglionaggine certificata. Chi non è come il coglione comune è additato come un anormale, senza che di questi si conoscano pregi e virtù. Su di esso la scure del preconcetto e del pregiudizio.

Il pregiudizio è un giudizio anticipato basato su supposizioni o su informazioni incomplete.

Il preconcetto, invece, è un giudizio che non deriva da un esperienza diretta ma solo a detta di altri. 

Da Treccani:

pregiudìzio, (ant. pregiudìcio) s. m. [dal lat. praeiudicium, comp. di prae- «pre-» e iudicium «giudizio»].

1. Nel diritto romano, azione giuridica precedente al giudizio, e tale da influire talvolta sulle decisioni del giudice competente. 

2. a. Idea, opinione concepita sulla base di convinzioni personali e prevenzioni generali, senza una conoscenza diretta dei fatti, delle persone, delle cose, tale da condizionare fortemente la valutazione, e da indurre quindi in errore (è sinon., in questo sign., di preconcetto): avere pregiudizî nei riguardi di qualcuno, su qualcosa; essere pieno di pregiudizî; giudicare senza (o con l’animo sgombro da) pregiudizî; molti continuano ad avere dei p. sulle capacità professionali delle donne; i suoi p. erano il risultato di un’educazione all’antica; pregiudizî di casta; p. morali, razziali, religiosi, sociali, politici; uno di quei settentrionali con la testa piena di pregiudizi, che appena scendono dalla nave-traghetto cominciano a veder mafia ovunque (Sciascia). 

2. b. Convinzione, credenza superstiziosa o comunque errata, senza fondamento: combattere contro vecchi p. popolari; è un vecchio p. che rompere uno specchio porti sfortuna. 

3. a. Il danno che può derivare agli interessi di una persona da un atto che pregiudichi, cioè comprometta l’esecuzione di una eventuale decisione favorevole del giudice competente; spec. in frasi del tipo: senza p. dei miei diritti; senza p. di terzi; in p. di, con riferimento ad azione giudiziaria, civile o penale, proposta a carico di qualcuno. b. Per estens., fuori del linguaggio giuridico, danno in genere: essere di p. (o di grave p.) per la salute, per la reputazione; recare p., danneggiare; bel modo quell’onesto curato ha saputo trovare per buttar via danari, con non mediocre pregiudizio d’un suo chierichetto, che deve essere un dì suo erede perché gli è nipote (Baretti).

preconcètto, agg. e s. m. [comp. di pre- e del lat. conceptus (part. pass. di concipĕre «concepire»), per traduz. del fr. préconçu].

1. agg. Propriam., concepito prima; si dice soprattutto di idee o giudizî formulati in modo irrazionale, sulla base di prevenzioni, di convinzioni ideologiche, di sentimenti istintivi, spesso per partito preso e senza una esperienza personale: opinioni p.; antipatia, avversione, ostilità p.; una presa di posizione preconcetta. 

2. s. m. Convincimento, idea, opinione privi di giustificazioni razionali o non suffragati da conoscenze ed esperienze dirette: il tuo ragionamento parte da un p. erroneo; bisogna giudicare senza preconcetti; talvolta usato in luogo di pregiudizio, che con questo sign. è termine più com.: essere pieno di preconcetti; avere p. borghesi; una persona che non sa liberarsi dei suoi p.; la moderatezza delle mie parole mandava all’aria tutti i suoi p., le sue misure abituali (C. Levi).

PRECONCETTI E DISCRIMINAZIONE. Scrive Roberto Quaglia: "Caro Maurizio Costanzo Show, si ha un bel dire che avere dei preconcetti è male, ma, appunto, si ha un bel dire e basta e anzi, in tal dire - se vogliamo andare in fondo alla questione - v'è anche assai poco di bello. L'essere umano vive infatti grazie ad una visione del mondo costituita per lo più da preconcetti. La nozione stessa che avere dei preconcetti sia un fatto negativo, è essa stessa un preconcetto. Ma cos'è un preconcetto?

Dal dizionario Gabrielli: "PRECONCETTO: Che è concepito nell'animo prima di essere stato conosciuto, considerato, sperimentato, in modo da creare pregiudizio, da vietare un giudizio sereno della realtà." Come si vede, il preconcetto non è il pregiudizio, ma è di esso invece eventualmente la causa. Si noti come anche nel dizionario Gabrielli si accenni al significato negativo del termine (...vietare un giudizio sereno...). Il dizionario Gabrielli, definendo il preconcetto, è vittima esso stesso di un preconcetto, dal che consegue, in virtù della definizione che esso stesso attribuisce alla parola "preconcetto", che il redattore del dizionario ha definito tale concetto senza averlo prima conosciuto, considerato, sperimentato, in altre parole compreso, riportandone invece il significato popolarmente più diffuso, in altre parole il preconcetto. Pensare che in Australia vivano i canguri è un preconcetto, per ogni persona che non sia mai stata in Australia. Anche l'idea che l'Australia esista è un preconcetto, per chi non ci sia mai stato. Chi ci garantisce che l'esistenza dell'Australia non sia soltanto una leggenda infondata? E' opinione diffusa che l'Australia esista, ma finché uno non ci va, quella sua opinione è un preconcetto. Non c'è nulla di male in questi preconcetti. In realtà non c'è nulla di male nei preconcetti in generale. Il 99% delle nostre cognizioni sono in realtà preconcetti. Anche il concetto che Marilyn Monroe sia sessualmente appetibile è un preconcetto. In realtà è morta, sepolta e decomposta e quindi tutt'altro che sessualmente riutilizzabile. Anche il concetto che fosse sessualmente appetibile quando era viva è un preconcetto. Abbiamo giusto visto qualche sua truccatissima immagine bidimensionale in movimento, senza neanche udirne la voce (doppiata). Per quello che ne sappiamo noi puzzava, ed il suo alito poteva evocare l'impressione di un distillato di calzini marci. Per quello che ne sappiamo tutte le sue foto e tutti i fotogrammi di tutti i suoi film sono abilmente ritoccati per farcela sembrare arrapante. Non l'abbiamo conosciuta e sperimentata, questa è la verità, ogni opinione che abbiamo di ciò che lei fosse è un preconcetto. Se uno proprio non sa cosa fare, può sedersi ad una scrivania o altrove ed elencare su un foglio di carta tutti i propri preconcetti che gli vengono in mente, cioè tutte le cose che ritiene di sapere pur non avendo mai avuto occasione di verificarle, sperimentarle, farne esperienza in prima persona. Non ho idea a che cosa possa servire fare ciò, ma se a qualcuno viene davvero voglia di farlo, lui/lei saprà cosa gli/le servirà. Se allora i preconcetti non sono niente di male, cosa serve sapere cosa sono? E perché ne stiamo parlando? Be', tanto per iniziare per restituire la dignità perduta al concetto di preconcetto, incolpevole vittima di se stesso, cioè di un preconcetto. E tiriamo adesso in ballo un altro vocabolo vittima di un atroce preconcetto: "Discriminazione"! Ci hanno insegnato che discriminare è male. Ci si dice solidali con le cosiddette "vittime della discriminazione". Si parla nei telegiornali di "gravi fatti di discriminazione". La parola "discriminazione" è spesso associata a "intolleranza", come se significassero qualcosa di simile.

Il dizionario Gabrielli dice: "DISCRIMINAZIONE: L'atto e l'effetto del discriminare, distinzione, differenza." E ancora: "DISCRIMINARE: Far differenza o distinguere tra persone e cose; differenziare, distinguere." Nulla di negativo è contenuto in tal vocabolo. Che la discriminazione sia qualcosa di negativo in sé, è un preconcetto. Chiunque ritenga che "discriminare" sia male, ha adottato tale preconcetto, dal che consegue, in virtù della definizione del Gabrielli di "preconcetto", che tal persona non ha mai conosciuto, considerato, sperimentato, il reale significato della parola "discriminare". E discriminare, cioè distinguere, riconoscere differenze, è invece essenziale nella vita di chiunque. Ed è importante imparare a discriminare coscientemente, lucidamente, soprattutto riguardo ai preconcetti, cioè quella gran massa di convinzioni che non sono frutto dell'esperienza, della propria sperimentazione, di una conoscenza approfondita, delle necessarie verifiche. Bisogna prendere coscienza dei propri preconcetti e tra essi discriminare, separando i preconcetti utili da quelli dannosi, quelli sensati da quelli dissennati. E' utile e sensato avere il preconcetto che l'Australia esista, anche se non ci si è mai stati, perché a questo modo si può eventualmente prendere in considerazione l'opportunità di andarci in vacanza. E' dannoso e dissennato avere il preconcetto che i negri sono una razza inferiore, perché ci si crea dei nemici che nemici altrimenti non sarebbero, e si incentiva e legittima nel contempo altri individui a sviluppare lo stesso preconcetto nei nostri confronti. In sintesi, la via della saggezza e quella di imparare a discriminare tra i propri preconcetti, e non in base ai propri preconcetti. Tutto questo polpettone intendeva introdurre qualche divagazione circa il diffuso preconcetto della morte. Ne parleremo, caro Maurizio Costanzo Show, nella prossima lettera. Roberto Quaglia".

Stereotipi e pregiudizi. Alla base di atteggiamenti non basati sull'esperienza diretta vi sono spesso stereotipi e pregiudizi, scrive “Sapere.it”.

Per la psicologia sociale uno stereotipo corrisponde a una credenza o a un insieme di credenze in base a cui un gruppo di individui attribuisce determinate caratteristiche a un altro gruppo di persone.

Gli stereotipi. Gli stereotipi assomigliano molto dunque a degli schemi mentali e quando per valutare o prevedere il comportamento di una persona ricorriamo a degli stereotipi, questo tipo di ragionamento ricorda molto quanto detto a proposito delle euristiche: utilizzando uno stereotipo per valutare una persona noi non facciamo altro che utilizzare come scorciatoia mentale l'ipotesi che chi rientra in una determinata categoria avrà probabilmente le caratteristiche proprie di quella categoria. D'altra parte uno stereotipo non si basa su una conoscenza di tipo scientifico, ma piuttosto rispecchia una valutazione che spesso si rivela rigida e non corretta dell'altro, in quanto attraverso gli stereotipi si tende in genere ad attribuire in maniera indistinta determinate caratteristiche a un'intera categoria di persone, trascurando cioè tutte le possibili differenze che potrebbero invece essere rilevate tra i diversi componenti di tale categoria. Occorre tuttavia ricordare, sulla base di quanto detto poco sopra sulla somiglianza tra stereotipi e modelli mentali, che non necessariamente tutti gli stereotipi sono negativi: ad esempio, lo stereotipo che gli anziani hanno i capelli bianchi non ha una connotazione negativa, e se utilizzato tenendo conto che possono anche esistere eccezioni (vivendolo dunque non come “tutti gli anziani hanno i capelli bianchi” ma “molti anziani hanno i capelli bianchi”), può anche rivelarsi un'utile strategia cognitiva. In effetti se considerati come delle generalizzazioni che possono rivelarsi approssimative, gli stereotipi dimostrano di potersi rivelare, così come gli schemi mentali, delle valide strategie mentali. Può essere utile riflettere sul come e sul perché tendiamo a creare degli stereotipi, anche se spesso essi si rivelano nient'altro che concezioni errate. In parte molti dei nostri stereotipi sono mutuati culturalmente (come quelli legati alla differenza uomini/donne, oppure relativamente al carattere o ai difetti di certe popolazioni), e ci spingeranno ad etichettare certi atteggiamenti in maniera diversa a seconda dell'attore coinvolto per rimanere coerenti con lo stereotipo di base. Ad esempio, se condividiamo lo stereotipo che le donne siano meno brave degli uomini nell'impiegare il computer, interpreteremo come mancanza di competenza un errore che causa l'arresto del sistema operativo da parte di un'amica o di una collega, mentre vedremo come una distrazione lo stesso errore commesso da un amico o un collega. Al contrario vedremo come eccezioni che confermano la regola, una donna particolarmente a suo agio con questioni informatiche o un uomo che non è in grado di utilizzare un computer, senza rischiare così di dover mettere in forse lo stereotipo di riferimento. Gli studi sulla memoria hanno anche dimostrato come tendiamo a ricordare meglio e con più precisione episodi che confermano le nostre credenze e a dimenticare o sfumare quelli che le contraddicono; inoltre, dal punto di vista cognitivo, le persone tendono a dare un peso maggiore alle prove che confermano le proprie ipotesi piuttosto che a quelle che le contraddicono.

I pregiudizi. Similare alla connotazione più negativa di uno stereotipo, in psicologia un pregiudizio è un'opinione preconcetta concepita non per conoscenza precisa e diretta del fatto o della persona, ma sulla base di voci e opinioni comuni. Il significato di pregiudizio è cambiato nel tempo: si è passati dal significato di giudizio precedente a quello di giudizio prematuro e infine di giudizio immotivato, di idea positiva o negativa degli altri senza una ragione sufficiente (il pregiudizio è in tal senso generalmente negativo). Bisogna anche distinguere il concetto errato dal pregiudizio: un pensiero infatti diventa pregiudizio solo quando resta irreversibile anche alla luce di nuove conoscenze. Un pregiudizio può essere considerato un atteggiamento e come tale può essere trasmesso socialmente, e ogni società avrà dei pregiudizi più o meno condivisi da tutti i suoi componenti. Inoltre – riflessione valida anche nel caso degli stereotipi – tendiamo a formare i nostri pregiudizi soprattutto relativamente a persone appartenenti a un gruppo diverso dal nostro, di cui necessariamente avremo una conoscenza meno approfondita, e di cui saremo quindi meno in grado di vedere differenziazioni interne. Le ricerche sociologiche hanno anche posto in evidenza come le persone inserite, anche arbitrariamente, in un gruppo tendono ad accentuare le differenze che portano ad una distinzione del gruppo di appartenenza rispetto agli altri, e a cercare quindi di favorire il proprio gruppo. Spesso il nutrire pregiudizi relativamente a determinate categorie di persone porta, come evidenziato parlando degli atteggiamenti, a modificare il nostro comportamento sulla base delle nostre credenze, con la conseguenza di creare condizioni tali per cui ipotesi formulate sulla base di pregiudizi si verificano (profezie che si autoavverano). Naturalmente questi comportamenti porteranno poi al rafforzamento degli stereotipi stessi. Ad esempio, se per un qualche motivo Amilcare si è convinto che i toscani sono persone estremamente litigiose, incontrando il cugino livornese di Matilde assumerà probabilmente un atteggiamento più provocatorio, intendendo difendersi dagli “inevitabili” attacchi che si aspetta. Ma questo suo atteggiamento sarà visto come ostile e ingiustificato dal cugino toscano che a sua volta si metterà sulla difensiva nei confronti di Amilcare, che lo percepirà come litigioso, rafforzando di conseguenza il suo pregiudizio. È possibile eliminare i pregiudizi? Non si tratta di un'impresa facile, in quanto i pregiudizi, come abbiamo visto, sono determinati da una serie di concause che hanno le loro radici nel sociale e possono quindi vantare una forte influenza sugli individui. Favorire contatti tra gruppi diversi, migliorare la conoscenza delle persone che per qualche motivo vengono percepite come “diverse” può servire a ridurre i pregiudizi, ma naturalmente occorre che le persone siano effettivamente disposte a rivedere le proprie convinzioni.

Lombroso e quella paura dell’individuo anormale. Dalle sentenze al senso comune il senso della pericolosità è rimasto come incistato nei cervelli di ciascuno di noi. Situato all’incrocio tra il sapere medico e il sapere giudiziario, scrive Pier Aldo Rovatti il 16 dicembre 2016 su "L'Espresso". L'idea di pericolosità che una cultura neoilluminista avrebbe dovuto disinnescare e lasciarsi alle spalle, continua invece a tenere il campo e a produrre effetti inquietanti. La nozione di individuo pericoloso, quell’individuo che potremmo incontrare giù all’angolo della strada, sembra profondamente radicata nelle nostre menti, quasi non avessimo a disposizione alcuno strumento per contrastarla davvero o solo per snidarla: è molto difficile trovare qualcuno completamente immune, anche se molti pretendono di esserlo. È un pregiudizio? Non saprei battezzarlo: di sicuro agisce prima di ogni valutazione e contro ogni buon proposito. Michel Foucault ci ha raccontato, in alcuni suoi scritti degli anni Settanta, come nasce nella modernità questa nozione che in definitiva coincide con l’idea di anormale. L’individuo pericoloso viene descritto dalla psichiatria di allora come un tipo di folle capace di esplosioni imprevedibili e incontrollate, una follia monomaniaca, come la si chiamava, tanto più sorprendente quanto meno incanalabile in un profilo individuale di vita. Famosa è rimasta, grazie allo stesso Foucault, la vicenda del giovane contadino francese Pierre Rivière che d’improvviso stermina buona parte della propria famiglia e poi scappa nei boschi. Non aveva dato fin lì particolari segni di squilibrio (sarà lui stesso a fornirne qualche traccia in una “memoria” di sorprendente lucidità scritta in prigione dopo la cattura), il che metterà a lungo in scacco la giustizia del tempo e gli stessi psichiatri, tra cui il notissimo Esquirol. Infatti, ci si comincia allora a chiedere come trattare una pericolosità che si situa all’incrocio tra il sapere medico e il sapere giudiziario. Ancora oggi, quando sono passati quasi due secoli e la questione è stata studiata in lungo e in largo, restano parecchie ombre. Da noi, nonostante la chiusura dei manicomi (la “rivoluzione” condotta da Franco Basaglia prima a Gorizia e poi a Trieste, con il suo esito in una legge nazionale, la “180”, decisamente pionieristica), la soppressione dei cosiddetti Ospedali psichiatrici giudiziari è cronaca recentissima, ma le ombre potranno comunque essere completamente diradate solo nel momento in cui dal Codice penale scomparirà ogni riferimento all’individuo pericoloso (“pericoloso a sé e agli altri”), un individuo come tale criminogeno. Per ora simile norma, nonostante tutto, sussiste nella sua evidente vaghezza e nella sua impressionante lontananza dal mondo reale e dagli sviluppi effettivi della nozione stessa di individuo pericoloso. Dopo le teorie della “degenerazione” e dopo gli studi di Cesare Lombroso, per fare solo due esempi, la pericolosità individuale appare adesso inscindibilmente collegata al calcolo dei rischi che una società deve prevedere e prevenire. Le teorie della “degenerazione” hanno cercato di rispondere allo scacco di una pericolosità immotivata con l’ipotesi di tare ereditarie (oggi diremmo, leggibili nel Dna di una persona), e non c’è bisogno di ricordare le nefandezze di massa perpetrate dai regimi autoritari del secolo scorso (ma non solo lì) per liberarsi dai soggetti “deboli”, con pratiche che vanno dalla sterilizzazione alla soppressione fisica dei malati mentali. Roba vecchia? Ma quanto di tale ipotesi degenerativa è rimasto vivo nell’opinione comune (e anche nelle perizie psichiatriche)? Quanto a Lombroso e alla sua geniale fisiognomica dell’individuo anormale, con annesse immagini dei tratti della mostruosità umana e delinquenziale, è arduo convincersi che questa “cultura” sia ormai scomparsa dalla scena. Al contrario, si ha l’impressione che essa sia rimasta come incistata nei cervelli di ciascuno di noi. Per negarlo, dovremmo riuscire a dire a noi stessi che il nostro giudizio è totalmente immune dalla immediata valutazione delle fattezze di chi ci capita di incontrare e dunque dalla pretesa di capire al volo se si tratta di qualcuno di cui fidarsi o da evitare. Non c’è neppure bisogno di sottolineare che questo istantaneo identikit di pericolosità può portarci in fretta ad atteggiamenti di tipo razzistico che mai accetteremmo consapevolmente di attribuire a noi stessi. Insomma, la cartina di tornasole della pericolosità non è certo caduta in disuso e, siccome continuiamo tranquillamente e acriticamente ad adoperarla, dovremmo fermarci un momento a pensare se l’attuale cultura possa effettivamente chiamarsi neoilluministica, a partire proprio da un’analisi autocritica dei modi con cui esprimiamo nel concreto le nostre inclinazioni soggettive. Riusciamo a dribblare il problema spostando lo sguardo sui rischi sociali? Mi spiego. Esiste da alcuni decenni una pratica culturale che ci invita a distogliere l’attenzione dai singoli individui ritenuti pericolosi per concentrarci piuttosto sui cosiddetti studi attuariali, cioè sul calcolo dei probabili rischi cui sarebbe esposto un contesto sociale, per esempio quelli connessi al terrorismo. Si tratta di un duplice spostamento, dal singolo individuo pericoloso a un collettivo di individui o a una “popolazione” di soggetti produttori di rischio sociale, e, secondariamente, da un’indagine sulla storia pregressa degli individui a una prospezione rivolta al futuro e alla probabilità del danno sociale. In questo modo non sarebbe solo in gioco la psichiatria con i suoi folli muti e impenetrabili, e neppure avrebbero voce autorevole gli psicoanalisti, i quali hanno sempre tentato con i loro strumenti di penetrare dentro l’enigma della soggettività per dare parole a quanto dell’individuo si oppone con il suo silenzio a fornire una rappresentazione di se stesso. Quella che, invece, viene costruita è l’idea di una società pericolosa di per sé e quindi produttrice di rischi anonimi e diffusi da tradursi in probabilità. Arrivo così alla domanda decisiva: che ne è attualmente della pericolosità? A me pare che la partita, così impostata, risulti in buona parte truccata. Si vorrebbe cancellare l’idea dell’individuo pericoloso e con essa l’idea stessa di pericolosità, ma si ottiene il risultato opposto di diffondere ovunque il timore del pericolo e al tempo stesso di astenersi da un’indagine critica che scoperchi quanto di ideologico viene conservato nello stigma dell’“individuo pericoloso”. L’altra faccia della ponderazione dei rischi sociali potrebbe rivelarsi quella di un vero e proprio terrorismo psicologico. Il soggetto pericoloso può annidarsi dovunque e in chiunque: può essere chi vive dietro la porta accanto, ma anche chi vive assieme a te, potresti perfino essere tu stesso. La sentenza “pericoloso a sé e agli altri” non solo non viene ancora cancellata da codici ormai antiquati e retrogradi, al contrario sembra potersi applicare in un modo generalizzato e generico, ben al di là dei casi attribuibili a follia individuale. Pericolosi possiamo diventare tutti, basta rientrare per qualche aspetto nel dispositivo della paura sociale. Cosa significa, infine, pericolosità? Tutto, ma anche niente, poiché l’idea stessa di pericolosità ci sta sfuggendo di mano e sono diventati pressoché inservibili quegli strumenti, che pure avevamo, utili per criticare e smontare il pregiudizio della pericolosità.

Intolleranti e discriminati: sono gli italiani secondo l’Istat (e le donne sono quelle che stanno peggio), scrive il 19 luglio 2017 Alessandra Arachi su "Il Corriere della Sera". Sono numeri che vanno letti e riletti per poter credere fino in fondo che siano veri. Li ha prodotti l’Istat realizzando un’indagine sulle discriminazioni, le intolleranze e le violenze in Italia. La prima scoperta? Sono 11 milioni e 300 mila gli italiani che dichiarano di aver subito discriminazioni, ovvero un cittadino su quattro di un’età compresa tra i 18 e i 74 anni. Ma la prima scoperta non è certo la peggiore. L’Istat ha indagato le sensibilità degli italiani rispetto agli omosessuali: è venuto fuori che nel 2017 un italiano su quattro associa l’omosessualità a una malattia. Ed entrando nel mondo del lavoro, poi, si è scoperchiato il vaso di Pandora: più di una donna su due (il 51,8%) nell’arco della vita ha subito ricatti o molestie sessuali sul lavoro, in numero assoluto 10 milioni 485 mila donne in età compresa tra i 14 e i 65 anni. L’indagine dell’Istat è contenuta nella relazione della Commissione parlamentare sull’intolleranza, voluta dalla presidente Laura Boldrini, che verrà presentata giovedì mattina a Montecitorio. È piena di numeri che ti saltano addosso, e che spaziano dal certificare quell’orribile violenza che porta ai femminicidi (una donna su tre fra i 16 e i 70 ha subito violenza fisica, in due casi su tre dal proprio partner), ad una violenza sottile e quotidiana che si chiama pregiudizio o, semplicemente, stereotipo. Un’altra cifra, per capire? Siamo sempre nel 2017 e, purtroppo sempre in Italia, il 34,4% dei cittadini (più di uno su tre) ha voluto rispondere all’Istat che una madre che lavora non può stabilire un buon rapporto con i propri figli. C’è poi un atteggiamento evidente, soprattutto in questi giorni caldi per gli sbarchi sui nostri mari, però l’Istat lo certifica: sono sei italiani su dieci che si mostrano diffidenti verso gli stranieri. Ma la verità è che la diffidenza persiste anche nei confronti degli omosessuali: un cittadino su cinque ritiene poco o per niente accettabile avere un collega, un superiore o, addirittura un amico omosessuale.

Se il comune di Arco ora chiede la certificazione di antifascismo. Ad Arco, in provincia di Trento, il comune chiede alle associazioni di volontariato di sottoscrivere una dichiarazione di riconoscimento dei "valori antifascisti", indispensabile per ottenere contributi pubblici e uso degli spazi comunali. Ma c'è chi protesta: "Iniziativa assurda", scrive Roberto Vivaldelli, Giovedì 20/07/2017, su "Il Giornale". Non solo Boldrini e Fiano, l'antifascismo militante è materia di dibattito anche nelle piccole realtà locali. Il consiglio comunale di Arco, quarta città del Trentino, ha recentemente approvato una mozione in cui chiede a tutte le associazioni del territorio che fanno domanda di utilizzo di spazi pubblici e richiesta di contributo, di firmare una dichiarazione esplicita di riconoscimento dei “valori antifascisti”. L'amministrazione comunale, sorretta dal centro-sinistra autonomista, ha approvato un documento che presto si tradurrà in un modulo obbligatorio che tutte le associazioni dovranno sottoscrivere se vorranno beneficiare degli spazi comunali e del patrocinio. Facendo riferimento alla legge Scelba del 1952 e alla Legge Mancino del 2005, la recente delibera impone come requisito necessario per l'assegnazione di spazi e contributi pubblici "il non aver subito condanne, anche con sentenza non definitiva, per i reati delle leggi sopracitate” oltre a "prevedere, nei moduli di richiesta di utilizzo di spazi pubblici da presentare al momento della richiesta di autorizzazione, una dichiarazione esplicita di riconoscimento dei valori antifascisti espressi dalla Costituzione italiana". La delibera, in realtà, va oltre e impone alle istituzioni di controllare e visionare l'operato delle associazioni sui social network e su internet, istituendo un “meccanismo di intervento impeditivo per quanto riguarda l'assegnazione di contributi, patrocini o altre forme di supporto e sostegno ad associazioni che, pur avendo sottoscritto la suddetta dichiarazione, presentino richiami all'ideologia fascista, alla sua simbologia, alla discriminazione etnica, religiosa, linguista o sessuale, verificati a livello statutario, sui siti internet e sui social network, o nell'attività pregressa". Il comune, oltre a far sottoscrivere la dichiarazione a tutte le associazioni - siano esse di volontariato, sportive o altro - dovrà dunque tenere d'occhio i social e monitorare i contenuti dei singoli post, stabilendo se essi siano più o meno "discriminatori" ed eventualmente non concedere i contributi o gli spazi pubblici secondo questa valutazione. Per i proponenti, “l'antifascismo è la radice ideale e culturale da cui nasce la Repubblica italiana e la sua costituzione democratica, la quale rappresenta il metodo democratico contro ogni forma di totalitarismo”. L'obiettivo, non troppo velato, è quello di limitare in zona l'attività di Casapound, Forza Nuova e delle varie onlus e associazioni che gravitano attorno a quel mondo. Nella tranquilla città trentina, situata nel sud del Trentino a pochi chilometri dal Lago di Garda, non tutti però hanno appoggiato quest'iniziativa del consiglio comunale, bollandola come "illiberale" e "liberticida". C'è chi, come il signor Mario Matteotti, per tanti anni consigliere comunale del vecchio PCI e ora organizzatore di importanti manifestazioni cittadine come il carnevale - che non la politica hanno ben poco a che vedere - ha deciso di “ribellarsi” e di non sottoscrivere alcuna dichiarazione di antifascismo. E se il comune non farà un passo indietro, è pronto a rinunciare al volontariato, dopo tanti anni. “Parlo a nome di un gruppo di 50 persone e volontari - ci racconta - Per noi la costituzione è sacra e l'abbiamo sempre rispettata. Alcuni di noi sono stati persino consiglieri comunali e hanno militato in partiti di sinistra. Ma questo provvedimento è assurdo e fuori tempo massimo. Non firmeremo alcun modulo. Noi riteniamo che tutti, nel loro piccolo e nella loro quotidianità, abbiano sempre rispettato la costituzione". Per Matteotti si tratta di una questione di principio: "La mia storia personale parla chiaro, non accetto che mi si chieda di firmare una dichiarazione del genere e men che meno accetto che ci sia qualcuno che giudichi il mio essere o meno contro il fascismo”. Una presa posizione che ha scatenato il dibattito nella città trentina e in tutta la provincia, con alcune associazioni pronte a seguire l'esempio del signor Matteotti. Difficile che il comune faccia un passo indietro o riveda la sua posizione.

GLI ITALIANI NON SANNO PERDERE.

Si vince e si perde ovunque, non solo in Italia. Ma in Italia, più spesso che altrove, chi è vinto non accetta la sconfitta. Bisogna saper perdere racconta il declino, l’uscita di scena ma anche l’horror vacui di alcuni degli uomini più potenti del nostro Paese. Politici che hanno governato un partito, o uno Stato, per anni, a volte per decenni. Che hanno avuto a disposizione soldi e voti. Che hanno regalato sogni e speranze, e attirato invidie e diffidenze. E che alla fine, inevitabilmente, hanno fatto i conti col fallimento di un progetto o la fine di una carriera. Questo libro è una storia pubblica, ma anche un diario privato. Rivela i dubbi di Umberto II e Mario Segni, il risentimento di Parri e Prodi, l’amarezza di De Gasperi, il cinismo di Togliatti, gli insuccessi di Nenni e Fini, le fughe e la pervicacia di Fanfani e De Mita, la rabbia di Craxi, l’ostinazione di Berlusconi, fino all’irruzione di Renzi. C’è chi, ieri come oggi, grida al “colpo di stato”, chi invoca i “brogli”, chi si scaglia contro le congiure, chi prepara rivalse e vendette, chi ostacola con ogni mezzo la sua successione e chi ostenta distacco, finge l’addio, ma prova a mantenere il controllo su poltrone e programmi. Perché, a volte, saper perdere conta molto più di vincere.

Bisogna saper perdere. I Donald Trump di casa nostra, scrive David Bidussa il 18 ottobre 2016. Nei giorni scorsi Donald Trump è tornato ad agitare lo spettro di un’eventuale frode elettorale a novembre affermando che l’unico modo in cui potrebbe uscire sconfitto dallo Stato chiave della Pennsylvania sarebbe “una trappola”. Non è la prima volta che il candidato repubblicano insinua un eventuale broglio nelle elezioni presidenziali di novembre. Una convinzione a cui prima di tutto non credono i suoi compagni di partito, ma che non per questo è destinata a spegnersi perché all’origine della diffidenza di Trump sta proprio la sua valutazione sui membri del suo partito. L’affermazione di Trump a molti può sembrare esagerata o fuori luogo. E’ probabile che resterà come il segno più evidente e profondo per davvero di questa tornata elettorale: non la corsa alla presidenza di un personaggio estremo, ma la delegittimazione dell’esito del voto da parte dello sconfitto, sarà il vero lascito di questa corsa elettorale. Il tema politico da cui dovrà ripartire la prossima volta il candidato alla Presidenza degli Stati Uniti. E’ un dato tuttavia che forse in maniera meno urlata, ma non meno strutturale, riguarda la storia italiana dall’avvento della Repubblica. L’idea e l’immagine sono quelle di spiegare la sconfitta non tanto come destino avverso, ma soprattutto come risorsa che i “poteri forti” da sempre alleati per sconfiggere tutti coloro che periodicamente si presentano sulla scena della politica o che nella disputa elettorale sentono di rappresentare la chance di cambiamento e di riforma e si trovano spesso a misurare la distanza con chi vince il confronto politico con loro (spesso accusando i propri, o una parte dei propri si averli voluti perdenti). Raccontare la propria sconfitta significa molto spesso raccontare la storia di chi ha tramato o truccato una partita altrimenti votata ad altro esito. Filippo Maria Battaglia e Paolo Volterra con Bisogna saper perdere. Sconfitte, congiure e tradimenti in politica da De Gasperi a Renzi (Bollati Boringhieri) forniscono un variegato campionario di storie e di figure che si riconoscono in questa parabola. Per esempio: Ferruccio Parri che si dimette nel novembre 1945 e che minaccia un colpo di Stato in corso (una scena quella delle dimissioni di Parri che Carlo Levi nel suo L’orologio aveva descritto con maggior sobrietà, bisogna dire); Alcide De Gasperi, che esce lentamente di scena, e che da leader indiscusso del suo partito vive il lento abbandono; Ciriaco De Mita, uno sconfitto sempre che governa per un decennio. Oppure Bettino Craxi e Achille Occhetto che spiegheranno le loro rispettive sconfitte rispolverando la retorica della vittima. Per non dimenticare, infine, Mario Segni, o Mario Monti e soprattutto Romano Prodi, il capo governo che cade due volte (nell’ottobre 1998 e poi nel gennaio 2008) in un clima di forti contrasti interni e che farà del suo presentarsi come vittima la carta da visita del politico puro. La storia dell’Italia repubblicana è un lungo serial di sconfitti che rivendicano la loro condizione di vittime di poteri forti, di inganni. Il che vuol dire che la sconfitta, proprio perché ritenuta “immeritata” non determina l’uscita di scena. La sconfitta, invece in questa logica viene raccontata come la conseguenza di un gioco basato sull’imbroglio o sulla doppiezza. Figlia non già della competizione politica, del confronto aperto, bensì della doppiezza che si annida soprattutto tra “gli amici”. Davvero Donald Trump è lontano dal vecchio, vizio della politica italiana?

Filippo Maria Battaglia, Paolo Volterra: bisogna saper perdere. I politici italiani non riescono ad accettare un esito infausto delle loro battaglie: partendo da questa constatazione Filippo Maria Battaglia e Paolo Volterra, entrambi giornalisti di Sky Tg24, costruiscono un agile e documentato volume sulle sconfitte elettorali e sui loro risvolti psicologici sugli artefici di quelle sconfitte. L’analisi si basa sulle dichiarazioni degli interessati, ora apocalittiche (come l’evocazione di un possibile colpo di stato da parte di Ferruccio Parri) ora tautologiche (“perdere può anche voler dire non vincere al momento giusto” Ciriaco De Mita) ora altisonanti (“stasera qualcosa è finito” Romano Prodi).  Osservano Battaglia e Volterra che negli Stati Uniti, e in Germania, Spagna e Gran Bretagna chi perde si ritira e spesso non riveste più cariche pubbliche. Da noi invece i capi di stato e di governo sono sempre gli stessi, a rotazione. Ogni capitolo del libro è corredato da una bibliografia così completa da includere anche materiali video. Una curiosità: il capitolo su Silvio Berlusconi, a differenza degli altri, è composto da un lungo monologo costruito estrapolando sue dichiarazioni da discorsi fatti in tempi diversi.  

Filippo Maria Battaglia (Palermo, 1984), giornalista di «Sky TG24», vive a Milano. Ha scritto tra l'altro per le pagine culturali di «Panorama», «Il Foglio», «Il Giornale», e del dorso siciliano di «Repubblica». Con Bollati Boringhieri ha pubblicato: Lei non sa chi ero io! La nascita della Casta in Italia (2014) e Stai zitta e và in cucina. Breve storia del maschilismo in politica da Togliatti a Grillo (2015). È inoltre autore di A sua insaputa. Autobiografia non autorizzata della Seconda Repubblica (con A. Giuffrè, 2013), I sommersi e i dannati. La scrittura dispersa e dimenticata nel '900 italiano (2013). Ha curato diverse antologie giornalistiche, tra cui Scusi, lei si sente italiano? (Con Paolo Di Paolo, 2010) e Professione reporter. Il giornalismo d'inchiesta nell’Italia del dopoguerra (con B. Benvenuto, 2008).

Paolo Volterra (Roma, 1966), è capo della redazione politica di «Sky TG24», dove lavora dal 2003. È autore con Max Giannantoni di L'operazione criminale che ha terrorizzato l'Italia. Storia della Falange Armata (2014) e del reportage storico televisivo I giorni di Mani Pulite (2015). Ha studiato Storia e Giornalismo. 

«Abbiamo non vinto». Da Togliatti a Bersani, i politici italiani non sanno perdere. Il libro “Bisogna saper perdere” di Filippo Maria Battaglia e Paolo Volterra racconta come i politici nostrani, dal 1945 a oggi, non sanno fare i conti con il fallimento. Dal “successo marginale” ad “abbiamo non vinto”, scrive Lidia Baratta l'8 Ottobre 2016 su "L'Inkiesta". Quello che tutti si chiedono è: cosa accadrà il 5 dicembre, se Matteo Renzi dovesse perdere il referendum costituzionale? Cioè se vincesse il no? Se ammettesse la sconfitta e uscisse di scena, nella storia della politica italiana sarebbe una grossa novità. Come raccontano Filippo Maria Battaglia e Paolo Volterra nel libro Bisogna saper perdere (Bollati Boringhieri), in Italia – più spesso che altrove – i politici non sanno fare i conti con il fallimento. Da Umberto II a Mario Segni, da Parri a De Gasperi, fino a Craxi, Berlusconi e Renzi. Ieri come oggi, c’è chi grida al colpo di Stato, chi parla di brogli e congiure, chi ostacola la propria successione, ma anche chi ostenta distacco ma alla fine prova a mantenere comunque il controllo. Un certo gergo è rimasto intatto negli anni, dalla prima alla seconda repubblica, un «armamentario di frasi» che annacquano le differenze tra chi vince e chi perde: la «sostanziale tenuta», il «successo marginale», la «piccola flessione» fino al mirabolante «abbiamo non vinto». Siamo nel 1945. L’Italia è appena uscita dalla guerra e già si grida al colpo di Stato. Ferruccio Parri è alla guida del governo. Quando deve lasciare il suo posto ad Alcide De Gasperi, perché l’unanimità nella coalizione viene a mancare, invoca il colpo di Stato e parla del pericolo di un ritorno del fascismo. Non solo. Dopo gli scarsissimi risultati ottenuti alle elezioni per la costituente del 2 giugno, commenta così: «Nonostante la Liberazione, l’Italia è rimasta, in larga parte, lo stesso Paese fascista dei venti anni precedenti». Insomma, se ha perso la colpa è di qualcun altro. Qualche anno più tardi, Palmiro Tagliatti, davanti ai risultati delle politiche del 1948, sostiene che le elezioni non sono state libere e democratiche e che «coercizione, inganno e frode» hanno oppresso la volontà popolare. Il Fronte democratico popolare non ha vinto, eppure – dice – i risultati dei comunisti sono la prova «di un innegabile e notevole rafforzamento della nostra influenza tra le masse popolari». È vero, abbiamo perso, ammette Togliatti, ma fino a un certo punto: siamo comunque arrivati prima dei socialisti. L’emblema della “non sconfitta” diventerà poi Ciriaco De Mita, ex segretario della Dc, dal 2014 reinventatosi sindaco di Nusco. «Ho perso quasi sempre», ha ricordato spesso con un po’ di civetteria. Senza dimenticare che, perdendo e non andando via, ha governato un partito (e un Paese) per quasi un decennio. D’altronde, diceva, «perdere può anche voler dire non vincere al momento giusto». "Perdere può anche voler dire non vincere al momento giusto": Ciriaco De Mita. Persino l’abbottonatissimo Mario Monti, davanti allo sgretolamento di Scelta civica, non ammette un’uscita di scena da sconfitto. «Senza di me», dice, «Berlusconi sarebbe diventato presidente della Repubblica o del Consiglio. Senza di noi, il corso della storia italiana sarebbe stato leggermente diverso». E davanti a una “non vittoria” vale sempre la pena riprovarci. Per cui, a eccezione di De Gasperi, che ha governato ininterrottamente attraverso per governi, gli altri presidenti del Consiglio italiani più longevi hanno “occupato” Palazzo Chigi in modo intermittente. Anche a distanza di uno o più decenni. I poco più di nove anni di governo Berlusconi si sono sviluppati ad esempio lungo 17 anni e sei diverse campagne elettorali. All’estero, invece, i ritorni si contano sulle dita di una mano. Di solito, dopo l’esperienza di governo e una sconfitta elettorale, i leader politici si ritirano. "Da parte mia voglio rassicurarvi: non ho sofferto a lasciare a Palazzo Chigi, non sono un uomo di potere, la mia stella polare è il disinteresse. Anzi, ora volo su aerei più belli di quelli di Stato": Silvio Berlusconi. Nel libro di Battaglia e Volterra si trova anche una “confessione inedita” di Silvio Berlusconi, costruita dagli autori a partire dalle frasi che l’ex Cavaliere ha pronunciato durante la sua attività politica. «Contro di me c’è stato una specie di concerto, di unione di tutte le forze: le grandi industrie, i grandi giornali e tutte le forze della sinistra, Quirinale e Corte Costituzionale compresi. Per non par- lare delle scuole, degli insegnanti, dei sindacati», si legge. «I governi fondati sul processo penale invece che sulle elezioni democratiche si sono viste in questo secolo solo nei paesi dell’Est europeo, a Cuba e nella Corea del Nord. Sono loro l’anomalia, le toghe rosse». Ancora: «Ho tentato di fare la riforma della giustizia ma i vari Fini, Follini, Casini non me l’hanno permesso. Hanno bloccato la nostra attività con la richiesta di continue verifiche, mi hanno fatto perdere per pure ragioni personali. Se non mi avessero messo il bastone fra le ruote! Alla base di tutto c’è che non hanno creduto nella vittoria». E per finire: «Da parte mia voglio rassicurarvi: non ho sofferto a lasciare a Palazzo Chigi, non sono un uomo di potere, la mia stella polare è il disinteresse. Anzi, ora volo su aerei più belli di quelli di Stato». E le cose a sinistra non vanno diversamente. Quando Federico Pizzarotti, M5s, vince a Parma, Pier Luigi Bersani dice: «Ci sono Comuni come Parma e Comacchio dove noi abbiamo ‘non vinto’ perché vorrei ricordare che Parma e Comacchio erano governati dal centro-destra». La sconfitta proprio non si può digerire. Parlando del suo avversario interno al partito Bersani dice: «Renzi sta governando comodamente con i voti che ho preso io». Beccandosi la replica di Renzi: «Io quando ho perso le primarie sono rimasto a sostenere chi le aveva vinte. Nella vita, bisogna saper perdere e la regola vale anche per la politica». "Ci sono Comuni come Parma e Comacchio dove noi abbiamo non vinto perché vorrei ricordare che Parma e Comacchio erano governati dal centro-destra": Pier Luigi Bersani. Vedremo ora come si comporterà Renzi. L’attuale presidente del Consiglio ha garantito che quello a Palazzo Chigi sarà il suo ultimo incarico pubblico. «Non sono un politico vecchia maniera che resta attaccato alla poltrona», ha più volte detto, aggiungendo che, comunque andranno le cose, riterrà conclusa la sua esperienza politica nel 2023, nove anni dopo l’inizio del suo primo governo. L’annuncio non è inedito. Ma se si passasse dall’annuncio ai fatti, questa sarebbe una grossa novità per la politica italiana.

I traditori? A sinistra! Quelle congiure contro se stessa Ecco dove la sinistra dà il meglio. Da D'Alema ai 101 di Prodi, i tradimenti più celebri di Palazzo, scrive Cristina Bassi, Lunedì 31/10/2016, su "Il Giornale". La congiura in politica è un eterno ritorno. Sgambetti e coltellate alle spalle costellano la nostra storia. Una vera carrellata, descritta da Bisogna saper perdere-Sconfitte, congiure e tradimenti in politica da De Gasperi a Renzi, il nuovo libro dei giornalisti di Sky Tg24 Filippo Maria Battaglia e Paolo Volterra (Bollati Boringhieri). Ci sono i leader che non sanno perdere, ma anche le grandi congiure della Repubblica. Molte a sinistra. Rimini, 4 febbraio 1991. Al primo congresso del Pds manca la «formalità» dell'elezione di Achille Occhetto a segretario. La Quercia è già un concentrato di «intrighi, colpi di scena, congiure e scene madri». E c'è la trappola: «Occhetto risulta non eletto, per mancanza di quorum». Un «colpo di mano». Achille è «furente», «attraversa a piene falcate il congresso in disarmo e si rifugia al bar. Dove ordina un whisky, un Johnnie Walker che berrà in un paio di lunghe sorsate». Trova «un colpevole per quell'assassinio politico: Massimo D'Alema», coordinatore della segreteria. Ecco la cronaca di Claudio Velardi, allora braccio destro di D'Alema: «Si realizzò un meraviglioso imbroglio messo in piedi, anche con un qualche talento, bisogna ammetterlo, dal sottoscritto. Feci tutto di concerto con gli uomini che coordinavano le altre due correnti. Dopo che erano state aperte venti o trenta schede, non di più, mi sono fatto la mia griglia di proiezione sullo scrutinio e sono andato a dire a Massimo: Guarda che questo non ce la fa!». Dopo, in macchina, «Massimo era carico di adrenalina e ogni tanto ripeteva ad alta voce: È morto! È morto!». Chi più di Romano Prodi conosce le congiure? I 101 del Pd che nel 2013 gli sbarrano la strada del Colle sono solo un esempio. Nel 1996 è premier con una maggioranza ostaggio di Rifondazione. «Avverte i suoi: Attenti. Sta per iniziare la caccia alla volpe». Nel 1998 «il casus belli è la Finanziaria, la prima finanziaria normale la definisce il ministro del Tesoro Ciampi. L'amico Bertinotti vorrebbe invece una legge più di sinistra. Annuncia: Togliamo la fiducia». Dirà Prodi: «La crisi del mio governo non è stata un complotto, ma quasi». Nel 2006 un'altra «via crucis». Il Pd nasce «nel momento più delicato della vita dell'esecutivo. Ma piuttosto che rafforzarlo, finisce per accelerarne il declino». Ha «in sé difetti e contraddizioni del vecchio Ulivo, compresa la divisione in correnti». Tutto precipita con l'uscita dal governo di Clemente Mastella. In Aula manca di nuovo la fiducia. Il Professore confessa: «Dal Pd, da Veltroni non è arrivato il sostegno che ci aspettavamo». Nel 2012 Matteo Renzi perde le primarie, rende onore a Pier Luigi Bersani con un concession speech stile Usa e lo appoggia alle Politiche. Nel settembre 2013 però sentenzia: «Negli ultimi mesi forse era spompo. L'ho visto a Palermo ed era distrutto». Cattivo viatico. Il voto, col Pdl a un passo, sciocca Bersani: «Non abbiamo vinto, anche se siamo arrivati primi». La «non vittoria» intossica ancora oggi il Pd: D'Alema dà dell'«arrogante» a Renzi, i renziani gli rispondono che «è finito come Occhetto». E Bersani, rassegnato: «Renzi governa comodamente con i voti che ho preso io».

ITALIANI RANCOROSI.

L’età del rancore: litigi, insulti, ululati, risse e aggressioni fisiche. Da Riccardo Montolivo che usciva in barella al premier Gentiloni ricoverato, i fischi senza pietà a chi sta male. Una rabbia senza freni nella nostra vita quotidiana, scrive Pierluigi Battista il 17 gennaio 2017 su "Il Corriere della Sera". Riccardo Montolivo usciva dal campo in barella, e la curva ha fischiato senza pietà il giocatore infortunato, avanguardia degli energumeni che sui social hanno nei giorni successivi augurato le cose più atroci a un ragazzo con il crociato distrutto, una carriera devastata. La vetta della ferocia social però non era stata raggiunta ancora. Ci volevano nei giorni scorsi il malore e l’operazione del premier Paolo Gentiloni per scatenare la follia idiota di chi, dietro un profilo falso, coperto dall’anonimato per non fare brutta figura con i parenti, tifava affinché il presidente del Consiglio avesse la peggio, possibilmente tra tormenti indicibili. È l’età dell’incattivimento, del rancore senza freni, di un’aggressività frustrata e spudorata che si manifesta senza argini. E non si limita alle parole dell’odio cieco e inconsulto. Giorni fa un manipolo di bruti si è presentato in formazione squadraccia all’ospedale di Catania e si è accanito con una spedizione punitiva su un medico che si era limitato a non fornire un nome agli aggressori. Così, pugni, ceffoni, ululati minacciosi: non avevano bisogno dei social network per dare sfogo al loro istinto di sopraffazione. Come quei genitori che si sono azzuffati mentre i loro figli stavano disputando una partita, una gang di teppisti in doppiopetto. Ma succede spesso anche in Italia, con o senza doppiopetto, nei campetti di periferia e in quelli del privilegio sociale. Sempre con una rabbia incontenibile, nuova, contagiosa. Una rabbia animalesca e barbara che non si limita alle aggressioni verbali sul web, ma si estende alla politica, al sesso, alla medicina. Hanno gridato la loro esultanza per la morte dell’oncologo Umberto Veronesi, perché nei meandri della bufala mediatica circola la voce che il cancro sia una creatura delle case farmaceutiche per guadagnarci su con la complicità dei camici bianchi. Medici insultati, reparti ospedalieri presi d’assalto, con i guru che aizzano, sfruttano i malati disperati e le loro famiglie disposte a tutto pur di sfogare la loro rabbia, il loro rancore sfrenato. Ma non è prerogativa di frange lunatiche e squilibrate. Basta ricordare in che clima di intolleranza verbale, di aggressività inconsulta, si sia svolta nei mesi scorsi la campagna per il referendum del 4 dicembre. Le campagne elettorali sono sempre dure, spietate, giocano sulla contrapposizione assoluta. Ma è difficile trovare precedenti di un confronto in cui gli avversari, con reciprocità assoluta e paritaria, siano stati vicendevolmente bollati con epiteti di cui «idiota», «imbecille», «scemo», «fesso», «decerebrato», «mentecatto» sono quelli meno cruenti. E ci è andata bene. Negli Stati Uniti, come ha ricordato magnificamente Meryl Streep, l’allora candidato alla Casa Bianca Donald Trump ha pubblicamente preso in giro un disabile. Ma, per dimostrare l’assoluta trasversalità del rancore aggressivo, bisogna anche ricordare Robert De Niro che ha minacciato Trump di prenderlo a pugni (ha minacciato anche di lasciare gli Usa in caso di vittoria trumpiana, ma era solo una guasconata) e trasudavano anche un odio assoluto le minacce con cui è stato bersagliato preventivamente Andrea Bocelli se si fosse azzardato a cantare nella cerimonia di insediamento di Trump. Un rancore che non conosce limiti. Nelle barricate con cui gli abitanti di qualche cittadina del Nord Italia vogliono cacciare a randellate i «negri» e gli immigrati nemmeno si sforzano di non assomigliare a qualche lugubre cerimonia dei Ku Klux Klan: torce nella notte, fiamme minacciose, linguaggio sboccato, simbologia vagamente nazi. Magari molti di loro votavano persino a sinistra (quindi per partiti tutt’altro che ostili ai flussi migratori), ma la rabbia e il rancore li ha fatti deragliare. È saltato il tappo. È finita l’era dell’inibizione. I corpi intermedi, partiti, sindacati, associazioni sportive, gruppi professionali, aggregazioni parrocchiali, centri culturali non incanalano più il malessere. La mediazione ha perso ogni credibilità, e l’immediatezza psicologica del grido, della scazzottata, dell’aggressione fisica e verbale possono dilagare senza un contenimento sociale. Si è più soli e più feroci. O forse la ferocia diffusa ha troppi palcoscenici per esibirsi, e troppo poche compensazioni per decantare, autocontrollarsi. Non è che la quantità di rancore sia aumentata rispetto al passato. È che il rancore è stato sdoganato. Quando i più famosi rapper italiani si inseguono con gli insulti più smodati, si assiste a uno spettacolo di wrestling verbale che però può dare addirittura un brivido di modernità. E anche i giudici dei talent televisivi che si beccano e si scudisciano sono lo specchio del comportamento sociale quotidiano di milioni di anonimi rancorosi. In fondo il primo partito italiano è nato da un «Vaffa day». Nella vita sociale diffusa è un «Vaffa» tutti i giorni. Per strada ci si insulta senza remore. Nei social l’insulto contro il personaggio famoso da linciare è un’abitudine che nella satira Maurizio Crozza ha già immortalato con il personaggio di «Napalm 51». Il povero Gianni Morandi tempo fa ha postato su Facebook una foto in cui usciva la domenica da un supermercato con i sacchetti della spesa. Morandi voleva trasmettere un’immagine di domestica normalità e invece è stato travolto da un rullo di commenti in cui si insultava lo sfruttatore dei lavoratori che contribuiva a tenere aperti i supermercati la domenica. E l’autocritica di Guido Barilla che per evitare una campagna di boicottaggio feroce dei suoi prodotti ha dovuto sottostare al rito umiliante dell’autodafè per una sua improvvida dichiarazione sulla famiglia cosiddetta «tradizionale»? Niente in confronto all’orgia di rancore razzista, omofobo, sessista che ammorba il web, dove le appartenenze politiche non contano più e la donna Laura Boldrini di sinistra viene massacrata come la donna Mara Carfagna di destra. Un bullismo di massa, risentito, feroce, disinibito, senza freni. E senza distinzioni culturali e sociali. Un rancore interclassista e contagioso. Con le curve che fischiano chi sta male. 

ITALIANI: POPOLO DI TRADITORI.

Dante e le figure retoriche.

L’allegoria (dal greco allon "altro" e agoreuo "dico" = "dire diversamente"), è la figura retorica (di contenuto) mediante la quale un concetto astratto viene espresso attraverso un’immagine concreta. È stata definita anche "metafora continuata". Tra le allegorie tradizionali è celeberrima quella della nave che attraversa un mare in tempesta, fra venti e scogli ecc.: rappresenta il destino umano, i pericoli, i contrasti ecc., mentre il porto è la salvezza. Il problema della comprensione delle allegorie dipende dalla loro maggiore o minore codificazione. Esempi: Nella Divina Commedia, Dante racconta un viaggio immaginario nel mondo dell’aldilà, che significa allegoricamente l'itinerario di un’anima verso la salvezza cristiana. Tutto il poema è infatti visto come un’allegoria.

La metafora. - Figura retorica consistente nell'usare in luogo del vocabolo proprio un vocabolo diverso attinto ad altro campo semantico. Il trasferimento del vocabolo da un campo a un altro campo semantico (di qui il termine latino di translatio che designa tale figura, e il termine consueto di traslato) non deve tuttavia essere imposto dall'esigenza di designare un oggetto o un concetto mancanti di denominazione propria, altrimenti si verifica quella necessaria metafora chiamata abusio o catacresi. La metafora assume in Dante, fra le figure retoriche, un posto privilegiato, sia per essere enormemente profusa, sia per il fatto di costituire uno dei punti di forza del suo stile realistico e immaginoso insieme e il segno più evidente del suo modo di concepire tutto il reale intrinsecamente connesso da un'infinita serie di corrispondenze e di analogie.

XXXI Canto. Il cerchio nono è interamente occupato da un lago ghiacciato, il Cocito appunto, che scende verso il centro; la crosta di ghiaccio è cosi spessa e dura che neppure il crollo di un monte potrebbe minimamente scalfirla. Il lago è diviso in quattro zone: Caina, Antenora, Tolomea, Giudecca; Dante e Virgilio attraversano in questo canto le prime due. I dannati sono i traditori dei parenti, della patria, degli amici, dei benefattori, ossia i colpevoli di frode esercitata verso chi si fida; sono immersi più o meno profondamente, a seconda della loro colpa, nel lago ghiacciato diviso, appunto, in quattro zone concentriche: la Caina (traditori dei parenti), Antenora (tradito­ri della patria o della parte), Tolomea (traditori degli amici o degli ospiti), Giudecca (traditori dei benefattori).

Canto XXXIII. Nel cerchio nono, nella seconda e nella terza zona (la Tolomea), l’unica zona in cui le anime possono cadere prima della morte fisica, sostituite sulla terra, nel corpo che vive ancora, da un demone.

Canto XXXIV. Ci troviamo nel cerchio nono, nella quarta zona, alle sette e mezzo di sera del 9 aprile 1330, sabato santo; nell’emisfero australe corrispondono alle sette e mezzo del mattino del 10 aprile. I traditori dei propri benefattori sono nella quarta zona, detta Giudecca, nome coniato da Dante ma in uso allora, in alcune città italiane, per designare il Ghetto. Battuti da un forte vento, provocato dalle ali di Lucifero, i dannati sono interamente confitti entro il ghiaccio, come pagliuzze attraverso il vetro, distesi o diritti o stravolti. Dante scorge Lucifero (il più grande ingrato e traditore verso Dio Benefattore) che sta in una buca da cui si discende al centro della terra, ed è sospeso nel vuoto: è mostruoso, ha sei ali e tre facce, una rossa, una gialla ed una nera.

Esiste, su internet, un'ampia bibliografia di scritti che definiscono gli italiani come un popolo di traditori. Eppure è noto a tutti che la nostra tradizione ci ha potato ad essere disprezzati dai Tedeschi per il voltafaccia dell'8 settembre 1943, dai Francesi del sud per l'attacco del 1940, allorquando la Francia aveva quasi già firmato la resa e, tanto per venire ai giorni nostri, dagli Indiani per il tentato tradimento in occasione della vicenda Marò.

"Italiani, traditori". L'India si ribella alla beffa dei due marò che restano in Italia, scrive Claudia Astarita il 12 marzo 2013 su Panorama. E' durissima la reazione della stampa indiana alla notizia che Massimiliano Latorre e Salvatore Girone non torneranno più in India. “Affronto”, “tradimento”, "cospirazione”: sono queste le parole con cui è stata commentata la scelta del Governo italiano di “impedire che i due militari vengano giudicati per l'omicidio” commesso ormai tredici mesi fa. Che la scelta romana avrebbe scatenato reazioni decise nel Subcontinente era più che prevedibile. Del resto è dal febbraio 2012 che la stampa locale e nazionale sfrutta questa vicenda per mettere in dubbio la credibilità e infangare la rispettabilità del Bel Paese. Dei due fanti di marina continua a circolare sempre la stessa foto: quella in cui indossano camicie aderenti, jeans e occhiali da sole. L'immagine che meglio si sposa con l'idea stereotipata che gli indiani hanno degli uomini italiani. “Siamo stati troppo generosi”, si legge sul quotidiano DNA, che accusa la Marina Militare italiana di aver rispettato i termini della licenza natalizia concessa ai due fucilieri solo perché aveva già in mente di approfittare della cordialità indiana per chiedere, appena possibile, un nuovo congedo che aveva già pianificato di non rispettare. “Hanno approfittato della nostra magnanimità. Ci hanno chiesto di tornare in Italia per compiere il loro dovere di cittadini, e invece la scusa del voto è servita solo per mettere in pratica una vergognosa e inaccettabile fuga”. E mentre New Delhi continua a sottolineare la necessità di “leggere con attenzione le note inviate dall'Italia prima di decidere come reagire”, pur ribadendo per bocca del Primo Ministro Manmohan Singh che la scelta di Roma è a prescindere inaccettabile, la popolazione ammette di sentirsi presa in giro e chiede al governo di farsi valere. A qualunque costo. La “fuga” di Latorre è Girone è diventata un caso nazionale anche per un altro motivo: il popolo è convinto che i due verranno in un modo o nell'altro lasciati andare perché indirettamente protetti dalla Presidentessa del Partito del Congresso, Sonia Gandhi. Un'idea che si è radicata ancora di più dopo i continui rifiuti del figlio Rahul, recentemente nominato Vice-presidente del Partito e probabile candidato del Congresso nelle elezioni del 2014, di commentare la vicenda. In un forum lanciato dall'Hindustan Times in cui gli indiani sono liberi di segnalare come vorrebbero che il governo gestisse questa intricata vicenda, molti hanno invitato il Primo Ministro Singh a evitare di fare promesse che “la sua Signora” non gli permetterà mai di mantenere. Altri suggeriscono di punire l'increscioso tradimento italiano come si faceva nel Medioevo. Vale a dire colpendo altri per la fuga dei due fanti. Perché prima o poi qualcuno dovrà pagare per la morte di due poveri pescatori innocenti. E c’è chi si spinge a ipotizzare che sarebbe opportuno punire l'Ambasciatore, che ben rappresenta una nazione di traditori visto che non è stato in grado di mantenere un impegno preso con la Corte Suprema. Altri ancora raccomandano di cancellare qualsiasi legame economico con l'Italia: "sono già in difficoltà: se ci coordiniamo riusciremo a farli fallire. Lo meritano". Difficile prevedere cosa succederà. Ma quel che è certo è che da questa vicenda il Partito del Congresso uscirà sconfitto. Perché realisticamente l'India non può permettersi di iniziare un pericoloso braccio di ferro con l'Italia (e il resto della comunità internazionale) per far condannare Latorre e Girone, visto che il diritto internazionale non sembra proprio essere dalla parte indiana. Anche se questa sembra essere rimasta l'unica carta che il Congresso può giocarsi per recuperare credibilità e rispetto e affrontare a testa alta le elezioni generali del 2014.

L’eredità dannata della Germania, scrive il 31 marzo 2016 Luca Steinmann su "Gli Occhi della Guerra" de "Il Giornale". Negli anni 90 moltissime persone hanno riso di fronte alle immagini di Mediterraneo, il film che descrive le vicende di un gruppo di soldati italiani sbarcati nel 1941 su una bellissima isola greca. Essi dimostrano scarsa dimestichezza con le armi o identificazione con il fascismo, stringono amicizia con i greci, giocano a pallone con i ragazzini, bevono ouzo e flirtano con le donne. Diversamente, i soldati tedeschi vengono descritti come intrinsecamente cattivi e rappresentati come coloro che “hanno distrutto le case, affondato le barche, deportato gli uomini”. Tale film offre un’eccezionale prova di quanto il mito degli “italiani brava gente” sia diffuso nelle narrazione letteraria e popolare europea, in contrapposizione all’immagine barbara e sanguinaria del “camerata tedesco”. Questa contrapposizione tra bravi italiani e cattivi tedeschi è stata descritta dallo storico britannico Tony Judt come l’emblema dell’ “eredità maledetta” della Seconda Guerra Mondiale, ossia come la diretta conseguenza della ricostruzione della memoria del conflitto realizzata nell’Europa occidentale nei primi anni del dopoguerra. Alimentata da un’azione comunicativa su tutti i livelli (radio, stampa, pubblicistica, mostre, cinema e letteratura) e da una precisa volontà politica di scaricare le colpe dei crimini commessi da tutte le parti in causa su un unico responsabile, cioè sui grandi sconfitti della guerra: la Germania e i tedeschi. Secondo Judt l’attribuzione ai tedeschi della colpa di tutto ciò che la guerra aveva comportato è servita a fare passare in secondo piano o a giustificare azioni violente e crimini di guerra commesse anche dai vincitori – come i bombardamenti a tappeto su intere città e le espulsioni di massa dalle proprie terre di milioni di tedeschi, ungheresi e ucraini che ridisegnarono il volto dell’Europa mitteleuropea – e soprattutto a fondare un nuovo mito nazionale all’interno dei Paesi complici dei crimini perpetrati dai tedeschi. In primis, dunque in Italia. Attribuendosi l’indiscussa primogenitura del fascismo e avendo vincolato il proprio destino bellico a quello dell’alleato tedesco, l’Italia era legata a doppio filo ai disegni egemonici nazionalsocialisti e, uscendo sconfitta dalla guerra, rischiava di vedersi attribuire dai vincitori una punizione analoga a quella che patì la Germania (venendo smembrata e divisa in due mentre alla sua cultura e al suo popolo venne attribuita la responsabilità morale per le tragedie avvenute). Secondo lo storico Filippo Focardi, per evitare una “Norimberga italiana” la classe dirigente che si apprestava ad amministrare il Paese nel dopoguerra sviluppò una narrazione propria dell’esperienza della guerra, volta ad esaltare il mito della resistenza antifascista e lo spirito cristiano e caritatevole del popolo italiano, contrapposto al militarismo barbaro e sanguinario dell’invasore tedesco. L’obiettivo era quello di dare una descrizione dell’Italia come un Paese che era a sua volta stato vittima dei soprusi germanici, degli italiani come un popolo fondamentalmente buono che mai aveva fraternizzato con quello del proprio alleato. La Germania e i tedeschi diventavano quindi implacabili e sadici oppressori di inermi, violenti e guerrafondai, la demoniaca rappresentazione stessa del male assoluto. Contrapposta all’immagine dell’italiano indisciplinato e intimamente avverso alla guerra, restio a compiere atti di violenza, pronto a solidarizzare con le popolazioni indifese e ad aiutare gli ebrei perseguitati. Mettendo in croce i tedeschi gli italiani volevano slegare i propri destini a quelli degli sconfitti, evitando una pace punitiva e la demonizzazione della propria cultura oltre che l’attribuzione della responsabilità morale a tutto il popolo. Fu così che, tramite un’incessante attività di propaganda incentivata dagli alleati e soprattutto dalle trasmissioni di Radio Londra venne esaltata la Resistenza come lotta nazionale dell’intero popolo italiano artefice di un “secondo Risorgimento” contro l’invasore nazista, titolare invece di tutti i crimini commessi. La Resistenza divenne dunque anti-tedesca prima ancora che anti-fascista e venne reinterpretata, paradossalmente, in chiave nazionalistica. La descrizione del bravo italiano indisciplinato e che resiste alle ferree regole tedesche diventò il mito fondativo della nuova nazione italiana anti-fascista e anti-tedesca. La creazione di questo mito servì però anche a giustificare o a scaricare sui tedeschi le colpe dei crimini commessi per mano italiana o alleata. Come spiegato nel libro “Il cattivo tedesco e il bravo italiano”, l’unanime resistenza patriottica anti-germanica era prima di tutto un comodo paravento per la maggior parte dei cittadini italiani che si erano rassegnati a convivere o avevano attivamente sostenuto la presenza tedesca. Il mito venne sostenuto dalla quasi totalità dei soggetti politici del dopoguerra: dalla  sinistra di ispirazione comunista (alla ricerca di legittimazione politica) e dalle sue forze partigiane desiderose che l’enfatizzazione dei crimini tedeschi coprisse le gravità delle proprie stragi; dalla Democrazia Cristiana che voleva ripristinare una coesione sociale fondata sui valori della carità cristiana contrapposta al cinismo germanico e al paganesimo nazionalsocialista; dagli alleati, volenterosi che gli italiani attribuissero alla Germania le responsabilità di tutti i mali di guerra e dimenticassero i  bombardamenti e gli stupri compiuti dalle truppe angloamericane; dalle alte cariche dell’Esercito della Farnesina, che condivisero questo “racconto egemonico” perché taceva il proprio coinvolgimento diretto nella “guerra fascista” e ometteva le responsabilità dei soldati italiani dei loro crimini di guerra, commessi specialmente nei Balcani; dalla gran parte della destra anti-antifascista, per minimizzare il coinvolgimento proprio e del popolo italiano nella guerra e nelle deportazioni, nei rastrellamenti e nelle stragi ad essa connesse. L’antigermanesimo ha dunque la funzione di minimo comune denominatore tra tutti i protagonisti della vita politica italiana post-1945, di collante tra le sue diverse anime sia di destra che di sinistra, in nome del ricordo della Resistenza come “religione civile”. Corredata da un’ampia gamma di materiale letterario e cinematografico la ricostruzione a tavolino dei rapporti tra italiani e tedeschi ha permesso la ricostruzione della nuova identità italiana. Figlia dunque di una narrazione che poggia le sue basi sulla colpevolizzazione dei tedeschi e della loro cultura, descritta spesso come in continuità con il passato nazionalsocialista. Non è un caso, dunque, che la minaccia dell’aggressività tedesca ricorra continuamente tra le paure degli italiani: paure legate al riarmo germanico negli anni 50, alla creazione di un’Europa a trazione tedesca nel 1989, al revisionismo pro-tedesco segnato dalla crisi della memoria della Resistenza dopo il processo contro Erich Priebke negli anni 90, a una colonizzazione attraverso la moneta unica nei nostri giorni. Tutto ciò non cancella la gravità dei crimini che i tedeschi commisero (agli italiani non sono imputabili uccisioni di massa come quelle avvenute nell’Europa orientale ai danni di ebrei, zingari e prigionieri sovietici). Come ha osservato Vittorio Foa, però, lo scarico delle responsabilità criminali di tutte le parti in gioco in Italia ha reso i tedeschi “una grande risorsa per la tranquillità della nostra coscienza”.  Il confronto con l’eterno rivale germanico ha oggi una continua funzione di legittimazione, autoassoluzione e giustificazione di se stessi, della propria storia e della propria cultura. L’identità tedesca e la percezione che gli italiani hanno di essa è centrale nella determinazione dell’identità italiana contemporanea e dei valori condivisi che animano la collettività nazionale. Il ripetuto utilizzo della Germania e dei tedeschi come metro di paragone e di giudizio mostra come il legame tra Italia e Germania, tra italiani e tedeschi, sia ancor oggi più vivo che mai. Nel bene e nel male.

Archiviato il procedimento contro l'ufficiale tedesco accusato della strage: fece fucilare centinaia di italiani ma erano disertori. "A Cefalonia erano traditori", sentenza shock in Germania, scrive Andrea Tarquini il 22 settembre 2006 su “La Repubblica”. I soldati italiani massacrati a Cefalonia erano dei traditori. Da trattare come sarebbero stati trattati dei disertori tedeschi. Con questa motivazione sconcertante, due settimane fa la procura di Monaco di Baviera ha deciso di archiviare il procedimento a carico dell'ex sottotenente Otmar Mulhauser, oggi unico imputato della strage. Lo rivela L'Espresso nel numero oggi in edicola. La decisione della procura di Monaco, firmata dal pm Stern, ha un gravissimo valore politico: riscrive in senso revisionista la Storia della seconda guerra mondiale, legittima una delle più atroci stragi di italiani ordinate e compiute dal Terzo Reich, minaccia di incoraggiare i neonazisti. L'ex sottotenente Otmar Muhlhauser, che oggi ha 86 anni e vive tranquillo a Dillingen, in Svevia, non nega peraltro le sue responsabilità nel massacro. Ha confessato di aver personalmente ordinato la fucilazione di centinaia di militari italiani, tra cui lo stesso generale Antonio Gandin, il comandante della divisione Acqui dell'allora Regio esercito. Dopo la fine del conflitto, per non creare tensioni tra paesi della Nato (cui appartengono sia Germania sia Italia) durante la guerra fredda, nessun governo italiano si costituì mai parte civile nel procedimento contro Mulhauser. Lo fece invece Marcella De Negri, figlia del capitano Francesco, uno dei fucilati di Cefalonia. Ora la signora De Negri accusa. "Le motivazioni addotte dalla magistratura bavarese", afferma, "sono un oltraggio alla memoria di mio padre e di tutti i soldati italiani che combatterono nello Ionio; non capisco come si possa dire che uccidere a freddo migliaia di soldati che si erano arresi non sia un crimine di guerra". Adesso i legali di Marcella de Negri, l'avvocato milanese Gilberto Pagani e il suo collega tedesco Michael Hofmann, faranno ricorso. Nelle prossime settimane il tribunale della capitale bavarese dovrà quindi decidere se accogliere il ricorso, o decidere se il caso venga definitivamente chiuso. La tragedia di Cefalonia resta nella Memoria come uno dei più spaventosi drammi delle forze armate italiane nella seconda guerra mondiale. L'8 settembre, come è noto, il governo Badoglio firmò l'armistizio con le democrazie occidentali. Condizione fu la sua entrata in guerra contro l'ex alleato, appunto la Germania nazista. La divisione Acqui, schierata nell'isola greca di Cefalonia, ricevette l'ordine di resistere. I reparti tedeschi a Cefalonia chiesero alla Acqui la resa incondizionata, il generale Gandin rifiutò. Dopo due ultimatum, il 15 settembre la wehrmacht iniziò a bombardare le posizioni della Acqui nei dintorni della città di Argostoli. Cominciò la resistenza disperata degli italiani. Inferiori in numero, con in pugno armi vecchie e obsolete, contro i tedeschi superarmati, resistettero una lunga settimana d'inferno. La mattina del 22 settembre il generale, dopo aver perso circa millecinquecento uomini, decise di arrendersi e fece issare la bandiera bianca. Sperava di salvare la vita dei suoi soldati. I tedeschi invece eseguirono zelanti gli ordini di Hitler: Gandin e tutti i suoi uomini furono uccisi uno a uno. Nel dopoguerra, Roma scelse il silenzio. La documentazione sulla strage venne celata. Ci volle Sandro Pertini, nel 1980, per denunciare la "congiura del silenzio su Cefalonia". E cinque anni fa, l'allora capo dello Stato Carlo Azeglio Ciampi si recò nell'isola. Rese onore ai caduti, si disse "orgoglioso di quella pagina di Storia da loro scritta, una delle più gloriose della nostra Storia millenaria". Quella Memoria di un paese-chiave dell'Europa, oggi alleato di Berlino nella Ue e nella Nato, è calpestata dai giudici di Monaco di Baviera. 22 settembre 2006 “La Repubblica”.

Le sconfitte militari italiane nel secondo conflitto mondiale suscitarono nell’entourage del führer un crescendo di disprezzo e di scherno. Cui non era estraneo un fondo razzista: gli italiani, in quanto mediterranei, non erano altro che un miscuglio di razze, corrotto dal cattolicesimo, privo di ogni virtù guerriera e di quel senso della dignità e della lealtà caratteristico degli ariani più puri.

IL DISPREZZO TEDESCO di Roberto Poggi

L’uomo che il 19 luglio 1943 si recò a villa Gaggia, a una ventina di chilometri da Feltre, per incontrare Adolf Hitler sembrava aver smarrito la sua abituale sicurezza. Le sue pose napoleoniche nascondevano a stento lo stato di prostrazione fisica e morale in cui si trovava. Da quando, dopo la sconfitta di El Alamein nell’ottobre del 1942, il sogno di sfilare trionfalmente al Cairo si era tramutato in un incubo, nessuna incoraggiante notizia era più giunta a palazzo Venezia. Nella smisurata sala del Mappamondo non facevano che echeggiare i lamenti disperati di un popolo ridotto alla fame e di un esercito in rotta dalle steppe del Don fino al Nordafrica, lasciandogli intendere quanto fossero ormai vacillanti la volontà e la capacità di combattere di quegli otto milioni di baionette che solo la sua fervida immaginazione propagandistica aveva potuto considerare invincibili. Ogni disastro militare lo aveva costretto a inventare nuove parole d’ordine, a ostentare tutta la sua tracotanza nel vano tentativo di infondere fiducia a un popolo e a un esercito che sapevano di non avere alcuna concreta possibilità di vittoria. L’ultima categorica sentenza: «Li fermeremo sulla linea del bagnasciuga!», si era appena rivelata una tragica e maldestra menzogna. Da otto giorni gli Alleati erano sbarcati in Sicilia e avanzavano all’interno dell’isola sbaragliando le divisioni italiane che, secondo la vuota retorica di un regime in sfacelo, avrebbero dovuto ricacciarli in mare. Tra la fine di maggio e la metà di giugno del 1943, Mussolini aveva lasciato cadere più di una richiesta di incontro proveniente da Berlino. Dopo lo sbarco degli anglo-americani non aveva più potuto rifiutare di mettersi a rapporto di fronte al führer, da cui dipendevano le sorti della Sicilia e dell’Italia intera. Sapeva bene che senza le forniture militari tedesche e soprattutto senza le truppe della Wehrmacht nessuna valida resistenza poteva essere imbastita. Non poteva nascondere né a sé stesso, né al suo stato maggiore che, abbandonata alle sue sole forze, l’Italia era destinata a una resa incondizionata che avrebbe inevitabilmente travolto il regime fascista e il suo duce. Tuttavia, pur trovandosi sull’orlo del baratro, Mussolini si aggrappava ancora all’esile speranza di una soluzione politica da cui avrebbe potuto scaturire un ribaltamento a suo favore della situazione militare. Si illudeva di poter convincere Hitler a porre rapidamente termine alla campagna di Russia, liberando così quelle preziose divisioni corazzate che avrebbero potuto consolidare il fronte italiano e mediterraneo e salvare il regime fascista dal tracollo a cui pareva condannato, e forse persino indurre gli Alleati a prendere in considerazione una pace negoziata. Chimere di un uomo disperato, destinate a svanire a Feltre. A villa Gaggia, fissando un Hitler, che, pallido, curvo, come sospeso in un empireo non terreno, strepitava contro gli italiani e la loro incapacità di conformarsi agli imperativi della guerra totale, Mussolini non tardò a convincersi che il suo disegno politico di chiudere la guerra a est non aveva alcuna possibilità di essere accolto positivamente. Nulla poteva ormai scalfire il sognante fanatismo del führer che si immedesimava in Federico II di Prussia che grazie alla sua audacia e alla sua determinazione era riuscito, contro ogni pronostico, a uscire vittorioso dalla guerra dei sette anni. Oltre la cortina impenetrabile delle sue farneticazioni, Hitler lasciava comunque intravvedere considerazioni razionali: senza lo sfruttamento dei territori conquistati a est la Germania non avrebbe potuto continuare la guerra. Pertanto, porre termine alla disastrosa campagna di Russia avrebbe significato dover cedere le armi su tutti i fronti entro breve termine, un’ipotesi che il suo fanatismo gli imponeva di rigettare. Sprofondato in una scomoda poltrona, Mussolini si rassegnò ad ascoltare in silenzio il rabbioso monologo di Hitler, cercando di mascherare con rapidi gesti nervosi prima la noia e poi l’irritazione che quelle parole suscitavano in lui. Trovò la forza di interromperlo soltanto quando De Cesare, il suo segretario particolare, gli diede la notizia che era in corso un violento bombardamento su Roma. Durante la lettura di quel breve dispaccio Hitler restò impassibile per qualche istante, poi riprese la sua enfatica requisitoria contro le inefficienze dei comandi italiani. Prima di lasciare la Germania i suoi generali gli avevano prospettato come valida soluzione alla crisi italiana la creazione, sotto il pieno controllo tedesco, di un comando unificato per tutto il Mediterraneo, in modo tale da neutralizzare quel miscuglio di disfattismo e inettitudine che inquinava a ogni livello l’ufficialità italiana, con effetti disastrosi sul morale delle truppe. Hitler aveva accolto con scetticismo una proposta così radicale, temendo che avrebbe irrimediabilmente intaccato il prestigio del duce, tuttavia non aveva espresso alcun dubbio sulla necessità di contrastare la dilagante demoralizzazione tra i soldati italiani con misure draconiane, affidate alle corti marziali e ai plotoni di esecuzione, simili a quelle applicate da Stalin nel 1941. Il profluvio di parole rovesciato su Mussolini, intrappolato nella sua scomoda poltrona nel salotto di villa Gaggia, aveva come obiettivo di spronarlo a inculcare negli italiani la disciplina necessaria a reggere l’urto delle divisioni alleate. La Germania nazista offriva un esempio di fanatismo a cui Mussolini avrebbe dovuto ispirarsi, senza tentennamenti e senza mezze misure. Il tempo della tolleranza, del lassismo era finito: come in Germania occorreva mobilitare per lo sforzo bellico i quindicenni, gli anziani e le donne, comprese quelle dell’alta società; i soldati e gli ufficiali che non erano disposti a combattere sino all’ultima cartuccia dovevano essere fucilati senza pietà. Pur constatando l’evidente crisi del regime fascista, Hitler si guardava bene dal considerare il duce responsabile. I colpevoli erano invece gli italiani, indegni del suo genio. Tra gli strepiti del führer affioravano i pregiudizi, largamente condivisi dai vertici militari tedeschi, contro gli italiani e il loro carattere imbelle, pavido, refrattario allo slancio fanatico dei guerrieri pronti a tutto pur di vincere. Lo stesso patto d’acciaio era stato concepito da Hitler prima di tutto come un’alleanza con il genio politico di Mussolini, capace da solo di porre un freno all’indole traditrice degli italiani. Il grandioso bluff militare dell’Italia fascista non lo aveva mai incantato, poiché il suo disprezzo per le virtù guerriere degli italiani era troppo profondo. In occasione della sua visita in Italia nel maggio del 1938, le interminabili parate minuziosamente organizzate dal duce non lo avevano affatto impressionato. Soltanto la cronometrica precisione delle manovre dei sommergibili durante la rivista navale nel golfo di Napoli aveva destato in lui e nel suo nutrito seguito di ministri, gerarchi, generali e ammiragli una sincera ammirazione, senza tuttavia riuscire a dissipare lo scetticismo sulla potenza militare italiana e sulla sua capacità di affrontare una guerra moderna. Nell’elaborare il piano del blitzkrieg destinato a soggiogare l’Europa e assicurare alla Germania il suo spazio vitale, non aveva assegnato alle spuntate baionette italiane altro ruolo se non quello di schierarsi al suo fianco e impegnare ai piedi delle Alpi e in Egitto - anche senza sparare neppure un colpo -, ingenti forze francesi e inglesi, sollevandolo al tempo stesso dalla necessità difendere la frontiera austriaca. Le armate italiane avevano ai suoi occhi un’importanza solo come potenziale minaccia capace di impedire al nemico di accrescere il numero delle divisioni da dispiegare sul fronte occidentale, e non certo come forza determinante sui campi di battaglia europei. Pertanto, nel maggio del 1939, al momento della firma del patto d’acciaio, pur avendo già fissato per la fine dell’estate l’aggressione alla Polonia, Hitler aveva deliberatamente ingannato Mussolini, spergiurando che la guerra non sarebbe scoppiata prima di tre anni, o addirittura cinque, secondo il verbale redatto da Ciano, al solo scopo di legare l’Italia al proprio carro. Aveva voluto la clausola della mutua assistenza militare in caso di guerra non per poter contare sull’appoggio delle fragili divisioni italiane, ma per allontanare Roma da Parigi e da Londra e, confidando nel senso dell’onore di Mussolini, scongiurare l’eventualità che l’Italia operasse un repentino voltafaccia come aveva fatto nel 1915. Paradossalmente, la convinzione che il duce fosse l’unico italiano degno di fiducia lo aveva convinto a ingannarlo e a bruciare le tappe dell’azione contro la Polonia: lasciar passare anni per consentire all’Italia di ammodernare il suo esercito e la struttura della sua economia sarebbe stato troppo rischioso, poiché non ravvisava alcuna garanzia che l’alleanza italo-tedesca sarebbe sopravvissuta a una morte prematura di Mussolini, oppure a un suo allontanamento dal potere a seguito di una congiura, ordita dalla monarchia o da altre forze ostili alla Germania nazista. Dal canto suo Mussolini aveva accettato il patto d’acciaio considerandolo un efficace strumento di pressione per riaprire da una posizione di forza il dialogo con la Francia e con l’Inghilterra, oltreché una preziosa garanzia di consultazione preventiva e permanente da parte di Berlino. Le rassicurazioni fornite da Ribbentrop a Ciano su di una pianificazione della guerra a medio termine, non prima di tre anni, lo avevano illuso di poter giocare il delicato ruolo di mediatore tra gli opposti schieramenti con l’opportunità di conseguire consistenti vantaggi politici. Nei mesi successivi l’atteggiamento freddo ed evasivo di Londra e di Parigi nei suoi confronti e soprattutto le preoccupanti indiscrezioni circa i preparativi bellici della Wehrmacht, raccolte a Berlino dalla diplomazia italiana, imbeccata da Wilhelm Canaris, l’ammiraglio di sentimenti antinazisti a capo dell’Abwher, il servizio segreto militare, avevano turbato il suo ottimismo. All’inizio di agosto i segnali di guerra imminente provenienti da Berlino si erano fatti più minacciosi a causa della decisione adottata da Inghilterra e Francia di resistere a un eventuale colpo di mano nazista in Polonia, convincendolo a inviare Ciano a incontrare i vertici tedeschi. I colloqui di Salisburgo e di Berchtesgaden, in cui prima il ministro degli Esteri Ribbentrop e poi Hitler si erano detti determinati a scatenare a brevissimo termine la guerra contro la Polonia, ostentando la convinzione che le potenze occidentali sarebbero rimaste ancora una volta passive e impotenti, avevano fatto improvvisamente svanire l’illusione del duce di poter tirare le fila della politica europea. Al suo rientro a Roma, Ciano aveva affidato al suo diario un amaro commento: “Ci hanno ingannato e mentito. E oggi stanno per tirarci in un'avventura che non abbiamo voluta e che può compromettere il regime e il paese. Il popolo italiano fremerà d’orrore quando conoscerà l’aggressione contro la Polonia e, caso mai, vorrà impugnare le armi contro i tedeschi. Non so se augurare all’Italia una vittoria o una sconfitta germanica. Comunque dato il contegno tedesco io ritengo che noi abbiamo le mani libere e propongo di agire di conseguenza, dichiarando cioè che noi non intendiamo partecipare a un conflitto che non abbiamo voluto né provocato”. Se Ciano, preso atto dell’inganno tedesco, si era sentito le mani libere, al contrario Mussolini aveva reagito preoccupandosi di allontanare da sé tanto l’immagine del tradito quanto quella del traditore. Da un lato non voleva intaccare di fronte al popolo italiano il mito dell’uomo che ha sempre ragione, su cui aveva costruito il suo regime, ammettendo di essere caduto nel tranello tedesco; dall’altro, vittima di una sorta di complesso di inferiorità verso Hitler e la Germania, temeva di offrire una lampante conferma a tutti i pregiudizi sull’inaffidabilità italiana. Neppure il patto Ribbentrop-Molotov, concluso all’insaputa dell’alleato italiano, calpestando i principi ideologici a fondamento dell’alleanza italo-tedesca con il chiaro intento di bruciare le tappe verso la guerra, aveva potuto smuovere il duce dal suo pensiero ossessivo di doversi difendere, nel caso di uno sganciamento dalla Germania, dall’infamante accusa di tradimento. Prigioniero del proprio orgoglio e di un malinteso senso dell’onore che gli imponevano di non denunciare il patto d’acciaio, Mussolini, per evitare una guerra a cui sapeva di essere drammaticamente impreparato, si era visto costretto a improvvisare una via di fuga, destinata, nonostante gli sforzi della propaganda di regime, a fornire nuovi e più efficaci argomenti alla disistima verso l’Italia di gran parte dei vertici nazisti. Sfruttando i toni deferenti della lettera con cui Hitler lo aveva tardivamente informato del patto di non aggressione siglato tra Germania e Unione Sovietica, aveva dichiarato di non essere nelle condizioni di intervenire nel conflitto a causa del mancato completamento - previsto per il 1942, come il camerata germanico ben sapeva - dei programmi di armamento. Per rendere meno amara la delusione del führer si era inoltre affrettato a chiarire la propria disponibilità a entrare in guerra anche subito, se la Germania gli avesse fornito i mezzi bellici e le materie prime di cui il suo esercito era carente. Benché l’intervento diretto dell’Italia rivestisse un’importanza marginale nel piano elaborato per la liquidazione della Polonia, Hitler non aveva lasciato cadere nel vuoto la proposta del duce, invitandolo a compilare un elenco completo e dettagliato delle sue necessità. L’amore tutto tedesco per la precisione, forse più della sfiducia, aveva messo Mussolini con le spalle al muro, costringendolo a mettere a nudo la sua debolezza militare, anzi addirittura a esagerarla oltre ogni misura per legittimare la sua scelta politica della neutralità e fugare ogni sospetto di tradimento. I vertici militari convocati in fretta e furia a palazzo Venezia si erano sentiti rivolgere dal duce una richiesta del tutto inconsueta: elencare con crudo realismo le carenze delle forze armate e dell’industria bellica. Ne era scaturito un elenco che descriveva impietosamente il bluff militare fascista. Ciò nonostante Mussolini, per non correre rischi, si era sentito in dovere di raddoppiare certe cifre formulate dai tecnici. Ciano aveva confidato al proprio diario che nella stesura finale la richiesta italiana era “tale da uccidere un toro se la potesse leggere”. L’allestimento di diciassettemila treni merci di cinquanta vagoni ciascuno non sarebbe stato sufficiente per trasportare oltre il Brennero i circa centosettanta milioni di tonnellate di rifornimenti ritenuti indispensabili, tra cui comparivano sei milioni di tonnellate di carbone, due di acciaio, sette di oli minerali, centocinquanta batterie antiaeree, macchine utensili e quant’altro la fantasia italica aveva potuto escogitare. Nel consegnare il “libro dei desideri” del duce, l’ambasciatore italiano a Berlino, Attolico, si era inoltre preoccupato, per evitare sgradevoli sorprese dall’efficienza organizzativa teutonica, di precisare, senza aver avuto alcuna indicazione in tal senso dal governo, che tutti i materiali elencati avrebbero dovuto essere consegnati prima dell’inizio delle ostilità. Il führer aveva reagito con toni cordiali e compresivi alle esorbitanti richieste italiane, quasi scusandosi delle difficoltà tecniche e organizzative che gli impedivano di offrire il sostegno invocato con tanta dovizia di cifre, ma al di là delle apparenze la convinzione che gli italiani fossero gli stessi viscidi traditori del 1915 si era rafforzata nel suo animo, come in quello di tanti altri tedeschi, dai generali dello stato maggiore, fino all’ultimo granatiere. Nel vano tentativo di prendere le distanze dalla neutralità tentennante voluta nel 1914 dalla classe dirigente liberale, il duce aveva coniato il termine “non belligeranza” che avrebbe dovuto evocare, in patria e all’estero, l’immagine di un’Italia fascistissima intenta a forgiare le proprie armi, smaniosa di battersi a fianco del camerata germanico e di dimostrare il proprio valore sul campo. Nulla di più lontano dal vero. La viva soddisfazione con cui gli italiani avevano accolto la notizia che non avrebbero dovuto correre alle armi, né rischiare di morire per Danzica e gli interessi tedeschi aveva svelato, a dispetto di ogni mistificazione propagandistica, la vera natura della “non belligeranza”, umiliando Mussolini e i suoi sogni di gloria. Di fronte al dilagare delle truppe tedesche prima in Polonia e poi in Francia, un misto di invidia, frustrazione e rancore si era impossessato dell’animo del duce che a giorni alterni propendeva per l’intervento immediato per salvare l’immagine guerriera e virile del regime oppure per il più cauto prolungamento della non belligeranza, sinché non si fossero create le condizioni per ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo. In preda a questo stato d’animo di tormentata indecisione, si abbandonava, secondo la testimonianza dei suoi più stretti collaboratori, a frequenti sfoghi d’ira repressa contro quello che gli appariva il principale antagonista alle sue aspirazioni di grandezza: il popolo italiano. La sua inconsapevole sudditanza psicologica verso la Germania nazista lo spingeva sino a fare propri i più infamanti pregiudizi dei tedeschi nei confronti degli italiani e a esprimerli con compiacimento. A Ciano aveva confidato: “Hai mai visto un agnello diventare lupo? La razza italiana è una razza di pecore. Non bastano diciotto anni per trasformarlo. Ce ne vogliono centottanta o forse centottanta secoli”. I toni sprezzanti verso la presunta vigliaccheria degli italiani anziché ispirargli una prudente neutralità lo spronavano all’intervento, inteso come una dolorosa ma necessaria terapia d’urto per eliminare nel fuoco della battaglia le incrostazioni che nei secoli si erano sedimentate sullo spirito guerriero degli antichi romani. Nell’aprile del 1940, in uno dei suoi sfoghi più irosi e irrazionali aveva esclamato alla presenza del genero: “Poco conta chi vince. Per fare grande un popolo bisogna portarlo al combattimento, magari a calci in culo. Così farò io.” Dalle parole ai fatti il passo era stato breve. Il 10 giugno 1940, giudicando che l’imminente caduta della Francia avrebbe posto fine alla guerra, Mussolini aveva rotto gli indugi e si era precipitato in soccorso dei vincitori. Quel giorno aveva concluso la sua tronfia arringa dal balcone di palazzo Venezia con questa invocazione: “Popolo italiano! Corri alle armi e dimostra la tua tenacia, il tuo coraggio, il tuo valore!”. Impresa davvero ardua, dal momento che, per nemici e alleati, una volta tanto concordi, gli italiani si erano appena trasformati da pecore tremanti in vili avvoltoi. La “pugnalata” alla Francia si era rivelata una puntura di spillo, degradando ancor più il prestigio del regime fascista e del suo esercito. I bombardamenti su Cannes, Nizza, Calvi e Bastia, l’occupazione di Mentone, l’affondamento di un sommergibile, la cattura di una decina di prigionieri, la sanguinosa conquista di qualche pietraia alpina erano apparsi ai tedeschi successi risibili a confronto con il valore e l’efficienza dimostrati sul campo dalla Wehrmacht, che in poche settimane aveva intrappolato le forze anglo-francesi a Dunkerque, aggirato la formidabile linea Maginot e annientato intere armate. Di fronte alle “prodezze” militari italiane, la Francia, pur determinata a riconoscere la sconfitta subita a opera delle armi tedesche, si era mostrata recalcitrante a firmare un armistizio con l’Italia. Il fermo intervento del führer, che, in ossequio alle clausole del patto d’acciaio, aveva subordinato l’entrata in vigore dell’armistizio franco-tedesco alla conclusione di quello franco-italiano, aveva risolto la situazione a favore del duce. Tuttavia nessuna delle aspirazioni territoriali italiane, la Corsica, la Tunisia, Nizza, Gibuti e la Somalia francese, avevano potuto trovare soddisfazione. Sugli appetiti mussoliniani era prevalsa la volontà di Hitler di consolidare il governo del maresciallo Pétain, garantendogli un brandello di sovranità sul territorio metropolitano e sulle colonie, oltre alla prospettiva di un ruolo dignitoso per la Francia nella nuova Europa pacificata nel segno della croce uncinata. L’umiliazione di essere riconosciuto, per gentile concessione tedesca, nel novero dei vincitori, ma senza poter esibire né vittorie sul campo, né tanto meno un bottino territoriale, aveva spinto Mussolini a riprendere l’idea di “guerra parallela” che andava accarezzando sin dall’estate del 1939. La sua smania di curare al più presto il proprio orgoglio ferito era profondamente intrecciata con la preoccupazione politica di assicurare all’Italia un margine di autonomia nell’Europa destinata a essere egemonizzata dalla Germania. Prendendo le mosse dalla convinzione di una imminente capitolazione inglese, conseguire in piena autonomia rapide e nette vittorie in Africa settentrionale e nei Balcani aveva assunto per lui un’importanza cruciale al fine di porre l’Italia su di un piano di parità con la Germania, delimitando il Mediterraneo come area di esclusiva influenza italiana. Volgendo lo sguardo al dopoguerra e quindi alla minaccia di trovarsi schiacciato dalla potenza hitleriana, quasi alla stessa stregua dei vinti, l’azzardo di affidare all’esercito compiti superiori alla propria forza gli era parso accettabile. In questa sconsiderata accettazione del rischio, destinata a rivelarsi disastrosa, aveva avuto un peso determinante, oltre al timore verso il camerata tedesco, la debole opposizione del capo di stato maggiore generale, Badoglio, che, pur sollevando riserve, si era guardato bene dal dichiarare incolmabile l’abisso tra gli ambiziosi disegni strategici del duce e la capacità delle forze armate di realizzarli. Nel settembre del 1940, l’incruenta occupazione da parte del maresciallo Graziani di Sidi el Barrani, in territorio egiziano, aveva per un attimo dato concretezza alla “guerra parallela”, incitando Mussolini a osare di più. La sua euforia per il facile successo africano non aveva però contagiato l’alleato germanico. Mentre Graziani era impegnato a costruire strade e acquedotti nei territori occupati, dimostrando di non sospettare che la guerra nel deserto sarebbe stata di movimento e non certo di posizione, Hitler, dubbioso sulla determinazione italiana a continuare la lotta contro l’Inghilterra, sino al punto da temere l’eventualità di un repentino cambio di schieramento se un ulteriore balzo in avanti verso il Nilo si fosse dimostrato impossibile, aveva inviato a Roma il generale Wilhelm Von Thoma per discutere la partecipazione di truppe corazzate tedesche alle operazioni in nord Africa. Dopo aver incontrato i vertici militari italiani, studiato la situazione e visitato il fronte, Von Thoma aveva presentato al führer un rapporto che, lasciando da parte ogni considerazione politica, suggeriva l’immediata sostituzione delle numerose, ma immobili, truppe italiane con quattro divisioni corazzate tedesche, capaci di sfondare le difese inglesi e arrivare rapidamente al canale di Suez. Era giunto a queste drastiche conclusioni mescolando un’analisi oggettiva del teatro di guerra con i propri radicati pregiudizi antitaliani. Constatata l’impossibilità di rifornire un forte contingente tedesco e al tempo stesso le truppe italiane, dal momento che flotta britannica dominava il Mediterraneo, non restava a suo avviso che operare una scelta a favore dei soldati che avessero le migliori qualità per trionfare, cioè i tedeschi. Fin dalla guerra di Spagna aveva imparato a diffidare dello spirito combattivo degli italiani e soprattutto delle assurde vanterie dei loro ufficiali: “Un soldato inglese vale più di dodici italiani. Gli italiani sono buoni lavoratori, ma non sono guerrieri. Non amano il rumore degli spari”. Hitler, già orientato ai preparativi per l’invasione dell’Unione Sovietica, aveva bocciato la proposta con irritazione, ritenendo impensabile rinunciare a più di una divisione corazzata e soprattutto esautorare l’alleato italiano dai suoi possedimenti coloniali, senza incrinare irrimediabilmente il patto d’acciaio. Sulla base di queste considerazioni militari e politiche, si era detto convinto che gli italiani, tutt’al più puntellati da qualche reparto corazzato tedesco, potessero e dovessero fare da soli in Africa. Nell’arco di qualche settimana la clamorosa inettitudine dimostrata dall’esercito italiano lo aveva fatto ricredere. Nell’ottobre del 1940, pochi giorni prima che il generale Von Thoma giungesse a Roma, Hitler, senza alcuna consultazione preventiva con l’alleato, aveva inviato truppe e squadriglie aeree in Romania, a difesa dei pozzi petroliferi di Ploiesti, essenziali per garantire la mobilità delle sue armate. La manovra era stata interpretata dal duce non soltanto come l’ennesimo schiaffo ricevuto dal führer, ma anche come una palese conferma della volontà tedesca di minacciare l’area di influenza italiana. Il proditorio attacco alla Grecia, governata dal dittatore filofascista Metaxàs, gli era sembrato la risposta più adeguata per arginare la presenza tedesca e affermare il primato italiano nell’area balcanica. Lo stato maggiore tedesco aveva reagito con incredulità e sconcerto alla notizia dell’iniziativa italiana, giudicando assurda, avventata e velleitaria la scelta tattica di sferrare un attacco in autunno inoltrato in una regione montagnosa come l’Epiro priva di strade e con un numero di divisioni, oltre tutto mal equipaggiate, insufficiente. Hitler era invece montato su tutte le furie, individuando nell’allargamento della guerra alla Grecia un imperdonabile errore strategico che rischiava di esporre i giacimenti petroliferi rumeni e il fianco meridionale del suo schieramento alle minacce inglesi e quindi di compromettere i suoi piani per l’imminente aggressione all’Unione Sovietica. Di ritorno dai colloqui con il maresciallo Pétain e con il generalissimo Franco, il 28 ottobre, si era perciò precipitato a Firenze per incontrare il duce nel vano tentativo di dissuaderlo. Le operazioni erano già iniziate da alcune ore e Mussolini aveva ostentato un tale incrollabile ottimismo da costringere l’alleato a rassegnarsi al fatto compiuto. Il comunicato ufficiale del colloquio fiorentino aveva esaltato la perfetta identità di vedute dei due dittatori per non indebolire l’immagine dell’Asse, ma in realtà il dissenso era rimasto incolmabile. L’accostamento proposto da Mussolini, allo scopo di enfatizzare il carattere paritario dell’alleanza, tra l’impresa greca e l’occupazione tedesca della Norvegia per l’assunzione del pieno controllo del mare del Nord non aveva affatto convinto Hitler, che si era limitato a fare buon viso a cattivo gioco, in attesa di verificare sul campo le capacità italiane di condurre una guerra lampo. Il terzo giorno dell’offensiva l’avanzata italiana si era già impantanata nel fango dell’Epiro, il 4 novembre, a una settimana dall’inizio delle operazioni, le forze greche, male armate e peggio equipaggiate, avevano incominciato a respingere gli invasori verso il confine albanese. A Berlino, nelle alte sfere del governo e dell’esercito, il disprezzo verso gli italiani, dapprima sussurrato e sottointeso per ragioni di opportunità politica, aveva assunto toni via via più accesi, incoraggiato dalla crescente irritazione del führer. La sua personale stima verso Mussolini, nonostante gli errori e i fallimenti, era rimasta intatta, tanto che continuava a definirlo l’unico grande uomo italiano. Al contrario, Ciano, ritenuto l’ispiratore dell’avventura greca, e gli alti comandi appartenevano a un “mondo fossile”, a una “mafia aristocratica”, “composta da cretini”. Fino alla fine dei suoi giorni, Hitler avrebbe continuato a vedere in Mussolini un “maestro” che gli aveva indicato la via attraverso cui contrastare il pericolo bolscevico, ispirando il nazionalsocialismo, “un uomo di stato incomparabile” le cui giuste ambizioni imperiali erano state frustrate da un popolo senza qualità, razzialmente inferiore, un suo pari con cui confidarsi, alleviare la solitudine del potere e condividere lo stesso destino. La profonda e sincera amicizia verso il duce non aveva potuto tuttavia mutare il giudizio nettamente negativo di Hitler a proposito della campagna di Grecia, destinato anzi ad aggravarsi con il susseguirsi delle umiliazioni per l’esercito italiano, sino a trasformarsi in un pensiero ossessivo, nell’origine di tutti i mali della Germania. Nell’aprile del 1945, nel bunker della cancelleria ormai assediato dai russi, Hitler scrivendo il proprio testamento politico per il popolo tedesco avrebbe indicato nell’ “inutile” e “pazzesca” avventura greca la causa della sconfitta del Terzo Reich. L’imperativo di assumere il controllo dell’area balcanica, ponendo così rimedio alla disastrosa impresa italiana, avrebbe causato il ritardo di alcune preziose settimane nell’avvio della campagna di Russia e quindi la mancata conquista, prima dell’inverno del 1941, di obiettivi strategici irrinunciabili. La spiegazione hitleriana è una evidente scorciatoia assolutoria che tuttavia dimostra quanto fosse grande e radicato il suo odio verso gli italiani, sino a trasformarli nel capro espiatorio del fallimento del suo progetto di dominio mondiale. Tra il novembre del 1940 e il gennaio del 1941 le armi italiane avevano subito continui e umilianti rovesci. La controffensiva greca non si era esaurita, le truppe italiane avevano continuato ad arretrare, rischiando quasi di essere rigettate in mare. Creta era caduta in mano inglese e dalle sue basi aeree potevano alzarsi in volo i bombardieri ad ampio raggio per minacciare le riserve petrolifere rumene. I peggiori timori tedeschi sembravano prendere corpo. Nel porto di Taranto una formazione di aerosiluranti inglesi, nella notte tra l’11 e il 12 novembre, aveva gravemente danneggiato tre delle più importanti unità della flotta italiana, Littorio, Duilio e Cavour, dimostrando che persino quella che sembrava l’unica arma in grado di fronteggiare il nemico era in realtà inadeguata. All’inizio di dicembre le truppe di Graziani in Egitto erano state sorprese da una fulminea controffensiva inglese e si erano viste costrette a ritirarsi disordinatamente sino al golfo della Sirte, abbandonando sul terreno artiglierie e rifornimenti. Gli inglesi avevano ricavato un consistente bottino: ottocento cannoni, cinquecento carri armati leggeri, le tristemente note “scatole di sardine”, un gran numero di veicoli, oltre centotrentamila prigionieri; dieci delle quattordici divisioni ammassate in Libia erano state annientate. In gennaio anche le colonie italiane in Africa orientale, Eritrea, Somalia e Etiopia, erano state investite da una fortunata offensiva inglese, sferrata simultaneamente dal Sudan e dal Kenia. Per le truppe italiane schiacciate in una morsa, la situazione si era presentata subito disperata. Ogni passo verso lo sfacelo militare era accompagnato nell’entourage del führer da un crescendo di disprezzo e di dileggio verso gli italiani, in cui non mancavano di affiorare convinzioni razziste. Gli italiani, in quanto mediterranei, non erano altro che un miscuglio di razze, corrotto dal cattolicesimo, privo di ogni virtù guerriera e di quel senso della dignità e della lealtà caratteristico degli ariani più puri. Quasi ogni giorno il ministro della propaganda Joseph Goebbels annotava sul suo diario nuovi insulti verso l’alleato italiano: 

“16 novembre 1940 – Gli italiani respingono un attacco greco su territorio albanese. Che umiliazione e che ignominia! La faccenda di Taranto continua a giganteggiare nei bollettini di vittoria inglesi.

23 novembre 1940 – Adesso gli italiani hanno evacuato Coriza… Continuano a rovinare le nostre posizioni. Begli alleati che siano andati a prenderci!

26 novembre – Gli italiani non riescono nemmeno a tenere la loro nuova posizione in Albania… I nostri alleati girano i tacchi e scappano. Uno spettacolo vergognoso.

5 dicembre 1940 – Gli italiani si stanno ritirando ulteriormente, sul fronte greco. Una cosa vergognosa. Il prestigio di Mussolini ne ha sofferto terribilmente. Gli italiani sono al livello più basso, per quanto concerne l’opinione mondiale. E le nostre quotazioni sono salite ancora più in alto.

11 dicembre 1940 – Si calcola che le perdite italiane ammontino a circa diecimila morti. Nessuno, adesso, vuole esserne il responsabile. Ciano cerca di scaricare la colpa su Badoglio, e Badoglio insiste nel dire di non essere stato consultato. Una spaventosa orgia di dilettantismo.

22 dicembre 1940 – Impareggiabile dilettantismo. Il Führer ha qualche parola dura da dire sull’argomento. Gli italiani hanno portato allo sfacelo l’intero prestigio militare dell’Asse. Ecco perché gli Stati balcanici si mostrano così ostinati. Gli italiani, dopo tutto, sono una razza neolatina. Ora dovremo attaccare. Non per aiutare gli italiani, ma per cacciare via gli inglesi, che adesso si sono insediati a Creta. Devono essere buttati fuori dall’isola. Il Führer preferirebbe vedere la pace ristabilita tra Roma e Atene, ma come dirlo agli italiani? Mussolini, ora, è completamente impantanato in questo imbroglio.

13 febbraio 1941 – Aspri combattimenti in Albania. In Abissinia la situazione sta diventando molto grave per Roma e in Libia è piuttosto catastrofica. I rapporti dall’Italia parlano del più nero disfattismo. In questi giorni il Führer è l’unica speranza dei fascisti. Ciano è assolutamente finito, e la popolarità del Duce si avvicina al livello zero. A questo si aggiungono la disorganizzazione, la corruzione, in breve uno stato di cose ai limiti del caos. Dovremo presto entrare in azione, o l’Italia finirà in niente.

14 marzo 1941 – Gli italiani non sono desiderosi di passare all’offensiva, dopo tutto. Una banda di codardi fannulloni!”.

A pagare il prezzo più alto del crescente disprezzo tedesco dopo i rovesci in Grecia e in Africa erano stati duecentotrentamila italiani che si trovavano lontani dai campi di battaglia. Nel quadro della collaborazione economica tra Italia e Germania, come contropartita alle materie prime tedesche, che peraltro affluivano dal Brennero in quantità ben inferiori a quelle concordate, decine di migliaia di lavoratori italiani, a partire dal 1939, erano stati inviati nel territorio del Reich per sostituire nei campi e nelle fabbriche la mano d’opera chiamata alle armi. Inizialmente il trattamento riservato a questi volontari era stato se non eccellente almeno accettabile, poi con il deteriorarsi del prestigio italiano si era degradato al punto da diventare non molto dissimile da quello dei prigionieri di guerra francesi o inglesi. La polizia era pronta a reprimere con durezza ogni minima infrazione disciplinare. Gli italiani rei di essere poco produttivi, ritardatari, chiassosi o di aver tentato di ritornare in patria senza i dovuti permessi potevano addirittura essere internati in appositi campi di “rieducazione”. Le vibrate proteste ufficiali del governo italiano non erano mancate, determinando la chiusura dei campi di “rieducazione” e un certo miglioramento del vitto e degli alloggi, tuttavia il rapporto tra italiani e tedeschi era rimasto problematico. In molte città attorno ai lavoratori italiani si era creato un clima di insofferenza e di sospetto che aveva un fondamento razzista. A preoccupare una parte della società civile e le autorità naziste era soprattutto il rischio che gli italiani insidiassero la virtù e la purezza razziale delle donne tedesche. Quelle che proprio non riuscivano a esistere al fascino latino potevano subire punizioni esemplari come la rasatura del cranio. Il responsabile della politica razziale del partito nazista, Otto Gross, aveva apertamente messo in guardia l’ambasciatore a Berlino Dino Alfieri sull’importanza di non fraintendere i rapporti di cordialità tra i due regimi, perdendo di vista l’importanza di evitare ogni contaminazione razziale tra il popolo italiano e quello tedesco. 

A Berlino nessuno coltivò dubbi sulle responsabilità del disastro dell’Asse in Nordafrica: era colpa dei soliti inaffidabili italiani. E anche sul fronte russo i tedeschi non si fecero scrupoli nell’assegnare all’alleato il ruolo di capro espiatorio. Per non parlare della protezione offerta agli ebrei nelle aree di occupazione italiana in Francia, Tunisia, Croazia e Grecia.

Benché oppresso dalle sconfitte, Mussolini aveva tergiversato fino alla metà di gennaio del 1941 prima di cedere alle crescenti pressioni tedesche volte a ridimensionare la sua aspirazione a condurre una “guerra parallela”. Nell’incontro svoltosi al Berghof, tra il 19 e il 20 gennaio, Hitler si era mostrato estremamente amichevole, dichiarando di essere pronto a intervenire in Grecia e in Libia. Non aveva preteso contropartite, se non l’impegno del duce a prodigarsi per convincere Franco a schierarsi con l’Asse, ma la sua intenzione di assumere il controllo della sfera d’influenza italiana era stata fin troppo evidente. Mussolini, dissimulando i timori per la propria autonomia politica e l’irritazione che provava nel dover dipendere dalla generosità tedesca, non aveva potuto opporre rifiuti. A partire dalla metà di febbraio due divisioni, una corazzata e l’altra meccanizzata, avevano incominciato a sbarcare a Tripoli. Alla fine di marzo le truppe italo-tedesche erano già passate all’offensiva: si apprestavano a ricacciare gli inglesi dalla Cirenaica, a riconquistare Bengasi e a stringere d’assedio la piazzaforte di Tobruk. Il 6 aprile 1941, la Wehrmacht, appoggiata da reparti bulgari, ungheresi e italiani, aveva dato avvio all’invasione della Jugoslavia, colpevole di aver voltato le spalle all’Asse a seguito di un colpo di stato ordito da un gruppo di ufficiali contrari all’intesa con la Germania nazista. In due settimane l’esercito jugoslavo era stato annientato e la Grecia, minacciata lungo tutti i suoi confini, aveva dovuto deporre le armi. Il repentino miglioramento della situazione militare italiana non aveva però cancellato il disprezzo dei tedeschi verso l’alleato fascista, anzi l’aveva rafforzato. Nei Balcani, l’occupazione della Jugoslavia e il crollo della Grecia si erano verificati senza un determinante contributo italiano. I successi ottenuti in Africa settentrionale erano da attribuire al valore dell’Afrika Korps e all’abilità tattica del suo comandante, un dinamico ufficiale, appena promosso tenente generale, che si era distinto durante la campagna di Francia, conquistandosi la personale stima di Hitler: Erwin Rommel. Visti da Berlino i successi africani erano apparsi particolarmente luminosi, in quanto ottenuti malgrado gli italiani, cioè malgrado la pavida indolenza degli alti comandi e la sconcertante impreparazione delle truppe. Pur essendo formalmente subordinato allo stato maggiore italiano, Rommel, sfruttando l’appoggio del comando supremo della Wehrmacht e la fiducia che il führer riponeva nei suoi confronti, si era di fatto creato un ampio margine di autonomia e aveva finito per imporre la sua visione della guerra nel deserto, imperniata sulla rapidità e sulla mobilità. Le sorprendenti vittorie riportate nel corso del 1941 e del 1942 gli avevano conferito un’aura di infallibilità, rendendo incontestabili le sue valutazioni. Pertanto poteva permettersi di trattare i suoi superiori italiani con altezzoso disprezzo, considerandoli miopi, infidi e codardi. Riferendosi a loro scriveva alla moglie Lucie: “Non ho mai avuto una buona opinione di questi gentiluomini. Merde sono e merde resteranno”. Neppure verso il duce mostrava particolari riguardi. Nel luglio del 1942, quando le truppe italo-tedesche erano attestate a El Alamein e l’obiettivo di raggiungere il canale di Suez sembrava a portata di mano, Mussolini si era deciso, mal consigliato dal suo stato maggiore, a volare in Libia per poter presenziare al trionfo e assumersene prontamente il merito. In previsione dell’imponente parata all’ombra delle piramidi erano stati sbarcati a Tripoli duecento barattoli da dieci chili di lucido da scarpe. In tre settimane di permanenza tra le roventi sabbie africane, il duce aveva dovuto accontentarsi di visitare ospedali e campi di prigionia, di rincuorare coloni che avevano perso tutto, di passare in rassegna reparti in marcia verso il fronte, ma Rommel, troppo impegnato a dirigere le operazioni, non aveva trovato neanche un minuto da dedicargli. Negli stessi giorni in cui Mussolini, stretto nella sua uniforme di primo maresciallo dell’impero, ciondolava in attesa di buone notizie o almeno di un incontro al vertice, Rommel aveva interrotto una riunione con il suo stato maggiore per volare in un ospedale da campo a rendere omaggio a un valoroso ufficiale italiano gravemente ferito che si era distinto al comando di una postazione di artiglieria. L’atteggiamento verso i soldati italiani del generale destinato a guadagnarsi il soprannome di “volpe del deserto” era complesso e ambivalente. Per un verso provava rispetto e compassione nei loro confronti, per un altro diffidava della loro lealtà e della loro determinazione a combattere. Alla moglie confidava: “Sono ottimi, pazienti, resistenti, coraggiosi, ma male armati e peggio comandati”. Era anche disposto, come dimostrano i bollettini emessi dal suo comando, a riconoscerne con generosità il valore e la tenacia, tuttavia riteneva che gli italiani come popolo non brillassero per qualità marziali. Nel novembre del 1917 aveva ottenuto la più alta onorificenza dell’esercito imperiale, la croce pour le mérite, catturando a Longarone interi reggimenti italiani quasi senza combattere e non poteva certo averlo dimenticato. Conversando con i suoi ufficiali ammetteva che gli italiani possedevano altre virtù rispetto a quelle militari, magari preziose, ma inutili per vincere una guerra. Ogni ostacolo alla realizzazione dei suoi piani trovava nelle carenze italiane un’immediata spiegazione. L’insufficiente afflusso di rifornimenti alle sue colonne corazzate era da imputare allo scarso impegno, alla colpevole mancanza di organizzazione e di iniziativa degli italiani. Rifiutava con sdegno le giustificazioni dell’alto comando italiano che si affannava a fargli presente le immani difficoltà di rifornire un esercito attraverso centinaia di chilometri di deserto, con temperature che mettevano a dura prova uomini e mezzi. I porti di Bengasi e di Tobruk avevano una capacità piuttosto ridotta ed erano gravemente esposti agli attacchi aerei provenienti dall’Egitto, tanto che le acque al largo della Cirenaica si erano trasformate nel “cimitero della marina italiana”. La rotta tra i porti italiani e Tripoli si presentava invece più breve e relativamente più sicura, ma una volta sbarcati i rifornimenti dovevano affrontare un lungo viaggio via terra. Nell’estate del 1942, quando l’armata italo-tedesca si trovava ai margini del delta del Nilo, un litro di benzina, una scatoletta di carne o un pacchetto di cartucce dovevano viaggiare per duemiladuecento chilometri prima di giungere a destinazione. In ogni ritardo, in ogni deficienza logistica Rommel vedeva i limiti di un popolo che non sapeva o non voleva fare la guerra, se non addirittura lo spettro del tradimento. Con il passare dei mesi, la vulnerabilità dei convogli italiani alle incursioni aeree e agli agguati della flotta britannica lo aveva erroneamente indotto a credere nell’esistenza di una diffusa rete di traditori, spie e sabotatori. Nel suo immaginario Roma e i principali centri di comando erano una sorta di suk in cui le informazioni non restavano segrete troppo a lungo, complici la proverbiale loquacità italiana e il proliferare dei traditori a ogni livello della scala gerarchica. La sua boria, nutrita di pregiudizi e di disprezzo verso gli italiani, gli impediva di individuare la vera causa che affamava le sue truppe e le costringeva all’immobilità: Ultra, cioè il sistema di decrittazione dei messaggi in codice trasmessi dall’esercito tedesco. Fin dall’inverno del 1940, i migliori cervelli inglesi, selezionati dal servizio segreto tra matematici, fisici, ingegneri, enigmisti, linguisti e campioni di scacchi e di bridge, avevano incominciato a penetrare i messaggi cifrati generati dal codificatore elettromeccanico Enigma, in cui i tedeschi riponevano una fiducia assoluta. Insieme all’Afrika Korps erano sbarcate a Tripoli anche le macchine Enigma, attraverso cui venivano diffuse ai comandi tedeschi tutte le informazioni relative alle operazioni della marina italiana. In questo modo, ciò che i codici italiani, ancora inviolati, proteggevano diventava improvvisamente comprensibile per gli inglesi intercettando le comunicazioni tedesche. Non erano dunque né l’indole traditrice degli italiani, né la loro goffaggine nel preservare le informazioni più segrete a consentire alla flotta aeronavale britannica di tagliare con precisione chirurgica le linee di rifornimento di Rommel. Oltre alla trasparenza del suo sistema di comunicazione, l’altra spina nel fianco dell’armata italo-tedesca era rappresentata da Malta, da cui le forze inglesi potevano insidiare la vitale rotta per Tripoli. Nel giugno del 1940, Mussolini, troppo occupato a sferrare la sua “pugnalata” alla Francia per meritarsi un posto al tavolo dei vincitori, non aveva preso in considerazione l’occupazione di Malta, allora debolmente difesa. Era stato un errore di valutazione gravissimo, a cui si era cercato di rimediare verso la fine del 1941 elaborando un piano di invasione con la collaborazione tedesca. L’esperienza del generale Kurt Student, che aveva guidato le forze aviotrasportate nella sanguinosa conquista di Creta nel maggio del 1941, si era rivelata preziosa. Erano stati predisposti navi, mezzi da sbarco e alianti, la divisione paracadutisti Folgore e altre unità mobilitate avevano ricevuto uno specifico e meticoloso addestramento, le difese di Malta erano state sottoposte a intensi bombardamenti, nella primavera del 1942 tutto era pronto per mettere in atto l’operazione denominata in codice C3 dallo stato maggiore italiano. L’ultima parola spettava però a Berlino, le cui truppe aviotrasportate erano ritenute indispensabili per ottenere il successo. In giugno, Hitler aveva deciso di rinviare l’operazione. Forse più che all’illusione che Rommel fosse in procinto di ricacciare gli inglesi oltre il canale di Suez, aveva ceduto alla diffidenza che nutriva verso gli italiani. Al generale Student, designato al comando dell’assalto dal cielo, Hitler aveva confidato di temere che se la flotta britannica fosse comparsa al largo di Malta tutte le navi italiane si sarebbero rifugiate in fretta e furia nei loro porti, abbandonando al loro destino le truppe aviotrasportate. A Mussolini aveva invece taciuto le sue preoccupazioni antitaliane, aveva preferito evocare la “dea della fortuna” che “nelle battaglie passa accanto ai condottieri soltanto una volta” per imporgli, seppur con i toni di un amico sincero e premuroso, di dare piena fiducia a Rommel che, galvanizzato dalla conquista di Tobruk, intendeva proseguire la sua offensiva verso il delta del Nilo, senza curarsi di Malta. Di fronte a una visione strategica così ispirata, il duce, ignorando le obiezioni di alcuni dei suoi generali, non aveva esitato a inchinarsi. La dea della fortuna, sempre capricciosa, si era però lasciata afferrare dagli inglesi. Esaurito il suo slancio offensivo a causa della penuria di carburante, pezzi di ricambio e munizioni, Rommel era stato travolto, nell’ottobre del 1942, dall’ottava armata del generale Montgomery, che disponeva di linee di rifornimento, attraverso il canale di Suez, sicure e soprattutto brevi. Nella decisiva battaglia di El Alamein gli inglesi erano stati ben più generosi degli alleati tedeschi nel riconoscere il valore, il coraggio e l’abnegazione dimostrati dai soldati italiani, in particolare dai paracadutisti della divisione Folgore a cui avevano reso l’onore delle armi. Al termine dei combattimenti dei cinquemila parà partiti dall’Italia ne erano sopravvissuti appena trecentosei. A Berlino invece nessuno aveva avuto dubbi sulle responsabilità del disastro africano: i soliti inaffidabili e spregevoli italiani. Anche sul fronte russo i tedeschi non si erano fatti scrupoli ad assegnare all’alleato italiano il ruolo di capro espiatorio della disfatta. All’alba del 22 giugno 1941, oltre tre milioni di uomini della Wehrmacht avevano varcato i confini sovietici dal Baltico ai Carpazi. Poche ore prima dell’inizio delle operazioni, Hitler aveva informato Mussolini, che aveva accolto con entusiasmo la notizia. Da tempo sospettava un imminente allargamento a est del conflitto da cui si attendeva, attraverso il superamento del patto Ribbentrop-Molotov e il ritorno alla coerenza ideologica dell’Asse, l’opportunità di riaffermate il proprio ruolo di campione senza macchia dell’antibolscevismo, di risollevare il prestigio militare italiano e di guadagnare terreno rispetto agli alleati minori del Terzo Reich come la Romania e l’Ungheria. Nonostante Hitler e i suoi generali non avessero né previsto, né auspicato alcun contributo militare italiano, il duce aveva insistito per partecipare all’impresa. Si era affrettato a dichiarare guerra all’Unione Sovietica e a ordinare allo stato maggiore di mettere insieme al più presto un contingente da inviare in Russia. Il führer, pur ritenendo assai più utile un rafforzamento del fronte africano, non si era sentito di negare all’amico italiano l’onore di partecipare direttamente alla battaglia decisiva per il trionfo della civiltà europea sulla barbarie asiatica. A fine giugno erano partiti verso le steppe russe i primi treni stipati di soldati con un equipaggiamento raccogliticcio e incompleto. Ancora una volta l’illusione di una campagna breve che avrebbe annientato la potenza sovietica prima del sopraggiungere dell’inverno aveva soffocato nel duce ogni prudenza. Riteneva che crollata la Russia, l’impero inglese avrebbe accettato una pace di compromesso da cui l’Italia avrebbe potuto trarre i massimi vantaggi soltanto in virtù del contributo fornito all’alleato su tutti i fronti. Sulla qualità del concorso italiano i vertici militari tedeschi avevano espresso le solite perplessità. Nell’agosto del 1941, il generale Wilhelm Keitel, capo di stato maggiore della Wehrmacht, dopo aver passato in rassegna il contingente italiano in compagnia di Hitler e di Mussolini ne aveva tratto una impressione desolante e si era posto una angosciosa domanda: “Come avrebbero fatto a resistere ai russi, uomini di questo stampo che erano solo mezzi soldati?”. Gli argomenti per addossare agli italiani qualsiasi colpa erano già pronti. Anche riguardo al significato ideologico da attribuire alla lotta contro la Russia il duce si era lasciato ingannare da convinzioni destinate a essere smentite dai fatti. Vedeva nell’operazione Barbarossa una crociata antibolscevica, capace di far convergere verso l’Asse tutte le correnti anticomuniste, persino quelle presenti nei paesi anglosassoni, Hitler invece la considerava prima di tutto una guerra di sterminio per la conquista a est dello spazio vitale tedesco. Nella visione nazista ebraismo e bolscevismo erano inestricabilmente legati tra loro, in quanto dal primo si sprigionava l’energia intellettuale del secondo. Pertanto lo sterminio degli ebrei equivaleva alla distruzione della dottrina leninista e delle forze più vitale dello stato sovietico. Un mese prima dell’inizio dell’operazione Barbarossa, il reichsführer delle SS, Heinrich Himmler, aveva riunito a Pretzsch sull’Elba un centinaio di comandanti delle Einsatzgruppen, le forze speciali che avrebbero seguito la scia delle armate tedesche nella loro avanzata in Russia, per formarli alla campagna di distruzione del nemico razziale. Con l’avvio dell’invasione gli ufficiali convenuti a Pretzsch avevano dimostrato di aver appreso la lezione di Himmler e di applicarla coscienziosamente. Ogni giorno giungevano a Berlino rapporti contrassegnati con la dicitura “segretissimo” in cui veniva tracciato il bilancio delle attività omicide delle forze speciali nei territori via via occupati. I funzionari del partito comunista, i commissari politici e soprattutto gli ebrei venivano rastrellati, fucilati e interrati in fosse comuni frettolosamente approntate. Il numero degli ebrei massacrati dalle Einsatzgruppen avrebbe superato il milione prima della fine della campagna. I rapporti sulla situazione operativa in U.R.S.S., contenenti tutti i dettagli della guerra razziale contro gli ebrei erano diramati quotidianamente a sessanta dipartimenti e funzionari del governo tedesco, ma nessuno giungeva agli alleati italiani. In via ufficiale Roma era tenuta all’oscuro della politica di sterminio sistematico della popolazione ebraica voluta dal führer. Dopo l’armistizio con la Francia, Ciano era stato informato da Ribbentrop del progetto di trasferire gli ebrei europei in Madagascar, ma probabilmente non ne aveva colto il significato implicitamente genocida. In seguito il governo tedesco si era limitato a esercitare pressioni sull’alleato italiano affinché nelle zone di occupazione di sua competenza si attenesse a una linea di condotta più intransigente nell’applicazione della politica razziale, dissipando il sospetto che gli ebrei potessero godere di qualche protezione. L’irritazione nazista aveva ben fondate motivazioni. Infatti, il ministero degli esteri si era sempre opposto con fermezza a ogni tentativo delle autorità tedesche, e degli altri paesi in cui vigevano legislazioni antisemite, di applicare norme restrittive e discriminatorie anche ai residenti italiani di ascendenza ebraica. Il riconoscimento della pienezza dei diritti di cittadinanza agli ebrei italiani nel territorio del Reich e in quelli occupati dalla Wehrmacht aveva assunto i caratteri di un aperto gesto di sfida nei confronti dell’alleato. Tanto che nel settembre del 1942 il governo tedesco aveva intimato a Roma, non volendo più tollerare una condizione di privilegio per gli ebrei italiani, di organizzare entro il gennaio successivo il rimpatrio dei propri cittadini. La minaccia dell’immediata deportazione degli ebrei italiani in Polonia aveva convinto palazzo Chigi a mettere da parte la linea delle proteste diplomatiche e delle schermaglie burocratiche per attivarsi nella realizzazione dei rimpatri. Nessun ebreo italiano era stato abbandonato, neppure quelli arrestati e deportati per errore dalla Gestapo. La diplomazia italiana anche in questi casi era intervenuta con incisività, riuscendo talvolta a ottenere il rilascio dei malcapitati. A costo di destare l’indignazione dei nazisti e attirarsi il loro risentito disprezzo, le autorità civili e militari italiane avevano esteso la protezione accordata agli ebrei italiani anche a quelli stranieri, persino a quelli tedeschi accusati di attività eversive. In Francia, in Tunisia, in Croazia e in Grecia i comandi militari si erano mostrati larghi di aiuti e di protezione non solo verso gli ebrei residenti nelle proprie aree di competenza, ma anche verso quelli che si trovavano nelle zone limitrofe, sottoposte all’autorità tedesca o di governi collaborazionisti. Nella zona di occupazione italiana in Francia, il numero degli ebrei era quasi triplicato, suscitando vivaci proteste da parte sia del governo di Vichy, sia delle autorità naziste che si vedevano sfuggire le loro prede a causa della generosa umanità, mascherata da lassismo, degli italiani. Adolf Eichmann, l’ufficiale delle SS incaricato da Himmler di rastrellare gli ebrei europei e di avviarli ai campi di sterminio, indispettito dall’atteggiamento italiano aveva attivato il ministero degli esteri per ottenere un incontro a Parigi con Guido Lospinoso, l’ispettore generale di pubblica sicurezza nominato da Mussolini, su insistenza tedesca, responsabile degli affari ebraici nella Francia occupata. Lospinoso si era reso irreperibile, nessuno dei messaggi recapitatigli aveva avuto risposta. L’onnipotente Eichmann aveva dovuto rinunciare alla riunione in cui sperava di mettere in riga gli italiani. Un subordinato di Eichmann, Heinz Roethke, incaricato di gestire la liquidazione della comunità ebraica francese, così descriveva, in un rapporto del luglio 1943, la situazione della zona di occupazione italiana: “L’atteggiamento italiano è ed è stato incomprensibile. Le autorità militari italiane e la polizia italiana proteggono gli ebrei con ogni mezzo sia in loro potere. La zona di influenza italiana, particolarmente la Costa Azzurra, è diventata la Terra Promessa per gli ebrei residenti in Francia. Negli ultimi mesi vi è stato un esodo di massa di ebrei che dalla nostra zona di occupazione sono passati in quella italiana. La fuga degli ebrei è stata facilitata dall’esistenza di migliaia di vie traverse, dall’assistenza data loro dalla popolazione francese, dalla simpatia delle autorità, da carte di identità false e anche dalla vastità dell’area che rende impossibile bloccare ermeticamente le zone di influenza. A proposito dell’atteggiamento italiano sulla questione ebraica, sono già stati inviati circa 20 rapporti… Sinora non vi è stato alcun accenno di mutamento nella condotta degli italiani. Questo problema crea grandi difficoltà nel mantenimento esteriore delle relazioni politiche italo-tedesche, perché i francesi e i rappresentanti diplomatici di altri paesi utilizzano abilmente la diversità di condotta verso gli ebrei, tenuta rispettivamente dall’Italia e dalla Germania. Gli italiani hanno fatto trasferire dalla Costa Azzurra alle stazioni climatiche del dipartimento dell’Isère e della Savoia circa mille ebrei bisognosi. Gli ebrei vi si trovano benissimo poiché non sono soggetti ad alcuna restrizione, ma al contrario sono alloggiati nei migliori alberghi.”. Anche in Tunisia, malgrado la difficilissima situazione militare e la forte presenza tedesca, la protezione italiana agli ebrei non era mai venuta meno. Ad Atene, il generale Carlo Geloso, comandante della seconda armata, oltre a non prendere alcun provvedimento contro gli ebrei, aveva ordinato di presidiare la sinagoga al fine di evitare violenze da parte degli studenti filonazisti greci. A Salonicco, nella zona di occupazione tedesca, le autorità consolari italiane avevano salvato nell’estate del 1942 centinaia di ebrei dalla furia nazista rilasciando certificati di nazionalità italiana a chiunque potesse vantare un remoto legame con l’Italia o avesse un cognome con una vaga assonanza italiana. Alcuni ufficiali aveva strappato dalle grinfie della Gestapo donne ebree spergiurando di averle sposate. In Croazia, nell’estate del 1941, un reparto italiano aveva simulato un inesistente rastrellamento di partigiani per raggiungere un gruppo di ebrei nascosti nelle zone interne del paese e sottrarli alla minaccia degli ustascia, le feroci milizie filonaziste guidate da Ante Pavelic. La condotta umanitaria verso gli ebrei dei militari e dei funzionari civili, così disonorevole agli occhi dei nazisti, perché razzialmente indegna e irresponsabile, era avallata e talvolta incoraggiata da Mussolini. A ispirarlo non erano tanto i sussulti dell’umanità nascosta al fondo del suo animo, quanto piuttosto considerazioni politiche a breve e a lungo termine. Nell’immediato temeva che la passiva accettazione di una politica persecutoria verso gli ebrei avrebbe dissolto ciò che rimaneva della popolarità del regime e del suo personale prestigio. Guardano invece al nuovo ordine europeo che sarebbe scaturito dalla guerra, riteneva opportuno prendere le distanze dalla politica razziale nazista per fare dell’Italia un polo di riferimento di tutte le forze che in Europa erano terrorizzate dalla prospettiva di una egemonia tedesca. Soprattutto nell’area mediterranea, destinata nei suoi sogni a entrare nella sfera di influenza italiana, vedeva la necessità di tutelare la posizione morale dell’Italia, così profondamente minacciata dalla brutalità tedesca, su cui nessun equilibrio politico avrebbe potuto essere edificato. Il silenzio ufficiale di Berlino sulla “soluzione finale” della questione ebraica non aveva impedito a Mussolini di intuirne i contorni. Le dimensioni del massacro perpetrato dalle Einsatzgruppen in Russia erano talmente grandi da non poter passare inosservate né ai comandi militari, né ai gerarchi in visita al fronte. Il segretario del PNF, Aldo Vidussoni, al termine di una visita alle truppe dell’ottava armata aveva inviato al duce, nell’ottobre del 1942, una eloquente relazione: “Un assoluto rigore è manifestato nei riguardi degli ebrei, severamente trattati e sottoposti a restrizioni di ogni genere, anche se non mancano quelli che lavorano. Mi è stato detto da italiani che vivono in quei territori e qualche volta anche dai tedeschi in vena di confidenze, che le fucilazioni sono all’ordine del giorno e anche per forti contingenti di individui di ogni età e sesso. A Minsk, al Teatro dell’Opera, abbiamo visto ammassata la roba di migliaia e migliaia di ebrei ammazzati e che sembra sarà distribuita alla popolazione. Si sfruttano, dicono, solo quelli che possono lavorare e fino al loro esaurimento materiale. Quello che più ha colpito gli italiani è il modo dell’uccisione, alla quale, del resto, sembra che le vittime siano rassegnate. Intere città e villaggi hanno avuto ridotto anche di un terzo e della metà la popolazione, specialmente per l’eliminazione degli ebrei.”. La consapevolezza del genocidio degli ebrei messo in atto dalla Germania nazista, pur accentuando le sue preoccupazioni circa la possibilità di costruire una durevole sistemazione dell’Europa e di garantire nel dopoguerra una qualche autonomia all’Italia, non aveva suscitato in Mussolini una completa ripulsa morale dell’alleato. Ben diversa era stata invece la reazione di molti soldati italiani sul fronte russo dopo aver assistito al trattamento riservato agli ebrei dalla disumana ferocia dei loro alleati; incredulità, sgomento e ribrezzo in Nuto Revelli: “Molti ebrei, uomini e donne, tutti con la stella gialla sul petto e sulla schiena, vagano lungo i binari: scalzi e cenciosi, passando da una tradotta all’altra, trascinano un secchio e una scopa. Devono raccogliere le immondizie che le tradotte seminano nelle stazioni. Fingono di lavorare, come cani affamati chiedono pane e minestra. La fame e gli stenti li hanno inebetiti. Visi malati, stanchi, rassegnati: occhi pieni di fame. Alcuni bambini hanno forse sei anni… Provo pena e nausea. Quasi tutti gli alpini guardano perplessi: guardano, non capiscono.”; orrore per la sistematicità dello sterminio in Teodorico Cuzzolin: “… una decina di ebrei fra donne e bambini, dopo essersi scavata una fossa, lunga sei metri e profonda due, costretti dai tedeschi, entravano per essere uccisi con armi automatiche. I tedeschi, dopo aver scaricato le armi su quei miseri, costringevano altri ebrei a riempire le buche di terra […] e queste barbarie continuavano fino a che non avevano eliminato tutti.”; indignazione per la crudeltà riservata a civili inermi in Mario Tognato: “Corpi macilenti, coperti alla meno peggio con luridi stracci sui quali non mancava mai la tragica stella a sei punte con la JU nel mezzo, visi cerei sui quali formavano una macchia gli occhi senza espressione. Ricordo una giovinetta, di forse sedici anni, che si fermò a guardare, mentre il nostro treno le passava accanto, un alpino che sbocconcellava una pagnotta. Da un bagliore improvviso in quel visetto tragico, il nostro alpino intuì la sua fame drammatica e le buttò la pagnotta, subito raccolta con felina rapidità. Immediatamente un soldato tedesco le fu sopra colpendola selvaggiamente con il calcio del fucile mentre un altro le rigava le carni con lo scudiscio”. Sin dai primi mesi passati sul fronte russo, molti soldati italiani avevano incominciato a vedere negli alleati tedeschi non più dei semidei della guerra, valorosi e invincibili, ma dei vili aguzzini privi di ogni parvenza di umanità, delle bestie sanguinarie da cui guardarsi le spalle. La tragica esperienza della ritirata attraverso la steppa russa aveva poi fornito ulteriori conferme a tali giudizi, destando un diffuso sentimento di rifiuto della Germania e della guerra imposta dal regime fascista. I tedeschi infatti avevano negato ogni solidarietà alle truppe dell’ottava armata, anzi le avevano volontariamente sacrificate, non prima però di aver addossato loro la responsabilità della rottura del fronte sul Don, a sud di Voronez. Nel dicembre del 1942, le divisioni corazzate russe avevano investito le posizioni italiane sul Don allo scopo di consolidare l’accerchiamento, realizzato in novembre, di Stalingrado e intrappolare in una gigantesca sacca tutte le armate che si trovavano nel Caucaso. Assillato dall’idea che gli alleati minori del Terzo Reich potessero fornire un contributo più consistente di quello italiano, Mussolini aveva accresciuto l’ottava armata sino a una forza di duecentotrentamila uomini, l’armamento e l’equipaggiamento erano stati però trascurati. Gravi erano le carenze di automezzi, di carri armati e di artiglieria. Pur così fragile il dispositivo italiano aveva opposto una accanita resistenza all’assalto sovietico, poi era stato travolto. Nell’urto contro le soverchianti forze nemiche alcune divisioni come la Ravenna e la Cosseria avevano subito perdite gravissime. Già quando il fronte aveva mostrato i primi segni di cedimento, il comando tedesco, adducendo motivazioni assai poco plausibili, aveva incominciato a lesinare gli aiuti all’alleato. Dopo lo sfondamento delle linee al centro dello schieramento italiano aveva temporeggiato prima di impartire l’ordine di ripiegamento all’ottava armata per consentire alle più robuste e più mobili divisioni della Wehrmacht di mettersi in salvo. Le unità meccanizzate e corazzate tedesche si erano così sganciate dal combattimento, lasciando alle stremate e appiedate divisioni italiane tutto il peso della resistenza all’urto sovietico. Durante la ritirata l’ottava armata, braccata dai russi, aveva potuto contare soltanto su sé stessa. I tedeschi avevano mostrato all’alleato il loro volto più spietato. Non avevano esitato a impadronirsi, anche con la forza, dei pochi mezzi e di quel poco di carburante di cui disponevano gli italiani, neppure le autoambulanze cariche di feriti erano state risparmiate. I comandi italiani si erano visti costretti a emanare ordini in cui si raccomandava di difendere anche con le armi mezzi, carburante e viveri dalle pretese degli alleati. Anche quando i camion o le slitte dei tedeschi erano semivuote brutale era il rifiuto di caricare fanti o alpini italiani, per quanto malconci potessero essere. Se i tedeschi ricevevano dai lanci della Luftwaffe un po’ di pane non lo dividevano con gli italiani, se trovano lungo la strada un riparo dal gelo sbarravano l’ingresso agli italiani, oppure li cacciavo via senza tanti complimenti, se per caso, erano arrivati per primi. Franz Radewald, un veterinario distaccato presso il 541° reggimento granatieri aggregato all’ottava armata, annotava in quei giorni sul suo diario: “…lungo la strada vediamo alcune capanne che facevano al caso nostro. Un paio di vecchie comari si mettono a gracidare come gazze quando si accorgono che abbiano qualche intenzione sulle loro topaie. (…) Tre italiani che erano lì e non ne vogliono sapere di sloggiare si buscano qualche paio di robuste randellate sul groppone che ottengono un effetto miracoloso…”. Lo stesso rude trattamento era riservato anche ai feriti, gettati, secondo le numerose testimonianze dei reduci italiani, come “sacchi di segatura” sulla neve per far posto ai soldati del Reich millenario. Radewald e i suoi camerati non avevano scrupoli di coscienza, l’unico cruccio che li tormentava era che la Germania avesse scelto un alleato così spregevole come quello italiano: “Siamo noi gli unici colpevoli di questa catastrofe, perché abbiamo accettato che individui di razza inferiore come questi combattano al nostro fianco. Hanno forse una lontana parvenza di soldati, costoro?”. Il disprezzo per gli italiani era così grande che alcuni soldati tedeschi a stento riuscivano a resistere alla tentazione di ammazzare quelli che consideravano una marmaglia di “straccioni, ladri e fifoni”. Non avrebbero dovuto resistere ancora per molto. Nella primavera del 1943, i resti dell’ottava armata, circa centomila uomini, avevano incominciato a rientrare in patria portando con sé un rancore profondo verso l’alleato, una drammatica disillusione circa la possibilità per l’Asse di vincere la guerra e un desiderio di vendetta per le sofferenze patite. In un rapporto del partito fascista sullo stato d’animo dei soldati sopravvissuti all’inferno russo, si registrava, nel marzo del 1943, con un certo stupore lo stridente contrasto tra il risentimento verso i tedeschi per il loro brutale e sprezzante egoismo e la riconoscenza verso la generosa umanità dei russi, che in molti casi si erano presi cura dei feriti italiani abbandonati sul terreno. Il cupo disfattismo dei reduci dal fronte russo non aveva stentato a propagarsi né al resto dell’esercito già da tempo demoralizzato, né a un paese prostrato dal razionamento dei generi alimentari, dai bombardamenti e dai lutti e ormai refrattario ai vaneggiamenti della propaganda di regime. Il crudo racconto dalla viva voce dei superstiti delle atroci angherie subite per mano tedesca durante la ritirata e dei patimenti sofferti a causa dell’irresponsabile leggerezza con cui l’ottava armata era stata mandata al macello aveva segnato per molti italiani, con o senza stellette, il definitivo distacco morale dal fascismo e dalla sua guerra. Le gravissime perdite subite in Africa e in Russia avevano reso più pressanti le richieste italiane di armi, attrezzature ed equipaggiamenti con cui tentare di riorganizzare l’esercito in vista della difesa dei confini nazionali, esasperando i rapporti già tesi e sospettosi con l’alleato tedesco. Sull’ipotesi di un riarmo italiano Hitler aveva manifestato tutto il suo sprezzante scetticismo in una riunione dello stato maggiore svoltasi nel marzo del 1943: “Noi diamo armi agli italiani ed esse vengono così in mano a gente che le fa finire in mano al nemico, dopo poco tempo esse sparano contro di noi. Accade lo stesso anche se si tratta di armi russe o di altra preda bellica: sono sempre armi che in breve tempo sono rivolte contro di noi.”. La stagione dei palliativi era da considerarsi conclusa, la soluzione del problema italiano non poteva che essere radicale. A cominciare da un nucleo di sei divisioni, l’esercito italiano avrebbe dovuto essere rifondato ex novo attraverso un intenso addestramento in Germania, arruolando fascisti di provata fede, diversi dai soldati che in Africa avevano “tagliato la corda al primo colpo di cannone” e dagli ufficiali che non avevano mostrato alcuna preoccupazione se non quella di “andare al caffè”. Progressivamente certe “miserabili divisioni” italiane avrebbero potuto essere sciolte e rimpiazzate da quelle plasmate sul modello tedesco. Il precipitare degli eventi bellici aveva vanificato i progetti di Hitler. Nel maggio del 1943 l’armata italo-tedesca in Tunisia aveva ceduto le armi al maresciallo Montgomery, all’inizio di giugno le guarnigioni italiane di Pantelleria e di Lampedusa si erano arrese quasi senza combattere, un mese più tardi gli Alleati erano sbarcati sulle coste siciliane. La facilità con cui erano penetrati nell’interno aveva convinto Hitler a chiamare a rapporto il duce a villa Gaggia, per spronarlo a resistere a oltranza. Dopo l’incontro di Feltre, Mussolini rimase alla guida del governo solo per sei giorni. Prima il gran consiglio del fascismo lo mise in minoranza, poi Vittorio Emanuele III lo destituì e lo fece arrestare. Uscito di scena il solo italiano che riteneva degno di stima e di fiducia, Hitler non ebbe alcun dubbio sull’imminente tradimento italiano. Finse di credere alle rassicurazioni del maresciallo Badoglio sulla determinazione del suo governo a continuare la guerra a fianco della Germania solo per guadagnare il tempo necessario per mettere a punto i piani operativi, denominati in codice “Alarico” e “Costantino”, per neutralizzare ciò che restava dell’esercito italiano in patria e all’estero. Mentre gli italiani esultavano in piazza per la caduta di Mussolini, sfogando la loro rabbia a lungo repressa su fasci littori, aquile romane e busti protervi del dittatore che li aveva condotti alla catastrofe, la Wehrmacht si assicurava il controllo dei valichi alpini e faceva affluire divisioni e unità corazzate, destinate non certo a rafforzare il fronte siciliano. Le deboli proteste dello stato maggiore italiano di fronte a questi minacciosi movimenti di truppe furono ignorate da Berlino, fornendo così a Badoglio una ragione in più per accelerare le trattative segrete in corso con gli anglo-americani. In attesa di perfezionare l’armistizio, l’anziano maresciallo, i suoi ministri e i suoi generali moltiplicarono le dichiarazioni di fedeltà al Terzo Reich, senza tuttavia riuscire ad apparire nient’altro che dei patetici teatranti agli occhi dei tedeschi. A mezzogiorno dell’8 settembre 1943, il re in persona giurò al diplomatico tedesco Rudolf Rahn, in visita di cortesia a villa Savoia, che l’Italia e la Germania erano unite per la vita e per la morte. Poche ore più tardi, intorno alle diciotto e trenta, la tragica farsa dell’alleanza italo-tedesca cessò con l’annuncio radiofonico da parte del generale Eisenhower della capitolazione italiana. Il tradimento da lungo tempo temuto da Hitler si era finalmente consumato. Nulla poteva ormai impedire al disprezzo tedesco di tramutarsi in odio feroce e vendicativo. L’attentato di Sarajevo, in cui perse la vita l’Arciduca Francesco Ferdinando, fu la causa occasionale per una guerra le cui premesse esistevano da tempo. La situazione europea di “pace armata”, basata sulla contrapposizione delle alleanze e sulla corsa agli armamenti, era in fibrillazione per conflitti latenti, come sostiene Francesco Perfetti, docente di storia contemporanea presso l’Università LUISS “Guido Carli”. L’Italia alla vigilia dello scoppio della prima guerra mondiale scelse la neutralità. Lo fece perché il trattato che la legava all’Austria-Ungheria e alla Germania fin dal 1882 era difensivo e non contemplava l’automatismo dell’intervento italiano ma anche e soprattutto perché il nostro governo non era stato, come avrebbe dovuto essere, preventivamente interpellato. Vienna non informò l’Italia dell’ultimatum alla Serbia (se non a cose fatte), violando così la Triplice, temendone l’opposizione e non essendo disposta a considerare ipotesi di salvaguardia o compensazione degli interessi italiani. Le consultazioni italo-austriache, avviate durante la neutralità, rivelarono una sostanziale chiusura di Vienna: le offerte asburgiche di “compensi” erano non solo insufficienti ma anche offensive e risibili. In questa situazione il destino dell’Italia, se si fosse schierata con la Triplice e questa fosse risultata vittoriosa, sarebbe stato quello, per dirla con Antonio Salandra, di diventare “il primo vassallo dell’Impero”. Giovanni Giolitti si illuse che, dalla trattativa, l’Italia potesse ricavare “parecchio” ma non c’erano i presupposti politici né la volontà austriaca. D’altro canto, i contatti diplomatici intrapresi dal governo italiano, in particolare dal ministro degli esteri Sidney Sonnino, si rivelarono più fecondi e si giunse il 26 Aprile 1915 alla stipula del Patto di Londra che prevedeva per l’Italia, in caso di vittoria, Trentino, Tirolo meridionale, Venezia Giulia e parte della Dalmazia. Si trattava dell’acquisto delle terre irredente, della conclusione del Risorgimento. Il 4 Maggio 1915 Sonnino comunicò a Vienna la nullità del trattato e il disimpegno dalla Triplice. La guerra era alle porte. Il 20 e il 21 Camera e Senato conferivano pieni poteri al governo guidato da Salandra dopo una crisi-lampo durata due giorni. Il 23 Maggio l’ambasciatore a Vienna consegnò la dichiarazione in base alla quale l’Italia si considerava in stato di guerra contro l’Austria-Ungheria a partire dalle ore zero del giorno successivo. Il primo colpo di cannone italiano fu sparato alle quattro del mattino. Francesco Giuseppe, quello stesso giorno, diffuse ai “suoi popoli” un proclama che denunciava il “tradimento” dell’Italia dopo un’alleanza ultratrentennale che le aveva consentito di “aumentare i possessi territoriali e svilupparsi a impensata floridezza”. Le parole del sovrano alimentarono il mito dell’italiano traditore ma erano false. La scelta dell’Italia non era stata frutto di un tradimento: i primi a tradire lo spirito e il dettato della Triplice Alleanza erano stati gli austriaci. La Grande Guerra, al di là delle ricostruzioni oleografiche e del “revisionismo” radicaleggiante e “sessantottino”, fu per l’Italia, a costo di sacrifici, la conclusione del Risorgimento.

Italiani: popolo di fedifraghi. Seguono la Spagna e la Francia. A tradire maggiormente, sono le donne, perché “annoiate”, scrive il 16/03/2017 “Il Giornale d’Italia". L’Italia è prima per numero di tradimenti. A stilare la classifica dei Paesi più «infedeli» ci ha pensato Incontri-ExtraConiugali.com, il portale dedicato a chi cerca un'avventura al di fuori della coppia. Il sito web ha condotto un sondaggio a livello europeo che vede infatti l'Italia posizionarsi al primo posto in quanto alla propensione a tradire. Un'inclinazione quindi che secondo quanto osserva Incontri-ExtraConiugali.com dipende in larga misura dalla nazionalità. Quali sono allora i Paesi dove si tradisce di più? Italia, Spagna e Francia guidano questa classifica: oltre la metà della popolazione italiana (58%) e spagnola (53%) ha infatti ammesso di aver tradito almeno una volta il proprio partner. E quasi sullo stesso livello, al terzo posto con il 49%, si collocano sul podio anche i francesi. Il resto della Top 10 è composta da Germania (48%), Belgio (46%), Regno Unito (45%), Austria (42%), Danimarca (39%), Finlandia (37%) e Norvegia (36%). Secondo quanto risulta dai dati raccolti da Incontri-ExtraConiugali.com, inoltre, il nostro Paese è quello dove l'aumento dei tradimenti rispetto all'anno precedente è maggiore, con una impennata del 18%. Grazie alle nuove possibilità offerte da siti come Incontri-ExtraConiugali.com e agli incontri favoriti dall'anonimato il tradimento è diventato un fenomeno sempre più diffuso sia tra gli uomini che tra le donne italiane. Gli italiani più propensi a tradire il proprio partner sono invece quelli che abitano a Roma (72%), Milano (71%), Napoli (68%), Genova (65%) e Palermo (64%), che sono anche le città con il maggior numero di iscritti al portale. In merito ai risultati divisi per sesso, la ricerca condotta da Incontri-ExtraConiugali.com mette in evidenza che a tradire oggi sono soprattutto le donne (64%), mentre la propensione al tradimento da parte degli uomini si ferma al 52%. Ma, perché anche le donne tradiscono? “Per il più classico dei motivi: uscire dalla routine e dalla noia”, risponde Alex Fantini, il fondatore del sito. Secondo il sondaggio, infatti, per il 45% delle donne è proprio la noia il motivo che spinge a tradire il partner. Al secondo posto si colloca invece la scarsa attenzione dei compagni nei loro confronti (32%) ed al terzo posto l'insoddisfazione per la propria vita sessuale (21%). “Insomma, le donne che non si sentono sessualmente appagate cercano di ritrovare con l'amante quelle emozioni che non riescono più a provare con i loro partner ufficiali” conclude il fondatore del portale.

Tradimento, l'Italia è il Paese più infedele. Con il 45% di infedeli gli italiano sono il popolo che tradisce di più, scrive Sabato, 30 gennaio 2016, "Affari Italiani". È ufficiale, in Francia l’infedeltà non è più un atto contro la morale. Lo dichiara la Corte di Cassazione francese nella sentenza sul caso Point de vue, magazine citato per diffamazione dal deputato Patrick Devedjian per averne insinuato la relazione extraconiugale con la allora giornalista – e oggi ex moglie di Francois Hollande -  Valérie Trierweiler. Poco importa che l’affair tra Devedjian, sposato e padre di 4 figli, e la Trierweiler si sia o meno consumato: a fare scalpore è la sentenza a dir poco rivoluzionaria, che spoglia il paese di qualsiasi vestigia moralista e lo proietta definitivamente nella più totale laicità: “Con l’evolversi delle abitudini così come dei concetti morali, ad oggi non è più possibile considerare l'infedeltà coniugale come in contrasto con la comune rappresentazione della moralità nella società contemporanea”. L’infedeltà non è quindi diversa da qualsiasi altra forma di libertà di espressione, tant’è che gli opinionisti francesi già si interrogano su quanto tempo passerà prima che esca per sempre dalla lista delle cause che giustificano un divorzio. Ma questo non è che l’epilogo di un dibattito tra infedeltà e morale e che ha incendiato il paese sin dallo scorso febbraio 2015, quando il colosso del tradimento online Gleeden.com – il più grande sito d’incontri in Europa dedicato esclusivamente a donne sposate o in coppia in cerca di avventure– ha fatto infuriare le associazioni familiari cattoliche per aver tappezzato Parigi di manifesti pubblicitari inneggianti in modo non proprio sottile all’infedeltà coniugale. Ma se in Francia l’infedeltà coniugale è stata definitivamente sdoganata, cosa si può dire per l’Italia? Con il Family Day a Roma e il disegno di legge Cirinnà in Parlamento, Gleeden si è interrogato sulla famiglia tradizionale e sul reale valore della fedeltà all’interno del matrimonio, raccogliendo dati a dir poco sorprendenti.

45%. È questa la percentuale di italiani – sposati o in coppia – che ha dichiarato di aver tradito il partner ufficiale almeno una volta. Percentuale che risulta essere la più alta d’Europa. Lo dichiarano i dati raccolti da un sondaggio IFOP (Istituto francese di opinione pubblica), commissionato qualche mese fa da Gleeden su scala europea. A sorpresa, la cattolica Italia risulta essere il paese con il più alto tasso di relazioni extraconiugali, superando persino la Francia (43%), la Gran Bretagna (36%) e la cattolicissima Spagna (39%). Non a caso è il paese in cui Gleeden conta oltre 800.000 iscritti, quasi un terzo della sua community totale. Ma i dati vanno ancora oltre: alla domanda “ti sei pentito/a di aver tradito il partner?” solo un 27% di italiani ha risposto sì contro il 73% di no. E anche stavolta la percentuale è la più alta d’Europa (Francia e Germania 28%, Spagna 36% e Gran Bretagna 50%). Non solo fedifraghi quindi, ma pure impenitenti. Ma quale valore morale danno gli italiani all’infedeltà? Perché se cedere alle lusinghe di un amore clandestino può essere prassi comune, farlo diventare moralmente accettabile è tutta un’altra storia. Ancora una volta i dati sorprendono e dipingono un quadro del nostro paese molto più laico di quello che si pensa. Stavolta i numeri vengono da un sondaggio dell’americana Pew Research, condotto su scala mondiale: se è vero che il 64% degli italiani pensa che l’infedeltà sia moralmente inaccettabile, la percentuale risulta comunque tra le più basse del mondo. Negli Stati Uniti, ad esempio, ben l’84% condanna pubblicamente il tradimento, così come il 76% dei Britannici. A confronto, l’Italia sembra un popolo di libertini, superato solo da Francia (47%) e Germania (60%). Altri due dati raccolti da IFOP sembrano avvalorare questa tesi: per il 56% degli italiani si può essere innamorati del proprio partner e tradirlo senza tanti complimenti, tant’è che il 40% ha dichiarato di essere stato quasi sicuramente tradito almeno una volta. Ma Gleeden è andato ancora oltre, coinvolgendo l’IPSOS per un focus tutto italiano. Nel suo Osservatorio Infedeltà, Gleeden riporta che per il 63% degli italiani è del tutto possibile amare due persone contemporaneamente, con un 21% degli intervistati che ha rivelato una stabile e duratura relazione con l’amante contro un 41% di avventure occasionali. Anzi, il 43% si aspetta addirittura di essere perdonato dal partner qualora ne scopra la scappatella. In un momento storico in cui l’Italia si interroga più che mai sulla famiglia e sui valori che la costituiscono, questi sono dati che fanno riflettere. Perché la crisi della famiglia tradizionale sembrerebbe cominciare senza troppo scalpore mediatico tra le quattro mura, quando un marito e/o una moglie vengono meno non solo a uno dei precetti fondamentali che suggellano un matrimonio cattolico, ma anche al dovere civile di fedeltà coniugale inteso come lealtà e impegno reciproco dei due coniugi a non tradire la fiducia dell’altro. Non a caso l’infedeltà coniugale continua a rimanere tra le cause più frequenti di divorzio, comportando nella stragrande maggioranza dei casi una sentenza di addebito per il coniuge fedifrago. Tuttavia, anche in questo frangente sembrano esserci delle aperture. Giusto per fare un esempio famoso, basti vedere la sentenza di divorzio Berlusconi-Lario, in cui dai 3 milioni di euro al mese richiesti inizialmente dall’ex moglie siamo passati a 1,4 milioni, suggerendo di fatto che il Tribunale di Monza abbia condannato meno severamente della Lario la vita dissoluta dell’ex premier. E ricordiamo che oggi è anche possibile ricorrere ogni qualvolta si riesca a dimostrare che il tradimento sia avvenuto come conseguenza di un matrimonio già in crisi, piuttosto che come sua causa scatenante. Ma se l’infedeltà sembra essere parte del DNA italiano, qual è il tetto massimo concesso alla fedeltà coniugale? A rivelarcelo è ancora IPSOS: il 35% degli intervistati dichiara di aver ceduto al tradimento dopo il 5° anno di matrimonio, il 30% tra il 2° e il 5° anno. Per un 20% un anno di fedeltà è stato più che sufficiente, mentre un 15% ha resistito solo 3 mesi.

Se legge e sondaggi sembrano porre l’Italia sulla buona strada per seguire l’esempio della Francia e spogliare l’infedeltà di qualsiasi velleità moralistica, altri dati – sempre IPSOS – rivelano uno spaccato ancora confuso, in bilico tra rivendicazioni laiche ed eredità ancora fortemente cattolica. Il 76% degli Italiani ha infatti dichiarato che rimanere fedeli per tutta la vita è possibile. E la risposta è trasversale a qualsiasi fascia d’età, religione e orientamento politico. Ma com’è possibile avere un dato in totale contraddizione con quanto detto fino adesso? Anzi, che sembra addirittura confutare tutto? Quello che gli italiani non riescono ancora ad accettare quando si parla di infedeltà è la manifestazione del suo lato puramente sessuale: tra gli atti che costituiscono fonte di tradimento infatti figurano baciare alla francese una persona diversa dal partner (77%), avere rapporti orali (89%), fino al rapporto sessuale vero e proprio, sia che si tratti di un episodio momentaneo (89%) che di una pratica regolare (92%). Innamorarsi di un’altra persona ve bene quindi, basta che l’amore rimanga platonico e non si traduca in qualcosa di più. A quel punto scatta la l’infedeltà, a cui a quanto pare non sappiamo resistere, perché Family Day o no, l’Italia rimane il paese più infedele d’Europa.

La soddisfazione dopo un rapporto sessuale ha una “scadenza”? Scrive Chiara Simonelli il 10 maggio 2017 su “L’espresso”. Viene generalmente indicata con il termine “risoluzione” quella fase della risposta sessuale maschile e femminile che segue l’orgasmo. Nell’accezione di “periodo refrattario” essa, ancora più dettagliatamente, indica il tempo di “riposo” necessario al potenziale rimanifestarsi dell’eccitazione che possa permettere un successivo rapporto sessuale penetrativo. Pensando alle diverse componenti della sessualità umana (Desiderio, Eccitazione, Orgasmo e Risoluzione), appare evidente come alcune siano più conosciute e chiare, mentre altre, forse perché più legate all’ambito dei vissuti e delle fantasie, sembrino più fumose e, persino, misteriose. Come già detto diverse volte, questo è palese nel caso del Desiderio, così chiaro nell’esperienza, ma così difficile da definire e studiare scientificamente. La medesima sorte, però, sembra spettare anche alla fase dell’“appagamento”, che non può, certamente, essere fatta corrispondere al raggiungimento del piacere. La soddisfazione sessuale, infatti, riguarda solo in parte il culmine orgasmico, e sembra rappresentare il vissuto di sensazioni uniche e specifiche, un po’ come il piacere della sazietà dopo un pasto appagante. Il tentativo fatto dalla Sessuologia scientifica è stato quello di studiarne le manifestazioni fisiche associate a quelle emotive; oltre a ciò, si è cercato di capire se queste ultime potessero avere una qualche funzione per i partner coinvolti nel rapporto sessuale. A quest’ultimo interrogativo ha provato a rispondere il lavoro di Andrea L. Meltzer e del suo gruppo di ricerca in un articolo pubblicato qualche settimana fa dalla rivista scientifica Psychological Science. La ricercatrice ha cercato di indagare, attraverso i report compilati da 214 coppie sposate da poco, l’esistenza di un “tempo quantificabile” nella durata delle sensazioni di appagamento successive ad un rapporto sessuale; oltre a questo, ha cercato di dare una possibile spiegazione della soddisfazione sessuale nel legame di una coppia stabile. I report stilati dalle coppie sono rappresentati da diari che entrambi i partner hanno compilato per 2 settimane, tempo previsto per la raccolta dei dati. Dall’analisi di questi ultimi, i ricercatori hanno stimato che la soddisfazione sessuale avrebbe un tempo, corrispondente alle 48 ore successive al rapporto sessuale. Secondo gli studiosi, la durata della soddisfazione sarebbe connessa a due fattori: il rilascio di ossitocina, responsabile delle emozioni positive e della percezione di unione e vicinanza sentimentale con il partner; e il tempo necessario per gli spermatozoi per essere presenti in una concentrazione abbondante nel liquido spermatico. Tra i commenti dei risultati, la Meltzer afferma che gli effetti piacevoli prolungati che seguono un rapporto sessuale avrebbero l’obiettivo di permettere alla coppia di rimanere legata anche in assenza di attività sessuale, permettendo al liquido seminale, durante tale pausa, di ristabilirsi per raggiungere un livello ottimale. Da affermazioni esplicitamente indicate nell’articolo, si evince che la prospettiva attraverso la quale vengono letti i risultati è di tipo evoluzionista, così come la formazione accademica della ricercatrice. La prospettiva evoluzionista è una corrente di studio che tende a leggere i fenomeni che costellano l’attività sessuale umana come orientati principalmente alla riproduzione e alla prosecuzione della specie. Pertanto, non stupisce che il tempo delle 48 ore come un tempo legato al raggiungimento di una miglior “qualità” degli spermatozoi sia fortemente legato alla matrice teorica di riferimento. Restano, nonostante ciò, diversi aspetti che permettono di ritenere interessante lo studio. Come prima cosa, l’interesse rivolto verso una fase sessuale ancora poco indagata. Un secondo punto è quello legato alla descrizione di un andamento oscillatorio e non costante dell’appagamento e, di conseguenza, del desiderio sessuale. Nell’immaginario comune, molto spesso rigido e ben lontano dalla realtà vissuta, ci si aspetterebbe che il desiderio sessuale sia sempre, costantemente elevato, soprattutto nel gruppo di riferimento considerato nello studio (giovani coppie di sposi). Studi che evidenzino la presenza di risposte fisiche ed emotive che comportano “normalmente” cambiamenti nell’appagamento e nel desiderio sessuale possono essere preziosi per ridurre la diffusione di falsi miti, che vorrebbero il desiderio come costante stabile della vita di una persona “sana” e “normale”. Ringrazio per la collaborazione la Dott.ssa Elisabetta Todaro.  

FENOMENOLOGIA DEL TRADIMENTO E DELLA RINNEGAZIONE.

Si è fatto con Cristo…, figuriamoci con i poveri cristi.

“E quando fu sera, egli si mise a tavola con i dodici; e, mentre mangiavano, disse: "In verità vi dico che uno di voi mi tradirà". Ed essi si rattristarono grandemente, e ciascuno di loro prese a dirgli: "Sono io quello, Signore?". Ed egli, rispondendo, disse: "Colui che ha intinto con me la mano nel piatto mi tradirà. Il Figlio dell'uomo certo se ne va secondo che è scritto di lui; ma guai a quell'uomo per mezzo del quale il Figlio dell'uomo è tradito! Sarebbe stato meglio per lui di non essere mai nato". E Giuda, colui che lo avrebbe tradito, prese a dire: "Maestro, sono io quello?". Egli gli disse: "Tu l'hai detto!". Matteo 26

La predizione di Gesù. Quando, nell’imminenza dell’arresto, Gesù preannuncia il prossimo sbandarsi delle pecore rimaste prive del pastore (nonché, occorre pur dirlo, la propria successiva risurrezione), Pietro insorge esclamando: “Se tutti si scandalizzeranno di te, io non mi scandalizzerò mai”. Al che Gesù: “In verità ti dico che questa notte, prima che il gallo canti, mi rinnegherai tre volte”. Ma Pietro insiste: “Anche se dovessi morire con te, non ti rinnegherò”. E l’evangelista aggiunge che “similmente dissero anche tutti gli altri discepoli”. Abbiamo citato da Matteo (26, 33-35); la versione di Marco differisce solo in un particolare: “Prima che il gallo canti due volte, mi rinnegherai tre volte” (14, 30). Sensibilmente diversa invece la versione di Luca (22, 31-34), che inizia con il preannuncio del ritorno di Simon Pietro al suo ruolo di guida dopo la defezione: “Simone, Simone, ecco, Satana vi ha reclamato per vagliarvi come il grano. Ma io ho pregato per te, affinché non venga meno la tua fede. E tu, una volta ritornato, corrobora i tuoi fratelli”. Replica Pietro: “Signore, con te sono pronto ad andare anche in prigione e alla morte”. Al che Gesù ribatte come sappiamo: “Ti dico, Pietro, non canterà oggi il gallo prima che tu abbia negato tre volte di conoscermi”. Quanto al quarto vangelo, anche in esso figura, in forma un poco diversa, il botta e risposta tra Pietro e Gesù: "Pietro disse: ‘Signore, perché non posso seguirti ora? Darò la mia vita per te! Rispose Gesù: ‘Darai la tua vita per me? In verità, in verità ti dico: non canterà il gallo, prima che tu non m’abbia rinnegato tre volte’" (Gv 13, 37-38). Rispetto ai Sinottici, manca, in questo passo, il preannunzio della diserzione di tutti i discepoli senza eccezione alcuna. Ciò è comprensibile se si pensa che il quarto evangelista afferma in seguito la presenza del discepolo prediletto ai piedi della croce. Con dubbia coerenza, però, il concetto della diserzione generalizzata viene espresso tre capitoli più avanti: “Ecco, verrà l’ora, anzi è già venuta, in cui vi disperderete ciascuno per conto proprio e mi lascerete solo” (Gv 16, 32). Dopo l’arresto di Gesù, già si è visto, le cose vanno in effetti come egli aveva preannunziato: tutti i discepoli si sbandano e fuggono.

Tradimenti senza fine. Il mito delle «rivoluzioni» rinnegate. L’accusa di aver gettato alle ortiche gli ideali più nobili ricorre nella lotta politica italiana. Paolo Buchignani esplora l’ossessione massimalista nel nostro Paese, scrive Paolo Mieli il 10 gennaio 2017 su "Il Corriere della Sera". Nelle pagine iniziali di un importante saggio per metà autobiografico appena pubblicato dal Mulino, Credere, tradire, vivere. Un viaggio negli anni della Repubblica, Ernesto Galli della Loggia si sofferma in particolare su uno dei tre verbi di cui al titolo del suo libro: «tradire». Torna, Galli della Loggia, alle parole «gelidamente sarcastiche» dedicate da Francesco Guicciardini, nella Storia d’Italia (Einaudi), ai «repentini cambiamenti di campo», ai «tradimenti plateali», ai «gesti di servilismo non richiesti», quasi sempre «conditi da una losca improntitudine», che accompagnarono nel 1494 la discesa in Italia del re di Francia Carlo VIII, preceduto dovunque «dalla fama della sua potenza apparentemente invincibile». Poi, però, lo storico spiega quanti equivoci sono riconducibili a quel termine: tradimento. E quello degli equivoci riconducibili al tradimento (o supposto tale) è il tema da cui ora prende le mosse un interessante libro di Paolo Buchignani, Ribelli d’Italia. Il sogno della rivoluzione da Mazzini alle Brigate rosse, che sta per essere pubblicato da Marsilio. Buchignani riflette sulla correlazione tra il mito della «rivoluzione palingenetica» e quello della «rivoluzione tradita». Dal momento che «il paradiso in terra non si realizza mai, la perfezione non essendo di questo mondo», automaticamente, come si è già ampiamente sperimentato a seguito della Rivoluzione francese e di quella russa, i millenaristi si concedono la licenza di denunciare come «tradite» e incompiute tutte le rivoluzioni. Proprio tutte: sia quelle che sfociano nel totalitarismo e li vedono non al potere, bensì esiliati e — se dissidenti — in carcere; sia quelle che portano a «una trasformazione in un contesto di libertà», dal momento che quella trasformazione non appare mai «abbastanza radicale», sicché la società che da essa vien fuori è sempre da considerarsi «inadeguata rispetto alle promesse dell’utopia». Il discorso vale per tutti i Paesi. Ma l’Italia può vantare dei record per quantità di «rivoluzioni tradite». Qui da noi hanno preso piede le «idee-mito» che siano stati traditi il Risorgimento, la Destra storica e poi la Sinistra, l’Italia liberale, ma anche il fascismo, la Resistenza, la Chiesa cattolica, sia quella tradizionale che quella progressista, il Sessantotto e una serie infinita di «rivoluzioni minori». Idee-mito che hanno incessantemente alimentato i radicalismi di destra, di sinistra (e talvolta anche di centro). I rivoluzionari italiani, di fedi e in stagioni diverse, «interpretano la nostra storia come un susseguirsi di rivoluzioni tradite o incompiute e attribuiscono a sé stessi il compito di completarle». In questa visione, in cui «tutti i tradimenti strettamente si legano», è ben presente, secondo Buchignani, anche «un elemento strumentale che induce a piegare l’esegesi storica alle esigenze della strategia politica». Responsabile di tutti questi tradimenti — come hanno individuato pezzo per pezzo, ognuno a modo suo, Galli della Loggia, Giovanni Sabbatucci, Roberto Pertici, Luciano Cafagna, Giovanni Belardelli, Massimo Salvadori, Luciano Pellicani, Domenico Settembrini, Emilio Gentile, tutti autori verso i quali Buchignani dichiara il proprio debito — sarebbe stato nei secoli «un moderatismo borghese, utilitaristico, antipopolare, governato dall’interesse ed estraneo agli ideali»: di volta in volta «cavouriano e sabaudo, fascista, democristiano, infine, secondo i sessantottini, comunista» (in ragione della scelta togliattiana della rinuncia all’insurrezione armata nel periodo resistenziale). Tra gli imputati figura anche Enrico Berlinguer, colpevole di non aver colto la presunta occasione rivoluzionaria che si sarebbe presentata a cavallo tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta. Nonché di aver teorizzato il «compromesso storico» con la Dc. Cioè con il diavolo. Da dove viene questo bizzarro apparato ideologico? In principio — almeno per quel che riguarda il Novecento — fu Alfredo Oriani, con i suoi libri La lotta politica in Italia (1892) e La rivolta ideale (1908), successivamente «adottati» dal fascismo (tant’è che verranno ripubblicati con le prefazioni di Giovanni Gentile e di Benito Mussolini). Oriani riproponeva in chiave organica le critiche di Giuseppe Mazzini al modo non rivoluzionario con cui era stata fatta l’Italia. L’influenza di Oriani sui giovani dei primi due decenni del Novecento fu decisiva: lo apprezzarono Giuseppe Prezzolini, Enrico Corradini, Gaetano Salvemini, Filippo Tommaso Marinetti, Giovanni Papini e Ardengo Soffici. Tutti nemici di Giovanni Giolitti e del Partito socialista egemonizzato, all’epoca, da quello che per loro era uno spregevole spirito riformistico-borghese. Nei mesi che precedettero l’ingresso dell’Italia nella Prima guerra mondiale, i seguaci di Oriani furono tutti interventisti. E nell’interventismo, ha scritto Nicola Matteucci, «sia in quello di destra e cioè nazionalista, sia in quello di sinistra, cattolico-popolare, democratico e socialista mussoliniano, si coagulava la prima grande rivolta populista contro le istituzioni liberali, quali si erano venute formando e consolidando dal 1871 al 1915». Ma ancor maggiore fu l’influenza di Oriani sulle generazioni successive. Oltre a Mussolini e Gentile, da Camillo Pellizzi a Giuseppe Bottai, a Berto Ricci, Vasco Pratolini, Romano Bilenchi, Delio Cantimori molti intellettuali tennero, per così dire, sul comodino i testi di Oriani (che era scomparso nel 1909). E quelli che, come Bilenchi e Cantimori, finita la guerra approdarono al comunismo, portarono con sé nella nuova casa i temi connessi al «tradimento» della rivoluzione risorgimentale cari ad Oriani. Del resto anche Antonio Gramsci e prima di lui Piero Gobetti (per il quale, come notò Augusto Del Noce, Mussolini era il rivoluzionario che aveva «tradito» essendosi messo sulla scia di Giolitti) avevano avuto parole di ammirazione nei confronti di Oriani. Ai tempi del fascismo la denuncia della rivoluzione tradita non verrà mai meno. Tenderà, anzi, ad accentuarsi proprio negli anni in cui il regime toccherà l’apice del consenso. Ma già all’inizio… Scrive il 18 aprile 1923, su «L’Impero», Curzio Suckert Malaparte: «La rivoluzione d’ottobre (qui si sta parlando di quella fascista dell’ottobre 1922, ndr) non può e non deve ripetere gli errori del Risorgimento, finito in malo modo nel compromesso antirivoluzionario del Settanta, che preparò il ritorno al potere attraverso il liberalismo, la democrazia, il socialismo, di quegli elementi borbonici, granducali, austriacanti, papalini che avevano sempre combattuto e bestemmiato l’idea e gli eroi del Risorgimento. È necessario che il Fascismo prosegua senza esitazioni il suo fatale cammino rivoluzionario». Nove anni dopo (1932) Berto Ricci, in occasione dei cinquant’anni dalla morte di Giuseppe Garibaldi e dei dieci dalla marcia su Roma, insisterà con queste parole: «I rimasuglioli d’un’Italia nata in falde e cilindro alla quale tutti i distintivi del mondo non daranno mai un’anima nuova e tanto meno un’anima fascista, farebbero bene a non commemorare Garibaldi. C’è un’incompatibilità essenziale tra il liberalismo sia di destra che di sinistra (alle storiche benemerenze della storicissima Destra noi crediamo poco) e il Dittatore; tra i moderati e il Dittatore; tra la borghesia laica e codina e il Dittatore. Oggi come cinquanta, come cento anni fa Egli appartiene al popolo e ai giovani». È a questa tipologia di ragazzi che in seguito, nella seconda metà degli anni Trenta, si rivolgeranno i comunisti definendoli «fratelli in camicia nera». Verrà poi il momento della guerra civile. Tra l’autunno del 1943 e il 25 aprile 1945, scrive Buchignani, «sovversivi neri di Salò e sovversivi della Resistenza si contendono con le armi in pugno il monopolio del Risorgimento, che entrambi giudicano tradito dalla borghesia e dalla monarchia sabauda». Entrambi reclamano per sé «il monopolio del Risorgimento e della patria pur essendo tutti ugualmente repubblicani e rivoluzionari, inneggiando a Mazzini, Garibaldi, Pisacane, ai fratelli Bandiera: le stesse icone per due patrie contrapposte di cui ciascun contendente legittima la propria e rigetta quella del nemico». Gran parte dei fascisti e degli antifascisti sono convinti di combattere una guerra rivoluzionaria. E, forse anche perché è più attento a questi aspetti, che, nel dopoguerra, Palmiro Togliatti, servendosi della rivista «Il Pensiero nazionale» di Stanis Ruinas, promuove un’offensiva sotterranea per reclutare ex appartenenti alla Repubblica di Salò. Una manovra di cui si sono già occupati lo stesso Paolo Buchignani in Fascisti rossi. Da Salò al Pci, la storia sconosciuta di una migrazione politica 1943-1953 (Mondadori) e Antonio Carioti in Gli orfani di Salò. Il «Sessantotto nero» dei giovani neofascisti nel dopoguerra 1945-1951 nonché I ragazzi della Fiamma. I giovani neofascisti e il progetto della Grande Destra 1952-1958, entrambi editi da Mursia. Anche qui rispunta l’accusa di tradimento di una rivoluzione. Il Pci — per sottrarre giovani al partito neofascista di Arturo Michelini e di Giorgio Almirante — punta il dito contro il Movimento sociale italiano per «l’alleanza con i monarchici», per «essersi fatto strumento della reazione capitalistica e della polizia di Mario Scelba», per aver accettato il Patto atlantico. Una politica, accusano i comunisti, «in netto contrasto con le aspirazioni e gli obiettivi della sinistra di Salò»; aspirazioni e obiettivi che avrebbero potuto viceversa «trovare attuazione nelle battaglie del Pci, autentico partito rivoluzionario, fautore del socialismo, ma anche difensore della patria contro l’ingerenza americana». L’allora segretario della Federazione giovanile comunista, Enrico Berlinguer in un discorso al cinema romano Splendore il 10 dicembre 1950 afferma: «Noi e voi (giovani ex fascisti, ndr) siamo più vicini di quel che sembra. Questo qualcosa in comune che ci unisce vi è stato anche quando si combatteva al Nord … I giovani neofascisti, i quali sognano una grande Italia, sanno che tutte le vecchie classi dirigenti tradiscono ancora la gioventù». Tradimenti, sempre tradimenti. Ancora. Nel 1947 la Dc di Alcide De Gasperi rompe con il Pci e con il Psi. Per il gruppo dirigente comunista il leader democristiano è colpevole di aver «tradito» lo spirito della lotta di Liberazione e di essere così andato a un incontro «con i relitti di Salò che così vedono legittimato il loro rientro sulla scena politica». Sono parole che l’allora vicesegretario del Pci, Luigi Longo, ribadirà addirittura trent’anni dopo, nel 1975, in un libro, Chi ha tradito la Resistenza (Editori Riuniti), nel quale riproporrà il giudizio secondo cui l’estromissione dei comunisti dal governo nel 1947 equivaleva «ad un vero e proprio colpo di Stato». Nel dopoguerra di tradimento della lotta antifascista parleranno anche Lelio Basso, Gaetano Salvemini, Pietro Nenni, Ferruccio Parri e Piero Calamandrei. Il futuro presidente della Repubblica Sandro Pertini dirà — ancora nel 1975 — che al cospetto di una società ingiusta che non somigliava «alle nostre speranze» si poteva affermare che la Resistenza era stata «in parte tradita». Questo modo di pensare sarà particolarmente diffuso nella generazione del Sessantotto e ancor più in quella della lotta armata. Per qualche considerazione di maggiore equilibrio si dovrà attendere il discorso tenuto a Genova il 25 aprile 2008 da Giorgio Napolitano, quando l’allora presidente della Repubblica denuncerà — proprio «in difesa del mito della Resistenza» — l’esistenza nella sinistra italiana di «un altro mito», a suo avviso, «privo di fondamento storico reale e usato in modo fuorviante e nefasto»: quello «della cosiddetta “Resistenza tradita”, che è servito ad avvalorare posizioni ideologiche e strategie pseudo-rivoluzionarie di rifiuto e rottura dell’ordine democratico-costituzionale scaturito proprio dai valori e dall’impulso della Resistenza». Parole di grande saggezza, pronunciate però in modo adeguatamente solenne solo sessantatré anni dopo la fine della lotta di Liberazione.

Fenomenologia della negazione, scrive Salvo Vitale il 2 maggio 2016 su "Telejato" nelle fasi dello sandalo che ha investito Pino Maniaci. QUANDO IL GIUDIZIO CAMBIA, L’AMORE DIVENTA ODIO, L’AMICIZIA INIMICIZIA, IL RISPETTO DISPREZZO. Se si vuole criticare qualcosa, si trova sempre qualche motivo per farlo. Anche a costo di fare forzature, di stravolgere un’affermazione per farla diventare il contrario di quella che è. In tal caso non c’è più il dato, l’elemento del contendere, ma il significato, la lettura soggettiva del dato. Il problema, tuttavia, non è nella critica, che è un effetto, ma nella causa che la determina. Perché si vuole criticare qualcosa? Qual è la molla che fa scattare la critica? Il movente non è molto distante, nel rapporto interpersonale, dalle situazioni con cui si sviluppa la crisi della biunivocità, sino ad arrivare alla sua totale negazione, che comporta anche la negazione della persona di riferimento. Esempio classico è quello di due persone che hanno fatto coppia e, a un certo momento si lasciano. E’ più o meno come vedere attraverso un occhiale colorato, o anche di vista. Cambiata la chiave di lettura, ogni cosa assume dimensioni diverse e impensabili sino a poco tempo prima: tutto quello che sembrava bello, che mi faceva ridere, che destava ammirazione, diventa sciatto, banale, insipido, distante, sgradevole, antipatico. Ogni cosa, ogni gesto, ogni parola, diventa un tassello che alimenta la distanza, minuto dopo minuto, giorno dopo giorno, sino ad arrivare alla soppressione logica e psicologica dell’interlocutore, il quale, nella sua condizione di vittima sacrificale ha come possibilità o il silenzio, il taglio del rapporto dialogico, la costruzione di una parete divisoria, un atteggiamento difensivo, se non si vuole inasprire la distanza, o, in rapporto al proprio livello di aggressività, la risposta fredda, colpo su colpo, il pingpong, il mettersi alla pari senza rinunciare all’analisi spietata e alla denuncia dei passaggi sotterranei che determinano le critiche e le manipolazioni degli argomenti.  In quest’ultimo caso, poiché nessuno ammette che si tratta di errori di valutazioni o di chiavi di lettura emotivamente falsate, siamo già sull’orlo della rottura, con il suo micidiale carico di risentimenti, amarezze, incarognimenti, contrapposizioni, mugugni, preparazione mentale della frase, della risposta da tirar fuori al momento giusto, con attenta scelta delle parole, ognuna con la sua spietata forza di un’arma da taglio. Una vera e propria condizione patologica. Un cancro che rode, che alimenta metastasi, che distrugge la positività, la presenza del sorriso, della gioia, dell’intimità, della comprensione. Spesso un incontro, un bacio, un abbraccio, possono dare l’illusione che tutto sia stato superato, ma, se c’è il malessere, questo non tarderà a ripresentarsi. Se non si è in grado di invertire questa fase, e, per farlo, ci vuole amore e intelligenza, se si vuole evitare l’incancrenirsi di una situazione che genera devastazioni interiori, l’unica e definitiva soluzione è il bisturi, cosa che è sempre drammatica specie quando in mezzo ci sono situazioni familiari e vittime innocenti. Il giudizio non cambia solo per le persone, ma anche per le cose, per le ideologie, per la valutazione di opere d’arte e di letteratura. Tipico, nei giovani che diventano adulti, il superamento della condizione di ribellismo giovanile, che li ha portati ad occupare le scuole, a partecipare ai cortei, a frequentare gente con idee politiche “estremiste”: di colpo sembra tutto diventare come qualcosa che non appartiene, che ha occasionalmente attraversato la strada ed è andata via, i “peccati di gioventù”, dopo che ci si mette la testa a posto. Anche nella mutata valutazione di ideologie, prima fra tutti il “comunismo”, ma anche il “cristianesimo”,  non ci si fa scrupolo di accumulare tutto in un unico fascio dove mettere delitti, fanatismi, intolleranze, applicazioni e interpretazioni errate, cose ben lontane dalla concreta “purezza”, dal fascino dell’idea originaria, cosicchè la “dottrina dell’amore” diventa dottrina dell’odio, il principio dell’eguaglianza diventa ingiustizia perché non rispetta le competenze e le differenze, il panteismo diventa materialismo, la Shoah non è mai esistita o è stata gonfiata dalla propaganda antinazista, Peppino Impastato era un “lagnusu”, non voleva lavorare,  era “lordu,” e non aveva rispetto neanche per la sua famiglia che gli dava il pane, Garibaldi era uno che conquistò il Regno delle due Sicilie corrompendo i generali borbonici con i soldi dei Savoia e degli Inglesi, Leopardi era un poveraccio che “faceva puzza” , che non ebbe mai alcun rapporto con le donne e  quindi la sua poesia è solo espressione della sua insoddisfazione, Nietzsche era uno che è impazzito perché si ostinava a combattere il Cristianesimo e voleva sapere cose che all’uomo sono precluse,  ecc. Attenzione, possono esserci, nell’enunciazione di questi giudizi, elementi di partenza, circostanze che possono essere vere e giustificare la formazione del pregiudizio che rende il particolare come la chiave di lettura dell’universale: se tu fumi una sigaretta ogni tanto, o se qualche volta ti sei fatto una canna, sei un fumatore e un drogato; se hai avuto un incidente in macchina sei uno che non sa guidare, se ogni tanto ti concedi un bicchiere di vino sei un ubriacone, ecc. Nella logica di chi “forza” i margini del giudizio c’è anche il ricorso alla diffamazione, alla “macchina del fango”, all’invenzione o alla distorsione malevola di episodi, momenti, frasi, occasioni che divengono prove della dimostrazione della tesi di partenza. Una delle tecniche più usate è la proprietà transitiva, con il suo carico di deformazioni : se x è un cattivo soggetto, tu che sei amico di x sei anche un cattivo soggetto, se hai un figlio che si droga, la colpa è tua che non lo sorvegli o non hai saputo educarlo, se hai subito un attentato la colpa è anche tua, che ne hai dato l’occasione o la motivazione, se Crocetta, del PD,  è al governo siciliano assieme all’UDC di Cuffaro e se in questo partito ci sono molti pregiudicati e mafiosi, anche Crocetta è un mafioso o amico dei mafiosi, ma lo è anche il suo partito, il PD e così via. Dalla continuità alla transitività, dal particolare all’universale, si collegano fatti, si trovano relazioni, coincidenze, deduzioni, si elaborano teoremi incredibili. La “nullità” della persona negata è il presupposto che ne rende inutile, inconsistente, qualsiasi gesto apprezzabile, qualsiasi scelta coraggiosa, qualsiasi iniziativa, qualsiasi cosa scritta, anche se ha ricevuto il plauso degli altri. E così si conclude che gli altri non capiscono o non hanno capito, o si lasciano raggirare dalla perversa capacità di persuasione del soggetto negato. Anche il giudizio, il parere di persone eminenti, di studiosi, di esperti, diventa irrilevante nei confronti del pregiudizio. Si trova sempre qualche motivazione: non conoscono bene i fatti, sono estranei all’ambiente ecc. I “sapientoni” che invece sputano sentenze all’interno del loro codice ideologico, dei loro fanatismi, della loro intolleranza verso qualsiasi forma di diversità, pretendono di essere i soli depositari della verità, i soli e veri giudici dei fatti e delle persone. Molte di queste tecniche sono tipiche della subcultura mafiosa e sono funzionali alla conquista o al mantenimento di una condizione di privilegio e di controllo del territorio, costruita attraverso l’uso di qualsiasi forma di violenza, fisica o psicologica, attraverso il ricorso alla circolazione di false e diffamanti notizie studiate per creare l’isolamento attorno al soggetto sgradito, pronunciarne a priori la condanna e bandirlo o metterlo ai margini del contesto sociale in cui vive. La condanna, in molti casi, coinvolge anche amici e parenti, per il solito uso scorretto della proprietà della transitività. Lo strumento più facile per evitare la diffusione di possibili “virus” è l’etichettatura, l’affibbiare a una persona o a un gruppo un preciso delimitato spazio d’azione in cui muoversi, il giudicare secondo una inappellabile definizione: “Sono quelli di…, quelli che…”. La difficile sopravvivenza delle minoranze, siano esse politiche che professionali o religiose, (“quelli di Rifondazione Comunista…”, “i testimoni di Geova….”, “i grillini”, “i musulmani”, “persino i “Lions… “, tanto per mettere insieme cose di opposta estrazione), è stritolata dall’indicazione dell’omogeneità, dell’assimilazione al tutto, dall’identificazione nell’ideologia di massa, nel personaggio di moda, nel leader che esibisce i suoi deliri di onnipotenza ad alta voce, che affascina e del quale, spesso senza motivazioni o interessi specifici, certi soggetti diventano alfieri, esponenti, portavoci, difensori d’ufficio, soldati disposti a combattere, fanatici fans, elettori, pecore al seguito. Ed è inutile gridare che è necessario essere se stessi, riappropriarsi della propria identità, perché l’identità è ormai quella acquisita dal contesto sociale che te l’ha trasmessa e tutte le altre sono sbagliate. Al di là del rapporto d’amore, con tutti i suoi coinvolgimenti emotivi, rimane quello dialogico secondo l’indicazione di Epicuro: “di tutte le cose che la saggezza fornisce per rendere la vita interamente felice, quella più grande in assoluto è il possesso dell’amicizia”. Durante la rivoluzione francese la chiamavano “fraternitè”. Tutto questo vale anche se variano le scelte ideologiche: in tal caso, oltre che a rinnegare le idee in cui si è creduto, si rinnega anche se stessi (gli “errori giovanili”) e ci si circonda di una patina di autocompiacimento nel ritenere incontestabile e irreversibile il giudizio che cambia. In verità questo non vuol dire ritenersi capaci di “avere preso coscienza”, di avere avuto la forza e la capacità di rimettere in discussione un passato fatto di uomini e idee in cui non ci si riconosce più. Per non parlare delle forzature logiche, dei falsi teoremi che vengono adottati e che stanno dietro la necessità, se non la pretesa, di giustificare la scelta. Quando prima o poi si realizza il “taglio” non è necessario trasformarlo in “omicidio”, passare attraverso la soppressione dell’amico diventato nemico: basta sforzarsi di superare i mal di pancia, la delusione, l’amarezza e riconoscere che non ci sono più le condizioni per procedere “insieme” sulla stessa strada. Il che non vuol dire che la strada appartiene a una delle parti in causa. La strada è di tutti. Quando avremo imparato a parlarci come compagni di uno stesso itinerario, il cui traguardo è il raggiungimento di una comune serenità e la disponibilità al confronto e alla costruzione di infiniti saperi, di infinite ideologie, di molteplici tolleranze e di comuni convivenze reciprocamente costruttive, avremo realizzato i vari e affascinanti modi di essere di una odiata, vituperata, temuta, osannata, offesa, oppressa e soppressa parola, il comunismo, dove ci si riconosce come “compagni”.

L’IPOCRISIA DELLA RICONOSCENZA.

Quell'ipocrisia "corretta" che schiaffeggia la riconoscenza. Come appari sullo schermo, che tu perda o vinca e qualsiasi imbecillità tu dica, vieni applaudito, scrive Francesco Alberoni, Domenica 22/01/2017 su "Il Giornale". Ricordo, tanti anni fa, di essere rimasto molto colpito quando in uno dei primi quiz televisivi mi sono accorto che il pubblico applaudiva non solo il vincitore, ma anche il perdente. Adesso è diventata la regola. Come appari sullo schermo, che tu perda o vinca e qualsiasi imbecillità tu dica, vieni applaudito. A scuola si cerca di non umiliare il ragazzo con un cattivo voto, con un cattivo giudizio. All'università non viene più bocciato nessuno. Un tempo a teatro, soprattutto all'opera, il pubblico fischiava il tenore o il soprano che cantava male. Oggi tutti i cantanti, tutti i musicisti, tutti gli attori, tutti i registi sono presentati come sublimi maestri. A meno che non vengano classificati come nemici politici, nel qual caso tutto quello che fanno è sbagliato. Noi non sappiamo più valutare con la nostra testa, essere obbiettivi, imparziali, ma ci adeguiamo al modo di pensare politicamente dominante a quello che chiamano «politicamente corretto» e che ci hanno ficcato a poco a poco nella mente gli ideologi dei partiti e i maestri del marketing delle multinazionali della comunicazione. Chi si trova fuori da questo circolo mediatico e culturale, chi ha idee diverse non viene chiamato a scrivere sui giornali, a parlare nei dibattiti televisivi e quando espone il suo pensiero in privato lo insultano. Anni fa se si accorgevano che qualcuno non parlava male di Berlusconi lo trattavano come un paria. Oggi succede a chi lo fa con Trump. Poi le cose cambiano e il gregge segue le nuove direttive. Nella vita privata quotidiana, dove non agiscono più queste correnti collettive, noi dobbiamo usare la nostra testa, ma siamo disabituati a farlo. Così non diamo più i meriti dovuti a chi ci ha aiutato col suo sapere, con la sua intelligenza, con la sua generosità. Oggi i bambini non ringraziano i genitori, non ringraziano gli insegnanti ed anche i genitori non li ringraziano, ma vanno solo a lamentarsi con loro. E lo stesso vale per il nostro portiere, per chi ci aiuta nei lavori domestici, per l'amico che viene a trovarci. Il risultato è che siamo ingiusti verso le persone a cui dovremmo invece rispetto e riconoscenza.

FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.

“Ingrati. La sindrome rancorosa del beneficiato”. Libro di Maria Rita Parsi, Mondadori 2011. Cos'è la "sindrome rancorosa del beneficato"? Una forma di ingratitudine? Ben di più. L'eccellenza dell'ingratitudine. Comune, per altro, ai più. Senza che i molti ingrati "beneficati" abbiano la capacità, la forza, la decisionalità interiore, il coraggio e, perfino, l'onestà intellettuale ed etica di prenderne atto. La "sindrome rancorosa del beneficato" è, allora, quel sordo, ingiustificato rancore (il più delle volte covato inconsapevolmente; altre volte, invece, cosciente) che coglie come un’autentica malattia chi ha ricevuto un beneficio, poiché tale condizione lo pone in evidente "debito di riconoscenza" nei confronti del suo benefattore. Un beneficio che egli "dovrebbe" spontaneamente riconoscere ma che non riesce, fino in fondo, ad accettare di aver ricevuto. Al punto di arrivare, perfino, a dimenticarlo o a negarlo o a sminuirlo o, addirittura, a trasformarlo in un peso dal quale liberarsi e a trasformare il benefattore stesso in una persona da dimenticare se non, addirittura, da penalizzare e calunniare. Questo nuovo libro di Maria Rita Parsi parla dell'ingratitudine, quella mancanza di riconoscenza che ognuno di noi ha incontrato almeno una volta nella vita. Attraverso una serie di storie esemplari, l'analisi delle tipologie di benefattori e beneficati, il decalogo del buon benefattore e del beneficato riconoscente e un identikit interattivo, l'autrice insegna a riconoscere l'ingratitudine e a difendersene, arginare i danni e usarla addirittura per rafforzarsi.

La culla dell'ingratitudine. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano, scrive Francesco Alberoni su “Il Giornale”. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano. Pensate a due innamorati. Ciascuno fa tutto quello che può per l’amato ma nessuno sente un debito di riconoscenza. Chi si ama non tiene una contabilità del dare e dell’avere: i conti sono sempre pari. Solo quando l’amore finisce riappare la contabilità e ciascuno scopre di aver dato più di quanto non abbia ricevuto. Però anche fra innamorati ci sono dei momenti in cui il tuo amato ti dona qualcosa di straordinario, qualcosa che non ti saresti mai aspettato ed allora ti viene voglia di dirgli un «grazie» che è anche riconoscenza. Insomma la riconoscenza nasce dall’inatteso, da un «di più». Perciò la proviamo spesso verso persone con cui non abbiamo nessun rapporto ma che ci fanno del bene spontaneamente. Per esempio a chi si getta in acqua per salvarci rischiando la vita, a chi ci soccorre in un incidente, a chi ci cura quando siamo ammalati. Ma anche a chi ci aiuta a scoprire e a mettere a frutto i nostri talenti nel campo della scienza, dell’arte, della professione per cui, quando siamo arrivati, gli siamo debitori. La riconoscenza è perciò nello stesso tempo un grazie e il riconoscimento dell'eccellenza morale della persona che ci ha aiutato. Quando proviamo questo sentimento, di solito pensiamo che durerà tutta la vita, invece spesso ce ne dimentichiamo. E se quella persona ci ha fatto veramente del bene allora la nostra è ingratitudine. Ma la chiamerei una ingratitudine leggera, perdonabile. Perché purtroppo c’è anche una ingratitudine cattiva, malvagia. Vi sono delle persone che, dopo essere state veramente beneficiate, anziché essere riconoscenti, provano del rancore, dell’odio verso i loro benefattori. Ci sono allievi che diventano i più feroci critici dei loro maestri e dirigenti che, arrivati al potere diffamano proprio chi li ha promossi. Da dove nasce questa ingratitudine cattiva? Dal desiderio sfrenato di eccellere. Costoro pretendono che il loro successo sia esclusivamente merito della propria bravura e si vergognano ad ammettere di essere stati aiutati. Così negano l’evidenza, aggrediscono il loro benefattore. E quanti sono! State attenti: quando sentite qualcuno diffamare qualcun altro, spesso si tratta di invidia o di ingratitudine malvagia. Guardatevi da questo tipo di persone.

QUALCHE PROVERBIO AFORISMO

Amico beneficato, nemico dichiarato.

Avuta la grazia, gabbato lo santo.

Bene per male è carità, male per bene è crudeltà.

Chi non dà a Cristo, dà al fisco.

Chi rende male per bene, non vedrà mai partire da casa sua la sciagura.

Comun servizio ingratitudine rende.

Dispicca l’impiccato, impiccherà poi te.

Fate del bene al villano, dirà che gli fate del male.

Il cane che ho nutrito è quel che mi morde.

Il cuor cattivo rende ingratitudine per beneficio.

Il mondo ricompensa come il caprone che dà cornate al suo padrone.

L’ingratitudine converte in ghiaccio il caldo sangue.

L’ingratitudine è la mano sinistra dell’egoismo.

L’ingratitudine è un’amara radice da cui crescono amari frutti.

L’ingratitudine nuoce anche a chi non è reo.

L’ingratitudine taglia i nervi al beneficio.

Maledetto il ventre che del pan che mangia non si ricorda niente.

Non c’è cosa più triste sulla terra dell’uomo ingrato.

Non far mai bene, non avrai mai male.

Nutri il corvo e ti caverà gli occhi.

Nutri la serpe in seno, ti renderà veleno.

Quando è finito il raccolto dei datteri, ciascuno trova da ridire alla palma.

Render nuovi benefici all’ingratitudine è la virtù di Dio e dei veri uomini grandi.

Tu scherzi col tuo gatto e l’accarezzi, ma so ben io qual fine avran quei vezzi

Val più un piacere da farsi che cento di quelli fatti.

In amore, chi più riceve, ne è seccato: egli prova la noia e l’ingratitudine di tutti i ricchi.

Philippe Gerfaut

L’ingratitudine è sempre una forma di debolezza. Non ho mai visto che uomini eccellenti fossero ingrati.

Johann Wolfgang Goethe, Massime e riflessioni, 1833 (postumo)

Spesso l’ingratitudine è del tutto sproporzionata al beneficio ricevuto.

Karl Kraus, Di notte, 1918

Ci sono assai meno ingrati di quanto si creda, perché ci sono assai meno generosi di quanto si pensi.

Charles de Saint-Evremond, Sugli ingrati, XVII sec.

Il cuore dell’uomo ingrato somiglia alle botti delle Danaidi; per quanto bene tu vi possa versare dentro, rimane sempre vuoto.

Luciano di Samosata, Scritti, II sec.

Un solo ingrato nuoce a tutti gli infelici.

Publilio Siro, Sentenze, I sec. a.c.

Quando di un uomo hai detto che è un ingrato, hai detto tutto il peggio che puoi dire di lui.

Fenomenologia rancorosa dell'ingratitudine. La rabbia dell'ignorare il beneficio ricevuto. Le relazioni d'aiuto contraddistinguono i diversi momenti del ciclo vitale di una persona e ne favoriscono l'autonomia e l'indipendenza. Esiste tuttavia la possibilità che nella sottile dinamica di dipendenza/indipendenza, caratterizzante questo tipo di rapporto, alla gratitudine per un beneficio ricevuto si sostituisca un sentimento d'ingratitudine, di rancore e di rabbia verso il "benefattore". Questo lavoro di Andrea Brundo prende in esame i fenomeni connessi alle relazioni d'aiuto e i processi collegati alla costruzione della personalità nel corso dell'età evolutiva (a partire dall'iniziale rapporto diadico madre-figlio). In base a questa ipotesi, chi prova rancore non ha avuto la possibilità di sperimentare, aggregare ed elaborare contenuti affettivi significativi nelle prime fasi della vita. Ignora, quindi, l'esistenza di autentiche relazioni d'affetto. È incapace di viverle, proprio per la mancanza di informazioni e per la carenza dei relativi schemi cognitivi. Il "rancoroso", pur potendo ammettere l'aiuto ricevuto, non è in grado di essere riconoscente perché ignora i contenuti affettivi che sono dietro la relazione di aiuto. Non potendoli riconoscere in se stesso non li può trovare neanche negli altri. L'incapacità di provare gratitudine è sostenuta da una generale difficoltà a condividere sentimenti e contenuti psichici. Nelle relazioni che instaura, la condivisione non è mediata dalla sfera affettiva, ma dalle prevalenti esigenze dell'io. Chi manca delle informazioni atte a soddisfare le proprie necessità può ricorrere all'aiuto dell'altro che le possiede. Ciò comporta, sul piano relazionale, il riconoscimento dell’autorevolezza e del relativo "potere" di chi dispone le conoscenze. Nel momento in cui si deve predisporre ad accettare le informazioni, il beneficiato, con prevalente modalità narcisistica va incontro ad una serie di difficoltà legate a:

non sapere;

essere in una posizione subordinata di "potere";

fidarsi e considerare giusta l'informazione ricevuta;

disporsi a ridefinire i propri schemi cognitivi e stili comportamentali;

vivere il disagio provocato dal contenuto affettivo associato all'informazione-aiuto.

Nel caso in cui le informazioni risultino troppo complesse rispetto alla rappresentazione della realtà del soggetto, lo sforzo per elaborarle e integrarle nei propri schemi mentali è eccessivo. A questo punto tale soggetto preferisce ricorrere a una modalità più semplice, quale è quella antagonista, e si mette contro la persona che lo sta aiutandolo. E ancora. Quando il divario tra l'immagine di sé (in termini di sistema di credenze, schemi cognitivi, stili comportamentali, ecc.) e le implicazioni di mutamento insite nelle informazioni-aiuto si rivela insostenibile, il beneficiato non può accettare di cambiare e il peso di questa difficoltà viene proiettato sul beneficiante. L'informazione donata e non elaborata rimane a livello dell'io, ristagna e diventa un qualcosa di stantio, di "rancido", di inespresso che risulta insopportabile. Un qualcosa che alimenta un incessante rimuginio, sostenuto anche dalla vergogna e dal senso di colpa. Nasce l'esigenza di eliminare il fastidio e il senso di oppressione, esigenza che conduce all'odio verso la causa (il beneficiante) di tanto "dolore". Si instaura così un circolo vizioso nel pensiero a cui solo gli sfoghi rabbiosi possono dare un minimo, seppur temporaneo, sollievo. Gli eccessi di rabbia costituiscono l'unica soluzione per tentare una comunicazione (impossibile) attraverso la naturale via dell'affettività. Pertanto, il rancore trova un’auto giustificazione in quanto permette di manifestare al mondo e alla persona beneficante contenuti mentali che non trovano altre modalità espressive.

ITALIA. IL PAESE DEI CAFONI.

Umberto Eco: "Così il darci del Tu rischia di impoverire la nostra memoria e il nostro apprendimento". Da Dante a Manzoni, per secoli abbiamo usato il "Lei" e il "Voi". Oggi non più: una finta familiarità che rischia di trasformarsi in insulto, scrive Umberto Eco il 14 settembre 2015 su “La Repubblica”. La lingua italiana ha sempre usato il Tu, il Lei (al plurale Loro) e il Voi. Voi sapete che la lingua inglese (reso arcaico il poetico e biblico Thou) usa solo il You. Però contrariamente a quel che si pensa lo You serve come equivalente del Tu o del Voi a seconda che si chiami qualcuno con il nome proprio, per cui “You John” equivale a “Tu, John” (e si dice che gli interlocutori sono in “first name terms”), oppure il You è seguito da Mister o Madame o titolo equivalente, per cui “You Mister Smith” significa “Lei, signor Smith”. Il francese non ha Lei bensì solo il Tu e Vous, ma usa il Tu meno di noi, i francesi “vouvoyent” più che non “tutoyent”, e anche persone che sono in rapporti di gran confidenza (persino amanti) possono usare il Vous. L’italiano (e mi attengo alla Grammatica italiana di Luca Serianni, Utet) distingue tra i pronomi personali i pronomi allocutivi reverenziali o di cortesia, che sono Ella o Lei o Voi. Ma la storia di questi pronomi è molto complessa. Nella Roma antica si usava solo il Tu, ma in epoca imperiale appare un Vos che permane per tutto il Medioevo (per esempio quando ci si rivolge a un abate) e nella Divina Commedia appare il Voi quando si vuole esprimere grande rispetto (“Siete voi, qui, ser Brunetto?”). Il Lei si diffonderà solo nel Rinascimento nell’uso cancelleresco e sotto influenza spagnola. Nelle nostre campagne si usava il Voi tra coniugi (“Vui, Pautass”, diceva la moglie al marito) e l’alternanza tra Tu, Lei e Voi è singolare nei Promessi sposi. Si danno del Voi Agnese e Perpetua, Renzo e Lucia, Il Cardinale e l’Innominato, ma in casi di gran rispetto come tra Conte Zio e Padre Provinciale si usa il Lei. Il Tu viene usato tra Renzo e Bortolo o Tonio, vecchi amici. Agnese dà del Tu a Lucia che risponde alla mamma con il Voi. Don Abbondio da del Voi ad Agnese che risponde per rispetto con il Lei. Il dialogo tra Fra Cristoforo e don Rodrigo inizia col Lei, ma quando il frate s’indigna passa al Voi (“la vostra protezione…”) e per contraccolpo Rodrigo passa al Tu, per disprezzo (“come parli, frate?”). Una volta per rispetto, anche in un’aula universitaria o in una conferenza, si usava il plurale Loro (“come Loro m’insegnano…”) ormai desueto e sostituito dal Voi. Usato solo ormai in senso ironico è l’arcaico Lorsignori. Ormai dire “come lorsignori m’insegnano” equivale a suggerire che gli interlocutori siano una massa d’imbecilli. Il regime fascista aveva giudicato il Lei capitalista e plutocratico e aveva imposto il Voi. Il Voi veniva usato nell’esercito, e sembrava più virile e guerresco, ma corrispondeva allo You inglese e al Vous francese, e dunque era pronome tipico dei nemici, mentre il Lei era di origine spagnolesca e dunque franchista. Forse il legislatore fascista poco sapeva di altre lingue e si era arrivati a sostituire il titolo di una rivista femminile, Lei, con Annabella, senza accorgersi che il Lei di quel titolo non era pronome personale di cortesia bensì l’indicazione che la rivista era dedicata alle donne, a lei e non a lui. Bambini e ragazzi si davano del Tu, anche all’università, sino a quando non entravano nel mondo del lavoro. A quel punto Lei a tutti, salvo ai colleghi stretti (ma mio padre ha passato quarant’anni nella stessa azienda e tra colleghi si sono sempre dati del Lei). Per un neolaureato, fresco fresco di toga virile, dare del Lei agli altri era un modo non solo di ottenere il Lei in risposta, ma possibilmente anche il Dottor. Da tempo invece, a un giovanotto sui quarant’anni che entra in un negozio, il commesso o la commessa della stessa età apparente, cominciano a dare del Tu. In città il commesso ti dà evidentemente del Lei se hai i capelli bianchi, e possibilmente la cravatta, ma in campagna è peggio: più inclini ad assumere costumi televisivi senza saperli mediare con una tradizione precedente, in un emporio mi sono visto (io allora quasi ottantenne e con barba bianca) trattato col Tu da una sedicenne col piercing al naso (che non aveva probabilmente mai conosciuto altro pronome personale), la quale è entrata gradatamente in crisi solo quando io ho interagito con espressioni quali “gentile signorina, come Ella mi dice...” De- ve aver creduto che provenissi da Elisa di Rivombrosa , tanto mondo reale e mondo virtuale si erano fusi ai suoi occhi, e ha terminato il rapporto con un “buona giornata” invece di “ciao”, come dicono gli albanesi [...].  Tra parentesi, per ragioni forse di politically correct femminista tra i giovani sono scomparse le signorine. Non si sente più dire con tono piccato “prego, signora, non signorina” e nemmeno “scusi, signorina”. A una giovane si dice “ehi tu!” Durante una trasmissione di Giletti, L’Arena, a Matteo Salvini che le si era rivolto con un “permette signorina?”, Pina Picierno rispondeva: “Signorina lo dica a sua sorella!” [...]. Il problema del Tu generalizzato non ha a che fare con la grammatica ma con la perdita generazionale di ogni memoria storica e i due problemi sono strettamente legati [...]. Vi parlo ora di un fatto che è stato ripreso da Youtube, subito visitato da 800.000 persone, mentre la notizia tracimava su vari quotidiani. La faccenda riguardava L’Eredità, la trasmissione di quiz condotta da Carlo Conti, in cui vengono invitati concorrenti certamente scelti in base alla bella presenza, alla naturale simpatia o ad alcune caratteristiche curiose, ma anche selezionandoli in base a certe competenze nozionistiche, per evitare di mettere in scena individui che se ne stiano pensosamente a bocca aperta di fronte alla sfida se Garibaldi fosse un ciclista, un esploratore, un condottiero o l’inventore dell’acqua calda. Ora, in una serata televisiva Conti aveva proposto a quattro concorrenti il quesito “quando era stato nominato cancelliere Hitler” lasciando la scelta tra 1933, 1948, 1964 e 1979. Dovevano rispondere tale Ilaria, giovanissima e belloccia, Matteo, aitante con cranio rasato e catenina al collo, età presumibile sui trent’anni, Tiziana, giovane donna avvenente, anch’essa apparentemente sulla trentina, e una quarta concorrente di cui mi è sfuggito il nome, occhiali e aria da prima della classe. Siccome dovrebbe essere noto che Hitler muore alla fine della seconda guerra mondiale, la risposta (anche per chi non conosceva per filo e per segno la storia dell’ascesa di Hitler al potere) non poteva essere che 1933, visto che altre date erano troppo tarde. Invece Ilaria risponde 1948, Matteo 1964, Tiziana azzarda 1979, e solo la quarta concorrente è costretta a scegliere il 1933 (ostentando incertezza, non si capisce se per ironia o per stupore). A un quiz successivo viene domandato quando Mussolini riceva Ezra Pound, e la scelta è tra 1933, 1948, 1964, 1979. Nessuno (nemmeno un membro di CasaPound) è obbligato a sapere chi fosse Ezra Pound e io non sapevo in che anno Mussolini l’avesse incontrato, ma era ovvio che — il cadavere di Mussolini essendo stato appeso a Piazzale Loreto nel 1945 — la sola data possibile era 1933 (anche se mi ero stupito per la tempestività con cui il dittatore si teneva al corrente degli sviluppi della poesia anglosassone). Stupore: la bella Ilaria, richiedendo indulgenza con un tenero sorriso, azzardava 1964. Ovvio sbigottimento di Conti e — a dire la verità — di tanti che reagiscono alla notizia di Youtube, ma il problema rimane, ed è che per quei quattro soggetti tra i venti e trent’anni — che non è illecito considerare rappresentativi di una categoria — le quattro date proposte, tutte evidentemente anteriori a quelle della loro nascita, si appiattivano per loro in una sorta di generico passato, e forse sarebbero caduti nella trappola anche se tra le soluzioni ci fosse stato il 1492. Sempre all’ Eredità una concorrente doveva stabilire se una certa persona era attrice o cantante, e aveva risposto sempre bene, ma si era arenata (e sbagliata) su Gina Lollobrigida e Monica Vitti. Troppo remote, come Lida Borelli e Francesca Bertini [...]. Vi chiederete perché lego il problema dell’invadenza del Tu alla memoria e cioè alla conoscenza culturale in generale. Mi spiego. Ho sperimentato con studenti stranieri, anche bravissimi, in visita all’Italia con l’Erasmus, che dopo avere avuto una conversazione nel mio ufficio, nel corso della quale mi chiamavano Professore, poi si accomiatavano dicendo Ciao. Mi è parso giusto spiegargli che da noi si dice Ciao agli amici a cui si dà del Tu, ma a coloro a cui si dà del Lei si dice Buongiorno, Arrivederci e cose del genere. Ne erano rimasti stupiti perché ormai all’estero si dice Ciao così come si dice Cincin ai brindisi. Se è difficile spiegare certe cose a uno studente Erasmus immaginate cosa accade con un extra-comunitario. Essi usano il Tu con tutti, anche quando se la cavano abbastanza con l’italiano senza usare i verbi all’infinito. Nessuno si prende cura degli extracomunitari appena arrivati per insegnare loro a usare correttamente il Tu e il Lei, anche se usando indistintamente il Tu essi si qualificano subito come linguisticamente e culturalmente limitati, impongono a noi di trattarli egualmente con il Tu (difficile dire Ella a un nero che tenta di venderti un parapioggia) evocando il ricordo del terribile “zi badrone”. Ecco come pertanto i pronomi d’allocuzione hanno a che fare con l’apprendimento e la memoria culturale.

Breve storia del tu, del Lei e del voi. Le forme con cui, nella comunicazione quotidiana, ci rivolgiamo a un'altra persona - il tu, il lei, il voi - hanno una storia piuttosto lunga e, da un certo punto in poi, anche abbastanza complicata. Infatti, se il tu è sempre stato usato anche se in contesti diversi, l'uso del lei o del voi è cambiato nel tempo.

Nell'antica Roma, i romani danno del "tu" a tutti: amici, soldati e imperatori.

Soltanto in un secondo tempo, nel I sec. d.C., si comincia a dare del "voi" agli imperatori che parlano con il "noi" (il cosiddetto noi di maestà). 

Nel Medioevo, al tu avuto in eredità dai latini, si aggiungono anche altre forme per rivolgersi agli altri. Dante, nella Divina Commedia, dà del tu a tutti, tranne che alle personalità importanti e a Beatrice, la donna amata, a cui dà del voi.

Un secolo e mezzo più tardi, in pieno Quattrocento, le cose sono diventate più complesse. Si usa il tu con tutti, il voi con le persone importanti che "valgono per due", ma si incomincia anche a usare la forma del lei. Nei messaggi destinati a colleghi d'alto bordo Lorenzo il Magnifico alterna le diverse forme e i suoi sottoposti usano forme miste per cui ritroviamo espressioni come "la tua, la sua o la vostra signoria".

Dal Cinquecento, l'uso del lei formale si diffonde, anche per influenza del modello spagnolo, e nonostante esista ancora il 'voi' tutti danno del lei e del signore a tutti.

Dal Seicento all'Ottocento, il voi e il lei sono praticamente interscambiabili, ma si usa ancora la forma "ella" che è usata con persone di particolare riguardo.

Poi, nel Novecento, durante il ventennio fascista, viene proibito il lei che è considerato un uso di derivazione straniera e, forse, poco 'maschile', in contrasto con la tradizione latina. In questo periodo, quindi, nelle scuole, negli uffici pubblici e nelle cerimonie ufficiali, l'uso del voi è obbligatorio.

Dal secondo dopoguerra in poi, finita l'epoca dei saluti romani di stile fascista, l'uso del voi è continuato solo in pochi campi specifici, come in qualche doppiaggio cinematografico, in alcune storie a fumetti, nella corrispondenza commerciale e in molti dialetti. In generale, oggi ci diamo sia del tu che del lei e il voi viene usato soltanto per indicare la forma plurale, cioè per fare riferimento a più di una persona. Rispetto al passato, inoltre, l'uso del tu è molto più esteso come dimostra anche il fatto che si sono attenuate le discriminazioni sociali ed è quasi del tutto scomparso l'uso asimmetrico del tu e del lei. In passato, infatti, un superiore (un dirigente, un alto ufficiale, il padrone di casa) dava normalmente del tu a un subordinato (un dipendente, un militare di grado inferiore, i collaboratori domestici), e riceveva in risposta il lei. Oggi, invece, si usa reciprocamente il lei anche in un rapporto subordinato. Il solo caso di scambio asimmetrico tu/lei rimasto è quello determinato dall'età. Un adulto dà del tu a un ragazzo che gli si rivolge con il lei. In questo caso, però, l'uso di forme diverse non implica un atteggiamento di superiorità da parte dell'adulto: è soltanto un segno di cortesia e di rispetto nei confronti della persona adulta.

Non discriminiamo il "lei". I pronomi femminili “lei” e “le” sono casi atipici: infatti sono gli unici che possono indicare anche un maschio. Pillole di grammatica per salvare la nostra lingua maltrattata. Segnalateci nei commenti gli svarioni che più vi infastidiscono o sui social con l'hashtag #italianoEspresso, scrive Mariangela Galatea Vaglio il 27 marzo 2017 su "L'Espresso". Di solito tutto quanto è femminile viene discriminato nella storia, perché il maschile ingloba anche il femminile, in italiano, ma i pronomi femminili “lei” e “le” sono casi atipici. Infatti “lei/le” sono gli unici femminili che possono indicare anche un maschio. Nelle frasi come Egregio dottor Rossi, Le porgo i miei saluti “Le” indica indubbiamente un uomo, il dottor Rossi, tuttavia è sicuramente un pronome femminile. E al dottor Rossi si dà sicuramente del Lei. Perché? In questo caso, in realtà, “Lei” più che pronome personale è un pronome di cortesia. Indica infatti una maniera cortese ed educata per rivolgersi ad una persona con cui non siamo in confidenza. Il sesso di questa persona è del tutto ininfluente. Che sia un uomo o una donna è sempre “lei”, anche se si trattasse del macho più testosteronico del mondo. La storia dell’uso del “lei” è piuttosto complicata e a tratti oscura. Nell’Italiano del ‘300 il lei non esisteva: quando ci si doveva rivolgere ad una persona di riguardo si usava il “voi”, cosa che ancora accade in quasi tutti i dialetti. Nel ‘600, invece, in quasi tutte le lettere e le relazioni formali il lei deborda: non c’è eccellenza, ministro, ufficiale, funzionario che non voglia essere indicato con il pomposo “lei”, che all’epoca era addirittura un “ella”.

Siccome nel ‘600 l’Italia era dominata dagli Spagnoli, per lungo tempo si è detto che l’uso del “lei” come forma di cortesia fosse dovuto alla loro influenza. L’idea era così radicata che Mussolini, nel ventennio fascista, per ripristinare l’antica virtù italica vietò il “lei” spagnolesco ed imbelle, ordinando a tutti di usare il maschio “tu” o il reverenziale “voi”. Visto come è finito il fascismo, pare che la virtù italica avesse bisogno di qualcosa di più per rinsaldarsi che il divieto di uso di un pronome personale. In ogni caso, il buon Benito aveva sbagliato anche sul “lei”. L’origine non è affatto spagnola. Fin dal ‘400 il “lei” come formula di cortesia per rivolgersi a persone di rispetto e autorità varie è testimoniato nelle lettere ufficiali delle corti italiane. Erano missive diplomatiche che venivano lette nelle stanze del potere, e questo spiega perché invece il popolino continuò allegramente ad usare solo il “tu” o il “voi”. Oggi l’uso del “lei” subisce delle battute di arresto. È sempre più frequente che gli sconosciuti si diano velocemente del tu, e persino chi dovrebbe avere un approccio formale con il cliente, come i commessi e le commesse dei negozi, spesso e volentieri usano immediatamente il “tu”. Il “lei” però presidia felice tutte le occasioni formali e alle volte per questo risulta poco simpatico. Anche se è il protagonista di una delle più fulminanti battute di Totò, che passata al “tu” perderebbe tutta la sua vis comica. Quella che recita: “Lei è un cretino, si informi!”

Eccessivi, "corretti", chiassosi Cafoni, il catalogo è questo. Un manuale (d'autore) di «belle maniere» al contrario, alla ricerca del vero coatto. Così da evitarlo meglio...scrive Luigi Mascheroni, Venerdì 11/11/2016, su "Il Giornale".  La buona educazione, notava Anton Cechov, scrittore impeccabile nella sua redingote e sulle sue pagine, non sta nel non versare la salsa sulla tovaglia. Quello può capitare a tutti. Ma nel far finta di nulla se qualcun altro lo fa. Si chiama eleganza. È il motivo per il quale i veri cafoni non sono tanto i personaggi famosi che si scannano per una ciotola di riso sulla relativa Isola. Quanto le anonime persone che sadicamente li guardano in tv per vedere quanto sono orrendi. E questa è solo l'«Isola dei cafoni». Poi - visto che la cafonaggine non conosce stagioni - ci sono i «cafoni di mare», equamente distribuiti tra «di destra» e «di sinistra», con i primi che giocano urlando a racchettoni, e i secondi che leggono in silenzio i libri da spiaggia di Gramellini, e non si sa cos'è più volgare. I «cafoni di Natale», che spediscono lo stesso messaggino identico a tutta la rubrica. I «cafoni del buon compleanno», che non li senti mai, tranne il giorno degli auguri. I «cafoni del carnevale», che trasformano una giornata come tutte le altre in una buffonata (quando la vita è già di per se una farsa): il bambino si traveste da adulto, e l'adulto da bambino, senza capire chi tra i due è più deficiente. Senza contare che per molti - bambini e adulti - il costume di carnevale è mediamente più elegante della tenuta di ogni giorno, fra tute, scarpe da ginnastica, felpe e cuffie da trogloditi selvaggi. «Tu Cita, lei jeans». Facilissimo da riconoscere e difficilissimo da definire, il cafone è ovunque, e in chiunque ce n'è un riflesso. La differenza è solo nella cornice dello specchio che si sceglie: pacchiana o raffinata. E come si decide cos'è fine e cosa volgare? Leggendo, ad esempio, Il vero cafone. Ciò che non dovremmo fare e facciamo tutti (Mondadori), anti galateo d'autore - o meglio rovescio della medaglia del celebre «Manuale di belle maniere» dal titolo Il vero signore firmato nel 1947 da Giovanni Ansaldo, in arte Willy Farnese - per riconoscere il cafone moderno. Perché se lo stile è qualcosa di eterno, l'inciviltà - come i costumi in generale - cambia col tempo. E tocca adeguarsi a cosa non indossare, come non comportarsi, dove non andare, chi non frequentare, quando non parlare... Silenzio, parlano due signori. Scritto a quattro mani, ognuno col proprio stile, da Vittorio Feltri e Massimiliano Parente - troppo elegante per poter sopportare un'impercettibile mancanza di gusto il primo, alieno dal concetto di misura per potercisi minimamente adeguare il secondo - Il vero cafone riguarda purtroppo tutti noi. Nessuna categoria esclusa. Ecco qua - capitolo dopo capitolo - «I cafonalmente corretti», «I culturalmente cafoni», «I cafoni in bicicletta», «I cafoni con il Suv» (che però alla fine se la passano meglio dei cafoni con la Skoda), «I cafoni social addicted» - ma anche i cafoni che usano la parola addicted -, «I cafoni da buffet», «I cafoni in cravatta» (che si capisce subito che non la portano mai, «e fanno bene, perché non hanno alcun gusto nel portarla, né nell'abbinarla»), «I cafoni scravattati» (i peggiori, perché piuttosto che portare una cravatta allentata è meglio non metterla: «Il nodo è l'anima della cravatta, fa la differenza: se è duro, stretto, incollato al pomo di Adamo è la quintessenza della sciccheria, un tocco inconfondibile di classe; se ha la dimensione di una boule è il distintivo del cafone»). E via zoticando. Esatto opposto dell'eleganza - che non è nient'altro che l'aspetto estetico del senso della misura - la cafonaggine è prima di tutto una mancanza. Di limiti, di equilibrio, di regole. Qualsiasi suffisso accrescitivo è, di per sé, spia di una cafonaggine. Grande, grosso e Verdone. «Ah Enza, ma che te sei lavata co a' nafta??». «No, perché?». «Me pare che c'è passato un peschereccio!». «Ma no è l'olio abbronzante». Sarà per questo che se ne incontrano tanti durante le Ferie d'agosto. Quelle che adora il vero cafone. Di destra e di sinistra. I veri signori, o non fanno ferie o le fanno tutto l'anno. Loro sì che sono liberi. Perché alla fine, il cafone è solo uno che è «costretto». E infatti si dice anche coatto. Costretto dalle mode (si legga il capitolo «Il cafone salutista», ma anche «Il cafone vegano»), dalle abitudini (e sono tante...), dalla società dell'immagine che ti obbliga ad apparire («Il cafone da selfie» per gli anonimi, «Il cafone da talk show» per i vip), dalla ricerca di approvazione sociale («Il cafone con il rotolo dei soldi», «Il cafone vestito a festa», «La cafona da Louis Vuitton»...). Il cafone è costretto ad alzare la voce per farsi ascoltare, a esagerare nei colori per farsi notare, negli atteggiamenti per farsi vedere. Il cafone è chiassoso, esibizionista, prepotente. Il cafone è, semplicemente, chi fa di tutto per essere al centro della scena. Scegliendo il modo peggiore. Non si spiegherebbe altrimenti lo straordinario successo della moda delle mimetiche tra i cafoni. «Se ne vedono sempre più spesso, indossate da gente di ogni età: giubbotti mimetici, pantaloni mimetici, cappelli mimetici. Che, ovviamente, usati in città, producono l'effetto contrario: questi imbecilli spiccano tra la folla, non puoi non vederli». Ecco perché ne siamo circondati.

Terrone, burino e polentone: le parole dell’Italia (dis)unita, scrive il 26 gennaio 2011 Vito Tartamella. Costituzione, tricolore, resistenza? Sì, ma non solo. Tra le parole più rappresentative dei 150 anni d’Italia – le 3 che ho citato hanno vinto un sondaggio lanciato da Repubblica con 100mila partecipanti – non dobbiamo dimenticarne molte altre, decisamente meno nobili. Quelle che esprimono la frammentazione, il campanilismo e la chiusura del nostro Paese. In pratica, la disunità d’Italia. Questo è un aspetto molto radicato, e molto antico del nostro Paese. Ben prima che la Lega Nord facesse leva sul separatismo per cavalcare gli interessi economici dei piccoli imprenditori del settentrione, l’Italia era già avviata su questa strada. Lo dimostra la sua storia politica, fatta di numerosi ducati e città-stato, di schiere di invasori stranieri e di corruzione, e di conseguente diffidenza verso le istituzioni. E lo dimostra un libro, uscito di recente, che passa in rassegna proprio le parole della disgregazione: “Storia linguistica dell’Italia disunita” del linguista Pietro Trifone (Il Mulino, 2010). Il libro offre una rassegna quasi completa (spiegherò poi perché “quasi”) degli spregiativi usati da settentrionali, meridionali e abitanti del centro Italia per designare, con disprezzo, i connazionali provenienti da altre regioni. Mostrando quanto sia antico e articolato il razzismo interno. Non bisogna dimenticare, infatti, che gli spregiativi geografici sono particolarmente odiosi perché sono “giudizi a priori”: svalutano ed emarginano una persona solo perché proveniente da un’altra zona. L’individuo non conta più in quanto tale, con i suoi pregi e i suoi difetti: conta – in senso negativo – solo in quanto portatore di una cultura diversa che non viene approfondita o conosciuta, ma disprezzata e rifiutata in blocco, come ho già avuto modo di spiegare in un altro post. Un pregiudizio figlio della paura: la paura del rivale, del diverso, dell’altro. Dimenticando che, in molti casi, il benessere del nord, che tanto strenuamente difendono i politici settentrionali, è merito dei sacrifici di tanti immigrati del sud, che non sono, evidentemente, tutti ladri, ignoranti o parassiti. Tornando all’analisi linguistica, Trifone ha identificato 32 insulti a sfondo geografico-sociale, che salgono a 35 con le mie integrazioni. Vale la pena passarli in rassegna tutti: in rosso ho segnato gli spregiativi di origine schiettamente geografica, in verde quelli di origine sociale (gli asterischi* contrassegnano le mie aggiunte).

CONTRO IL NORD (11: 6 + 5): genovese (= spilorcio); lumbard (= intollerante, leghista accanito); milanesemente (= pacchiano, ostentato, borioso); sbolognare (da Bologna, dove un tempo si fabbricavano oggetti d’oro falso o di bassa lega: = affibbiare qualcosa di sgradito, sbarazzarsi di qualcuno); venezia (nel calcio, “fare il venezia” significa giocare in modo individualistico, eccedere in preziosismi, passare poco il pallone); baluba (popolo di lingua bantu del Congo: = persona rozza e incolta, soprattutto del nord); buzzurro (= in origine, i montanari svizzeri che venivano in Italia a vendere caldarroste; poi i piemontesi trasferitisi a Roma dopo l’Unità d’Italia = zoticone); bauscia (= sbruffone: la bauscia è la bava); polentone o mangiapolenta (zotico, miserabile, ignorante, inetto; lento e impacciato); montanaro (ignorante); ruscone (sgobbone ignorante).

CONTRO IL CENTRO (8: 6 + 2): chietino (riferimento all’austero ordine dei padri Teatini fondato dal vescovo di Chieti Gian Pietro Caraga; = bigotto, bacchettone: ); ciociaro (dalla ciocia, umile calzatura di cuoio = zoticone); matriciano (da Amatrice, Rieti, patria del sugo alla matriciana; =  rustico, rozzo); norcino (da Norcia, sinonimo di salumiere; = persona rozza, sgarbata, sudicia); pariolino (dai Parioli, quartiere-bene di Roma: = benestante, modaiolo, snob e reazionario); sgurgola (paese in provincia di Frosinone: = cafone, sempliciotto); burino (zoticone), borgataro(idem).

CONTRO IL SUD (16: 8 + 8): bassitalia (dove “basso” non denota solo la geografia, ma anche il censo, la cultura, la considerazione); napoletano (= cerimonioso, enfatico, ciarlatano, esibizionista, truffatore); napoli (= zotico, inferiore); sudico (ricalca la parola “nordico”, accostandolo al plurale di sudicio: sporco, zotico); beduino (nomadi arabi: =  zotico, ignorante); extracomunitario (escluso, ignorante); mau mau (indipendentisti contro il colonialismo inglese in Kenya: = immigrati meridionali ignoranti); zulu (idem); cafone (contadino meridionale); terrone (contadino incrostato di terra, = sporco e ignorante); tamarro (venditore di datteri: = ignorante e rozzo); gabibbo (scaricatore di porto africano, = meridionale in senso più benevolo); mangiasapone (Garibaldi avrebbe portato in Sicilia il sapone, ma fu scambiato per cibo: =  ingorante, zotico), mafioso* (criminale, violento, omertoso, superbo), camorrista* (idem), giargianese* (barbaro e incomprensibile nei modi di parlare =  incolto, ignorante).

Questo elenco stimola varie osservazioni.

1) Quantità. Il sud, tradizionalmente oggetto di razzismo ed emarginazione, vince per numero di insulti, ma non così tanto: gli spregiativi contro i meridionali sono numericamente quasi equivalenti a quelli contro i settentrionali. Segno non solo della reattività dei meridionali, che hanno ricambiato i nordici con la stessa moneta, ma anche della disgregazione interna al nord: tutti contro tutti, in nome dell’egoismo.

2) Qualità. Gli insulti più pesanti sono comunque quelli rivolti ai meridionali: fanno più paura perché, per problemi economici, sono migrati al nord e l’hanno “invaso” con cultura, abitudini e parlate diverse.

3) Dimenticanze. Gli aggettivi “mafioso” e “camorrista” rivolti ai meridionali non erano contenuti nell’elenco di Trifone, eppure è tradizionalmente un insulto rivolto ai meridionali. Anche se oggi la mafia non è più soltanto un fenomeno radicato al sud: anzi, come molti esperti hanno notato, l’Italia di oggi si è abbondantemente “meridionalizzata” (in senso deteriore) con mafie, clientelismi, usura, concezione familistica degli affari e della politica. Checco Zalone in “Che bella giornata”: esorcizza il contrasto nord-sud, e anche il problema dell’immigrazione straniera. Dunque, il problema esiste, ed è proprio per questo che hanno tanto successo i film che esorcizzano queste divisioni, purificandole in un riso liberatorio: da Benvenuti al sud a Che bella giornata, fino a Qualunquemente. La lingua batte dove il dente duole… Sempre a proposito di quantità, con i suoi 35 spegiativi geografici, l’Italia è probabilmente uno dei Paesi con più alta varietà linguistica in questo senso, come già avevo notato in un precedente post su parolacce e dialetti. Anche se le divisioni non mancano anche in altri Paesi. Ecco un primo elenco sommario, compilato grazie ad alcuni amici del blog “parolacce”:

GERMANIA

Ostfriesen = abitante dell’est Frisia = scemo.

Scwaben = abitante della Svevia = tirchio.

[grazie a Roland Jentsch]

FRANCIA

auvergnat = abitante dell’Auvergne = tirchio.

plouc = bretone (in Bretagna molte località iniziano con “plou”) = contadino rozzo e incolto.

parigot = spregiativo per “parigino”.

doryphore = insetto parassita delle patate = spregiativo per indicare gli abitanti di Bordeaux.

[grazie a Bertrand Girin e Frida Morrone]

REGNO UNITO

scot = scozzese = tirchio.

paddy = versione irlandese del nome Patrick, Patrizio, santo patrono d’Irlanda = irlandese stupido.

taffy = versione gallese del nome Dafydd, David, santo patrono del Galles = gallese mascalzone, inaffidabile (c’è anche un’antica filastrocca “Taffy was a Welshman“).

[grazie a Jonathan W.]

SPAGNA

maketo, koreano, pardela, pardillo: termini spregiativi usati dai baschi verso gli altri spagnoli.

cantabròn: spregiativo (giocato su un’assonanza con cabròn, cornuto, stronzo) in riferimento ai nati a Santander.

charnego: spregiativo verso gli spagnoli immigrati in Catalogna e quindi “catalani non purosangue”.

[grazie a Laura Facchini]

BRASILE

Cabeça-chata: soprannome che si dà agli abitanti degli stati del Nordest del Brasile (Ceará, Pernambuco, Paraíba, Alagoas ecc.): significa “testa arrotondata e schiacciata”.

Pau-de-arara  = legno di pappagallo: soprannome dato a chi è immigrato in São Paulo appeso nella carrozzeria di un camion.

Barriga-verde: è il soprannome degli abitanti dello Stato di Santa Catarina.

Caipira (= tagliatore di cespugli = campagnolo, contadino): soprannome che gli indigeni dello Stato di São Paulo usano nei confronti dei bianchi, dei mulatti e dei neri. E’ spesso sinonimo di rozzo e ignorante.

Tapuia (= barbaro, forestiero, nemico): termine spregiativo usato dagli indigeni verso altri indigeni residenti nelle zone più interne.

Colono burro: fino a qualche decina d’anni una espressione molto negativa, sinonimo di contadino povero, contadino asino, ignorante, rozzo. Oggi è praticamente sparito, forse perché i contadini non sono più poveri, né ignoranti (hanno la tv, Internet, telefono ecc.).

Papa-goiaba: era il soprannome degli individui nati a Rio de Janeiro.

[grazie a Vitalina Frosi]

Insomma, come diceva amaramente Luciano De Crescenzo nel film “Così parlò Bellavista”, commentando lo snobismo di una tedesca verso il marito milanese: «Si è sempre meridionali di qualcuno»…

Cafone. Dalla voce osca cafà (cavità, da cui cafar, zappare), allusiva al contadino che cava la terra (gli Oschi, o Osci, erano una popolazione che viveva in Campania prima dei Romani). Potrebbe però derivare anche dal latino cabo/cabonis (cavallo castrato, incrocio di cavallo e cappone), o dal greco kofós, sciocco, o skaphéus (zappatore) o kakofonós (chi parla in modo sgradevole al cittadino, perché campagnolo e perciò rozzo). 

Bifolco. Da una parola tosco-umbra o etrusca, che significa “chi guida i buoi nell’aratura”, entrata poi nel latino come bufulcus e infine in italiano. Come spesso accade per voci che indicano contadini e allevatori, è passata a significare rozzo, di modi grezzi, ignorante. 

Burino. Probabilmente da burra, una parte dell’aratro, o da burrino (una scodella usata dai contadini). Tipicamente romano, indicava inizialmente i campagnoli che giungevano dalla Romagna nei dintorni di Roma per coltivare la terra. Potrebbe derivare anche da bulino, arnese a punta, sempre per indicare chi usa attrezzi agricoli. 

Buzzurro. Fu assegnato ai montanari svizzeri che d’inverno scendevano nel Centro Italia per vendere caldarroste, polenta e castagnaccio o esercitare il mestiere di spazzacamino. Forse deriva dal tedesco Putzer (pulitore), riferito ai camini, o da Butzemann, l’uomo nero. L’uso del termine si è poi esteso a indicare chi si trasferiva dal Nord a Roma dopo l’Unità d’Italia e poi a chiunque provenisse dalla campagna: dunque persona villana, incivile.

Il prof. Casale, spiega l'etimologia di alcuni termini di uso comune. Cafone! A chi piacerebbe essere chiamato cafone? Eppure non c’è niente di moralmente degradante nella parola cafone! Lo spiega bene Ignazio Silone (1900-1978), nella prefazione al romanzo Fontamara (1933), dove sceglie per sé il ruolo del narratore, un cafone, al quale altri cafoni hanno raccontato la storia che egli si accinge a narrare “fedelmente” nel romanzo. In effetti questa parola è connotata sotto l’aspetto sociologico e non dovrebbe avere nessuna implicazione di carattere morale, come ho detto. Però, attraverso l’utilizzazione – involontariamente oppure no: non si sa – maliziosa, che ne fanno i rappresentanti della classe egemone cioè i ricchi borghesi, le si dà un significato di tipo socio-economico o addirittura morale, snaturando completamente il suo originario significato. Silone, dando al testo la forma del genere autobiografico di prima e di seconda mano (il narratore che riporta il racconto dei personaggi narranti [come fa Manzoni col manoscritto.]) riscatta la condizione del cafone, facendo vedere che se qualche discriminante, civile e morale, esiste nei rapporti sociali in termini di educazione e di umanità, questa è assolutamente svantaggiosa per la classe dominante. La povertà non è una vergogna, come non lo è la condizione di cafone. Spesso è più vergognoso il comportamento dei ricchi e dei potenti. Infatti, cafone etimologicamente non significa né povero, né contadino, né incolto, come spesso siamo portati a credere. Lo si evince dal discorso che se ne fa nell’insieme del racconto siloniano. All’origine della parola c’è un vocabolo greco, tipico del meridione italiano dove più a lungo si è conservato l’uso del greco attraverso la cultura bizantina. Kakòphōnos (plurale: kakòphōnoi), sono quelli che parlano male una lingua. Ma questo è il giudizio che ne danno quelli che ritengono di parlarla bene, senza rendersi conto che la loro è una lingua diversa. E’ la classica scena delle rappresentazioni stereotipate di una realtà di paese in cui il prete, il maestro elementare, il farmacista si collocano al di sopra del livello del popolo per la loro prerogativa di parlanti colti.

Chi è il cafone? Riconoscere il cafone è facile. Definirlo è più difficile, scrive “Cafone.it”.

Si può provare a dare una definizione di “cafone” attraverso il suo contrario: “elegante”. L’eleganza nasce dalla misura: dalla capacità di sapersi regolare a seconda delle situazioni, dal riconoscimento e dal rispetto autentico, e profondo, degli altri: della loro esistenza, e del loro diritto di esprimersi. L’eleganza è la capacità di trovare la strada per ottenere - con naturalezza, senza sovraesposizioni, e senza esibizionismi - il consenso sociale, l’approvazione e l’ammirazione degli altri: tutte cose a cui anche il cafone, ovviamente, ambisce. Ma chi è elegante raggiunge questi obbiettivi con un senso della misura e dell’opportunità del tutto estranei al cafone, che della “società dell’immagine” tutto quello che ha capito (sbagliando drammaticamente) è che bisogna mettersi in mostra, farsi notare a tutti i costi. La cafonaggine è agli antipodi dell’eleganza per la mancanza di libertà di scelta che la contraddistingue: mentre la persona elegante sa sempre scegliere, tra le varie opzioni, quella adatta al contesto, il cafone è “l’uomo che non può scegliere mai”. La sua grande insicurezza di fondo lo costringe infatti a un solo comportamento: quello dell’individuo ipersicuro di sé. E’ per questo che il cafone è chiassoso, esibizionista, prepotente. Passando attraverso il suo contrario, siamo forse arrivati alla definizione cercata: il cafone è un coatto. Nel senso letterale di “costretto”. In termini clinici, si definisce “coatto” chi è obbligato a comportarsi in un solo modo, e sempre quello, perché il suo assetto psicologico non gli consente altro tipo di comportamento.

Il cafone e il maleducato. Si tende a identificare il cafone con il maleducato: ma non è così. Il cafone è assai spesso un maleducato: ma non tutti i maleducati sono cafoni. A illuminarci sulle differenza tra questi due termini è la parola che si usa a Napoli per maleducato: “scostumato”. Che significa “privo di costumi adeguati”. Il maleducato è esattamente questo: uno che ignora, essendo (stato) male/educato, le regole del vivere civile. Regole che non di rado – occorre dirlo – sono delle pure convenzioni. Oltre a ignorare le norme della buona educazione, spesso il maleducato ha un problema ulteriore: non sa di non conoscerle. Crede perciò di sapersi comportare in società. E questo lo espone alla critica dei beneducati. Il maleducato dà il meglio di sé a tavola, ma riesce a fasi riconoscere in molte altre occasioni sociali; non è mai gentile, perché non sa come regolarsi. La condizione del maleducato può essere imbarazzante, o spiacevole, per lui, e per gli altri: ma non è drammatica. Se il maleducato prende coscienza (qualche volta succede) del fatto di non sapersi comportare adeguatamente in certi contesti, può anche decidere - se gli va, o se gli torna utile - di mettersi in pari col galateo. O almeno di provare a farlo. L’apprendimento non sarà breve, né facile: ma potrà comunque dare buoni risultati. In quest’impresa potrà farsi aiutare da amici più educati di lui (ma in genere si stringe sodalizio con persone di livello socio-culturale abbastanza simile al proprio). O può far da sé: la TV e il web forniscono molte occasioni per imparare come si sta a tavola, in salotto, in società. Oggi tutto questo è più facile di ieri: i codici di comportamento corretto si vanno sempre più globalizzando, e semplificando. Il maleducato va perciò considerato una specie in via di estinzione. Presto sarà necessario dichiararla specie protetta, anche per non rinunciare a tutta una serie di comportamenti molto divertenti, nella loro rozzezza, per le persone beneducate. Il cafone è invece una specie in via di estensione: mentre la maleducazione è un fenomeno (sotto)culturale, la cafonaggine è un modo di essere. Uno stile di vita (pur se del tutto privo di stile). Essere cafoni non ha nulla a che fare con le regole: il maleducato non è necessariamente un cafone, mentre il cafone può conoscere perfettamente monsignor Della Casa e la sua opera, ma rimanere un cafone a tutti gli effetti. Un cameriere di un grande albergo, il commesso di un negozio di lusso possono aver appreso tutte le regole necessarie per svolgere bene il loro lavoro, ma restare dei cafoni ugualmente.  Questo vale anche per chi ha titoli nobiliari e conosce perfettamente i codici di comportamento. Si può' essere cafoni lo stesso.

Perché si dice "sei un cafone"? Si tratta di espressioni che hanno origini antiche e significano, con varie sfumature, la stessa cosa: villano, maleducato, ignorante. Ovviamente la lista potrebbe continuare all'infinito, ma vi proponiamo alcuni dei termini più diffusi.

I comportamenti del cafone, scrive “Cafone.it”. Claudio Ciaravolo, psichiatra e studioso del comportamento, in una divertente e interessantissima relazione scientifica, ha spiegato assai bene la socio-psicodinamica del cafone. Il cafone parla a voce troppo alta, gesticola esageratamente, ride a squarciagola, fa l’amicone (distribuisce grandi pacche sulle spalle, dà il tu a tutti), tiene banco: ma dire che gioca a fare il protagonista sarebbe sbagliato. Perché non rende l’idea: il cafone si considera l’unico attore sulla scena. Gli altri non è che abbiano dei ruoli secondari: semplicemente, non esistono. Il cafone è convinto che questi suoi comportamenti lo rendano molto simpatico: addirittura irresistibile. Purtroppo (per lui) le cose stanno in tutt’altro modo: la gente infatti lo valuta per quello che è (un insopportabile rompiscatole), e non per quello che vorrebbe essere. Lui però non può accorgersene, perché ha cancellato del tutto il feedback. Lo ha cancellato perché dentro di sé si sente l’esatto contrario di quello che mostra al di fuori: è l’individuo più insicuro e spaventato del mondo, e vive nel terrore che gli altri se ne accorgano. Per nasconderlo (a sé stesso, e agli altri), fa lo sbruffone, e chiude gli occhi per non leggere in quelli altrui il disprezzo e la commiserazione. Costretto dal suo senso di inferiorità a considerarsi largamente superiore a tutti, il cafone non ringrazia mai: non sa chiedere scusa, anche quando (ma è raro) ritiene di aver sbagliato. La sua paura è sempre la stessa: scusandosi, o ringraziando, teme di apparire “down”. E questo non lo sopporterebbe. Se si occupa dei comportamenti degli altri, non è per capirli (ed eventualmente migliorarsi), ma per giudicarli inadeguati rispetto ai propri. Per lo stesso motivo, il cafone non è in grado di ammirare nessuno, o di fare un complimento: gli sembrerebbe di sminuirsi troppo agli occhi del mondo. Entrando in competizione con chiunque abbia successo, il cafone ne minimizza le capacità, e ne sminuisce i risultati, attribuendoli alla fortuna, o all’imbroglio. Il suo copione è: io sono OK, tu non sei OK. E lo sono se tu non lo sei. Perciò, più dimostro che non vali nulla, meglio sto. E’ un gioco a somma zero: se l’altro va su, il cafone si sente ricacciato giù. Il cafone pretende di insegnare agli altri come si vive. Secondo lui, solo i fessi rispettano le regole. Le capacità intellettive del cafone possono anche essere elevate: ma non possiede alcuna intelligenza emotiva. Se non ci sono vigili in giro, il cafone parcheggia dove gli pare: se è in coda in autostrada, non ci pensa due volte a buttarsi sulla corsia d’emergenza. I sensi vietati per lui non hanno senso. Queste “bravate” danno al cafone (e a chi è con lui) la prova della sua furbizia, e della sua superiorità rispetto agli altri. Se però viene “beccato”, mostra degli altri pezzi del suo sterminato repertorio. Un esempio: in una coda in ufficio pubblico, il cafone cerca di infilarsi; di fregare il posto a chi gli sta davanti. A volte gli riesce. C’è qualcosa che lo distingue dal solito furbo che non vuole fare la fila: se trova qualcuno che protesta, il vero cafone non chiede scusa. Alza immediatamente la voce, negando di essere passato davanti, si arrabbia, inveisce. Perché si sente toccato nel profondo. In quel momento, è in gioco la sua identità.

Massimiliano Parente insiste: «La mia era una provocazione, non ho augurato la morte a nessuno», scrive il 31/10/2016 Giornalettismo. Lo scrittore, non contento del suo status su Facebook "Il crollo delle chiese però è divertente" si difende dai microfoni di Radio Rock, definendo la sua uscita una "provocazione". O era tutto un tentativo maldestro di lanciare il suo nuovo libro scritto con Vittorio Feltri? Massimiliano Parente è molto soddisfatto. Beato lui. Invece di provare un minimo di vergogna per quanto scritto ieri su Facebook, in una lunga intervista su Radio Rock 106.6 con Emilio Pappagallo ed Emiliano Rubbi, lo scrittore è tornato su quanto scritto ieri sul popolare social network. Parente, infatti, era finito nell’occhio del ciclone – perché – poche ore dopo un terremoto devastante, che aveva causato molti crolli, pensando di essere spiritoso scriveva: “Il crollo delle chiese però è divertente”. Forse pensava di essere spiritoso. Non contento, lo scrittore e firma de Il Giornale oggi è tornato sulla questione e ai microfoni della storica emittente romana, ha puntualizzato: “Nelle ultime ore ho ricevuto centinaia e centinaia di auguri di morte, ma io non ho mai gioito per le persone che rimangono sotto le macerie dei terremoti e non ho augurato la morte a nessuno”. Come spesso accade quando si scrive una stupidaggine, Parente si nasconde dietro la “provocazione”. E infatti dice: “La mia era una provocazione, perché la chiesa è un luogo di culto dove si prega Dio e Dio, tradizionalmente nella Bibbia, è colui che manda i terremoti. Quindi è curioso che una chiesa, che è il luogo di Dio venga distrutto da Dio stesso”.  Parente ha inoltre colto l’occasione per rispondere a quanti, in una sequela di invettive virtuali, lo hanno accusato di iconoclastia: “Parlavo della Chiesa come luogo in cui si prega. È curioso, poi, che tutte queste preoccupazioni vengano da un Paese che se ne sbatte completamente del patrimonio artistico. E lo dico da laureato in storia dell’arte”. Neanche una parola di scuse da parte di Parente, che evidentemente non si è reso conto di quanto ha scritto. Parente ha poi raccontato di quanto all’ondata di indignazione che lo ha travolto, si fossero accodate anche persone a lui molto vicine come Alessandro Sallusti – che in un tweet ha chiosato: “Con le chiese crolla anche un pezzo di noi, il mio amico Massimiliano Parente è addirittura precipitato negli abissi della stupidità” – , il suo agente della Mondadori e Vittorio Feltri. Con quest’ultimo Parente ha un libro in uscita l’8 novembre dal titolo “Il vero cafone”, ma non si è detto preoccupato per eventuali boicottaggi nelle vendite: “Non mi sono posto mai il problema tra quello che dico e quello che poi raccolgo in termini di consensi o meno”. Insomma, oltre ad un tweet stupido a Massimiliano Parente dobbiamo imputare il fatto di farci trovare d’accordo con Sallusti. Ma molto più prosaicamente, quello status dello scrittore serviva solo a pubblicizzare il suo libro con Vittorio Feltri, “Il vero Cafone”. Mai titolo fu più appropriato.

Caso Parente, Sallusti: "Il mio amico precipitato nell'abisso della stupidità". Parente sui social: "Il crollo delle chiese però è divertente". Scoppia la polemica. Sallusti: "È precipitato negli abissi della stupidità", scrive Franco Grilli, Domenica 30/10/2016 su "Il Giornale".  Bufera sullo scrittore e collaboratore del Giornale Massimiliano Parente. Al centro delle polemiche un post su Facebook (poi cancellato) che recita così: "Il crollo delle chiese però è divertente". E sotto al commento l'immagine di una basilica devastata dal terremoto di oggi. Lo sdegno per quanto scritto dallo scrittore è stato unanime. "Con le chiese crolla anche un pezzo di noi - ha commentato su Twitter il direttore del Giornale, Alessandro Sallusti - il mio amico Massimiliano Parente è addirittura precipitato negli abissi della stupidità". Alle 7.41 di stamani la terra ha tremato per diversi secondi: l’epicentro della nuova scossa è stato individuato in Umbria nella zona di Norcia, Castel Sant'Angelo e Preci, ad una profondità di circa 10 chilometri. A stretto giro è arrivato il post di Parente che ha scatenato un putiferio sui social network. L'autore di "Il più grande artista del mondo dopo Adolf Hitler" e "L'inumano" ha, infatti, pubblicato l'immagine di una chiesa completamente distrutta dal terremoto e l'ha accompagnata dal commento: "Il crollo delle chiese però è divertente". Da Twitter a Facebook si è subito levato uno sdegno unanime. Molti utenti hanno invitato a boicottare lo scrittore con un mailbombing all'indirizzo della Mondadori che edita i suoi romanzi. Qualche ora più tardi, mentre infuriavano le proteste sui social network, Parente ha rincarato la dose gettando altra benzina sul fuoco. "Cristiani - ha scritto - non offendete il vostro dio parlando male dei terremoti". Poi ancora: "Anziché mandarmi messaggi di morte prendetevi i profughi in casa". E infine: "Chiedo scusa a tutti i cristiani che se la sono presa con me e non con Dio che nella Bibbia manda catastrofi molto peggiori". Quindi, ha cancellato il primo post che ha fatto scatenare le polemiche. "Con le chiese crolla anche un pezzo di noi - ha commentato Sallusti su Twitter - il mio amico Massimiliano Parente è addirittura precipitato negli abissi della stupidità".

Chi sono i nuovi cafoni? Cafoni si nasce o si diventa? Un giornalista come Vittorio Feltri e uno scrittore irriverente come Massimiliano Parente hanno unito le penne per (descrivere questo graffiante galateo al contrario. Un divertente viaggio per riconoscere il vero cafone in ogni ambito e circostanza della vita: dalle cene romantiche (con il pensiero fisso al dopo) alle feste in appartamento (dove il momento del congedo si trasforma spesso in un'"anticamera della morte"), dalle vacanze al mare (assediati da maniaci dell'abbronzatura e forzati dei racchettoni) alle estati in città (popolate solo di canotte sudate e sandali alla Padre Pio), dai viaggi in treno (torturati da vicini attaccabottoni) ai talk show televisivi (dove l'imperativo categorico è darsi sulla voce), ai funerali (con i vip sempre girati in favore di telecamera). Dopo averlo letto scoprirete, sorridendo di pagina in pagina, quanto in ognuno di noi si nasconda un vero cafone. E ce n'è per tutti, nessuno escluso. Un ironico galateo per i gentleman del terzo millennio. Un nuovo, graffiante, irriverente galateo esteso a ogni ambito della vita, dalle cene romantiche (dopo il sesso, mai prima) a come gestire una semplice conversazione (senza punzecchiare con il dito le persone), dalla culla (non versare acqua in testa ai neonati, per esempio) alla tomba (c'è un buon gusto anche nel morire). Feltri e Parente ridefiniscono i cliché del bon ton, adattandoli alla modernità, perché la vita è una e gli stili sono molti, basta averne uno che non faccia orrore. Dalla "C" di "coppie" (ricordatevi che siete individui, tanto il vostro amore nessuno ve lo tocca, e se ve lo tocca sareste gli ultimi a saperlo) alla "Z" di "zodiaco", sono moltissimi i consigli di questo inusuale e irreverente duo.

Fenomenologia del cafone. Intorno a noi e dentro di noi. In uscita il volume scritto a quattro mani da Vittorio Feltri (Bergamo, 1943) e Massimiliano Parente (Grosseto, 1970), «Il vero cafone» (Mondadori): un manuale, al contrario, di comportamento, scrive Francesco Cevasco il 6 novembre 2016 su “Il Corriere della Sera”. Vittorio Feltri è un dandy di 73 anni, giornalista e scrittore, che da quando ha l’età della ragione indossa abiti del sarto, cravatte raffinate e camicie intonate alle cravatte (e non viceversa). Massimiliano Parente è uno scrittore e giornalista di 46 anni che «veste perennemente magliette con supereroi, felpe con cappuccio, scarpe Nike Shox. Bisognerebbe spiegargli che ha quarantasei anni, non sedici» (dice Feltri). Vittorio Feltri e Massimiliano Parente, «il vero cafone. Ciò che non dovremmo fare e facciamo tutti» (Mondadori, pp. 167, euro 18). I due si sono messi insieme per scrivere un libro: Il vero cafone. Ciò che non dovremmo fare e facciamo tutti (Mondadori). Un manuale (al contrario) di comportamento. Vi sono elencati 167 casi di atteggiamenti cafoni. Ce n’è per tutti. Autori compresi. Con autoironia e onesta consapevolezza ammettono che «c’è un cafone in ognuno di noi». La mission (pardon, la missione, altrimenti dicono che è una cafonata) del libro è questa: «Serve a riconoscere il vero cafone moderno, perché la signorilità, come la cafonaggine, e i costumi in generale, non sono concetti immutabili, ma cambiano con il cambiare dei tempi. D’altra parte, se oggi ci comportassimo seguendo le regole del galateo dettate da monsignor Della Casa, sembreremmo dei deficienti». E, allora, signori che credete di essere beneducati, allacciate le cinture e lasciatevi sballottare da questo bizzarro ottovolante: «Scoprirete che ci sono più cafoni di quanti credevate di riconoscerne». Darne conto, di tutti questi cafoni, anche in sintesi, è impossibile: «Ci sono i cafonalmente corretti, i culturalmente cafoni, i cafoni con il Suv, i cafoni in bicicletta, i cafoni al mare, i cafoni a coppie, i cafoni romantici, i cafoni sui social network...». E i cafoni con nome e cognome. Andando avanti nella lettura salteranno fuori. Tra i cafoni c’è quello da barzelletta: «È il motivo per cui deve essere terribile stare a cena con Silvio Berlusconi, l’ultimo erede di Gino Bramieri, l’ultimo Re Sole con una corte da barzelletta». E la moda di indossare simil-tute mimetiche? Per uno come Feltri: «Orrore!». «Giubbotti, pantaloni, cappelli mimetici che, ovviamente, usati in città, producono l’effetto contrario: questi imbecilli spiccano tra la folla, non puoi non vederli. La mimetica, lo dice la parola stessa, serve per mimetizzarsi». Il più cafone di tutti? «Matteo Renzi. Va a trovare i soldati in Afghanistan e scende dall’elicottero in mimetica, solo la giacca però. Andreotti non se la sarebbe mai messa». Chi ricicla un regalo è già nella cafonaggine ma anche chi fa un regalo non riciclato rischia. Prendiamo l’immancabile cravatta destinata a chi veste sempre in giacca e cravatta: «insomma, ne ha duecento, ma come avranno fatto a indovinare che gli mancava proprio quella verde fosforescente che nessuno metterebbe neppure nella bara, a meno di non essere Umberto Bossi o Matteo Salvini?». Feltri e Parente sfiorano anche il filone teologico: «Il cafone di Geova ti suona alla porta per parlarti dell’argomento più futile dell’universo: Dio». E il cafone cattolico: non citiamo il virgolettato per evitare denunce (meglio, per non essere cafoni, denunzie) e diciamo soltanto che i mangiatori di ostie — a leggere gli autori — sono praticamente cannibali e il prete officiante potrebbe essere un poco ubriaco. Ah, ce n’è anche per papa Francesco, il «Papa cafone», (gli autori non avevano ancora visto il Pio XIII di Sorrentino): uno, papa Francesco, che «appena si insedia augura “Buon pranzo” dal balcone di piazza San Pietro, come se fosse il pulpito di una trattoria en plein air, e si attacca al telefono. Prima telefonata a Eugenio Scalfari, e questo è cafone non perché abbia disturbato Eugenio Scalfari, ma perché gli è venuto in mente di chiamare proprio Scalfari». Restando nella mistica ecco due altri esempi: Red Ronnie e Eleonora Brigliadori. Ma perché sarebbero cafoni? Perché «contrari ai vaccini, credono che le malattie vengano a causa di una cattiva reincarnazione, o a causa dei farmaci». Che il tifoso di calcio, il tifoso da stadio, sia cafone non c’è bisogno che lo dicano Feltri e Parente, tra l’altro lo sappiamo che, almeno Feltri, tifoso del calcio lo è. E, quindi, non gli sfugge che «il peggio sono i calciatori: per soffiarsi il naso si turano una narice e soffiano sparando proiettili di muco, e lo schifo resta sul campo sul quale cadono e si rotolano i giocatori stessi. Così fanno vomitare». Qualche capitolo del libro è scritto, evidentemente, da Feltri solo. Tipo quelli sul cafone in cravatta e il cafone scravattato. Il suo compagno d’opera, infatti, indossa soltanto (vomitevoli, appunto) magliette da teenager (pardon, ragazzino). Tra gli scravattati, i non indossatori di cravatte, ci sono il già citato Salvini («sta bene solo in felpa e jeans, perché sembra un parcheggiatore abusivo e forse è per questo che non sopporta gli immigrati»); Beppe Grillo («è l’ultimo discendente dell’uomo di Neanderthal, deve avere un negozio di vestiti esente da qualsiasi forma di gusto da cui si serve, giacconi sformati, jeans bisunti, ma almeno è uniforme, quando si veste elegante per andare in Parlamento sembra il capo della banda della Magliana»; Antonio Pennacchi, lo scrittore, con «quel cappellino da sofferto dopolavoro per sottolineare che è uno scrittore vero»; Aldo Busi, «invece scrittore vero, è una persona con un’eleganza naturale e frocia, ma indossa cravatte e camicie così dozzinali che te lo immagini già a mercanteggiare sul prezzo a una bancarella di Montichiari». Per il momento, e per citare l’elegante buonanima di Mozart: «Madamina, il catalogo è questo». Ma di cafonate (smascherate, per la carità) in questo libro ne trovate quante ne volete.

Italiani cafoni e maleducati: lo dicono 7 turisti su 10, scrive “Libero Quotidiano” l’1 luglio 2010. Turisti stranieri appagati della loro vacanza nello Stivale ma si lamentano per l’insopportabile inciviltà e le cattive maniere. Urla e schiamazzi per strada, motoscafi che arrivano quasi in spiaggia, acquascooter che sfrecciano sottocosta, tv e radio ad alto volume, spintoni e ressa continua e un’incredibile ignoranza delle lingue estere. Ecco il peggio dell’Italia secondo 7 turisti stranieri su 10 che hanno scelto il Bel Paese come meta delle loro vacanze. E quindi sarebbe meglio approfondire corsi di bon ton e galateo, imparare inglese, tedesco e francese e dare una frenata ai prezzi: queste le richieste dei visitatori stranieri per ritornare in ferie in Italia. A rovinare le loro vacanze, infatti, sono l’inciviltà e la maleducazione che spesso affiorano (61%), l’impossibilità di comunicare nella loro lingua (75%), e i prezzi talvolta troppo esagerati (47%). Nonostante il 57% affermi che non si tratta del primo soggiorno in Italia e il 41% degli intervistati ammetta di scegliere lo Stivale almeno una volta ogni 3 anni. Però c'è anche chi non vuole tornare sicuramente (4%) o molto probabilmente (24%) nella località prescelta. Scelgono il sud (24%), le isole (23%) ed il centro Italia (21%) in egual misura, e sono alla ricerca di tranquillità e relax (71%), divertimento (57%) e di cibo gustoso e dei qualità (49%). A rendere speciale, invece, il loro soggiorno in Italia, che varia da una settimana (32%) ai dieci giorni (22%), sono l’amore tutto tricolore per la tradizione e la genuinità (78%), la generosità e il calore della gente (67%), l’enogastronomia (51%) e le bellezze paesaggistiche (49%). Questo è quanto emerge da uno studio promosso dalla rivista “Vie del Gusto”, diretta da Domenico Marasco e in edicola nei prossimi giorni. La ricerca è stata condotta su 1350 turisti e visitatori stranieri (maggior parte inglesi, tedeschi e statunitensi), a cui è stato chiesto un parere sulla loro vacanza in Italia e sulla località che li ospita. Alla ricerca di tranquillità, relax, divertimento e buona tavola, i turisti stranieri scelgono il Bel Paese anche più volte l’anno ma solo se ben consigliati da amici e parenti e dopo un accurato approfondimento su Internet e sulle guide turistiche. Visitato ogni anno da oltre 30milioni di turisti stranieri, il Bel Paese è sempre tra le mete preferite nel mondo: il 57% degli intervistati, infatti, dichiara di non essere in Italia per la prima volta. La durata della vacanza italiana dei turisti stranieri si aggira mediamente sulla settimana (32%) per arrivare a toccare picchi di 15 giorni (19%): la toccata e fuga del weekend è scelta dal 20%, mentre il 22% preferisce rimanere per circa 10 giorni. Se torneranno in Italia, i turisti stranieri lo faranno solamente perché spinti dall’amore italiano per la tradizione e la genuinità, dal calore della gente e dalla qualità dei prodotti enogastronomici. Cosa, invece, può rovinare la vacanza italiana dei turisti stranieri? Se ben il 75% vede nell’impossibilità di dialogare e comunicare nella propria lingua un ostacolo insormontabile, sono l’inciviltà e la maleducazione dilagante (61%) e i prezzi ritenuti troppo elevati (47%) a condurli nella decisione di non visitare nuovamente la località scelta per l’estate 2010. Seguono la sporcizia e la poca cura dell’ambiente (39%) e i servizi messi a disposizione valutati assolutamente non all’altezza dei canoni odierni (36%). In secondo piano, ma comunque fondamentali per i visitatori stranieri, troviamo l’assenza di trasporto pubblico (32%), gli orari di chiusura di musei e attrazioni (28%), la mancanza di informazioni turistiche adeguate (26%) e il caos e la confusione (17%).

Barcellona: come fermare i cafoni d’esportazione? Scrivono Andrea Lupi e Pierluigi Morena, Avvocati internazionalisti, il 25 agosto 2014 su "Il Fatto Quotidiano". Noi italiani spesso ci vergogniamo dei comportamenti dei connazionali in vacanza. Quando siamo all’estero i freni inibitori si allentano e, di conseguenza, aumentano a dismisura i rischi di condotte pacchiane o inconsulte. Se l’attore Alessandro Gassman, sul suo blog sul ilfattoquotidiano.it, ha avvertito la necessità di sottolineare la compostezza (seppur immaginaria) degli italiani in occasione di un check-in della compagnia di bandiera in un volo di rientro da Los Angeles, ci sarà un motivo. Rimarcheremmo il contegno civile di viaggiatori stranieri in uno scalo romano, londinese o madrileno? Probabilmente no. La notizia dei tre italiani nudi per le vie della Barceloneta, quartiere popolare che si affaccia sul litorale della capitale catalana, sembra infrangere il sogno onirico dell’attore. La foto “gaudente” ha trovato spazio sui portali dei maggiori siti informativi europei e dell’America latina, di sicuro ha scatenato la frustrazione dei residenti. È il “cafonal” formato esportazione, grossolanità, beninteso, non solo italiane. Barcellona accoglie più di 7 milioni di turisti all’anno, nel tempo si è costruita l’etichetta di “città friendly”: divertimento notturno, facile consumo di alcool e, da qualche tempo, anche di droghe leggere. E’ denominato “turismo cannábico” il fenomeno legato all’attrazione esercitata dai “club Maria”, più di 160 associazioni private disseminate sull’intero tessuto urbano consentono l’acquisto e il consumo legale di cannabis. E ancora grandi servizi aeroportuali, rotte low cost dalle principali città europee, ampia offerta di alloggi a buon mercato. Secondo l’Associazione dei residenti il quartiere della Barceloneta è divenuto l’epicentro del “turismo de borrachera”, una nuova Lloret de Mar nel pieno centro della capitale. I residenti, riuniti in assemblea nella plaça del Mercat, hanno invocato controlli, un nuovo modello di accoglienza e tolleranza zero verso la ricettività a basso costo.

La Generalitat, l’ente regionale di Catalogna, da qualche tempo prova a mettere un argine, lo scorso luglio ha avviato politiche più restrittive comminando una multa di 30 mila euro alla società statunitense che gestisce airbnb.com, sito web che offre centinaia di appartamenti in affitto per giorni o per settimana. Il portale favorirebbe l’elusione fiscale e contravverrebbe le regole poiché un numero consistente di alloggi non sarebbe inserito negli appositi registri degli operatori turistici. Provvedimento impugnato dalla società americana la quale da un lato dialoga con le istituzioni per trovare una soluzione e, dall’altro, denuncia l’inutilità di una misura che potrebbe frenare la crescita dei flussi turistici e ripercuotersi sui 4000 nuovi posti di lavoro creati dal portale. Basteranno atti e sanzioni amministrative a fermare i coatti d’esportazione?

Formentera si ribella agli italiani: "Maleducati". Polemiche dopo l'incendio innescato dal razzo sparato da un nostro connazionale, scrive Roberto Pellegrino, Giovedì 18/08/2016 su "Il Giornale". Più che una goccia è stato un fulmine. Una saetta di fuoco che ha incenerito il vaso in cui era mal celata la sopportazione degli abitanti di Formentera verso la massiccia invasione stagionale degli italiani. Il nostro concittadino che, martedì notte, ha avuto la pessima idea di sparare un razzo di segnalazione dal suo yacht dentro l'area naturale protetta d'Espalmador, lungo la costa, ha bruciato una preziosa fetta di macchia mediterranea e ha riacceso antichi rancori e antipatie verso gli italiani, residenti e vacanzieri. Davanti alle fiamme che divoravano l'isolotto, per colpa del 43enne Roberto P., e davanti al lavoro di due squadre di vigili del fuoco, gli isolani hanno perso la pazienza, e, qualcuno, ieri mattina, davanti al Commissariato dove l'italiano piromane era stato tradotto e poi rilasciato su cauzione, ha urlato che «el macarone», venisse consegnato alla gente di Formentera. «Macarones» e «Motorinos» sono gli epiteti con cui gli isolani delle Baleari ci chiamano. Tempo fa, comparve anche una scritta molto indicativa del livello di odio raggiunto: su un muro nel centro di Es Pujols una mano anonima aveva vergato, «Fuera los Italianos de la isla!». Un malcontento che è purtroppo presente da oltre un decennio e che in estate raggiunge la vetta tra i 12mila formenterensi. A guardare i numeri ci si rende conto anche del perché. In estate la presenza degli italiani tocca il 56 per cento del totale. La maggior parte sono turisti «low-cost»: arrivano con voli pagati meno di 50 euro, girano le discoteche, bevono molto, usano droghe, «urlano, schiamazzano e sono maleducati», per concludere con le parole esasperate dei suoi abitanti. Questo genere di turismo «mordi e fuggi», composto di giovani che spesso non dormono in hotel, non porta alcuna ricchezza all'isola, alimentando la speculazione degli alloggi senza permesso e con affitto in nero. Formentera, fino a qualche anno fa, subiva un turismo diverso: quello di ricche famiglie del Nord Europa e, soprattutto, di vip italiani e stranieri che spendevano parecchio. Ora, come succede dagli anni Novanta all'attigua Ibiza, il turismo di Formentera si è «sporcato» di questo nuovo genere di turismo, molto cafone e chiassoso, molto mal visto dai residenti, costretti a pagare tasse locali più salate per dare più risorse agli agenti di polizia che devono regolare il traffico e vigilare su migliaia di teste calde. Così come a Ibiza, dove la regola è che non ci sono regole, anche l'isola meno popolata delle Baleari paga questa contaminazione e gli esempi di cafoneria si sprecano. Poi ci sono gli italiani residenti, quelli che controllano oltre il 60 per cento delle attività turistiche. Quelli che hanno avuto molto successo economico. Sono invidiati e infastiditi dalla burocrazia locale. Alla fine degli anni Settanta affittavano motorini (da qui il nomignolo), ora sono i padroni dell'isola, pagano molte tasse, e subiscono un'ondata di odio esagerata per colpa delle intemperanze di alcuni connazionali. In tv un residente è chiaro: «Gli italiani girano ubriachi già alle otto di sera sugli scooter, coi loro aperitivi occupano e sporcano le dune di sabbia. Sono rumorosi, arroganti e maleducati. Non li vogliamo». Nel forum Internet del Diario de Ibiza, si legge di peggio: «non hanno rispetto e non capiscono lo spirito dell'isola, vanno in spiaggia tutti eleganti, poi inseguono i vip, cercano i calciatori e le veline pensano soltanto all'aperitivo più figo non sanno di trovarsi in un posto meraviglioso».

Che maleducati gli italiani in trasferta.

Bravi, complimenti ai turisti italiani che hanno girato nudi per le ramblas di Barcellona. La città ha dichiarato guerra ai turisti cafoni, e si sottintende che una buona fetta dei cafoni è rappresentata dai nostri connazionali. Ma si può? Non facciamone un dramma, ma a loro sembra una bella cosa quello che hanno fatto? Sarebbe il caso di cominciare a riflettere...Silvia P., ilgiorno.it

Non c'era purtroppo bisogno di questo ultimo esacrabile episodio per sapere che questa è la fama che il Belpaese si è costruito nel mondo e con il mondo. Che l’italiano all’estero faccia notizia (in negativo) è diventato però quasi un luogo comune. A caratterizzarci non sono solo lo stile e l’eleganza, ma anche e soprattutto la cafonaggine. Modaioli, spendaccioni, caciaroni e maleducati: così gli esperti del turismo ci disegnano, criticandoci pesantemente. Senti urlare per le vie delle città? Ascolti e parlano italiano. Nei musei vedi i bambini che saltano e toccano le statue? Italiani. Si alzano dal ristorante e lasciano un porcile il tavolo? Sempre noi italiani. E si potrebbe andare avanti con altri cento esempi... Attenzione però: poiché gli italiani sono inclini a non rispettare leggi e normative, hanno nel Dna l’istinto alla trasgressione, anche gli stranieri – che pure sono disciplinati nei loro Paesi – si sentono autorizzati, quando vengono qui da noi, a comportarsi da maleducati. Come dire: chi è senza peccato scagli la prima pietra...Laura Fasano, vicedirettore de "Il Giorno".

I più cafoni? I bambini italiani secondo gli albergatori Ue. I più maleducati? Romani e milanesi: troppa vivacità, urla, capricci, corse e oggetti rotti. I bimbi "preferiti": gli svedesi. Troppo "rumorosi" i bambini italiani secondo gli albergatori Ue, scrive il 29/10/2011 “La Stampa”. Un po' lo si sospettava, ma ora un'indagine lo conferma: i bambini italiani in vacanza sono considerati i più cafoni e indisciplinati. Uno studio dell'associazione Donne e qualità della vita, condotto su un campione di 500 albergatori europei, fornisce un giudizio impietoso: per il 66% del campione i marmocchi italiani in vacanza sono giudicati più maleducati, incivili e irrispettosi di bambini e adolescenti degli altri paesi. A contendersi la palma della maleducazione sono, quasi a pari «merito», i figli dei romani (19%) e dei milanesi (17%), seguiti dai pargoli dei napoletani, malgiudicati dal 14% degli intervistati, dei torinesi (13%), dei bolognesi (11%), dei baresi (10%), dei palermitani (8%) e dei calabresi (7%). Tra i più educati i fiorentini e gli umbri, che incassano appena il 3% dei giudizi negativi, seguiti dai veneziani con il 5%. Ai marmocchi italiani gli albergatori europei rimproverano di essere irrispettosi e incivili, spesso molesti per gli altri ospiti dell'albergo. Viene contestata nel 22% dei casi l'eccessiva vivacità fuori luogo: urla, parolacce, schiamazzi e capricci nelle stanze e negli spazi comuni. Nel 20% dei casi gli albergatori denunciano corse nei corridoi e nella hall, nel 17% danni alla struttura (scritte sui muri, oggetti rotti, ecc). A tavola, secondo il 15% degli intervistati, i bambini italiani sono maleducati e capricciosi: voce troppo alta, lamenti, corse tra i tavoli. Per il 12% del campione i bambini italiani trovano divertente giocare con l'ascensore, mentre il 9% condanna l'abitudine di tenere alto il volume di tv e radio nelle stanze. Quali sono, invece, i bimbi più amati? Secondo gli albergatori europei i figli degli svedesi sono i più educati e rispettosi (27%), seguono i danesi e gli svizzeri. Ben giudicati per buon condotta anche gli irlandesi (19%) e i figli degli inglesi (15%). Meno bene, ma comunque giudicati meglio degli italiani, i bambini spagnoli e russi, che condividono il 12% dei consensi. Ma quali sono le buone regole da seguire durante un soggiorno in albergo? Al primo posto c'è la guerra ai rumori molesti. Quindi, anche all'interno della propria camera, niente televisione e radio al massimo, niente grida, strilli, lamenti, mugolii. Stessa regola negli spazi comuni dell'albergo: tenere a bada l'esuberanza dei propri figli e limitare gli schiamazzi nei corridoi e in ascensore. Vietato urlare e parlare a voce alta nella hall. Limitarsi anche al cellulare e non urlare mai dentro la cornetta. Seconda regola: non si corre nei corridoi e non si gira per l'hotel in pigiama. Terzo: tutto ciò che si trova nella camera è di proprietà dell'albergo e va considerato come tale. Quindi non va rubato nè tantomeno rotto. Non dimenticare di essere cordiali con il personale. Evitare di contattare la hall per qualsiasi cosa, ma limitarsi a segnalare eventuali disservizi quando necessario. In sala da pranzo, non è di buon gusto abusare del buffet e riempirsi ripetutamente il piatto immergendosi in tremende abbuffate. Ricordarsi inoltre, di tenere a bada i propri figli, non farli urlare e giocare a tavola, non lasciarli correre e bighellonare tra i tavoli.

Gli italiani sono i più maleducati del pianeta? scritto da Franco Muzzioli. Non è una domanda per Matthew Parris, noto editorialista londinese, ma una affermazione che ha fatto alcuni giorni fa sul Times. E’ certo che se ti muovi in auto sulle strade italiane ti accorgi di questa cattiva educazione e delle costanti infrazioni alle regole. Le frecce direzionali sono quasi sempre un optional, i limiti di velocità difficilmente rispettati, nei parcheggi è una guerra, abbondano le contumelie e c’è sempre qualcuno “che è arrivato prima”. Le file davanti agli sportelli non sono mai lineari, ma a grappoli, e trovi sempre chi vuol fare il furbo. Le strade sono piene di cartacce, di cacche di cane e di cicche di sigarette. Anche nella vita interpersonale spesso regna l’arroganza e la mala educazione, si fa fatica ad accettare “l’altro” ed i suoi pensieri, prendiamo tutto di petto come se ogni contestazione fosse una offesa personale, ne è esempio palese la dialettica politica. Ma l’elenco potrebbe continuare per pagine e non è neanche l’età a portar consiglio, perché noi anziani uniamo spesso, alla naturale predisposizione a questa anarcoide visione della vita, la mancanza di elasticità mentale. Quando mi reco al nord, in Svizzera od in Austria, ad esempio, e vedo la pulizia delle strade, non sento il continuo strombazzare dei clacson, vado al ristorante sento sussurri e non un assurdo parlare ad alta voce, vedo bambini educatamente seduti che mangiano, mi chiedo allora se il Times non abbia per caso ragione! Franco Muzzioli

Riporto qui l’articolo incriminato a cui fa riferimento Franco. Cosa pensano degli italiani, all’estero? Non parlano molto bene di noi. Il britannico “Times” ha effettuato, tramite il noto editorialista Matthew Parris, un’indagine sul comportamento degli italiani a Londra. Il giornalista non ha dubbi: i più cafoni del mondo sono proprio gli abitanti del “bel Paese”. I turisti italiani sono definiti dei cialtroni, capaci soltanto di correre dietro alle griffe, ai falsi miti della celebrità e imbevuti di tv-spazzatura. “Tre volte quest’anno – scrive l’editorialista nella rubrica, sotto il titolo ‘Scusatemi, ma perché gli italiani sono così maleducati? – mentre cercavo di scendere dal metrò sono stato ricacciato indietro da gente vestita in modo sciccoso e firmato, che spingeva per entrare prima che i passeggeri fossero scesi: e tutte le volte si è trattato di gente che parlava fitto in italiano”. Il giornalista poi aggiunge: “Come possiamo riconciliare l’Italia moderna, fatta di consumismo, televisione-spazzatura, smania per le firme e insensata adorazione delle celebrità, con l’Italia di Venezia, Da Vinci, Verdi e Medici?”. L’imbestialito Parris arriva a questa sferzante e patriottica conclusione: “Dite quello che vi pare della nostra turbolenta folla bevuta di birra ma, anche se ci mettete i tatuaggi e tutto il resto, avrebbe subito capito che tipo è Berlusconi”. Insomma accuse pesanti. Quello che posso dire che non ha molto torto perché anche io quando vado all’estero noto molti italiani che non si comportano molto bene ma è sbagliato fare di un’erba un fascio. Nonostante ciò è allarmante come, ancora una volta, l’italiano perda sempre più credibilità e fascino.

E adesso facciamoci un esame di coscienza, come ci riteniamo noi? Abbiamo consapevolezza di come siamo considerati? Che ne pensate delle affermazioni del Times? Pensate che questa eventuale mancanza di educazione sia originata da una nostra indole di popolo, dalla famiglia, dalla scuola, dall’esempio della politica? Se siamo veramente poco educati come potremmo migliorarci?

ITALIANI: UN POPOLO DI ASOCIALI.

Italiani asociali con migliaia di amici su facebook. Psicologia: gli italiani non amano i vicini di casa, scrive il 18 aprile 2016 Grazia Musumeci. Gli italiani razzisti e asociali? In un certo senso sì, soprattutto se hanno a che fare con i vicini di casa. Sarebbe questo l’allarme lanciato da un video-denuncia italiano proposto dalla Nescafé che ha sottoposto alcune persone a un test mettendole a confronto con situazioni sociali diverse, tra cui anche i rapporti condominiali o in generale col vicino di casa. Si è visto che l’italiano medio tende a essere generoso, allegro, socievole e accogliente, ma quando viene messo a confronto con i vicini di casa o di pianerottolo diventa completamente asociale: non saluta, guarda altrove, evita il dialogo, risponde a monosillabi … altro che la torta di benvenuto per i nuovi arrivati, che tanto si vede nei film! E’ la diffidenza che domina nei confronti delle persone o delle famiglie che dovranno condividere una delle nostre pareti. Non ci si fida, se non dopo molti anni e molti tentativi. Il 61% risponde di non avere proprio alcun contatto col vicino di casa, il 57% dichiara di avere contatti solo in ascensore. Sono stati intervistate 1.800 persone di età compresa tra i 18 e i 65 anni e i più asociali in assoluto sono risultati, come sempre, gli abitanti delle grandi città con Milano, Torino, Venezia e Bologna tra le prime in classifica per “asocialità”. A Roma le cose già migliorano mentre al Sud i rapporti sembrano più cordiali, anche se pure qui i vicini si evitano nel 50% dei casi. La diffidenza non ha a che fare con cultura o colore della pelle, la stessa lontananza che si riserva a un immigrato africano la si riserva all’ingegnere italiano del piano di sotto!

Italiani, popolo di «asociali», (ma solo con i vicini di casa). Avvertiti come fastidiosi, persone a cui mostrare distacco senza nemmeno scambiarsi un sorriso e una battuta: sei italiani su dieci li evitano e mostrano caratteristiche asociali nei loro confronti. Un video-esperimento racconta le abitudini sul pianerottolo, scrive Eva Perasso il 14 aprile 2016 su “Il Corriere della Sera”. Si chiama asocialità condominiale ed è un comportamento che in Italia è particolarmente diffuso. Non salutare i dirimpettai del proprio pianerottolo, guardare in basso quando si incrociano i condomini per strada, evitare il dialogo persino nello spazio angusto dell'ascensore, fino ad arrivare a non instaurare alcun rapporto - nemmeno il più banale di gentilezza reciproca - anche nel corso di diversi anni passati a condividere tetto, spese e faticose riunioni di amministrazione: ecco i tratti comuni per riconoscere il tipico “condomino asociale”. Accade in Italia: una curiosa ricerca e un video-esperimento commissionati da Nescafè hanno provato a misurare quanto gli italiani siano asociali nei confronti dei vicini di casa e i risultati sono stati poco gentili nei confronti di chi condivide il tetto con altri condomini. Il 61 per cento degli italiani ammette di non voler avere alcun rapporto con i vicini e anzi la diffidenza è alta in alcuni dei luoghi in cui questa relazione si instaura e si mantiene: l'ascensore (la diffidenza qui è pari al 57 per cento), pianerottolo e scale (66 per cento), fino alla chiacchiera dal balcone (evitata dal 41 per cento degli italiani) sono i luoghi più comuni per un incontro e uno scambio, ma anche i più temuti. Il sondaggio web ha coinvolto 1.800 italiani tra i 18 e i 65 anni e ha anche provato a capire le motivazioni di questa diffidenza, che porta all'asocialità condominiale, all'interno di strutture che invece sono (e sono state nei decenni passati nel nostro Paese) altamente sociali per via della condivisione di spazi comuni. Dalla ricerca emerge però chiaramente come la vicinanza fisica non si trasformi automaticamente in atti di solidarietà o in interazione tra le parti. I più diffidenti sono gli uomini (69 per cento, contro il 53 per cento delle donne) e la città dove si instaurano meno rapporti di buon vicinato è Milano, seguita da Torino, Venezia e Bologna. Al Sud i rapporti sembrano più cordiali, anche se un buon 50 per cento ammette di evitarli. Il professor Marco Costa, del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Bologna, commenta i risultati: «Gli impegni lavorativi possono far vivere la propria abitazione come luogo di rifugio proprio perché l’attività sociale viene già coltivata in altri ambienti. Quando si è a casa, si cerca anzitutto un nido in cui vivere la privacy». Gli intervistati hanno messo in luce la mancanza di tempo per i rapporti sociali condominiali per via dei ritmi di vita frenetici e la paura della microcriminalità, ma anche un po' di timidezza: un italiano su due dichiara di temere di essere ignorato dal vicino, uno su tre non vorrebbe apparire troppo invadente, molti si giustificano mettendo in campo la loro timidezza. Curiose e divertenti le tattiche messe in atto per evitare di avere rapporti coi vicini, anche quando proprio il contatto sembra ormai irrimediabile: frasi di circostanza e di scuse per non fermarsi a chiacchierare vengono usate da oltre il 60 per cento dei vicini, mentre addirittura 8 persone su 10 ammettono di far finta di non vedere il vicino, chinando spesso il capo sul cellulare. Fino al rifiuto totale dell'interazione: aspettare di trovare l'ascensore vuoto o controllare che nessuno passi per le scale prima di uscire dal proprio uscio sono comportamenti confessati da molti.

Italiani asociali? 6 italiani su 10 non parlano coi vicini di casa, specie nei condomìni. Testa bassa o sguardo altrove: gli italiani sono asociali, specie con i vicini di casa. Un’indagine svela che il 61 per cento ammette di non aver alcun tipo di relazione coi propri vicini di casa e di aver difficoltà a relazionarvisi. Esperti sociologi e psicologi spiegano le ragioni di questa «asocialità condominiale», scrive mercoledì 13 aprile 2016 Luigi Mondo. Giornalista esperto in salute. Ha scritto quasi 50 libri tra saggistica, manualistica e narrativa, tradotti in diverse lingue.  Altro che buon vicinato o rapporti sociali ricchi e costruttivi, gli italiani quando si tratta di vicini di casa ci fanno una pessima figura. E poi, magari, sono gli stessi che si vantano di avere un sacco di ’’amici’’ su Facebook. Ben 6 italiani su dieci confessano infatti di non avere alcuna intenzione di approfondire alcun rapporto coi propri dirimpettai. Il capro espiatorio della mancanza di riguardo circa i rapporti tra vicinato sarebbero la frenesia della routine quotidiana (73 per cento) e il poco tempo per socializzare (68 per cento). Si è passati così dal cosiddetto ’’condominio famiglia’’ tipico degli anni ‘50, in cui la maggior parte dei vicini di casa si conoscevano e condividevano i momenti della quotidianità, si è passati ai ’’condomini asociali’’, dove si conosce a malapena il nome dei dirimpettai, evitati o salutati a fatica sui pianerottoli. La palma dei più asociali va agli abitanti delle grandi città del Nord, dove la mescolanza di etnie e provenienze regionali, unitamente ai ritmi lavorativi frenetici, hanno accentuato la diffidenza nei condomìni, che si manifesta principalmente sul pianerottolo di casa e le scale (66 per cento), in ascensore (57 per cento) e sul balcone (41 per cento). Lo sconsolante quadro è emerso da uno studio promosso da NESCAFÉ, che porta alla luce una problematica raccontata dal video-esperimento sociale ’’The Nextdoor Hello’’. L’indagine da cui si è preso spunto per l’esperimento è stata condotto con metodologia WOA (Web Opinion Analysis) su circa 1.800 italiani, uomini e donne di età compresa tra i 18 e i 65 anni. Il monitoraggio è avvenuto online sui principali social network, blog e forum per capire come sono cambiati nel tempo i rapporti nei condomìni italiani tra vicini di casa. «L’esperimento sociale The Nextdoor Hello è nato grazie all’individuazione di un fenomeno sempre più forte nelle città italiane, ovvero la crescente difficoltà delle persone di comunicare con i propri vicini di casa – afferma Matteo Cattaneo, Marketing Manager NESCAFÉ – L’obiettivo che abbiamo raggiunto è stato quello di dimostrare empiricamente, attraverso un concreto esperimento “sul campo” raccontato da un video, che è possibile ridurre le distanze venutesi a creare tra dirimpettai anche con un semplice gesto, come offrire una tazza di caffè». Ma perché questa diffidenza per i vicini di casa è sempre più marcata? Secondo il campione di italiani, il motivo principale sta nella frenesia della routine quotidiana che impedisce di approfondire qualsiasi rapporto che non riguardi il nucleo famigliare, le amicizie più strette o l’ambito lavorativo. Di conseguenza si ha a disposizione poco tempo per la socializzazione, scoraggiata ancora di più dall’aumentata percezione di microcriminalità e terrorismo attraverso i media (39 per cento). Quasi un italiano su 2 (49 per cento) teme di essere ignorato dal vicino, mentre il 32 per cento dei monitorati ha paura di risultare invadente e il 29 per cento sostiene di essere troppo timido. «Gli impegni lavorativi possono far vivere la propria abitazione soprattutto come luogo di riposo e rifugio proprio perché l’attività sociale viene già coltivata in altri ambienti, come il luogo di lavoro ad esempio – spiega il dott. Marco Costa, professore del Dipartimento di Psicologia dell’Università degli Studi di Bologna – Di conseguenza quando si è a casa, si cerca anzitutto un nido in cui vivere la privacy, la riservatezza e il riposo. In secondo luogo, nella società sta aumentando la mobilità e diminuisce il senso di attaccamento al luogo e anche al vicinato». Il problema è che spesso però il contatto con i vicini di casa è inevitabile fuori dalla porta di casa. Quando questo accade, come cercano di divincolarsi gli italiani che non amano il contatto coi condòmini? Ben 8 su 10 fanno proprio finta di niente (79 per cento), abbassando lo sguardo o facendo finta di scrivere un messaggio con lo smartphone. La seconda ’’via di fuga’’ cui si ricorre di più è la frase ’’Scusa ma sono di fretta’’ (68 per cento), seguita dalla variante ’’Sono in ritardo’’ (64 per cento). Il 45 per cento addirittura evita di utilizzare l’ascensore se già occupato da altri vicini, mentre il 39 per cento si assicura che sulle scale non ci sia nessuno quando esce di casa. «La prossimità spaziale tra vicini di casa è una potenzialità che non porta automaticamente all’interazione e alla solidarietà – spiega il dott. Giandomenico Amendola, professore di Sociologia Urbana nella Facoltà di Architettura dell’Università di Firenze – Essa non determina una spinta all’interazione e, men che meno, alla costituzione di solidi rapporti interpersonali. A maggior ragione, in un palazzo abitato da lavoratori, le occasioni di incontro sono inevitabilmente sporadiche e in genere molto rapide e formali. Andando ad analizzare i fattori che agiscono sui rapporti di vicinato, i principali sono l’omogeneità sociale-culturale e il tempo di residenza». Qual è l’identikit del ’’coinquilino asociale’’? Da quanto emerso dall’indagine sono soprattutto gli uomini a essere diffidenti nei confronti dei vicini di casa (69 per cento), contro il 53 per cento delle donne. La fascia di età che raccoglie più persone diffidenti con i vicini di casa è quella tra i 31 e i 50 anni (71 per cento), mentre scende al 60 per cento tra gli over 50 e al 51 per cento tra gli under 30. Il fenomeno è molto più forte tra gli abitanti dei grandi centri urbani del Centro-Nord come Milano (69 per cento), Torino (68 per cento), Venezia (66 per cento) e Bologna (64 per cento). Al Centro si verifica con minore intensità, come a Roma (57 per cento), mentre al Sud abbiamo Napoli (55 per cento) e Palermo (52 per cento). Tra le categorie più ’’asociali col vicinato’’ ci sono i manager (68 per cento), i liberi professionisti (65 per cento), gli avvocati (64 per cento), i bancari (63 per cento) e gli impiegati (62 per cento). «Per abbattere questi muri la ricetta è molto semplice – conclude lo psicologo Marco Costa – Basta creare attività comuni come pulizia dei luoghi condivisi o feste di condominio, occorre cioè creare degli obiettivi comuni in cui i condomini possono riconoscersi. Piccoli gesti come l’offrire un caffè od offrire cibo costituiscono anche attività che permettono d’incontrare gli altri senza la preoccupazione di dover interagire in modo personale, mitigando l’ansia di un contatto personale». Il sociologo Giandomenico Amendola afferma invece che «Tra i principali simboli della socializzazione tra vicini, il caffè ne è un esempio e appartiene alla tradizione nordamericana: l’espressione ’’popping into neighbours for a coffee’’ è infatti tipica dei sobborghi statunitensi contrassegnati da una forte omogeneità sociale. Proprio per ridare forza a questa tradizione di vicinato è nato il movimento dei Coffee Parties». Quali dunque gli effetti positivi della socializzazione tra vicini di casa? Al primo posto la scomparsa dell’imbarazzo nei successivi incontri con i condòmini (61 per cento), fatto che rende le persone più serene e meno timorose di incrociare i dirimpettai negli spazi comuni. In seconda posizione la consapevolezza di avere un appoggio in caso di bisogno (53 per cento); questo si può verificare per esempio quando manca un ingrediente in cucina o in caso di lievi incidenti domestici. Infine, al terzo posto, la maggiore intraprendenza nell’invitare i vicini di casa per condividere un momento di relax (44 per cento), per esempio davanti a un buon caffè.

L’ITALIA DEGLI INVIDIOSI.

(1901 - Luigi Capuana, Il Marchese di Roccaverdina, Vallecchi, Firenze, 1972) -  "E se c'era qualcuno che osava di fargli osservare che si era fatto sempre così, da Adamo in poi e che era meglio continuare a fare così, il marchese alzava la voce, lo investiva: - Per questo siete sempre miserabili! per questo la terra non frutta più! Avete paura di rompervi le braccia zappando a fondo il terreno? Gli fate un po' il solletico a fior di pelle, e poi pretendete che i raccolti corrispondano! Eh, sì! Corrispondono al poco lavoro. E sarà ancora peggio!" (p. 45) -  "Noi abbiamo quel che ci meritiamo. Non ci curiamo di associarci, di riunire le nostre forze. Io vorrei mettermi avanti, ma mi sento cascare le braccia! Diffidiamo l'uno dell'altro! Non vogliamo scomodarci per affrontare le difficoltà, nel correre i pericoli di una speculazione. Siamo tanti bambini che attendono di essere imboccati col cucchiaino... Vogliamo la pappa bell'e pronta!" (pp. 86-87)

(1913 - Grazia Deledda, Canne al vento, Mondadori, Milano, 1979) -  "Che posso fare, che posso io? Tu credi che siamo noi a fare la sorte? ... E tu, sei stato tu, a fare la sorte?" "Vero è! Non possiamo fare la sorte - ammise Efix." (p. 195) -  "Sì, - egli disse allora, - siamo proprio come le canne al vento, donna Ester mia. Ecco perché! Siamo canne, e la sorte è il vento." "Sì, va bene: ma perché questa sorte?" "E il vento, perché? Dio solo lo sa." (p. 240) 

(1915 - Norman Douglas, Vecchia Calabria, Giunti Martello, Firenze, 1978) -  "... qual è il più evidente vizio originario? L'invidia, senza il minimo dubbio." "D'invidia gli uomini patiscono e muoiono, per invidia si uccidono l'un l'altro. Produrre una razza più placida (con l'aggettivo 'placida' io intendo solida e riservata), diluire le invidie e le azioni da esse ispirate, è, in fin dei conti, un problema di nutrizione. Sarebbe interessante scoprire di quanto cupo arrovellarsi e di quanti gesti vendicativi è responsabile quel ditale di caffè nero mattutino." (p. 191)

(1930 - Corrado Alvaro, Gente in Aspromonte, Garzanti, Milano, 1981) -  "Glielo aveva detto tante volte di non menar vanto del figlio e di non gloriarsi dell'avvenire, perché l'invidia ha gli occhi e la fortuna è cieca. Signore Iddio, com'è fatta la gente! che non può vedere un po' di bene a nessuno, e anche se non hanno bisogno di nulla, invidiano il pane che si mangia e le speranze che vengono su." (pp. 68-69)

(1959 - Morris L. West, L'avvocato del diavolo, Mondadori, Milano, 1975) -  "Eccolo qui, il maledetto guaio di questo paese! La vedi bene anche tu la ragione per cui siamo di cinquant'anni più indietro che tutto il resto d'Europa. Non vogliamo organizzarci, non vogliamo neanche sentire la parola disciplina. Non vogliamo collaborare. Ma è impossibile costruire un mondo migliore con una zuppiera piena di pasta e un secchio d'acqua santa." (p. 111)

(1975 - Giuseppe Fava, Gente di rispetto, Bompiani, Milano, 1975) -  "Elena, hai mai pensato... quante volte, dinanzi alle cose che accadono, una sciagura, una malattia... l'essere umano ha un moto di disperazione e si chiede perché... la ragione delle cose voglio dire... nascere, poi soffrire o morire? Solo un attimo di ribellione, perché subito ognuno si rassegna all'idea che è Dio a muovere le cose e deve avere il suo segreto disegno. Così l'essere umano sopporta il suo destino; ma che altro può fare? Pensa che tutto deve necessariamente accadere, anche il dolore e la morte, e di questo fa la sua consolazione..." "E questo cosa c'entra con la miseria? Che c'entra con l'ingiustizia? Sono soltanto due cose umane: perché i poveri dovrebbero subirle?" "Perché quasi sempre il povero pensa che tutte le cose umane siano come la morte: la miseria, l'ignoranza fanno parte di questa fatalità. Altrimenti..." "Altrimenti cosa?" "Altrimenti da migliaia di anni gli uomini avrebbero già dovuto uccidere e sgozzare i potenti e i fortunati ... Di questo paese non ci dovrebbe essere più pietra su pietra." (pp. 163-164)

ITALIA, IL PAESE DOVE L’INVIDIA TRIONFA? Siamo davvero affetti da quella malattia chiamata invidia? Scrive “Plindo”. Perchè la tendenza degli italiani è quella di criticare sempre in negativo l’operato degli altri? Perchè spesso ci limitiamo a guardare solo con estrema superficialità le cose anziché approfondire e cercare di capire? In Italia davvero trionfa l’invidia? Oppure è diffusa in egual modo in tutto il mondo? La difficoltà delle persone ad andare oltre e cercare di capire qualcosa di diverso, è davvero grande. I più purtroppo si soffermano sull’aspetto più esposto dell’argomento senza scendere in profondità, arruolandosi il diritto di criticare e dare suggerimenti senza che nessuno li abbia richiesti. Tutto questo viene spesso si confonde con la libertà di pensiero. La libertà di pensiero non ha niente a che vedere l’invidia. Ed è giustissimo che ognuno di noi abbia la libertà di esprimere ciò che pensa come meglio crede, tuttavia è allo stesso tempo consigliabile informarsi, approfondire e cercare di capire altrimenti si corre il rischio che la nostra libertà di pensiero sia fraintesa per invidia. L’invidia nasce da un confronto tra noi e gli altri ed è sgradevole sia per chi la prova in prima persona che per chi la riceve. L’invidioso è una persona che desidera possedere ciò che altri hanno e che ritiene di non poter avere. Ci sono diverse tipologie di invidia. La prima è quella rabbiosa, la più pericolosa. Spesso chi ne è affetto non prova nemmeno a chiedersi se ha capito bene. Critica impulsivamente a spada tratta qualsiasi cosa, con quella rabbia (e talvolta ignoranza) tipica di colui che ha disperatamente cercato di farcela nella vita senza mai riuscirci realmente. La seconda tipologia di invidia è quella passiva, altrettanto pericolosa. Ne sono affetti quelli che provano un sentimento di invidia forte che però lo dimostrano con l’indifferenza più totale; quest’ultimi non muovono alcuna critica, semplicemente evitano di cooperare per non portare alcun tipo di vantaggio alla persona oggetto di invidia. Il terzo e ultimo tipo di invidia è quella che affligge coloro che inizialmente, per esempio, fanno concretamente parte di un determinato progetto, dopodichè, allontanandosi da questo per le più svariate vicissitudini, lo criticano in maniera feroce, tuttavia, in incognito. Pericolosissimi. E voi in quale tipologia di invidia vi ritrovate?

Se l’eguaglianza trasuda invidia. L’Italia paralizzata e la lezione americana sulla mobilità sociale, scrive Francesco Forte il 6 Maggio 2015 su “Il Foglio”. Wall Street Journal e Nbc News Poll hanno pubblicato un sondaggio dal quale risulta che la preoccupazione più grande per la maggioranza degli americani intervistati non è la diseguaglianza di reddito in sé, ma la mancanza di mobilità sociale, ossia chance uguali per tutti per andare avanti economicamente. Questa preferenza è molto più marcata tra i repubblicani che tra i filodemocratici: ma comunque solo il 37 per cento di questi ultimi si preoccupa della diseguaglianza più che della mobilità. Fra i filorepubblicani quelli che hanno a cuore la riduzione della diseguaglianza più della mobilità scendono al 15 per cento. Ma il dato che più colpisce è che solo il 34 per cento di coloro che stanno in classi di reddito inferiore ai 30 mila dollari (25 mila euro) annui assegna alla diseguaglianza un’importanza maggiore della mobilità. Le donne che si preoccupano più della diseguaglianza che delle opportunità di modificarla sono solo il 25 per cento contro il 32 degli uomini. Temo che i risultati in Italia siano diversi, data la facilità con cui incontrano più consenso quelli che sostengono la patrimoniale, il reddito minimo garantito, il posto fisso, le imposte progressive, rispetto a quelli che vorrebbero l’ascensore sociale più a portata di mano e la meritocrazia. Forse ciò dipende dal fatto che sino agli anni 50 quasi metà della nostra popolazione viveva di agricoltura e che la maggioranza agognava ad avere un pezzo di terra da coltivare, nel proprio paese, con la casa sopra. Erano stanziali, abitudinari. Invece gli americani avevano il carro dei pionieri, erano mobili; allevavano il bestiame, più che coltivare orti e poderi con la coltura intensiva. Ma c’è anche il fatto che da noi la sinistra politica dall’Ottocento in poi si è imbevuta della lotta di classe, della concezione marxista, per cui il ricco è generalmente uno sfruttatore del lavoro altrui. Va invidiato, tartassato o espropriato, non ammirato e imitato. Non credo che ciò abbia a che fare con l’etica cattolica, in confronto alla protestante, secondo la vulgata di Max Weber. Infatti nell’Italia del Rinascimento la ricchezza era oggetto di ammirazione, assieme alla bellezza. E ciò non solo nei vestiti, nelle carrozze e nelle case dei signori, ma anche nelle cattedrali e nelle vesti dei prelati. Del resto, c’è stata un’epoca, negli anni 80 dello scorso secolo, in cui è sembrato che, insieme al trionfo della televisione, ci fosse anche quello della mobilità sociale, con la riduzione delle diseguaglianze nelle opportunità e la dinamica della competizione al primo posto rispetto alla riduzione delle diseguaglianze nei redditi. Ora abbiamo i No Tav, i No Expo, i No all’abrogazione dell’articolo 18, i No al cambiamento di mansione, di sede, di incarico, di turnazione. La richiesta del reddito di cittadinanza, il bonus in rapporto inverso al reddito e non in proporzione alla produttività, la tutela dall’inflazione per le pensioni minime e in proporzione inversa all’aumento del loro livello, non in base ai contributi versati, e via elencando. A ciò consegue un tasso di crescita del paese che è solo dello 0,6 per cento del pil e un’elevata disoccupazione generale e giovanile. Tu l’as voulu, George Dandin.

Briatore: è l’Italia degli invidiosi. "Da questo Paese si deve fuggire". La scelta dell’imprenditore: "All’estero ammirano chi ce la fa", scrive Leo Turrini il 23 luglio 2016 su “Il Quotidiano.net”.

«Giù le mani da Bonolis! E comunque esiste soltanto una soluzione...».

Sarebbe a dire?

«Lasciarsi alle spalle l’Italia, diventata la patria dell’invidia sociale».

Flavio Briatore non capisce più il Paese delle origini. Lui, sette volte campione del mondo di Formula Uno con Michael Schumacher e Fernando Alonso, non si sottrae al ruolo di simbolo. Di una opulenza mai nascosta, per capirci.

«Io ormai ho rinunciato a comprendere i miei connazionali – sbotta il manager piemontese – Non vi capisco più».

Cosa abbiamo fatto di male?

«Vede, io non voglio scomodare Trump, il discorso nemmeno riguarda la politica. Qui parliamo di una cultura negativa impossibile da estirpare. C’è una differenza enorme tra gli italiani e gli americani, gli inglesi, eccetera».

Quale differenza?

«All’estero ammirano chi ce la fa, chi conquista il successo. Chi diventa ricco per meriti suoi si trasforma in un simbolo positivo».

Da noi invece...

«Ma prenda proprio il caso di Bonolis! A parte il fatto che immagino abbia preso un aereo privato per ragioni di famiglia, mica ha sperperato soldi pubblici. Uno sarà libero di usare il suo denaro come meglio crede o no?».

Beh, non fa una piega.

«Le dirò di più. Basta con questi moralismi da strapazzo. Bonolis è un grande professionista della televisione, uno showman che muove un cospicuo giro d’affari. Ogni sua produzione genera centinaia di posti di lavoro! Di cosa stiamo parlando, mi scusi?».

Forse di niente.

«Eh, bisognerebbe spiegare ai ragazzi che la ricchezza non va detestata. In Italia invece l’invidia sociale si trasforma addirittura in odio. Dovremmo augurarci di stare tutti meglio, ma prevale l’idea assurda che tutti dovremmo stare peggio».

Il trionfo del pauperismo.

«E infatti non se ne può più. Quando ho aperto il Billionaire in Sardegna, mi descrivevano come un nemico del popolo. Ma se spendo soldi miei e rispetto le leggi, di cosa dovrei sentirmi colpevole? Di avercela fatta?».

«Anche i ricchi piangano», recitava uno sfortunato slogan elettorale.

«Appunto. Non sono ottimista perché sradicare un sentimento così profondo non è impresa facile. Infatti io ho preso una decisione ormai venti anni fa e non mi sono mai pentito».

È andato a vivere all’estero.

«Sicuro. Potendo, dall’Italia bisogna andarsene».

Magari con l’aereo di Bonolis. Ma Briatore non tornerebbe nemmeno se lo chiamasse la Ferrari?

«Per carità! Io la Formula Uno non la seguo più da tempo. E comunque anche la Ferrari, per tornare a vincere, deve andare all’estero».

Addirittura.

«O Marchionne apre una base tecnica in Inghilterra o le vittorie se le scorda, si fidi».

L’invidia in Italia …il piccolo decalogo dell’invidioso cronico, scrive Beppe Servegnini (da Il Corriere della Sera, giovedì 16 febbraio 2012, pag. 45). Come attaccare chiunque abbia successo in un Paese di simpatici demagoghi. Una settimana senza Internet, terminata ieri a mezza­notte (questa rubrica è stata dettata). Una quaresima 2.0 che mi ha evitato di commentare due sconcertan­ti esibizioni dell’Intere una di Adriano Celentano: le prime, diciamo, non me le aspettavo. La quarta figuraccia – candidarci per un’Olimpiade che non possiamo permet­terci- è. stata evitata. L’Italia ha bisogno di manutenzione, non di un’altra (costosa) inaugurazione. Un altro tema che avrei volu­to discutere in settimana è l’assalto scomposto a Silvia Deaglio, giovane professoressa associata dì medicina presso l’Università di Torino, figlia dell’economista Mario Deaglio e del ministro El­sa Fornero. Non la conosco di persona; mentre, se non ricordo male, ho incontrato due volte il papà e una volta la mamma (che mi ha salutato con una domanda tremenda). Ma ho letto l’appun­to di Tito Boeri per lavoce.info - arrivato per fax, sempre a cau­sa del digiuno digitale. Leggo: Silvia Deaglio è quattro volte so­pra la media per l’indice H (che misura il numero di lavori scien­tifici in rapporto al numero di citazioni ricevute). In queste valu­tazioni internazionali – credetemi – mamma e papà non conta­no. Tutto lascia pensare che la connazionale sia una giovane don­na in gamba. L’astio delle reazioni, tuttavia, mi ha fatto pensare, Affinché sia più facile, in questo Paese di sim­patici demagoghi, attaccare indi­scriminatamente chi ha successo, ho pensato di stilare il piccolo de­calogo dell’invidioso cronico.

1. Chi ha successo ha certamen­te inlbrogIMo.Altr.ib1ehti avresti avuto successo pure tu. O no?

2. In Italia nulla è metodico, sal­vo il sospetto.

3. A pensar male si fa peccato, ma si indovina. Senza dimentica­re che per il peccato, poi, c’è l’assoluzione.

4· Chiunque ottenga apprezzamento pubblico, dimostra che il pubblico non capisce niente.

5· La mediocrità è un esempio di democrazia applicata. lI merito, una forma di arroganza.

6. Se esiste il minimo comune denominatore, scusate, perché insistere nel dare il massimo?

7· Nella conventicola dell’università italiana, è possibile solo il modello Frati (il rettore della Sapienza dov’è accademicamente sistemata tutta la sua famiglia). II resto è ipocrisia applicata.

8. I genitori di successo possono – anzi, devono – produrre soltanto figli infelici e frustrati. In caso contrario, l’onere della prova spetta a questi ultimi: dimostrate di non avere imbrogliato, marrani!

9· Bisogna diffidare del plauso internazionale. Come si per­mettono americani, inglesi e tedeschi di farci i complimenti? Co­sa contano le università di Columbia e Yale, che oltretutto si chia­mano come una casa cinematografica e una serratura?

1o, Quando si tratta di concorsi, incarichi, titoli e promozioni l’importante è fare di tutta l’erba un fascio. E se qualcuno vi accusa per questo, urlategli in faccia: «Fascista sarà lei!”.

Invidiosi o gufi, quando la politica non tollera i diversi. L’eterna abitudine a isolare chi ha opinioni diverse, scrive Mattia Feltri il 24/11/2014 su “La Stampa”. C’è una parte di sinistra, dice il sindaco di Firenze, Dario Nardella, che «sembra assecondare l’Italia invidiosa». Dunque chi è perplesso o apertamente contrario alle politiche di governo non è che la pensi in altro modo, semplicemente è invidioso: termine contenuto nel vocabolario renziano fra gufi e rosiconi, come il premier è abituato a definire gli avversari. Se è un peccato, lo è doppio. Primo perché non è un linguaggio nuovo: erano «invidiosi», secondo Silvio Berlusconi, quelli che lo attaccavano nei giorni tumultuosi delle olgettine; erano «invidiosi», secondo Roberto Formigoni, quelli che prevedevano sconfitte del centrodestra in Lombardia; erano «invidiosi», secondo l’allora leader dei giovani di Forza Italia, Simone Baldelli, i coetanei di sinistra che deridevano una loro iniziativa (e da cui erano chiamavano «piazzisti», tanto per sottolineare la profondità dell’analisi). Sui gufi c’è da star qui mezza giornata. Erano «gufi» e pure «cornacchie» appollaiati sulla Quercia, secondo il fondatore di Alleanza nazionale, Gianfranco Fini, quelli che si aspettavano la crisi del primo governo Berlusconi, 1994; erano «gufi» (e di nuovo «cornacchie»), sempre secondo Fini, quelli che nel 2004 davano in discesa il suo partito; erano «gufi», secondo Dario Franceschini, quelli che nel 2009 vedevano il Pd in difficoltà nel posizionamento europeo (coi socialisti o coi popolari?); erano «gufi» e «veterocomunisti», secondo Berlusconi, i contendenti di centrosinistra. I gufi da queste parti svolazzano da molto prima che li avvistasse Renzi, e ora che li ha avvistati parlano tutti di «gufi»: Beatrice Lorenzin, Nunzia De Girolamo, Luigi De Magistris. È un peccato - secondo motivo - perché i rottamatori non hanno rottamato un metodo fastidioso, il metodo di attribuire a chi è in disaccordo secondi fini inconfessabili perché meschini o loschi. Il sostantivo più usato nel ventennio della Seconda repubblica è «malafede». Sono stati dichiarati in malafede Francesco Rutelli da Francesco Storace, l’intero Pds da Maurizio Gasparri, l’intera An da Luigi Manconi, l’intero centrodestra da Luciano Violante, Massimo D’Alema da Pier Ferdinando Casini, Walter Veltroni da Adolfo Urso, Umberto Bossi da Barbara Pollastrini, Giulio Tremonti da Vincenzo Visco, l’intera Forza Italia da tutta la Margherita, l’intero Ulivo da Renato Schifani, Piero Fassino da Giorgio Lainati, i fuoriusciti del M5S dai non fuoriusciti del M5S...Potremmo andare avanti fino all’ultima pagina di questo giornale, ma tocca segnalare che gufi, rosiconi, invidiosi e disonesti sono tutti figli dei coglioni - linguisticamente e psicologicamente parlando - con cui Berlusconi tratteggiò gli elettori di sinistra nella campagna elettorale del 2006. Se qualcuno non è convinto dalle tue ricette, è un coglione. E siccome la vita è un andirivieni da tergicristallo, a loro volta gli elettori di centrodestra erano irrimediabilmente «coglioni» (o, con le attenuanti, «fessi») secondo l’analisi di Dario Fo; Antonio Di Pietro, assecondando le sue attitudini, li iscrisse in un politico registro degli indagati in quanto «complici».  Un meraviglioso ribaltamento della logica spinge a escludere di essere un po’ tardo chi non capisce gli altri: sono gli altri a essere tardi. Ci abbiamo messo del nostro anche noi giornalisti, poiché negli anni si sono letti autorevoli commentatori parlare - per esempio - della «dabbenaggine» e della «complicità nella furbizia illegale» degli ostinati sostenitori di Forza Italia, che a sua volta - secondo esempio - prendeva i voti nella «zona grigia dell’illegalità fiscale» (per non parlare delle perpetue e reciproche accuse di servaggio fra star dei quotidiani). Gli evasori votano Berlusconi, in Sicilia chiunque vinca è perché lo ha votato la mafia, in Italia chiunque vada al governo è a ruota dei padroni e della finanza globale. Una così solida indisponibilità a prendere in considerazione le ragioni degli interlocutori non aveva bisogno dell’esplosivo sbarco sul pianeta della politica di Beppe Grillo (annunciato con un benaugurante vaffanculo). Lui ha riunito in una banda planetaria di farabutti, o in alternativa di imbecilli, chiunque non si inebri alle sue sentenze. A proposito, eccone una delle più rilassate: «Il vero gufo è Renzi».

Il secondo vizio capitale degli Italiani: l’invidia. Che si appunta più sui lontani che sui vicini, scrive Nico Valerio. “Essere stati onesti non ci è convenuto”, ragioneranno tra sé e sé i ministri italiani che una volta tanto hanno fatto gli americani dichiarando pubblicamente redditi, proprietà e perfino numero e modello di automobile posseduta. L’invidia generale, il secondo vizio capitale in Italia, dopo l’antipatia, si è appuntata su di loro. Ma è un falso bersaglio. E anche lo stesso tiro con l’arco in questo caso è uno sport sbagliato. E così, ancora una volta l’Italiano medio si rivela. I paesani, si sa (l'Italia è il classico Paese di provincia), sono invidiosi se un loro concittadino, ritenuto a torto o a ragione "uguale a loro", ha più successo o guadagna di più. Ma vista l’ipocrisia sociale del municipalismo e della meschina solidarietà di quartiere o borgo, di solito l’invidia si appunta meno sui vicini di casa, che un giorno potrebbero esserti utili, che sui personaggi lontani e inaccessibili. Come i governanti e i politici, appunto, ma anche gli attori, i presentatori della televisione, i calciatori e qualunque “personaggio pubblico”. Così anziché lodare l’autodenuncia all'anglosassone di redditi e proprietà da parte dei ministri del governo Monti, su internet e sui giornali i concittadini li stanno investendo di ironia, astio, critiche di ogni tipo. Eppure, sono sicuri questi invidiosi che davvero gli piacerebbe la vita che fanno (e hanno fatto, per arrivare a questo punto della loro carriera) quei ricchi ministri “tecnici” (finanzieri, economisti di grido, industriali o avvocatoni)? Conoscendo bene gli Italiani, rispondo di no. Gli Italiani, certo, vorrebbero la pappa già cotta, ma nessun sacrificio per ottenerla. Nessun italiano medio appena benestante resterebbe così a lungo con auto così vecchie come quelle denunciate dai ministri. Dunque è solo pura (in realtà non c’è nulla di più impuro dell’invidia) invidia sociale e personale. Impura, perché anziché impegnarsi a studiare o a fare comunque imprese geniali o cose creative in genere, cioè a misurarsi nella scala del merito individuale, gli Italiani invidiosi invidiano il risultato, fortuito o meno, di quelle altrui imprese: il successo economico. Ovvero, l’ultimo gradino. E’ come se uno scalatore invidiasse un altro soltanto per essere arrivato sul Monte Bianco, senza calcolare tutta la sua preparazione, magari ultradecennale, e comunque l’intera e difficoltosa salita. L’impiegato tipo, in particolare (categoria da cui solitamente vengono le critiche e le invidie maggiori), uomo o donna che sia, che spesso ha scelto o si è accontentato di questo lavoro proprio per la sua manifesta tranquillità, per il minimo potere decisionale e quindi per la quasi nulla responsabilità personale, non può invidiare chi da solo, rischiando e impegnando tutta la propria personalità, coi relativi alti rischi, persegue posizioni elevate in cui proprio le capacità personalissime di giudizio critico e decisionali sono gli elementi che procurano alti guadagni. Un grande errore, perciò, questo genere di invidia lavorativa. E poiché l’invidia ottunde la ragione anche dei pochi intelligenti, gli invidiosi non capiscono che l’autodenuncia dei ministri serve nei Paesi liberali a mettere in luce preventivamente eventuali interessi in conflitto, non a favorire invidie e moralismi da strapazzo. In un sistema liberale è lecito e perfino auspicabile che la gente guadagni e diventi ricca, se lo vuole e può, perché si presume, fino a prova contraria, che c’entri in qualche misura un particolare merito. Ecco perché le raccomandazioni o le cordate di “amici”, e i privilegi in genere sono o malvisti o addirittura puniti severamente. Come atti di “concorrenza sleale” o illecita. Benissimo, quindi, se un concittadino è diventato meritatamente ricco. A patto però che non solo paghi tutte le tasse, ma che abbia (come i liberali ricordano sempre alla borghesia) anche dei doveri, che insomma sia grato alla società per la possibilità insolita che ha avuto, e che quindi sia sempre attento ai bisogni delle classi meno abbienti e povere. E invece alcuni ministri “tecnici” ricchi, non provenendo dalla politica, e non avendo perciò quel minimo di frequentazione diretta dei ceti disagiati o poveri dell’elettorato, sono apparsi insensibili quando hanno scelto di tassare ancor più i ceti medi e bassi, anziché quelli alti (per es., operazioni di finanza, banche, assicurazioni) e di svendere inutili enti o proprietà di Stato. E sono apparsi odiosi quando hanno ironizzato sui “fannulloni” o sugli “impiegati pigri” o sugli “sfigati” che guadagnano 500 o 1000 euro al mese, come se tutti costoro fossero degli incapaci. In realtà la psicologia ci insegna che il vedersi sbarrata ogni strada elevata dal sistema della raccomandazione e delle “amicizie giuste”, spesso ereditate dalla famiglia, può far cadere in depressione e abulia individui anche di valore. Stiano attenti, perciò i neo-politici tecnici o i ministri ricchi a ostinarsi a frequentare solo i pari grado sociale, cioè i ricchi e potenti. Accade invece nei veri Paesi liberali che sono quelli anglosassoni, forse nello spirito antico del calvinismo e luteranesimo (religioni che a differenza del cattolicesimo non vogliono le sfacciate ostentazioni e ritengono successo e soldi una sorta di riconoscimento di Dio), i ricchi, politici o no, per farsi in qualche modo perdonare di aver ricevuto più di quanto hanno dato nella grande partita a poker che è la vita, non solo facciano beneficienza a larghe mani, non solo finanzino premi e fondazioni e istituti di ricerca scientifica, favoriti anche dall’esenzione fiscale, ma svolgano addirittura “lavori socialmente utili”. Come appunto, se ne sono capaci, quello quasi onorifico di aiutare a gestire la cosa pubblica. Ecco, dopo ricchissimi padroni delle ferriere che hanno depredato il Paese pensando egoisticamente solo ai propri interessi economici, fiscali e giudiziari, dopo ministrucoli senza arte né parte che privi di altre occupazioni (tanto meno studi, figuriamoci!) hanno preso la Politica come unica fonte delle loro ricchezze e dei loro privilegi, ci piace immaginare che i super-ricchi del governo Monti stiano svolgendo, pur con gli inevitabili errori e limiti (devono essere votati in Parlamento proprio dai Partiti che hanno combinato o sottovalutato dolosamente il disastro economico) una sorta di anno sabbatico a favore del Paese. E il fatto che qualcuno di loro abbia rinunciato almeno allo stipendio di ministro avvalora questa sensazione del tutto nuova, ma anche un po’ antica, che ci riporta ai tempi dell’800, quando fare politica era quasi un “servizio”, un “dovere civile”. E c’erano deputati ricchi che si impoverivano a causa della politica. “Ma perché i governanti devono per forza essere ricchi?” chiedono i cittadini comuni. E’ vero, ci sono stati parlamentari che al momento di entrare alla Camera o al Senato erano operai o disoccupati, e tuttora non pochi parlamentari italiani hanno come unico reddito lo stipendio. Ma, attenzione, questi sono proprio i famigerati “politici di professione”, quelli più malvisti dal pubblico. Ed anche l’avvocato che smette la professione per fare il deputato, alla lunga diventa un politico di professione. Però lo stipendio in Italia è tale da trasformare un povero in un benestante, e dopo un’intera legislatura, in un ricco. Per i governanti, poi, lo stipendio totale è ancora più alto, anche se di poco. E’ quindi impossibile che chi siede al Governo sia povero. Diversissimo, invece, il caso dei tanti dirigenti o managers di Stato (e anche privati) che dimostrano quotidianamente di non meritare affatto l’alto stipendio guadagnato, e ancor meno la pensione d’oro. In questo caso la critica popolare, pur manifestata con i colori sgradevoli dell’invidia, svolge un ruolo prezioso. Può aiutare a farli vergognare di se stessi.

 ITALIANI SCROCCONI.

Manuale dello scroccone 2.0. Esaltato al cinema e nel rap, sempre senza spiccioli (ma con l’app giusta). Gli psicologi: «Immaturo e narciso». «Non chiede mai, però seduce bene», scrive Roberta Scorranese il 7 febbraio 2017 su "Il Corriere della Sera". Gli scrocconi navigati vivono di sottigliezze che si traducono in alcuni, fondamentali, imperativi: mai uscire con gli spiccioli in tasca, anzi, quando è ora di pagare il caffè eccoli tirare fuori il bigliettone (come il Signor Bonaventura con il suo Milione) e con l’aria affranta sospirare: «Mi spiace, hai da cambiare?»; mai lamentarsi per la penuria di soldi: lo scroccone vero ostenta abitudini para-aristocratiche, modi sopraffini, snob. E poi gli sbafatori nascono nell’epoca a loro più congeniale, quella in cui alle difficoltà economiche diffuse si aggiunge una generale propensione all’impunità, alla faccia tosta, alla smentita facile. Insomma, la nostra. Per esempio, nel brano Senza pagare di Fedez e J-Ax, incluso nell’album Comunisti col Rolex, si rappa così: «Questa sera andiamo in disco/ Entriamo con il timbro/... Scroccare è ancora meglio che esser ricco». Ne parla Camilla Baresani nel suo libro Gli Sbafatori mentre nel suo ultimo film, Mister Felicità, Alessandro Siani è un giovane indolente napoletano che vive in Svizzera a casa della sorella. Forse il XXI secolo è perfetto per questa antica ma viva categoria, tanto è vero che tra le numerose piattaforme di crowdfunding, cioè la raccolta fondi «dal basso» per sostenere i progetti più disparati, ne spunta una dedicata alle scroccherie. Il sodalizio in Rete Si chiama Bumers: ti iscrivi e chiedi che gli altri («amici e conoscenti», precisano i responsabili dell’iniziativa) ti paghino un caffè, una rata del mutuo, un ingresso alle terme. Minuzie, poiché lo sbafatore vero non accetterebbe mai una donazione troppo ingombrante: lo umilierebbe, gli ricorderebbe impietosamente la sua natura. Una natura, come ammette Massimo Bustreo, ricercatore di Psicologia dei Consumi allo Iulm di Milano, «immatura, narcisistica: l’atto del pagare qualcosa presuppone la responsabilità adulta di lavorare e quindi di guadagnare. Gli scrocconi invece sono eterni bambini, i quali pensano che sia loro tutto dovuto». Nascono qui le loro maniere, che non sono mai aggressive o maleducate, ma garbate, simpatiche, seducenti. Come lo Zelig di Woody Allen, che si adatta a persone e situazioni. «Lo scroccone autentico non ti chiederà mai esplicitamente di pagargli una gita, ma ti farà credere di essere così esperto di pesca e di così buona compagnia da indurti a invitarlo», osserva Paolo Legrenzi, psicologo cognitivista. Come accadeva al conte Gentilissimi, vittima dello scroccone Celestino nel romanzo di Achille Campanile: il nobiluomo malediceva il parassita (che, oltre a mangiare a sbafo in casa sua, gli risolveva le parole crociate, cosa all’epoca odiosissima, come se oggi vi «spoilerassero» una puntata di Homeland), sì, però poi si scopriva dipendente da questo e qualche volta lo invitava di sua iniziativa. Vuoi vedere che la cosa più difficile sta nel riconoscerli? «Sì — conferma Bustreo, autore di Denaro e Psiche e di Tesi di laurea step by step —, quelli davvero bravi costruiscono una relazione privilegiata con la vittima». Ma se la vittima è ben disposta, perché no? Non tutti gli scrocconi sono nocivi. Sì, se un rapporto parassita/ospite accontenta entrambi, ben venga. Come nel romanzo di Thomas Mann Confessioni del cavaliere d’industria Felix Krull: un giovane spiantato accetta di assumere l’identità di un ricco signore e di girare il mondo a spese di questo. Utilitarismo Legrenzi cita la visione utilitaristica per eccellenza: «Detto in estrema sintesi, Jeremy Bentham sosteneva che un’azione è giusta se produce la massima felicità possibile per tutti. Se dunque tutti sono appagati da una norma, perché non applicarla?». O, in altri termini: se oggi tutti ammiriamo una showgirl che sui social network ostenta abiti, gioielli, vacanze mai pagate ma «gentilmente offerte» da aziende desiderose di visibilità, non stiamo forse avallando uno scrocco elegante? E se guardiamo alla nostra vita quotidiana, quanto sbafo vediamo? Dai video tutorial su YouTube al wi-fi rubacchiato al vicino il quale magari sta scroccando una piattaforma di canali satellitari e così via. Viviamo in un’epoca in cui la condivisione ha maglie larghe. E nella quale c’è spazio per la forma di scrocco forse più pericolosa: il parassitismo sentimentale. Forse questo dovremmo imparare a riconoscerlo bene e ad evitarlo.

ITALIA. IL PAESE DEI LADRI.

Il ladro ha sempre ragione, scrive Giovedì 21 settembre 2017 Massimo Gramellini su "Il Corriere della Sera". L’assurda pretesa di licenziare un dipendente che ruba ha trovato finalmente un argine nella storica sentenza emessa dalla giudice Ilaria Pozzo del tribunale di Chieti. Si tratta del caso lacrimevole di un impiegato delle Poste che aveva sottratto quasi 15.000 euro dalla cassaforte dell’ufficio per devolverli in opere di beneficenza a se stesso. A tradirne gli slanci vitali era stata una sordida intercettazione telefonica, durante la quale il brav’uomo, ferito dalle allusioni malevole dei colleghi, manifestava a un amico la nobile intenzione di ricollocare i bigliettoni nel loro precedente alloggio. Anziché premiare la sua generosità, gli investigatori lo avevano incriminato. Peggio ancora si erano comportati i suoi capi: animati da sospetti scrupoli garantisti, si erano rifiutati di licenziarlo, limitandosi a sospenderlo e a trasferirlo di sede, in attesa della sentenza. Solo a quel punto si erano degnati di mandarlo via. Ma è stata proprio questa loro bizzarra timidezza a tradirli. La giudice del lavoro ha sancito che il licenziamento, per essere valido, andava sfornato a caldo come un’omelette. Averlo cacciato soltanto in seguito a una sentenza di condanna è stata un’infamia ai danni del povero ladro, che adesso potrà tornare alla sua cassaforte preferita e pretendere anche il pagamento degli stipendi arretrati. Una decisione che lascia francamente esterrefatti. Nella patria del diritto e dei dritti ci saremmo quantomeno aspettati il licenziamento in tronco degli impiegati onesti e la nomina del ladro a capufficio.

Ruba alle Poste: impiegato licenziato dopo la condanna, ma un giudice ordina reintegro e il pagamento degli arretrati. L'addetto dell'ufficio di Vasto aveva sottratto il denaro dalla cassaforte di cui aveva le chiavi. Incastrato dalle intercettazioni e sospeso, venne licenziato solo dopo la sentenza di primo grado, ma ora ha vinto il ricorso: il tribunale del lavoro punisce l'ente perché avrebbe dovuto cacciarlo subito, scrive Paolo G. Brera il 20 settembre 2017 su "La Repubblica". L'impiegato infedele, condannato e licenziato per aver rubato 15mila euro dalla cassaforte dell'ufficio postale di Vasto, dovrà essere reintegrato con tante scuse: il giudice del Lavoro ha annullato il licenziamento ordinando a Poste Spa di versargli un anno di stipendi arretrati e pagare le spese legali. E se la sentenza comminata dal giudice del Lavoro del tribunale di Chieti, Ilaria Pozzo, suona paradossale, aspettate di sentire la motivazione: anziché trasferirlo, sospenderlo e attendere prudentemente la fine del processo di primo grado, a norma di legge l'ufficio in cui era impiegato avrebbe dovuto licenziarlo in tronco. Dopo cinque anni di battaglia legale P.R., 58 anni, il 22 agosto dello scorso anno era stato condannato in primo grado a un anno e nove mesi dal tribunale penale di Vasto per appropriazione indebita. Nell'estate del 2012 era riuscito a sottrarre 14.500 euro dalla cassaforte, di cui aveva le chiavi, nella sede centrale delle Poste di Vasto, dove lavorava all'epoca. A tradirlo era stata un'intercettazione ambientale e telefonica: aveva catturato una conversazione privata in cui, sapendo di essere sospettato dai colleghi e sentendo sul collo il fiato degli inquirenti, valutava se fosse il caso di restituire il bottino: "Mi sa che mo' glieli riporto...". Un paio di mesi dopo il furto, a ottobre 2012, la direzione lo trasferisce a Chieti. E quando scattano le misure cautelari disposte dal giudice delle indagini preliminari, il dipendente infedele viene subito sospeso dal lavoro; per poi essere reintegrato il 12 maggio 2014, un anno e mezzo dopo, su istanza dei suoi avvocati Carmine Di Risio e Marialucia D'Aloisio. Infine con la sentenza di condanna penale in primo grado, il 22 agosto 2016, le Poste rompono gli indugi: a fine ottobre fanno scattare il licenziamento, subito impugnato dai legali del postino. Al quale, per altro, era andata decisamente bene anche in sede penale: difeso dagli avvocati Giovanni e Antonino Cerella, era riuscito a evitare la condanna per il reato ben più grave di peculato, di cui era accusato, cavandosela con un anno e nove mesi per appropriazione indebita, con pena subito sospesa e ricorso in Appello da istruire. Ma è di fronte al giudice del Lavoro che avviene il capolavoro del reintegro, con tanto di pagamento degli arretrati: "La società - è scritto nella sentenza - disponeva sin dal 2012 di tutti i dati sufficienti per procedere a una contestazione disciplinare". L'attesa "della sentenza di condanna", quindi, "non si giustifica": la "contestazione formale" è "irrimediabilmente tardiva". Dunque: di fronte al furto e con le indagini in corso, le Poste lo avevano subito trasferito a Chieti e sospeso. Ma avevano dovuto riammetterlo al lavoro, su istanza dei suoi legali, dopo una serie di decreti ingiuntivi per recuperare gli stipendi che rifiutavano di pagargli. Così, rieccolo in ufficio a Chieti; ma tenuto a scaldare sedie o poco più, parcheggiato in attesa di condanna, e tuttavia anche questo ora rischia di essere un passo falso: per il demansionamento si profila una nuova battaglia legale...Intanto, postino e avvocati si godono la vittoria per ko: "Sono contento - ha detto P.R. al sito vastese Zonalocale - di poter ricominciare a lavorare. Sto rivedendo la luce e, con me, la mia famiglia che mi ha sempre sostenuto". "Il giudice - spiega l'avvocato Di Risio - ha applicato un principio di civiltà, perché il fatto deve essere contestato tempestivamente al lavoratore altrimenti si annulla il diritto alla difesa. Basta pensare alla difficoltà di cercare testimoni su fatti vecchi un quinquennio. Non è la sentenza a essere assurda, sono loro ad aver agito in modo sbagliato". Nella denuncia presentata dal direttore delle Poste, sostiene il collegio difensivo dell'impiegato postale, dicevano di aver svolto accertamenti e trovato riscontri: avevano già tutti gli elementi per licenziare, insomma. Ma non l'hanno fatto, e dopo il danno ecco la beffa.

Il libro di Vittorio Feltri: ecco perché l'Italia è un Paese di ladri impuniti, scrive il 12 Settembre 2017 Vittorio Feltri su "Libero Quotidiano". Pubblichiamo un estratto del libro di Vittorio Feltri Chiamiamoli ladri (Mondadori) da oggi in libreria. Che sia Roma, che sia quello che Gianfranco Miglio chiamava la «palude tiberina» a corrompere fatalmente gli italiani da millenni, inesorabilmente? È noto, e a New York ne menano vanto, che esiste una teoria secondo cui ci sia una particolare energia elettrica e magnetica che attraversa quella metropoli e in particolare Manhattan e renda gli abitanti della città particolarmente attivi, incapaci di pigrizia, sempre pronti intellettualmente e muscolarmente ad agire. Questa tesi fu riferita per la prima volta da Luigi Barzini, non ricordo se senior o junior, ma so che colpì anche Indro Montanelli, che la condivideva, secondo quanto me ne riferì Gaetano Afeltra. Quando l'Italia è diventata così? C' è forse una scuola di pensiero che ha trasmesso questi caratteri? Non credo. Non ci sono infatti filosofie di timbro italico che giustifichino apertamente il latrocinio. Evito di considerare, per non allargare il campo dell'indagine, il furto di Stato rappresentato dall' eccesso di imposizione fiscale in cambio di servizi inesistenti. E quello allo Stato, rappresentato dall' evasione fiscale. Sono entrambi furti, il primo biasimato soprattutto a destra, il secondo dalla sinistra. Il risultato è che, quando regge le redini dello Stato, neppure la destra abbassa le tasse. E sia che governi Berlusconi, sia che comandino Renzi o Gentiloni, la mano sinistra non è diversa dalla destra, come dimostrano ampiamente le fughe all' estero di qualche milioncino di euro dei compagni artisti, tipo Milva e Gino Paoli. Resta agli atti la giustificazione estetica del latrocinio erariale, per cui il furto subito da chi versa il tributo a Cesare senza averne in cambio servizi adeguati è in realtà una pratica goduriosa sia per chi la pratica sia per chi la subisce.

Mi fermo alla formula «le tasse sono una cosa bellissima», pronunciata il 7 ottobre 2007 dal ministro dell'Economia Tommaso Padoa-Schioppa, figura di politico onesto e colto, ma dotato di un gusto molto originale. Fece perdere alla sinistra le elezioni del 2008, perché gli italiani forse sono stati contagiati dalla moda sadomaso delle «cinquanta sfumature di grigio», ma a letto, e non con il commercialista. Neanche prendo in considerazione qui la teoria dell'esproprio proletario, perché dovrei infilarmi a lottare con Karl Marx e non ho il fisico. Di sicuro, però, gli italiani hanno afferrato da soli il concetto: peggio della destra c' è solo la sinistra. Certo la questione dell'evasione fiscale è seria, specie perché non è sentita come moralmente riprovevole dalla grandissima parte dei connazionali. È un furto nei confronti di quei cittadini che le tasse le pagano tutte, una disuguaglianza che tocca livelli abissali quando l'evasore non si limita alla complicità con l'idraulico, ma i suoi milioni o miliardi prendono la strada delle Cayman o di Singapore. Sia chiaro, non parlo dell'evasione da sopravvivenza: essa è autorizzata persino dal catechismo, che assolve la madre la quale si appropria della roba altrui per sfamare i figli. Il problema è che poi si è un po' esagerato con l'analogia. E così l'evasione viene teorizzata come legittima difesa da Dracula, ma è un alibi per non cambiare il costume nazionale secondo cui una cosa è la moralità, un'altra l'ossequio alle leggi. Le quali così non cambiano mai.

Vi ricordate Bettino Craxi? Ho la mia idea su di lui, e cioè che non si sia arricchito personalmente, e di certo ha pagato a iosa le sue probabili colpe. Ma giustificò il finanziamento illecito dei partiti (leggi: tangenti) che riguardava tutti con tre ragioni: 1) la politica è cara, e i partiti comunque sono necessari alla vita democratica; 2) gli italiani avrebbero disapprovato finanziamenti pubblici ai partiti; 3) i compagni ricevevano rubli, anzi dollari, da Mosca, e bisognava pur fargli concorrenza. Intanto diamo merito alla sincerità di Craxi. Ma il fatto che lo facessero tutti e che fosse necessario è diventato l'alibi per non cambiare la legge, e dunque consentire una scusa ai ladri. Quanto detto da Craxi è tipicamente italiano. Il sentimento dell'onestà è ritenuto distinto e superiore a quello di legalità. Per cui paradossalmente la moralità diventa il pretesto formale per essere disonesti. L' esempio delle tangenti per i partiti dovute, secondo i Craxi e i Cirino Pomicino, a cause di forza maggiore e addirittura al dovere di salvarci dai comunisti viene buono in tutti i campi. Le note spese dei giornalisti - ne so qualcosa da direttore di quotidiani - sono una fiera favolosa di arrotondamenti e di uscite inesistenti, giustificate vuoi dal fatto che la paga è bassa, o addirittura, per trovare il modo di farsi spesare anche l'alcova, con la motivazione testuale e in fondo biblica che «l'uomo non è di ferro» (la leggenda dice che fu coniata da Giorgio Bocca).

La legalità - concordo - non assorbe tutta la morale. E qualche volta esistono le ragioni del cuore superiori a quelle delle regole statali. In questi casi si cita sempre la vicenda tragica di Antigone che disobbedì alla legge del tiranno Creonte, suo zio, pur di attenersi alla norma suprema della coscienza che le imponeva di seppellire il fratello. Antigone disobbedì ma accettò la pena, anzi, di più, si suicidò. In Italia, figuriamoci, questa separazione è teorizzata per il proprio comodo, ed è tipica dei Paesi dove lo Stato è considerato un nemico, non un'espressione della comunità. Sono banale, ma ritengo che le leggi vadano applicate sempre. Tu andrai in Paradiso, ma in galera ci finisci comunque. Parlo della legalità senza eccezioni di categorie di persone, né di interpretazione dura o blanda a seconda della simpatia ideologica. Infatti, molti teorizzatori della legalità-à-à, in nome della propria bontà e misericordia accettano che i rom rubino e insegnino a rubare, e siano intoccabili e compatiti. Li assolvono a prescindere, anche perché non entrano mai nelle loro case, ma preferiscono quelle degli anziani e dei poveri. Oppure tollerano che circolino e addirittura si mantengano con denari pubblici quelli che per legge vigente sono clandestini o non in regola. Anche quella è illegalità, ma su questa i don Ciotti vari non hanno niente da dire. Da noi non esiste la rule of law, un'espressione anglosassone per dire che la norma si rispetta anche se non ti trova d'accordo, e semmai ti organizzi in partito per cambiarla. E se vuoi fare disobbedienza civile, ne paghi il prezzo. È la «regola della legge», una disciplina interiore ed esteriore che in Italia non esiste. In piccolo: provate a raccogliere da terra un mozzicone acceso e cercate di restituirlo al protagonista del getto della cicca. Questo piccolo atto, ripetuto milioni di volte da molta gente, determina la bruttura di tante piazze e strade e spiagge. Provateci. Se il maleducato non vi dà un cazzotto, è un miracolo. Più normale che dica: «Lei, stronzo, si faccia i cazzi suoi».

Come dicono a Roma guardando il Colosseo: «Ha resistito duemila anni perché si è sempre fatto i cazzi suoi». Finirà, come ha scritto Marcello Sorgi nel suo romanzo futurista e fantapolitico Colosseo vendesi, che dovremo vendere agli arabi proprio il glorioso anfiteatro per pagarci i debiti, a furia di farci ciascuno i cavolacci nostri, compreso il citato Colosseo. Illegalità come malattia nazionale: questo è il vizietto. È la ragione per cui anche i poliziotti o i finanzieri quando vedono un venditore di merce taroccata, che danneggia i produttori onesti e i commercianti in regola, chiudono spesso gli occhi per ragioni superiori di ordine pubblico, onde evitare i tumulti dei troppo buoni. Infatti, se osano rincorrere un mercante abusivo e spacciatore di false griffe, vengono di norma maltrattati dai cittadini indignati per la crudeltà delle forze dell'ordine contro un poveretto o presunto tale. Questo disprezzo della rule of law in realtà è alla base della complicità generale e del clima piuttosto volubile a proposito di ladri inseriti in strutture pubbliche, insomma di quelli che hanno il colletto bianco. Lascio perdere la tesi amata dai pubblici ministeri, secondo cui il costume italico delle bustarelle e delle tangenti sarebbe stato innescato e concimato dalle leggi lassiste e dalle procedure penali lente e alla fine solutorie volute dai politicanti e dai loro mazzieri (e mazzettieri). Quello è il sintomo, non la causa. I bubboni non sono la peste, ma la segnalano. Infatti bisognerebbe spiegare perché proprio da noi ci sono queste leggi e queste procedure fatte apposta per far proliferare - a quanto dicono i magistrati e le loro indagini - il furto ospedaliero, comunale, statale ma soprattutto regionale. È la storia di prima: dove è cominciato il guasto?

Qual è la prima molecola cancerosa? Boh. In attesa che Antonino Zichichi e altri luminari inventino la macchina del tempo che ci riporti al brodo primordiale, mi limito a constatare e a pormi domande. Certo il passato pesa. E la religione pure: con la perdonanza cattolico-romana a far ritenere qualsiasi reato degno di veloce misericordia. La cui conseguenza è stata il motto vivi-e-lascia-vivere, frutto anche della mescolanza di etnie che ha trasformato il nostro popolo in una misticanza di tutte le verdure dell'orto terracqueo. È questo il motivo che ha fatto dell'Italia la terra perfetta per i ladri? In Romania siamo un mito, non presso la brava gente, ma la ciurmaglia. Non ladroni come Barabba o come Alì Babà, ma di media taglia. Da cui un DNA particolarissimo, che la scienza a suo tempo individuerà, che fa sì che gli italiani, qualunque religione professino, a qualunque ideologia aderiscano, a qualunque classe sociale appartengano, siano contaminati da questo vizietto della furberia da cavallette che saccheggiano tutte o quasi tutte il Paese della rugiada divina. Vittorio Feltri 

Io ti fotto. Il libro di Carlo Tecce. L’Italia è un Paese fondato sulla fregatura: ecco tutti i modi in cui gli italiani raggirano gli altri (e sé stessi), scrive Carlo Tecce il 17 dicembre 2011 su "Il Fatto Quotidiano". In Italia, fottere l’altro – una parola più tenue non renderebbe l’idea – è un vizio che è quasi un vanto, “lo ti fotto” è una legge: di più, un comandamento. Convinti di questo, due giovani e brillanti giornalisti hanno esplorato ogni angolo d’Italia alla ricerca dei mille versanti del fottere, dai più quotidiani e apparentemente veniali ai più imprevisti e diabolici: dai meccanici e i tassisti pronti a fregare il prossimo cliente fino ai professionisti del raggiro, abili a evadere il fisco e poi a passare per moralisti, lenti a dichiarare bancarotta, lesti a scappare. E ancora: i mutui e le carte di credito patacca, le vacanze-estorsione, il fottere in rete, la carità truffaldina di Onlus inesistenti o sprecone… Per finire con il “fottere pubblico”: gli appalti, le consulenze, gli espedienti micro e macro per svuotare le casse dell’Italia. Una progressiva “estensione del dominio del fottere” che rischia di coinvolgere non solo le alte sfere, i grandi criminali e i poveri diavoli, ma oramai la stessa classe media, impoverita e resa cinica dalla sensazione di esser rimasta l’unica a farsi ancora imbrogliare. In “lo ti fotto” c’è dunque di tutto e ce n’è per tutti: è un libro spassoso, scritto con una verve rara nei libri d’inchiesta, ma al contempo un reportage impietoso e allarmante, che – speriamo – scuoterà i lettori: se si continua a fottere perché “tanto in Italia tutti fottono”, il Paese ha i giorni contati. 

LADRI DI BICICLETTE.

L'INARRESTABILE CORSA DELLA BICI RUBATA. Portarle via è molto facile, essere beccati estremamente difficile: i furti di biciclette sono diventati un affare da oltre cento milioni di euro l'anno. Sul mercato nero valgono pochi spiccioli, ma garantiscono denaro in contante senza grossi rischi. Per questo almeno un ciclista su tre è rimasto vittima dei ladri. Eppure, dalla punzonatura del telaio alla denuncia, gli strumenti per difendersi esistono, scrive Giuseppe Baldessarro il 9 febbraio 2017 su "La Repubblica". Le rubano di giorno e di notte, dai garage o per strada, dalle cantine o nei cortili condominiali. Le rubano ovunque. Al punto che chi compra una bici nuova, ormai lo fa spesso scegliendo i modelli meno costosi proprio per paura, o meglio quasi la certezza, che prima o poi gli sarà portata via. Del resto è una preda ideale: portarla via comporta pochissimi rischi a fronte di un'entrata di denaro contante praticamente certa, per quanto modesta. I furti di biciclette sono ormai un business in crescita esponenziale. Un'attività che non sembra temere crisi e che anzi dalla crisi stessa è alimentata. Nel 2012 i casi registrati in Italia erano stati 320mila, per un valore stimato in 86 milioni di euro. Un dato calcolato per difetto, visto che solo una vittima su cinque sporge formale denuncia. Oggi, secondo le associazioni dei ciclisti, il numero potrebbe essere aumentato anche del 20%, con un bottino complessivo arrivato a superare i 100 milioni di euro. Le cifre ufficiali più recenti, fornite dalle prefetture e dai Comuni, risalgono come detto al 2012, quando le statistiche parlavano di 35 milioni di europei che sistematicamente si spostavano spingendo sui pedali, rinunciando all'auto. Una tendenza positiva per ridurre traffico e obesità, ma capace di innescare il più tipico dei meccanismi di mercato, con l'offerta pronta a rincorrere la domanda, a qualunque costo. Già nel 2011 le bici acquistate in Italia avevano superato le auto di 12.143 unità, andamento confermato anche nel 2012. Di pari passo è cresciuta quindi anche la percentuale di furti che in dieci anni è passata dal 2,5% al 3,8% dei mezzi in circolazione, per aumentare ancora negli ultimi cinque anni, secondo la presidente della "Consulta della bicicletta" di Bologna Simona Larghetti, di un ulteriore 0,5-0,7%. Statistiche ufficiali alla mano, la parte più colpita è il Nordest. Ai primi posti ci sono infatti Veneto ed Emilia Romagna dove andare in bici è abitudine consolidata. In proporzione il maggior numero di furti avviene però nelle grandi città e in particolare a Torino, Roma e Milano, oltre che naturalmente a Bologna. Ad alimentare il mercato dei furti è inevitabilmente la richiesta. In troppi pur di risparmiare sui 200 euro di spesa minima necessari all'acquisto di una bici da passeggio "in regola" sono disposti infatti a rivolgersi al mercato illegale dove ci si può portare a casa un mezzo, rubato, anche a soli 20-40 euro.

Venti euro per una bici rubata, prezzi stracciati al mercato nero di Bologna. Una ricerca svolta nel 2015 dall’associazione "L'altra Babele" di Bologna restituisce una fotografia molto interessante dell'intero fenomeno. Intervistando 1349 persone, con età media 25 anni, si è scoperto che il 75% usa la bicicletta e che di questi il 24% lo fa quotidianamente. Il 31% degli intervistati ha ammesso di aver subito un furto negli ultimi tre anni. Il 16%, nello stesso periodo, è stato vittima dei ladri almeno due volte. Il 3% addirittura tre volte. I questionari hanno poi rivelato che solo il 24% delle vittime ha presentato denuncia e che il 18% ha acquistato biciclette rubate. Una vera piaga da cui non è semplice difendersi. Non esistono ad esempio assicurazioni contro il furto di bici. Colpa, secondo Unipol, uno dei colossi del settore, della mancanza di domanda. "Non abbiamo un prodotto da offrire semplicemente perché non c’è la richiesta da parte dei clienti", fanno sapere dalla compagnia. Ovviamente è possibile fare una polizza per gli incidenti con una semplice Rc, ma non contro i ladri. D'altra parte il costo per assicurare una bici da poche centinaia di euro non sarebbe congruo rispetto al valore del mezzo. Margini di manovra esistono invece sui sistemi per difendersi contro i ladri. A farla da padrone, anche per il rapporto risultato-prezzo, è il caro vecchio lucchettone, nelle versioni più moderne. Se le catene a spirale sono da evitare perché facilmente scassinabili, abbastanza sicuri sono invece i sistemi di blocco a U. Altrettanto importante è legare bene la bici, assicurandosi di tenere assieme telaio e ruota e di agganciarli ad un sostegno fisso. Se i sistemi Gps restano ancora troppo costosi, come deterrente dalle brutte sorprese è importante la marchiatura della bicicletta. "Per via della sua facile identificazione scoraggia gli acquirenti", spiega Vito Bernardo di "L'altra Babele". Tra l'altro una bici identificabile attraverso un codice registrato aiuta - e non poco - le forze di polizia. "Denunciare - spiega Amedeo Landino del sindacato di polizia Siulp - è fondamentale e bisogna farlo fornendo più dettagli possibili, non ultimi quelli relativa alla punzonatura. Quando ci sono le denunce la polizia, compatibilmente con le risorse a disposizione, si muove. Per questo è importante essere precisi". Denunce, lucchetti, numeri di telaio e punzonature: a questi strumenti si aggiungono alcune iniziative messe in campo dalle associazioni dei ciclisti in tutta Italia per porre fine all'epidemia di furti. Campagne contro l'acquisto di bici rubate, siti che forniscono tutorial e spiegazioni su come difendere il proprio mezzo e altri su cui chi ha subìto un furto può postare dati e immagini della propria due ruote.

Bande, tossici e seriali: identikit dei ladri. Da qualche mese sono all'opera vere e proprie bande organizzate. Arrivano nelle città, fanno razzia di biciclette nelle cantine, nei cortili delle abitazioni o vicino alle scuole e dopo aver caricato i furgoni spariscono, spesso oltre confine. Secondo le stime delle associazioni di ciclisti e cicloamatori il 30% dei furti di bici sono fatti da gruppi organizzati con obiettivi precisi. Lo conferma il fatto che, ad esempio nelle cantine, pur in presenza di altri oggetti di valore, i ladri scelgono di portare via soltanto le due ruote. La refurtiva viene poi trasferita altrove, soprattutto nei paesi dell’Est Europa dove viene rivenduta sul mercato rumeno, ungherese, polacco o ucraino. Un altro 30% dei furti è commesso dai tossicodipendenti. Disperati che in cambio della dose giornaliera rubano biciclette che rivendono per strada (a Bologna soprattutto in zona universitaria) per poche decine di euro. Uno smercio che sarebbe tutto sommato facile da stroncare se si riuscisse a far desistere gli acquirenti, soprattutto universitari e studenti in cerca di un mezzo di locomozione cittadino a buon prezzo. Infine ci sono i ladri di professione che, più o meno occasionalmente e quasi sempre su commissione, portano via biciclette di valore da rivendere a ricettatori che successivamente le mettono sul mercato. In questo caso la refurtiva viene piazzata attraverso internet. Spesso sono state proprio le vittime dei furti ad aver riconosciuto la loro bicicletta (quando non modificata) sui siti di annunci commerciali. A fine 2016 fa a Bologna la Polfer nel corso di un'indagine è arrivata a scoprire due depositi dove le biciclette erano stipate in attesa di compratori. Cercando su internet gli agenti della polizia ferroviaria hanno individuato i siti dove il bottino era già stato messo in vendita. Il fenomeno appare comunque in calo grazie all'azione di monitoraggio degli annunci sospetti portata avanti dalle associazioni dei ciclisti. Storia che si è ripetuta in maniera molto simile pochi giorni fa in Lombardia, quando la Guardia di Finanza di Rho ha ritrovato in un capannone di Cornaredo 500 biciclette per un valore stimato di 100 mila euro. Tutte le foto della refurtiva ritrovata sono state pubblicate sulla pagina Facebook "Bici rubate e ritrovate" della Polizia Locale di Milano in modo da permettere il riconoscimento da parte dei legittimi proprietari. Per rientrarne in possesso è necessaria però una formale denuncia, corredata dalla documentazione che ne attesti la proprietà.

Sconto a chi denuncia, la ricetta di Bologna. Ritrovare la bicicletta dopo averne subito il furto non è semplice. Ma se ci si presenta esibendo la denuncia è quantomeno possibile ottenerne un'altra scontata del 20-25% rispetto al prezzo di mercato. L'idea dell'associazione "L'altra Babele" è solo una di quelle messe in campo dal dedalo di gruppi che a Bologna, e non solo a Bologna, per arginare il fenomeno dei furti di biciclette si muovono su diversi piani. Innanzitutto si vuole far capire a chi ama le due ruote che denunciare non è solo doveroso, ma indispensabile. Le statistiche dicono che solo un quinto delle vittime sporge regolare denuncia. Per gli altri si tratta invece di un'inutile seccatura, persino di una perdita di tempo. Questo significa che agli atti degli uffici delle forze dell'ordine il fenomeno viene registrato come meno consistente e grave di quanto realmente sia. Denunciare, secondo le associazioni, è invece un modo per ottenere una maggiore attenzione sul fronte della prevenzione e della repressione. Insomma, senza denuncia non c'è reato. E senza reato non c’è la giusta attenzione da parte delle forze di polizia. Il secondo binario è quello che punta a ridurre il numero di persone disposte a comprare mezzi fuori legge offrendo la possibilità di acquistare biciclette usate a prezzi calmierati. L'associazionismo si muove anche sull'aspetto culturale, cercando di dissuadere i potenziali acquirenti di bici rubate. Sempre "L’altra Babele" ha un programma articolato di riuso della due ruote. Convenzionata con l'Ente per il diritto allo studio della Regione Emilia Romagna, ad esempio, raccoglie le biciclette che vengono abbandonate dagli universitari nei diversi studentati a fine ciclo di studi. I mezzi vengono riparati, rimessi a nuovo e rivenduti durante aste dove tra gioco, satira e fantasia, ad aggiudicarsele sono gli acquirenti che si dimostrano più simpatici. Ci sono poi le campagne a sostegno della marchiatura per rendere il mezzo "unico" e riconoscibile. Fatto che dissuade sia i ladri che gli acquirenti, difficilmente orientati a comparare un mezzo facilmente riconoscibile e registrato dal legittimo proprietario. L'obiettivo principale resta comunque quello di far crescere il numero delle denunce e di abbattere quello dei clienti e dei ricettatori. Traguardo che malgrado gli sforzi non è semplice da raggiungere. Nel maggio del 2015 la Consulta delle biciclette, la prefettura e il Comune di Bologna, hanno sottoscritto un documento che impegnava i tre diversi soggetti a promuovere campagne di sensibilizzazione, favorire le denunce, il noleggio, la marchiatura e il parcheggio sicuro delle biciclette. I risultati per il momento stentano però ad arrivare.

IL COMUNE SENSO DEL PUDORE.

Nei mari del web (e del nostro tempo) sta affogando il pudore, scrive l'1/03/2017 Emanuele Beluffi su “Il Giornale/Off". Il comune senso del pudore, dove sta? Che fine ha fatto? E’ morto o sta solo poco bene? Il pudore ormai è OFF, in entrambi i sensi: spento e underground, sottotraccia. Sotto cultura del buon senso.

Macchina del tempo, luglio 1950, era geologica democristo/paleozoica: il futuro Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro siede al ristorante romano “da Chiarina” insieme a due colleghi della DC, a un certo momento si alza, attraversa la sala e schiaffeggia la signorina Edith Mingoni in Toussau, rea di adottare un dress code sconveniente (leggi: decoltè e pazienza che faccia un caldo bestia). 

Luglio 2016, il Presidente della teocrazia islamica dell’Iran è in visita di Stato a Roma e le autorità mettono i mutandoni ai nudi dei Musei Capitolini per non sconvolgerlo (in realtà per preservare commesse miliardarie con Teheran, il fine giustifica i mezzi).

Dici “pudore” e pensi al sesso, ma in realtà come direbbe De Gaulle si tratta di un “vaste programme”.

Viaggio nel tempo ma anche nello spazio. Regno Unito, millenovecentoequalcosa, bar della Camera dei Comuni, la deputata Bessie Braddock apostrofa Winston Churchill, dandy e gran bevitore di Martini: «Winston Churchill, lei è ubriaco» e lui: «Signora, lei è brutta. Ma io domani sarò sobrio». Mica c’è solo Vasco Rossi ubriaco come un tegolo a San Remo (chi ha meno di trent’anni non sa di cosa stiamo parlando).

Nel voto eternamente posticipato, nel sesso biologico inesistente, nella cacciata di Dio; nelle nuove forme di comunicazione, e nel suo continuo vomitare news e opinioni, il pudore, ovvero quel confine intimo tra l’individuo e l’eccesso, l’ambiguità, quel filtro salvifico, si affloscia e, lentamente, muore. Una volta certe cose si facevano di nascosto, Carmelo Bene ce l’ha insegnato (celebre puntata del Maurizio Costanzo Show: «…osceno vuol dire fuori dalla scena, cioè visibilmente invisibile di sé»). Quando non esistevano i tablet c’erano i libri da leggere con una mano sola e del resto la storia delle lettere è piena di gaia levità oscena: i sonetti sconci di Belli, le storie del Boccaccio, le scorribande del Divin Marchese, Baudelaire e il maledettismo annesso, il grande Henry Miller, poi sono arrivati i cento colpi di spazzola di Melissa P. e le cinquanta sfumature di Erika James Leonard, che sicuramente non hanno letto il grande Guido Almansi: «Quanto al contenuto dell’opera d’arte, essa rappresenta quasi sempre una violenta trasgressione delle leggi scritte che regolano il comportamento sociale e la conversazione civile. La grande arte non parla mai di brava gente che vive semplici vite modeste, come nei romanzetti rosa. Sempre gente sporca dalle vite sporche. Assassinio, incesto, spargimento di sangue, tortura, tradimento, infedeltà, genocidio, allucinazione, morte violente, infanticidio, umiliazione fisica e morale, incubo, morte di fame, malattie atroci, castrazione, necrofilia, vampirismo, licantropia, o, più semplicemente, l’intollerabile infelicità della vita quotidiana: questo è “the stuff” di cui sono composti sogni e opere d’arte» (“Estetica dell’osceno”, p. 209).

Impariamo da lui, impariamo l’arte e non mettiamola da parte. Anche qui a un certo punto arrivano le Melisse P. a convertire in estetica trash le dotte elucubrazioni sull’osceno: Ai Wei Wei, artista superstar, alla privazione del pudore aggiunge quella del ridicolo quando si fa immortalare spiaggiato come il celeberrimo piccolo Aylan.

Una volta Maurizio Cattelan ci stupiva con la stella cometa a cinque punte come il simbolo delle Bierre, ma ora ci stupiamo noi che un’amministrazione comunale non sospettabile di idee progressiste abbia dato nel lontano 2010 l’ok per fargli piazzare ab aeterno il famoso “dito” in Piazza Affari a Milangeles, mentre il curatore della Biennale veneziana 2015 ciarla di lotta di classe, fa leggere il Capitale ai Giardini e poi si lascia immortalare sulla pagine patinate di Vogue come un Feltrinelli qualsiasi.

E a proposito di rivoluzionari arricchiti: giusto l’altro giorno Toni Negri ha magnificato i fasti della lotta armata davanti a un uditorio di studentelli dell’Università di Genova (e dove, sennò?): poteva arricchire la collezione d’arte di famiglia, invece ha preferito cicalare sulla ricchezza della lotta armata.

Per riprendere il succitato Vasco Rossi in una sua celebre canzone, “la dignità, dove l’avete persa?”. Suggerirei: nel cesso, dal momento che l’art system magnifica la mostra “Shit and Die” del curator Cattelan e il suo cesso d’oro al Guggenheim di N.Y. Del resto non bastava la merda d’artista, ora ce ne danno a tonnellate, ottanta per l’esattezza: Mike Bouchet a Manifesta 11, lasciate ogni speranza voi che entrate. E, visto che stiam parlando di deiezioni, passiamo agli orifizi: Milo Moirè, trentunenne svizzera definita artista, action painter che fa cadere uova colorate dalla vagina, povero Jackson Pollock, lui si faceva curare dallo psicanalista, lei invece si fa masturbare dai passanti in piazza, tu chiamale performance se vuoi. Ma poi. Chi se ne frega dei ranocchi crocifissi (Martin Kippenbeger) e dei Cristi immersi nel piscio (Andres Serrano): ci si scandalizza invece dei disegnatori poverini di Charlie Hebdo che han fatto arrabbiare i maomettani per aver raffigurato il loro profeta culo all’aria, mentre per le oscenità e gli abomini con oggetto l’altro monoteismo gli indignati speciali magari avevano pure abbozzato un sorriso compiaciuto. Tagliano la gola a un sacerdote durante la messa e recitano i versi del Corano in chiesa a braccetto col parroco engagè, cosa mai vista in 1400 anni, va tutto bene madama la signora.

Milo Moirè espelle uova dalla vagina in riva al mare. Ma che parliamo a fare di arte e letteratura e società? Sono argomenti da fuori onda come le intercettazioni telefoniche del conversario politico atte a ottenere sputtanamenti a mezzo stampa, quindi passiamo a bomba su Facebook, il cui politicamente supercorrettissimo azionista di maggioranza ha avuto la spudoratezza di fare outing e candidarsi alle prossime elezioni americane in nome di una comunità globale, la stessa che massacra e uccide la povera Tiziana Cantone, mentre ai piani alti censurano le tette ma non i post dei tagliagole dell’Isis. Non c’è più pudore, da nessuna parte. E’ tutta colpa dell’Internet?  Sì potrebbe proprio dire di sì: Il Corriere della Sera pubblicò in prima pagina la foto di un miliziano serbo che teneva in mano la testa di un croato, quella foto me la ricordo come l’avessi vista stamattina, ora invece la “redazione” dell’Isis fa fatica a ottenere un numero congruo di visualizzazioni dei suoi video perché ormai dopo aver visto bruciare vivo in gabbia il pilota giordano fatto prigioniero dallo Stato Islamico gli utenti globali non si entusiasmano più e sono abituati a tutto. Quasi a tutto: a Trump no, non ci si sono ancora abituati, nun ce vònno stà. Lui, così moderno, che anziché fare i briefing con la stampa cinguetta su Twitter, «Enjoy!», «Sad!». Una volta c’erano gli album di famiglia, ora gli album stanno su Facebook e il tuo marmocchio lo vedono tutti (non erano affari di famiglia?), perfetti sconosciuti inclusi, perché non siamo solo animali sociali (Aristotele dixit), ma anche intrinsecamente voyeur e proprio perché animali sociali non ci facciamo mai i cazzi nostri, è questa la geniale scoperta di Zuckerberg. Che farebbe oggi Oscar Luigi Scalfaro in questo marasma indistinto, dove le Edith Mingoni in Toussau il decolté non ce l’hanno proprio e te le escono subito subito (come la Ratajkowski in foto)?

Su Facebook? L’arte si censura, i culi no! Scrive il 3/01/2017 Dalmazio Frau su “Il Giornale/Off". Il bronzeo Nettuno di Jean de Boulogne, meglio noto come Giambologna, è stata voluta dal vicelegato pontificio Pier Donato Cesi nella seconda metà del XVI sec. per adornare una delle più splendide piazze d’Italia, un luogo unico sull’orbe terracqueo e far compagnia e gara ad altri indiscutibili e assoluti capolavori come il Perseo di Benvenuto Cellini e il gruppo di Ercole e Caco opera di Baccio Bandinelli che impreziosiscono Firenze. Un ambasciatore papale è il suo committente dunque, colui che si pone in controtendenza sul pensiero allora dominante della Controriforma scaturita dal Concilio di Trento, e che vuole una possente divinità pagana nello splendore della sua nudità, allo scopo di rendere ancora più bella e potente Bologna, la propria patria, infischiandosene di quello che stava compiendo a Roma il pittore Daniele da Volterra, che mettendo le “mutande” ai nudi di Michelangelo nella cappella Sistina, si guadagnerà il soprannome universale di “Braghettone”. Qualche ora fa, il luogo virtuale deputato ad ogni libertà, Facebook, il social per antonomasia, si è rivelato nella sua più reale essenza di vero e proprio demiurgo orvelliano, arrivando là dove neppure le più tristi menti del bacchettonismo religioso di fine Rinascimento erano mai giunte: Censurare l’immagine del Nettuno perché “nuda”, ma non è un unicum né una novità. La libertà virtuale – nel vero senso della parola - di Facebook ha già colpito altre volte l’arte in nome di un non ben chiaro politically correct, infatti vittime della sua iconoclastia sono state il dipinto contemporaneo della pittrice belga Evelyne Axell, dak titolo Ice Cream, la Sirenetta simbolo di Copenhagen –pornografia allo stato puro – per tacere dell’aver oscurato il ben noto quadro di Gustave Courbet, l’origine del mondo… più sessualmente esplicito di così! Ma l’apoteosi la raggiunge con la cassazione dello studio della mano destra di Erasmo da Rotterdam di Hans Holbein. Non osiamo immaginare cosa potrebbe aver fatto Erasmo con quella mano! Il social di Zuckerberg è uno strano contenitore. Puoi trovarci opere d’arte, censurate per un pisellino di bronzo, e, al contempo, un oceano di volgarità, bestemmie, fondo schiena e sesso triste e virtuale.

«Al fuoco, al fuoco! L’ignoranza ha dato fuoco al mondo» gridava uno straordinario Vittorio Gassman sul finire di quel film poco noto quanto splendido che è “Fantasmi a Roma” impersonando appunto lo spettro errabondo di un eretico pittore, Giovanbattita Villari detto Il Caparra, finito sul rogo a cavallo tra il Cinque ed il Seicento. Questo è ciò che sta succedendo, sempre, costantemente e ogni giorno di più. Senza che però molti se ne rendano conto: l’ignoranza sta distruggendo il mondo. …SENI E SEDERI INVECE NO.

La prostituzione? È una filosofia di vita per intellettuali. Chi vende il proprio corpo è affine a chi vende la propria arte. Come sanno poeti, registi e pittori, scrive Daniele Abbiati, Giovedì 02/03/2017 su "Il Giornale". La tesi di fondo del libro è: per non mandare tutto a puttane serve capire che cosa facciamo quando andiamo a puttane. E qui, dopo appena un passo, casca l'asino, ossia il recensore. Perché ammettere di essere andati a puttane, nel senso letterale e non metaforico, non è da tutti, al contrario. Ora, noi non sappiamo se Laurent de Sutter, bel quarantenne belga con l'aria da intellettuale che infatti è (docente di Filosofia del Diritto, editore, gran conoscitore dei vari Deleuze, Lacan, Althusser e via curriculando) l'abbia mai fatto. Né c'interessa. Ciò che ci interessa è il suo saggio scritto molto alla francese, nel solco dei suoi autori di riferimento, cioè sempre con sulla punta della penna quel frisson dovuto al piacere di, come sussurrano loro, épater le bourgeois, vale a dire, volgarmente, spiegare le cose prendendo per il culo. Metafisica della puttana, uscito tre anni fa a Parigi da Léo Scheer viene proposto ora in italiano (Giometti & Antonello, pagg. 106, euro 16, traduzione di Aldo Prini). Diciamo subito che il protagonista del libro non è la puttana, bensì un altro tipo di animale umano, troppo umano: il «merlo», dove «merlo» sta per chi si fa facilmente raggirare e catturare, il cliente. De Sutter ricorda che quando chiedevano a Charles Baudelaire che cosa fosse l'arte, lui rispondeva: «prostituzione». Il poeta, da vero francese, voleva anch'egli épater le bourgeois. Intendeva infatti dire che ogni artista desidera accalappiare prima l'attenzione e poi la moneta del pubblico. Ma proponendo che cosa? De Sutter affida la risposta a Jean-Luc Godard e ai suoi film che in effetti somigliano alle notti lungo i viali periferici delle città negli anni Settanta e Ottanta: sono pieni di puttane. Puttane che possiedono quella cosa che fa gola a molti, costa tanto e alla fin fine non si ottiene mai in esclusiva: non, banalmente, la papussa, bensì la verità. «Nel cinema di Godard - scrive - le puttane erano il volto della verità: erano la materia viva in cui si incarnava la sua ossessione nei confronti di essa - ovvero l'ossessione per il cinema medesimo». E siccome per Godard (non soltanto per lui, ovviamente) la verità non esiste se non c'è, spiega de Sutter, «un medium che la mostri o la esprima», ecco apparecchiato il circolo non più vizioso bensì virtuoso: usare le puttane come verità e il cinema come espressione, dunque inveramento, della verità. Nel suo puttan tour, Godard è accompagnato da un grande maestro, Guy de Maupassant, il quale nel racconto Il cenno illustra come basti appunto un cenno, a una giovane donna di buona famiglia, per entrare, potrebbe dire Godard, nel mondo della verità, quel cenno che la signora fa, affacciandosi alla finestra imitando le prostitute, agli uomini che stanno nel palazzo di fronte. Un cenno come maschera, codice, linguaggio. Quindi, allegoria. Benvenuto allora al più allegorico fra i pittori, Francisco Goya, il quale porta in dote due Capricci, il numero 7 dove un «merlo» non si rende conto di corteggiare una puttana, e il numero 21 dove una prostituta sotto forma di uccello viene spennata dai tutori della legge dopo l'arresto. La puttana che da cacciatrice diviene preda è il motivo della tragedia Lulù di Frank Wedekind, che originerà il film Il vaso di Pandora di Georg Wilhelm Pabst e l'opera Lulù di Alban Berg. Involontaria femme fatale, Lulù è posseduta dal proprio fascino come da un demone. Karl Kraus, parlando di come le autorità ne avessero vietato la rappresentazione, parlava di «morale del protettore»: lo Stato con le puttane si comporta da magnaccia, le sfrutta disprezzandole. E le infila nei bordelli. Bordelli di cui James Joyce fu un abituale, per quanto tormentato, frequentatore: si veda l'incontro, appunto in un bordello, fra Leopold Bloom e Stephen Dedalus in Ulisse. Ecco, la puttana confinata ed esposta nelle teche delle case di tolleranza, si trasforma in pezzo da museo, in reperto memoriale permeato soprattutto di nostalgia. Si vedano a proposito i contributi all'antologia alla puttanesca Quando l'Italia tollerava curata da Giancarlo Fusco nel 1965, sette anni dopo l'entrata in vigore della Legge Merlin che scacciava i «merli». E se in pieno Cinquecento il Dialogo della infinità d'amore della cortigiana Tullia d'Aragona è la prima denuncia di questo (allora parziale) confinamento, stilata da una del mestiere, il suo esatto opposto è il professorale interrogarsi sul mistero del possesso-che-spossessa l'uomo nel rapporto con la prostituta vergato nel 1909 da Georg Simmel in Psychologie der Koketterie. Una lettura, quest'ultima, degna di essere psicanalizzata. Magari tornando alla domanda da cui siamo partiti: che cosa facciamo (che cosa fanno gli altri) quando andiamo (quando vanno) a puttane? Lacan, citato da de Sutter, ci dice qualcosa in proposito, ma non crediamo di aver capito bene. A volte succede, con Lacan. Quel che è certo è che la psicanalisi, se non conosci la verità dettata dalle puttane, professioniste o dilettanti che siano, in ultima analisi ti sputtana.

GLI ITALIANI ED IL TURPILOQUIO.

Da "clandestini" a "zingaro" le parole vietate per sentenza. Il politically correct detta legge anche sul vocabolario. Persino dare del "boy scout" può diventare un insulto, scrive Domenico Ferrara, Sabato 25/02/2017, su "Il Giornale". Prima o poi arriverà il giorno in cui, prima di aprir bocca, consulteremo le sentenze della magistratura per sapere quale termine utilizzare. La dittatura linguistica delle toghe ha rifatto la sua comparsa due giorni fa, quando ha condannato la Lega Nord per aver usato il termine clandestini, ritenuto «denigratorio» e «discriminatorio». Il buonismo d'antan detta legge e la magistratura esegue, influenzata dai cambiamenti della società. Dare del negro a un dipendente di colore è un reato che non conosce giustificazioni. Lo stesso vale per le parole africano, marocchino ed extracomunitario. Guai a usare la parola zingaro. Nel febbraio 2015, un «temerario» autore di un testo di diritto penale è stato condannato per condotta discriminatoria e il libro è stato ritirato dal mercato. Motivo? Per spiegare il reato di acquisto di cose di sospetta provenienza ha equiparato quel termine al mendicante o a un noto pregiudicato. Vietato dare del terrorista a un ex terrorista: si configura «un'illecita lesione del diritto alla riservatezza». Sul fronte delle attitudini sessuali, le parole frocio, finocchio, culattone, ricchione, lesbica sono passibili di ingiuria, mentre omosessuale non è un'offesa: per la Cassazione, «nel presente contesto storico è da escludere che il termine omosessuale abbia conservato un significato intrinsecamente offensivo». Rompicaz... è stato considerato oltraggioso, mentre rompipalle no. Ci sono state valutazioni differenti per l'ormai sdoganato vaffa: è ritenuto di uso comune, però se accompagnato dal dito medio diventa censurabile e se viene rivolto al dirimpettaio pure. Nell'ambito lavorativo, dire «sei una mezza manica» fa scattare l'illecito, specie se proferito dal capo ai propri dipendenti. Cretino, stupido e imbecille sono condannabili solo se detti al proprio datore di lavoro o a un pubblico ufficiale. Occhio ad apostrofare i colleghi con la parola leccaculo. «Mi hai rotto i c...»? Tranquilli, questa espressione è entrata a far parte del linguaggio comune e quindi è salva. Augurare a qualcuno di morire di un male incurabile è condannabile mentre l'espressione «ti faccio vedere i sorci verdi» no. Ma le storture sono così tante che un avvocato cassazionista siciliano, Giuseppe D'Alessandro, le ha messe in fila e ha pubblicato il Dizionario giuridico degli insulti (A&B editore): 1.203 termini dalla A alla Z. Qualche esempio di parole condannate? Acida; accattone; agnellino (attribuito a un sindaco che non ha avuto coraggio); ancella giuliva e festante; antipatico; assetato di potere; azzeccagarbugli; Befana; babbuino; boy scout (se rivolto a un sindaco è diffamazione); calcolatore; Cicciobello (sinonimo di moccioso); complessato; fattucchiere; gallina; mela marcia; mediocre; pagliaccio; paraculo; pidocchio; rompiscatole; sfacciato; zappatore; Zio Paperone (fa riferimento all'avarizia). Naturalmente, spiega Vito Tartamella, psicolinguista e autore della prefazione, tutto «dipende dal tono che usate, dalle argomentazioni che adducete, dalla sensibilità del giudice». Attenzione anche alle locuzioni. Dire che un magistrato si accanisce su un inquisito è reato così come dare del primo della classe a qualcuno o usare l'aggettivo «lewinskiana» in riferimento a una donna o sostenere che qualcuno al posto del cervello ha un diesel fumoso. Insomma, come diceva Confucio: «Per una parola un uomo viene spesso giudicato saggio e per una parola viene spesso giudicato stupido». E può essere anche condannato.

Dire clandestino è reato? Fermiamo chi sta ammazzando la lingua italiana, scrive Emanuele Ricucci il 25 febbraio 2017 su “Il Giornale". Clandestino. È reato chiamarci qualcuno. Io continuerò ad usare questo termine, perché seguo il senso fondante della mia lingua, e lo farò, clandestinamente. Finirà che gli italiani dovranno parlare la loro lingua clandestinamente, appunto; finirà che sarà l’italiano a fare la fine del clandestino. Ma l’italiano, cos’è? Ben più di una lingua romanza, di un’ispirazione musicale, di un doppiatore internazionale, di una puttana degli esotismi – come ben risalta Patrizia Valduga nel suo “Italiani, imparate l’italiano!” (Edizioni d’If) -. Dell’idioma che si parla nella Repubblica italiana. L’italiano è la nostra terra d’origine. L’unica cosa effettivamente capace di spiegare gli italiani, assieme al dialetto. Lì dove veramente risiediamo, come ben diceva Emil Cioran. Misericordia. Il giubileo era della misericordia, ma Francesco s’incazza e spedisce il cardinal Burke in uno dei nuovi esopianeti appena scoperti. Menomale che era della misericordia, il giubileo. Pensate se fosse stato dedicato al Timor di Dio, come propose Camillo Langone sul Foglio; traslato dal sacro al profanissimo: Burke, il tradizionalista, uno di quelli della Dubia, in contrasto con Sua Santità, sarebbe stato direttamente incarcerato a Guantanamo in una cella piccola, con un pasto da sole tre portate e un paio di mutande di oro fatte da Maurizio Cattelan. Forse la peggiore delle torture. La parola non ha più senso. Continua l’emorragia dei significati. La funzione culturale del linguaggio, non solo l’etimologia che dietro vi si nasconde, viene sapientemente azzerata. Prima di costruire il nuovo, bisogna cancellare il vecchio. Questo è il principio di integrazione del Progresso e dei suoi sacerdoti. Quello tra uomini, quello tra i sessi, e quello tra una lingua e il futuro. Per questo sono fortemente arculiogerio. Profondamente, arculiogerio. Ed è difficile pensare il contrario. Eravamo fatti di lingua. Nobilitazione di un popolo. Se si continua così, non riusciremo più a sentire il sapore del significato. Io non capisco. E mi sento confuso. Come dovrei dire cosa? Come dovrei esattamente dare il senso alle parole con cui mi esprimo per lavorare e vivere? Allora tutto diventa poesia se si dilatano le pupille del linguaggio; si dilatano così tanto da incorporare sensi e significati, emozioni e visioni ancor più grandi, come l’albume dell’uomo, montato e rimontato che si addensa nella poesia. Vi piacerebbe! Qua non c’è nessun fine etico superiore, nessun moto culturale. C’è solo l’imposizione, dei nostri governanti, di controllare la lingua affinché si adatti ad un regime di idee, limitando la libertà della sua essenza, dei suoi vocaboli, delle sue espressioni. Delle sue infinite accezioni. Come si educa un bambino a non dire parolacce, educare gli italiani a non ferire il regime con le parole. Allora facciamo così: per me la Boldrini è una clavicembalo. Sì, basta. Come Gentiloni è un enorme parallelepipedo. Basta, e di questo ne farò una battaglia. Tra i dada e i futuristi, tra un logopedista e uno psicologo. Perché questi ultimi due, più che una pletora di intellettuali arrapati, macina libri, eccitati di fare la loro misera figurina in quest’epoca mentre loro salgono le scale della torre d’avorio, in cui gli uomini danno il peggio di sé, e sono piccoli, piccoli, servirebbero. A tutti. Logopedisti e psicologi. E non il nucleo per il controllo e la tutela del linguaggio di genere del dipartimento delle Pari Opportunità. Che poi: pari de che? Misericordia, clandestini, boldrinismi, neologismi, inglesismi. Altro che Minculpop. Eravamo fatti di lingua, l’unica, ultima vera sovranità concessaci. Che poi, a giudicare dalla mancanza delle H sui post di Facebook, dai ne scritti senza accento o dalle E maiuscole con l’apostrofo, per non parlare di fratello congiuntivo, avevamo noi rifiutato di essere sovrani. Ma l’errore ci sta, l’orrore no. E non si tratta della grammatica delle elementari, ma del gettito culturale che una lingua porta con sé, come parte fondante ed eterna di un’identità, quella che più difficilmente si decostruisce, perché così prossima e naturale a noi. Ah, “naturale”. A proposito: qual è il prossimo passo? Naturale non si può dire, biologico non si può dire, ricchione, con simpatia, all’amico fattivamente ricchione, con cui si hanno ottimi rapporti oltre i sogni di gloria di Niky Vendola, non si può dire; Berlusconi, non si può dire; Predappio, non si può dire; Péne e vagina, non si possono dire; figli, scuola, gioia, genitori, padre, madre, sole, barca a vela, maraschino, bubbusettete, amore, Italia, Patria, confini, terra, identità, nazione, allegria, buon vino, nonni, tradizione, conservazione, bicicletta, riunione, squadra, amici, comunità, sardanapalo, crociate, musulmani, Islam, Lazio, Chiesa, Cristo, Dio, ano, eruzione cutanea, preservativo, lavoro, futuro, non si possono più dire. E qui non si può dire più niente: ci si irrita sempre il…senso comune! Volete una lista di quello che (si può e) non si può dire secondo legge? Eccola. Abbiamo passato secoli a dare un senso alle cose, a partorire il genio innovatore, come Dante e D’Annunzio, a ricercare i significati dell’esistenza, della lingua, del greco antico, ispiratore nelle sue sfaccettature, del latino, nelle sue evocazioni, del volgare fiorentino, parola per parola; abbiamo integrato i dialetti, abbiamo ricercato i significati della forma, del tempo, del pensiero. Quelli dell’etica, giuridica, sociale, politica ed economica, ne abbiamo fatto carne da filosofia, e quelli dell’estetica, nelle avanguardie, nelle geometrie, nelle perfette asimmetrie, nelle astrattezze. Abbiamo cercato Dio per chiedere un significato, poi lo abbiamo schifato, tanto è un dogma, e lo abbiamo chiesto alla scienza, alle rivoluzioni, alle macchine e alla tecnica. Alcuni alla Lsd o all’Mdma, altri allo sciamano. Abbiamo fatto per sapere, abbiamo vissuto per capire e poi, non si capisce bene cosa abbiamo fatto di male per poi ritrovarci denunciati se diciamo clandestino. Se chiamiamo un signore, o una signora, che entra di straforo nei confini e nella giurisdizione di un Paese, per quello che la lingua italiana vuole: clandestino. Dai, diciamocelo: stiamo fuori di testa un pochino, vero? Da clandestino, a profugo, da immigrato, a migrante fino a temporaneamente presente. A breve, essenza di passaggio. Siamo ridicoli. Santo cielo! Non ci serve un premier, ma un logopedista – e uno psicologo -. Decostruire la parola, in una civiltà che nasce dal pensiero che diventa lingua, è smontare le più solide fondamenta di una cultura riconosciuta, universale ed intima. Ma questo già lo sappiamo. Ciò che manca veramente alle perversioni, fatte passare come assoluti dogmi laici del presente, del politicamente corretto, è la coerenza. La coerenza che sfocia, talvolta, nel rispetto. Per tutte quelle volte in cui ci si sente accusati di essere dei mostri che difendono l’essenza della propria terra, la propria eredità e si sentono dire: vigliacchi, nazisti, fascisti, maoisti, assassini, tromboni, Salvini e/o salviniani, vecchi, decrepiti, morti, decomposti; inutili, fuori tempo, fuori budget, asserviti, nani, impotenti, fenomeni da baraccone, italianipizzamandolinobaffiolè – detto da uno che te lo scrive su Facebook ma ti abita a 22 km di distanza -, e così via.

Bene, visto che la legge interpreta il sentimento che si cela dietro ad una parola, giudicandone un reato, perché essa non difende anche me dalla cattiveria siderale del mio avversario? Si naviga a vista nella vaghezza. E i significati si perdono nella nuova dittatura del relativismo. Alla pugna amici miei! E se proprio volete un motto che vi ispiri durante la battaglia per ricordarvi che per mettere ordine al caos, serve ordine, non altro caos: Se uno è stronzo, non je posso dì stupidino – si crea delle illusioni – je devi dì stronzo (Gianfranco Funari, intellettuale…).

Toh, la giudice che vieta la parola "clandestini" era nemica della Lega. Relatrice al convegno dell'associazione che denunciò i manifesti. Il ministro: indagare, scrive Luca Fazzo, Giovedì 2/03/2017, su "Il Giornale". Una settimana fa, il giudice milanese Martina Flamini è finita sulle prime pagine dei giornali per una sentenza clamorosa: ha stabilito che la parola «clandestino» non si può usare, perché «veicola l'idea fortemente negativa che i richiedenti asilo costituiscano un pericolo per i cittadini»; e aveva condannato la Lega Nord, che quella parola aveva usato in un manifesto. Bene. Ma quasi un anno fa, il 16 maggio 2016, la stessa giudice era Trieste, dove partecipava come relatrice a un convegno dal titolo «La protezione internazionale», organizzato dall'associazione Asgi, Associazione di studi giuridici sull'immigrazione. Cioè esattamente la stessa associazione che poche settimane dopo avrebbe firmato il ricorso contro i manifesti leghisti: ricorso che la giudice Flamini ha puntualmente accolto. Sul doppio ruolo nei suoi rapporti con l'Asgi - relatore prima, giudice poi - adesso la dottoressa Flamini dovrà dare delle spiegazioni. Dovrà darle al ministro della Giustizia Andrea Orlando, che ieri in Parlamento, rispondendo a una interrogazione, ha annunciato l'avvio di una inchiesta interna per capire come sia avvenuto il singolare episodio. E cioè come e perché la dottoressa Flamini non abbia ritenuto suo dovere, quando sul suo tavolo è approdato il ricorso firmato da una associazione privata con cui evidentemente è in buoni rapporti, astenersi dalla vicenda. Certo, è possibile che la Flamini abbia chiesto ai suoi capi di fare un passo indietro, come il codice prevede nei casi in cui esistono «gravi ragioni di convenienza», e che i suoi capi le abbiano detto di andare avanti: e anche di questo dovranno occuparsi, eventualmente, gli ispettori del ministro. La sentenza della Flamini era apparsa da subito decisamente innovativa, non solo dal punto di vista giuridico ma anche da quello della political correctness applicata al vocabolario: perché marchiava come «gravemente offensiva ed umiliante» una espressione, «clandestini», fino a quel momento considerata asettica. Basti pensare che appena pochi giorni dopo la sentenza milanese, in America un pastore luterano da sempre schierato con oppressi e rifugiati, Alex Salvatierra, l'ha impiegata per rivendicare i loro diritti in chiave anti-Trump, «difendiamo quei clandestini sotto attacco che oggi in America hanno meno diritti che mai». Sulla oggettiva singolarità della sentenza, il carico da undici l'ha però calato il sindaco leghista di Saronno, Alessandro Fagioli, che in una intervista ha rivelato il doppio ruolo della giudice: «segnalo una cosa curiosa - aveva detto Fagioli - che la stessa associazione che ha fatto denuncia invita come relatore lo stesso giudice che ha fatto la sentenza». «Non voglio dire che sia sospetto - aveva aggiunto Fagioli - domando a me stesso se fosse opportuno». La stessa domanda, a quanto pare, se l'è posta anche il ministro della Giustizia. La partecipazione a convegni di studi relativi alla materia di cui si occupano è per i magistrati consueta. Nel caso di Trieste si trattava indubbiamente di un convegno di parte, organizzato da enti dichiaratamente schierati dalla parte dei migranti (oltre all'Asgi c'era l'Ics, Consorzio italiano di solidarietà - sezione rifugiati). Ma l'aspetto su cui verosimilmente si soffermeranno gli ispettori del ministro è quello dei rapporti precedenti e successivi tra Asgi e giudice. E magari anche quello più veniale del pagamento delle spese di viaggio e soggiorno.

Titolò "Bastardi Islamici": ora Belpietro va a giudizio. A Parigi il commando islamista dell'Isis fece 130 morti. Belpietro titolò: "bastardi islamici". Ora il gup di Milano lo manda a giudizio, scrive Angelo Scarano, Mercoledì 1/03/2017 su "Il Giornale". "Bastardi islamici". Con questo titolo Maurizio Belpietro aveva deciso di aprire Libero il giorno dopo la strage al Teatro Bataclan di Parigi. Ne era scoppiata una bagarre. Ed erano fioccate le querele. Oggi l'ex direttore di Libero, ora al timone de La Verità, è stato rinviato a giudizio dal gup di Milano. Il reato, come spiega il Fatto Quotidiano che ne dà notizia, è di "istigazione all'odio razziale" e la prima udienza del processo si terrà il 13 marzo davanti ai giudici milanesi. La sera del 13 novembre 2015, a Parigi, un commando dello Stato islamico scatenò l'inferno gettando tutta l'Europa in un incubo da cui non si è ancora risvegliata. Una serie di attacchi terroristici di matrice islamica, concentrati nel I, X e XI arrondissement di Parigi e allo Stade de France, a Saint-Denis, nella regione dell'Île-de-France, che hanno massacrato 130 innocenti e ferito (più o meno gravemente) altre 368 persone. Un vero e proprio massacro. "La più cruenta aggressione in territorio francese dalla seconda guerra mondiale - fa notare Wikipedia - e del secondo più grave atto terroristico nei confini dell'Unione europea dopo gli attentati dell'11 marzo 2004 a Madrid". L'indomani Libero uscì in edicola con il titolo "Bastardi islamici". Ne nacque un dibattito infinito. La sinistra buonista si schierò subito al fianco della comunità musulmana. Gli attentati, avvenuti il giorno dopo la morte del boia dell'Isis Jihadi John a opera di un drone statunitense, sono stati messi a segno da un commando islamista che aveva giurato fedeltà al califfo Abu Bakr al Baghdadi. Dieci jihadisti fra uomini e donne sono i responsabili tre esplosioni nei pressi dello Stade de France e di sei sparatorie in diversi luoghi pubblici della capitale francese. "Altro che siamo tutti Charlie Hebdo - aveva scritto Belpietro nel suo editoriale - siamo tutti in pericolo, perché il terrorismo islamico non fa distinzione tra uomini e donne, fra combattenti e innocenti - continuava - il terrorismo islamico vuole non solo uccidere, terrorizzare, colpire chiunque sia ritenuto un infedele".

Da "Papi girls" a "pennivendoli", il dizionario giuridico degli insulti. 1203 termini, espressioni e gesti che sono passati al vaglio della giurisprudenza in cause per diffamazione e ingiuria raccolte in un libro prezioso. Perché di fronte ad un giudice anche una parola detta fuori luogo diventa un affare serio, scrive Sara Dellabella il 16 febbraio 2017 su “L’Espresso”. Da "A fess 'e mammeta" a "zuzzusu" che indica una persona sporca, il "Dizionario giuridico degli insulti" (A&B edizioni) passa in rassegna 1203 termini, espressioni e gesti che sono passati al vaglio della giurisprudenza in cause per diffamazione e ingiuria, reati che nel codice penale sono puniti con multe fino a 12 mila euro e il carcere. La compilazione è stata curata da una avvocato cassazionista siciliano, Giuseppe D'Alessandro, che in ogni voce ha precisato le motivazioni delle Corti nelle proprie decisioni. Si tratta di un libro prezioso, perché di fronte ad un giudice anche una parola detta fuori luogo diventa un affare serio. Però oltre all'aspetto giudiziario, la raccolta è utile per capire come è cambiato il Paese e il suo senso del limite negli ultimi cento anni. Perché le offese sono la dimostrazione più lampante di come il linguaggio cambi con il mutare dei tempi, proprio come le mode e le automobili. Basti pensare a come i nostri nonni arrossivano molto più facilmente di noi di fronte a certe espressioni colorite, quando l'espressione "senso del decoro" aveva ancora un senso. Ad influenzare il linguaggio e gli insulti contribuiscono anche la cronaca e la letteratura. Così quel tale che diede del "Don Rodrigo" all'ex Presidente del Consiglio Berlusconi venne assolto perché rientrante nel diritto di critica politica e avrebbe avuto la stessa sorte se gli avesse dato del "Don Chisciotte". Ma chi ha provato a paragonarlo al dittatore romeno "Ceaucescu" fu condannato in primo grado. Sempre a Berlusconi e alle sue giovani frequentazioni dobbiamo l'entrata nell'uso comune di espressioni come "Papi girls" per indicare le donne che fanno carriera grazie alle frequentazioni politiche. Modo di dire che ha spodestato dal podio "Monica Lewinsky" la famosa stagista di Bill Clinton in voga qualche anno prima. L'Italia si divide anche in questo campo. Paese che vai, insulto che trovi. Il Dizionario è ricco di espressioni puramente dialettali, che rendono ancora più settario l'insulto perchè riconoscibile solo da alcune comunità. Scorrendo l'elenco è evidente come la Campania si aggiudichi un posto d'onore per la fantasia. Non a caso il dizionario si apre e si chiude con due espressioni napoletane. Scorrendo le pagine ci si rende conto che non tutte le parole sono insulti. Questo perchè a contare non è tanto il verbo quanto l'intenzionalità comunicativa. Così "questo" se nella lingua italiana appare un pronome inoffensivo, se pronunciato per omettere il nome in senso dispregiativo diventa un'offesa. Dare della "pecorella" ad un pubblico ufficiale oltre che essere da scemi, può causare una condanna per oltraggio. Allo stesso modo "boy scout" se rivolto ad un sindaco costituisce diffamazione, perché espressione di persona immatura. Buono a sapersi oggi che la politica è piena di ex lupetti. Così anche un complimento può camuffare un'offesa. "Onesto" se usato con ironia costituisce diffamazione, così come dare dello smilzo ad un obeso è denigratorio o del "giocoliere" ad un politico equivale a dirgli voltagabbana. La spiegazione del perché parole apparentemente neutre si trasformino così facilmente in insulti, la dà Ugo Ojetti in uno dei suoi aforismi: "se vuoi offendere un avversario lodalo a gran voce per le qualità che gli mancano”. Nel vademecum degli insulti, c'è una parola che torna utile ai politici di oggi avvezzi alle liste di proscrizione e agli attacchi alla libertà di stampa. "Pennivendoli" rivolto ai giornalisti "non solo è offensivo, ma trasborda dal diritto di critica, stante la connotazione inutilmente denigratoria e la sovrabbondanza rispetto al concetto da esprimere". Quindi è punibile. Parola di dizionario.

Ma “vaffa…” si può dire? Risponde il dizionario degli insulti, scrive "Il Dubbio" il 6 febbraio 2017. Un secolo di sentenze nel volume dell’avvocato cassazionista siciliano Giuseppe D’Alessandro che passa al setaccio 1203 termini offensivi e 83 gesti trash. Per aver detto una frase trash si può finire in tribunale. Tanto che si contano molte sentenze relative agli insulti anche se non tutte vanno nella stessa direzione. Il “vaffa” ha perso il suo carattere offensivo: significa “non infastidirmi”, quindi si può dire impunemente, dice la Cassazione. No, anzi. “Questa espressione va condannata perché è indice di disprezzo” è infatti la replica della Suprema Corte in un altro pronunciamento. Ora, però, arriva nelle librerie il Dizionario giuridico degli insulti (A&B editrice), un libro, appena pubblicato, che passa in rassegna oltre un secolo di sentenze pronunciate dai tribunali italiani. L’autore è un avvocato cassazionista siciliano, Giuseppe D’Alessandro, particolarmente attento al tema visto e che ha già pubblicato le statistiche sugli insulti più presenti sui tavoli dei tribunali. “Le sentenze sugli insulti sono appassionanti, ma spesso sembrano contraddirsi e perciò rischiano di creare confusione: che cosa si può dire, allora, senza rischiare di finire in tribunale? E non sono quesiti astratti, visto che le leggi puniscono le offese (ingiuria, diffamazione, oltraggio) con multe fino a 12mila euro e carcere fino a 5 anni” sottolinea sul suo blog parolacce.org lo psicolinguista Vito Tartamella, autore della prefazione del volume.  “Il nuovo dizionario -commenta Tartamella - è un’opera preziosa: può essere utile non solo ai giuristi e ai linguisti, ma anche ai sociologi – per capire come cambia la percezione delle offese nel corso delle epoche – e ai giornalisti e blogger, per sapere quali parole possono o non possono usare nel criticare un personaggio pubblico”. Ma “attenzione: fino a un certo punto. Le parolacce, infatti, non si lasciano ingabbiare in una sentenza, di condanna o di assoluzione, perché possono essere usate in molti modi e non solo illeciti” avverte lo psicolinguista, uno dei pochi studiosi al mondo di parolacce e autore di saggi sulle parole trash. Nel dizionario redatto da D’Alessandro, segnala Tartamella, “si possono trovare, in ordine alfabetico, i pronunciamenti su 1.203 termini insultanti, alcuni in dialetto ma la maggioranza sono insulti in italiano, e 83 gesti trash: dal dito medio all’ombrello”. “Nel libro -continua- trovate tutti gli insulti classici, come stronzo, carogna, puttana, verme, ladro, fogna, infame. E anche espressioni molto più creative o ispirate dalla letteratura e dalla cronaca: dentiera ambulante, diesel fumoso, ancella giuliva, barabba, azzeccagarbugli, Zio Paperone, Papi girl, Pacciani, Lewinsky”. Ma, evidenzia lo psicolinguista, “fra i termini offensivi sottoposti a giudizio, nel volume si trovano anche parole neutre (tizio, boy scout, coccolone) o addirittura complimenti: bella, bravo, onesto. Tutte, espressioni condannate come insulti”. “Com’è possibile? Dipende dall’intenzione comunicativa” perchè, indica Tartamella, “se è vero che con le parolacce posso esprimere anche affetto, pensiamo all’espressione detta fra amici: Come stai, vecchio bastardone?, è altrettanto vero che si può camuffare un’offesa sotto le sembianze di un complimento”.

Perché oggi diciamo tante parolacce? Dalla scelta (censoria) di Rovazzi all’ultimo singolo di Ligabue, mentre il turpiloquio è sempre più diffuso. Lo psicologo: «Ha una carica simbolica che rende più forti le parole, in un mondo dove tutti scrivono e parlano», scrive Roberta Scorranese il 23 gennaio 2017 su "Il Corriere della Sera". Avvertenza: in questo articolo non si leggerà nemmeno una parolaccia. Né quel «ca... che me ne frega», con tanto di puntini pudici, che Fabio Rovazzi ha deciso di censurare nell’ultimo suo pezzo, Tutto molto interessante («Sapete com’è, mi ascoltano tanti bambini»); e nemmeno l’avvertimento, questo invece scandito eccome, che fa Luciano Ligabue nel terzo singolo del suo album Made in Italy, cioè «È venerdì non mi rompete i co...». È vero: sia l’una che l’altra espressione, senza puntini, ogni tanto fanno comodo. Perché la parolaccia è liberatoria, aiuta a sopportare il dolore, come ha decretato una ricerca di Richard Stephens, docente di Psicologia alla Keele University, Regno Unito: il «vaffa» è una specie di aspirina. Sarà anche per questo che ne diciamo tante? Troppe? Sempre più acuminate, anche nelle occasioni ufficiali? Oddio, di certo, l’ultima assemblea nazionale del Pd non verrà ricordata tanto per la «fase zen» annunciata da Matteo Renzi quanto per il «faccia da cazzo» che Roberto Giachetti ha rivolto all’evanescente Speranza. E ci fermiamo qui, perché se proseguiamo negli scranni parlamentari incrociamo il Movimento che del «vaffa» ha fatto un programma politico, i 5 Stelle. E poi non servirebbe: basta prendere una metropolitana per ascoltare ogni giorno una specie di rosario pagano, con discorsi infarciti di membri virili o di rimandi a signorine di dubbio mestiere. Più che nel passato. Perché? Adriano Zamperini, docente di Psicologia della Violenza all’Università di Padova, dice una cosa sensata: «Viviamo in una democrazia. Che è pur sempre un sistema non violento, però fondato sul conflitto. Nel momento in cui la violenza fisica viene condannata, non ci resta che la parola». La parolaccia come sostituto della spada? «Sì, basta guardare i talk show: c’è sempre un’escalation di aggressività parolaia fine a se stessa cosicché chi ascolta, quasi sempre, non capisce nulla». Chissà, forse nasce qui quella sensazione che hanno molti cittadini di non sentirsi mai pienamente informati su nulla. Ma la parolaccia è anche altro. «In un mondo — prosegue Zamperini, autore di La bestia dentro di noi, Il Mulino — in cui tutti parlano e, soprattutto, scrivono, la parolaccia è un carico simbolico che dà peso alla parola, altrimenti troppo leggera, incapace di imporsi nel magma dei discorsi infiniti». Un po’ come, nei messaggi, usiamo sempre più spesso gli emoji; provate a mandare un messaggio senza: verrebbe subito letto come freddo, grave, ostile. O, peggio ancora, anziano (orrore). D’altra parte in quest’epoca scurrile possiamo consolarci: Dante nella Commedia si sollazza con parole quali bastardo, bordello e così via, come nota Pietro Trifone nel suo Pocoinchiostro, sempre del Mulino. E il linguista Giuseppe Antonelli, se da una parte loda la scelta di Rovazzi, dall’altra difende quella di Ligabue («Sta facendo parlare dei personaggi con la loro lingua») e racconta un aneddoto: «Mia figlia di sei anni e le sue amichette, a una festa, ascoltano Andiamo a comandare. Quando arriva il momento in cui J-Ax dice “Rovazzi, che cazzo fai?”, tutte insieme si mettono le mani sulle orecchie per non ascoltare e si mettono a gridare per coprire il turpiloquio. Morale: i bambini capiscono e devono capire bene qual è una parolaccia e quale no; la censura non fa che amplificare il loro interesse. L’importante però è guidarli all’ascolto, spiegare loro che una certa parola è disdicevole». D’altra parte, loro ascoltano i rapper che fanno del turpiloquio una forma poetica, dettata dall’urgenza di rispondere per le rime. Anche qui, parola come spada? «Sì — conclude Zamperini — anche se io, ottimista, sono sicuro che presto torneremo a essere uomini e donne di parola. Cioè ai quali si può affidare il potere infinito del discorso».

Le parolacce? ''Segnale di onestà''. Dal vivo o sui social, per gli altri dici la verità. Un'indagine internazionale racconta i cambiamenti sociali attraverso l'interpretazione della volgarità: "Se non si filtra il proprio linguaggio non si filtrano le idee". Ma l'esperto avverte: "Bene l'approccio comune ma senza scadere nella deriva offensiva", scrive Simone Cosimi il 24 gennaio 2017 su "La Repubblica". Davvero chi dice più parolacce appare più onesto? Sembrerebbe di sì. Stando almeno a una ricerca congiunta di studiosi provenienti da Stati Uniti, Gran Bretagna, Paesi Bassi e Hong Kong e pubblicata sulla rivista Social Psychological and Personality Science. Il linguaggio osceno e scurrile viene in qualche modo riabilitato o almeno analizzato – anche attraverso una corposa analisi su migliaia di post pubblicati su Facebook – per capire l’effetto positivo e il cambiamento dei costumi nel corso dei decenni. D'altronde non siamo più ai tempi in cui una battuta come ''Francamente, mia cara, me ne infischio'', quella pronunciata da Clark Gable/Rhett Butler nei confronti di Vivien Leigh/Scarlett O'Hara in Via col vento, poteva costare 5mila dollari di multa ai produttori. Era il 1939. Secondo David Stillwell, ricercatore in big data analytic all’università di Cambridge e coautore dello studio, ''la relazione fra linguaggio volgare e disonestà è complesso. Imprecare è spesso fuori luogo ma può anche costituire l’evidenza che qualcuno ti stia comunicando la sua opinione reale. Dal momento che una persona non sta filtrando il proprio linguaggio per essere più gradevole potrebbe voler dire che non sta filtrando neanche i suoi punti di vista''. Per provarlo i ricercatori, che hanno simpaticamente battezzato lo studio ''Francamente ce ne importa: la relazione fra volgarità e onestà'', hanno realizzato tre tipi diversi di test. Nel primo hanno sottoposto a 276 partecipanti statunitensi un questionario, domandando loro di elencare le parolacce più frequenti, insomma le preferite e più utilizzate. Ma di spiegare anche le ragioni e le situazioni in cui sfoderano di solito quei termini. Nel secondo hanno messo in scena una sorta di esperimento teatrale per far loro determinare se qualcuno fosse davvero onesto o stesse rispondendo in modo socialmente corretto ma probabilmente falso. A quanto pare, quelli che nella prima lista avevano elencato più termini volgari sono risultati essere quelli all’apparenza più onesti. Nel terzo esperimento, invece, Stillwell insieme a Gilad Feldman, Huiwen Lian e Michal Kosinski hanno messo sotto la lente i dati da 75mila profili Facebook per valutare l’uso delle parolacce nelle interazioni sociali con gli ''amici''. Insomma, nei post e nei commenti. Bene, secondo l'analisi gli utenti che usano un vocabolario più volgare sono anche quelli i cui schemi linguistici rientrano, in base ai risultati di uno studio ancora precedente, nel territorio dell’onestà. Quantomeno, dell’onestà percepita. Ad esempio utilizzano più spesso i pronomi personali ''io'' e ''me'', evidentemente concentrando sulla propria persona il peso di ciò che dicono. Non è un caso che una ricerca simile arrivi proprio all’indomani del giuramento del nuovo presidente Donald Trump, che da candidato non ha certo lesinato l’uso di parole ingiuriose e di termini volgari. Stando ai risultati dei ricercatori, una dose di volgarità potrebbe dunque tornare utile anche nella comunicazione politica, magari solo a certi profili, visto che le persone tendono ad assegnare un ingiustificato grado di verità a chi le pronuncia. Anche in Italia se ne hanno quotidianamente testimonianze più che deplorevoli. ''Chi parla come mangia spesso viene avvertito come genuino, naturale, senza costruzioni – spiega a Repubblica lo psicologo milanese Luca Mazzucchelli, vicepresidente dell’Ordine degli psicologi della Lombardia – per questo arriva in modo diverso all'attenzione dell’ascoltatore. In parte è legato al fatto che l’irriverenza comunicativa prende sempre in contropiede e buca la nostra attenzione, in parte è anche vero che si rivolge alla nostra parte più grezza, senza sovrastrutture, vera''. Il punto, spiega l'esperto, è che il linguaggio è il primo passo per fare breccia nell'attenzione di chi ci ascolta: ''Riuscire a comunicare utilizzando il linguaggio del nostro interlocutore è certo importante – aggiunge Mazzucchelli – ma lo è ancora di più quando riusciamo a entrare nella sua mente, a usare il linguaggio che l’altro magari non esplicita ma coltiva dentro di se: la lingua dei suoi pensieri. E spesso, quando parliamo con noi stessi, siamo molto più ‘sbottonati’ che se lo facciamo pubblicamente''. Imprecare dunque come via elettiva e tristemente inevitabile per una comunicazione efficace? ''Credo che la vera sfida stia nell’usare un linguaggio comune ma senza scadere nella deriva volgare e offensiva, partire sì dal linguaggio dell’uomo della strada per catturare la sua attenzione ma poi arricchirlo con nuovi spunti e nuove parole. Aiutare le persone a crescere è ciò che ripaga più di tutto, anche in ambito comunicativo''.

LA PAROLA CAZZO NEL DIALETTO SALENTINO.

Nessuno se ne abbia a male se il contenuto di questo scritto è un po' volgare... nel nostro dialetto molti concetti, anche molto diversi, vengano riassunti da un'unica semplice parola: "cazzo" ....diciamo come i puffi sostituivano tutti i verbi con il verbo puffare. "Cazzo" in italiano è una brutta parola, ma nel nostro dialetto è molto importante in quanto insieme ad altre spiega chiaramente il senso della vita....In Italiano la parola CAZZO risulta volgare, nel dialetto salentino invece è usata comunemente per sottolineare e accentuare i concetti. Scopriamo degli esempi:

Non saprei = cce cazzu ne sacciu

Chi se ne importa = cce cazzu me na futtu

La situazione è grave = mo su cazzi

Sei proprio testardo = sinti propriu na capu de cazzu

Hai la faccia tosta = tieni la facci ti cazzu

Chi sei? = ci cazzu sinti?

Non ti ho mai visto prima = chi cazzu te canusce

Chi ti credi di essere = ci cazzu ti criti ca sinti?

Non valete niente = non baliti nu cazzu

Mi fai cadere le braccia = e cce cazzu

Grazie, ma lo sapevo già = grazie allu cazzu

Ti stai ponendo con aria un po’ troppo saccente = sta ‘rrivi bellu bellu cazzu cazzu

Chi ti autorizza a parlarmi in questo modo? = ma ci cazzu sinti tie?

Mi stai chiedendo qualcosa che io posso darti = ma cce cazzu vuej de mie?

Non dovresti interessarti ai fatti che non ti riguardano = fatti li cazzi toj 

Sei una persona un po’ assillante = sinti propriu nu cacacazzi

Non ti stai impegnando a sufficienza = nnu ‘mbali nu cazzu

Non ti ho mai visto prima = chi cazzu te canusce

Dove sei? = addu cazzu stai

Dove sei stato? = a du cazzu si statu??

Dove sei andato? = addo cazzzu sisciutu

Con chi sei uscito? = cu ci cazzu si statu?

Non riesci a masticare? = non dai cazzu?

Hai un’ottima capacità di schiacciare (le noci con i denti) = Tei nu bellu cazzu

Schiacciare mandorle = addu fatichi allu cazzu e quanto guadagni 5 lire e lu cazzu francu

Non riesco a masticare = mi manca lu cazzu

Che disgrazia ci è capitata = Capu ti stu cazzu!!! Ce cazzanculu ca mu cappatu!!!!

Ti hanno fatto un bidone= hai piatu nu cazzunculu

Ti hanno fatto un regalo = ce cazzu ete? ci cazzu l'ave ndutu?

Mi hai pestato il piede = m'ha cazzatu lu pede 

Che mangi oggi? = ci cazzu mangi osci?...

Non sono affari tuoi = nu su cazzi toi

E mo li rivedi i soldi prestati = Cu lu cazzu ca me tae li sordi

Niente di niente! = Cazzi ttaccati cu li mazzi

Caspita! Accipicchia! = Capu de stu cazzu

Adesso basta! = m'a cagatu lu cazzu?

Mi offenderei. Oltre al danno, La beffa = lu cazzu nun è ca te ncazzi...ete ca te toli

Con chi mi pare = cu ci cazzu me pare... e cu ci cazzu voiu

Non ho niente = No tegnu nu cazzu

Chi ti vuole = ma ci cazzu ti voli

Fatti i fatti tuoi- fatte li cazzi toi!

Non devi guardare proprio niente = no a uardare propriu nu cazzu

Dove andiamo? = a du cazzu amu scire???

Non abbiamo capito niente = imu kina nà casa de cazzi ma nn imu capitu nu cazzu!!

E ti pareva = e nà cazzuu!!

Oggi sarà dura = osce so cazzi amari

Questo sì che è un bel pasticcio = quistu si ca è nu bellu cazzunculu!

Che brutto tempo!! = Che cazzu de tiempu

Non abbiamo risolto niente = imu dittu missa allu cazzu

Non saprei che cosa fare = che cazzu aggiu fare?????

L'hai fatto male! = l'ha fattu a cazzu!

Quando lo si usa troppo la parola cazzo nel discorso = ma sempre cu lu cazzu m'ucca stai?!

Non prendermi in giro = lu cazzu ca te futte!!!!

Prendi quel coso =- piya du cazzunculu

Se mi arrabbio sono fatti tuoi = ci mi incazzu so cazzi toi

Relatore che continua a parlare fino a farti arrivare allo sbadiglio = sinceramente ma'ggiù ruttu lu cazzu

Persona che ti deride e maltratta = e basta mo ma'ggiu cacatu lu cazzu

Espressione di meraviglia = Stu cazzu!

Sono entusiasta se penso che la volgarità intesa come “vulgus” (dal latino: popolo, plebe, massa) rappresenta anche il lato più intimo di un popolo: il linguaggio. Ad oggi troppi volgari provano ad arrampicarsi sull’inutile montagna della raffinatezza o eleganza millantata. Ogni stile, cultura e usanza ci deve appartenere per rappresentarla al meglio, altrimenti è più rispettoso studiarla, ammirarla e rispettarla. Volgare non è qualcosa da evitare, ma da custodire, facendo in modo che non si mescoli facilmente con altri termini come maleducazione, ignoranza e menefreghismo. Per questo in Salento la parola cazzo è usata sempre: come il cacio su tutti i tipi di pietanza.

L’ITALIA DEL TRASH (VOLGARE).

Manfrine e polemiche da destra a sinistra, giusto per parlarne al solo scopo di autoincensarsi ed autopromozionarsi a fine politico o commerciale. Della serie: scompari o declini, allora fai parlar di te, male o bene, ma fai parlar...Ed infuria la diatriba sui media che non sanno parlar d'altro di interessante.

Caso Meloni-Argento, Rai: "Ci dissociamo". Viale Mazzini si dissocia con una nota dalle parole e "dall'atteggiamento" di Asia Argento. Fdi: "Va rimossa dalla conduzione", scrive Franco Grilli, Venerdì 10/02/2017, su "Il Giornale". La polemica tra Asia Argento e Giorgia Meloni è destinata a non chiudersi rapidamente. L'attacco volgare della conduttrice con una foto e una didascalia carica di insulti sulla Meloni ha innescato due reazioni. La prima è proprio quella della leader di Fratelli d'Italia che su Facebook ha messo immediatamente la Argento nel mirino rispondendo a tono: "Pubblico questo commento di Asia Argento a una foto che mi ha fatto di nascosto (temeraria), perché, al di là dei soliti insulti triti e ritriti che non mi interessano, mi ha molto colpito che abbia parlato della mia "schiena lardosa". Lo pubblico per dire a tutte le donne che hanno partorito da pochi mesi e che per dimagrire non usano la cocaina di non prendersela se qualche poveretta fa dell'ironia sulla loro forma fisica. Valeva la pena mille volte di prendere qualche chilo. Ps. E sappiate che pagate il canone Rai anche per stipendiare gente di questa levatura". La seconda reazione è quella della Rai che ha preso una posizione ufficiale su quanto accaduto: la Rai "si dissocia dalle frasi ingiuriose sulla deputata Giorgia Meloni pubblicate da Asia Argento sui social network. Affermazioni che, pur se espresse nel contesto dei propri account social, sono molto distanti dallo spirito del servizio pubblico", si legge in una nota di Viale Mazzini. E Fratelli d'Italia rincara la dose con il capogruppo Fabio Rampelli: "Il vergognoso, indecente commento che la conduttrice Rai di Amori criminali, Asia Argento, ha postato su Instagram la dice lunga sulla capacita' di questa 'donna' di difendere le donne. ‎Ma dimostra anche l'assoluta inadeguatezza, visti anche gli ascolti imbarazzanti della sua trasmissione". "Il management -aggiunge- la rimuova immediatamente e dimostri di saper scegliere chi deve interpretare ruoli così delicati nel servizio pubblico. Per lo sguaiato e discriminatorio attacco a Giorgia Meloni non bastano nemmeno le scuse". Scuse che sono arrivate via twitter dalla stessa Argento: "Il mio tweet è stato inappropriato. Non avrei dovuto farlo - indipendentemente da idee personali o politiche - contro una donna. Chiedo scusa".

Raggi, scoppia il caso Libero. "Mi risarciranno anche il giornale". Bufera per il titolo sulla Raggi: "Patata bollente". Il M5S fa quadrato: "Che schifo". La Boldrini: "Giornalismo spazzatura". Solidarietà anche dal Pd, scrive Giovanni Neve, Venerdì 10/02/2017, su "Il Giornale". "Patata bollente". È il titolo che oggi campeggia d'apertura sul quotidiano Libero. Feltri: "Non chiedo scusa per quel titolo". Subito sotto la foto del sindaco di Roma Virginia Raggi. E, sopra, l'occhiello: "La vita agrodolce della Raggi". Una presa di posizione che non è andata già al Movimento 5 Stelle che, dopo essersele date di santa ragione per prendersi il massimo scranno del Campidoglio, ha subito fatto quadrato attorno al primo cittadino della Capitale. Con Beppe Grillo che, in apertura del proprio blog, ha sbattuto le fotografie del direttore editoriale Vittorio Feltri e del direttore responsabile Pietro Senaldi, con il link ai loro account Twitter e l'indicazione "Scrivigli su Twitter". "Libero Quotidiano nel 2016 ha perso il 16,3% dei suoi lettori rispetto al 2015. Il 2017 è appena iniziato". Nell'editoriale di oggi, intitolato appunto Patata bollente, Vittorio Feltri scrive che la vicenda politico-privata della Roma si perde tra inchieste giudiziarie e gossip sui presunti flirt in Campidoglio con i suoi assistenti. Una vicenda che rischia di mettere in difficoltà il Movimento 5 Stelle sia in termini di voti e sia di reputazione. I Cinque Stelle si sono subito infuriati. Non hanno proprio digerito il titolo di Libero. Ovviamente, non appena il comico ha dato il via alla gogna mediatica, i grillini si sono scatenati in attacchi e insulti. Su Twitter è subito rimbalzato l'hashtag #libero. "Non so se sia sessismo o semplice idiozia, in ogni caso mi fa schifo - ha tuonato il vicepresidente della Camera Luigi Di Maio - la stampa ha superato ogni limite". Anche la deputata Roberta Lombardi, da tempo in forte contrasto con la Raggi, ha fatto sentire la propria voce sui social: "È qualcosa di vergognoso, deplorevole, perché un simile attacco offende la dignità di ogni donna". E la diretta interessata risponde su Facebook. "Quando chiederò il risarcimento per diffamazione - ovviamente, lo farò - aggiungerò anche 1 euro e 50 centesimi che ho speso per comprare per la prima ed ultima volta questo giornale". A dar man forte ai grillini c'è la sinistra. "Questa prima pagina fa semplicemente schifo", attacca su Twitter il presidente del Pd Matteo Orfini. "È una schifezza", ha fatto eco il deputato dem, Roberto Giachetti. Il presidente della Camera Laura Boldrini parla, invece, di "volgarità sessista": "Questo è giornalismo spazzatura". Il presidente del Senato, Piero Grasso, chiede a Feltri di scusarsi con il sindaco di Roma: "Libero sì, ma non di insultare volgarmente con allusioni oscene".

Caso Raggi, Feltri: "Non chiedo scusa per quel titolo". Bufera su Libero per il titolo sulla Raggi. Feltri a chi lo accusa: "Rispettate le mie idee", scrive Giovanni Neve, Venerdì 10/02/2017, su "Il Giornale". "Ma perché dovrei chiedere scusa?". Vittorio Feltri, direttore del quotidiano Libero, parla con Affaritaliani.it del caso (e delle polemiche politiche) scoppiato dopo il titolo di questa mattina relativo a Virginia Raggi. "Questo stesso titolo lo feci il 15 gennaio 2011 su Libero, dove ero tornato da poco come direttore editoriale, per il caso Ruby ", spiega Feltri. L'occhiello era: "Silvio rischia grosso". E il catenaccio: "Sul caso Ruby offensiva finale dei pm di Milano, processo al premier per sfruttamento della prostituzione minorile. Interrogate cento ragazze, 600 pagine di intercettazioni ma Berlusconi sfida i giudici: solo fantasie, lasciatemi governare o si va al voto". "Lo stesso titolo fatto su Ruby e con foto di Ruby va bene - controbatte Feltri oggi - se invece lo facciamo sulla Raggi non va bene? Come mai?". "Poi che cos'è la patata?", si chiede il direttore di Libero. "A Roma c'è sicuramente una questione scottante. E quindi è una patata bollente". I grillini e la sinistra lo accusano di aver alluso al doppio senso. E lo tacciano di sessismo. "Il doppio senso, eventualmente, lo attribuisce chi legge e non chi scrive", ribatte Feltri. Il presidente della Camera Laura Boldrini ha addirittura parlato di "volgarità da giornalismo spazzatura". "Sono opinioni e io rispetto tutte le opinioni - afferma Feltri - per cui desidererei che fossero rispettate anche le mie, ma forse pretendo troppo". Feltri non chiederà scusa alla Raggi. "Perché dovrei chiedere scusa? Di che cosa? Per la patata bollente? Ma stiamo scherzando? Che questa sia una patata bollente non c'è il minimo dubbio. Poi il salto dalla patata alla figa è notevole". Quindi, conclude: "Da notare che il 15 gennaio 2011 io ero qua, quello su Ruby non fu un titolo di Belpietro, ma mio. Ma nessuno fece polemiche. Anzi, manco se lo ricordano perchè di Ruby si poteva dire tutto. E di Berlusconi soprattutto, perchè Ruby senza Berlusconi sarebbe stata la signora nessuno. Non ci furono polemiche e nessuno disse niente. Nessuno parlò di sessismo. Due pesi e due misure, che differenza c'è tra la Raggi e Ruby? Non sono due persone entrambe degne di rispetto?".

Tutti contro un tubero. M5S, Feltri risponde alla polemica su Patata bollente: "Io chiedere scusa? Rispettino le nostre idee", scrive “Libero Quotidiano" il 10 febbraio 2017. Uno dei meriti che deve essere riconosciuto al titolo dedicato a Virginia Raggi in prima pagina di Libero oggi in edicola, "Patata bollente", è di aver messo d'accordo buona parte dei dirigenti grillini con diversi pezzi grossi del Partito democratico. Da entrambi i partiti è arrivata la richiesta al direttore Vittorio Feltri di chiedere scusa al sindaco di Roma, una richiesta rigettata al mittente: "Ma perché dovrei chiedere scusa? - ha detto ad affaritaliani - Questo stesso titolo lo feci il 15 gennaio 2011 su Libero, dove ero tornato da poco come direttore editoriale, per il caso Ruby rubacuori. L’occhiello era: 'Silvio rischia grosso. Il titolo: 'La patata bollente. E ancora: 'Sul caso Ruby offensiva finale dei pm di Milano, processo al premier per sfruttamento della prostituzione minorile. Interrogate cento ragazze, 600 pagine di intercettazioni ma Berlusconi sfida i giudici: solo fantasie, lasciatemi governare o si va al votò. Lo stesso titolo, 'la patata bollente, fatto su Ruby e con foto di Ruby va bene, se invece lo facciamo sulla Raggi non va bene? Come mai?". Lasciano il tempo che trovano le accuse di sessismo: "Poi che cos’è la patata? A Roma c’è sicuramente una questione scottante. E quindi è una patata bollente". Anche sul doppiosenso e il tono ironico del titolo secondo Feltri va riportato alla realtà: "Il doppio senso, eventualmente, lo attribuisce chi legge e non chi scrive". Tra gli indignati dell'ultim'ora non poteva mancare la presidenta della Camera, Laura Boldrini, che ha definito la prima pagina di Libero: "Volgarità da giornalismo spazzatura". Feltri non usa gli stessi toni esacerbati: "Sono opinioni e io rispetto tutte le opinioni. Per cui desidererei che fossero rispettate anche le mie, ma forse pretendo troppo". Restano le proteste di sottofondo alle quali Feltri non ha nessuna intenzione di dare peso, ricordando poi come si sono comportati gli scandalizzati di oggi solo pochi anni fa: "Perché dovrei chiedere scusa? Di che cosa? Per la patata bollente? Ma stiamo scherzando? Che questa sia una patata bollente non c’è il minimo dubbio. Poi il salto dalla patata alla f..a è notevole. Da notare che il 15 gennaio 2011 io ero qua, quello su Ruby non fu un titolo di Belpietro, ma mio. Ma nessuno fece polemiche. Anzi, manco se lo ricordano perché di Ruby si poteva dire tutto. E di Berlusconi soprattutto, perchè Ruby senza Berlusconi sarebbe stata la signora nessuno. Non ci furono polemiche e nessuno disse niente. Nessuno parlò di sessismo. Due pesi e due misure, che differenza c’è tra la Raggi e Ruby? Non sono due persone entrambe degne di rispetto?".

Feltri: "Volevo parlare con Di Maio, ma per mandarlo affanculo", scrive “Libero Quotidiano" il 10 febbraio 2017. Tra i primi a correre in soccorso di Virginia Raggi dopo il titolo che le ha dedicato Libero in prima pagina c'è stato il vicepresidente della Camera, Luigi Di Maio. Dopo l'elenco consegnato all'Ordine dei giornalisti con l'elenco degli autori di articoli che non gli sono piaciuti, Di Maio ha sentenziato su Twitter: "Non so se sia sessismo o semplice idiozia, in ogni caso mi fa schifo. La mia solidarietà a Virginia Raggi. La stampa ha superato ogni limite". Il direttore di Libero, Vittorio Feltri, avrebbe voluto rispondergli di persona, ma ironicamente ha scritto su Facebook che non è riuscito a parlare con Di Maio perché: "mi hanno riferito che egli è impegnato a tenere una lezione universitaria sull'uso del congiuntivo, e che nei prossimi giorni ne terrà una seconda sul corretto impiego del gerundio. Peccato - ha concluso Feltri - Lo avrei volentieri mandato affanculo". Vittorio Sgarbi entra nella polemica sul titolo di Libero "patata bollente" legato alla vicenda di Virginia Raggi. "Tutti a scandalizzarsi per la 'patata bollente' di Virginia Raggi", scrive il critico d'arte su Facebook. "Ma quando i giornali scrivevano, per restare in tema di ortaggi, della carota bollente di Silvio Berlusconi, dove erano gli indignati di oggi?". Il discorso di Sgarbi, come sempre, non fa una piega. 

Patata bollente, Sgarbi show a L'Arena: asfalta Parietti e Geppi Cucciari con una sola frase, scrive "Libero Quotidiano" il 12 febbraio 2017. L'ha fatto davvero, Vittorio Sgarbi: ha tirato fuori la patata bollente, ancora fumante. Su Twitter il critico più famoso d'Italia si schiera ufficialmente con Libero e, direttamente dalla cucina di un ristorante, rivendica con orgoglio: "Vi mostro la bollente (e tanto vituperata) patata bollita". Con tanti saluti a Virginia Raggi e a chi strilla all'insulto sessista. Con una sola frase Vittorio Sgarbi gela Alba Parietti, ospite insieme a lui a L'Arena di Massimo Giletti, e a distanza Geppi Cucciari, che qualche ora prima al Festival di Sanremo aveva portato la "patata bollente" di Libero sul palco dell'Ariston. Sia la Parietti che la comica si sono schierate nel gruppo di chi si dice scandalizzato per il titolo a loro dire "sessista" che il nostro quotidiano venerdì scorso ha dedicato alla sindaca di Roma Virginia Raggi. La questione, come hanno spiegato i direttori Vittorio Feltri e Pietro Senaldi (per cui Beppe Grillo ha invocato la gogna social), è tutta politica, al di là dell'ironico riferimento "sessuale". Eppure moralismo e strumentalizzazione, con spolverata di doppiopesismo, ha dominato il dibattito nel weekend.  Preso nella morsa, Sgarbi si è ribellato. "La donna va difesa perché donna non in quanto puttana o sindaca", ha incalzato in diretta su Raiuno, rivendicando come non si possa fare distinzione in base a chi viene "colpito". In passato, quando lo stesso trattamento venne riservato a Silvio Berlusconi, Ruby o alle Olgettine, anche con minor ironia, nessuno di coloro che oggi si stracciano le vesti ha fiatato. In una parola: asfaltate le verginelle, a 5 Stelle e non.

"Mio marito mi chiama sempre patata. Che dite, lo devo denunciare?". Standing ovation per Iva Zanicchi. La cantante emiliana con un passato in politica, ospite de L'Arena di Massimo Giletti su Raiuno, riporta la questione della "patata bollente" alla dimensione logica: l'ironia. In studio, a discutere del titolo di Libero su Virginia Raggi che da venerdì ha portato scompiglio nella politica italiana, con un coro sdegnato che va dal Movimento 5 Stelle al Pd, ci sono anche Alba Parietti e il sempre pungente Vittorio Sgarbi, che già a caldo aveva detto di essere contrario a moralismi e doppiopesismo. Ma al di là di ogni commento sul presunto "sessismo" di quella prima pagina (accusa che andrebbe riservata ad altri temi), è proprio l'Iva nazionale a riassumere al meglio tutta questa surreale levata di scudi.

Patata bollente, la doppia morale di Concita De Gregorio: lei parla ma si faceva pubblicità col lato b. Anche la giornalista Concita De Gregorio non ha voluto far mancare il suo contributo agli attacchi a Libero. A proposito della pubblicità di una nota marca di lavatrici (foto in alto), l'ex direttrice dell'Unità ha commentato: «C' è qualcuno a Libero che nel dopolavoro si applica al marketing di questa ditta, o forse il contrario». La lezione di bon ton, al solito, arriva da chi dà buone lezioni perché non può più dare cattivo esempio. Proprio la De Gregorio, nel 2008, quando dirigeva l'Unità da pochi mesi lanciò una campagna pubblicitaria in cui il giornale fondato da Antonio Gramsci compariva nella tasca posteriore della minigonna di una procace fanciulla (foto sotto). «Nuova, libera, mini», era lo slogan. Fioccarono le polemiche e la direttora si difese dicendo che «non era bene usare il corpo di una donna per vendere automobili, ma per pubblicizzare un prodotto intellettuale è pertinente». Ovvio, se di sinistra, anche un culo diventa un prodotto intellettuale. Da Libero, invece, può venire solo bieco sessismo.

La pagella dei famosi a Sanremo: da Toti scatenato alle bestemmie per Bianca Atzei.

La Pagella dei famosi di Alessandra Menzani, sempre in Sanremo special edition. 

10 - I ladri di carrozzelle, la band formata da invalidi ospite della finale. La loro hit si chiama “Viva la patata”. “Ma non l’abbiamo cantata al Festival, non ci sembrava il caso”. Peccato.

9 - Il più scatenato di Sanremo? Il governatore della Liguria Giovanni Toti, di Forza Italia. La notte della semifinale ha “sbocciato” fino alle 3 di notte al ristorante La Pignese, divertendosi un mondo. Al suo tavolo, per dieci minuti, anche Alba Parietti.

8 - Sven Otten, il ballerino della pubblicità della Tim. Ventinove anni, di Colonia, è diventato un personaggio, tanto che ieri è salito sul palco della finale. E ha ballato sulla voce di Mina, che non è poco.

7 - Boom delle scommesse Sisal MatchPoint su Sanremo. Tutti a dare le proprie preferenze e, a sorpresa, il 17 per cento di chi scommette è donna. Mai accaduto prima.

6 - Virginia Raffaele. La sua parodia di Sandra Milo è favolosa, come sempre, ma forse sarebbe stato meglio imitare un personaggio più attuale e “politico”.

6bis - L’armonia di coppia. Maria De Filippi e Carlo Conti non ne sprizzavano molta.

5 - Mentre su Raiuno andava in onda la semifinale, su La7 si registrava un certo imbarazzo da parte di Lilli Gruber. Alla fine di Otto e mezzo, la giornalista non ce l’ha proprio fatta a dire: “Dopo di noi va in onda il film La Patata bollente”.

4 - Marica Pellegrinelli. Non si capisce perché quest’anno abbiano chiamato le bellone per una semplice comparsata di 2 minuti.

3 - Le giornaliste all’Ariston. Cinque giorni di Sanremo, con un’ora di sonno ogni notte sul groppone, non fanno bene alle rughe. Una settimana in Riviera equivale a dieci anni di vita.

2 - La rabbia di Gigi D’Alessio. Su Facebook ha ululato: “Sapete chi ci è rimasto male? Sto c…o”. Con tanto di gestaccio.

1 - Chi è il giornalista di un importante quotidiano del sud che bestemmiava (a più riprese) durante l’esibizione di Bianca Atzei? Perché la bella sarda è così odiata?

La "patata bollente" fa sbroccare Grillo: così lancia la guerra a Libero, Feltri e Senaldi, scrive il 10 febbraio 2016 “Libero Quotidiano”. No, a Beppe Grillo non è piaciuto il titolo di prima pagina di Libero. "Patata bollente", riferito a Virginia Raggi, ha scatenato la reazione scomposta del leader del Movimento 5 Stelle che dal suo blog ha invitato alla gogna pubblica, come da triste usanza. "L'informazione italiana", con foto-combo della prima del nostro quotidiano e i volti dei due direttori, Vittorio Feltri e Pietro Senaldi, con "caldo invito" a scrivere loro via Twitter. Ovviamente, pronta la pioggia di insulti per un pacato confronto su giornalismo e affini. La più classica delle shitstorm social, con tanto di hashtag gentilmente dedicato, #Libero. Tra le prime personalità istituzionali a partecipare si segnalano, ovviamente, Luigi Di Maio, la presidenta della Camera Laura Boldrini e il dem Matteo Orfini. L'ex marito della sindaca, Andrea Severini, va giù duro: "Poi ci domandiamo perché siamo una società maschilista e sessista, vergognatevi pezzenti". Nel suo editoriale Feltri spiegava anche con ironia come la vicenda politico-privata della sindaca grillina di Roma, persa tra inchieste giudiziarie e gossip sui presunti flirt in Campidoglio con i suoi assistenti, gli ricordi da vicino quella ben nota e assai più strombazzata di Silvio Berlusconi e le Olgettine, vicenda che per inciso è costata parecchio al Cav in termini di voti e reputazione. "Intendiamoci - scrive il direttore - personalmente non condanno i peccati della carne e neppure quelli del pesce. Il moralismo non è il mio forte. Pertanto mi limito a sottolineare che le debolezze accertate del Cavaliere meritano la medesima considerazione di quelle supposte della sindaca. Le valutiamo con lo stesso metro di giudizio: l'erotismo è legittimo ed è materia su cui non vale la pena di indagare". Più che di merito, dunque, un problema di par condicio. "Non ho titolo per chiedere le dimissioni della Raggi, ma i suoi mentori cessino di adorarla come una regina", è l'invito di Feltri, che poi profetizza: "Con la presente preghiera mi sarò guadagnato spero l'iscrizione nella lista di proscrizione che Di Maio ha compilato includendovi i giornalisti sgraditi e rei di aver canzonato i santi pentastellati". Giusto, anzi sbagliato: si è mosso Grillo in persona.

Patata bollente, l'affare s'ingrossa: spunta pure la Boldrini, scrive “Libero Quotidiano" il 10 febbraio 2017. Tre, due, uno: dopo la "Patata bollente" scende in campo Laura Boldrini. Anche la presidenta della Camera, come prevedibile, si schiera con Virginia Raggi come chiesto da Beppe Grillo con tanto di hashtag #Libero. Non è piaciuta, a quelli del Movimento 5 Stelle, la prima pagina del nostro quotidiano dedicata ai guai politico-sentimentali della sindaca di Roma e all'appello agli insulti hanno aderito in tanti. Compresa la Boldrini, appunto, che ha definito "giornalismo spazzatura" quello di Libero. Ma l'affare s'ingrossa, visto che Pietro Grasso, presidente del Senato, ha chiesto ufficialmente al direttore Vittorio Feltri do chiedere scusa alla Raggi. Ovviamente, la parola chiave della indignazione social è "sessismo", termine che di questi tempi si abbina un po' con tutto, come il nero. Nel florilegio di volgarità più o meno illustri, spicca però il commento pacato di Paola Taverna, una delle più agguerrite nemiche interne della Raggi ma che per l'occasione fa quadrato intorno alla compagna di grillismo. Su Facebook, la sempre educata deputata si concede questi ameni passaggi: "Vede dottor Feltri, con un semplice parallelismo sarebbe facile alla sua definizione del sindaco di Roma come "patata bollente" accostare per lei "gran testa di cazzo". E poi, dopo averci edotto su come utilizzerà il nostro giornale ("Sarà un piacere rivestirci il fondo del mio secchio della spazzatura"), si sbilancia in un augurio non nuovo dalle parti della Casaleggio: "In attesa che la sua testata sparisca insieme a tante altre". Questo, più che sessismo, è proprio odio.

Il caso Raggi e il gigantesco bar sport oltre gli argini della convivenza civile. Ormai il pensiero di pancia, la battuta greve, sono diventati consuetudine. E spesso sono i politici, per l’ansia di essere vicini alla gente, ad avvicinarsi al peggio della gente, scrive Marco Imarisio il 10 febbraio 2017 su "Il Corriere della Sera". Solidarietà bipartisan per Virginia Raggi dopo l’attacco della prima pagina di Libero. Muori. L’invito è accompagnato dal consueto insulto che fa riferimento a eventuali attività mercenarie del proprio corpo. Nei giorni in cui il dibattito nelle piazze virtuali è stato dominato dal tweet di Caterina Balivo sulla moralità di Diletta Leotta, da quello di Asia Argento sulle fattezze di Giorgia Meloni e infine, per chiudere il cerchio su un sessismo spesso spacciato per goliardia, dal titolo di Libero sulla patata bollente di Virginia Raggi, causa esigenze di lavoro è capitato di leggere un messaggio del genere rivolto su Facebook a Giorgia Galassi, una delle superstiti dell’hotel Rigopiano. È una ragazza di vent’anni rimasta prigioniera di neve e macerie. Qualcuno la ritiene colpevole di aver postato foto delle sue vacanze in Svizzera. In buona sostanza, di essere sopravvissuta e di scrivere frasi persino banali sulla vita che continua. Ci vorrà molto tempo per capire quando, esattamente, si sono rotti gli argini. Nel nostro dibattito pubblico sono saltate regole elementari di convivenza, tolleranza, persino di educazione minima. E non da ieri. Ormai il pensiero di pancia, la battuta greve, sono diventati consuetudine. Non c’è più alcuna intermediazione tra stomaco e polpastrelli, buona la prima, come se fossimo in un gigantesco bar sport virtuale. Anche per i titoli di giornale, che sono grandi perché devono essere il riassunto di una vicenda. Gli amori presunti del sindaco non dovrebbero neppure essere una nota a margine nel dramma di Roma, intesa come città. Le sue questioni personali non hanno alcun rilievo, a meno che non diventino snodi importanti dell’inchiesta giudiziaria. Il titolo di Libero fornisce legna al falò cospirazionista dei Cinque Stelle, alla teoria dei media cattivi che senza alcuna distinzione ce l’hanno con loro. Invece le responsabilità sono sempre individuali, e forse qualche distinzione andrebbe fatta. Proprio per questo, addossare la colpa a Internet rappresenta spesso un alibi di comodo. Oggi Beppe Grillo può tuonare contro la patata bollente di Libero. È la stessa persona che ha contribuito in modo decisivo a questa decadenza del nostro discutere, che poi sarebbe anche un modo di stare insieme. Fu lui a chiedere agli utenti del suo blog cosa avrebbero fatto se si fossero trovati in macchina da soli con Laura Boldrini, a chiedersi in un tweet se Maria Elena Boschi non fosse per caso in tangenziale con Pina Picierno. Nel 2001, quando durante uno spettacolo diede della vecchia meretrice a Rita Levi Montalcini, ma il termine era più comune ed esplicito, Facebook non esisteva ancora. I social network hanno sicuramente contribuito a sdoganare nella politica e in alcuni media un linguaggio e una lettura del mondo deresponsabilizzata, come se fosse possibile dire tutto, sempre. A voler cercare momenti che hanno segnato il crollo di ogni separazione tra le bacheche virtuali più deleterie e ambiti in teoria più protetti ci si imbatte anche nel deputato pentastellato Massimo De Rosa, che il 30 gennaio 2014 in aula, rivolto alle colleghe del Pd disse che si trovavano in Parlamento solo per le loro capacità nel sesso orale. E anche qui la frase originale era molto più cruda. L’ansia di essere vicini alla gente ha prodotto un avvicinamento al peggio della gente, spesso tollerato con molta indulgenza. Ieri Matteo Salvini ha dato a denti stretti la sua solidarietà a Virginia Raggi, ma non risulta che rimpianga di aver detto che Boldrini, una sua ossessione, aveva meno cervello di una bambola gonfiabile. E lasciamo perdere le banane e i paragoni con le scimmie che la Lega Nord ha riservato all’ex ministra Cecile Kyenge. Anche Vincenzo De Luca, uomo forte del Pd in Campania, è ancora al suo posto dopo aver sostenuto che la sua nemica Rosy Bindi avrebbe dovuto essere uccisa, ultima perla di un rosario che comprende ovviamente anche giudizi sull’avvenenza della sua compagna di partito. Se tutto è lecito come su Facebook, se anche chi ricopre una carica istituzionale sente il bisogno di essere «uno di noi», allora è possibile che il vicepresidente del Senato Maurizio Gasparri risponda con insulti e sberleffi ai suoi follower su Twitter, che il deputato Ernesto Carbone si esibisca nel celeberrimo «ciaone» agli sconfitti del referendum sulle trivelle, senza capire che ci vorrebbe rispetto, sempre e comunque. La lotta allo sdoganamento dei cattivi sentimenti viene sovente subordinata ad altre necessità più impellenti, che siano la convenienza politica, il tifo da stadio per le opposte fazioni o la semplice consapevolezza di essere comunque coinvolti. Vittorio Feltri ha ragione quando dice che quel titolo venne fatto anche per le olgettine di Silvio Berlusconi, ma in quella occasione non si levò nessuna protesta, o quasi. Abbiamo tutti le nostre colpe, comprese frasi, vignette e titoli sbagliati dei giornali. Ma non possiamo più permetterci l’indulgenza demagogica per lo sfogo, per la volgarità esibita. Perché stiamo perdendo qualcosa, tutti. C’è tanta gente sempre più cattiva in giro. Non solo sulla pagina Facebook di Giorgia Galassi, non solo su Internet. Anche e soprattutto là fuori, nella vita vera. Forse è arrivato il momento di metterci più attenzione. E di tornare ai fondamentali della nostra convivenza.

Raggi, lardo e patate nel menu del trash, scrive Francesco Merlo l'11 febbraio 2017 su "La Repubblica". Lardo e patate è il menu guasto di giornata, la porcheria di parola che sta lordando non l’italiano, ma il dibattito pubblico e giornalistico. “La patata bollente” è la metafora sessuale di delegittimazione della sindaca Virginia Raggi usata ieri, come titolone di prima pagina, dal quotidiano Libero. Lardosa (“spalle lardose”) è invece l’insulto che Asia Argento ha rivolto a Giorgia Meloni. Lardo e patate dunque, come il piatto triestino di cucina povera, “patate in tecia”: sapori forti e sostanza debole, surrogati di gastronomia, la sapida miseria servita in tavola. E va detto subito che non sono cibi linguisticamente scandalosi perché la volgarità non scandalizza ma annoia, e proprio mentre conforta con ammiccanti risatine la stupidità e la pigrizia mentale, l’ottusità aggressiva che si spaccia per furbizia. Niente indignazione superciliosa, per carità. Di sicuro, però, i seicento professori universitari che, come l’indimenticabile Aristogitone di Arbore, qualche giorno fa se la sono presa con gli studenti — ovvio muro basso della cultura e dell’alfabetizzazione — hanno ora una ricca occasione per studiare lo stile, il modello e il paradigma del polemos italiano che una volta era un gioco di intelligenze e qui è diventato sguaiataggine e basta. Ho il sospetto che ci sia più di un nesso tra lardo e patate e gli studenti che, secondo i professori che li formano, non sanno usare l’italiano. Di sicuro la realtà sembra rispondere proprio a quei professori con una lezione di linguistica complessa, perché qui non ci sono gli insulti a Meloni e poi a Raggi, ma ci sono anche le solidarietà degli avversari politici della sindaca e soprattutto c’è l’uso che Grillo, Di Maio e la Rete grillina stanno facendo della metafora patata. Attenzione: l’imputato non è la lingua, che è sempre ricca e dunque impura, ma è il collasso dei valori che nella lingua si trasmette e che spinge un’attrice fragile e radicale come Asia Argento a oltraggiare un’altra donna, Giorgia Meloni, a freddo, fotografandola di nascosto mentre mangia, e definendo “lardosa” la sua schiena, che è una volgarità infantile, tanto gratuita quanto disarmante. L’offesa di Argento, scritta in inglese su Twitter, non riesce ad essere nobilitata né dal richiamo sprezzante a Trump, che è il nuovo automatismo, il nuovo tic linguistico della pigrizia di sinistra, l’ultima scorciatoia del pensiero, né dalla parola “fascista”, dal rimando cioè a una stagione della storia che in genere in Italia mette le ali anche all’insulto più pedestre, meno fantasioso e più sciocco. Ecco il testo completo che accompagna la foto di Meloni che sta mangiando seduta a un tavolo di ristorante, di tre quarti e di spalle: «Back fat of the rich and shameless. Make Italy great again. # fascist spotted grazing (La schiena lardosa della ricca e svergognata. Facciamo l’Italia grande di nuovo. #fascista colta a brucare al pascolo»). Qui ci sono due aggravanti evidenti e due nascoste. Quelle evidenti sono la politica e l’inglese. È ovviamente legittimo non apprezzare la politica di Meloni, il suo populismo, la sua simpatia per Trump, la rabbia che semina nelle periferie e tra i coatti romani e gli emarginati. Ma che c’entrano con la politica le spalle lardose che sono robaccia da sfogatoio triste e da pattumiera del risentimento? Forse qualcuno dei 600 professori troverebbe molte somiglianze, magari per contagio, tra questo linguaggio povero ma risentito e quello dei picciotti dell’odio, comici del vaffa, ammaestrati pavlovianamente in Rete. Anche l’inglese qui è un’aggravante perché mostra una scienza di lingua per surrogare la povertà della lingua. È come ostentare un Rolex d’oro o l’unghia lunga del mignolo mentre bevi il caffè. Le aggravanti nascoste sono la recente maternità di Meloni e il lavoro di Asia Argento che in televisione conduce un programma che ogni settimana scova, denunzia, spiega e condanna episodi di violenza proprio contro le donne. Non è ovviamente secondario che Asia Argento abbia chiesto scusa. Ma chi chiederà scusa a Virginia Raggi, svillaneggiata con il doppio senso triviale, con la malizia sporcacciona? Perfido e dunque ben più pesante è infatti il titolo di Libero con la metafora sui bollenti spiriti e le passioni che berlusconizzerebbero la sindaca Raggi, la quale, ha spiegato Vittorio Feltri nel suo editoriale — come sempre chiarissimo ed esplicito — trafficherebbe in prestazioni e incarichi politici, tra Cupido ed Eros e Priapo, direbbe Gadda. È probabile che più che attaccare Raggi, Feltri abbia voluto ribadire la normalità di Berlusconi, la vecchia idea che lì ci fu solo privata esuberanza sessuale, un po’ di quel fuoco che ogni tanto brucia tutti, dal gatto in amore alla sindaca di Roma. In realtà non c’è nessuna evidenza che assimili Raggi a Berlusconi. C’è solo la casuale di una polizza — “relazione sentimentale” — e poi ci sono i soliti mille gossip che le attribuiscono mille amori. Accade sempre a tutte le belle donne di potere, è il riflesso condizionato, la vecchia maldicenza che diventa silloge di luoghi comuni, tra sorrisetti salaci e volgari storture per un chiacchiericcio pruriginoso che è alimentato dai grillini stessi, spurga dallo stesso Campidoglio. Davvero nulla a che fare con l’oscenità dei pezzi di Stato con cui l’allora presidente del Consiglio pagava prima i suoi piaceri sessuali a una turba di Olgettine e poi le spese degli imbrogli che da quei piaceri derivavano. E però, a guardare le reazioni, le solidarietà obbligate e spesso pelose dei nemici e la furbizia degli amici di Raggi, sembra quasi che il titolista di Libero sia il compare di Grillo e Di Maio, che voglia toglierli di impaccio permettendo loro di assimilare i tuberi ai fatti, di attaccare tutto il giornalismo italiano mescolando la patata con la cronaca, le offese sessuali alla Raggi con la fredda precisione del taccuino e del registratore del collega della Stampa Federico Capurso, la volgarità con le critiche argomentate e ragionate che sono il sale e non la feccia della democrazia, sono gli ingredienti della libertà di stampa e non del trash, non del lardo e patate che è un piatto alla Grillo, quello che svillaneggiava Boldrini, è un piatto alla Salvini … Ecco, la lingua che dovrebbero spiegarci i professori alla Aristogitone, che era quello che si presentava così: “quarant’anni di insegnamento, quarant’anni di disillusioni, quarant’anni di illusioni in mezzo a queste quattro mura scolastiche”.

Patata bollente, Grillo sputtanato: ecco cosa diceva lui di Boschi, Boldrini e Montalcini, scrive di Gianluca Veneziani l’11 febbraio 2017 su “Libero Quotidiano”. Ma come, Beppe, proprio tu. Tu che, tra blog e social, hai sparso perle sessiste un po' dovunque, senza fare distinzioni di età, di partito, di avvenenza fisica, e che hai attaccato ripetutamente le parlamentari in quanto donne, le donne in quanto parlamentari e le donne in quanto donne, ora fai il piangina e gridi allo scandalo per il titolo di Libero sulla Raggi alle prese con una «Patata bollente»? Che la coerenza non fosse il tuo forte lo avevamo già intuito, ma pensavamo che ciò si limitasse a faccende tutte politiche, al fare i giustizialisti con gli altri e i garantisti con i propri, alla convinzione che «tutti gli indagati sono uguali, ma i nostri sono più uguali degli altri». E invece no, ci sbagliavamo, perché i cortocircuiti e le continue giravolte fanno parte del tuo modo di essere e di scrivere e forse della natura stessa del Movimento, che ha inventato insieme la post-verità e il suo rovescio. E in questo ci vuole talento, bisogna riconoscerlo. Sai com'è, però. Uno dei maggiori problemi del web, della tua amata rete, è che le cose che dici e scrivi rimangono, e puoi rinnegarle, cancellarle o rimangiartele quanto vuoi, ma là restano, scripta manent in Internet. E ci sarà sempre qualcuno pronto a tirarle fuori e a rinfacciartele, alla prima occasione buona. Come noi, stavolta. Ecco, dunque, tu che ora ti ergi a paladino della Raggi vilipesa sessualmente da Feltri&Senaldi, dovresti ricordarti di quella volta in cui, con un post su Facebook, ti chiedevi «cosa succederebbe se ti trovassi la Boldrini in macchina?» e linkavi un video, sotto il quale i commentatori si scatenavano, dicendosi pronti o a «trombarla» in prima persona o a «portarla in un campo rom e farla trombare con il capo villaggio». Non era sessista quel post? E soprattutto non se lo ricorda la Boldrini, che ora invece prende le parti del Movimento e in un tweet scrive «Piena solidarietà alla sindaca Raggi per volgarità sessista del quotidiano #Libero»? Eppure parliamo di quella stessa Boldrini, contro la quale voi del Movimento avevate fatto querela per diffamazione, avendo lei definito gli interventi sul blog di Grillo degni di «potenziali stupratori». Ma ci si dimentica subito delle offese date e subite quando si tratta di fare fronte comune contro uno stesso nemico: un giornale di destra. E perciò è probabile che si sia scordata degli insulti pure Maria Elena Boschi contro la quale tu, Grillo, avevi ritwittato un post non proprio sobrio secondo cui il vero lavoro dell'allora ministra delle Riforme era battere sulla strada. «#Boschidovesei», lanciavi l'hashtag su Twitter, dopo l' affaire Banca Etruria. E subito rilanciavi la risposta di un tuo follower: «In tangenziale con la Pina». Quando si dice lottare contro il sessismo...Non fu l'unico caso. Perché le donne del Pd sono state da te a lungo associate ad attività che esulavano, come dire, dalla prassi politica. Ad esempio quella Debora Serracchiani, da te accusata sul blog di avere troppi incarichi al suon di «Serracchiani mille mani» (avevi avuto la decenza di non specificare, allora, cosa facesse con quelle mani), e ancora più direttamente offesa con il retweet «#SerracchianiBugiarda stuprati le orecchie». Uno può pensare che sia normale prendersela con le donne più in vista, con quelle che, al momento, rappresentano bersagli da attaccare sul piano personale per colpirle sul piano politico. Ma allora come giustificare gli attacchi immotivati a figure di lungo corso e ormai di secondo piano, che non sono più un vero ostacolo per la conquista del potere? Gente come Rosy Bindi che nel 2012, in una poco allegra dichiarazione, definisti una sessuofobica nonché una povera sfigata che non aveva mai conosciuto i piaceri della carne. «La Bindi», dicevi, «problemi di convivenza con il vero amore non ne ha probabilmente mai avuti. Vade retro, Satana. Niente sesso». Al confronto, la punzecchiatura del Cav che la definiva «più bella che intelligente» era una carezza... A proposito di Cav, sei stato pure capace di postare un'immagine di pessimo gusto con Mara Carfagna, Ruby e Nicole Minetti che si toccavano gli attributi, in compagnia di Gad Lerner, che a sua volta si ravanava i gioielli di famiglia; un fotomontaggio del tutto gratuito rispetto al contenuto del post in cui sostenevi che in politica non serve la gavetta... Ma in quel caso era l'immagine a parlare, più delle parole. Non fu l'apice del trash sessuale, perché fosti in grado di prendertela anche con l'allora 92enne (sic!) Rita Levi Montalcini, l'illustre scienziata italiana, accusandola dopo la sua nomina a senatrice a vita (era il 2001) di aver ricevuto il premio Nobel solo perché al soldo di una casa farmaceutica che le aveva comprato il premio, e chiosando in modo invero elegante: «Vecchia puttana!». E vabbè, dici, sono le donne il pallino fisso di Beppe Grillo, che sotto sotto deve essere pure un po' misogino. E invece no, perché Beppe-il-paladino-delle-donne-contro-Libero sa berciare anche contro gli omosessuali, gay in politica come Vendola che - siccome riceve un vitalizio di oltre 5mila euro - merita, a suo giudizio, tweet pesantemente omofobi. Ai tempi Grillo lanciò prima l'hashtag #BabyVendola, contro la sua baby-pensione, e poi ritwittò il post «Vendola vaffanculo! Ah no, ti piacerebbe»... Che classe. Se gli tocchi la Raggi, va su tutte le furie. Ma se si tratta di bersagliare ogni altra donna o omosessuale, che si insulti pure. Forse la spiegazione sta in una battuta di Crozza, parafrasata: per lui la Raggi non è una donna. È una grillina.

Grillo e la patata, fuoco amico: cosa scrivono i grillini sul suo blog, scrive Brunella Bolloli l’11 febbraio 2017 su “Libero Quotidiano”. La Rete grillina parla solo di Libero. Il coro indignato dei pentastellati dice che il giornale fondato da Vittorio Feltri «fa vomitare», «deve chiudere», «fallirà», «è cartaccia buona solo per pulire i vetri», «è misogino», «mi sta sul cazzo», «è diarrea liquida», «è letame», «fa schifo». I gruppi M5S su Facebook augurano la morte al direttore Feltri, ripescano vecchie sentenze per diffamazione, attaccano (con tanto di foto) il direttore responsabile Pietro Senaldi e la redazione: «Con noi al governo sarete tutti in mezzo alla strada», dicono compiaciuti. Su altri profili la base M5S si organizza per scendere in piazza il 17 febbraio a sostegno di Virginia Raggi «la nostra sindaca». Ma leggendo i post sul blog di Grillo, tra la carrellata di insulti rivolti al nostro quotidiano, spiccano commenti di attivisti M5S che non si sono offesi per il titolo sulla patata bollente. «Solo io trovo il titolo spiritoso?», dice Lario, «giocato sul doppio senso ma per un giornale piuttosto scandal/gossiparo come Libero ci può stare. Più strano che sul blog di un (più o meno ex) comico/satirico faccia tanto scandalo. A volte la politica va presa un po' alla leggera, senza anatemi (a meno che non si sia similtrinariciuti). «Sono una convinta sostenitrice del m5s e una grande ammiratrice di Raggi», ma non sono scandalizzata dall' articolo di Feltri», scrive Luci. «Secondo me con l'espressione patata bollente non intende essere irriverente nei confronti della Raggi, ma intende dire che rappresenta, nel suo insieme un grosso problema per il M5s e questo chi lo può negare? Quanto al confronto con la storia di Berlusconi secondo me intende dire che è stato attaccato talmente a lungo che alla fine si e arrivati al suo allontanamento e alla chiamata di Monti che può quasi essere considerato un colpo di Stato». Un altro, Giustino, aggiunge: «Titolone di Libero in perfetto stile sessista/grillino! È Beppe Grillo infatti che ha dato della puttana alla Montalcini, per cominciare, e nel corso degli anni si è esibito una lunga teoria di squallidi epiteti alla varie Boschi, Boldrini, fino ad arrivare alla Littizzetto...». La lista delle voci contrarie al coro degli indignati prosegue anche sul blog di Luigi Di Maio, dove Vanes Luciani scrive: «Giggi, ma dimmi perché non criticano l'Appendino? Forse perché lei è capace? Forse perché aveva la giunta fatta PRIMA delle elezioni? A te questo titolo potrà fare schifo, ma le colpe le avete eccome!!! Ps: ti piaceva di più se titolavano con parole vostre: «Vaffanculo?».

M5s, Grillo pubblica su facebook un post sulla Boldrini e scatta la furia degli ultrà, scrive l'11 febbraio 2017 “Libero Quotidiano”. "Cosa succederebbe se ti trovassi la Boldrini in macchina?". Era il febbraio 2014, tre anni prima del titolo di Libero su Virginia Raggi e la "Patata bollente" che ha fatto gridare allo scandalo il Movimento 5 Stelle. Parlare di sessismo all'epoca non era ancora di moda, ma quel post di Beppe Grillo, proprio lui, aizzò gli animi dei grillini ben al di là di ogni ironia su tuberi e affini. La "provocazione" - Il leader dei 5 Stelle condivide su Facebook il video di un attivista grillino che si esibisce in una chiacchierata on the road con una Boldrini cartonata appoggiata sul sedile della sua automobile. Lo sketch del grillino è tutto un monologo basato sulle vicende di quei giorni, soprattutto su quella ghigliottina usata dalla Presidenta della Camera per abbattere i tempi per la conversione in legge del decreto Imu-Bankitalia. A scatenare la bufera sono i commenti apparsi sulla bacheca di Grillo proprio sotto quella domanda usata come promo per la clip: "Cosa succederebbe se ti trovassi la Boldrini in macchina?". Commenti-choc - Qui si è scatenata la furia degli ultrà grillini, commentatori, che va detto, probabilmente non sono degli iscritti al M5s, ma simpatizzanti del Movimento (qualcuno li accusa di essere dei "troll"). Quello di Marco Fiuzzi è uno dei commenti più morbidi: "La scaricherei subito sulla statale, magari fa un po' di cassa extra". Subito dopo arriva Enzo Castrini che rincara la dose: "La metto a pecora e poi la fotto in c....". Di seguito Carmela Bonafiglia afferma che "la prenderebbe a botte" mentre Antonio Truffa "brucierebbe la macchina assicurandosi che le porte siano ben chiuse". Infine, solo per citare un altro commento-choc c'è qualcuno che spedirebbe la Boldrini tra i campi degli zingari: "La porto in campo rom e la faccio trombare con un capo villaggio", scrive Fabio Fogu. Insomma un clima d'odio fuori controllo, altro che patate. 

Gli insulti velenosi contro Boschi e Picierno: l'allusione sessuale di Grillo, scrive il 9 gennaio 2016 “Libero Quotidiano”. Continuano a darsele di santa ragione i dem e i grillini sui social network. Stavolta ad accendere la miccia è l’hashtag #BoschiDoveSei?, coniato da Beppe Grillo contro la ministra delle Riforme. Lo staff M5S, come di consueto, rilancia i tweet degli attivisti che adottano l’hashtag lanciato dal blog di Grillo, che ben presto scala la classifica delle Tendenze su Twitter. Ma il Pd attacca il leader 5 Stelle per aver rilanciato messaggi a sfondo sessista. "Il nervosismo dei grillini si traduce in offese sessiste nei confronti delle donne del PD. Che vergogna infinita», scrive l’esponente dem Francesco Nicodemo, che accusa Grillo di aver rilanciato il tweet «#BoschiDoveSei in tangenziale con Pina" Picierno, altra esponente dem. "Sessismo, giustizialismo, pressappochismo. È la solita indigesta miscela di Grillo e di un M5S sempre più in difficoltà" gli fa eco il senatore Pd Andrea Marcucci. Francesco Russo, altro dem di prima linea, rincara la dose: "Sì al confronto politico anche duro, no agli insulti sempre sinonimo di ignoranza e mancanza di argomenti. Vero Beppe?".

Travaglio e la frase volgarissima sulla Boschi "trivellata dai pm", scrive il 5 aprile 2016 “Libero Quotidiano”. In fondo stava solo aspettando l'occasione giusta, Marco Travaglio. E l'inchiesta sul petrolio in Basilicata glie l'ha fornita su un piatto d'argento. Una brutta storia, un intreccio altamente imbarazzante per il ministro Guidi, costretta alle dimissioni, ma soprattutto per Matteo Renzi e Maria Elena Boschi, chiamata direttamente in causa. E proprio sulla Boschi colpisce la penna velenosissima del direttore del Fatto quotidiano, che nel suo editoriale la cita di passaggio esibendosi però in altissime vette di malizia. L'incipit è tutto un programma: "Diciamolo: questa è sfiga", così inizia il commento di Marco Manetta dal titolo maramaldo "Tempa rossa la trionferà". La Boschi "trivellata dai pm" - Ma prosegue rimestando ancora più nel torbido: "Ieri Matteo Renzi, in grandi ambasce per Mariaele che in quel mentre veniva trivellata dai pm di Potenza". Boom. D'accordo, le "trivelle" al centro dell'inchiesta (e con un referendum alle porte, con il Fatto schierato fortissimamente per il sì e contro il governo) forniscono l'alibi per sapidi giochi di parole a cui Travaglio non si sottrae, anzi, tra "ambasce", un gigionesco "Mariaele" fino a quel "trivellata". E già ci si immagina, sotto la spinta dell'enfasi travagliesca, l'orgogliosa ministra sottomessa dai rudi, vigorosi e gagliardi magistrati lucani, un tumultuoso amplesso di botte e risposte, un interrogatorio orgiastico fatto di "non sa" e "non risponde". Insomma, si annusa un'aria piena di doppi sensi e allusioni sessuali. Diciamolo: questa è volgarità (o almeno, tale sarebbe bollata se a scriverla non fosse stata l'irreprensibile macchina da guerra del Fatto).

"Putt...", "and...". Laura Boldrini, faccia a faccia con la casalinga che la odia, scrive il 26 novembre 2016 “Libero Quotidiano”. "Boldrini sei una put... andicappata vattene a casa". Gli insulti con tanto di strafalcioni firmati da Gabriella Maria Feliziani erano tutti per Laura Boldrini che l'ha prima "denunciata" e poi, dopo il pentimento della "hater", invitata per un faccia a faccia. Riporta il Corriere della Sera che la casalinga di Massignano ha ammesso di aver sbagliato, si è scusata e ha scritto: "È stato l'attimo dell'imbecille... Presidente chiedo fermamente scusa, mi vergogno per quello che ho detto". La presidente della Camera le ha chiesto di incontrarla: "Voglio parlare con lei, capire cosa spinge le persone a covare tanto odio". Si è conclusa così la giornata contro la violenza sulle donne per Laura Boldrini che ha deciso di pubblicare online i nomi e le offese di quanti la continuano ad insultare sui social network.

Patata bollente e pistola fumanti, Vittorio Feltri, l’11 febbraio 2017 su "Libero Quotidiano”, umilia le verginelle 5 stelle.

Il caso del nostro titolo di ieri, Patata bollente, riferito alla vicenda tribolata di Virginia Raggi, è paradigmatico dello strabismo che affligge il mondo politico e quello dei media. Attivisti di partito e cronisti usano due pesi e due misure nel valutare i fatti, anche i più semplici. Ne diamo immediata dimostrazione. Il 15 gennaio 2011 Libero se ne uscì con lo stesso titolo succitato: Patata bollente. Ma nessuno se ne scandalizzò, zero polemiche, zero accuse di sessismo al nostro quotidiano. Sapete perché, cari lettori? Allora, quel titolo era dedicato (identica posizione in prima pagina, apertura) non certo alla Raggi bensì a Ruby Rubacuori, la minorenne che, stando alle notizie dell'epoca, dilettava le serate di Silvio Berlusconi a Villa San Martino di Arcore. Capito l'antifona? Se ti occupi delle ragazze che allietavano le cene eleganti dell'ex premier puoi tranquillamente scrivere che si trattava di patate bollenti. Ovvio, di Silvio potevi dire di tutto, e delle sue amiche, idem. Lui era definito da varia stampa nano, caimano eccetera. E loro, le fanciulle, erano impunemente liquidate quali escort e anche peggio. È evidente la malafede. Sei anni orsono non ci fu anima che abbia osato criticare Libero per il medesimo titolo riservato ieri alla sindaca di Roma. Come se Ruby avesse minor dignità umana rispetto alla Virgo potens. Pubblichiamo la documentazione di quanto abbiamo asserito da cui risulta, incontestabilmente, che i soloni del politicamente corretto cambiano parere sul linguaggio a seconda delle persone oggetto di attenzione. Ruby, dato che stava col Cavaliere, era considerata alla stregua di uno straccio col quale era lecito lustrarsi le scarpe, mentre la Raggi che ha triplicato, per affetto, lo stipendio al suo Romeo, che a sua volta ha regalato a lei, ignara, una polizza da 30 mila euro, non può essere sfiorata nemmeno con una patata né bollente né fredda. Ma vi sembra, questo, un metodo accettabile? Nel presente numero di Libero spicca una foto ricavata dal sito di Beppe Grillo. Guardatela, rimarrete a bocca aperta davanti a cotanta volgarità. Accusano noi di sessismo e dimenticano che il Movimento 5 stelle nacque col vaffaday, cioè con l'ideologizzazione del vaffanculo. D' accordo che il culo è neutro, maschile e femminile, però non è più chic della patatina fritta. Perfino Matteo Salvini in questa circostanza ha espresso solidarietà a Virginia. Ne siamo sorpresi. Solidarietà di che? Di casta? Noi siamo cronisti e raccontiamo quello che vediamo con una scrittura il più colloquiale possibile, e tu Salvini, che pur ci conosci, per fare il figo ti allei coi grillini allo scopo di crocefiggerci come se fossi una qualsiasi Boldrini? Scusa, ma ti senti bene? Poi ci sono Di Maio e una schiera di pentastellati che ci insultano secondo il loro stile, dimenticandosi di essere essi stessi i teorici del vaffanculo su cui hanno fondato successi elettorali incomprensibili sul piano logico. Non sanno i verbi ma sono verbosi. Non sanno parlare ma straparlano. Ignorano che i giornali di opinione se non avessero una opinione non avrebbero senso di esistere, e non è obbligatorio che tale opinione coincida con quella di Grillo. E veniamo all'Ordine dei giornalisti. Mi informano che il presidente nazionale, Iacopino, considera il nostro titolo disgustoso. Gli farei notare che, sei anni fa, era già al vertice della corporazione, ma non si accorse del trattamento che usammo per Ruby, identico a quello usato ora per la Raggi. Il che significa che per lui Virginia è di una razza superiore a quella della marocchina? Spero di non offendere nessuno se affermo che siamo di fronte a un plotone di esecuzione formato da "pistola fumanti". Gente che spara alla cieca per adeguarsi al conformismo più vieto. Non abbiamo la pretesa che si condividano le nostre idee. Ci accontentiamo di poterle esprimere senza dover affrontare tribunali speciali. Siamo sessisti? Forse. Ma noi lo siamo a parole, e gratis. Altri lo sono in pratica e si fanno triplicare la paga solo perché vogliono bene a chi gliela dà. La paga. E magari non solo quella.

Vittorio Feltri il 12 febbraio 2017 su “Libero Quotidiano”: la Raggi, la patata e i depensanti. Ringraziamo tutti quelli che non si sono accodati all’esercito della salvezza che lancia in resta ha aggredito Libero, reo di aver pubblicato un titolo, giudicato licenzioso e volgare, dedicato alle rocambolesche vicende del Comune di Roma, fonte di barzellette più che di delibere atte a risolvere i problemi rancidi della città. Fa piacere e un po’ sorprende scoprire che in Italia c'è ancora qualcuno non contaminato dal conformismo politico e linguistico. Il titolo in questione è noto: «Patata bollente», riferito alla situazione scottante in cui la sindaca Virginia Raggi si è ficcata, probabilmente a causa della propria inadeguatezza al ruolo. Ringrazio soprattutto Alessandro Sallusti, direttore del Giornale, che pur non avendo citato la testata del mio giornale, ha ricordato un titolo blasfemo del Manifesto, pubblicato l'indomani dell'elezione a Papa di Ratzinger. Questo: «Pastore tedesco». Espressione geniale finché volete, il cui significato però era (e rimane) il seguente: quel Pontefice è (visto che è ancora vivo) un cane. I commenti all'iniziativa del quotidiano comunista per eccellenza furono improntati ad ammirazione. Non un cane, neppure pastore tedesco, ebbe parole di biasimo per il direttore che aveva ideato quel titolo da brivido e fortemente offensivo. Da questo episodio si evince che è lecito dare della bestia al Papa, mentre è vietato parlare delle patate bollenti servite in Campidoglio. Segnalo lo stravagante fenomeno a coloro che si sono stracciati le vesti dopo aver letto venerdì la prima pagina di Libero recante il famigerato accostamento di Virginia al tubero focoso. Per Ratzinger paragonato a un quadrupede teutonico non si scandalizzò alcuno, né progressista né conservatore. Non abbaiò nemmeno l'Ordine dei giornalisti; non sporse manco il muso dalla cuccia e tenne la coda rigorosamente tra le zampe. Si trattava di non disturbare i manovratori di un giornale di sinistra. Molto chiaro. D'altronde, il Papa è un bieco cattolico talmente mite da non sognarsi di protestare né di querelare, invece con la Raggi c'è poco da scherzare, cribbio, è una pentastellata raccomandata addirittura da Peppino Grillo. Quindi bisogna fare quadrato e difenderla anche dalle bischerate commesse da lei stessa. Scaricare le sue colpe su Libero è un gioco da ragazzi cui partecipano entusiasticamente e gratuitamente anche i presidenti di Senato e Camera. Al mio stimato amico Francesco Merlo, che sulla Repubblica ci tira le orecchie e ci impartisce una lezione di stile, rammento pure il titolo cinofilo sul Pontefice, casomai se lo fosse scordato, pregandolo di prenderlo in esame per verificare se sia migliore o peggiore della patata, gradita peraltro ai vegani, quasi tutti di sinistra. Inoltre, gli do un consiglio. Invii ai professori che hanno denunciato l'italiano sgangherato degli studenti qualche articolo del suo direttore, Calabresi, che temo consideri la sintassi un odioso pregiudizio borghese. 

Vittorio Feltri: «Feci lo stesso titolo su Ruby e nessuno fiatò perché era marocchina», scrive Giulia Merlo l'11 Febbraio su "Il Dubbio". Il direttore di Libero non si scusa con Virginia Raggi, difende il suo “Patata bollente” e attacca i detrattori: «Un ridicolo e ipocrita pandemonio per un titolo di giornale». «Ma quali scuse?», commenta serafico Vittorio Feltri. Ieri, il direttore di Libero ha pubblicato sulla prima pagina del suo quotidiano il titolo più commentato (e criticato) della stampa italiana. Il suo «La patata bollente» – campeggiante sopra una fotografia della sindaca di Roma Virginia Raggi – ha suscitato le reazioni indignate dell’intero panorama politico, per una volta unito nell’unanime condanna.

Direttore, l’ha stupita la reazione al suo titolo?

«Ho notato il pandemonio ridicolo che si è scatenato contro quel titolo. Direi però che, da parte mia, lo stupore è stato relativo: sono abbastanza abituato a questo tipo di reazioni e non mi sconvolgo di certo».

Un classico esempio di perbenismo all’italiana?

«Guardi, noi domani (oggi per chi legge ndr) pubblicheremo di nuovo la prima pagina di Libero del 15 gennaio 2011, in cui facemmo lo stesso titolo su Ruby Rubacuori. In quel caso, curiosamente, non si scatenò alcuna corsa alla condanna per sessismo. Era perché Ruby era marocchina, o forse perché in quel caso si trattava della solita vicenda berlusconiana? Rilevo che, invece, lo stesso titolo utilizzato con la Raggi ha suscitato pubblica e unanime indignazione. Allora forse una domanda dovrei farla io, a coloro che lanciano strali: perché per Raggi è stato sessismo e per Ruby no? Un doppiopesismo emblematico, direi».

Molto rumore per nulla, quindi?

«Non so esattamente quale sia il problema: “patata bollente” è una metafora che si usa nel linguaggio delle persone per bene. Non mi interessa capire, invece, in altri gerghi lessicali che cosa si decida di leggervi dietro».

Ma, al netto della polemica, secondo lei Virginia Raggi dovrebbe dimettersi o comunque trarre qualche conseguenza politica, dopo le notizie degli ultimi giorni?

«Ma assolutamente no, le persone con cui va a letto sono fatti suoi personali».

Eppure anche i grillini ormai sembrano tentennare sulla difesa ad oltranza di Raggi.

«Da giornalista noto che nel Movimento 5 Stelle si sta animando un certo scontento nei confronti dell’amministrazione romana. Tuttavia non ho né verificato in prima persona, né ho mai frequentato ambienti vicini ai grillini. Poi sa, io vivo a Milano, che è una città tutto sommato ben amministrata e in cui si vive bene. Per me Roma ha un interesse esclusivamente giornalistico e mi limito a rilevare che la Capitale ha avuto una lunga lista di sindaci ridicoli, non vedo come Raggi possa essere o sia peggiore di altri che l’hanno preceduta».

Rileverà, però, che c’è un imbarbarimento del dibattito pubblico…

«Ma sa, l’Italia è abituata a questo tipo di dibattito dopo le prodezze sessuali di Berlusconi raccontate con profusione di particolari. E poi di certo non mi stupiscono le debolezze carnali di Raggi, anche lei è umana».

Ma quindi nulla da eccepire?

«Io per primo non sono un santo, ho fatto le mie esperienze nella vita e francamente non mi importano i dettagli della vita intima della sindaca. Non è ovviamente questo il dato che mi interessava rilevare».

E cosa le importa, invece?

«Mi sembra di interesse, per esempio, il fatto che goda di questi piaceri della vita a spese delle casse comunali. Ecco, non trovo elegante triplicare lo stipendio dell’impiegato del Comune con cui si va a letto. Non erano eleganti nemmeno le cene di Berlusconi, certo, ma almeno lui le pagava di tasca propria».

Patata bollente, Pietro Senaldi l’11 febbraio 2017 su “Libero Quotidiano”: i grillini ci devono solo ringraziare. E dire che mi sembrava una gatta morta. Invece, tira più una patata bollente che un carro di grillini al governo della capitale. Che spreco di parole per il nostro titolo («Patata bollente») dedicato ai guai del sindaco di Roma Virginia Raggi. L'affare si ingrossa più del rosso del bilancio di Roma. Eppure, quando avevamo fatto il medesimo titolo per Ruby, con tanto di foto ben più esplicita, non avevamo suscitato altrettanto sdegno, malgrado ce la prendessimo con una ragazza quasi minorenne. Forse perché oggetto dell'attacco allora era Berlusconi, e quindi tutto era giustificato, perfino il titolo «Merkel culona inchiavabile», opera del Fatto Quotidiano. La frase fu attribuita a un'intercettazione del Cavaliere mai venuta fuori senza che questo però suscitasse sdegno né dubbi sulla sua esistenza, e sulla quale l'Ordine dei Giornalisti, che oggi vuole processarmi, non ha mai indagato. E invece ieri è scoppiato il putiferio perché avremmo insinuato quello che i grillini si gridano in faccia tra loro, visto che l'ultimo assessore grillino giubilato, Berdini, è in procinto di dimettersi per aver accusato il suo sindaco di tresche. C' è chi mi ha dato del sessista chiedendosi come faccia mia moglie a vivere con me visto che sicuramente visto che scrivo su Libero la tratto male. Se è solo per quel titolo, sono fiero di essere definito sessista. Per il resto, non mi importa perché non mi importa nulla di cosa pensa di me chi mi chiama così. E perché chi mi accusa di questo di me non sa nulla. Potrei non essere sposato, potrei essere gay. Mi viene il dubbio che chi ci attacca non abbia neppure letto l'articolo sotto il titolo. Anzi ne sono certo, vista la tempistica di autorevoli esponenti del Pd, scattati come i cani di Pavlov al tweet in cui Grillo invitava il Paese a scrivere per testimoniare il suo disprezzo a me e a Vittorio Feltri. Mi viene anche il dubbio che chi mi dà del sessista in realtà non conosca il significato del termine, che da vocabolario è «chi discrimina in base al genere sessuale». Se però noi paragoniamo la vicenda Raggi a quella di Berlusconi, che abbiamo difeso ripetutamente per i suoi assalti alla vita privata, che discriminazione sessuale è? A proposito, molti giornali hanno riportato che l'ex capo segreteria della Raggi, Salvatore Romeo, avrebbe scritto «ragioni affettive» nella causale della polizia vita intestata alla sindaca. Solo Libero ha verificato e riportato che non è vero, non c'è nessuna motivazione. Chi è più sessista? Un rammarico però ce l'ho: con il nostro titolo abbiamo dato una grossa mano a M5S, distogliendo l'opinione pubblica dai disastri del governo grillino della capitale, che anche oggi documentiamo, a pagina 7. Per un giorno, tutti saranno con la Raggi e nessuno si preoccuperà dei guai di Roma, dei conti in rosso, degli assessori usa e getta, dello stadio, della spazzatura in strada, dell'ora e passa che un romano impiega mediamente per andare al lavoro, dei campi rom e delle periferie in mano agli spacciatori. Ai grillini però, che lenzuola a parte, sono davvero una novità nel panorama politico italiano, vorrei dare un suggerimento. Diffidino dalla solidarietà che è stata a loro espressa da Orfini, Giachetti e una serie di altri personaggi irrilevanti. Il Pd e tutto il mondo della sinistra hanno annusato che Cinquestelle è in crisi e si gettano sulla carcassa: solidarizzano per prendervi i voti. Nel tentativo di sedurre l'elettorato deluso da Cinquestelle dalla maggioranza di governo in tanti ci hanno accusato di voler alzare i toni. Forse dovrebbero dirlo alla collega che dagli stessi banchi ci ha accusato di istigazione al femminicidio. Siamo rassegnati, la politica attaccata si difende come tutti, facendo quadrato. Così la Boschi dimentica di quando Grillo ha retwittato un messaggino che la invitava «a tornare a lavorare in tangenziale» e la Boldrini si dimentica del sondaggio «Cosa le fareste chiusi in macchina con lei?» lanciato dal blog di Grillo. Ieri ho ricevuto molti messaggi di solidarietà da colleghi di altre testate. C'è perfino chi ha definito i grillini squadristi. Vi ringrazio ma voglio tranquillizzarvi, lo squadrismo era cosa seria, questi sono solo patatini arrostiti. C'è anche chi mi augura di perdere il lavoro ma questo più di me metterebbe in difficoltà i Cinquestelle. Sarebbe bello vedere Di Maio e la Raggi battersi per darmi il reddito di cittadinanza. Ringrazio anche il capocomico, Beppe Grillo. Da oggi, finalmente, grazie a lui tutta Italia sa che sono il direttore responsabile di Libero e Liberoquotidiano.it. I più furbi e ironici di tutti nella vicenda, si sono dimostrati comunque quelli de La7, che ieri hanno mandato in onda il film La patata bollente con Pozzetto e Ranieri. Non c'entra nulla e dicono che è un caso. Chissà se l'ordine indagherà.

"Caro Grasso, ti dico io dove è la patata bollente...". Melania Rizzoli il 12 febbraio 2017 su “Libero Quotidiano”, la verità sul sessismo in aula. «Vuol dire che siamo migliorati, ed è bene che adesso ci sia maggiore indignazione di allora, oggi noi siamo più civili e più sensibili». Queste le parole di Pietro Grasso a commento di chi gli segnalava l'assenza di critiche a Libero ed al suo direttore, quando questi, 5 anni fa, utilizzò lo stesso identico titolo, «La patata bollente», in relazione a Ruby Rubacuori e a Silvio Berlusconi. Il presidente del Senato però dovrebbe sapere che lo stesso dibattito politico da mesi sta toccando alti livelli e forse dovrebbe scendere ogni tanto dal suo trono per andarsi a sedere tra gli scranni dell'Aula che presiede, o di quella della Camera, per scoprire che le deputate hanno addirittura creato un «Intergruppo Parlamentare per le donne, i diritti e le pari opportunità» (si chiama proprio così), nel quale si riuniscono per esprimere la loro condanna alla escalation di allusioni, quelle sì sessiste, che vengono urlate pubblicamente nei loro confronti durante i dibattiti politici e dove denunciano la loro preoccupazione per le offese inaccettabili delle quali sono state oggetto. La seconda carica dello Stato, dovrebbe infatti aver letto il documento uscito dal succitato Intergruppo, in cui si chiede non ai giornalisti, ma a tutte le forze politiche, ai loro leader e a lui incluso, di attuare subito una moratoria di simili insulti e di tutti i linguaggi non appropriati e a sfondo sessista, dando così il buon esempio nel sanzionare lui stesso un simile comportamento dell' assemblea che dirige, almeno per essere credibile, prima di criticare pubblicamente un ironico e discusso titolo di prima pagina. Questa non sarebbe una semplice questione di forma, ma un segnale di serietà, quella che è mancata ai tanti che hanno pubblicamente detto la loro sulla questione della «patata bollente», e che in passato si sono espressi con un gergo molto più esplicito. Nella scorsa legislatura, seduta tra i banchi di Montecitorio, io stessa ho registrato il linguaggio sessista di molti parlamentari, ed ho ascoltato i più violenti attacchi volgari e maschilisti nei confronti delle mie colleghe di centrodestra, senza che ci fosse una Boldrini di turno ad insorgere, senza ascoltare l'indignazione dei cosiddetti intellettuali, senza leggere una riga di giornalismo critico a riguardo, anzi, ho visto solo sghignazzi allusivi e sentito toni così vergognosi che quelli da stadio al confronto parevano da catechismo. Dove erano i benpensanti quando Sabina Guzzanti disse in una pubblica piazza che Mara Carfagna era arrivata alle Pari Opportunità per le sue abilità «oratorie»? O quando la Gelmini per il suo lato B, o la Rossi per il suo lato A venivano triturate dall'umorismo maschio che le descriveva come equivoche deputate, con meriti ben distanti dalla meritocrazia, e oggetto di ogni pettegolezzo e maldicenza sui rapporti ritenuti tutt' altro che onorevoli con il loro leader? Non ho sentito nessuno all'epoca tirare fuori la storiella lisa del sessismo nei tanti titoli ironizzanti e allusivi e nei quotidiani editoriali dei giornali. Dove erano i parlamentari Pd che, con livido garantismo mascherato da finto buonismo, oggi si indignano per la Raggi, mentre all' epoca il loro collega dei 5stelle Massimo Felice De Rosa accusava in Aula le deputate Dem di essere lí «solo perché brave a fare i pompini», o quando Grillo, in un post dove accusava di partigianeria la giornalista del Tg1 Claudia Mazzola, usò il titolo «Basta servizietti»? E che dire dell'allora portavoce del M5s Claudio Messora, quello che scrisse: «Ho fatto una cosetta a tre con Carfagna, Gelmini e Prestigiacomo», e poi cinguettò alla Boldrini: «Volevo tranquillizzarti. Anche se noi del blog di Grillo siamo tutti potenziali stupratori... tu non correresti alcun rischio»? L' elenco del pensiero comune sulle donne in Parlamento rischia di essere lungo per questo articolo, e tristemente focalizzato sul tacco 12, sull' assenza di castità, o sulle «relazioni sentimentali» per arrivare ai ruoli occupati, a dimostrazione che il vero linguaggio sessista serpeggia proprio su quella stessa scena politica che le denigra come indegne eredi di Nilde Jotti, e non in un titolo di giornale. Ma la barbarie evidentemente non è uguale per tutti, poiché esistono offese derubricate a quisquilie, ad equivoci o a satira, come nel caso delle parlamentari su citate, mentre per la mancata Giovanna D' Arco di Roma si sono sollevate indignazioni di vergini immacolate, in una sorta di rapimento mistico generale, a difesa di quella che è ormai considerata dagli italiani la novella statista del fallimento grillino. La «patata bollente», senza doppio senso, è davvero nelle mani della sindaca Virginia Raggi, la quale, che le bruci o no, dovrebbe passarla di mano, più in fretta possibile, e concludere l'epilogo della sua penosa vicenda romana non cercando una pelosa solidarietà bipartisan, non prendendosela con il titolo di un quotidiano, o con la lista dei giornalisti critici che è stata inviata dal Movimento come un elenco di proscrizione all'Ordine, ma chiedendo lei scusa, e rassegnando le sue dimissioni da un incarico che non è alla sua altezza, né culturale, né intellettuale, né tantomeno politica. Virginia smetta quindi di fare la vittima di questa testata, di fare da censore alla libertà di espressione, non per una questione di sessismo, ma per una questione di pura dignità, poiché è solo lei ad essere vittima di se stessa. E questo non perché Libero fomenti il «pensiero debole» politico nei confronti delle donne, come è stato accusato di fare, ma perché raccoglie il «pensiero comune» dei romani, quelli che in otto mesi di guida grillina hanno visto la loro città scivolare in una pericolosa agonia prossima al coma, che sta per diventare irreversibile. E morire, si sa, non piace a nessuno, né a Roma né tantomeno ai romani, soprattutto a causa di una sedicente sindaca che la «patata bollente» non si decide a passarla di mano.

ITALIANI: UN POPOLO DI STUPIDI ODIOSI.

I social e la sindrome dell’invidia di tutto (che si trasforma in odio). Nasce una nuova sindrome: la paragonite. Se una volta c’era l’invidia del vicino, oggi ci confrontiamo con il mondo. Desideriamo perfino le nostre stesse vite photoshoppate, scrive Costanza Rizzacasa d’Orsogna il 18 ottobre 2018 su "Il Corriere della Sera". Il #foodporn, le vacanze, il buco tra le cosce. Viviamo nell’era dell’invidia, dice il Guardian, e c’è un’invidia per tutto, anche dei figli coi capelli biondi altrui. Scorri le foto di Instagram, di Facebook, e vuoi disperatamente le vite degli altri e non la tua. Ma è anche l’era del risentimento, che quest’invidia maledetta ci fa crescere dentro. Perché l’invidia è un killer silenzioso che si tramuta in odio, e uccide gli altri ma soprattutto noi. Se già Aristotele parlava dell’invidia come un dolore per la fortuna del vicino, oggi che con i social ci confrontiamo con il mondo, l’invidia cresce a dismisura, esplode, e questo ha un costo per la specie umana. E all’improvviso non ti frega più di niente, dimentichi persone ed animali, è la distopia di un mondo dove anche i gatti vengono abbandonati se non riescono bene nelle foto. L’invidia è ovunque dallo psicoterapeuta, dov’è tutto un lagnarsi delle vite felicissime degli altri, di non riuscire ad ottenere lo stile di vita che vorremmo, che ci spetta.

«Tutto finto, ma ci credo». C’è anche una nuova sindrome: paragonite, la chiama Windy Dryden, tra le più note esperte inglesi di terapia cognitivo-comportamentale. Perché, certo, noi sappiamo che ci sono i filtri, Photoshop, l’opzione Magic dell’app AirBrush che ti fa venire senza rughe. Sappiamo che l’hashtag #nofilter è una pietosa bugia verso se stessi. Ma, dice la psicologia, anche il saperlo non è difesa alcuna contro le forze dell’invidia. È tutto finto, ma ci credo lo stesso. Così più scorri, più l’invidia aumenta, più scorri e peggio ti senti. E se non fosse abbastanza, c’è qualcosa di più malefico ancora, dice al Guardian Sherry Turkle. Quando guardiamo alle nostre vite online, photoshoppate e costruite, e non ci riconosciamo, e vogliamo essere quelli. Guardiamo noi come fossimo altri e c’invidiamo, e al posto delle nostre vite vogliamo quelle che diciamo di avere. Così, mentre corriamo dietro all’angolo perfetto, la nostra vita, dice Turkle, diventa un carapace. Vuota dentro tranne che per l’invidia che proviamo verso gli altri.

I talk show e l’effetto moltiplicatore della tv del rancore. Non c’è mai stata una tv del rancore come quella attuale. Che sembra alimentata solo da rivendicazioni, da astio, da livori, scrive il 19 ottobre 2018 Aldo Grasso su "Il Corriere della Sera". Non c’è mai stata una tv del rancore come quella attuale. È incredibile: più si moltiplicano i talk show, più aumenta il rancore come se ogni discussione fosse alimentata solo da rivendicazioni, da astio, da livori. I sintomi più evidenti del rancore sociale si manifestano attraverso il linguaggio sprezzante, lo svilimento della competenza, il rischio, anche solo a parole, di superare quella sottile linea che separa l’uso legittimo di poteri dalla violazione delle norme. Pensavo a queste cose, osservando Daniela Santanché, ospite di Luca Bizzarri, Paolo Kessisoglu e Mia Ceran alla seconda stagione di «Quelli che dopo il tg» (Rai2, dal lunedì al venerdì, ore 21.05). Sia chiaro, la Santanché non è l’effigie del rancore, anzi. Anche se, quando c’è da discutere, non le manda a dire, sa usare le parole come pietre. L’altra sera, commentando le foto degli armadi di Wanda Nara, parlava amabilmente delle sue scarpe: i tacchi sono una mia protesi, ho il tacco incorporato, cose del genere insomma. Era persino simpatica, a testimonianza che c’è un grandissimo bisogno di ilarità, di qualche risata in più. Insomma, torna l’eterna domanda: ogni uomo nasce buono e felice, e se diventa rancoroso la causa è da ricercare nella società che ne corrompe l’originario stato di purezza? Capisco che di questo passo si finisce sulla piattaforma Rousseau e sulla «volontà generale» della Casaleggio Ass., così piena di «buoni selvaggi», di persone che credono che la condizione migliore di vita sia solamente quella dell’uomo pre-talk. Ma torniamo a «Quelli che dopo il tg», il classico programma di «access prime time», quella frazione di tempo fondamentale per dare identità al palinsesto e per strizzare l’occhio a un pubblico più giovane. Irresistibili le imitazioni di Ubaldo Pantani. In realtà, non è facile, dopo un tg, riproporre magari le stesse notizie con un segno diverso: è più impegnativo mostrarsi cialtroni che essere seri.

Odio ad personam, scrive Francesco Maria Del Vigo, Giovedì 2/11/2017, su "Il Giornale". Caccia all'uomo. Il nemico che i grillini vogliono abbattere è prima di tutti uno: Silvio Berlusconi. L'antiberlusconismo ossessivo non è una meteora, nel firmamento dei Cinque Stelle. L'odio per il leader di Forza Italia è una delle prime ragioni sociali del Movimento. E ora, alla vigilia delle elezioni siciliane e all'antivigilia di quelle politiche, con un Cavaliere sempre più forte, tirano fuori le loro vecchie cartucce. Ma la polvere da sparo ormai è bagnata. Tutto è iniziato a metà degli anni Novanta, Berlusconi non aveva fatto in tempo a mettere un piede nell'arena politica che Grillo lo aveva già messo nel mirino. Prima lo faceva dai palchi dei propri show portando a casa una lauta ricompensa. Poi ha deciso di passare all'incasso elettorale. Lo ha dipinto come un imprenditore sull'orlo del crac finanziario (ma l'unica cosa che è fallita è stata la sua previsione), un capitalista senza scrupoli e un mafioso. Ma era solo l'inizio di una campagna contra personam che sarebbe proseguita per anni, passando dalle minacce agli insulti fisici, dagli auguri di sventure ai nomignoli dispregiativi. Un odio viscerale che dal copione del comico sarebbe poi entrato anche nei programmi del politico. Gli attacchi si fanno sempre più personali, morbosi e violenti. Grillo è sempre in prima linea contro il leader di Forza Italia: nel 2002 porta in giro uno spettacolo di 150 minuti monopolizzato dalla figura del Cavaliere, nel 2003 aderisce a un'azione di boicottaggio contro i prodotti che fanno pubblicità sulle reti Mediaset. Lo scopo? «Difendere la libertà di informazione». Danneggiando un'azienda che offre occupazione a migliaia di persone. Ma era l'Italia dell'antiberlusconismo con la bava alla bocca, del nemico da abbattere a tutti i costi. Quando può, Grillo si accoda a tutte le manifestazioni anti Cav da piazza Navona al Popolo viola, e se ha bisogno di una platea maggiore va in tv, dal suo amico Santoro. Il giorno in cui il Cavaliere viene condannato in via definitiva il leader dei Cinque Stelle brinda «a un evento storico come la caduta del muro di Berlino». Si sa, lui ama sconfiggere i nemici per via giudiziaria più che elettorale. È un'ossessione ai limiti dello stalking. Grillo odia Berlusconi e tutto quello che fa riferimento a lui. A partire da Fininvest: nel 2004 scrive su Internazionale che il colosso di Cologno Monzese ha accelerato il declino del Paese. Non si sa su quali basi. Ma non c'è da stupirsi: Grillo è anche quello che diceva che l'Aids non esiste e che i vaccini sono inutili. Nel 2012 viene condannato per diffamazione a risarcire 50mila euro al Biscione. Ma la persecuzione verso il patrimonio della famiglia Berlusconi (e non solo, nel sedicente francescanesimo grillino i ricchi sono tutti dei pericolosi nemici) arriva anche nella prima bozza del programma dei pentastellati sull'informazione, nel quale è scritto nero su bianco che con un loro ipotetico governo non potrà esistere nessun canale televisivo nazionale posseduto a maggioranza da alcun soggetto privato con più del 10 per cento. Vi viene in mente qualcuno in particolare? Ecco, appunto. Praticamente un esproprio di Stato. Una misura sartoriale fatta per spegnere Mediaset. E poi - insulto dopo minaccia - arriviamo fino agli ultimi mesi, con il tentativo di far fuori Berlusconi dalla vita politica con un emendamento ad hoc da infilare nel Rosatellum. Per chiudere con la ridicola indagine, aperta a Firenze, sulle stragi di mafia, che ricalca uno dei refrain grillini e porta in calce la firma di Nino Di Matteo, amico e grande ispiratore del Movimento 5 Stelle. E siamo solo all'inizio di una lunga campagna elettorale.

Vademecum del populista, scrive Piero Sansonetti l'8 Marzo 2018 su "Il Dubbio". Cos’è il populismo? Non sono uno studioso di politologia per dare una spiegazione teorica. Posso provare a “nominare” alcune caratteristiche che tornano sempre e che sono elementi fissi nella fisionomia populista. A me ne vengono in mente quattro.

Il giustizialismo. Tutti i movimenti populisti hanno questa impronta. Non esistono movimenti populisti garantisti, e neppure libertari. L’idea di fondo che sorregge il populismo è quella dell’uso della macchina della giustizia per creare equità sociale. Vademecum del perfetto populista. Di conseguenza la giustizia non coincide più con lo Stato di diritto. La giustizia assume una struttura e una finalità diversa: è una mescolanza tra la sua natura giuridica e la sua natura sociale. Non c’è più distinzione tra diritto e giustizia sociale. E la macchina della giustizia è chiamata al compito di fondere queste due categorie. Così la giustizia non deve occuparsi più di perseguire il reato, e di accertarlo, ma ha il compito di appianare l’ingiustizia. Dal punto di vista lessicale questa idea è anche sensata. E’ logico che giustizia e ingiustizia si contrappongono. E’ chiaro però che per arrivare a questa contrapposizione, e alla fusione tra giustizia giuridica e giustizia sociale, occorre mettere tra parentesi lo Stato di diritto. Il giustizialismo prevede che sia perseguita l’ingiustizia al di là del codice penale. E prevede che la ricerca della prova sia utile ma non essenziale. Il giustizialismo considera la rinuncia allo stato di diritto, e dunque anche alla presunzione di innocenza e al pieno diritto alla difesa, come rinuncia dolorosa ma indispensabile per dare una scossa alla società e per ricostruire una forma di Stato che abbia al suo centro l’etica, e tenga solo in secondo piano il diritto. Il giustizialismo ha come obiettivo lo Stato etico. Non necessariamente violento e dittatoriale, come in genere si configura lo Stato etico, o, almeno, come sempre si è presentato in passato. Il sogno del giustizialismo è uno stato etico dal volto umano, che conservi in gran parte la forma democratica, ma senza considerare la democrazia una conditio sine qua non.

La guerra dei penultimi. Il populismo è fondato su un’idea molto precisa di popolo. Il popolo non è tutto, mai, in nessuna dottrina politica. Nel marxismo il popolo viene fatto spesso coincidere con la classe operaia, oppure con i lavoratori. Con l’esclusione della plebe, del sottoproletariato, e talvolta anche della piccola borghesia. “Piccolo borghese”, nel gergo marxista, è sempre stato qualcosa di molto vicino a un insulto. Nella dottrina populista invece il piccolo borghese è il dna del popolo. E l’operazione sociale populista è quella di unificare la piccola borghesia e il proletariato, e di creare un popolo dei penultimi che lotti contro gli ultimi e contro i primi, cioè l’establishment, l’alta borghesia e le classi dirigenti. Chi sono gli ultimi? Tutti gli emarginati, e in particolare, naturalmente, gli illegali e soprattutto gli illegali stranieri. La xenofobia non è un risvolto ideologico e astratto del populismo, ma è il suo risvolto sociale. Lo straniero visto come ultimo, e dunque come nemico del popolo al pari degli illegali poveri, e del vertice della società. Ho scritto “illegali poveri”, per distinguerli da quelli meno poveri. Il populismo condanna rigorosissimamente i piccoli reati del sottoproletariato, o dei giovani, e i reati economici dei ricchi; è disposto invece a tollerare le piccole evasioni o i reati economici “difensivi” del ceto medio.

L’odio al posto della lotta. Il populismo, come tutti i movimenti che suscitano un ampio consenso, si basa su una ideologia. L’ideologia populista però non è costruita su un progetto politico ma su un sentimento: l’odio. L’odio di classe era un sentimento previsto e diffuso nell’immaginario marxista. Ma era concepito come supporto alla lotta. Il marxismo puntava tutte le sue carte sulla lotta di massa: gli scioperi, i cortei, l’occupazione delle fabbriche o delle università, talvolta addirittura il luddismo, la battaglia parlamentare condotta anche con mezzi estremi, come l’ostruzionismo. L’odio era solo uno strumento. In che senso? La “bibbia” era la lotta di classe, l’odio di classe era il carburante per spingere la lotta di classe. Nel populismo invece l’odio diventa qualcosa più di uno strumento. Diventa, appunto, ideologia. Tu sei tanto più coerente con le finalità del movimento quanto più riesci a odiare e ad esprimere il tuo odio pubblicamente. L’odio ti è richiesto e viene usato come strumento di proselitismo, di propaganda. E anche di unificazione del popolo. L’odio è l’identità. L’odio è un valore, anzi: il valore. La lotta politica è una categoria che quasi sparisce, interamente surrogata dall’odio.

Il rifiuto della politica. La conseguenza dell’ideologia dell’odio è il disprezzo per la politica. Quando si dice che il movimento populista è l’espressione della antipolitica, non si sostiene che il movimento non ha un peso sulla politica. Semplicemente che rifiuta e denuncia gli strumenti tradizionali della politica: la strategia, il programma, la ricerca dell’intesa, la delega. E – appunto – la lotta di massa. Il movimento populista condanna queste pratiche. Propone la democrazia diretta ma spesso indica un modello di democrazia diretta del tutto platonico, e in questo modo, mentre combatte la politica e i suoi metodi, avvia un percorso di abolizione della democrazia delegata e cioè – in ultima istanza – della democrazia. Mi fermo qui. E pongo una domanda. Su quali di questi punti si differenziano Movimento Cinque Stelle e Lega? A me sembra che la Lega sia più moderata, i 5 Stelle più radicali, ma non vedo differenze sostanziali (forse ci sono differenze solo sull’ultimo punto, perché la Lega è favorevole alla democrazia politica). Per questo non capisco perché non dovrebbero trovare il modo per governare insieme.

Sotto le 5 stelle il rosso: sono uguali ai comunisti. Traditi dal programma di sinistra, dall'odio per i capitalisti al pauperismo, scrive Francesco Maria Del Vigo, Sabato 11/11/2017, su "Il Giornale". Cinque stelle rosse si agitano nel cielo della politica italiana. E non serviva un meteorologo di grande esperienza per prevederlo. Era naturale. Perché la congiunzione astrale tra i grillini e i compagni erranti (nel senso che vagano senza meta, ma pure che sbagliano) che hanno imboccato la strada alla sinistra del Pd era logica e naturale. Non tanto per una questione umana - Bersani e soci nell'immaginario pentastellato sono pur sempre parte della casta - quanto per una questione ideologica e programmatica. Chiunque si sia avventurato nella soporifera lettura del programma dei grillini non ha dubbi: sono di sinistra. E hanno tutti i tic politici e intellettuali di quei cespugli della sinistra radicale che ora non sanno dove attecchire. Volete qualche esempio? La loro storia politica è chiarissima, il loro programma ancor di più. Il movimento muove i primi passi, e raccoglie i primi consensi, a cavallo tra gli orfani dell'antiberlusconismo più violento, del popolo viola e del movimentismo da centro sociale: no global, no tav, no tap, no vax e chi più ne ha più ne metta. Sono quelli che ancora oggi si divertono a decapitare i fantocci di Renzi e lanciare sassate alla polizia, con lo scudo dei politici grillini che ne chiedono subito la scarcerazione (vedi G7 di Venaria). Dietro il completo blu di Di Maio si nascondono eskimo e kefiah. Il programma gestato e partorito in rete è ancora più chiaro e sembra la versione 2.0 di un vecchio manifesto marxista. Le multinazionali? Delle macchine di morte da imbrigliare e sconfiggere a ogni costo, poco importa che diano lavoro a migliaia di persone. Gli Stati Uniti? Il burattinaio cattivo che gestisce di nascosto i destini universali. Il liberismo? Beh, l'ossessione dei Cinque Stelle per il liberismo è quasi patologica. Ogni stortura, ogni giustizia, ogni cosa che non va al mondo - fosse la lampadina bruciata di una periferia di Roma o la crisi idrica in Burkina - è sempre colpa del neoliberismo, madre e padre di tutti i mali. Ne consegue che la ricchezza è una colpa, un difetto di fabbrica, un peccato originale. Emendabile solo con un bel bagno (di sangue) nel lavacro fiscale. Magari con una patrimoniale. Ma i destini di grillini e sinistra radicale si incontrano più di una volta: dal giustizialismo estremo all'ecologismo più spinto, dal mito del pauperismo e della decrescita felice all'odio per il mondo della finanza, senza alcuna distinzione. Esattamente come gli ex Pci preferiscono lo Stato al singolo cittadino, il pubblico al privato. E poi il pacifismo «onirico», quello che, senza fare i conti con la geopolitica, immagina un mondo nel quale le relazioni diplomatiche si possano fare solo con pacche sulle spalle e buffetti. E forse il punto di saldatura più evidente tra grillismo e comunismo è proprio questo: il fondamentalismo ideologico, l'idea che si possa far aderire la realtà ai propri ideali; il desiderio di cambiare e non la società in cui vive. Un delirio messianico che ha seminato solo danni. D'altronde Gianroberto Casaleggio, nel suo ultimo visionario libro Veni Vidi Web, profetizzava un mondo di downshifter (persone che decidono volontariamente di guadagnare di meno per vivere meglio), senza Tv che distrae e costa troppo, senza centri commerciali, con una proprietà privata limitata e le grandi aziende smantellate. Questo è il mondo che sognava il fondatore dei Cinque Stelle. A lui sembrava un paradiso, ma ha più i tratti un inferno sovietico. A lui pareva una nuova ricetta per cambiare il mondo, a noi sembra la solita brodaglia rancida in salsa marxista. È il comunismo digitale.

"Nemico dei lavoratori". La sinistra dell'odio lo lincia in ospedale. Il Manifesto: "Autoritarismo padronale". Rossi (Leu): pagava meno tasse in Svizzera, scrive Paolo Bracalini, Lunedì 23/07/2018, su "Il Giornale". È stato il cattivo padrone quando guidava la Fca, resta il nemico da detestare anche in fin di vita. L'epilogo tragico della vita di Sergio Marchionne non scalfisce il fronte che lo ha combattuto come un oppressore dei diritti dei lavoratori, l'avversario acerrimo della sinistra tendenza Fiom. Le reazioni vanno dal silenzio gelido all'attacco esplicito anche davanti alla malattia irreversibile. Il quotidiano comunista Il Manifesto sceglie una copertina molto criticata per il cinismo sui social, E così Fiat, con la foto di un Marchionne malinconicamente piegato su se stesso, per demolirne senza pietà la figura: «Ha tolto i diritti ai lavoratori e ha portato il gruppo via dal Paese. La sua eredità è piena di macerie. L'autoritarismo padronale lascia centomila operai in meno, fabbriche vuote e un futuro incerto sulle auto di domani» si legge nella prima pagina in una sorta di feroce epitaffio. La linea prevalente a sinistra è l'indifferenza. I nemici storici Cgil e Fiom mantengono il silenzio, nessuna parola dalla Camusso e da Landini, neppure di circostanza «Abbiamo deciso il silenzio perché dichiarare e commentare ora non serve a nulla» spiega Michele De Palma, coordinatore Fiom nazionale della Fca). Con qualche eccezione, quella di Giorgio Airaudo, ex segretario nazionale Fiom-Cgil poi deputato Sel: «La politica italiana gli ha permesso tutto, senza chiedere mai, ha fatto della Fiat un'azienda apolide, il tutto nel plauso dei governi». Il segretario della Fiom torinese, Federico Bellono, non cita neppure Marchionne (si riferisce genericamente alle «notizie di queste ore»), e nella nota l'unico pensiero è al «rischio che i tempi delle decisioni si allunghino». Se la freddezza dei sindacati da sempre avversi all'ex ad sorprende fino ad un certo punto, quel che ha colpito di più i vertici di Fca è il comunicato glaciale del sindaco di Torino, la grillina Chiara Appendino. Con la delicatezza di un tir, la sindaca - nelle ore in cui si diffondono le indiscrezioni sullo stato terminale del manager ricoverato a Zurigo - ha fatto uscire una dichiarazione ufficiale in cui esprime unicamente l'augurio che il nuovo ad Mike Manley «guardi con attenzione alla nostra città, perché, oltre allo storico legame con il gruppo, ha saputo costruire nel tempo un sistema fatto di conoscenza, infrastrutture, centri di ricerca scientifica, imprese innovative e aziende ad alto contenuto tecnologico». Neanche un minimo riconoscimento a Marchionne o un gesto di solidarietà per la situazione. Per l'ex leader di Rifondazione Comunista Fausto Bertinotti, Marchionne «è stato simbolo del capitalismo che ha portato a una contrazione della civiltà, ha portato il deserto a Mirafiori e la Fiat a Detroit». Mentre sui social tracima l'odio di presunti operai: «Tutti a festeggiare. Lurido b.. hai rovinato migliaia di lavoratori», «Spero soffra...ti sono arrivate le maledizioni di tutti i lavoratori che hai rovinato». Anche il Fatto fa a pezzi la figura manageriale di Marchionne, ricordandone il sostegno al governo renziano: «Più finanza che auto. E il Jobs Act è roba sua» titola il quotidiano di Travaglio. Più duro di tutti il governatore toscano Enrico Rossi, coerente con la storia di ex Pci. Premettendo di parlare «nel rispetto della persona», il presidente (ora in quota Leu) ci tiene a ricordare di Marchionne «la residenza in Svizzera per pagare meno tasse, il Progetto Italia subito negato, il baricentro aziendale che si sposta in Usa. Infine, un certo autoritarismo in fabbrica per piegare lavoratori e sindacati». La leader di Potere al Popolo, la pasionaria napoletana Viola Carofalo, commenta: «La morte è una livella? Certamente, ma ciò che hai fatto in vita non si cancella». Nessuna pietà per i nemici del popolo.

Marchionne, Di Maio contro l'odio rosso: "Miserabile attaccare chi sta male". Il leader grillino contro sinistra e sindacati: "Quando era potente gli ha permesso di fare ciò che voleva. Ora che è su un letto d'ospedale lo attacca", scrive Sergio Rame, Lunedì 23/07/2018, su "Il Giornale". L'odio rosso si scaglia contro Sergio Marchionne mentre è ricoverato a Zurigo. Non appena è arrivata la notizia che le condizioni dell'ex ad di Fca sono "irreversibili", la sinistra e i sindacati lo hanno subito linciato sui quotidiani e sul web. Non solo. Il sindaco di Torino, la grillina Chiara Appendino, l'ha ignorato chiedendo attenzione al successore Mike Manley. Un odio sociale senza precedenti e senza senso che ora lacera il Paese. Tanto che, incontrando i giornalisti al termine di una riunione con gli ambasciatori dei paesi membri del G20, il ministro dello Sviluppo economico Luigi Di Maio è intervenuto per chiedere rispetto: "È da miserabili attaccare una persona che sta male". Il Manifesto, ieri mattina, è arrivato nelle edicole con un titolo agghiacciante. E così Fiat. "Ha tolto i diritti ai lavoratori e ha portato il gruppo via dal Paese - ha scritto il quotidiano comunista - la sua eredità è piena di macerie. L'autoritarismo padronale lascia centomila operai in meno, fabbriche vuote e un futuro incerto sulle auto di domani". Tutta la sinistra è insorta dopo aver saputo delle cattive condizioni di salute di Marchionne. "È stato simbolo del capitalismo che ha portato a una contrazione della civiltà - ha commentato Fausto Bertinotti - ha portato il deserto a Mirafiori e la Fiat a Detroit". Peggio di lui ha fatto il governatore toscano Enrico Rossi che si è fiondato a ricordare "la residenza in Svizzera per pagare meno tasse, il Progetto Italia subito negato, il baricentro aziendale che si sposta in Usa. Infine, un certo autoritarismo in fabbrica per piegare lavoratori e sindacati". Un odio viscerale che è poi tracimato sui social network con insulti livorosi. "Con Marchionne non siamo andati d'accordo quasi mai - commenta Di Maio - ma è veramente miserabile attaccare una persona che sta male come fa la sinistra che gli ha fatto fare tutto quello che voleva quando era potente". Tra i detrattori di Marchionne, però, ci sono anche chi si è rifiutato di parlare dell'ex ad di Fca. Il sindaco di Torino ha, infatti, diramato un comunicato stampa in cui ha espresso unicamente l'augurio che il nuovo amministratore delegato Mike Manley "guardi con attenzione alla nostra città, perché, oltre allo storico legame con il gruppo, ha saputo costruire nel tempo un sistema fatto di conoscenza, infrastrutture, centri di ricerca scientifica, imprese innovative e aziende ad alto contenuto tecnologico" e ha completamente oscurato Marchionne. Su questo, però, Di Maio ha completamente sorvolato.

Nicola Porro: Macerata e gli Sciacalli contro Salvini, scrive il 3 febbraio 2018 Imola Oggi. Il delinquente di Macerata e i commenti di Saviano, Boldrini e Grasso che come prima cosa attaccano Salvini. Ecco perchè li metto allo stesso livello degli haters dei social network…“Quanto accaduto oggi a Macerata dimostra che incitare all’odio e sdoganare il fascismo, come fa Salvini, ha delle conseguenze: può provocare azioni violente e trasforma le nostre città in un far west seminando panico tra i cittadini. Basta odio, Salvini chieda scusa per tutto quello che sta accadendo”. Lo ha scritto la finta nemica dell’odio, Laura Boldrini, su Facebook. “Le notizie che arrivano da Macerata mi lasciano attonito e inorridito. Chi, come Salvini, strumentalizza fatti di cronaca e tragedie per scopi elettorali è tra i responsabili di questa spirale di odio e di violenza che dobbiamo fermare al più presto. Odio e violenza che oggi hanno rischiato di trasformarsi in una strage razziale”. Lo afferma l’altro finto nemico dell’odio, Pietro Grasso, leader di Liberi e uguali, su facebook. “Il nostro paese – prosegue – ha già conosciuto il fascismo e le sue leggi razziali. Non possiamo più voltarci dall’altra parte, non possiamo più minimizzare”. A poche ore dai fatti, Roberto Saviano scrive un post su Facebook in cui punta il dito contro Matteo Salvini: “ll mandante morale dei fatti di Macerata è Matteo Salvini. Lui e le sue parole sconsiderate sono oramai un pericolo mortale per la tenuta democratica. Chi oggi, soprattutto ai massimi livelli istituzionali, non se ne rende conto, sta ipotecando il nostro futuro”. Poco dopo lo scrittore partenopeo scrive un tweet, sempre in merito alla vicenda, rivolto però ai media: “Invito gli organi di informazione a definire i fatti di Macerata per quello che sono: un atto terroristico di matrice fascista. Ogni tentativo di edulcorare o rendere neutra la notizia è connivenza”.

La sinistra è un generatore d’odio “democratico”. Se ti chiami Casa Pound neanche la festa puoi fare, scrive il 7 settembre 2018 Emanuele Ricucci su "Il Giornale". Ora che la sinistra è regredita allo stato di Ivano “il terribile”, l’ eroe antifascista di Rocca di Papa, da cui ripartire secondo Gramellini, per la sua meravigliosa natura di essere mitologico, metà Masaniello con la Panda, metà Fabrizio Bracconeri ne I ragazzi della Terza C, e ripercorre la strada che fu di Carlo Verdone, tra Ametrano, il ribelle popolano, e l’hippy di “Love love love”, immaginavamo che la sua dimensione neo-popolare, genuina, trionfasse su quella snob e progressista, densa d’odio. E invece no, quel residuo di nevrotica malignità è compatto. I “compagni” aspettano Godot e un dibattito per salvarsi, anziché cercare una decisione, col senso di auctoritas non veritas facit legem, passano da Gramsci, Pasolini, Marcuse e Habermas (che di recente ha affermato che il populismo trionfa perché la sinistra non lotta), e preferiscono “retrocedere” negli Ivano, negli chef Rubio (uno che a due rapinatori tirerebbe endecasillabi sciolti e non utilizzerebbe il taser, perché la violenza si neutralizza con la cultura), e nei Christian Raimo, che pare confermare la vulgata, ovvero che la sinistra dell’odio cieco dovrebbe ripartire non dai padri ma dalla ribellione urbana ed erotica della carne e non dello spirito: da Genova 2001, acida violenza politica. Ai compagni feriti e intolleranti non resta che volere la democrazia vietandola, anche oltre la legge. E se ti chiami Casa Pound, neanche la festa puoi fare. Perché in piazza, per il precario grossetano che prende 400 euro al mese, senza contratto, per tredici ore di lavoro al giorno, le sinistre unite non le vedremo, ma per impedire una legittima ricorrenza politica altrui, sì. Venti sigle separate, con in testa l’Anpi, contro la festa di Casa Pound Italia a Grosseto, a cui parteciperanno tra gli altri Diego Fusaro e Alessandro Giuli; tre giorni di musica, cultura e dibattiti sull’Italia e l’Europa di oggi. Da oggi, le sinistre tutte scenderanno in piazza per una contromanifestazione dal titolo “Restiamo umani”, con la partecipazione persino della Regione Toscana, per «difendere la democrazia», dicono gli organizzatori. Si farà di tutto per impedire la festa di Cpi, insomma, non con la forza del pensiero critico ma della imborghesita superiorità. Ma forse, questo, è solo un gesto in memoria delle piadine morte di solitudine alle Feste dell’Unità deserte, vuote, in tutta Italia.

L’odio è odio anche quello per la Petacci, scrive Piero Sansonetti il 18 gennaio 2018 su "Il Dubbio".  L’uscita di Gene Gnocchi, in tv, contro Claretta Petacci, ha poco di comico. Se dici maiala a una signora che è stata fucilata 72 anni, sei molto spiritoso? Io non credo. Sto parlando del comico Gene Gnocchi, che l’altra sera, in Tv, ha usato questo termine, scherzosamente, per definire Claretta Petacci, l’amante di Benito Mussolini. Dico subito che considero l’antifascismo un valore, nella cultura politica italiana. Ho sempre pensato che l’antifascismo sia fondato su alcuni principi essenziali: la tolleranza, l’amore per la libertà, il rispetto degli altri soprattutto delle minoranze e degli sconfitti – il diritto. Si chiama antifascismo proprio per questo: perché la tragedia del fascismo fu esattamente quella di avere negato quei grandi principi della civiltà che sono la tolleranza e la libertà. Che c’è da ridere se ti dico: «Maiala»? Al di fuori della tolleranza non esiste l’antifascismo, ma invece esiste qualcosa che assomiglia molto a quello che è stato il fascismo. Svolgo questo ragionamento sperando di non offendere nessuno. E perché credo che sia un ragionamento attuale. Molto attuale. Da un po’ di tempo siamo costretti a misurarci di nuovo con il tema della tolleranza, che è stata travolta dal linguaggio dell’odio, dal trionfo delle appartenenze, dal giustizialismo. Si è invertito, di fronte all’opinione pubblica, lo stesso valore delle parole e delle espressioni. La parola tolleranza, come idea positiva, è stata sostituita da suo contrario: tolleranza zero. E la stessa parola “bontà”, che un tempo aveva un valore edificante, è stata rovesciata in “buonismo”, sostantivo che indica cedimento, debolezza, forse persino tradimento. Su questo giornale ci siamo occupati molto, nei mesi scorsi, del linguaggio dell’odio e della cultura dell’odio. In particolare nei giorni nei quali su questo tema – a Roma, alla fine dell’estate – si è svolto un convegno internazionale organizzato dalle avvocature dei paesi del G7. A me preme dire che il linguaggio dell’odio è il linguaggio dell’odio. Punto. Non ha colore politico. Ed è lo strumento con il quale tutti i populisti cercano di resistere all’avanzata della civiltà, della modernità, del diritto. Le parole usate da Gene Gnocchi rientrano pienamente nel linguaggio dell’odio. Non vale niente l’osservazione che Gnocchi è un comico, e quindi fa satira, e la satira è satira e non ha limiti e non ha correttezza. La satira ha un formidabile valore e una grandissima potenza nella battaglia culturale. E può spingere la cultura e il senso comune in una direzione o nella direzione opposta. Proibirla è una follia, criticarla (e qualche volta anche indignarsi per la sua volgarità) è legittimissimo. Gene Gnocchi si è presentato l’altro ieri sera alla trasmissione “Di Martedì”, sulla Sette (quella condotta da Marco Travaglio e che ha ospite quasi fisso Giovanni Floris), ha mostrato la foto di un maiale che cerca cibo tra i cassonetti dei rifiuti a Roma ( è una foto più volte usata da Giorgia Meloni per polemizzare contro la sindaca Raggi) e ha detto che quel maiale è una maiala e ha un nome e un cognome: Claretta Petacci. Penso che tutti sappiate chi è la Petacci. È la figlia di una famiglia piuttosto potente della borghesia romana, che da giovanissima, e cioè quando aveva 20 anni, si innamorò di Benito Mussolini e intrecciò con lui una storia d’amore che durò 13 anni. Cioè durò fino a quel fatale 28 aprile del 1945 nel quale Mussolini, che era stato catturato il giorno prima a Dongo mascherato da soldato tedesco, mentre cercava di espatriare in Svizzera, fu fucilato. L’esecuzione avvenne in una località di campagna, Giulino di Mezzegra, in Lombardia. Insieme all’ex duce fu arrestata anche Claretta, che gli era restata al fianco, mentre i Petacci si erano messi al sicuro in Spagna, ma lei si era rifiutata di seguirli. Sul capo di Mussolini pendeva la condanna a morte pronunciata dal Clnai, l’organismo di governo della Resistenza. La sentenza fu eseguita da tre partigiani del Pci, Walter Audisio, Aldo Lampredi e Michele Moretti. Fucilarono Mussolini e fucilarono anche Claretta. Il giorno dopo, i cadaveri di Mussolini e della Petacci furono portati a Milano, in piazzale Loreto, insieme ai cadaveri di altri gerarchi (tra i quali quello di Alessandro Mussolini, segretario del partito fascista) che erano stati catturati insieme a Mussolini e poi fucilati a Dongo. A piazzale Loreto, qualche mese prima (in agosto) i fascisti avevano fucilato 15 partigiani e poi li avevano appesi ai lampioni. Quel giorno, il 29 aprile, ci fu il contrappasso: i corpi dell’ex duce, dei gerarchi, e anche quello di Claretta, furono appesi per i piedi alla pensilina del distributore della Esso. Certamente fu una delle pagine meno solari della Resistenza. Contro Claretta Petacci non c’era nessuna sentenza. Né del Clnai e tantomeno di un regolare tribunale. Fu fucilata lo stesso. Forse per eccesso di zelo, forse perché fu lei che si gettò sul corpo dell’uomo che amava, per proteggerlo. Claretta Petacci non fu mai una donna di potere, non fu una gerarca, non ebbe incarichi politici, non è responsabile in nulla e per nulla degli errori e dei delitti del fascismo. Leggendo le sue carte si possono anche trovare frasi che testimoniano un fanatismo che oggi fa paura. Così come fa paura il fanatismo di chi decise di impiccarla per i piedi, e il fanatismo della folla che urlava e sputava sui cadaveri. Ma io non credo che in nessun modo questa circostanza giustifichi, 72 anni dopo, l’oltraggio gratuito contro la sua memoria, peraltro del tutto immotivato. Non credo che la battuta di Gene Gnocchi abbia niente a che fare con la comicità. Se ti dico che sei un porco, ti sto insultando, non ti sto prendendo in giro. È preoccupante, secondo me, proprio questa situazione: l’ingiuria, l’odio, la rabbia, il disprezzo che diventano strumento di satira, e cioè sono proposti al pubblico della televisione con naturalezza come pacifico elemento di divertimento. L’incattivimento dell’opinione pubblica, il trionfo dell’odio come sentimento popolare – o addirittura come giusto sentimento di rivolta o di riscatto – nascono e si rafforzano proprio qui: nella loro normalizzazione. Gene Gnocchi alla volte è molto spiritoso. A volte meno. La sua abitudine a dissacrare è apprezzabile. Quella dell’altra sera, francamente, è stata una pessima performance.

L'Italia è un Paese fondato sull'insulto: da noi il dibattito online più violento d'Europa. I risultati di una ricerca esclusiva che ha coinvolto 4 paesi sui commenti nei profili dei politici. Da cui emerge quanto siano tossiche le conversazioni in Rete. Soprattutto grazie a leader come Salvini che aizzano i follower, scrivono Mauro Munafò e Francesca Sironi il 29 maggio 2018 su "L'Espresso".

Matteo Salvini è il politico europeo che riceve più commenti online. La nuova democrazia degli sciami ha preso casa. Le due forze politiche che hanno provato a formare in questi giorni un governo comune hanno già molto in comune, e da tempo, sul web. Nella realtà ormai concreta della Polis digitale e dei suoi sciami d’opinione, d’odio e d’amore via internet, Lega e 5 Stelle non rappresentano un’avanguardia solo per l’Italia, ma per tutta l’Europa. Matteo Salvini e Luigi Di Maio sono infatti i politici più attivi sui social network, quelli che pubblicano con maggiore frequenza, che ricevono più risposte e condivisioni, i candidati che avevano già sancito per successo di clic il loro exploit alle urne. Nel nostro paese, certo. Ma hanno un primato anche rispetto ai loro omologhi tedeschi, francesi e svizzeri, in quanto ad attivismo digital. Il “Ruspa” può vantare poi un altro record nel continente. La coalizione di centrodestra con cui è stato eletto batte infatti tutti gli avversari in quanto a tossicità delle conversazioni: il 9,2 per cento dei commenti condivisi sui profili dell’ormai ex asse elettorale è un insulto o un’offesa nei confronti di altri, degli «invasori mercenari di Soros» dei «clandestini che distruggono Firenze» di «quella mucca con i capelli viola» (una signora che contestava il sindacato di polizia), dello «strozzinaggio e potere bancario». I messaggi sulle loro pagine sfrigolano disprezzo, avversioni e fantasmi in misura maggiore di quanto accada, per dire, sui social del gruppo parlamentare del Front National, in Francia. Se in tutta Europa la voce dell’estrema destra sembra così più propensa ad aggregare e sparpagliare veleno web rispetto alle altre formazioni, in Italia questo accade con particolare intensità. Sono alcuni dei risultati di una ricerca esclusiva condotta dall’Espresso insieme a un team di giornalisti internazionali. Partendo da un campione randomizzato, statisticamente significativo, di 320 politici, uomini e donne, in Italia, Francia, Germania e Svizzera, sono stati raccolti in maniera casuale i commenti che hanno ricevuto i deputati sui propri profili pubblici Twitter e Facebook per quattro settimane, dal 21 febbraio al 21 marzo 2018. A questo nucleo sono state aggiunte le conversazioni di 10 leader di partito in ogni paese. Sono stati così esaminati oltre 40 mila messaggi per valutarne l’aggressività, sulla base di una scala elaborata da “Articolo 19”, un’organizzazione che lavora sulla libertà d’espressione in Rete. Ogni insulto è stato quindi indicizzato sulla base di alcune categorie, dall’antisemitismo all’omofobia al sessismo. Fra le prime conclusioni di questo lavoro di analisi c’è una sorpresa positiva: i commenti tossici sono meno del sei per cento del totale. In Italia e Francia la conversazione digitale è più inquinata che negli altri due paesi. Ma resta comunque sotto controllo. Mediamente la conversazione online, sulle pagine dei politici, è insomma abbastanza serena o moderata. Scorre quieta fra il sostegno e la chiacchiera, fra l’indifferenza e il «vergogna» di passaggio. L’aggressività non è trasversale, non è un dato comune e costante del rapporto fra il “popolo del web” e i propri eletti. Piuttosto: si concentra. Si coagula su target o argomenti ben precisi, contro cui lo sciame si rafforza e si amplifica.

No Vax, no casta, no donne. Un esempio è quanto accaduto a Beatrice Lorenzin. Il 22,7 per cento delle parole che le sono state rivolte sui social nel mese del monitoraggio svolto dall’Espresso insieme ai colleghi europei suonavano al tono di «Bastarda bastarda bastarda» o del più grave «Ti maledirò finché avrò un alito di respiro» per la legge sui vaccini. Decine e decine di frecce. Sulla scia della stessa avversione, spesso pronta a virare in vere e proprie minacce di morte, è finito anche un suo compagno di partito: Paolo Alli. Contro di lui le frange anti-vaccini sono arrivate a scrivere post quali: «Lorenzin e Alli. Per avere tradito l’Italia e gli italiani una sola soluzione: fucilazione». Ci sono spigoli del dibattito che più di altri forgiano parole ostili. In Germania il risentimento è dominato dallo spettro anti-immigrati. In Francia le offese aumentano con il sessismo. In Italia sono vere entrambe. Nei confronti di Maria Elena Boschi ad esempio abbondano le reazioni pubbliche che vanno dal «sei bellissima!» al «Sei solo gnocca», a «Perizoma please!!» fino al «La aspetto sempre tra sei mesi sulla statale...». Nel campione della ricerca non sono state trovate differenze sostanziali per quanto riguarda il numero di offese personali rivolte alle donne rispetto a quelle inviate agli uomini. Ma quando si guarda alle deputate con maggiore visibilità l’aumento è rilevante sia in Italia che in Francia. Le donne politiche più in vista ricevono cioè molti più insulti dei loro pari maschi. È molto più facile trovare così attacchi come «Vergognosa PARASSITA radical chic!» o: «Vada a fare la casalinga che è più consono alla sua natura» sotto una riflessione di Anna Finocchiaro, di quanto accada per un suo collega di partito.

Le voci dei capi. Se il sessismo è una sponda facile da cui salire all’attacco, ancora più semplice è attorcigliare la lingua quando il tema batte sulla consueta divisione noi-e-loro. «Pure l’immigrante climatico vogliono portare!», lamenta un seguace di Salvini su Twitter; «Ha la pistola… doveva sparargli», si augura un altro rispondendo al leader che commentava: «Prima in galera, poi espulso nel suo Paese. Basta!!!» in calce a un episodio di molestie di cui era stata vittima una carabiniera di Milano. Il catalogo è scadente e arcinoto. E si inzeppa di «piani Kalergi», «bombe nucleari sulla Libia», «No niente galera solo tante legnate» sempre in risposta a un commento del capo che recitava: «Prima galera, poi castrazione chimica, poi espulsione!». È un cupo gioco al rialzo: «La tossicità arriva spesso dall’alto, dagli stessi leader e partiti politici», ricorda Leonardo Bianchi, autore del saggio “La Gente” pubblicato da minimum fax: «Sui social le persone si sentono legittimate a esprimersi in un certo modo», seguendo le orme dell’intolleranza. «Purtroppo bisogna riconoscere che quel linguaggio ha pagato», riflette Edmondo Cirielli, deputato di Fratelli d’Italia, autore di uno dei post più divisivi tracciati dalla ricerca: un semplice manifesto elettorale accompagnato da un incoraggiamento. «Era la prima volta che pubblicizzavo un post su Facebook, e sono rimasto sconvolto dagli insulti che ho letto», racconta, contro Giorgia Meloni - «Vai a fare la mamma», «fotoshopp... leccaculo di Berlusconi...» - e contro di lui. «Sono persone frustrate», dice. Il cui linguaggio è però avallato spesso dall’alto. Ma quando la guida del suo partito parla di “feccia umana” rispetto a due stranieri, per Cirielli, «si tratta solo di una valutazione politica». Giovanni Ziccardi, professore di Informatica giuridica all’Università di Milano, parlando del suo libro “L’odio online” in un intervento su DoppioZero, ricordava chiaramente: «Il politico che parla, per la sua posizione, dovrebbe avere una maggiore responsabilità: il suo potere diffusivo di pregiudizi nei confronti, ad esempio, di un gruppo preso di mira è assai ampio grazie alla camera di risonanza fornita dai mass media di cui può, in ogni momento, usufruire». Ma l’esercizio di quella responsabilità sconta il successo del suo esatto contrario.

Social Fascismo. Gli “immigrati”, i vaccini, le donne. E poi gli sciami si scagliano di volta in volta contro banche, complotti, finanziamenti occulti, o genericamente contro i politici. In un ricco intervento su Nuova Rivista Letteraria ripreso da “Giap”, Alberto Prunetti definiva il linguaggio di questi sciami un «trogolo, dove sono miscelati pastoni e retoriche un tempo considerate altamente tossiche, oggi sdoganate», da un «fascismo del senso comune» che alimenta raid virtuali contro i nemici del momento. Sandra è una 49enne di Milano che a Emanuele Fiano ha scritto frasi come «Sputatevi in faccia speriamo che i vs fratelli africani vengano cercarvi (sic) presto per farvi stessa festa subita dalla povera Pamela Mastropietro allora sì che gli italiani perbene festeggeranno davvero», tutto in stampatello. Oggi risponde cortese alle nostre domande. «Sono una persona tranquilla», dice: «Ma dal 2011 la mia vita professionale è andata peggiorando». È da lì, sostiene, che le è salito l’odio per «questi politicanti di sinistra che tutto facevano tranne tutelare i cittadini italiani. Quando lei sente un politico che inventa problemi come il fascismo che non esistono per distogliere la gente da quelli veri, una qualunque persona di buon senso non può che arrabbiarsi». Che il fascismo sia però tutt’altro che una malattia immaginaria lo racconta la filigrana molto più esplicita politicamente di un altro degli sciami intercettati dalla ricerca. Davide Mattiello a febbraio è un parlamentare uscente e candidato Pd a Torino. «Questa mattina ho presentato un esposto in Procura nei confronti delle organizzazioni politiche Forza Nuova e Casa Pound», scrive il 22 sui social network: «Perché credo che le suddette organizzazioni integrino la fattispecie di reato contenuta nella legge Scelba». Basta a spalancare lo Stige. «Fanculo w il DUCE» è una delle reazioni più caute, le altre scadono nell’omofobia più greve o nei «comunista di merda» fino ai «Perché non ti impicchi?». «Non mi sono mai preoccupato per questi commenti», racconta ora lui: «Fa parte del mio dovere politico, credo, manifestare il mio pensiero nelle piazze dove si trova la gente. E oggi queste sono i social network. Io ci sto con la consapevolezza della loro conflittualità». Ma sono piazze dove le voci che si fanno sentire alla gran cassa sono però monocordi. Dove l’intolleranza, gli “a Noi!” e le paranoie securitarie vanno per la maggiore. «È una tendenza che riguarda tutte le democrazie liberali in Occidente», ragiona Leonardo Bianchi: «Nessuno sa come proporre contronarrazioni all’egemonia di discorsi che trattano l’immigrazione ad esempio attraverso le stesse immagini di “barconi” o “invasioni” da trent’anni. E con il crollo dei partiti social democratici il vuoto viene riempito da chi ha le idee più chiare o dice di averle». Così le conversazioni in rete si fanno prima terra di conquista. Praterie intere di propaganda dove sciamare.

Oasi grillina. Al riparo da questi stormi ostili sta il movimento che al web è legato dalla culla. Solo lo 0,5 per cento dei commenti scritti sulle pagine dei politici del Movimento 5 Stelle è offensivo personalmente nei loro confronti, il 3,3 nei confronti d’altri. È direttamente sulle pagine dei politici avversari che si va magari a pubblicare una fila di stelle come segno di riconoscimento, allora, oppure a indicare, condannare, offendere. Sotto i flussi dei “propri” rappresentanti eletti prevale invece l’appartenenza, l’entusiasmo, la comunità. E pochi si insinuano in quelle oasi per svuotare reciproci sacchi di fiele. Con chi si interfacciano allora, i politici in rete? Solo con chi li blandisce o li vitupera? Le eccezioni esistono. Nel campione analizzato dalla ricerca un esempio è quello di Stefano Quintarelli. Un esperto informatico, imprenditore, ex deputato, che alimenta lunghe conversazioni anche su temi ostici come l’identità digitale. Dove non si registrano risse. Ma sono una rarità. Per il resto i thread sembrano un fiorire di cuori e entusiasmo, di conferme quindi, in gran parte. Oppure di insulti, in quel sei per cento di sciami all’attacco dai pulpiti rumorosi delle nuove piazze digitali dove, come diceva Danny Wallace in un’intervista a “D di Repubblica”: «O attacchi, o sei attaccato, o taci».

La ricerca è stata realizzata dall’Espresso insieme a Rania Wazir; Vincent Coquaz; Alexander Fanta, Marie Bröckling, Julian Pütz e Leo Thüer per netzpolitik.org; Alison Langley per Deutsche Welle. 

Nota: Sono stati analizzati oltre 40mila messaggi randomizzati ricevuti da 360 politici di Italia, Germania, Francia e Svizzera. I post sono stati valutati su una scala che va dai commenti neutrali (0), a quelli molto scortesi (1), alle offese esplicite (2) fino al discorso d'odio (3).

SCONTRO DI INCIVILTÀ. «Crepa, bastardo!»: quando a incitare all'odio sono politici e giornalisti. Auspici di morte, irrisioni e ingiurie sessuali. Dalla "patata bollente" della Raggi agli insulti antisemiti a Fiano, passando per tweet e prime pagine scandalose: non c'è solo il web a fomentare rancore e violenza, scrive Susanna Turco il 26 dicembre 2017 su "L'Espresso". Testate, aggressioni, insulti, finte decapitazioni, bavagli e fotomontaggi. Violenze, non solo verbali. E meno remore. Pillole incivili dall’Italia che ci avviluppa, con l’orizzonte aspro della campagna elettorale. Antologia di piccoli orrori in crescendo: eccoli.

TESTE. «Le sopracciglia le porta così per coprire i segni della circoncisione». Lo scrive su Facebook a luglio il deputato di Direzione Italia Massimo Corsaro, sopra una foto del dem Emanuele Fiano, firmatario e relatore del ddl sull’apologia del fascismo. Sommerso di critiche, si difende così: «Nessuna volontà di antisemitismo, ho piuttosto inteso dargli del testa di cazzo».

MALARIA. «Morire di malaria non è normale. La infezione viene da lontano, dall’Africa nera. Basta accoglienza». (Tweet di Vittorio Feltri).

BAVAGLI. «Incredibile. Questa è vera violenza. Non mi fanno paura, mi danno ancora più forza: andiamo a governare!». Così il segretario della Lega Matteo Salvini, dopo aver postato una foto che lo ritraeva imbavagliato, alla Moro, davanti al simbolo delle Brigate rosse con il commento «ho un sogno». La minaccia era stata pubblicata sulla pagina facebook “Vento ribelle”: gruppo seguito da 113 mila persone che si definisce antifascista, antirazzista, anticapitalista, antimilitarista, anticolonialista e anti imperialista, il cui sottotitolo è: «Disprezzo assoluto al sistema e al suo governo, né omertà né padroni su questa terra». Tra i membri, un Davide Codenotti che espone nel suo profilo il simbolo del Movimento 5 Stelle. Il giorno dopo, come “provocazione” per la scarsa solidarietà offerta a Salvini, il Tempo pubblica lo stesso fotomontaggio ma con la presidente della Camera Laura Boldrini al posto di Salvini. Vittorio Feltri si complimenta caldamente col direttore Gian Marco Chiocci per l’iniziativa.

FACCE. «Non abbiamo paura di sparire, noi! Ma di avere un parlamento con le solite facce di cazzo!» (il senatore Sergio Puglia, segretario di gruppo dei M5S, in Aula al Senato).

MAIALI. In estate la pagina Facebook Club Luigi Di Maio pubblica una foto di Emanuele Fiano accanto all’immagine di un suino. Di Maio si dissocia subito. Dei 72 mila del club, scrive la Stampa, fa parte almeno un suo amico di sempre: Dario De Falco, già compagno di liceo e di università, oggi nel comitato elettorale ristretto che si occuperà di raccogliere i fondi per la corsa dei Cinque stelle verso le politiche.

ASSASSINI. «Il treno di Renzi non ha ucciso nessuno perché Renzi non ha un treno. La macchina di Grillo invece una famiglia l’ha davvero sterminata». Così recita una card postata dalla pagina facebook Per Matteo Renzi insieme, pro-Pd ma (come per i Cinque stelle) non ufficialmente collegata alla comunicazione dem. Il riferimento è all’incidente che a fine novembre aveva coinvolto una quarantatreenne di Civita Castellana, investita dal treno noleggiato per la campagna elettorale di Renzi, contrapposto all’incidente stradale per il quale il fondatore del M5S è stato condannato per omicidio colposo in Cassazione.

VOLONTÀ PORCA. «Criminali dalla volontà porca, direi genetica, figli del Porcellum. Vi riproducete con le porcate, fate ammucchiate elettorali per grufolare voti. Ma se vi ripugna il parallelo, torno a chiamarvi cri-mi-na-li» (il senatore M5S Sergio Endrizzi, in aula al senato).

VIVI. «Rosato facciamo un patto, se questa legge sarà cassata dalla Consulta, noi ti bruceremo vivo, ok?». (Tweet contro il Pd, Ettore Rosato, scritto da Angelo Parisi, M5S).

DECAPITATI. A settembre, Torino, i manifestanti anti G7 decapitano due fantocci: uno col volto di Matteo Renzi, l’altro con quello del Ministro del Lavoro Giuliano Poletti. Sempre a Torino, ma a maggio, durante la Cannabis Parade, si esibiscono manichini di poliziotti investiti da un furgone. A Rho, fine ottobre, il fantoccio del ministro dell’Interno Marco Minniti, in giacca e cravatta, gli abiti riempiti come quelli di uno spaventapasseri, sul volto la sua foto, e quello del leader della Lega Matteo Salvini, in felpa verde e pantaloni di una tuta, vengono trovati davanti le sedi di Pd e Lega accanto a un cartello firmato “Brigate moleste”. Accanto al fantoccio del titolare del Viminale la scritta in stampatello «Minniti fascista- Fate leggi contro il fascismo, ma avete il Duce come ministro degli interni».

CAPOCCIATE. In piena campagna elettorale a Ostia Roberto Spada, incensurato dell’omonimo clan, in favore di telecamera spacca con una testata il setto nasale al giornalista di Nemo Davide Piervincenzi.

Daniele Piervincenzi, inviato del programma di Rai2 Nemo, è stato colpito al volto con una violenta testata da Roberto Spada, titolare di una palestra e fratello del boss Carmine, condannato a 10 anni di carcere. Piervincenzi, che stava incalzando Spada sul suo "endorsement" per il candidato di Casapound Luca Marsella, ha riportato la frattura del setto nasale ed è stato sottoposto a un intervento d'urgenza. Durante l'aggressione, Spada ha utilizzato anche una mazza con la quale ha colpito anche l'operatore della troupe. Sul suo profilo Facebook, Spada ha poi riportato la sua versione dei fattiVideo da Nemo - Rai2.

VOMITARE. «Questo è sequestro di persona, io vi mangerei soltanto per il gusto di vomitarvi, voi siete i principi del pettegolezzo, quindi non mi coinvolgerete più». Lo afferma, uscendo dall’hotel Forum, Beppe Grillo rivolgendosi ai cronisti che lo attendevano. «Un minimo di vergogna voi la percepite per il mestiere di che fate, sì o no?». (Ansa 19 settembre 2017).

MATTONI. Quattro aggressioni in venti giorni per l’inviato di Striscia la notizia Vittorio Brumotti e la sua troupe, nel corso di servizi sullo spaccio di droga. Il 15 novembre li avevano puntati alcuni pusher stranieri nel parco bolognese della Montagola. Quindici giorni dopo nello stesso parco nuova aggressione. Il 22 novembre, l’inviato di Striscia ed i suoi operatori erano stati aggrediti a Padova, vicino alla stazione. L’ultima, il 2 dicembre nel popolare quartiere romano di San Basilio, una delle piazze dello spaccio della Capitale: Brumotti tentava di fare interviste, un uomo incappucciato si è messo a lanciare mattoni, insulti dai palazzi adiacenti, due spari, aperta un’inchiesta.

OMINO. «Taci omino da quattro soldi, le ore son contate», «Ottimo messaggio», «muori». Sono alcuni degli insulti ricevuti via Facebook a inizio dicembre dal sindaco di Pesaro Matteo Ricci, colpevole di aver negato una sala del comune a Casa Pound per la presentazione del libro di un disabile. Ora è sotto scorta.

FAKE. Tra tante, due recenti. Su Facebook un utente che ha come foto profilo un simbolo pro M5S, condivide una foto che ritrae Boldrini, Boschi e altri esponenti dem a un funerale, con il commento: «Guardate chi c’era a dare l’ultimo saluto a Totò Riina». Mille condivisioni in poche ore, per una cosa mai avvenuta. Il funerale in realtà era quello di Emmanuel, il nigeriano massacrato di botte a Fermo un anno e mezzo fa, per aver provato a difendere la moglie dai razzisti. L’altra: il 29 ottobre la pagina Facebook “Fiamma Nazionale” condivide una vecchia bufala pubblicata nel 2016 nel sito Adessobasta.org, secondo la quale Cecile Kyenge avrebbe detto no ai mercatini di natale, offendono le altre religioni. Il commento più leggero: «Vattene a casa tua».

PIAZZA FORCONA. Alessandro Di Battista sommerso di fischi e insulti dopo essersi presentato a piazza Montecitorio per arringare una piazza che credeva grillina, e invece era dei forconi: «Vattene via, servo di Goldman Sachs», l’offesa più bruciante. Il giorno appresso Vittorio Di Battista, Dibba padre, ha tentato di picchiare il generale dei forconi Antonio Pappalardo: schiaffo mancato. Alessandro Di Battista, convinto di rivolgersi ai militanti pentastellati che protestano in piazza Montecitorio dalla mattina, arringa la folla che manifesta davanti alla Camera. Invece dei sostenitori del Movimento 5 stelle, però, si trova davanti i simpatizzanti del Movimento di Liberazione Italia guidato dall'ex generale Antonio Pappalardo. Di Battista viene accolto con fischi e contestazioni. I seguaci di Pappalardo infatti considerano le posizioni del M5s troppo morbide. Per loro tutti i parlamentari sono abusivi a seguito della sentenza che ha dichiarato incostituzionale il Porcellum che ha portato alla loro elezione.

PIAZZA DIVISA. Dieci dicembre, piazza Santi Apostoli, due manifestazioni in contemporanea. Da un lato il popolo della Lega contro lo Ius soli davanti alla Basilica, dove da quattro mesi vivono accampate nell’atrio 60 famiglie sgomberate a Cinecittà. Dall’altro lato i movimenti per il diritto alla casa e i migranti manifestano (non autorizzati) a sostegno degli sfollati e contro la Lega: «Salvini Roma non ti vuole» e «Odio la lega», tra gli slogan. In mezzo, un blindato della polizia.

ORTICA. Cavalcavia Buccari, al quartiere Ortica, dove studenti, abitanti e gli artisti di zona avevano scritto a grandi lettere: “Bella Ciao Milano”, per festeggiare i 70 anni della resistenza. In una notte di dicembre, qualcuno ha cambiato il murale in un inno fascista: «Duce a noi».

PATATE. Alcuni titoli recenti da Libero, che ne ha fatto un genere. «Dopo la miseria portano le malattie» ; «Bastardi islamici», all’indomani delle stragi di Parigi; «Italia 1 - Germania 0», dopo l’uccisione dell’attentatore tunisino al mercatino di Natale di Berlino. Per il filone donne, dopo «Veronica Velina ingrata», «La patata bollente, vita agrodolce della Raggi». «Provocazione per l’otto marzo. Più patate, meno mimose»; «Dal burqua alla museruola».

BANDIERE. In mezzo a tante fake news autentiche, l’esposizione alla caserma Baldissera di Firenze della bandiera del secondo Reich e il tentativo di farla passare come una gaffe storica o addirittura una bufala. La ministra della Difesa, Roberta Pinotti: “Ho condannato con nettezza l’esposizione della bandiera neonazista, da quel momento sono stata ricoperta da insulti e minacce di ogni tipo da parte di chi vorrebbe far credere che in realtà quella bandiera sia semplicemente una vessillo della Marina imperiale tedesca”.

TERRORISTI. “Dovremmo smetterla di considerare il terrorista un soggetto disumano con il quale nemmeno intavolare una discussione” (Alessandro di Battista, sul blog di Grillo, 2014).

STUPRI. «Confessione. Ho fatto fatica a scopare quelle che la davano volentieri, come potrei stuprare una che non ci sta? Superiore alle mie forze» (tweet di Vittorio Feltri per sminuire la campagna #metoo. Ottiene subito 175 retweet e 773 “mi piace”).

VIOLENZE. «Quando una prima acconsente e poi se ne pente, toglie credibilità alle storie delle donne che veramente vengono violentate» (Vladimir Luxuria a Carta Bianca, per sminuire la denuncia delle molestie subite da Asia Argento da parte di Weinstein).

ARRESTIAMOLI TUTTI. «Questi parlamentari, usurpatori di potere politico li arresteremo noi, perché noi siamo dalla parte della legge. Questi sono golpisti, gentaglia, delinquenti che stanno rubando i soldi del nostro paese e stanno affamando il popolo italiano». Il generale dei Forconi Antonio Pappalardo, capo del Movimento per la liberazione dell’Italia, nel videomessaggio sul proprio sito.

Scontro di inciviltà: ecco la politica dell'odio. Insulti, violenze, minacce.  E intolleranza verso le idee dell’avversario. Che diventa un nemico da distruggere. Così l’Italia va al voto nel modo peggiore, scrive Marco Damilano il 15 dicembre 2017 su "L'Espresso". C’è un bene più prezioso della stabilità di un governo e anche, per fortuna, di una campagna elettorale vinta o persa che in democrazia dovrebbe essere la routine e non un giudizio di Dio? Sì, c’è, è la qualità del dibattito pubblico. La possibilità di riconoscere l’altro: un avversario da battere nelle urne, non un nemico da eliminare. Quando se ne parla appare una questione di educazione, di bon ton, di galateo, una roba da parrucconi, da bigotti custodi delle regole di buon comportamento. Ma non è così, non di mala educación qui si parla, e neppure soltanto dell’avvicinarsi della campagna elettorale. Perché c’è qualcosa di più inquietante e di più profondo. Un’intolleranza al pensiero altrui. Un’ostilità nei confronti di chi non fa parte della tua stretta cerchia dei veri credenti. Una sotterranea volontà di annientare il diverso, come dimostra anche il tentativo di assalto alle redazioni di Espresso e Repubblica del 6 dicembre ad opera di manifestanti del gruppo neo-fascista di Forza Nuova. Un gruppo di militanti mascherati di Forza Nuova hanno fatto irruzione nel cortile di via Cristofotro Colombo, sede dell'Espresso e di Repubblica. Nel video si vede chiaramente uno di questi figuri che lancia un fumogeno contro una delle finestre della redazione. Non preoccupano solo l’attacco, le maschere sul volto come gli attivisti di Anonymous, il megafono che fa subito anni Settanta, gli striscioni e i fumogeni, il vero simbolo di questa stagione perché tutto copre, confonde, occulta in una nuvola di confusione, ma soprattutto le parole spese nel comunicato pubblicato su facebook con gli insulti («infami, pennivendoli, diffusori del verbo immigrazionista») e le minacce: «Roma e l’Italia si difendono con l’azione, spalla a spalla, se necessario a calci e pugni...». Propositi ribaditi l’11 dicembre, in occasione del presidio delle associazioni sotto la sede dei nostri giornali: «Le guardie dell’antifascismo di regime, nemici della patria e traditori, si sono date appuntamento... preferiamo prendervi a schiaffi nelle piazze piuttosto che doverci difendere dalle vostre calunnie». L’annuncio di azioni violente sulla pagina fb di un’organizzazione che si definisce partito politico e che intende candidarsi alle elezioni. La campagna elettorale inizia nel peggiore clima di tensione, tra aggressioni verbali e minacce, segno di una stagione in cui non si vuole più il dialogo con l'altro. Poi sul giornale l'inchiesta sugli affari di Roberto Fiore, leader dei neofascisti Forza Nuova; l'intervista al ministro Carlo Calenda, uno dei personaggi politici del momento; il ritratto di Federico Ghizzoni, ex amministratore di Unicredit e test chiave della Commissione banche; il nuovo divismo della società contemporanea e le sue strategie. Si può tentare in modo rassicurante di isolare il fenomeno e di ridurlo a un gruppo di ragazzotti, al balzo sulla scena mediatica di un ormai attempato capo fascista, quel Roberto Fiore che nel 2006 aveva provato a entrare in Parlamento grazie all’accordo tra Alessandra Mussolini e Silvio Berlusconi, bloccato dalla reazione degli alleati del Cavaliere (Gianfranco Fini e Pier Ferdinando Casini). E poi si può allargare la condanna al gruppo rivale di Forza Nuova, l’altra scheggia di estrema destra Casa Pound, il cui leader Simone Di Stefano meno di tre anni fa, il 28 febbraio 2015, salì sul palco di piazza del Popolo accanto a Matteo Salvini (oggi il leader leghista candidato premier lo dimentica e fa lo schizzinoso: «Io certi voti non li prendo»). Inchiesta della magistratura dopo l'azione intimidatoria di dodici camerati. E sui social network tanta solidarietà alla redazione dell'Espresso. Ma non si fermano i vergognosi attacchi. Intanto Fiore scrive a Minniti: «Perché si dà la colpa a me?» Ma sarebbe un errore circoscrivere. Perché insulti, aggressioni, minacce, gli attacchi squadristi che escono dal virtuale e si fanno reali si muovono in un contesto accogliente per le loro scorribande, amichevole, friendly. Da mesi si rincorrono sul web e nei talk televisivi inviti ad asfaltare, cancellare, polverizzare, bruciare vivi gli esponenti di un altro partito. Si invoca la fine di Aldo Moro, rapito e assassinato nel bagagliaio di un’auto quarant’anni fa, ora per Matteo Salvini ora per Laura Boldrini, sul web o sulla prima pagina di una gloriosa testata, il Tempo di Roma, che un tempo fu soavemente diretta da Gianni Letta. Le testate reali contro un cronista delle Iene davanti alle telecamere del familiare di un clan mafioso a Ostia e gli inviti virtuali a masticarli e vomitarli da parte del fondatore del più votato partito politico italiano (stando ai sondaggi), Beppe Grillo e M5S. Non è finita, perché la delegittimazione reciproca rimbalza dalle piazze virtuali alle aule parlamentari, dalla base al vertice, dal basso - per così dire - verso l’alto, con la legislatura che si conclude nel peggiore dei modi, con lo spettacolo della commissione di inchiesta sulle banche che inghiotte e divora quel che resta della credibilità della Banca d’Italia, di un pezzo di magistratura (ad esempio la procura di Arezzo) e i partiti in campo interessati a distruggere ognuno per parte sua un pezzetto di istituzione pur di portare a casa un brandello di vittoria. E poi l’inchiesta sui carabinieri infedeli che truccano le carte sull’inchiesta Consip per incastrare Matteo Renzi. E quel magistrato consigliere di Stato che usa e abusa della sua posizione per organizzare corsi di formazione che con la scienza e il diritto hanno poco a che fare e che si sente come Albert Einstein, un genio incompreso. «Non si può essere violenti con chi pensa cose diverse da noi. Passato questo limite non si torna più indietro». Il ministro critica duramente il blitz di Forza Nuova nel corso di un lungo colloquio con Marco Damilano. E sullo Ius Soli: «È fondamentale per il futuro del paese» Sono situazioni lontane tra loro, a ciascuno il suo. A metterle insieme si rischia il generico, il mischione, il sospiro perbenista e snob per i brutti, sporchi e cattivi, il signora mia, in un annoiato tintinnar di posate. Ma nell’insieme ognuno di questi casi uniti dalle cronache e dai retroscena politici rappresenta un pezzo di fiducia che se ne va. E qualcosa di profondo che viene corroso. «Sento un rumore di denti di talpe che rodono incessanti le radici di molti alberi», mi ha scritto qualche giorno fa uno degli osservatori più intelligenti e disinteressati che in passato ha ricoperto rilevanti incarichi governativi. Questo dovrebbe interessare tutti: le radici corrose. L’Italia ha vissuto albe elettorali molto più pericolose di questa. Nell’anno che viene, per dirne una, sarà ricordato il 18 aprile 1948, settant’anni fa. Uno scontro di civiltà vero, tra l’Occidente e il socialcomunismo, tra Dio e Stalin, il bene contro il male. Da un lato Togliatti, Nenni, Garibaldi, il vento del Nord, l’Armata rossa. Dall’altro gli americani, Pio XII, le madonnine in lacrime, De Gasperi, il manifesto dello scudocrociato della Dc ponte levatoio che si abbatte sulla masnada rossa: «Non si passa». Walter Lippmann, il guru dei politologi americani, scrisse sul “New York Herald Tribune”: «Se l’Italia sarà il primo paese a diventare comunista, significherà una serie di lotte senza fine, irresolvibili dalla diplomazia». Come dire che dal voto degli italiani dipendeva la pace nel mondo. La classe dirigente dell’epoca, però, provava a tenere lo scontro nei binari della civiltà. Era riluttante a delegittimare il partito politico avverso, nonostante l’asprezza e la violenza della battaglia politica in un paese di frontiera nel tempo della guerra fredda, perché il processo di apprendistato democratico prevedeva esattamente il percorso opposto. Educarsi tutti insieme a convivere nella casa comune dello Stato democratico: cattolici e laici, liberali e comunisti. Oggi viviamo in un’epoca di debolezza della struttura statale e di dissolvenza dei partiti e degli altri canali di rappresentanza. E quelli che resistono non hanno alle spalle ideologie, progetti, identità, una visione delle cose, un’idea di politica. Preferiscono in gran parte carezzare l’elettorato per il verso del pelo, l’Italia del rancore di cui ha parlato l’ultimo rapporto Censis. Il rancore è la nuova ideologia. L’inciviltà non è l’incapacità di rispettare l’etichetta, ma il rifiuto dell’altro, per di più in nome di simboli posticci, di appartenenze virtuali. Il fumogeno da stadio è uno dei simboli di questa epoca perché disvela un dibattito collettivo ridotto a stadio, a curva degli ultras. Si va verso una campagna elettorale di ultras, in cui prevale l’odio per l’avversario piuttosto che l’amore per la propria squadra. E il frastuono dei cori assordante che copre le voci critiche o semplicemente disponibili a comprendere le ragioni degli altri. Un clima rafforzato dal virus proporzionalistico che trasforma il partito più vicino in nemico assoluto, che frantuma gli schieramenti, che esalta l’autoreferenzialità di un leader come Matteo Renzi, contento di essere rimasto quasi da solo, senza coalizione, e la sindrome di autosufficienza del partito in testa nei sondaggi, il Movimento 5 Stelle, orgoglioso di dichiararsi indisponibile a ogni alleanza, considerando tutte le altre forze politiche in blocco una malattia da estirpare. Si possono inseguire le centrali straniere delle fake news, i punti che irradiano sulla rete la falsificazione e la mistificazione, la sfera di influenza di Putin che sostituisce quella antica sovietica. Denunciato ogni tentativo di manipolazione, chi fa politica, cultura, giornalismo ha poi però l’obbligo di seguire i fili, cercare di risalire alle radici dell’odio, comprendere perché intolleranza e violenza hanno ripreso diritto di cittadinanza in un paese democratico, perché l’inciviltà sembra prevalere sulla civiltà e contagiare tutto. Non basta condannare, indignarsi, organizzare manifestazioni e raduni antifascisti. Quando si sarà spenta quella che si annuncia come una delle più brutte e inutili campagne elettorali della storia repubblicana, destinata a non produrre alcun risultato, bisognerà riandare alle radici dello scontro di inciviltà. Per comprendere e raccontare cosa si muove nelle periferie e nelle frontiere del nostro Paese. Diradare i fumogeni.

Ius soli, da Boldrini a Kyenge: adesso è caccia ai sabotatori. Dopo la mancanza del numero legale in Senato scoppia la bufera sugli assenti. Lite M5s-Pd. Boldrini: "Gravi responsabilità", scrive Nico Di Giuseppe, Domenica 24/12/2017 su "Il Giornale". Da ultimo, mancato, impegno di questa legislatura a primo terreno di scontro per la campagna elettorale che si aprirà tra pochi giorni. Se, infatti, ieri il Senato ha fatto mancare il numero legale condannando la legge sullo ius soli, tra i partiti non si placano le polemiche. "Promessa mancata e occasione persa per rendere più coesa nostra società. 800.000 ragazze e ragazzi, che di fatto già lo sono, attendevano con fiducia di diventare cittadini italiani. Assenti in #Senato e chi ha fatto mancare sostegno si sono assunti grave responsabilità #IusSoli", scrive su Twitter la presidente della Camera Laura Boldrini, che da venerdì è scesa in campo con Liberi e uguali e ha fatto di diritti e uguaglianza una delle sue principali battaglie anche in questi cinque anni di legislatura. Anche la Chiesa e il mondo della solidarietà non usano mezzi termini per raccontare il nulla di fatto. "Non hanno nemmeno fatto lo sforzo di schierarsi e votare a viso aperto per dire sì o no allo ius culturae e allo ius soli temperato. Hanno fatto mancare il numero legale in aula: appena 116 senatori presenti - attacca il direttore di Avvenire, Marco Tarquinio - Far mancare il numero legale è scelta da politica in fuga. Ieri in fuga dall'ultima responsabilità di legislatura. Una mossa da ignavi". A farsi sentire anche Marco Cappato, leader dell'associazione Coscioni, che chiama in causa anche il Capo dello Stato: "Non mi è chiara la fretta del Presidente Mattarella di sciogliere le Camere, senza regole decenti per la raccolta firme e con provvedimenti importanti come lo ius culturae che potrebbero essere approvati - scrive su Twitter - Non vede l'ora che il nuovo caos prenda il posto del vecchio caos?". Intanto tra i partiti continua il rimpallo delle responsabilità. Colpa del Pd per i 29 senatori dem assenti? "In Senato non abbiamo i numeri - insiste Ivan Scalfarotto - Se il M5S avesse risposto positivamente a questo appello e si fosse raggiunto un accordo politico per approvare la legge, in aula ci sarebbero stati tutti: loro e noi. Ma questo accordo era risaputo che non c'era, perché M5S è un partito di destra e lo ius soli non lo vuole, e dunque era chiaro che il numero legale non sarebbe stato raggiunto in qualsiasi caso". La risposta dei pentastellati non si è fatta attendere: "Abbiamo deciso insieme di non rispondere all'appello perché era una gigantesca ipocrisia. Era una presa in giro demagogica. Una follia, una farsa, una barzelletta. Con la gente già con il trolley nelle mani". "Siamo arrivati troppo tardi a porre" lo Ius soli "come centrale in questa legislatura. Ma è una riforma necessaria, che deve restare all'ordine del giorno del Paese", ha ammesso Minniti. "Abbiamo tradito una promessa. Un impegno preso con quasi un milione di ragazze e ragazzi, bambine e bambini. La promessa di un Paese che riconosceva i propri figli come legittimi", ha dichiarato Cècile Kyenge. Che poi ha aggiunto: "Abbiamo trascinato per anni questi giovani, bambini e bambine, in un dibattito feroce, umiliante e misero. Così come è stato miserevole il siparietto andato in scena ieri al Senato. Una responsabilità che peserà sulle coscienze e sulla credibilità di tutti coloro che hanno contribuito a far saltare il numero legale in aula: il M5S, Gal, Ala, Lega e Forza Italia. La stessa responsabilità peserà anche sui 29 senatori del mio Partito e i 3 di Mdp. Il Gruppo Pd, anche se la presenza dei suoi senatori non avrebbe influito sul risultato finale, aveva l'opportunità di mostrare un'immagine compatta al fianco di chi si è speso per anni in favore di questa battaglia, un battaglia di valore, europea e globale. Un'occasione mancata, che da oggi però avrà un volto e un nome da mostrare in campagna elettorale. Dal canto mio la battaglia continua, perchè, lo ripeto, il punto non è se concedere o meno la cittadinanza a questi bambini, ma come concederla, a conclusione di un percorso di integrazione o al termine di un'iter burocratico pieno di ostacoli? Un giorno, ne sono convinta, questa riforma sarà fatta".

Gli attivisti pro-ius soli pubblicano i nomi dei senatori “disertori”. Gli attivisti pro-ius soli non riescono proprio a digerire la mancata approvazione della legge, scrive Giovanni Giacalone, Martedì 26/12/2017, su "Il Giornale".  Gli attivisti pro-ius soli non riescono proprio a digerire la mancata approvazione della legge al punto da arrivare a chiedere al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, il rinvio dello scioglimento delle Camere in modo da poterla approvare. La conclusione della lettera inviata dal movimento “Ragazzi senza Cittadinanza” è più che eloquente: “Talvolta le autorità di un Paese democratico sono chiamate dalla Storia a promuovere leggi che possono apparire divisive ma che in realtà sono necessarie a potenziare gli anticorpi e a creare argini contro la deriva di forze antidemocratiche e destabilizzanti. Non lasciateci soli ancora una volta". Una possibile interpretazione? Anche se moltissimi italiani sono contrari allo ius soli, la legge va approvata perché chi è contro è un anti-democratico e un destabilizzatore. Così, in un momento estremamente delicato, con l’emergenza immigrati, il rischio terrorismo e un’instabilità politica che necessita elezioni al più presto c’è chi non soltanto chiede di posticipare lo scioglimento delle Camere ma punta il dito contro chi la pensa diversamente sull’approvazione dello ius soli. Intanto però sulla pagina Facebook “La Rete G2-Seconde Generazioni” tale Mohamed Abdallah Tailmoun pubblica un post con scritto: “Ma si sanno i nomi dei senatori Pd e Mdp assenti in aula al Senato il 22 dicembre”? Poco dopo al post risponde tale Said Lahaine che pubblica una lista di una trentina di nominativi di senatori non presenti in aula durante il tentativo per far passare lo ius soli, tra cui il Ministro degli Interni, Marco Minniti. Tra i commenti degli utenti si legge: “che schifo”, “tutti a casa” e “i nomi sono pubblicabili? Ce ne sono altri?”. Un episodio che desta preoccupazione perché potrebbe anche far pensare a una “caccia alle streghe” con ricerca dei presunti “responsabili” della mancata approvazione. Tutto ciò quando pochi giorni prima Unicef Italia si era esposta su Twitter con un post che accusava di “idiozia” e “fascismo” chi è contro lo Ius Soli. Insomma, forse è il caso di valutare bene chi sono gli anti-democratici e i destabilizzatori che utilizzano metodi reazionari.

I razzisti dello ius soli: "Fascista chi è contrario". Un tweet dell'Unicef bolla chi dice no al testo: "Idioti". Liste di proscrizione sui social contro i dem assenti, scrive Fausto Biloslavo, Mercoledì 27/12/2017, su "Il Giornale". Un tweet di Unicef Italia che bolla come «idiota» e «fascista» chi è contro la legge sullo ius soli. E la caccia alle streghe che sta nascendo in rete sui senatori assenti, che hanno affondato la norma sulla cittadinanza in questa legislatura. Un circuito collegato ai firmatari della lettera aperta al capo dello Stato per rimandare lo scioglimento delle Camere, che dimostra tutto l'estremismo di chi si pone come paladino buonista contro razzismo e xenofobia. La vigilia di Natale sul sito ufficiale di Unicef Italia appare un tweet, che assomiglia di più a quello di una fazione che all'agenzia dell'Onu in difesa dei bambini. In riposta a delle critiche pesanti contro lo ius soli gli umanitari rispondono: «Ah sei di quelli che usano nomi stranieri e bio in inglese ma non tollerano che ragazzini nati in Italia che parlano italiano siano considerati italiani» con aggiunti gli hashtag «idiot» e «fascist». In rete si scatena una valanga di polemiche. Il portavoce dell'agenzia dell'Onu è Andrea Iacomini, che faceva lo stesso lavoro ad un assessorato della seconda giunta capitolina del sindaco Walter Veltroni. Per 20 anni impegnato in politica era diventato segretario giovanile del Partito popolare. Candidato per l'Ulivo, in quota Margherita, nelle elezioni comunali di Roma del 2006 non è stato eletto per un soffio. Lo scorso anno non escludeva in un'intervista di rituffarsi in politica. Nel frattempo fa il portavoce di Unicef, sempre molto schierato pro ius soli, che dovrebbe avere anche la responsabilità delle uscite su twitter dell'agenzia dell'Onu. Secondo Maurizio Gasparri, vicepresidente del Senato di Forza Italia, «Iacomini insulta il Parlamento perché non ha varato la legge sullo ius soli. Chieda scusa». Massimiliano Fedriga, capogruppo della Lega alla Camera, sottolinea: «Si dimetta. Siamo stanchi di subire la retorica antifascista da chi si comporta da fascista». Dopo una giornata di polemiche Unicef ritwitta ammettendo in parte la gaffe: «Un troll ha usato l'epiteto idiota contro di noi fino a quando, vistoselo restituire (caduta di stile, lo ammettiamo) è corso dal giornalista amico. () #Stoppiagnisteo». Unicef e Iacomini, esperto blogger, sanno bene che si possono bloccare i troll e chi insulta sui social. E in ogni caso la mezza marcia indietro conferma che i critici dello ius soli sono «#fascist». Stessa linea imbarazzante adottata nella lettera degli «Italiani senza cittadinanza» al presidente Sergio Mattarella per non sciogliere le Camere prima di avere approvato lo ius soli. «Talvolta le autorità di un Paese democratico sono chiamate dalla Storia a promuovere leggi che possono apparire divisive - scrivono - ma che in realtà sono necessarie a potenziare gli anticorpi e a creare argini contro la deriva di forze antidemocratiche e destabilizzanti. Non lasciateci soli ancora una volta». In pratica i rappresentanti degli italiani in Parlamento l'hanno affossata, ma la norma va approvata lo stesso perché i contrari rappresentano un pericolo antidemocratico e destabilizzante. Ovvero sono «fascisti» come scrive l'Unicef. Curioso che una lista dal sapore della proscrizione sia finita sul gruppo Facebook «la rete G2-Seconde generazioni», attivisti pro ius soli collegati proprio agli «Italiani senza cittadinanza». Ieri Mohamed Abdallah Tailmoun si chiedeva in un post: «Ma si sanno i nomi dei senatori Pd e Mdp assenti in aula al Senato il 22 dicembre?», che hanno provocato l'affossamento della legge. Poco dopo Said Lahaine, profilo falso, pubblicava la lista «nera» dei 29 senatori Pd, 3 di Articolo 1 e Corradino Mineo del Gruppo misto. I più noti sono il ministro dell'Interno Marco Minniti, della Difesa Roberta Pinotti, ma pure Sergio Zavoli, Nicola Latorre e Felice Casson. E giù commenti da caccia alle streghe dei democratici buonisti dello ius soli: «Che schifo», «Lol» e «tutti a casa» e «ce ne sono altri?», riferendosi ai 5 stelle.

Idiota e Fascista: così Unicef definisce chi è contro lo ius soli. Sei contro lo Ius Soli? Allora sei un “Idiota” e un “Fascista”; parola di Unicef Italia. Anzi lo sei in inglese, “Idiot” e “Fascist”, scrive Giampaolo Rossi, Domenica 24/12/2017, su "Il Giornale". Sei contro lo ius soli? Allora sei un “Idiota” e un “Fascista”; parola di Unicef Italia. Anzi lo sei in inglese, “Idiot” e “Fascist”. È quello che scrive ufficialmente su Twitter, la sezione italiana dell’Organizzazione Internazionale. Tutto nasce da una polemica con un utente che aveva criticato la presa di posizione del portavoce di Unicef Italia, Andrea Iacomini, dopo il “naufragio” ieri del ddl sullo ius soli. Iacomini aveva definito una “pagina triste della storia repubblicana” il mancato raggiungimento del numero legale al Senato sul disegno di legge che prevede la concessione della cittadinanza ai nati nel nostro territorio; il presidente del Senato, Grasso, è stato costretto a rimandare la discussione al 9 gennaio quando le Camere saranno presumibilmente sciolte, decretando l’impossibilità dell’approvazione della legge almeno per questa legislatura. Già le dichiarazioni di Iacomini hanno scatenato alcune reazioni: a che titolo il portavoce di un’Organizzazione Internazionale si permette di giudicare in maniera così polemica con le dinamiche parlamentari di uno Stato sovrano? La questione si è poi trasferita sui social e la tenuta nervosa dei responsabili Unicef non ha retto a tal punto da definire “Fascista e Idiota” un utente che aveva criticato lo ius soli. Apriti cielo! I responsabili di Unicef hanno risposto al malcapitato critico con un tweet offensivo e indegno di un’Organizzazione Internazionale e, ironizzando sul suo account straniero, l’hanno attaccato: “Ah sei di quelli che usano nomi stranieri e bio in inglese ma non tollerano che ragazzini nati in Italia che parlano italiano siano considerati italiani. #idiot & #Fascist”. Una rissa indecente a cui hanno fatto seguito commenti di protesta da parte di molti altri utenti di Twitter, indignati dal fatto che l’Unicef si permettesse di offendere e denigrare chi aveva idee diverse dalle loro. D’altro canto gli stessi responsabili Unicef Italia hanno provato a giustificarsi affermando che l’Organizzazione è composta da “cittadini italiani con pieno diritto di esprimersi su qualsiasi vicenda riguardi i diritti dei bambini in Italia”, smentendo così il carattere super partes di una struttura che è “parte integrante di Unicef, organo sussidiario dell’ONU”, come si legge dal sito La rabbia per il fallimento dello ius soli, battaglia voluta fortemente dalla sinistra italiana, ha generato profonda frustrazione nella élite mondialista che lavora nelle Organizzazioni Internazionali e nei centri del potere tecnocratico per favorire processi migratori e di abbattimento delle identità nazionali (processi di cui lo Ius Soli fa parte). L’umanitarista di professione ha spesso un volto intollerante e livoroso. E Unicef Italia lo ha mostrato in tutta la sua arroganza.

Quindi, oggi, cosa bisogna sapere? Non bisogna sapere, ma è necessario saper sapere. Cosa voglio dire? Affermo che non basta studiare il sapere che gli altri od il Sistema ci propinano come verità e fermarci lì, perché in questo caso diveniamo quello che gli altri hanno voluto che diventassimo: delle marionette. E’ fondamentale cercare il retro della verità propinata, ossia saper sapere se quello che sistematicamente ci insegnano non sia una presa per il culo. Quindi se uno già non sa, non può effettuare la verifica con un ulteriore sapere di ricerca ed approfondimento. Un esempio per tutti. Quando si studia giurisprudenza non bisogna fermarsi alla conoscenza della norma ed eventualmente alla sua interpretazione. Bisogna sapere da chi e con quale maggioranza ideologica e perchè è stata promulgata o emanata e se, alla fine, sia realmente condivisa e rispettata. Bisogna conoscere il retro terra per capirne il significato: se è stata emessa contro qualcuno o a favore di qualcun'altro; se è pregna di ideologia o adottata per interesse di maggioranza di Governo; se è un'evoluzione storica distorsiva degli usi e dei costumi nazionali o influenzata da pregiudizi, o sia una conformità alla legislazione internazionale lontana dalla nostra cultura; se è stata emanata per odio...L’odio è un sentimento di rivalsa verso gli altri. Dove non si arriva a prendere qualcosa si dice che non vale. E come quel detto sulla volpe che non riuscendo a prendere l’uva disse che era acerba. Nel parlare di libertà la connessione va inevitabilmente ai liberali ed alla loro politica di deburocratizzazione e di delegificazione e di liberalizzazione nelle arti, professioni e nell’economia mirante all’apoteosi della meritocrazia e della responsabilità e non della inadeguatezza della classe dirigente. Lo statalismo è una stratificazione di leggi, sanzioni e relativi organi di controllo, non fini a se stessi, ma atti ad alimentare corruttela, ladrocinio, clientelismo e sopraffazione dei deboli e degli avversari politici. Per questo i liberali sono una razza in estinzione: non possono creare consenso in una massa abituata a pretendere diritti ed a non adempiere ai doveri. Fascisti, comunisti e clericali sono figli degeneri di una stessa madre: lo statalismo ed il centralismo. Si dicono diversi ma mirano tutti all’assistenzialismo ed alla corruzione culturale per influenzare le masse: Panem et circenses (letteralmente «pane e [giochi] circensi») è una locuzione latina piuttosto nota e spesso citata, usata nell'antica Roma e al giorno d'oggi per indicare in sintesi le aspirazioni della plebe (nella Roma di età imperiale) o della piccola borghesia, o d'altro canto in riferimento a metodi politici bassamente demagogici.

Oggi la politica non ha più credibilità perchè non è scollegata dall’economia e dalle caste e dalle lobbies che occultamente la governano, così come non sono più credibili i loro portavoce, ossia i media di regime, che tanto odiano la "Rete". Internet, ormai, oggi, è l'unico strumento che permette di saper sapere, dando modo di scoprire cosa c'è dietro il fronte della medaglia, ossia cosa si nasconda dietro le fake news (bufale) di Stato o dietro la discultura e l'oscurantismo statalista.

Ferrajoli: «La politica obbedisce all’economia e non conosce più il diritto», scrive Iaia Vantaggiato il 17 settembre 2017 su "Il Dubbio".  Odio e conflitti. Intervista al professor Luigi Ferrajoli, filosofo del diritto. Eclissi della politica, aggressione allo stato sociale, aumento delle disuguaglianze. Qui l’odio s’insinua, prende forma di parola e si fa linguaggio condiviso. Nascondendosi – troppo spesso – dietro un opaco quanto inattaccabile anonimato. Ne parliamo con Luigi Ferrajoli, giurista e professore emerito di filosofia del diritto. In corso di pubblicazione per Laterza, il suo ultimo libro: “Manifesto per l’Uguaglianza”.

Odio dunque parlo, professor Ferrajoli?

«Il linguaggio dell’odio sta sviluppandosi e generalizzandosi perché è legato non solo alle nuove forme della comunicazione – spesso anonime – ma anche al crollo delle forme e dei sentimenti tradizionali della solidarietà, al venir meno dei legami sociali».

Un ennesimo effetto della crescita della diseguaglianza?

«La diseguaglianza, la povertà estrema, la disoccupazione, la precarietà e il senso di insicurezza hanno avuto come prevedibile esito la fine della fiducia nella sfera pubblica e del senso di appartenenza a una comunità di uguali. Di qui l’odio per i diversi, i migranti in primis, concepiti come nemici».

Abbiamo smesso di odiare il “padrone” e cominciato a odiare il “servo”?

«E’ stata questa la strategia politica messa in atto dai governi e sperimentata con successo da Trump: mettere gli ultimi contro i penultimi, i poveri contro i poverissimi. Una strategia che ribalta la direzione della lotta di classe: non più dal basso verso l’alto ma dal basso verso chi sta ancora più in basso».

Strategia politica a parte, questo linguaggio dell’odio sembra riflettere un odio vero.

«Assolutamente sì. Come pure sentimenti di rancore e disperazione ma soprattutto sfiducia: sfiducia nelle istituzioni, nella politica, negli altri, nei concittadini. Tutto questo è il risultato di un processo di disgregazione sociale prodotto dalla disoccupazione, dalla svalutazione del lavoro, dal misconoscimento delle competenze, dai bassi salari e dalla creazione di fittizie disuguaglianze tra lavoratori. Da qui il senso di lesione dell’amor proprio e l’aggressività generalizzata».

Dov’è finita la politica?

«La politica ha abdicato al suo ruolo di tutela degli interessi generali e di garanzia dei diritti dei più deboli: un’abdicazione che si è espressa nell’aggressione allo stato sociale. A cominciare dai ticket sui farmaci e sulle prestazioni sanitarie, a mio parere incostituzionali perché la salute è un diritto fondamentale, base dell’uguaglianza e perciò universale e gratuito».

Parliamo della politica italiana?

«La politica italiana è uguale a quella di tutto il mondo occidentale. E’ l’economia a governarla. I rapporti si sono ribaltati: non è più la politica a governare la politica, ma viceversa. Il tutto è legittimato dalla tesi, ripetuta da tutti i governanti e da quanti li sostengono che “non ci sono alternative” alle politiche attuali, cioè alla subalternità ai mercati. E la mancanza di alternative equivale alla fine della politica che è prima di tutto trasformazione, alternativa all’esistente».

Da noi non si salva nessuno?

«Il punto è che non c’è più rappresentanza. Il paradosso è che l’unico terreno su cui c’è rappresentanza è proprio quello dell’odio. Maggioranza e opposizione fanno a gara ad assecondare, interpretare, rappresentare l’odio, l’intolleranza e la paura nei confronti dei diversi. Proprio per questo considero ridicola la critica al sistema proporzionale – perché incapace di dar vita a una maggioranza – quando di fatto tutti fanno le stesse politiche economiche e sociali».

Cos’è che manca davvero?

«Un programma, un progetto. In realtà ci sarebbe un enorme spazio per una forza di sinistra che semplicemente si impegnasse nell’attuazione del progetto costituzionale, cioè nella difesa dei diritti sociali e delle garanzie del lavoro. Accade invece che il Partito democratico e la destra, sostanzialmente, non si differenziano nelle loro politiche economiche. E’ questo che produce la percezione di una politica parassitaria, ridotta a tecnocrazia, cioè all’attuazione tecnica dei dettami dei mercati. Come diceva Norberto Bobbio, la tecnocrazia è la negazione della politica e insieme della democrazia».

Rispetto all’immigrazione, come le pare il modello tedesco?

«Lì, nonostante le critiche che possiamo rivolgere alla Germania, la politica è a un livello più alto. Una politica che non ha dimenticato il compito – anche giuridico – di attuare i precetti costituzionali, di difendere i diritti umani e la dignità delle persone. Qui da noi la vittoria del no al referendum era apparsa come una vittoria dei principi costituzionali, ma tutto questo è già scomparso dall’orizzonte della politica».

Insomma, insieme alla politica si è eclissato anche il diritto?

«Semplicemente non parlano più lo stesso linguaggio, come è stato sino a qualche anno fa.

Il linguaggio della politica, oggi, è il linguaggio dell’economia che ignora termini come uguaglianza, dignità della persona, diritti umani e diritti sociali. E il linguaggio dell’economia è fatto solo di Pil, efficienza, crescita, riduzione delle tasse».

Parliamo allora delle differenze, quelle che maggiormente sembrano scatenare sentimenti di odio.

«Le differenze hanno a che fare con l’identità della persona. Parlo delle differenze di sesso, di religione, di opinioni politiche, di etnia, elencate dal primo comma dell’art. 3 della Costituzione. Sono le differenze di identità, che il principio di uguaglianza impone di tutelare stabilendo la “pari dignità” di tutte le differenze di identità che fanno di ciascuna persona un individuo differente da tutti gli altri e di ciascun individuo una persona uguale alle altre».

E’ singolare il fatto che alla crescente intolleranza nei confronti delle differenze si accompagni una disponibilità quasi inaudita ad accettare come naturale e inevitabile l’aumentare impetuoso delle diseguaglianze…

«Le diseguaglianze non hanno nulla a che fare con le differenze di identità delle persone, ma solo con le loro condizioni di vita materiali, economiche e sociali, che il secondo comma dell’art. 3 della Costituzione impone di rimuovere e di ridurre. Aggiungo che sia le differenze che le diseguaglianze sono circostanze di fatto, mentre il principio di uguaglianza è una norma, diretta a tutelare le prime mediante i diritti di libertà, e a rimuovere le seconde per il tramite dei diritti sociali (alla salute, all’istruzione, a un reddito di cittadinanza)».

Può il diritto facilitare l’integrazione rendendo i migranti più consapevoli dei propri diritti?

«Sì ma questo vale per tutti, non solo per i migranti. Naturalmente le diverse culture vanno rispettate, ma solo fino a che non ledono diritti fondamentali, in quanto tali indisponibili: una cosa è il velo, un’altra è l’infibulazione. Certo fa parte dell’integrazione la conoscenza e il rispetto dei nostri principi costituzionali, ma nell’una né l’altra possono essere imposti dal diritto, pena la loro illiberale negazione».

Mi sembra un po’ drastico.

«Un principio generale di carattere liberale è che si regolano i comportamenti e non le idee. Le idee vanno promosse attraverso la cultura, ma non attraverso il diritto. Non si possono discriminare tesi, pensieri, posizioni politiche, anche se sono in contrasto con i valori costituzionali. I fascisti non ci piace che esistano, ma non possiamo reprimere le loro idee, ma solo combatterle argomentando e praticando le idee dell’antifascismo».

Dal linguaggio dell’odio alla guerra santa.

«Siamo in presenza di culture terroriste e assassine alle quali – a cominciare dalla vendita delle armi – continuiamo a fare regali, come il panico generato dall’eccessivo spazio dato dai media ai loro crimini. C’è poi un altro regalo che facciamo ai terroristi: parlare di “stato” islamico e utilizzare contro di essi il linguaggio della guerra anziché quello del diritto penale. Giacché agli atti di guerra si risponde con la guerra, come è stato fatto l’ 11 settembre contro la strage delle Due Torri gettando così benzina sul fuoco e facendo divampare il terrorismo; mentre ai crimini si risponde, cosa certo più difficile, con le indagini dirette a identificare e catturare i criminali. Chiamare atto di guerra un crimine significa abbassare lo Stato al livello dei criminali o alzare i criminali al livello dello Stato. E’ così che la logica della guerra ha fatto il gioco del terrorismo che appunto come “guerra santa” vuol essere riconosciuto».

Eppure l’informazione ha le sue esigenze.

«Certo occorre informare, ma se lo scopo del terrorismo è produrre terrore è precisamente la sua spettacolarizzazione che realizza tale scopo».

Che ne pensa dello ius soli?

«E’ un provvedimento assolutamente scontato e la discussione intorno allo ius solista rivelando il carattere puramente razzista dell’opposizione. Qui non abbiamo a che fare con immigrati, ma con persone che sono nate in Italia, hanno fatto in Italia i loro percorsi scolastici e sono quindi connazionali a tutti gli effetti.

L’opposizione a questa elementare misura di civiltà si spiega soltanto con l’intolleranza per l’identità etnica di queste persone, in breve con il razzismo. Non solo. Negando la loro italianità, che essi rivendicano con orgoglio, trasformiamo il loro senso di appartenenza al nostro paese in rancore antiitaliano. Il rifiuto della cittadinanza rischia così di trasformarli in nemici. Abbiamo qui il banco di prova del sottofondo razzista – più o meno consapevole – delle politiche di esclusione. Dobbiamo inoltre dare atto al governo della difesa, almeno finora, di questa elementare scelta di civiltà».

Quanto siamo vicini alla realizzazione di una cittadinanza globale?

«Siamo lontanissimi di fatto, anche se l’uguaglianza, sul piano giuridico, è solennemente proclamata dalla Dichiarazione universale del ‘ 48 e dalle tante convenzioni, patti e trattati sui diritti umani. In breve: non siamo mai stati tanto uguali in diritto e tanto disuguali di fatto. Basti pensare che le otto persone più ricche del mondo hanno la stessa ricchezza della metà più povera della popolazione, cioè di 3 miliardi e seicento milioni. Non c’è mai stata diseguaglianza di questo genere».

E’ possibile difendersi dal linguaggio d’odio senza restare impigliati nella rete della censura?

«La libertà di espressione non consente né l’ingiuria né la diffamazione. Il vero problema è che l’anonimato della rete non consente di identificare, e dunque di querelare chi si rende colpevole di tali violazioni. E’ una materia che richiede ancora di essere studiata, soprattutto sul piano delle tecnologie informatiche idonee a impedire l’anonimato».

Odio e Amore, motori di filosofia e di vita, scrive Corrado Ocone il 7 Settembre 2017 su "Il Dubbio". Due elementi hanno portato paradossalmente al linguaggio dell’odio: la supremazia della filosofia e la crisi profonda delle élite. «È scritto nel fato che chiunque macchi il suo corpo di sangue, o sia infame seguendo l’esempio di Odio, andrà errando diecimila anni lontano dagli uomini felici, nascendo di volta in volta sotto le sembianze di ogni essere vivente, soffrendo le varie pene d’ogni diversa specie vivente». Così scriveva, nel V secolo avanti Cristo, nel poema Sulla Natura, l’agrigentino Empedocle. Il quale avrebbe poi posto termine alla sua esistenza, sospinto dall’Odio, gettandosi nel cratere dell’Etna. Odio e Amore sono per Empedocle i principi stessi che muovono il mondo (cause efficienti), il quale di per sé, in ogni suo ordine e grado, è composto di quattro soli elementi variamente combinati fra loro: acqua, aria, fuoco e riera (cause materiali).

ODI ET AMO. A combinarli è la forza di attrazione di Amore e a disgregarli quella di repulsione dell’Odio. Senza di loro l’Essere sarebbe immobile: Amore e Odio sono alla base del continuo movimento e della continua trasformazione delle cose. Ma si capisce che, come i poli di un’eterna clessidra, essi non possono vivere da soli, separati: hanno bisogno vitale ognuno dell’altro. Odio e Amore si completano e giustificano a vicenda: un mondo di solo Amore sarebbe una massa compatta e indistinta; un mondo di solo Odio, non facendo massa, sarebbe semplicemente il nulla. L’essere è, vive, come diversità e come movimento, un eterno nesso di distinti e una dialettica di opposti. E non è un caso che l’opposizione che è di tutte le cose, sensibili e sovrasensibili, materiali e spirituali, sia da Empedocle esemplificata coi due più elementari e essenziali sentimenti umani. Empedocle ha scoperto la dialettica, la consapevolezza del nesso indissolubile di Bene e Male, Amore e Odio, che troverà forma compiuta tanti secoli dopo nel pensiero dialettico di Georg Wilhelm Hegel. Colui che, come ebbe a dire, avrebbe «redento il mondo dal male». O almeno ci provò. Ma, oltre alla dimensione ontologica e a quella morale, c’è una dimensione politica del male e del bene? Cosa sono le politiche dell’odio e cosa sono quelle dell’amore? Ed è possibile, o anche auspicabile, non solo opporre le seconde alle prime, ma proporsi più radicalmente di sradicare e superare definitivamente queste ultime? Per intanto, non dovremmo mai dimenticare di che stoffa, pessima, son spesso fatti anche i più nobili fra i sentimenti umani. Friedrich Nietzsche ci ha insegnato, con la sua “genealogia della morale”, che anche le pulsioni e i sentimenti apparentemente più disinteressati celano in verità impulsi negativi ed egoisti. E lo fanno in modo consapevole, e quindi ipocrita, ma anche, più spesso, in modo inconsapevole. Il “cattivismo” e spesse volte atteggiamento più sincero e umano di tanto “buonismo” di maniera.

SUPREMAZIA DEL BENE. Il Novecento è stato, secondo la definizione del compianto storico inglese Tony Judt, “il secolo degli intellettuali”, il secolo filosofico per eccellenza. La filosofia, con la sicumera di avere il Vero, il Bene e il Giusto dalla propria parte, si è voluta fare politica e ai politici ha dettato la linea. “Filosofia politica”, o meglio “teologia politica”, allo stato puro. Ma dove ha portato l’ideocrazia se non al “ferro e al fuoco” della guerra e dei totalitarismi. Per usare una nota espressione di Isaiah Berlin, che a sua volta riprendeva una metafora di Stalin, si son rotte tante uova ma la frittata non è stata fatta. Ammesso e non concesso, anzi non concesso, che la frittata sia un cibo buono per tutti, indistintamente. Si è dimenticato il nesso inscindibile che lega Odio e Amore, Male e Bene, e, volendo spezzare il nodo, si son create solo tante tra- gedie. Oggi, in politica, quel legame con la filosofia, o se preferite il rapporto stretto e diretto fra teoria e prassi, contro cui i liberali, e i rappresentanti del pensiero antitotalitario in genere, hanno tenacemente combattuto per un secolo intero sembra del tutto essersi spezzato. La politica sembrerebbe anzi del tutto priva di bussole, di ideali. E, quando non naviga a vista, sembrerebbe inseguire solo l’interesse del momento e personale degli attori politici, sollecitando e strumentalizzando demagogicamente le pulsioni più basse e gli umori dei cittadini. Da qui l’aggressività della comunicazione politica e le politiche dell’odio di cui le forze più o meno “populiste” si farebbero promotrici anche nel nostro Occidente democratico. Stanno veramente così le cose? Veramente ci sono nel nostro mondo tanto più odio, aggressività, post- verità, fake news di un tempo? E se erano un male le vecchie ideologie/ ideocrazie novecentesche, perché ora stiamo tanto a lagnarci di quello che dopo tutto sembra solo un modo, seppur sgradevole, di fare politica? I pronunciamenti “populisti”, a cominciare da quelli di Donald Trump. Sembrerebbe che lavorino solo a un livello simbolico, senza possibilità di avere nessuno sbocco pratico o effettuale. Qual è allora più radicalmente, la cifra del nostro tempo, la sua caratteristica più o meno centrale o essenziale che può permetterci di districarsi fra tante contraddizioni e le tante domande che ci poniamo? A me sembra che quello che oggi sta trionfando non è altro che la democrazia. Intendo in modo tendenzialmente completo, totale, capillare. Siamo in un’epoca di iperdemocrazia. Gli stessi leader “populisti”, anche quelli che come Trump sono andati al potere, non sono forse il più puro prodotto della democrazia e dello spirito democratico? E l’ideale dei social network, indipendentemente dal modo in cui le multinazionali che vi sono dietro li manipolano o dirigono, non è forse l’idea della “agorà” o piazza democratica, della comunicazione asimmetrica, perfetta, trasparente, “non distorta” (come dice e vorrebbe il buon Jurgen Habermas)? Ora, se ciò ci sembra stridere con i nostri più profondi ideali, a negare cioè che sia la tanto ma non a ragione amata democrazia a trionfare su tutta la linea, è perché noi ci siamo abituati a dare al termine democrazia un’accezione positiva. A volte perché crediamo in un tipo particolare di democrazia, quella liberale, nata da un compromesso veramente storico ma oggi vacillante fra principio democratico e principio liberale; dall’altra, più spesso, perché non c’è idea che più della democrazia sembra assecondare i nostri ideali di uguaglianza, giustizia, solidarietà umana. Dovremmo invece imparare a considerare la democrazia come l’hanno sempre considerata i liberali a cominciare almeno da Alexis de Tocqueville (ma forse prima ancora da Montesquieu e da Benjamin Constant). Cioè con sospetto, come un ente ancipite, ambiguo, come un’opportunità ma anche un pericolo. Non per opporre ad essa l’autoritarismo (“c’è troppa democrazia!”), che sembra ad essa opposto, ma che invece spesso è suo figlio. La mentalità democratica trionfante è quella dell’ “uno vale uno”, cioè della scomparsa delle gerarchie e delle competenze fra gli umani, dell’assenza tendenziale di ogni principio di autorità/ autorevolezza della disentermediazione, del popolo che esercita la sua sovranità senza delegare nessuno.

ROUSSEAU. Come è noto, è stato Jean Jacques Rousseau, che è andato al fondo di questa tendenza della modernità portandola alle sue estreme conseguenze logiche. È la “società orizzontale” di cui, con azzardo teorico, parla in senso positivo Nadia Urbinati nel suo ultimo libro (con Marco Marzano, La società orizzontale. Liberi senza padre, Feltrinelli, pagine 103, euro 16). E’ un processo che la comunicazione e l’informazione in tempo reale e alla portata di tutti sicuramente facilita, ma che pure va tenuto logicamente distinto da essa. E’ un portato della modernità radicalizzata e portata alle sue estreme conseguenze, dell’ipermodernità in cui siamo immersi (termine da preferirsi a quello di “post- modernità”, che lascia presagire un distacco che non c’è proprio stato). La mentalità democratica si intreccia e confonde poi con quella illuministica. E l’ “illuminismo di massa”, che assume spesso le sembianze di quella forma di illuminismo estremo che è il “politicamente corretto”, è un’altra delle caratteristiche della nostra società. L’illuminismo è portato per sua natura a rinnegare la mentalità storica (si pensi un attimo, a mo’ di esempio, alla recente “guerra delle statue” in America). Senza un minimo di “senso storico”, con il suo pensare astratto, l’illuminismo di massa entra presto in guerra anche con il “principio di realtà”. Esso vuole tutto uniformare e livellare secondo i suoi astratti principi di ragione. Crede, o dice di credere, nell’uomo, ma il suo individuo è disincarnato, senza un minimo di aggancio alla storia, alla tradizione, ai concreti contesti di vita. I quali sono sempre fatti di differenze, imperfezioni, diversità, disuguaglianze relative (è sempre in una relazione che si può parlare di uguaglianza o diseguaglianza), ingiustizie (la giustizia è una bussola etica nei rapporti interindividuali non può esserlo in un’ottica di “grande società”, per dirla con Friedrich von Hayek). La teoria del gender, per fare solo un esempio, è una chiara conseguenza, sul piano specifico del genere, di un modo di ragionare omologante e appiattente delle differenze quale quello illuministico e democraticistico. Cosa opporre, allora, al democraticismo diffuso?

LE FAKE NEWS. Ovvero, come recuperare il principio di autorità, quello che porta a distinguere una fake news dal suo contrario? Le fake news, in verità, sono sempre esistite. Il sofisma è stato sempre quel particolare modo di usare la forma logica della verità per avvalorare un contenuto fallace. Ed è sempre stato lo spirito critico, da Socrate- Platone in poi, che si è assunto il compito di smascherarare questa fallacia. Il fatto è che oggi la parola di un filosofo, cioè di un esperto in genere, vale tendenzialmente quanto quella di un sofista, cioè di chiunque abbia accesso alla parola, cioè di tutti noi. E, poiché il logos non è riconosciuto nella sua pregnanza, nel dibattito pubblico agli argomenti e ai ragionamenti si sostituiscono, più o meno simulate, le modalità basiche dell’interazione umana, quali l’esaltazione apodittica e enfatica (“sei un mito!”) o all’opposto la critica non argomentata fatta di odio e aggressività. E’ possibile restituire autorevolezza a chi sa, è esperto, competente, o semplicemente ha esperienza? Non saprei, ma certo se le élites sono oggi invise è perché anch’esse hanno in qualche modo tradito il loro compito. Si son fatte corporazioni e hanno adottato metodi di cooptazione basati esclusivamente sulla fedeltà o l’appartenenza. A prescindere. Basti pensare ai magistrati. O, peggio ancora, ai professori universitari. Va poi considerato che comunque le élites in un’ottica liberale debbono comunque essere considerate mobili e relative. Dal primo punto di vista, basti rammentare che tutto il classico, e non tramontato, pensiero della scuola italiana dell’elitismo (Vilfredo Pareto, Gaetano Mosca, Roberto Michels) ci ha insegnato che una società liberale si distingue da una che non lo è non per l’assenza di èlites, ma per la loro mobilità. “Circolazione delle élite” significa che le classi dirigenti devono essere sottoposte a continuo ricambio, devono immettere sempre nuova linfa vitale al loro interno, devono essere in un meccanismo di competizione e concorrenza. Dal punto di vista della loro relatività, va invece considerato che, in una società complessa come l’attuale più che mai, il rapporto di potere che è alla base del crearsi di una élite è sempre relazionale: come ci ha insegnato Hegel, si può essere “servo” in un campo e “padrone” in un altro, oltre che “servi” in un momento e “padroni” in un altro (auspicabilmente in uno successivo, dopo che si è conquistata quella competenza e quella autorevolezza che prima non si aveva). In ogni caso, deve sempre essere ben chiaro che l’odio sociale può essere controllato, ma mai eliminato. Eliminare il conflitto dalle società umane, significherebbe eliminare l’uomo stesso nel suo milieu sociale. Cioè in una delle parti più rilevanti della sua umanità.

Furio Colombo: «Bene l’iniziativa del Cnf Il linguaggio dell’odio va sconfitto». Intervista di Simona Musco l'8 Settembre 2017 su "Il Dubbio". Secondo Furio Colombo l’odio condiziona pesantemente la realtà ed espone la nostra società a grandi rischi. «Eventi come quello promosso dal Consiglio nazionale forense sono importanti e sono un buon inizio per trovare una soluzione alle derive del linguaggio dell’odio. Mi auguro che ciò che verrà fuori dall’incontro possa contribuire a evitarlo in futuro». Furio Colombo è un giornalista sensibile al tema che verrà affrontato dal G7 dell’avvocatura. Da sempre lo analizza e si batte contro odio e razzismo. Ma oggi sembra molto preoccupato, soprattutto per lo stato del giornalismo italiano.

Quando e come nasce l’odio in Italia?

«L’odio in politica, nel nostro Paese, è stato inventato nel dopoguerra, da quelle forze che, con la loro scorta giornalistica, hanno capito che produceva attenzione e militanza. I primi a farne strumento politico sono stati i leghisti, nati come Lega per l’indipendenza della Padania, un partito secessionista, un atteggiamento che porta sempre se non odio un forte rancore, co- me dimostra la Brexit. Ed è il rancore ciò che ha caratterizzato l’esordio dei leghisti, diventato abbastanza rapidamente chiazzato di odio. Sarebbe ingiusto dire che il successo politico che hanno avuto e la quantità di voti notevole, sin dall’inizio, fosse dedicato all’odio. Ma dedicati all’odio erano molti dirigenti. Mario Borghezio ha compiuto il primo importante gesto di odio nella politica degli ultimi 20 anni, andando ad incendiare i giacigli degli extracomunitari sotto il ponte della Dora a Torino. L’imputazione indicava danni anche fisici alle persone ed è stato condannato definitivamente per aggressione e atti di violenza. Andare in giro con le fiaccole e con le ronde e poi usare quelle fiaccole come ha fatto Borghezio per incendiare la roba di chi viveva sotto il ponte, non di chi aveva occupato un palazzo, è stato l’inizio di tutto».

Quell’episodio avrebbe dovuto portare l’opinione pubblica ad una stigmatizzazione della violenza. Le cose non andarono così?

«Il gesto venne immediatamente bollato dalla stampa, condannato, con la giusta porzione di indignazione. Ma la persona che l’ha compiuto è diventata una celebrità della vita pubblica italiana. Quando io denunciavo in aula una mascalzonata dell’una e dell’altra parte politica uno di loro si alzava per chiamarmi “faccia da culo”. Il fatto che il presidente della Camera non abbia sospeso la seduta ed espulso dall’aula chi mi aveva aggredito rappresenta il punto di debolezza di un Paese che è entrato in una galleria troppo stretta per sperare di uscirne. Nessun giornale ne fece uno scandalo eppure era una bella notizia ed un fatto utile da raccontare. Questo avveniva molto prima dell’incattivimento successivo, che è stato molto più grave, ma poteva essere un segnale utile che non è stato colto».

Quindi i giornali non hanno ostacolato in alcun modo l’imbarbarimento dei linguaggi?

«La Stampa, giornale che apprezzo molto e al quale sono molto legato, ha raccontato con assoluta celerità quell’evento ma le persone che se ne sono rese protagoniste sono rimaste intatte, rispettabili, intervistate, quindi la passavano liscia sempre. Un po’ di tensione la creava Repubblica, allora. Fece più opposizione di ogni altro giornale, se si esclude il manifesto. E l’Unità, quando ne ero io il direttore, che non ne lasciava passare nemmeno una. E infatti era un giornale mal visto dal potere, ma molto amato dai lettori».

Questo significa che il giornalismo italiano, nella maggior parte dei casi, preferisce adeguarsi?

«Basti pensare che se il Papa parla dello Ius soli, in ogni tg italiano a rispondere è Salvini, come se avesse le qualità e la statura per replicargli. Ma avviene ogni volta. A furia di parlare così al Paese, il Paese diventa ciò che si racconta. E non si tratta di una questione di audience: credo che lo facciano per non stare troppo lontani dal potere, anche se è sgradevole. La Lega, infatti, per molti anni, ha avuto un dominio notevole sulle cose italiane, perché ha avuto un ministro dell’Interno per due legislature targate Berlusconi e bisognerebbe lodare la nostra Polizia per non aver ceduto agli impulsi distruttivi di Maroni. Ma se oggi non sappiamo dove mettere i migranti è proprio perché Maroni, confidando nel trattato con la Libia – una delle cose più spaventose che l’Italia abbia fatto negli ultimi due decenni ha distrutto tutte le strutture di accoglienza che il governo Prodi aveva in qualche modo creato, bene o male, perché non possiamo dire che abbia fatto meraviglie ma almeno aveva risolto il problema. A me è accaduto di andare a Lampedusa, dopo un naufragio grave, insieme al deputato Andrea Sarubbi, del Pd cattolico, l’unico insieme a me ad aver votato contro il trattato con la Libia, e abbiamo trovato i sopravvissuti aggrappati agli scogli fuori dal porto, perché in città era stata smantellata tutta la struttura di accoglienza, per quanto povera che fosse. Maroni ci ha impedito, contravvenendo alla Costituzione, di visitare le rovine del centro d’accoglienza. Con grande imbarazzo dei carabinieri, che non sapevano come dirci che era stato chiesto loro di trasgredire la legge. Eppure Maroni ha sempre avuto, e ha tuttora, l’immagine di uno statista. Ed è chiaro che da lì non possono nascere grandi cose».

Un titolo molto forte è quello di “Libero” di mercoledì, che parla degli immigrati come dei responsabili della morte per malaria di una bimba di 4 anni. Cosa ne pensa?

«Si tratta di pura falsità e pure di odio. Perché dopo questo ci si può aspettare che i pugni e gli omicidi in discoteca possano all’improvviso diffondersi nei confronti degli extracomunitari, come i virus. Li vedi e li ammazzi, perché portano la malaria ai tuoi bambini. Quindi la cattiva informazione tenta, con argomenti vaghi, gli umori dei lettori. Gli esperti dicono che la zanzara che ha trasmesso il virus che ha ucciso la bambina potrebbe essere arrivata con una valigia. Ma raramente un immigrato arriva con la valigia. È la valigia di un turista, di un personaggio abbiente che stava in un albergo e le zanzare non hanno certo problemi ad entrare in un hotel a 5 stelle. Con i barconi invece è più difficile. Allora dico che si tratta di invenzioni dell’odio e la storia ci ha insegnato che l’odio è una scuola. Fai la scuola dell’odio e ne esci capace di odiare».

Il G7 dell’avvocatura può costituire un punto di partenza per una lezione alternativa?

«Eventi come quello promosso dal Cnf sono importanti e un buon inizio per trovare una soluzione alle derive del linguaggio dell’odio. Mi auguro che ciò che verrà fuori dall’incontro possa contribuire ad evitarlo in futuro. Pensare ad una strategia comune di fronte ai rischi della violenza verbale è una cosa civile, importante e utile. A livello politico, invece, ci sono gli sforzi di infinito buon senso di persone come Emma Bonino, che tenta disperatamente di raccogliere le firme per la legge “Io ero straniero”. Ma questo odio generato dallo straniero, in un Paese come il nostro che è composto da stranieri e ha vissuto il fascismo, va avanti. Ha cominciato la Lega, che disprezzava l’Italia al punto da voler mettere il tricolore nel cesso, chiedendo che non fossero ammessi insegnanti meridionali ad insegnare nelle scuole venete. Sono partiti con l’odio da vicino, poi il crescere del fenomeno dell’immigrazione ha dato uno sfogo per un odio molto più grande. Un odio che ormai riguarda tutto lo schieramento politico italiano, da destra a sinistra, tranne i Radicali. I 5 stelle, ad esempio, hanno inventato il gommone come taxi in mare e il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, un reato folle. Come può essere clandestino uno che si presenta per forza con un gommone che a malapena si riesce a salvare e poi lo tocchi, lo fotografi e non lo identifichi? Gli italiani non fanno nessuno sforzo per identificarlo, perché non vogliono che resti in Italia e allora i nostri amici europei ci chiudono le frontiere. Così abbiamo i gendarmi a Ventimiglia e l’esercito al Brennero. Questo è odio. E invece di ritirare gli ambasciatori ci siamo messi a dare la caccia insieme ai poliziotti dell’altro paese. E poi ci lamentiamo che il numero cresce».

L’odio è trasversale, dunque. Il Presidente della Repubblica potrebbe fare qualcosa?

«Le parole del Quirinale sono troppo rare e generiche, mentre ritengo che una lezione andava data, per salvarci, perché siamo un popolo in pericolo di essere preda dell’odio. E l’odio è una bestia spaventosa che divora chi odia dopo aver divorato gli odiati. Ma a combattere questo linguaggio ci sono solo due poli, uno laico, quello dei Radicali, e uno religioso, quello del Papa. Ed è triste che un piccolo partito sia il solo a farsi carico di questa cosa, mentre il Papa certamente non è seguito da tutta la Chiesa e da tutti i parroci. Il Pd ha avuto questa idea dello Ius soli, che è piena di limiti ma vorrei passasse, anche se lo dubito, ma a parte questo, con le decisioni sulla Libia, ha abbandonato tutti quelli che ci credevano ancora, quelli che avevano visto la resistenza e ne amavano ancora i valori».

La stampa ha speranze?

«Siamo al peggio. È difficile odiare più di quanto l’Italia stia facendo in questo momento. Tutti quelli che partecipano ai dibattiti, e vale anche per la rete, sono contro e ansiosi di dire parole d’odio. La storia ci insegna che si può risalire dal fondo, dopo aver sofferto molto. Non so se ce la caveremo in meno di qualche anno, perché la situazione è davvero brutta. Sono pessimista perché sono circondato, spesso sono il solo a dire le cose. Questa è la nostra malaria e il vettore è stata una stampa infinitamente tollerante con chiunque avesse potere.

«Ma quale linguaggio dell’odio, il problema vero è la realtà». Intervista di Simona Musco l'8 Settembre 2017 su "Il Dubbio". Secondo Vittorio Feltri hate speech che popola giornali e web inizia esattamente con un’evidente riduzione del problema. «Il linguaggio dell’odio? E che cazzo è?». Il dialogo con Vittorio Feltri sull’hate speech che popola giornali e web inizia esattamente così, con un’evidente riduzione del problema. Anzi, un finto problema, secondo il direttore di Libero, che due giorni fa, raccontando la storia della bimba di 4 anni morta di malaria a Brescia, ha scelto un titolo forte: «Dopo la miseria portano la malattia». Si tratta degli immigrati, «affetti da morbi letali» e che, perciò, «diffondono infezioni». Un titolo senza mezzi termini, che in molti hanno stigmatizzato invocando un intervento dell’ordine dei giornalisti. Ma per Vittorio Feltri il linguaggio non è affatto un problema. Il problema, dice, «sono i concetti, la realtà. Prendetevela con quelli».

Direttore, è d’accordo con l’idea di chi dice che l’informazione italiana contribuisca in parte a veicolare il linguaggio dell’odio attraverso slogan e semplificazioni?

«Il linguaggio dell’odio? Non esiste alcun linguaggio dell’odio. Esistono i concetti e il modo di raccontarli. Se non ci piacciono non è che possiamo prendercela con le parole, prendiamocela con i concetti. Di quali slogan parliamo?»

Per molti, ad esempio, il titolo di “Libero” di mercoledì sulla bambina morta di malaria era troppo forte e contribuiva a diffondere l’odio nei confronti dei migranti.

«Ma che stiamo dicendo? Noi odiamo la malaria, non gli immigrati. Il titolo fotografa una situazione: la malattia è stata portata in quell’ospedale da una famiglia interamente colpita dalla malaria. La madre, due figli, non so se anche il padre. Venivano dal Burkina Faso, mica dalla Svizzera! Non c’è nulla di falso».

Ma la situazione non è ancora chiara, ovviamente ci sono delle indagini in corso…

«Chiaro o non chiaro è abbastanza probabile, la malaria in Italia in qualche modo ci deve essere arrivata e non è che l’abbia portata io! Anche se la zanzara è arrivata con la valigia di un turista comunque deve aver punto qualcuno affetto da malaria e in quell’ospedale c’era un’intera famiglia malata. Se in Lombardia i casi di tubercolosi sono raddoppiati in soli sei mesi è chiaro che è colpa degli immigrati. Che nessuno controlla, nessuno visita».

Ma ha un dato certo per affermarlo?

«Sono raddoppiati per colpa mia? No. Di chi allora?»

La scelta di raggruppare in prima pagina una serie di notizie che hanno per protagonisti gli immigrati – la bimba e lo stupro di Rimini, con i verbali della vittima – però potrebbe contribuire a fornire l’immagine dell’immigrato- nemico.

«Adesso mi vorrebbe insegnare come fare la prima pagina?»

No, ma non crede che sia una scelta che può provocare percezioni distorte in chi legge, specie se disinformato?

«Pazienza, se è ignorante cazzi suoi. Mica mi posso preoccupare di chi legge e non capisce, io mi devo preoccupare di raccontare la realtà. A me delle percezioni non frega niente, guardo ai fatti. Le percezioni sono ingannevoli, per cui bisogna parlare delle cose concrete. E queste ci dicono che la natura non è democratica. Secondo me c’è da risolvere il problema dell’immigrazione, non del linguaggio, il tono dei giornali. I giornali sono specchi che riflettono la realtà: se non ti piace la realtà non te la puoi prendere mica con lo specchio».

Secondo lei questo problema dunque non esiste? Nemmeno sul web?

«Il web è una miniera di insulti, un vomitatoio, ma è incontrollato e incontrollabile. Non consulto frequentemente i siti, ma uso ogni tanto Twitter. Non è nelle mie corde insultare. A me, addirittura, hanno augurato la morte, ma nessuno si è scandalizzato. Pazienza, non me ne frega niente della solidarietà. Ci sono delle ragioni per cui il linguaggio va condannato, perché eccessivo perché insultante. Il problema non sono le parole però, ma ciò che esse esprimono. Sono i concetti. Non approvo gli insulti che girano su internet, mi dà fastidio quando in rete dicono di noi che parliamo di cose che non corrispondono alla realtà. Chi ci accusa di dire il falso è in malafede».

Vittorio Feltri: «Feci lo stesso titolo su Ruby e nessuno fiatò perché era marocchina». Intervista di Giulia Merlo l'11 Febbraio 2017 su "Il Dubbio". Il direttore di Libero non si scusa con Virginia Raggi, difende il suo “Patata bollente” e attacca i detrattori: «Un ridicolo e ipocrita pandemonio per un titolo di giornale». «Ma quali scuse?», commenta serafico Vittorio Feltri. Ieri, il direttore di Libero ha pubblicato sulla prima pagina del suo quotidiano il titolo più commentato (e criticato) della stampa italiana. Il suo «La patata bollente» – campeggiante sopra una fotografia della sindaca di Roma Virginia Raggi – ha suscitato le reazioni indignate dell’intero panorama politico, per una volta unito nell’unanime condanna.

Direttore, l’ha stupita la reazione al suo titolo?

«Ho notato il pandemonio ridicolo che si è scatenato contro quel titolo. Direi però che, da parte mia, lo stupore è stato relativo: sono abbastanza abituato a questo tipo di reazioni e non mi sconvolgo di certo».

Un classico esempio di perbenismo all’italiana?

«Guardi, noi domani (oggi per chi legge ndr) pubblicheremo di nuovo la prima pagina di Libero del 15 gennaio 2011, in cui facemmo lo stesso titolo su Ruby Rubacuori. In quel caso, curiosamente, non si scatenò alcuna corsa alla condanna per sessismo. Era perché Ruby era marocchina, o forse perché in quel caso si trattava della solita vicenda berlusconiana? Rilevo che, invece, lo stesso titolo utilizzato con la Raggi ha suscitato pubblica e unanime indignazione. Allora forse una domanda dovrei farla io, a coloro che lanciano strali: perché per Raggi è stato sessismo e per Ruby no? Un doppiopesismo emblematico, direi».

Molto rumore per nulla, quindi?

«Non so esattamente quale sia il problema: “patata bollente” è una metafora che si usa nel linguaggio delle persone per bene. Non mi interessa capire, invece, in altri gerghi lessicali che cosa si decida di leggervi dietro».

Ma, al netto della polemica, secondo lei Virginia Raggi dovrebbe dimettersi o comunque trarre qualche conseguenza politica, dopo le notizie degli ultimi giorni?

«Ma assolutamente no, le persone con cui va a letto sono fatti suoi personali».

Eppure anche i grillini ormai sembrano tentennare sulla difesa ad oltranza di Raggi.

«Da giornalista noto che nel Movimento 5 Stelle si sta animando un certo scontento nei confronti dell’amministrazione romana. Tuttavia non ho né verificato in prima persona, né ho mai frequentato ambienti vicini ai grillini. Poi sa, io vivo a Milano, che è una città tutto sommato ben amministrata e in cui si vive bene. Per me Roma ha un interesse esclusivamente giornalistico e mi limito a rilevare che la Capitale ha avuto una lunga lista di sindaci ridicoli, non vedo come Raggi possa essere o sia peggiore di altri che l’hanno preceduta».

Rileverà, però, che c’è un imbarbarimento del dibattito pubblico…

«Ma sa, l’Italia è abituata a questo tipo di dibattito dopo le prodezze sessuali di Berlusconi raccontate con profusione di particolari. E poi di certo non mi stupiscono le debolezze carnali di Raggi, anche lei è umana».

Ma quindi nulla da eccepire?

«Io per primo non sono un santo, ho fatto le mie esperienze nella vita e francamente non mi importano i dettagli della vita intima della sindaca. Non è ovviamente questo il dato che mi interessava rilevare».

E cosa le importa, invece?

«Mi sembra di interesse, per esempio, il fatto che goda di questi piaceri della vita a spese delle casse comunali. Ecco, non trovo elegante triplicare lo stipendio dell’impiegato del Comune con cui si va a letto. Non erano eleganti nemmeno le cene di Berlusconi, certo, ma almeno lui le pagava di tasca propria».

L’assalto dei nani contro Eugenio Scalfari, scrive Piero Sansonetti il 23 Maggio 2017 su "Il Dubbio". Perché il fondatore di Repubblica, un uomo che ha discusso di politica e di economia con Togliatti ed Einaudi, con Fanfani e Moro e Berlinguer, con Nenni, La Malfa, Craxi e Riccardo Lombardi deve essere costretto a subire gli attacchi volgari di giornalisti come Feltri e Travaglio? Non ho mai avuto simpatia per Eugenio Scalfari. Un po’ perché la sua è un figura altezzosa. Un po’ perché, politicamente, è sempre stato espressione di un pezzo di sinistra abbastanza lontana dalla sinistra che piaceva a me. Una volta – quando ero giovane, una trentina di anni fa – rifiutai persino una sua proposta di andare a lavorare a Repubblica. Perché mi sentivo lontano dal suo modo di pensare, di essere borghese. Trovo francamente fuori da ogni misura della realtà, e anche volgari, gli attacchi che sempre più spesso gli vengono rivolti da giornalisti molto più giovani e molto molto meno dotati e meno autorevoli di lui. Lo accusano di oscillazioni politiche, oppure lo accusano di essere renziano, oppure gli rinfacciano di aver fatto parte della intellettualità progressista degli anni sessanta. Alcuni di loro, per esempio Travaglio, evidentemente lo fanno non conoscendo bene la sua storia, per colpa delle loro giovane età e per lacune di studio. Altri, per esempio Vittorio Feltri, lo fanno fingendo di non conoscerla. E bastonano, bastonano. Bastonano il vecchio intellettuale liberale – per fortuna solo virtualmente – un po’ come i fascisti facevano – realmente – con Amendola, o con Gobetti, o con Rosselli. Mi chiedo come si fa ad accusare di renzismo (seppure questo fosse un reato) un signore che da circa 70 anni è al vertice del giornalismo italiano, che ha interpretato ai massimi livelli il pensiero laico e liberale, che ha discusso di politica e di economia con Togliatti ed Einaudi, con Fanfani e Moro e Berlinguer, con Nenni, La Malfa, Craxi e Riccardo Lombardi. E che ha diretto e fondato il più importante e anticonformista settimanale italiano e il più innovativo e prestigioso quotidiano del dopoguerra. Eugenio Scalfari, nella sua vita, e anche nella sua lunga carriera di osservatore politico – certo – ha commesso un numero notevole di errori. La sua continua ricerca di una sponda riformista nel mondo politico ha dato quasi sempre pessimi risultati, per colpa sua o per colpa della sponda. De Mita, Occhetto, Prodi. Ma non credo che nessuno possa negare che egli sia un colosso del giornalismo italiano. Nel dopoguerra non mi pare che esista no altre figure della sua statura, a parte, forse (ripeto: forse), quella di Indro Montanelli. L’ultimo attacco gli è venuto da Vittorio Feltri, il quale lo ha accusato di essere stato tra coloro che sottoposero a linciaggio morale il commissario di polizia Luigi Calabresi, nel 1971, e quindi di portare sulle proprie spalle la responsabilità morale per la sua uccisione (avvenuta nel maggio dell’anno successivo). E gli ha ingiunto di chiedere scusa pubblicamente. Scalfari ha già risposto, su Repubblica, con un articolo per niente reticente, molto sereno e anche dolce (dote inconsueta per lui) che smonta l’assalto di Feltri. Non c’è molto altro da aggiungere a questa polemica. Però forse c’è da fare qualche riflessione ulteriore per cercare di capire perché Eugenio Scalfari è diventato il bersaglio preferito dei giornali della destra e non solo della destra (compreso Il Fatto). Sento in questa aggressione tutta la forza e lo spirito di sopraffazione del moderno giornalismo, che si è sostituito al vecchio giornalismo, e lo disprezza, e vuole cancellarlo, e per cancellarlo tende a demolire i pochi simboli che sono rimasti. Il nuovo giornalismo – quello inventato da Vittorio Feltri un quarto di secolo fa, e che poi ha avuto molti seguaci, tra i quali il più noto è sicuramente Travaglio – è fondato non sulle idee, né tantomeno sulla ricerca dell’informazione, della descrizione, del racconto. Non tiene in nessuna considerazione l’aspirazione alla verità. Considera l’oggettività una dote degli imbelli, dei paurosi. E fonda se stesso solo sulla ricerca ossessiva di un avversario, della colpa dell’avversario, della maledizione dell’avversario, della punizione, della demolizione, dell’umiliazione. Perché immagina – forse con qualche ragione – che questa sia l’unica via per conquistare il favore del lettore, per prendere possesso dei suoi sentimenti – accarezzandoli, blandendoli, oppure incattivendoli – e quindi per assicurare una platea a una attività che altrimenti rischia l’isolamento e la sconfitta. Il nuovo giornalismo ha escluso la possibilità di ricostruire una informazione di qualità. Dove le diverse posizioni si confrontino e lottino tra loro, e non si scontrino in una battaglia giudiziaria e di mostrificazione. Ha escluso il valore della verità. Ha abolito strumenti – una volta essenziali – come la verifica della notizia, il ragionamento sulla notizia, l’inchiesta, la ricerca, l’anticonformismo. Tutti elementi che ormai vengono considerati come impicci pericolosi. In parte anche per ragioni economiche. Verificare, studiare, indagare: costa. Richiede risorse umane molto grandi. Gli editori non vogliono. Vogliono la notizia subito, a due lire. Se c’è qualcuno, per esempio un po’ di Pm, disposto a fornirla, evviva i Pm. Succede così che una volta avevamo Scalfari, e Montanelli, e Pintor, e Reichlin, e Biagi, e Valli, e Mo, Colombo, Levi, Casalegno, Tobagi, Pansa, Bocca: ora ci restano solo il ghigno avvelenato di Travaglio e le frecce di Feltri. Una volta c’era l’inviato che passava un mese ai cancelli della Fiat, o a Gibellina, e poi scriveva un’inchiesta in tre puntate. Ora c’è Marco Lillo che passa un paio d’ore davanti alla porta di un carabiniere o di un Pm, e poi consegna al suo direttore quattro presunti scoop già pronti. Una volta un buon giornalista doveva saper scrivere. Ora deve sapere trascrivere. Mi ricordo che una trentina d’anni fa il giornale per il quale lavoravo, l’Unità, prese una gran cantonata: diede retta a un documento falso, che gli fu consegnato da un confidente della polizia o forse dei servizi segreti, e lo pubblicò. In questo documento c’era scritto che il ministro Scotti era stato in carcere a trattare con Raffaele Cutolo, boss della camorra, la liberazione di un assessore democristiano che si chiamava Ciro Cirillo e che era stato rapito dalle Brigate Rosse. Ci volle poco, nei giorni successivi, dopo le proteste indignate di Scotti e della Dc, per capire che il documento era falso. Si dimisero il direttore dell’Unità, il vicedirettore e il redattore- capo. E si dimise anche il vicesegretario – di fatto – del Pci, che era solo il partito editore. Il capo dei deputati comunisti si alzò nell’aula di Montecitorio e prese la parola per chiedere scusa. Si chiamava Giorgio Napolitano. Dare una notizia falsa, allora, era una cosa gravissima, quasi una vergogna per un giornalista. Di solito rovinava una carriera. Ora, tra le altre varie bufale, ci troviamo di fronte a giornali che hanno condotto una campagna di giorni e giorni sulla base di un documento falso, prodotto da un carabiniere ora inquisito, che accusava il padre del premier dell’epoca – e cioè Renzi – di avere incontrato l’ex parlamentare Bocchino per conto dell’imprenditore Romeo. Si suppone, a fini di corruzione. Quando si è scoperto che era una balla confezionata apposta o per errore, non solo non si è dimesso nessuno, ma si è moltiplicata la campagna, si è dato fondo alle intercettazioni illegali, si è giunti fino all’abominio – per qualunque liberale, anche leggermente liberale… – di pubblicare le intercettazioni del colloquio tra un avvocato e il suo assistito. È questo il nuovo giornalismo? A questo dobbiamo adeguarci? Bisogna chinare il capo perché è la modernità? Se proprio devo chinare il capo, preferisco farlo per dare omaggio al vecchio, indomito, saccente e insopportabile Eugenio Scalfari.

SCALFARI TI AMO (E TI ODIO) - NEL LIBRO DI PANSA, IL FONDATORE DOMINA OGNI PAGINA, E SOPRATTUTTO IL CUORE DELL’AUTORE - “QUEL PRODIGIO OGGI È FINITO”, ANNIENTATO DALLA FILOSOFIA DEL GIORNALE-PARTITO IN LOTTA CONTRO I NEMICI CHE, VIA VIA, “BARBAPAPÀ” INDICAVA: PER PRIMO CRAXI E, INFINE, BERLUSCONI - MA A PANSA SFUGGE IL RUOLO DI DE MITA E DELLA SINISTRA DC SULLA LEGGE MAMMÌ BALUARDO ALL’INVASIONE DI BERLUSCONI NEL MONDO DEI GIORNALI …, scrive Dagoreport su "Dagospia" il 25 febbraio 2013. Protagonista fin dal titolo del nuovo libro di Giampaolo Pansa, "La Repubblica di Barbapapà", Eugenio Scalfari domina ogni pagina e soprattutto il cuore dell'autore. Come tra padri e figli, la differenza d'età non conta e non contano nemmeno gli anni di lontananza: da parecchio tempo, rivela, si sono "persi di vista". E così Pansa, che ha 77 anni, conserva per Scalfari, che sta per compierne 89, lo stesso affetto, entusiasta e devoto, che lo sovrastava quando ne avevano 30 di meno. Anche nelle pagine in cui non compare, nella storia della vita professionale di Pansa prima del suo ingresso a Repubblica, Scalfari è presente, in una specie di annunciazione continua.

Pansa ha avuto grandi direttori, come Giulio De Benedetti e Alberto Ronchey alla "Stampa", come Piero Ottone e Franco Di Bella al "Corriere della Sera" o Claudio Rinaldi a "Panorama" e all' "Espresso", dove ha lavorato anche con Giovanni Valentini (curiosamente non nomina il suo attuale direttore, Maurizio Belpietro, a "Libero", come fosse una variabile accidentale della sua vita professionale). Ma Scalfari, e non serve certo Pansa a scoprirlo, è un'altra cosa. Scalfari è il "Costruttore", quello che ha fatto, "con il suo gemello Caracciolo", "Repubblica" dal nulla. E l'ha fatta grande: "Un'impresa titanica". "La sorte gli ha permesso di conservare il carattere che ha sempre messo in mostra. Un primo della classe geniale, testardo, autoritario, con un'autostima enorme, convinto di avere sempre ragione al punto di non sopportare chi si azzarda a mettere in dubbio la sua assoluta perspicacia. E quando commette un errore, e sbaglia una previsione, come è accaduto in più di un caso, rimuove tutto senza spiegare nulla.

La stessa marmorea noncuranza mostra nel piegare i fatti, e la loro memoria, a vantaggio di se stesso. Sino al punto di alterare la verità. Gli capita di farlo spesso, confidando sulla smemoratezza di chi lo ascolta pontificare in tv con lentezza regale o legge il suo vangelo domenicale su Repubblica". Però, avverte Pansa, "quel prodigio oggi è finito" e lo annuncia fin dal primo capitolo, a pagina 11. "Però quel prodigio oggi è finito, annientato dalla filosofia del giornale-caserma che pervade la "Repubblica" di questi ultimi anni. Diventata una fortezza inchiodata a un pensiero unico. Dove non vengono ammessi dubbi, dissensi, deviazioni. Le opinioni pubblicate sono tutte uguali e dettate ai lettori senza mai essere messe in discussione. Un errore al quale Scalfari non soltanto non si è opposto, ma che ha contribuito a provocare. Il risultato è una falange compatta e guerrigliera: il giornale-partito. Questa accusa viene rivolta da anni a "Repubblica". Accadeva già con la direzione di Scalfari e accade oggi sotto la regia di Mauro. Di questa etichetta a Eugenio non è mai importato nulla. Anzi l'ha rivendicata in un editoriale dell'agosto 2007 nel quale spiegava che le grandi testate sono tali proprio perché sposano una causa politica. Era accaduto così anche nei primi anni del Novecento con il "Corriere della Sera" di Luigi Albertini. La domanda è se nella temperie attuale, dove nessuno è più certo di nulla, un giornale-partito sia utile al pubblico al quale si rivolge e, più in generale, alla società italiana. Se osserviamo la crisi profonda che investe anche "Repubblica", la risposta è no. Ma questo è un problema del direttore di oggi e dell'editore. Non di Scalfari.

Barbapapà non si pone questo interrogativo. E non si macera nell'incertezza quando deve spiegare chi siano i lettori di "Repubblica". Per lui sono una comunità di militanti, cresciuta lottando contro i nemici che, via via, Scalfari indicava: per primo Bettino Craxi e infine Silvio Berlusconi". Il libro è una storia di Repubblica, ma anche di un pezzo di giornalismo italiano, senza pretese di cura maniacale del dettaglio o di organicità, è il racconto del principe dei cronisti italiani, dove la vicenda personale di Pansa si intreccia con quella del giornale, del giornalismo e anche dell'Italia contemporanea. Ma sempre da testimone oculare: ove non ha visto con i suoi occhi o sentito con le sue orecchie non riporta, e forse per questo la tormentata vicenda della vendita a Rizzoli da parte dei tre soci del Corriere, Crespi, Agnelli, Moratti, è piuttosto sintetica. Il racconto è fatto da un cronista che riesce a uscire dal particolare dei singoli episodi e ricucendoli ne trae un grande affresco. Qui forse è la differenza tra Pansa, che è di Casale Monferrato, e Mauro, che è di Dronero (Cuneo). Mauro non ha fatto il salto da grande cronista a storico, ma è diventato direttore e questo è il cruccio latente che serpeggia nel libro.

C'è poi un terzo grande del giornalismo italiano, Giorgio Bocca, di Cuneo, e questo passo dà un'idea dello spirito piemontese che domina. "Un giorno Bocca mi disse, con il suo stile ruvido: "Pansa, non capisci un cazzo. Scalfari e De Mita sono due terroni, pronti a darsi un a mano!". Gli replicai: "Giorgio, tu dei cuneese e io monferrino, eppure non andiamo d'accordo quasi su niente!". Lui alzò le spalle: "Noi piemontesi siamo diversi dai meridionali. La nostra specialità è litigare sempre". Scalfari no, lui non è piemontese, anche se ha sposato una piemontese, Simonetta, figlia di Giulio De Benedetti, però, dal punto di vista professionale, è le due cose assieme: grande scrittore e grande direttore. E anche grande stratega editoriale.

Ci fu qualcosa di messianico nel primo incontro di Pansa con Scalfari: «Non verresti a lavorare con me a "Repubblica"?» mi domandò Eugenio Scalfari. La mia risposta fu senza esitazioni: «Ti ringrazio per l'invito, ma devo dirti di no». «Perché no?» chiese ancora Eugenio. Questa seconda domanda mi creò un po' d'imbarazzo. Avrei dovuto ribattergli con una spiegazione che non avevo voglia di offrire. E mi nascosi dicendo: «Ho un patto di lealtà con Piero Ottone. Gli ho promesso che resterò con lui al "Corriere della Sera". Me ne andrò soltanto quando Piero si dimetterà». Era il 2 giugno 1975". "Mi trovavo di fronte al padreterno di via Po, la storica sede dell'"Espresso" a Roma. Scalfari aveva 51 anni, undici più di me. E mi fece un'impressione eccellente, per usare un aggettivo che per Eugenio riassumeva il massimo del giudizio positivo. Ieratico, fervido, sicuro di sé, assolutamente tranquillo nella riuscita dell'impresa che stava progettando.

Chissà perché, mi obbligò a pensare a un nuovo Cristoforo Colombo impegnato ad arruolare l'equipaggio per una caravella, anziché per tre. Purtroppo a non convincermi era proprio lui, il capitano di un altro viaggio verso l'ignoto. C'erano troppi lati di Scalfari che suscitavano la mia diffidenza. Nel 1968 il Partito socialista, portandolo a Montecitorio, lo aveva salvato dai guai giudiziari legati all'inchiesta dell'"Espresso" sul presunto tentativo di colpo di Stato del Sifar, il servizio segreto delle forze armate. Per un caso voluto dalla sorte, quella era stata la prima legislatura di un altro deputato socialista che in seguito sarebbe diventato il bersaglio di una violenta guerra politica di Scalfari: Bettino Craxi. Bettino aveva dieci anni meno di Eugenio. E i due, eletti entrambi nella circoscrizione Milano-Pavia, non erano fatti per andare d'accordo. Nella minuziosa biografia di Massimo Pini dedicata al leader socialista e pubblicata da Mondadori, si legge un giudizio asprigno di Craxi sullo Scalfari conosciuto in campagna elettorale: «Eugenio è un geniaccio con un carattere fragile, instabile. Se oltre ai salotti avesse frequentato anche qualche sezione di partito, se avesse alternato i colloqui con esponenti della finanza a qualche incontro con gli operai, be', direi che non gli avrebbe fatto male». Da deputato milanese, Scalfari si era gettato tutto a un sinistra, diventando un sostenitore del Movimento studentesco che dopo il Sessantotto dominava la piazza. Le assemblee alla Statale lo vedevano spesso tra i vip che assistevano a quei riti. C'è una suggestiva fotografia scattata da Massimo Vitali che ritrae Eugenio in un'assemblea nell'aula magna dell'università. E in piedi e sta fumando. Accanto a lui c'è la sua spalla abituale: Giuseppe Turani, detto Peppino, piccoletto e occhialino, giornalista esperto di questioni economiche.

La fotografia risale al gennaio 1970, forse scattata nel pomeriggio che vidi Eugenio per la prima volta. Durante un corteo del Movimento che marciava "contro la repressione" messa in atto dal secondo governo del democristiano Mariano Rumor, a danno degli studenti che sognavano la rivoluzione. Era soltanto una mossa di pura propaganda, poiché il pio Rumor non appariva assolutamente in grado di reprimere alcunché. Eugenio, forse in cerca di popolarità, era tra i vip che guidavano il corteo, mentre io, da inviato a Milano della "Stampa" di Alberto Ronchey, mi ero sistemato sul fronte opposto, quello della polizia. Non impugnavo un manganello, ma soltanto la biro e un taccuino. E mi limitavo a osservare quanto poteva accadere, accucciato alle spalle del vicequestore Luigi Vittoria, un funzionario per niente bellicoso, incaricato di ordinare la carica dopo aver indossato la fascia tricolore". Di quel primo contatto visivo non rammento quasi nulla. Non ricordo neppure se la carica ci fu. A restarmi impressa fu soltanto la figura di Eugenio. Era bello, aitante, ancora senza barba e si difendeva dal freddo con un magnifico tre quarti di montone".

Un anno dopo ci fu l'incontro con Caracciolo, che non riuscì, al momento, a convincere Pansa, ma si rivelò profeta, sia per Pansa sia per Repubblica: "Quel giorno d'estate del 1976, Caracciolo mi accolse con calda cordialità, pregandomi di accompagnarlo in una breve passeggiata nei dintorni della villa. Durante la lenta camminata, mi domandò di raccontargli del "Corriere" e di Ottone. Gli regalai qualche banalità che di certo doveva conoscere meglio di me: le difficoltà finanziarie di Angelo Rizzoli junior, nostro editore da un paio d'anni, il sindacalismo esasperato di una parte della redazione, l'abilità di Ottone nel non lasciarsi imprigionare troppo dai tanti ostacoli che incontrava ogni giorno. Il Principe osservò: «Piero è davvero bravo. L'unico che lo batte è Eugenio. Prima o poi, finiranno con il lavorare assieme». Poi volle sapere in che modo ero riuscito a strappare a Berlinguer quelle battute sul Patto di Varsavia e sulla Nato. Mentre nell'intervista a Fausto De Luca di "Repubblica" il segretario del Pci non aveva detto nulla di memorabile. Quindi aggiunse: «Eugenio si è incazzato a morte perché Berlinguer ha scelto di parlare schietto al "Corriere" invece che a "Repubblica". E immagina congiure e trame a non finire, ai suoi danni e per avversione al nostro giornale appena nato...». Mi misi a ridere e risposi: «E inutile che Scalfari, e forse anche tu, cerchiate di catturare le mosche con le chiappe. Non c'è stato alcun complotto e non è intervenuto nessun potere segreto. Avevo appena concluso la mia inchiesta sul Pci. E tanto Ottone che io pensammo che si doveva intervistare il segretario comunista. Insieme abbiamo steso le domande e io le ho portate alla governante di Berlinguer, l'occhiuto Tonino Tato. Dopo un giorno, Tato mi ha chiamato: Enrico ha deciso di dare l'intervista al "Corriere". E vuole che sia tu a farla, per rimediare alle balle che hai scritto nei quattro interminabili articoli sul partito... Tutto qui». Caracciolo osservò: «Me la racconti troppo semplice. E non ti credo!». Alzai le spalle: «È andata esattamente così. Non so che altro dirti. Ma dovresti rammentare che la mia intervista a Berlinguer è uscita qualche giorno prima delle elezioni politiche di questo giugno. Il segretario del Pci aveva bisogno di dire certe cose a un pubblico più vasto di quello del vostro giornale. E ha scelto il "Corriere". Eugenio non perda tempo a incavolarsi!». «Già, parliamo dei lettori di "Repubblica"» mi propose Caracciolo. «Oggi sono ancora pochi, ma presto cresceranno. Se è questo il motivo che un anno fa ti ha spinto a rifiutare l'invito di Eugenio, hai sbagliato...» Interruppi Caracciolo: «Ho detto di no per altre ragioni» e mi decisi a spiegargli per bene l'insieme di dubbi e dissensi che mi avevano fermato. Lui mi lasciò parlare a lungo, poi si limitò a osservare: «Hai ragione, quel manifesto contro Calabresi è stata una vera carognata. Ti rammento che, a differenza di Eugenio, io mi sono ben guardato dal firmarlo. Ma non potevo né volevo bloccare l'iniziativa dell'"Espresso". Ho sempre pensato che gli editori non debbono mai sovrapporsi ai direttori. O li lasciano fare oppure li cacciano su due piedi».

Comunque, il Principe se ne infischiava dei miei fastidi nei riguardi di Scalfari, della Cederna e dell'"Espresso". Adesso gli premeva soltanto "Repubblica". Mi disse: «Un giornalista come te deve lavorare con Eugenio. Lascia perdere i quotidiani dove sei stato fino a oggi. Loro appartengono al passato, mentre noi siamo il futuro. Ma per affermarci abbiamo bisogno di gente con una buona esperienza professionale. Tu fai al caso nostro. Il tuo lavoro da inviato verrà riconosciuto senza avarizia. E avrai un compenso più alto di quello che ti passano Rizzoli e Ottone. «Noi siamo il giornale giusto per te» continuò Caracciolo. «Dopo le prime fatali difficoltà, "Repubblica" si assesterà e diventerà sempre più forte. Per tanti motivi, ma soprattutto per due. Ha un direttore unico in Italia, il più bravo in assoluto: Eugenio. E un editore fortunato: io. Forse tu non lo sai, ma la fortuna mi è stata sempre amica. Con i giornali e con le donne.» Gli replicai ridendo: «Mia nonna Caterina avrebbe detto: fortuna in amore, disgrazia negli affari. O viceversa». Caracciolo alzò le spalle: «Tua nonna si sbagliava. I mia storia personale la smentisce. Dammi retta: vieni con noi a "Repubblica". Diventerà il primo giornale italiano. E tu farai un'esperienza unica. Persino litigare con Eugenio risulterà appassionante». Un simpatico figlio di buona donna, il Principe. E un padrone che sapeva essere molto convincente. Infatti, l'anno successivo mi arruolai nella banda di Scalfari. Ma prima mi ero trovato immerso in altre faccende professionali. Il prologo necessario al mio arrivo in quel giornale rifiutato per due volte". La storia di Repubblica si sviluppa per più di 300 pagine, con la tecnica del grande racconto, inclusi flash back e deviazioni laterali. Vi entrano personaggi che appartengono al presente, come Ezio Mauro, e al passato dell'editoria italiana: l'incontro con Ferdinando Perrone, comproprietario del "Messaggero", che annuncia a Pansa la vendita della propria quota a Edilio Rusconi (alla fine comprerà tutto la Montedison e poi Caltagirone); i due colloqui con Berlusconi, il primo una reprimenda il secondo una offerta di lavoro.

Poi l'assassinio di Walter Tobagi e la scoperta che per un puro caso non era toccato proprio a lui, Pansa, di finire sotto il piombo di un gruppetto di ragazzi di buona famiglia della sinistra intellettuale milanese, col pentimento già in tasca; Montanelli, al quale non perdona di essere diventato "un eroe per la sinistra che lo aveva sempre odiato" per essersi messo contro Berlusconi. Una pagina è dedicata a Marco Benedetto, che all'epoca del ritorno di Pansa a "Repubblica" dopo dieci anni come condirettore dell' "Espresso", era amministratore delegato del Gruppo editoriale. Scalfari domina il racconto: i suoi rapporti con Craxi, senza particolari rivelazioni, con Pertini, con De Mita, con i comunisti. Dal racconto del rapporto di Repubblica con De Mita manca un pezzo importante, che forse sfuggì a Pansa nella concitazione della guerra di Segrate. Furono De Mita e i suoi della sinistra democristiana a forzare la mano a Andreotti, imponendo la legge Mammì sui rapporti tra tv e giornali che, per quanto edulcorata negli anni tra Corte costituzionale e nuove leggi, ancora è baluardo all'invasione di Berlusconi nel mondo dei giornali. Per ottenere questo si dimisero da ministro vari esponenti democristiani, cosa che per un politico è dolorosa assai. E uno di loro, Sergio Mattarella, finì sulla lista nera di Berlusconi al punto che, quasi vent'anni dopo, mise il veto alla sua nomina a vice presidente del Csm, tanto gli bruciava ancora.

Sui rapporti con i comunisti ci sono molte, avvincenti, pagine sul complesso atteggiamento del Pci e delle sue mutazioni nei confronti di "Repubblica" all'epoca di Scalfari, prima della mutazione in giornale fiancheggiatore. Ma la pagina più divertente, a proposito dei comunisti, non riguarda Scalfari, ma Berlusconi: è il racconto che Pansa fa, come testimone oculare, della visita del segretario del Pci, Enrico Berlinguer, a Canale 5, host Silvio Berlusconi: La storia di "Repubblica" è completa, non manca la vicenda nota come a Guerra di Segrate, iniziata nell'aprile dell'89 con la vendita dell'Espresso, che includeva mezza Repubblica alla Mondadori in cui dominava Carlo De Benedetti e conclusasi due anni dopo, con la divisione fra la Mondadori dominata da Berlusconi e il grande Espresso dominato da De Benedetti, in cui era rifluita Repubblica, ma tutta intera. La cronaca di questi due anni è avvincente, fedele. Qualcuno più addentro può rilevare qualche lacuna, dovuta al ruolo di Pansa in quei momenti, che era di puro testimone. Ma il ritmo c'è e si legge come fossero cose di ieri. Qualcuno si poteva aspettare da Pansa qualche domanda di più, ma sono dettagli di un grande affresco. Pansa accetta la verità ufficiale: Caracciolo, Scalfari e i loro amici vendono alla Mondadori il controllo dell'Espresso, che, come detto, ha in pancia il 50% di Repubblica.

La Mondadori sembra destinata a finire sotto il controllo di De Benedetti, che ha firmato un patto d'acciaio (solo la corruzione per cui ci sono stati processi e condanne poteva come avvenne, fonderlo) con Cristina Mondadori vedova Formenton. Improvvisamente Berlusconi spariglia e si impadronisce di tutto e solo il colpo di genio di Caracciolo (più qualche colpo di giustizia giusta al Tribunale di Milano) salva la situazione mettendo in mezzo Peppino Ciarrapico e Andreotti. Andreotti, come spiega lui stesso a Pansa, non vede di buon occhio tutto quel ben di Dio giornalistico in mano a uno, De Benedetti, che già si comporta come un fiancheggiatore dei comunisti, ma non può nemmeno vedere con gioia la stessa concentrazione di un avversario che lui odia almeno altrettanto, Bettino Craxi, Di qui la spartizione, forzata sulla testa di Berlusconi con la minaccia di togliergli le concessioni tv. Nessuno ha mai ricordato abbastanza la condizione di illegalità in cui ha operato Berlusconi in tutti questi anni, nel silenzio decennale della Corte costituzionale, zitta sempre fino a quando il male è stato sanato infine dalla Legge Gasparri e soprattutto dal completamento del digitale terrestre.

E "Repubblica" scopre l'odio ad personam, scrive IlGiornale, Venerdì 28/07/2017. È più di una settimana che Repubblica si scervella: come mai Renzi è così odiato, poverino? Il primo pistolotto è di Massimo Recalcati, esimio psicanalista e saggista che si domanda: «Ma possibile che ogni atto, ogni pensiero, ogni gesto politico di Renzi sia sbagliato? Non è un po' sospetto?». Poi hanno detto la loro Guido Crainz, Roberto Esposito, Tomaso Montanari, Emanuele Felice. L'ultima dotta analisi è di Massimo Ammaniti, altro psicopatologo e professorone che «assiste con sconcerto a insulti e accuse sprezzanti che coinvolgono Renzi...». Ma come? Dov'era Repubblica, quotidiano diretto da Mario Calabresi, e dove tutte queste teste pensanti quando un odio ancora peggiore investiva Berlusconi per più di vent'anni? Come sempre due odi e due misure.

Tintura di odio, scrive il 23 dicembre 2009 Umberto Eco su “L’Espresso”. L'attentato è un rischio quasi fisiologico legato alla funzione dell'uomo politico. Nel nostro caso non si tratta di una passione forte ma di una diarrea del comportamento. L'attentato a Berlusconi ha subito suscitato il discorso dell'odio, da chi auspica la fine della spirale dell'odio, a Berlusconi che ha visto l'attentato come risultato di una campagna d'odio verso di lui, a Di Pietro che lo ha visto come risultato delle campagne d'odio suscitate per primo da Berlusconi. Se si pensa che l'Italia si è qualificata attraverso i secoli come un paese dominato dall'odio tra città e città e dall'odio reciproco tra i singoli (e il primo piagnone a lamentarsi dell'odio a cui era fatto segno è stato proprio il padre Dante) non ci si potrebbe che associare al discorso dell'odio. Troppo odio, quanto odio. Ma è proprio vero? Negli altri paesi le persone non si odiano tra di loro e la politica non viene mai fatta all'insegna dell'odio? La civilissima Francia ha avuto due vampate d'odio unite da un secolare e continuo crepitare di piccole combustioni, tra il grande momento della rivoluzione, dove i politici, dopo aver tagliato la testa al re, se la tagliavano tra di loro, e l'immenso massacro della Comune, dove le due fazioni si trucidavano a vicenda e si fucilavano all'angolo della strada donne e bambini. 

La guerra di secessione ha soltanto inaugurato un odio razziale americano durato (se è davvero finito) sino a ieri, nella guerra civile spagnola l'odio si è manifestato in modi orrendi, chi sventrava le monache e chi decimava gli anarchici, e taccio su tante vampate d'odio durante la guerra civile russa, e su quello che accade ancor ora tra varie tribù africane, eccetera eccetera. Noi della specie umana siamo insomma esseri inclini all'odio, tanto quanto siamo inclini al sesso, al pianto, al riso o alla religione, siamo fatti così e basta - altrimenti non sarebbe suonato così inedito e scandaloso il richiamo evangelico all'amore. Che cosa caratterizza allora la politica italiana attuale? Il modo smandrappato in cui la rivalità (e l'odio che spesso ne consegue) si manifesta in modo incivile, perché c'è una differenza tra chiedere con serietà la testa di Danton e mangiare mortadella in parlamento, pascolare maiali nei pressi di luoghi di culto musulmani, ridurre i giudizi politici a osservazioni sui costumi sessuali, il pronunziare parolacce anziché apoftegmi (prova ne sia che se interroghiamo un nostro politico scopriamo che sa cosa vogliono dire vari termini dialettali per il membro virile ma non cosa voglia dire apoftegma). Qui siamo, come diceva giorni fa il Guardian, a una politics alla puttanesca. E allora l'attentato a Berlusconi? Tranne mi pare uno o due giornali che, per dovere di testimonianza storica, hanno dedicato un taglio basso alla storia degli attentati, nell'emozione generale nessuno ha ricordato che l'attentato fa parte del curriculum di quasi ogni personalità politica di rilievo (e talora persino di personaggi dello spettacolo, vedi John Lennon). Ci ricordiamo ovviamente di quelli mortali, da Lincoln a Umberto I e ai Kennedy, ma ci siamo dimenticati che ad attentati sono stati fatti segno Napoleone I e Napoleone III, vari ministri e sovrani ottocenteschi, nel secolo scorso Togliatti, Giovanni Paolo II, Chirac, Carlo d'Inghilterra, Reagan, e via dicendo, sino a considerare attentato (per la dinamica del gesto) persino la scarpata a Bush. E tranne casi assai rari (come la matrice anarchica dell'attentato di Gaetano Bresci) nella stragrande maggioranza l'attentato viene compiuto da uno squilibrato, privo persino di motivazioni se non quella, di solito, di voler salire agli onori della cronaca - e il caso Tartaglia, che prima attenta e poi scrive un lettera di scuse, è tipico di questi gesti, in cui spesso l'attentatore chiede perdono alla sua vittima e sembra che voglia diventarne amico, visto che pensa di aver stabilito con essa un rapporto privilegiato. E d'altra parte, se l'attentato non fosse quasi un rischio fisiologicamente legato alla funzione dell'uomo politico, non si vedrebbe perché costui abbia una scorta: la scorta è come un vaccino, che si prende proprio perché si sa che il virus è in agguato. Forse a giustificare l'idea che la società italiana sia pervasa dall'odio basterebbe questo esplodere del discorso dell'odio di fronte a un problema appunto 'fisiologico'. Ma continuo a pensare che non si tratti di odio, bensì di smagliatura (certamente tragica) di un tessuto civile, di una perdita progressiva di ogni controllo, di svalutazione dei termini (così come i media ormai da tempo dicono che qualcuno 'tuona' quando di fatto semplicemente afferma o sostiene). Il che è certamente peggio dell'odio. L'odio sarebbe ancora una passione forte, mentre qui siamo di fronte a una diarrea del comportamento.

Dopo il comizio in piazza Duomo. Berlusconi ferito a Milano. Ecco dove porta la campagna d'odio anti-Cav, scrive Lucia Bigozzi il 14 dicembre 2009 su “L’Occidentale". Mezza faccia ricoperta di sangue, una smorfia di dolore, lo sguardo smarrito. Tutto intorno il parapiglia, le urla della folla, un uomo bloccato e portato via. Poi la corsa in ospedale, le prime cure, gli accertamenti, la diagnosi "grave trauma del maxillofacciale e frattura del setto nasale". Da ieri sera Silvio Berlusconi è ricoverato al San Raffaele di Milano dopo l'aggressione subita al termine del comizio, in piazza Duomo. Massimo Tartaglia, grafico, 42 anni da dieci in cura per problemi psichici, lo ha colpito con una statuetta. E' riuscito a raggiungere la base del palco e a mischiarsi ai sostenitori del premier eludendo la sorveglianza. Ora è in carcere. Il padre spiegherà più tardi che in famiglia "votiamo Pd ma non abbiamo odio verso Berlusconi". La notizia fa il giro del mondo, foto, video, testimonianze, commenti rimbalzano su tv e siti internet. Ma l'immagine più impressionante è la faccia tumefatta e lo sguardo attonito di Sivio Berlusconi che prima si accascia nella sua auto, quindi si aggrappa allo sportello sorretto dagli uomini della scorta e si sporge in alto, come ha cercare tra la folla chi lo ha ferito e a chiedergli il motivo del suo gesto. Pochi istanti, poi via, verso l'ospedale. Sulle agenzie di stampa si accavallano reazioni, commenti, attestati di solidarietà al premier. Il presidente della Repubblica Napolitano parla di "gesto inconsulto" e rinnova l'appello affinchè "ogni contrasto politico e istituzionale sia ricondotto entro i limiti di responsabile autocrontollo e di civile confronto". Quindi telefona al presidente del Consiglio per esprimergli personalmente la sua solidarietà. Per il presidente del Senato Schifani si è trattato di un "gesto gravissimo e di un atto incivile di intolleranza che offende il Paese", mentre il presidente della Camera Fini parla di "brutto giorno per l'Italia" sottolineando che tutte le forze politiche "hanno il dovere di esprimere una convinta condanna manifestando solidarietà al premier". Il leader della Lega Bossi bolla l'aggressione come un "atto di terrorismo" e denuncia il "clima pesante che da tempo si sentiva", al punto che "occorre alzare la guardia" perché "ci sono in giro troppe persone pronte a gesti delinquenziali". Anche il Vaticano deplora l'accaduto considerandolo "un fatto molto grave e preoccupante che manifesta il rischio reale che dalla violenza delle parole si passi alla violenza dei fatti", spiega il portavoce della Santa Sede, padre Lombardi. La Cei esprime "sincera vicinanza al presidente Berlusconi" e auspica per il Paese "un clima culturale più sereno e rispettoso". Nella maggioranza Pdl e Lega puntano il dito contro il clima di odio verso il premier e accusano Di Pietro. Il leader Idv è l'unico a fare da controcanto alla condanna, bipartisan, delle forze politiche, indicando in Berlusconi "l'istigatore alla violenza con il suo comportamento e il suo menefreghismo" (solo due giorni fa aveva caricato la piazza per mandare a casa il Cav.).  Poi, sommerso dalle critiche, cerca di correggere il tiro ma la sostanza non cambia: "Solidarietà personale ma la gente è esasperata". Parole che convincono il Pd a prendere le distanze dall'alleato. Bersani parla di "atto inqualificabile" e da "condannare fermamente". Sulla stessa lunghezza d'onda la Finocchiaro, l'Udc Casini ("condanna senza se e senza ma"), Rutelli e l'ex premier Prodi. Il centrodestra attacca a testa bassa. Da Fini ("dichiarazioni inaccettabili) a Cicchitto secondo il quale l'ex pm di Mani Pulite "in questi giorni ha fatto un invito alla violenza", al sottosegretario Crosetto che annuncia "un esposto-denuncia" contro Di Pietro "per associazione a delinquere". Il vicepresidente della Camera Lupi dice "basta ai cattivi maestri come lui", il coordinatore del Pdl Verdini lo definisce "un guappo", il ministro Matteoli esorta "chi aveva pensato ad alleanze con lui a ripensarci" mentre il vicepresidente dei senatori Pdl Quagliariello osserva che i fatti di Milano sono "lo sbocco di una campagna di odio che si è protratta per mesi e mesi". Intanto dal San Raffaele Berlusconi assicura "sto bene, sto bene" mentre dal pronto soccorso viene trasferito nella stanza di degenza. Poi riceve la visita di diversi amici e esponenti politici e a loro spiega di essere "amareggiato" per "questa campagna di odio. Questo è il frutto di chi ha voluto seminare zizzania. Quasi me l'aspettavo...Tutti dovrebbero capire che non è possibile oltraggiare un presidente del Consiglio, questa è la difesa delle istituzioni". E che il clima fosse acceso lo si era capito già qualche ora prima dell'aggressione, quando un gruppo di contestatori aveva raggiunto la piazza e urlato slogan contro il premier durante il suo comizio. La conferma arriva subito dopo sui social network dove si crea un gruppo che inneggia a Massimo Tartaglia "santo subito" e al suo gesto: in pochi minuti vi aderiscono sedicimila persone. Ma il popolo di Facebook si schiera anche contro e nello stesso istante si formano altri gruppi che condannano l'aggressione al premier. Nonostante le choc e la consapevolezza di "essere un miracolato, un centimetro più su e avrei perso l'occhio", il Cav. non ha intenzione di farsi condizionare dall'episodio e ripete ai suoi: "Sono ancora qui e non mi fermeranno". Una notte in ospedale e venti giorni di prognosi per lui, ma il ministro Maroni uscendo dall'ospedale dice che "vuole tornare subito al lavoro, già da domani".

La malattia non ferma l'odio di "Repubblica". Merlo fa a pezzi l'era Berlusconi: "Solo macerie". Brunetta: «Rancore invidioso», scrive Gian Maria De Francesco, Sabato 11/06/2016 su "La Repubblica". «Di quel ventennio già adesso non rimane niente se non qualche pozzo avvelenato, macerie, un trono già vuoto che nessuno potrà mai occupare, un letto d'ospedale». Francesco Merlo, editorialista principe di Repubblica, ha cercato di sottrarsi al consunto messale dell'antiberlusconismo militante, ma alla fine la coazione a ripetere ha prevalso. Il misconoscimento del ruolo di Silvio Berlusconi ha reso insinceri gli auguri al «vecchio irripetibile nemico» e la citazione dello Zarathustra di Nietzsche (per il Cav, ovviamente, si può solo scomodare un filosofo «destro») che premia «il folgorante destino di chi tramonta». Parole talmente pesanti da indignare il capogruppo di Forza Italia alla Camera, Renato Brunetta, che in una lettera a Dagospia ha stigmatizzato «il rancore invidioso» che «non trova il coraggio della onesta maledizione, dell'augurio iroso di una cattiva morte». Maurizio Gasparri, vicepresidente del Senato, ha promesso che in Vigilanza Rai affronterà il tema dell'editorialista consulente ben pagato di Viale Mazzini per l'informazione giornalistica che «continua a scrivere articoli astiosi sulla stampa». E la stessa tv di Stato ne aveva preso le distanze già da qualche giorno dopo un analogo «incidente» nei confronti dei pentastellati. Eppure Merlo aveva provato a rendere l'onore delle armi al Cav. «Per oggi, solo per oggi, è tenerezza nazionale. Tutti sappiamo infatti che mai ci sarà un Berlusconi dopo Berlusconi, che nulla di politico è stato ricoverato insieme a lui». Aveva provato a rovesciare la prospettiva conformista che vorrebbe associato al presidente di Forza Italia un giudizio etico, negativo, un connotato morale da riprovare, un nemico da odiare. O, per dirla come Ezio Mauro dieci anni fa, un «Sovversivo», con la s maiuscola, perché «l'anomalia berlusconiana» ha causato «l'indebolimento della qualità della nostra democrazia». È lecito perfino pensare che la possibilità di perdere Berlusconi, l'antagonista numero uno, faccia molta paura da quelle parti, un male da esorcizzare perché il Cavaliere porterebbe via con sé anche l'anima dei propri avversari che nella sua presenza hanno l'unica ragion d'essere. Lo si capisce dall'editoriale di Merlo, ma anche da quello più pacificato e meno immaginifico di Pierluigi Battista sul Corriere. Entrambi, infatti, restano intrappolati nella contrapposizione tra anima e corpo. Se il primo ne ricorda la vitalistica fisicità dell'«estetica da Sanbittèr», il secondo elenca l'incidente sul palco di Montecatini nel 2006, l'aggressione in Piazza Duomo del 2009 fino allo sfregio dell'installazione che lo ritraeva irrispettosamente cadavere. In questa filosofia di seconda mano il Cav è sempre corpo foucaltiano, dominio, potere, sovranità, sopraffazione. La politica, pensata in maniera conformista, è invece eterea, è «anima». De Gasperi e Berlinguer non avevano corpo. Eppure nessuno meglio di Berlusconi ha fatto della libertà una religione. Anche se tanti, a partire da Merlo, fanno finta di non saperlo.

All'undicesima domanda de L'Espresso rispondiamo sì. E il vostro rimpianto di oggi per il "carissimo nemico" alla vostra altezza lo conferma, scrive Alessandro Sallusti, Lunedì 26/09/2016, su "Il Giornale". L'Espresso, settimanale storico della sinistra italiana, dedica larga parte del numero in edicola a Silvio Berlusconi, aprendo le celebrazioni dell'ottantesimo compleanno del Cavaliere che cade a giorni, il 29 settembre. «Carissimo nemico», è il titolo di copertina, la centesima, come viene ricordato, che la rivista dedica a Berlusconi in oltre vent'anni. Il pezzo forte è un'articolessa di Ezio Mauro, ex direttore di La Repubblica, l'uomo che orchestrò e guidò la più grande, meticolosa e incessante campagna giornalistica, spesso gratuitamente diffamatoria, che si ricordi contro un singolo uomo, Berlusconi appunto. Il titolo è: «L'undicesima domanda», facendo seguito a quel tormentone infamante delle «dieci domande» che La Repubblica lanciò, come attacco finale a Berlusconi, al nascere dell'inchiesta su Ruby, a firma di Giuseppe D'Avanzo, braccio armato di Ezio Mauro e, parlandone da vivo, collega morboso, rancoroso, spregiudicato e asservito ai peggiori magistrati dai quali riceveva quotidianamente veleni nei quali intingere la penna. Questa «undicesima domanda» è: «Cavaliere, ma ne valeva la pena?» (di scendere in campo e provare a cambiare il Paese nel modo in cui è accaduto). La risposta è già in quel punto interrogativo con il quale L'Espresso, per la prima volta nella sua storia, sostituisce le granitiche certezze su quello che fino a poco tempo fa consideravano «il male assoluto». A prima vista potrebbe sembrare un onore delle armi a un nemico che considerano vinto e la cui distruzione ha rappresentato il loro scopo di vita. Quasi un rimpianto, da reduci di un'epopea eroica che non c'è più. Ma la verità è in alcuni indizi disseminati negli articoli dell'Espresso. È vero che Silvio Berlusconi ha perso alcune battaglie politiche e giudiziarie, ma la guerra, e per la prima volta lo ammettono, l'hanno persa i D'Avanzo, gli Ezio Mauro (uno che peraltro è stato al servizio di un evasore fiscale come Agnelli e di uno che ha ammesso di pagare tangenti, come De Benedetti), quelli de L'Espresso e il mondo che rappresentano: Berlusconi è ferito ma vivo; la loro sinistra ideologica e post comunista per la quale hanno combattuto con i metodi più sporchi del giornalismo, della politica e della giustizia è definitivamente morta e le sue spoglie se le stanno spartendo Renzi e Grillo. Per cui la nostra risposta alla «undicesima domanda», al netto delle sofferenze fisiche e psicologiche che ha dovuto subire Silvio Berlusconi, è: sì, ne valeva la pena. E il vostro rimpianto di oggi per il «carissimo nemico» alla vostra altezza lo conferma.

Sgarbi contro la Boldrini: "È solo una poveretta". Sgarbi ci va giù duro: "Boldrini non è Nilde Iotti, ma solo una poveretta senza cultura, votata grazie a un accordo tra i Cinquestelle e Bersani", scrive Francesco Curridori, Venerdì 15/09/2017, su "Il Giornale". Vittorio Sgarbi attacca nuovamente Laura Boldrini. Stavolta il critico d'arte, ospite di Myrta Merlino a L'Aria che tira su La7, si scaglia contro la legge proposta dal democrat Emanuele Fiano e contro l'ipotesi, paventata dalla presidente della Camera, di abbattere l'obelisco di Mussolini. La Boldrini, secondo Sgarbi, è "una singolare presidenta senza alcuna autorità culturale, letteraria e politica" che "non ha scritto un libro, non ha un passato e neppure ha un partito presente in Parlamento, se non con residui". Sono inutili i tentativi della conduttrice Myrta Merlino di difendere la terza carica dello Stato. Sgarbi affonda il colpo dicendo che la "Boldrini non è Nilde Iotti, ma solo una poveretta senza cultura, votata grazie a un accordo tra i Cinquestelle e Bersani". E ancora: "Non ha combattuto il regime, il suo è antifascismo facinoroso. Nilde Iotti, che era combattente contro il fascismo e che ha vissuto quell'epoca, non ha mai detto le stupidaggini della Boldrini. Lei era colta". "Quando Togliatti (che è meglio di Fiano) e la Iotti sono persone che hanno visto e combattuto il fascismo e sono andate in Parlamento, questo problema - spiega - non si è posto". Sono soltanto "insensatezze di persone che sono vissute in democrazia, nel lusso, che non sa nulla del fascismo e che combatte per farsi belli". E conclude: "Solo l'Isis distrugge quello che appartiene alla memoria di un passato storico".

Qui "PiazzaPulita" del 21 settembre 2017, dove tra gli ospiti in studio c'è Emanuele Fiano, il piddino promotore del controverso provvedimento sull'inasprimento delle sanzioni per apologia e propaganda fascista. Una legge liberticida, secondo molti, e tra questi molti c'è anche Alessandro Sallusti, altrettanto presente nello studio di Corrado Formigli. Al direttore, per demolire Fiano, basta una frase: "La legge Fiano è una legge fascista". Touché. Nello studio di PiazzaPulita, su La7, si parla della legge Fiano sull'inasprimento delle sanzioni per apologia e propaganda di fascismo. In studio, tra gli altri c'è proprio il piddino Emanuele Fiano. Ma lo scontro totale, e violentissimo, si sviluppa tra Vittorio Sgarbi e Vauro. Il critico d'arte, criticando la legge Fiano, ricorda gli orrori del comunismo. Si parte dalla Corea del Nord e dalle testate atomiche, che "non sono idee ma armi che partono. Non capisco perché contro quel mondo non c'è la stessa intransigenza". "Te lo spiego io perché...", provoca Vauro. E il critico d'arte parte in quinta: "Comunista. E Cuba? Cuba? Cuba? Voi comunisti contenti e orgogliosi di una storia criminale". E ancora, Sgarbi, afferma che la legge Fiano "è retorica". Dunque il vignettista comunista: "Parli di retorica e citi la Corea del Nord?". "Il comunismo è molto più pericoloso", ricorda Sgarbi. Ma è quando Vauro afferma "sono orgoglioso di essere un comunista esplode il finimondo". Sgarbi lo disintegra: "Io sono orgoglioso di essere anti-comunista, contro te, Fidel Castro, contro tutto questa gente che ha ucciso, ucciso continuamente, manda bombe atomiche. Vergognati, tu comunista". Ma Vauro non molla: "Sono ancora più orgoglioso di essere comunista quando faccio sbavare gente come te". La parola fine? La mette sempre Sgarbi, con un'altra bomba contro il vignettista: "Sei orgoglioso di essere un criminale, dei criminale, degli assassini, di loro sei orgoglioso".

Antifascisti per l’Islam, scrive il 22 settembre 2017 Augusto Bassi su "Il Giornale". Mentre tribolavo sui tasti del Pc per pubblicare un pezzo dedicato al futuro, la protervia del presente mi ha afferrato per le corna, comandandomi di cambiare argomento; certo l’aver lasciato il televisore sintonizzato su Piazza Pulita non ha aiutato. Ebbene, nel corso della trasmissione in onda ieri sera su La7 si sono affrontati con una certa vivacità Vittorio Sgarbi ed Emanuele Fiano, Fiano e Alessandro Sallusti, Sallusti e Vauro Senesi, Vauro e Sgarbi. Non è difficile immaginare verso quali volti e argomentazioni simpatizzassi, ma la cosa non è rilevante, poiché vorrei parlare piuttosto del deposto, del rimosso. Mentre Vauro disquisiva con la sua flautata inflessione pistoiese sull’emergenza fascismo, sulle derive xenofobe – viscidamente «confermate» da servizi che mostravano dei trogloditi da bar come campione rappresentativo di una crescente sensibilità europea di chiara matrice nazifascista – e le tonanti voci degli oppositori lo invitavano a preoccuparsi dei crimini rossi… veniva omessa la consonanza più naturale e più esatta. Certo, sappiamo come funzionano i bias delle mappe mentali: pronunci comunista, ti rispondono fascista; e viceversa. Tuttavia, vorrei fare un esercizio critico che provi a fare un salto fuori dal cerchio delle nostre convenzioni cognitive; che cerchi di spezzare l’universale contesto di accecamento. Riportiamo allora un estratto delle parole del vignettista satirico Vauro Senesi: «Il fascismo non è un’idea come un’altra, il fascismo è un crimine. Per combattere i crimini servono leggi efficaci. Sono state le minimizzazioni a rendere possibile una recrudescenza fascista in Europa. Mi sono spinto fino in Ucraina e ho visto come vengono addestrati soldati che portano la svastica sul braccio, pronti a combattere in nome di valori da SS. E noi vogliamo far passare questi crimini come opinioni!? Vogliamo andare avanti a far credere che essere fascisti sia un’opinione come un’altra, ma non è così! Il fascismo non si può tollerare perché intollerabile. Come il nazismo si accaniva su zingari ed ebrei, il neofascismo se la prende con gli immigrati. Da sempre i totalitarismi hanno bisogno di un capro espiatorio e oggi i rifugiati sono i nuovi ebrei da odiare. Quando si parla dei crimini del fascismo subito a sviare sul comunismo! Ma l’antifascismo è un valore che ha fatto la storia di questo Paese e noi lo stiamo tradendo. Chi incita all’odio, va fermato immediatamente, senza se e senza ma». Impeccabile. Maiuscolo. Magistrale.

Vittorio Sgarbi ha ribattuto con la proverbiale flemma segnalando all’interlocutore che i comunisti in Corea del Nord hanno le armi nucleari mentre i fascisti di oggi… birra e salamella. Per quanto Sgarbi vanti ovviamente ragione, io non mi farei venire la bava alla bocca cercando di sbriciolare le argomentazioni di questi interlocutori. Ma ancora, opterei per l’unica tecnica veramente saggia contro questi vermi a sonagli che strisciano fuori dal frutto della verità: li incanterei. Sapendo che se anche il verme dovesse mordere prima di essere incantato, basterà un peto per espellere il veleno. Quindi mi piegherò all’ingrato mestiere dell’incantatore di invertebrati per sincero amor patrio.

Chiedo dunque a Vauro, a Fiano, a tutti quelli del pubblico che applaudivano con decisione, e ancora a Formigli, cui comprensibilmente tremava la voce mentre annunciava quel “viaggio nell’estremismo” italico: L’islamismo non è forse un crimine? Per combattere i crimini non servono dunque leggi efficaci? Non sono state forse le minimizzazioni della vostra divulgazione politica, tutte quelle tirate sull’Islam moderato, sui giusti distinguo, sull’antica mitezza di una dottrina di pace, a rendere possibile la propagazione della piaga estremista? Vauro è mai stato in trasferta nello Stato Islamico a vedere come vengono addestrati e in nome di cosa combattono laggiù? O magari li ha visti transitare con mezzi pesanti per le vie del centro di qualche capitale europea? Voi antifascisti non volete far passare l’idea che l’Islam sia una religione come un’altra? Non ci avete grattugiato la minchia per anni con il rispetto e la tolleranza verso le altre confessioni, verso gli altri valori, n’imporre quoi? Gli islamisti non demonizzano forse l’infedele, non è forse l’infedele il capro espiatorio per esercitare le peggiori atrocità? E avete mai sentito parlare dell’antisemitismo islamico? Quando si tratta dei crimini dell’Islam, non siete voi i primi a puntare il dito su quelli della Chiesa, dovendo, per trovare esempi convincenti, sprofondare nell’età moderna e nel ridicolo? Libera Chiesa in libero Stato non è forse la concezione separatista che ha fatto la storia di questo giovane Paese? E vorremmo tradirla tollerando chi ritiene che Chiesa e Stato, autorità spirituale e temporale, siano tutt’uno? Chi incita all’odio non va fermato immediatamente, senza se e senza ma?

Ora andrei oltre. Perché il pur impeccabile, maiuscolo, magistrale, intervento di Vauro sul fascismo virava nel patetico, nel farsesco, appena calato nella contemporaneità. Il “viaggio nell’estremismo” italico ci ha infatti messo paura quanto la salamella di cui sopra. Mentre l’altro estremismo, quello islamista, non è un retaggio del passato che vive nel braccio alzato di qualche facinoroso pensionato nostalgico: il fondamentalismo trucida mentre scrivo, fa propaganda e ruba anime ogni giorno. Il terrore… il terrore integralista terrorizza, non un avvinazzato che intona Faccetta nera. Il terrore che sventra, sgozza, scanna l’infedele senza distinzione alcuna, ma con un occhio di riguardo per i vignettisti. E per quanto Fiano – con tutta la burbanza del suo cipiglio a monosopracciglio – ci segnalasse come in Italia si osteggi aspramente chi alimenta il proselitismo islamista o anche solo chi simpatizza per quelle canaglie invasate, rendendo più urgente legiferare sulla propaganda fascista, riporto quanto reso noto ieri: «Secondo il sondaggio di Ipr Marketing, il 25% dei fedeli in Allah danno (dà, ndr) ragione ai jihadisti, mentre un terzo di loro vuole “conquistare l’Occidente”». Vauro, Fiano, antifascisti riuniti… vogliamo andare avanti a far credere che sia un’opinione come un’altra?

Quei figli di un dio minore che la storia ha dimenticato. Il comunismo in bianco e nero, scrive il 20 settembre 2017 Emanuele Ricucci su “Il Giornale”. Echi lontanissimi, in tempi di caccia alle streghe, di legge Fiano. In tempi di negazione e rivalutazione storica superficiale. Di fragilità infantile, in cui spaventa un accendino con la faccia di Mussolini. Echi lontanissimi. Così rarefatti da sembrare un’orribile favola. Un incubo, una carezza distratta e ricomincia di nuovo il sonno profondo. L’eterno sonno della dimenticanza. Echi lontani, come le voci di Palden Gyatso, monaco tibetano che per ben 33 anni ha subito ogni sorta di vessazione fisica nelle galere cinesi, perché “il Tibet appartiene ai tibetani”. O come quella, tra follia e regime, di Andrea Bertazzoni, comunista italiano che nel 1932 emigrò in Russia per sostenere, col suo lavoro, l’affermazione del socialismo, producendo Gorgonzola; le striature verdi nel formaggio risultarono come veleno agli occhi di un funzionario di Stalin e Bertazzoni fu accusato di “sabotaggio social-fascista e congiura trotzkista”, con relativo arresto e condanna a morte, poi scampata. Cos’è stato il comunismo? Solo una visione del mondo e della società? Purtroppo il socialismo reale non si è fermato qui. A raccontare la lunga marcia di morte del comunismo, storia di vittime e sparizioni, di gruppi etnici cancellati, di silenzi, ci ha pensato Lodovico Ellena – ricercatore storico e collaboratore di riviste universitarie e filosofiche – con il libro Il comunismo in bianco e nero (Solfanelli, pp.144, 12 euro). Storie minori, agli occhi degli uomini, come quella di un ragazzo cinese che nel 1989, ben tredici anni dopo la morte di Mao, fu condannato a trent’anni di carcere per aver imbrattato di fango la faccia del Grande Timoniere impressa su un cartello. Echi. Solo alcune voci. Troppo poche per arrivare alle 85-100 milioni di vittime sacrificate nel mondo sull’altare del comunismo – «cifre ampiamente accettate – ricorda l’autore – anche da buona parte degli ambienti culturali di sinistra» -. Tra le pagine, quei figli di un Dio minore che non hanno meritato la giustizia del ricordo. Ancora sotto i ghiacci della Siberia o terra per vermi nelle campagne del nord Italia. Completo e particolarmente efficace il lavoro di Ellena che è il risultato di una lunga ricerca e raccolta di materiale, documentazione e testimonianze che raccontano le dinamiche di potere nei Paesi “rossi” e la metamorfosi violenta del comunismo mondiale: dalla «distruzione della moralità, della famiglia cristiana», dello Stato, portando gli operai all’amore per il  disordine, secondo Togliatti in una lettera del 1947, alla firma di Stalin, nel 1937, delle liste di condanna con 44mila nomi; tra il ‘37 e il ’38, in Russia, gli arrestati furono ben sette milioni, di cui un milione furono fucilati e altri due milioni morirono nei lager. Un lavoro, quello dell’autore, che nasce dalla lettura di testi abbandonati all’oblio, in cui sono stati quasi maniacalmente collezionati frammenti di quotidianità dei paesi comunisti. Si tratta dunque prevalentemente di notizie minori. Un giro del mondo e del tempo: dai massacri del comunismo cinese – di ieri e di oggi: nel solo anno 2000, in Cina sono state eseguite oltre mille condanne a morte –, a quello russo dei gulag; dalle macellazioni dei partigiani titini della ex-Jugoslavia, passando per l’Albania, la Cambogia, la Romania, Cuba e molti altri, fino al caso Italia, tra togliattismo e spontaneismo armato. Un viaggio sociologico, storico e letterario, racchiuso in una struttura narrativa diretta e fluente. A qualcuno farà male la memoria, eppure nessuno potrà venirci a dire che si è trattato soltanto di un brutto sogno, poiché «i fatti non cessano di esistere perché vengono ignorati», per dirla con Aldous Huxley. Che ne penserà di tutto questo il più doroteo e “migliore” dei mondi possibili, impegnato in mille cause umanitarie?

LA MEMORIA FA CILECCA. Scrive Renato Farina il 23 Settembre 2017 su "Libero Quotidiano": Napolitano scambia l'Ue per l'Urss. La Stampa ieri ha dedicato un poderoso monumento a cavallo all' Europa e alla sua lungimirante guida tedesca. Questo saggio insipido sarebbe scivolato da solo nel cestino della carta inutile, se non fosse per l'autore della possente statua: Giorgio Napolitano. Questo rende la boiata estremamente istruttiva. Se uno paragona infatti la storia dell'Europa così come oggi la racconta questa eminenza italica e la storia personale dell'autore, abbiamo la prova provata della menzogna e della censura su cui si regge la costruzione ideologica e propagandistica europeista. Centinaia di formidabili pagine di Brunetta e Tremonti sulla truffa di Maastricht e degli ulteriori trattati trovano la loro conferma sperticata nella prosa dell'attuale senatore a vita. Costui falsifica la storia passata per abbagliarci con un sol dell'avvenire fasullo. Chi mente sul passato, o lo cancella, contando sul fatto che i potenti del mondo non lo sbugiarderanno, e neppure i giornalisti allineati come paggi eccepiranno alcunché, prepara la nostra tragedia. Vacciniamoci dalle panzane di Napolitano, sono peggio del morbillo. Napolitano è stato presidente della Repubblica, ma molte altre cose ancora. Anzi, una soprattutto: è stato comunista stalinista, e Cossiga sosteneva che lo sarebbe stato sempre. Intellettuale napoletano, è stato il principale fautore della pacificazione con carri armati dell'Ungheria ribelle all' Urss (1956). È stato responsabile esteri del Partito comunista italiano, compresi i rapporti con la Ddr, la Repubblica democratica tedesca, ancora negli anni '70. Nel 1974, quando nella direzione del Partito comunista si dibatté a proposito dell'oro di Mosca trasferito a Botteghe Oscure, e di come fosse opportuno il finanziamento pubblico dei partiti, così da pesare di meno sulla povera Unione Sovietica: lui c'era. Quell' oro sia chiaro, era estratto dal lavoro di milioni e milioni di schiavi dei Gulag, detti «zek», termine che non c' entra con le zecche, lo erano semmai quelli che si nutrivano anche a Roma della loro schiavitù. E la Ddr! Il muro di Berlino, i Vopos, le guardie che sparavano a chi cercava la strada verso l'Occidente. Ecco, nella storia dell'Europa raccontata da Napolitano tutto il dolore e il male comunisti sono silenziati: non c' è spazio per il peso straziante del totalitarismo rosso sui popoli dell'Est. Si tace sul fatto che Francia, Italia, Spagna e in misura minore il Regno Unito hanno pagato con fior di miliardi in franchi, lire, pesetas e sterline l'unità tedesca con il Trattato di Maastricht, e poi hanno finanziato l'ingresso dei Paesi orientali un tempo appartenenti al Patto di Varsavia, di fatto fornendo pecunia alla periferia orientale della Germania, di cui quelle terre sono diventate mercato privilegiato e satelliti politici. La storia dell'Europa Unita che Napolitano racconta sulla prima pagina del quotidiano Fiat è dunque un falso pazzesco. Un'amputazione sanguinosa della verità pagata da molti popoli, tra cui il nostro. Ieri Angelo Panebianco, nell' editoriale del Corriere della Sera, ricordava con qualche ironia come non sia stata affatto una benedizione per l'Italia ospitare il Partito comunista italiano. Il peggio - aggiungo io - è stato dopo: l'avere innalzato cioè i suoi esponenti maggiori, grazie a una sorta di Norimberga all' incontrario. Per cui chi è stato comunista ha ottenuto la patente di poter ascendere alle vette di una purità come l'acqua Levissima. Che schifo. Trascrivo la frase che da sola merita il Nobel della bugia e l'Oscar della fetenzia. Napolitano evoca un futuro dell'Unione Sovietica Europea (lo stile è quello là, da Pravda) trascinato da «valori storici e di peculiari ideali così come di potenzialità trascinanti». Com' è possibile questo miracolo europeo? Risponde il carrista di Budapest: «...questo possiamo farlo solo perché nei lontani Anni 50 se ne stava già compiendo la premessa principale. Essa consiste, non dimentichiamolo, nella nascita di un'autentica Germania europea attraverso una vera e propria mutazione generazionale e culturale di massa che l'ha condotta fuori dalle barbariche aberrazioni del nazismo, liberandola da ogni loro radice. Quel processo è stato portato fino alle estreme e sofferte conseguenze che la nuova leadership tedesca ha saputo trarne a Maastricht, rinunciando allo storico pilastro del marco e collocandosi, con senso del limite, in uno stringente contesto collettivo europeo e nell' obbiettivo di una vera e propria integrazione politica dell'Europa». Traduzione brutale della Stampa-Pravda. La Germania è uscita dal nazismo! Uscendo dal nazismo è tornata unita, e dunque la Merkel merita di guidarci. Napolitano vuol farci scordare che la spaventosa crescita tedesca è coincisa con l'unità tedesca grazie al trasloco dell'Est dal comunismo al sistema occidentale. E fa sconto alla Germania del fatto che il carbone di cui ha goduto la locomotiva tedesca per trascinare fuori dalla palude infame del collettivismo l'ex Ddr l'abbiamo fornito gratis anche noi. E negli ultimi anni, per gonfiarne i depositi di oro e cioccolato, chi si è prestato al vettovagliamento delle banche crucche sono stati proprio lui e Monti. Renato Farina

L'Anpi nega la targa alla bimba stuprata: "Era fascista". L'Anpi contro il Comune del Savonese che commemora Giuseppina Ghersi, uccisa a 13 anni: "Era fascista", scrive Giampiero Timossi, Venerdì 15/09/2017, su "Il Giornale". Questa di Giuseppina è la storia vera di una bambina di 13 anni giustiziata perché «fascista». Fu stuprata e poi ammazzata, da una banda di partigiani che dopo il 25 aprile del 1945 chiedevano giustizia, ma volevano vendetta. Anche questa è una storia vera. A Savona, ponente ligure, molti sapevano cosa accadde dopo la Liberazione. Nel 2003 anche questa vicenda è stata ricostruita da Giampaolo Pansa, nel Sangue dei vinti. Raccontano i testimoni: «I rapitori di Giuseppina decisero che lei aveva fatto la spia per i fascisti o per i tedeschi. Le tagliarono i capelli a zero. Le cosparsero la testa di vernice rossa. La condussero al campo di raccolta dei fascisti a Legino, sempre nel comune di Savona. Qui la pestarono e violentarono. Una parente che era riuscita a rintracciarla a Legino la trovò ridotta allo stremo. La ragazzina piangeva. Implorava: Aiutatemi! mi vogliono uccidere. Non ci fu il tempo di salvarla perché venne presto freddata con una raffica di mitra, vicino al cimitero di Zinola. Chi ne vide il cadavere, lo trovò in condizioni pietose». Giuseppina Ghersi è sepolta da 72 anni nel cimitero di Zinola. Ora, per la prima volta, un Comune vuole intitolare una targa per ricordare lei e la sua drammatica storia. Non è il Comune di Savona, teatro di quell'orrore, ma un borgo vicino, appoggiato sul mare, Noli. Dove Enrico Pollero, consigliere comunale di centrodestra, ha lanciato la proposta: «Mio papà era partigiano, per 18 mesi ha combattuto in montagna. Ma dopo aver letto la storia di Giuseppina Ghersi ho pensato che fosse obbligatorio fare qualcosa per ricordare una bambina di 13 anni uccisa senza motivo». Giuseppe Niccoli, sindaco di Noli, ha appoggiato la proposta: «La guerra porta sempre dolore, ma i bambini non hanno colpe né colore». Il monumento dovrebbe essere inaugurato il 30 settembre: un cippo di marmo e ferro, una targa con su scritto: «Anni sono passati ma non ti abbiamo dimenticata, sfortunata bambina oggetto di ignobile viltà». Un testo semplice, nessun riferimento polemico. Il primo a raccontare l'ultimo episodio di questa storia è stato Mario De Fazio, un bravo giornalista che lavora alla redazione savonese de Il Secolo XIX. Per alcuni, in città, il trentenne cronista è «solo un fascista», accusa che sui social gli viene rivolta ogni volta che scova e scrive una storia scomoda. Questa l'ha scritta tre giorni fa, nelle stesse ore arrivava il primo via libera alla Camera per la legge Fiano, che inasprisce le pene per l'apologia di fascismo. «È una provocazione, ecco perché tirano fuori ora questa vicenda, abbiamo pietà e lascino in pace i morti», grida una parte della sinistra ligure. E aggiungono subito un altro dettaglio, che definiscono «un'ulteriore provocazione». Il monumento a Giuseppina sorgerà in una piazza di Noli intitolata ai fratelli Rosselli, fondatori di Giustizia e Libertà, simboli della lotta al fascismo e uccisi da sicari dell'estrema destra francese, pagati da Mussolini. Così l'Anpi provinciale di Savona scrive un comunicato e «ribadisce la propria contrarietà al progetto dell'amministrazione comunale di Noli di erigere un cippo in memoria della brigatista nera Giuseppina Ghersi». Brigatista nera, a 13 anni, senza aver mai indossato una divisa, con due genitori mai iscritti al Pnf. Risponde ancora l'associazione partigiani: «La pietà per una giovane vita violata e stroncata non allontana la sua responsabilità di schierarsi e operare con accanimento a fianco degli aguzzini fascisti e nazisti». Aveva 13 anni, per quelle accuse non ci fu nessun processo: venne violentata e ammazzata. Storia ignobile, che fa male, che spacca la sinistra con un ex sindacalista della Cgil, Bruno Spagnoletti, che attacca l'Anpi. Prova a riposare in pace, Giuseppina.

Per favore, chiudete l’Anpi di Savona! Scrive Piero Sansonetti il 16 Settembre 2017 su "Il Dubbio". Chiamare “brigatista nera” una bambina di 13 anni è segno di squilibrio ma anche di una idea politica che fa dell’odio l’unico valore. Il capo dell’Anpi di Savona, con una dichiarazione demenziale, ha definito “fascista” una bambina di 13 anni e ha giustificato – neanche tanto velatamente – il suo stupro e il suo assassinio, nel 1945, ad opera di alcuni partigiani vigliacchi e folli. L’Anpi è l’associazione nazionale dei partigiani. Cioè l’associazione di quelli che hanno fatto la Resistenza, hanno combattuto il nazismo, hanno salvato l’onore dell’Italia, che era stato distrutto dai fascisti. Oggi gli iscritti all’Anpi, per la verità, sono in minuscola parte ex partigiani, perché purtroppo il tempo passa e i militanti della Resistenza hanno superato i novant’anni. Però l’Anpi dei cinquantenni continua a rivendicare il suo ruolo e a pretendere l’esclusiva dell’antifascismo. Lo ha fatto anche recentemente, durante la campagna del referendum, dichiarandosi custode suprema della Costituzione. Purtroppo i capi veri della Resistenza non ci sono più: Longo, Mattei, Parri, Valiani, Pertini, Lombardi, Pajetta. Socialisti, comunisti, democristiani, liberali. Gente valorosa, di pensiero e di grandi principi e di forte moralità. Inorridirebbero di fronte alle idiozie dell’Anpi contemporanea. La presa di posizione dell’Anpi di Savona, nasce da una ragionevolissima iniziativa di un consigliere di centrodestra del comune di Noli, il quale, dopo 72 anni dalla sua morte, ha proposto una targa per ricordare quella bambina stuprata e uccisa. Il sindaco ha detto di sì, e allora l’Anpi ha alzato il muro.

Il segretario dell’Anpi di Savona, protagonista di questa battaglia, si chiama Samuele Rago. Seppure con un po’ di orrore trascrivo qui la sua dichiarazione: «L’Anpi ribadisce la propria contrarietà al progetto dell’amministrazione comunale di Noli di erigere un cippo in memoria della brigatista nera Giuseppina Ghersi…». E poi: «La pietà per una giovane vita violata e stroncata non allontana la sua responsabilità di schierarsi e operare con accanimento a fianco degli aguzzini fascisti e nazisti». E infine (terribile): «La ragazzina era una fascista. Eravamo alla fine della guerra, è ovvio che ci fossero condizioni che oggi possono sembrare incomprensibili». Non riesco a commentare, perché tremano le mani. «Brigatista nera»? A 13 anni? Responsabile di essersi schierata coi fascisti e perciò meritevole di morte? Atto giustificabile vista la situazione dell’epoca, anche se oggi può sembrare difficile comprenderlo? Tutto questo, scritto, consapevolmente, da un dirigente politico, perdipiù, devo immaginare, di sinistra e antifascista. Ma a che punto può arrivare la bestialità dell’odio politico? Fin a quale limite di abiezione accompagna la mente e il pensiero? Il problema più grande però non è questo. Può succedere che una singola persona dica delle atrocità, magari perché è confuso, perché ha perso la testa. Io mi auguro che oggi o domani si renda conto e chieda scusa. Quello però che mi ha colpito e che non riesco a giustificare è la mancanza di reazione della sinistra. Dai partiti non ho sentito indignazione. E mi pare che anche la presa di distanze dell’Anpi nazionale, giunta dopo molte ore e grande riflessione, sia debolissima e molto reticente. Trascrivo anche quella: «L’Anpi ha sempre condannato gli atti di vendetta e violenza perpetrati all’indomani della Liberazione. E lo fa anche oggi rispetto alla vicenda terribile e ingiustificabile dello stupro e dell’assassinio di Giuseppina Ghersi. Ribadisce che singoli episodi, per quanto gravissimi, non intaccano i valori della Resistenza e della guerra di Liberazione nazionale, grazie alla quale l’Italia, dopo anni di guerra, violenze e dittatura, ha conquistato pace libertà e democrazia». Certo non c’è una parola fuori posto in questo comunicato. Però qualcosa stona. Tre cose. La prima è l’inutilità della seconda parte della nota: che bisogno c’è di ribadire la grandiosità della Resistenza? Chi l’ha messa in discussione? Deporre una targa in ricordo di una ragazzina trucidata bestialmente è un’offesa all’antifascismo o alla guerra di liberazione? No. Dunque la seconda parte del comunicato serve solo a giustificare, almeno in parte, le folli parole di Rago. La seconda cosa che stona è l’assenza di una frase netta che dica che l’Anpi chiede che la targa sia realizzata e che la memoria di Giuseppina sia onorata. Terza obiezione, non si ha notizia di nessun provvedimento disciplinare nei confronti del presidente savonese dell’Anpi e forse di tutto il consiglio direttivo. Perché l’Anpi nazionale non chiude la sezione savonese? Perché non caccia il presidente. Perché non chiede scusa al sindaco di Noli e ai parenti di Giuseppina? La storia di Giuseppina Ghersi è terribile. L’ha raccontata Gianpaolo Pansa in uno dei suoi libri sul dopoguerra e sulle follie antifasciste: «I rapitori di Giuseppina decisero che lei aveva fatto la spia per i fascisti o per i tedeschi. Le tagliarono i capelli a zero. Le cosparsero la testa di vernice rossa. La condussero al campo di raccolta dei fascisti a Legino, sempre nel comune di Savona. Qui la pestarono e violentarono. Una parente che era riuscita a rintracciarla a Legino la trovò ridotta allo stremo. La ragazzina piangeva. Implorava: Aiutatemi! Mi vogliono uccidere. Non ci fu il tempo di salvarla perché venne presto freddata con una raffica di mitra, vicino al cimitero di Zinola. Chi ne vide il cadavere, lo trovò in condizioni pietose». Proprio l’altro giorno, qui a Roma, si è tenuto il G7 delle avvocature. Organizzato dal Cnf. Hanno partecipato studiosi, magistrati, ministri, varie autorità dello stato, tra i quali il Presidente della Camera. Il tema era: lotta al linguaggio dell’odio. Avevo appena sentito un’intera giornata di discorsi impegnati e profondi su questo tema quando è giunta la notizia di Savona. Mi chiedo: Forse esiste un tipo d’odio che è più legittimo degli altri? Forse chi ha ottenuto il possesso del simbolo dell’Anpi ha il diritto di vomitare fango contro una bambina stuprata e uccisa da dei mascalzoni? No, amici miei, non esiste. E spero con tutto il cuore i partiti antifascisti, le autorità, le istituzioni, alzino la voce contro questa follia, che di antifascista, francamente, non ha proprio nulla. E al mio amico Emanule Fiano, che è il promotore della nuova legge contro l’apologia di fascismo, vorrei rivolgere un appello: intervieni, con la tua autorità, e chiedi che quella targa venga collocata. Perché il vero antifascismo è questo: umanità e tolleranza.

L’Orco partigiano e la bambina fascista, scrive Giampaolo Rossi il 16 settembre 2017 su "Il Giornale". Non è una favola. È una storia vera. Parla di Orchi trasformati in eroi e di una bambina trasformata in vittima sacrificale di bestie feroci. “L’orrore era rimasto impresso sul suo viso, una maschera di sangue, con un occhio bluastro tumefatto e l’altro spalancato sull’inferno”. Così racconta Stelvio Muraldo, l’uomo che notò il corpo della piccola Giuseppina Ghersi tra il cumulo di cadaveri abbandonati davanti al cimitero di Zinola poco fuori Savona, in quei giorni di Aprile del 1945; macabro regalo lasciato alla storia del nostro Paese da giustizieri partigiani, eroici campioni di atrocità impunite. “Erano terribili le condizioni in cui l’avevano ridotta (…) avevano infierito in maniera brutale su di lei, senza riuscire a cancellare la sua giovane età‘”. Perché Giuseppina Ghersi aveva 13 anni quando il 25 Aprile fu prelevata insieme ai genitori, gestori di un banco di frutta e verdura al mercato di San Michele, e portata nel campo di concentramento di Legino; uno dei luoghi degli orrori messi in piedi dai partigiani comunisti finita la guerra, ma che non troverete raccontati su nessun libro di scuola; luoghi dove si consumarono crudeltà, eccidi, torture, esecuzioni di massa, come in quello di Mignagola vicino Treviso, un luna park del sadismo per quelli della Brigata Garibaldi. Una parte dell’antifascismo aveva un più saldo convincimento ideale associandosi al banditismo. A Legino la famiglia Ghersi conobbe un volto inaspettato della democrazia che stava arrivando: madre e figlia seviziate e stuprate dai “Liberatori” davanti agli occhi del padre affinché confessasse dove nascondeva denaro e gioielli che pensavano possedesse. Perché c’era una parte dell’antifascismo di quei tempi che aveva un più saldo convincimento ideale associandosi al banditismo. Poi la famiglia Ghersi venne divisa: papà e mamma portati nel carcere di S. Agostino (nonostante il comando partigiano avesse dichiarato cha a loro carico “non era emerso nulla”), mentre la piccola Giuseppina trattenuta nel campo, dove venne uccisa qualche giorno dopo, con un colpo di pistola alla testa; forse perché non potevano rimanere aperti gli occhi che avevano visto un aspetto dei Liberatori che non doveva essere raccontato. La tragedia della famiglia Ghersi continuò negli anni successivi con persecuzioni, violenze, povertà tanto che i genitori furono costretti a lasciare Savona e a mendicare in giro per l’Italia. Quella di Giuseppina Ghersi è una delle innumerevoli storie di violenze e abusi che si consumarono in quel periodo storico terribile che fu la Guerra civile italiana. Dall’una e dall’altra parte. Violenze che non risparmiarono bambini e adolescenti, figli di fascisti o comunisti o semplicemente inciampati in un destino più cattivo della loro innocenza. Ma a differenza di altri, Giuseppina fa parte di quei morti che non sono mai morti perché non sono mai esistiti. Persino Wikipedia rifiuta di ospitare la sua storia; troppo complicato ammettere che la Resistenza non fu quell’ovattato racconto eroico su cui si è costruita la grande menzogna italiana e l’ordine morale dei vincitori. La storia della piccola Ghersi torna alla ribalta oggi che il comune di Noli ha deciso di dedicarle una targa scatenando le reazioni violente degli antifascisti del nuovo millennio che di nuovo non hanno nulla. Il Segretario provinciale dell’Anpi, l’Associazione Nazionale Partigiani, è sdegnato, scandalizzato, offeso: “Giuseppina Ghersi era una fascista. Protesteremo col Comune di Noli e con la prefettura”. L’Anpi di Savona rilascia un comunicato più articolato per giustificare l’ingiustificabile: “La pietà per una giovane vita violata e stroncata non allontana la sua responsabilità per la scelta di schierarsi ed operare con accanimento a fianco degli aguzzini fascisti e nazisti”. Sembra che parlino di un gerarca del regime o di un fucilatore; invece parlano di una ragazzina di 13 anni violentata, seviziata da belve feroci che solo l’indecenza morale può evitare di condannare. A 13 anni non sei una fascista; neppure una comunista. Sei solo una bambina che la vita insegue nel turbine della storia. Nei giorni in cui il Paese assiste ad un crescendo di violenze sulle donne, questi vecchi arnesi di un antifascismo militante pagato con i soldi nostri, manifestano una impietosa capacità di disprezzare il corpo e la dignità di una ragazzina. Non una sola parola contro gli Orchi che hanno violato quella giovane, anzi quasi una giustificazione: “lei era una spia!”, tuona un esponente politico della sinistra ligure. Ma è possibile parlare di “responsabilità per essersi schierata con accanimento” per una bambina di 13 anni? A 13 anni non sei una fascista; a 13 anni non sei neppure comunista. A 13 anni sei solo una bambina che segue la vita e che la vita insegue anche nel turbine della storia, della guerra, dell’orrore. Ci vorrà una giornata intera perché la Segreteria Nazionale dell’Anpi definisca “terribile e ingiustificabile” ciò che fu fatto a Giuseppina, aggiungendo con ipocrisia pelosa di “aver sempre condannato gli atti di vendetta e violenza perpetrati all’indomani della Liberazione”; cosa non vera, avendoli per decenni sempre negati e nascosti. 13 anni aveva anche Abdullah, il bambino siriano (o forse palestinese) ucciso e poi decapitato in Siria dai ribelli jihadisti anti-Assad un anno fa, non prima di averlo seviziato e aver immortalato la sua paura attorno al ghigno dei suoi massacratori; anche loro, per l’Occidente, erano i “Liberatori”, anche loro si ergevano a combattenti per la libertà; anche per loro il bambino siriano era una spia. Anche loro sono degli Orchi. La verità è che molti di quelli che combatterono il fascismo erano peggio dei peggiori fascisti. Così come i “Ribelli moderati siriani”, sono spesso il volto dell’orrore islamista. La Resistenza fu tante cose insieme: fu eroismo ma anche infame vigliaccheria, idealismo ma anche criminalità; fu desiderio di libertà ma anche volontà di imporre più cruente dittature. Roger Scruton, uno dei più lucidi pensatori del nostro tempo, ha scritto che “il primo obiettivo di ogni totalitarismo è annientare la memoria”. Ecco perché quelli dell’Anpi che vogliono negare il ricordo di Giuseppina non hanno nulla a che fare con la democrazia. Ecco perché, una nazione che riannoda i fili di una storia sotterrata e nascosta, fa un dono alla propria libertà.

Giuseppina Ghersi martire mille volte. Domenica 17 settembre 2017, Santa Ildegarda a Casa di Nino Spirlì su "Il Giornale" in Calabria. (Una martire fra i suoi carnefici). Altro che legge Fiano! Il Mea culpa dovrebbero approvare in Parlamento!!! Sono settantadue anni che aspettiamo la verità su certe squadracce partigiane e certa feccia marocchina che, a guerra finita, hanno fatto carne di porco di bambine, donne, ragazzi… E non solo torturando e ammazzando. Più satanicamente, stuprando e occultando le proprie colpe! Macigni che avrebbero distrutto qualsiasi essere UMANO. Ma, di umano, quei porci sanguinari non ebbero nulla. Né prima, durante il Ventennio, quando se ne stettero nascosti come serpi d’inverno, pavidi e senzapalle; né durante la guerra, quando mandarono a sparare i più cretini o i meno codardi fra loro; né dopo, quando, ubriachi di menzogna, uscirono dalle tane per festeggiare la fine del regime, massacrando chiunque venisse loro davanti. Né dopo del dopo, negli anni del comunismo sovietico del tovarisch Togliatti e della Libertas mafiopapalina di Andreotti e soci, quando si costruirono una vita integerrima, nascondendo fra la merda delle viscere marce il segreto della propria ferocia sanguinaria. Andarono ad ingrassare ed ingrossare, ipocriti e bugiardi, le fila di quei partiti politici tronfi di antifascismo, coltivando l’albero della menzogna e puntellandolo, con mutuo soccorso, ad ogni cedimento. Fino ad oggi. Ma, oggi, proprio oggi, quelle radici, nate marce, hanno smesso definitivamente di succhiare linfa. E l’albero della vergogna, pur cercando di accasarsi fra le righe della Legge, non trova posto nel mondo reale. Tantomeno in quello virtuale. Giuseppina Ghersi non ha trovato pace fra le rughe del silenzio imposto per settantadue anni dalla ciurmaglia di regime. Ora trionfa sul web e diventa più bella e più mitica di Marilyn. Più viva di noi che La poggiamo rispettosamente sull’Altare dei Martiri e La veneriamo come una Vergine Maria privata del Dono Celeste dell’Annunciazione. Giuseppina Ghersi è viva! I morti sono i suoi carnefici e tutti i loro discendenti ed avvocati difensori. I morti sono quei muti che, pur di non ammettere di essere la diretta continuazione di tanta feccia, tacciono. O cercano parole talmente sterili che si incorniciano da soli per la Galleria della Vergogna. I morti sono quelli che giustificano lo stupro di una bambina di tredici anni “perché era una fascista”. A tredici anni? E se anche?

Apologia del comunismo? Ho provato a prendere sul serio Brunetta, scrive Giorgio Simonelli, Docente di Storia della televisione e di Giornalismo televisivo, il 12 luglio 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Pur avendo sempre votato per partiti che avevano l’antifascismo nei loro principi di base, non ho mai considerato utili leggi che sanzionassero le manifestazioni esplicite di fascismo. Le trovo inutili e talvolta controproducenti, in grado di enfatizzare, di gonfiare figure e fenomeni che forse sarebbe meglio lasciare nella loro insignificanza. Persino la legge che considera il negazionismo un reato mi lascia qualche perplessità. Ho sempre pensato che certe manifestazioni di ignoranza possano essere combattute più che a livello giuridico a livello culturale, con le armi della conoscenza e dell’ironia, per essere chiari, prendendole per il culo. Prendiamo per esempio la faccenda della spiaggia di Chioggia. C’è un lido dove il gestore pretende dai frequentatori educazione e pulizia. E su questo siamo tutti d’accordo anche perché educazione e pulizia non sono affatto valori fascisti, anzi sono molto diffusi in paesi di sicura democrazia. Ma poi accade che il cliente mentre si sta godendo la spiaggia pulita, l’atmosfera tranquilla, il rumore del mare viene scosso da un altoparlante con cui il gestore gli propina il suo comizio. A me in spiaggia dà fastidio anche solo la musica di Laura Pausini o Eros Ramazzotti, figuriamoci il comizio di Gianni Scarpa. Vi pare che ci possa essere qualcosa di più ridicolo di questa spiaggia? Credo che basterebbe raccontare la sua storia per darle il suo esatto significato, una mattana. Invece si comincia a parlare di fascismo e antifascismo e inevitabilmente parte il festival della scemenza. C’è Mattia Feltri che su La Stampa crea il suo pastone in cui partendo dal fascismo chioggiotto se la prende con gli italiani che sono rimasti in silenzio di fronte alla tremenda ingiustizia che ha assegnato ai palestinesi il sito ebraico delle tombe dei profeti. Omertosi e collusi con quei fascistoni dell’Unesco. Poi ci sono i 5stelle che si mettono su una strada assai pericolosa, che richiede grandi finezze di pensiero che forse non possiedono. Attaccano la proposta di legge Fiano come una legge liberticida, che colpisce le opinioni che in un paese democratico sono libere per definizione. Ma se io sostengo – tanto per fare un esempio non casuale – che le donne sono esseri inferiori, devono restare in casa e quando escono devono essere debitamente velate, anche questa è un’opinione che può circolare liberamente? Alla fine arriva l’Oscar della scemenza e non può vincerlo che l’onorevole Brunetta, il qual propone provocatoriamente di inserire nella legge accanto al reato di apologia di fascismo anche quello di apologia del comunismo. Ho provato a prenderlo sul serio, per quel che si può con Brunetta e a immaginare questo reato. Dunque se uno indossa o, peggio ancora, vende magliette con l’effige del Che, noto comunista, quanti anni prende? E se uno, come il sottoscritto, si dichiara accanito ammiratore non solo della Corazzata Potemkin ma anche di Ottobre, manifesto di celebrazione della rivoluzione sovietica, cosa gli succede? Infine, sempre pescando tra i ricordi della mia passione per le opere dell’arte degenerata, se uno resta incantato ed emozionato di fronte a una mostra che espone progetti e modelli del monumento alla Terza Internazionale che il regime sovietico nel 1920 commissionò al costruttivista Tatlin per celebrare la sua gloria (quella del regime, non dell’artista), Brunetta che fa? Denuncia il sovversivo ammiratore o anche il curatore della mostra?

Vietano il Duce e santificano Che Guevara. "Repubblica" beatifica il rivoluzionario argentino definendolo "romantico". Però si scorda i suoi crimini, scrive Alessandro Gnocchi, Sabato 16/09/2017, su "Il Giornale". Se in Italia fosse in vigore una legge contro l'apologia del comunismo, il settimanale il Venerdì, allegato de la Repubblica, rischierebbe il ritiro dalle edicole. In copertina c'è il faccione di Ernesto Che Guevara con un titolo vagamente blasfemo: Dio Che. Il guerrigliero argentino, capo della rivoluzione cubana insieme con Fidel Castro, è definito «ultimo rivoluzionario romantico, leader discusso, icona pop, santino di una sinistra nostalgica». All'interno numerosi servizi. Il biografo Jon Lee Anderson spiega che Guevara dovette trucidare i nemici politici, mettendosi a capo dell'epurazione: la rivoluzione prevede la violenza. Ma quale ideale di giustizia animava Guevara? Questo non c'è scritto sul Venerdì. Per fortuna possiamo rifarci alle parole del comandante in persona. Si legge nel Messaggio alla Tricontinentale (1967): «L'odio come fattore di lotta - l'odio intransigente contro il nemico - che spinge oltre i limiti naturali dell'essere umano e lo trasforma in una reale, violenta, selettiva e fredda macchina per uccidere». «Selettiva» ma non troppo. Nel 1959, Guevara dirigeva la prigione di La Cabaña, detta galera de la muerte. La rivoluzione era finita ma i processi sommari proseguivano. Fu proprio il Che a impartire disposizioni al tribunale: fucilare, fucilare, fucilare. Le stime parlano di 400 esecuzioni in meno di sei mesi. Anche questo però sul Venerdì non c'è scritto se non in forma molto edulcorata. Chi volesse informarsi davvero può recuperare Il mito Che Guevara e il futuro della libertà (Lindau, 2007) di Alvaro Vargas Llosa. Nel libro si documenta quanto fosse ampia la categoria del «contro-rivoluzionario» secondo Guevara. Oltre ai dissidenti, includeva omosessuali, cattolici, testimoni di Geova, sacerdoti afro-cubani e altri ancora. Lager per tutti. Sul Venerdì troviamo un approfondimento sul Guevara economista. Appunti inediti aiutano a comprendere e rivalutare il teorico che mise in discussione i dogmi sovietici (dopo aver influenzato le scelte... filosovietiche). Chiudiamo il settimanale e riapriamo i libri di storia. Il collettivismo di Guevara poggiava su teorie come questa: «Le masse in lotta approvano la rapina delle banche, perché in esse non è depositato uno solo dei loro soldi» (lettera al suo subordinato Enrique Oltuski). Il Che ebbe in mano l'economia cubana, prima come direttore della Banca Nazionale, poi come ministro dell'Industria. Vargas Llosa: «Si verificò il crollo pressoché completo della produzione di zucchero, l'industrializzazione fallì del tutto e si dovette ricorrere al razionamento». La riforma agraria favorì i burocrati: le terre espropriate finirono agli uomini d'apparato. Fra il 1961 e il 1963 il raccolto si dimezzò. Ci sarebbe da discutere anche sull'efficacia del guerrigliero «romantico». La spedizione in Congo alimentò una guerra civile permanente dagli esiti spaventosi, scatenando le varie fazioni pseudo-marxiste. In seguito la missione in Bolivia non fu di maggior successo. Il Che non capì di essere isolato. Gli mancava l'appoggio sia dei contadini sia del partito comunista. Catturato nella gola dello Yuro, fu ucciso il 9 ottobre 1967. Gli accendini del Duce fanno paura al punto di spingere il Parlamento ad approvare una legge ad hoc. Invece un periodico patinato dedica la copertina a un assassino comunista e lo definisce «romantico» senza sollevare alcuna discussione. Niente di strano. Per motivi storici, l'Italia è fondata sull'antifascismo ma non sull'anticomunismo. Per appartenere alla famiglia democratico-liberale, sarebbe invece necessario dissociarsi da tutti i totalitarismi. Nel nostro Paese non è così. Per questo le credenziali democratiche della Repubblica sono dubbie, come confermato proprio dalle leggi che perseguono i reati d'opinione.

Il fumetto anticomunista che è ancora un successo. L'unico «Viaggio nel paese dei Soviet» davvero obiettivo? Il fumetto di Hergé che torna in edizione definitiva. Molto meglio di G.B. Shaw, scrive Stenio Solinas, Domenica 22/01/2017, su "Il Giornale". Nell'ottava tavola di Tintin au pays des Soviets, il giovane reporter parte in tromba al volante di una potente Mercedes decappottabile e il suo ciuffetto di capelli incollato alla fronte si solleva sotto l'effetto del vento e della velocità. «E voilà! Un gioco da ragazzi... E adesso dritto a Mosca!» recita la «nuvoletta» che accompagna il disegno. Tintin nasce allora, è il gennaio del 1929, il giornale che ne pubblica la storia si chiama Le Petit Vingtième, supplemento per ragazzi del quotidiano Le Vingtième Siècle e il suo autore è un giovane ventenne, George Remi. Hergé è il suo nome d'arte e trent'anni dopo il generale de Gaulle, che si ritiene l'incarnazione novecentesca della Francia, dichiarerà: «Ho un solo rivale internazionale: è Tintin»…

L'imponente mostra retrospettiva appena chiusasi al Grand Palais di Parigi, che ne ha celebrato il genio a 110 anni dalla nascita, suona come una conferma e insieme una smentita: Charles de Gaulle è sempre più in un rimpianto, Tintin resta ancora una realtà. Belga come Georges Simenon, il Tintin di Hergé è però uno e bino rispetto a un Maigret francese fin da subito. Nel 1930 il settimanale parigino Curs vaillants comincia infatti la pubblicazione delle avventure sovietiche dello spericolato reporter, nell'album Parigi sostituisce Bruxelles e nel viaggio di ritorno dal Paese dei Soviet il treno non passa più per Liegi, Tirlemont e Louvain, ma per Saint Quentin e Compiègne... Il successo è clamoroso e nell'immaginario dell'epoca, complice la lingua, Tintin diviene tipicamente francese, come la baguette e il camembert...

Se l'esposizione «Hergé» appena ricordata, ha fatto entrare per la prima volta il fumetto in uno dei templi dell'arte ufficiale, l'importanza dell'album da cui siamo partiti ci dice tuttavia qualcosa di diverso rispetto alla materia in sé, al genere, al genio del suo autore. Fermiamoci un momento sulle date di pubblicazione, il biennio '29-30, sull'età del disegnatore, ventidue anni appena, sul tema, la Russia di Stalin, leggiamone poi la storia e ci accorgeremo che rispetto ai «pellegrini politici» che prima, durante e dopo andranno a raccontare un comunismo mai esistito nella realtà, ma idealizzato nella loro fede di «compagni di strada», Hergé aveva già capito tutto. Questo provinciale ragazzino belga, insomma, vedeva meglio e più in profondità di tanti intellettuali accreditati e ferrati, in anticipo persino sui reportages, questi sì critici, di un Céline o di un Gide...

Prendiamo la visita alla fabbriche, fatta andando dietro a un gruppo di «comunisti inglesi» pronti ad ammirare «le meraviglie del bolscevismo» con tanto di commenti: «Beautiful, very nice»... Tintin si intrufola dalla porta di servizio e scopre che si tratta di «fondali di teatro», il cosiddetto «effetto Potëmkin», dal nome di quel primo ministro di Caterina II che costruiva interi villaggi finti affinché l'imperatrice ne potesse ricevere una sensazione di benessere, un Paese apparecchiato, insomma, per sbalordire gli ospiti di rango, un potere intento a fare la propaganda di se stesso. Allo stesso modo, la scoperta dell'export di vodka, grano e caviale, stoccati per servire da elemento di propaganda all'estero, gli rivela la miseria economica del comunismo in patria. Ora, due anni dopo l'immaginario eppure veridico reportage di Tintin, George Bernard Shaw fa il suo ingresso trionfale in Russia: un vagone frigorifero, colmo di viveri, viene agganciato al treno per convincerlo che nel Paese regna l'abbondanza, e nei ristoranti di Mosca tutte le cameriere dimostrano di conoscere i suoi libri. Commenta deliziato: «Le domestiche in Inghilterra non sono tanto colte quanto le loro colleghe sovietiche». Della serie, quando il socialismo reale diventa il socialismo immaginario e narcisista...

Prendiamo ancora la scoperta che Tintin fa dei minori in Russia, mendicanti e vagabondi nelle campagne come nelle città. Cinque anni più tardi la Pravda pubblicherà in prima pagina il decreto con cui si stabiliva che, a partire dai dodici anni, si era passibili «di tutte le misure della giustizia penale», inclusa la pena di morte. Era una legge che si poneva un duplice obiettivo: sociale, nell'accelerare l'eliminazione della moltitudine di orfani inselvatichiti e allo sbando nata dal regime; politico, nell'applicare una forma barbara di pressione sui vecchi oppositori, i Kamenev, gli Zinovev, che avevano figli di età idonea. Il Partito comunista francese dell'epoca, dovendo commentare quella legge, ne sosterrà la giustezza: sotto il socialismo, infatti, i bambini crescevano più in fretta...

Tintin non ignora nemmeno il problema dei kulachi, i cosiddetti «contadini ricchi», la requisizione forzata del grano, la cosiddetta dekulachizzazione che significherà la distruzione del patrimonio agricolo, l'eliminazione fisica diretta di centinaia di migliaia di persone, indiretta di qualche milione per carestia e deportazione. È quella che Walter Benjamin scambia invece per il nuovo corso industriale, i piani quinquennali che sostituiscono il comunismo di guerra: «Adesso, compagni, è scoppiata l'era della moderazione utile e disciplinata. A questa Russia i geni non servono, e men che mai i letterati. Ha bisogno di fabbriche e non di poeti». Sarà preso talmente in parola che Esenin si impiccherà usando le cinghie di una valigia, Majakovskij si brucerà il cuore con un colpo di pistola, Mejerchol'd, il padre del teatro moderno, sarà massacrato con un tubo di gomma e poi finito con un colpo alla nuca, la moglie sgozzata fra le quattro mura di casa, Babel' fucilato, Mandel'tam seppellito in un lager... Come ha scritto Josip Brodskij, «il regime sfornò vedove di scrittori con una tale efficacia che verso la metà degli anni Sessanta ce n'era in circolazione un numero sufficiente per organizzare un sindacato».

Si badi bene, Tintin è un fumetto per ragazzi, con tutti gli eccessi, le semplificazioni e la superficialità che esso comporta e l'album di cui stiamo parlando era scritto da uno che aveva pochi anni di più dei suoi potenziali lettori. Per formazione e per cultura, Hergé era un anticomunista e fra le letture che formano il terreno su cui la storia prende forma c'è fra le altre quel Moscou sans Voiles (Neuf ans de travail au pays des Soviets) che un diplomatico belga, Joseph Douillet, aveva pubblicato l'anno prima. E tuttavia ciò che lo separa dai Toller, i Dreiser, i Sinclair, i Barbusse, i Wells, i Malraux e i già citati Shaw e Benjamin di quegli anni era proprio la disposizione a volersi fare ingannare, la delusione individuale nei confronti delle nazioni di origine che li spingeva a credere nelle illusioni di un Paese che si voleva vedere come fratello. Inoltre, non c'era nulla in lui, come forma mentis, di quello che resta un elemento fondamentale per spiegare il successo e l'appeal che per quasi sessant'anni accompagnò il comunismo in patria e all'estero: l'esperimento in corpore vili di un'avanguardia intellettuale, una setta di rivoluzionari di professione, in guerra contro un'intera società. Il comunismo in Russia eliminò l'intera Russia: gli intellettuali, ovvero in realtà i professionisti, ingegneri, professori, impiegati, i proprietari terrieri e i contadini, i commercianti, tutti quelli che, indipendentemente dalla loro estrazione sociale, potevano essere considerati, o si rivelarono, ostili e/o estranei al nuovo corso.

Fu un'eliminazione ottenuta con la violenza, la delazione, l'inganno e resa altresì possibile dalla più totale mancanza di pietà. Non ci si accontentava del corpo, si voleva l'anima. Le «confessioni», i «processi», quelli che Bertolt Brecht definirà le prove «delle attive cospirazioni contro il regime», miravano a questo, al riconoscimento dell'errore, all'espiazione e alla riaffermazione della giustezza della causa: non solo sono colpevole, ma mi faccio schifo in quanto tale ed esigo il castigo che la mia colpevolezza comporta... Come ha scritto Solgenicyn, alla base della lunga sopravvivenza del regime c'è «la sua forza disumana, inimmaginabile nell'Occidente». Di fronte all'offerta del funzionario della Gpu, «100mila rubli o la morte», per divenire complice del regime, Tintin dice semplicemente «no». Lo può fare perché è un fumetto e il suo cane Milou lo salverà dalla fucilazione travestendosi da tigre... Ma, come ha raccontato nelle sue memorie Jacques Rossi, uno che a vent'anni era già comunista e a trenta, sempre da comunista, ne avrebbe passati altri venti nei gulag: «Vittima? Non sono stato una vittima. Io sono stato un complice di quel sistema. È come mettere una pentola piena d'acqua sul fuoco, accendere il gas e quando l'acqua bolle ficcarvi la mano dentro. Non bisognava mettercela».

Il comunismo ha fatto milioni di morti. Perché non c’è il reato di apologia? Scrive Giovanni Trotta lunedì 10 luglio 2017 su "Il Secolo D'Italia". Perché non introdurre in legge Fiano anche apologia comunismo? Storia va letta a 360gradi, non in unica direzione”. Lo scrive su Twitter Renato Brunetta, capogruppo di Forza Italia alla Camera dei deputati. Insomma, Brunetta ha centrato il vero problema della legge che la maggioranza sta furiosamente cercando di approvare. Sulla vicenda interviene anche Fratelli d’Italia: “È strabiliante notare come proprio alla vigilia della pubblicazione del libro di Renzi L’Italia va avanti, il Pd alzi la canizza su una pericolosissima minaccia che si aggira per l’Europa. No, non è il terrorismo islamico, non è l’immigrazione. È il fascismo”. È quanto ha dichiarato il capogruppo di Fratelli d’Italia-Alleanza nazionale, Fabio Rampelli, a proposito della legge a prima firma Fiano che inserisce nel codice il reato di propaganda fascista. “Questo è il modo del Pd di guardare avanti per il futuro dell’Italia, introdurre nel nostro ordinamento i reati d’opinione, anzi, un unico reato d’opinione perché si potrà impunemente inneggiare a Stalin e a Osama Bin Laden. La verità è che taluni personaggi del Pd restano profondamente illiberali, faziosi e comunisti dentro”, ha aggiunto il parlamentare di Fdi. “Invece di pensare ai drammi del Paese, vogliono introdurre una norma anacronistica, inutile e senza senso, vogliono cancellare la storia, una cose folle, da matti”, dice da parte sua Alessandra Mussolini, parlando della legge Fiano, sul reato di apologia del fascismo, oggi in discussione alla Camera. Per l’eurodeputata di Forza Italia “Fiano, che è uomo di Renzi, dimostra la pochezza culturale e politica di questa classe dirigente”. “Ma che senso ha una legge così – si domanda la Mussolini -. Io sarei allora un reato vivente” e arriveremo al punto che “un pelato con mascella volitiva si dovrà autodenunciare”. “Io – ricorda Mussolini – a casa ho di tutto, busti e fasci, perché fanno parte della mia storia, di quella della mia famiglia, che faccio mi autodenuncio?”. “Quando ho saputo che volevano fare questa cosa – conclude l’europarlamentare azzurra – non ci volevo credere”. “Mentre siamo invasi dagli extracomunitari e chiudono gli esercizi commerciali si preoccupano di una cosa senza senso per attirare un elettorato che neanche c’è più”. Il fatto che i posacenere con l’effigie del Duce o il vino nero siano la priorità del governo italiano, la dice lunga sulla qualità dell’esecutivo stesso: oltre ai problemi citati da Rampelli, il terrorismo islamico e l’invasione di clandestini, c’è la disoccupazione, la pressione fiscale, il deficit dello Stato, le carenze dell’Unione europea, l’economia disastrata, la giustizia, la burocrazia e potremmo non fermarci mai: questi sono i problemi che un governo serio dovrebbe affrontare, altro che le spiagge “fasciste” e i gadget di Mussolini. E poi la critica di Brunetta è centrale: dati alla mano, il comunismo ha certo fatto molte più vittime del fascismo e del nazismo, perché non è fuorilegge, perché non c’è una legge Scelba anche per i comunisti? È uno dei tanti misteri iitaliani, ma la cosa certa è che se in Italia c’è una rivalutazione del fascismo, non è tanto per il fascismo stesso, quanto per l’inettitudine dei governi post e antifascisti che si sono succeduti, che non hanno mai saputo dare – e mai come ora – una risposta ai problemi degli italiani. Tra pochi anni le nostre figlie dovranno portare il velo, ma almeno non vedremo più i portachiavi con la faccia di Mussolini…

Perché in Italia non è vietata l’apologia del comunismo? Scrive Adriano Scianca l'11 luglio 2017 su "Primato Nazionale". In questi giorni in cui si ricomincia a parlare di leggi contro i simboli del fascismo, più d’uno si è chiesto perché analoga sorte non tocchi anche ai simboli del comunismo. Intendiamoci: non è certamente la chiamata in correità la strada migliore per uscire da questa spirale liberticida. Per noi del Primato Nazionale, ognuno può essere libero di avere il busto di Stalin sulla scrivania, indossare la maglietta di Pol Pot o fondare il partito maoista. Fa semmai un po’ più di rabbia la costante apologia dei crimini legati alle foibe in contesti pubblici e con fondi pubblici, ma anche in questo caso è assai discutibile che sia con leggi ad hoc che si possa porre termine a tale scempio. Chiarito questo punto, resta tuttavia la domanda puramente accademica sulle giustificazioni addotte per vietare i simboli di un regime che fu singolarmente molle con gli avversari politici, dato il contesto dell’epoca, e non invece quelli della più mortifera ideologia della storia. Quando ponete tale quesito, la risposta è, inevitabilmente, che in Italia abbiamo avuto il fascismo al potere, non il comunismo. E che quest’ultimo, da noi, è stato un movimento democratico e costituente, laddove il fascismo è stato antidemocratico e anticostituzionale. Altrove il comunismo avrà pure portato dittatura e terrore, ma non in Italia. Un approccio singolarmente storicistico: fascismo e comunismo non sarebbero quindi giudicati per ciò che intrinsecamente sono e rappresentano, ma per le contingenze storiche relative al percorso politico dell’Italia. Ma c’è un ragionamento ulteriore che si può fare e che riguarda esattamente tali contingenze. Il comunismo, dunque, da noi non è vietato perché in Italia non abbiamo avuto una dittatura comunista. Ma perché non l’abbiamo avuta? Proprio perché c’è stato il fascismo. Quando nasce il fascismo, l’Italia è in pieno biennio rosso. Un periodo che lo storico Emilio Gentile, non certo tenero con i fascismi, ha descritto mettendo in evidenza “un’ondata di conflitti di classe senza precedenti nella storia del paese, condotti in gran parte dal partito socialista massimalista all’insegna di una imminente rivoluzione per instaurare anche in Italia, con la violenza, la dittatura del proletariato, come annunciava il nuovo statuto che il Partito socialista aveva adottato nel 1919”. In quell’anno, quando i fascisti erano quattro gatti, i socialisti avevano quasi tremila comuni amministrati, più di 150 deputati, leghe e cooperative che mafioseggiavano a tutto spiano, giornali a grandissima tiratura che inneggiavano perennemente alla violenza di classe. Il tutto con l’obiettivo dichiarato e del tutto palese, quindi storicamente incontestabile, di “fare come in Russia”. Se l’Italia non ha conosciuto i gulag, le fucilazioni di massa, il manicomio per i dissidenti, la miseria e la carestia non è stato per la maggiore bontà dei comunisti nostrani rispetto a quelli di altre nazioni, ma solo perché i fascisti hanno politicamente e militarmente impedito questo scempio. Se oggi il comunismo, da noi, appare come una simpatica ideologia di taglio umanitario è solo perché la sua rivoluzione l’ha persa. Un pezzo di storia che l’onorevole Fiano deve aver saltato, a scuola.

Allora vogliamo “l’apologia di comunismo”. Combattere le idee totalitarie con i reati d'opinione è un controsenso. Ma se vogliamo stare al gioco del Pd, perché in queste proposte non viene mai menzionato il regime più sanguinario del '900? Perché certe dittature sono sempre, inesorabilmente, meno dittature di altre? Scrive Lorenzo Castellani su "L’Intraprendente". Domenica, 11 luglio 2017. Lo dichiaro subito: non ritengo la legge un mezzo adatto per prevenire le derive autoritarie. Esistono altri mezzi, istituzionali e culturali, per prevenire gli estremismi. I reati d’opinione non dovrebbero esistere. Tuttavia, merita un commento la legge proposta dall’onorevole Fiano del Pd che mira ad introdurre un reato contro la propaganda fascista e nazifascista a seguito di alcune scritte e gesti inneggianti al fascismo in una spiaggia. La proposta dice molto sulla cultura del Paese per cui il rischio di “deriva autoritaria”, sia per Berlusconi o per Grillo, è sempre dietro l’angolo. Sempre, tranne quando al governo c’è il Partito Democratico. Il pericolo è ovviamente sempre “fascista” e “nazista”, mentre mai viene menzionato il regime autoritario più sanguinario di ogni altro: il comunismo, nella variante sovietica o cinese che si preferisca. Molti oppongono che ciò accada perché l’Italia è stata la culla del fascismo e, di conseguenza, il riflesso antifascista è più forte. Inoltre, il Pci è stato tra i partiti fondatori della nuova Costituzione repubblicana. Questo ragionamento seppur vero, tuttavia, non pare giustificato nel presente: il Pci è oramai storia da venticinque anni, il Muro è crollato, il fascismo è stato sconfitto nel 1945. La divaricazione e la disparità di trattamento tra regimi totalitari non sembra aver più senso. Veniamo all’oggi. Non sono forse egualmente pericolosi i simpatizzanti fascisti e i centri sociali d’ispirazione marxista pronti a devastare le nostre città ad ogni occasione buona? O che distribuiscono Lotta Comunista fuori le scuole ed università? Quale sarebbe il “diverso pericolo” tra i vessilli fascisti e quelli stalinisti-cheguevariani? Perché in una legge per prevenire gli estremismi la propaganda deve essere sempre e solo fascista e, addirittura, nazista ma mai comunista? A questa domanda chi pone la necessità di una ulteriore legge contro l’apologia fascista non risponde. Perché non può rispondere in quanto l’intera storia della prima Repubblica è stata una giustificazione continua del diritto all’esistenza un partito che, certo accettava le regole democratiche, ma serviva un interesse straniero. Lo serviva mentre le sue idee colonizzavano scuole, università, teatri, cooperative, istituzioni e via dicendo. In Italia, per fortuna, il comunismo come regime non c’è stato o meglio è esistito sotto altre spoglie e digerendo la democrazia. E, non a caso, il blocco occidentale si era premunito se fosse arrivato il momento in cui la conventio ad excludendum del Pci dal potere non resistesse, attraverso una rete militare sotterranea pronta ad intervenire. Questa istituzionalizzazione forzata del Pci, relegato all’opposizione, è stata pagata amaramente a livello culturale. Un prezzo, quello del Comunismo come ideologia e regime diverso (e migliore) dalle altre ideologie e regimi totalitari, che ancora oggi si continua a scontare seppur in riflessi quasi ridicoli come quelli della proposta in discussione. Questo regime di “specialità” del comunismo non è ancora stato superato dai parlamentari della Repubblica della sinistra italiana, sempre pronti ad agitare lo spettro del fascismo e a riempire i codici di reati d’opinione. Così creando un doppio danno: reati simili e di fatto quasi mai perseguibili e diseducazione rispetto alle esperienze storiche dei totalitarismi. Perché per i vari Fiano del momento “tutte le dittature sono uguali, ma alcune sono più uguali delle altre.”

Fiano, solo un morto di fama… scrive Emanuele Ricucci il 14 settembre 2017 su "Il Giornale". Chi muore di fama, chi di fame. In Italia si crepa comunque. Emanuele Fiano muore di fama; i precari, le partite Iva, i disoccupati, muoiono di fame. La realtà non esiste più. Quando ero piccolo, avevo tredici anni o giù di lì, ero iscritto ad Azione Giovani (si può dire o mi devo sentire più alieno di Vinny Ohh, il ragazzo statunitense che ha speso più di 50mila dollari in interventi per assomigliare ad un alieno inespressivo e senza sesso?), frequentavo con vero entusiasmo la vita militante dell’ex Fronte della Gioventù. Manifestazioni, volantini a scuola, musica alternativa. Pioggia, gazebi e colla. Come tanti. Una visione anticonformista che cresceva come un batterio buono rende migliore il pane. C’era in me quel nostalgismo necessario, vacuo, ma ardente e innocente, che riempie di sogni di gloria ogni adolescente.

Poi sono cresciuto e la militanza non si è mai spenta, in altre occasioni politiche e partitiche (si può dire o devo sentirmi un verme, vedermi cancellata la stima di molti lettori? Ah, forse se avessi detto Lotta Continua facevo i corsivi corrosivi su Repubblica). Eppure mai, garantisco, mai, ho sentito parlare di FASCISMO come in questo momento, in cui ho trentanni e ho deciso di smettere con la vita di partito dopo quindici anni. Chiuso per lunghe ferie causa assenza comunità e idee e triplicazione di orticelli e affari personalissimi. In sezione, in quell’agenzia sociologica così utile alla formazione, bestia letteraria del mondo odierno che neanche più sui muretti si riunisce, ma preferisce anteporre la viltà di Zorro tastierato, alla faccia di Tyson, si parlava delicatamente di fascismo. Mai a sproposito. Specie tra i “ragazzini” come me, richiamati ad ogni saluto romano fatto tanto per farlo. Sotto, a sistemare i tavoli per la festa tricolore del fine settimana successivo. Montare tavoli, sistemare sedie, ascoltare. Zitto, imparare. Imparare cos’è la storia, sentendola. E se stai sempre a parlare, non è un dialogo, è un monologo e finisce che ti perdi qualche pezzo; imparare a formarsi e, solo dopo al limite, imitare il Duce con le braccia attorno alla vita, quello era concesso. Ti sia concesso di sentire Giovinezza, oggi. Ma cerca di capirne il perché. Zitto, va e monta i tavolini che è tardi, e mentre li monti parla piano perché devi ascoltare, e ascoltare ancora cosa mai fosse stata la mistica fascista, cos’era il corporativismo, quale concezione dell’uomo, del mondo e dell’Italia, fin nei gangli più intimi, il fascismo avesse elaborato. Quale idea di bellezza, cosa fosse, per esso, la bruttezza, e l’integrità. Ricorda di contestualizzare il tempo, cerca di asciugarne i limiti per filtrare solo la validità sempre attuale, concettuale. Impara quali furono gli errori, le leggerezze. Permeati di eredità: chi siamo e perché siamo qui, con quella fiamma tricolore accesa, a montare i tavolini per una festa.

Attivare un processo culturale. E se ti sentiamo parlare a sproposito delle “origini” ideali, ti becchi un ceffone. Perché mai dovrai capire male, mai dovrai esaltare, mai fomentarti. E mai fornire una giustificazione a chi ti dirà che per curare il fascismo bisogna leggere. Sentiti offeso, e contrattacca culturalmente. Un orgoglio ero(t)ico, finché c’erano gli uomini, non i replicanti. Ebbene, nonostante tutto ciò, mai sentii parlare così tanto insistentemente di FASCISMO, mai. Mai così a sproposito. Dopo aver svuotato questo termine da ogni significato, da ogni aggancio storico, da ogni sviluppo spirituale e culturale. Mai. E a farlo, non sono i compagni di Togliatti, “giustificati”, comunque, nella signorilità dell’avversario e della formazione, ma uomini casuali, nel governo, e nella figura, persino nell’aplomb. Nella mente, e nella propria partecipazione attiva alla vita sociale e politica di questo Paese. Mi insegnarono a soppesare ogni significato di FASCISMO (alla luce di ogni pericolosa facilitazione frettolosa, per schivare il rischio di identificarlo come bene o male assoluto, per addossargli ogni facile merito o facilissima colpa), perché qualcuno voleva formarti. Voleva farti il regalo più bello di tutti: fornirti gli strumenti politici e culturali per comprendere i significati e le visioni degli uomini del passato, affinché non scadessero, dopo una gentile chiacchierata con la coscienza, nella vuotezza dello stereotipo, nella gita a Predappio, ma potessero essere, con la giusta elasticità mentale, precetti per interpretare il presente. Aderenza al tempo, e alla realtà. Quella che ora è lontana, in un delirio surrealista e situazionista pericolosissimo. Formazione, per valutare con maturità e, all’occorrenza, rispettare il degno avversario.

Mi insegnarono, sistemando i tavolini, che il FASCISMO veniva segretamente tollerato e partecipato, in Italia, come una perversione intima, come la masturbazione a casa da solo, come atto intimo nel silenzio di molti; e che, moltissimi, più dei molti di prima, lo avrebbero voluto definitivamente estinto perché incapace, secondo loro, di aver partecipato dignitosamente alla storia d’Italia, di non aver lasciato segno nel grande libro della storia, se non graffi di sangue e atrocità, storie di figuracce internazionali, di nonni in bilico, di carriarmati di cartone, di guerre non volute, nonostante clamorose acclamazioni di piazza, di un popolo che non ha mai voluto veramente un Duce, ma una scusa. Una scusa alla propria inettitudine, alla propria viltà e negligenza, espressa nel grande numero che scappa e butta una divisa alle ortiche, una mattina di settembre, senza neanche chiedersi perché lo stesse facendo. Eppure il degno avversario ha provato a metterlo Ko, ma con uno schiaffetto del potere, arginandolo nella legge da tirar fuori solo quando, poi, i fascisti cominciavano ad avere ragione alle elezioni, nelle piazze e negli atenei. Magari nei disgraziati ’70. Quando si riorganizzavano. Ti dovrei cancellare dalla storia, te e tutti i monumenti tuoi, dicevano loro, ma per questa volta passi pure. Qualcuno te lo butto in cella, e valga da esempio; per gli altri, se proprio ci tenete ad avere la bottiglia del Duce a casa, prendetela pure, ci farete solo tenerezza (e permaneva, nei rapporti di un tempo, quasi sempre almeno, quella schermaglia gentile come un pugno alla milza). La bottiglia del Duce a casa. A questa dimensione di vergognosa piccolezza è stato ridotto il FASCISMO storico, politico, filosofico, artistico? All’accendino con la celtica (?), alla sciarpa con scritto Noi tireremo diritto? Al negozio di gadget? All’abrasione di una scritta, all’annichilimento di un monumento, alla furia demolitrice che rassomiglia moltissimo a quella di Palmira. Fuori tempo e fuori luogo come i figli di babbo architetto e mamma yoga-psicologa che in nome della rivoluzione del proletariato distruggono a estintorate la vetrina del negozio di una povera donna che l’ha tirato su con anni di ansia, conti stretti e nottate insonni. Fuori tempo, fuori luogo e fuori legge l’accendino del Duce? Fuori tempo, fuori luogo e fuori legge anche la violenza dei centri sociali, dunque. Questa è democrazia!

Mai ho sentito parlare così di tanto di fascismo, da parte dell’antifascismo radicalizzato, istituzionalizzato. Diffuso e alla rinfusa. Prima rimaneva prerogativa dei fissati, missione degli ossessionati che in ogni male vedevano i gerarchi, delle sezioni dell’ANPI, che, seppur ingiustificate, quantomeno se lo ponevano come obiettivo statutario, quantomeno avevano una missione culturale. Ma oggi no. Oggi si vuole la gloria per incapacità di incidere nel presente: MORTI DI FAMA quali sono; si vuole debellare il fascismo fin nelle bottiglie di Ferlandia. E per farlo, anziché relegarlo nell’indifferenza, se ne rispolverano i fasti e le disgrazie, non si fa altro che parlarne, e ciarlarne, e blaterarne. FASCISMO. FASCISMO. FASCISMO. FASCISMO. FASCISMO. FASCISMO. FASCISMO.

Per poi arrivare al risultato di tanto rimescolare: due anni di galera per una bottiglia souvenir, nel Paese in cui se fai una rapina, con ostaggi e feriti, rischi che ti danno un anno e mezzo di carcere, con la condizionale, un cesto di prodotti calabresi omaggio e tante scuse. Come gli stupratori di Rimini: due anni e poi vi andrete a fare una famiglia. E allora viene da dirgli, satireggiando un po’: se proprio si vogliono fare una famiglia, cominciassero dalla figlia. Che tanto ormai non rimane che gettarla in caciara. Tutta, ma proprio tutta. E poi, vogliamo dirlo? CINQUE ore alla Camera (CINQUE!) per ribadire che la faccia del Duce è fuorilegge come Al Capone. 5 ore per dire no ad un accendino con la faccia di Mussolini. Cinque ore: come c…o glielo spiegate ad un partita Iva, appena aperta, col 23% di tasse (se non di più…) che sta aspettando che due clienti su tre lo paghino, da più di 2 mesi, quanto pesano 5 ore in una giornata? Cinque ore per una questione fuori tempo e fuori luogo, già risolta dalla legge, peraltro. Voi date i numeri. Voi non siete come alcuni furbacchioni della Prima Repubblica, ladruncoli ma preparati. Voi siete un delirio, con cui non si può intraprendere un ragionamento culturale, visionario, verso cui frapporre una ragione che richiami alla libertà di pensiero garantita per Costituzione, alla barbarie della negazione democratica, alla furia demolitrice, come quella di Palmira; con cui sperare nella definitiva pacificazione nazionale, in quella che ritenete l’Italia migliore possibile. Cinque ore di antifascismo applicato col fascismo. Andate a cagare e basta! Si può dire?

Tom e Jerry nel regime dei buffoni, scrive il 15/09/2017 Edoardo Sylos Labini su “Il Giornale. Riprendiamo da Il Tempo un bellissimo editoriale uscito ieri di Marcello Veneziani che in una lucida analisi storica dimostra come sia ridicola la legge Fiano. Come è possibile che nell’era della fibra, dove tutto scorre con una velocità vorace, si parli della “pericolosità” dei gadget fascisti, dei saluti romani (in questo articolo c’è una foto di Tom e Jerry in atteggiamenti eversivi), di antifascisti e compagnia bella? Mentre arrestate i pericolosi Tom e Jerry, stanno facendo attentati in tutta Europa. Mentre cercate di colmare il vostro vuoto culturale, ci sono milioni di italiani senza lavoro. Occupatevi di noi cittadini, questo è il vostro compito, invece di cercare visibilità con leggi liberticide. La storia si racconta sempre da più punti di vista, da diverse angolature, altrimenti, on. Fiano, si è veramente razzisti. E’ la solita solfa che sentiamo da decenni: il bue che dice cornuto all’asino, colpisci violentemente il tuo nemico e poi dici che è fascista. Che noia. Si occupi di più della Permanente di Milan, dove è Presidente e dove nel 1926 Margherita Sarfatti e il gruppo Novecento (Sironi, Funi, Malerba) e i futuristi (Balla, Depero, Carrà, Severini) lasciarono un segno indelebile nell’arte del secolo scorso. Organizzi una grande mostra sui giovani talenti italiani che non hanno visibilità nei grandi spazi espositivi. Così, forse, lascerà un segno. Vi lasciamo all’editoriale di Veneziani.

"Da dove può nascere a 72 anni dalla fine del fascismo una legge che vieta la propaganda fascista e la compravendita di oggettistica in materia? Da forme patologiche di odio, di psicosi e di fobia. E da ignoranza, malafede e stupidità. Non riesco a trovare migliori spiegazioni per capire il movente di approvare subito, a tambur battente, appena si sono riaperte le camere, una legge così grottesca, così anacronistica, in piena tempesta di violenze sessuali e stupri, di emergenza dei flussi migratori e di allarme terrorismo islamista. Nel centenario della nascita del comunismo, il più grande orrore totalitario del Novecento, per quantità di vittime, durata ed estensione, in Italia si apre una ridicola campagna antifascista per reprimere il mercatino nostalgico del web e le sue propaggini di vintage & folclore. E si approva, in un paese che già prevede due leggi speciali ad hoc che puniscono quel reato d’opinione, vale a dire la legge Scelba e la legge Mancino, un’ennesima legge acchiappafantasmi, fasciofoba e canagliesca. Viviamo sotto un regime di buffoni che ridicolizzano le cose serie – come il fascismo, lo stesso antifascismo, la storia e la guerra civile – e prendono sul serio le cose ridicole o innocue, come il suk di busti del duce, le canzoni fasciste, i saluti romani, le caricature del fascio. Potremmo limitarci a ridere di questa legge surreale. E a confidare che non riusciranno ad applicarla senza essere spernacchiati dalla gente; e comunque la sua nefandezza sarà temperata dalla notoria inefficienza della nostra giustizia. Però poi ci resta una forma di rabbia e di amarezza perché vediamo stuprata ancora una volta la verità, la storia, il rispetto umano. Stupro di gruppo.

Chi renderà onore a quanti hanno combattuto, dato la vita, per la patria nel nome dell’Italia fascista, senza commettere alcun crimine, rientra nel reato di propaganda fascista?

Chi ricorderà il più grande poeta del novecento, finito in una gabbia come una scimmia e poi in un manicomio criminale perché fascista, Ezra Pound, sarà passibile di condanna?

Chi ricorderà il più grande filosofo italiano del Novecento, ucciso perché fascista, Giovanni Gentile, sarà anche lui sotto tiro a norma di legge?

Chi difenderà la memoria dei fratelli Govoni, del grecista Pericle Ducati, del poeta cieco Carlo Borsani, dei fascisti veri e presunti che versarono “il sangue dei vinti”, dalle zone carsiche al triangolo rosso, potrà farlo senza incorrere in quella legge liberticida?

Chi sosterrà che se vogliamo eliminare in Italia le opere del fascismo dovremmo raderla al suolo, e trasformare Roma in Cartagine, sarà condannato in virtù della legge?

E chi ricorderà che il fascismo ebbe grande e duraturo consenso di popolo, ammirazione nel mondo e da parte dei più grandi statisti dell’epoca, sostegno da parte delle menti più acute del suo tempo, verrà processato?

Potrei continuare all’infinito. Riconoscendomi appieno in tutte queste affermazioni, mi condannerete per effetto di quella legge infame? Sono pronto a ripeterle ad una ad una volta che passerà al Senato e diventerà legge.

L’effetto che produce una legge come questa è di alimentare nei ragazzi il fascino del proibito, nell’opinione pubblica la convinzione di vivere sotto un regime liberticida, che ha paura delle opinioni e non si cura delle vere necessità e priorità del popolo, e in chi conosce la storia, ha passione di verità, il desiderio di riaffermare con forza caparbia l’altra metà negata della storia. Il vostro problema è che prendete la parte per il tutto, siete perdutamente settari, faziosi, partigiani. Mentre c’è un solo modo di vedere bene le cose, diceva Ruskin, vederle per intero. Per finire vi offro tre curiosità. 

Sapete che durante il regime fascista morirono più antifascisti italiani in Unione sovietica, che nell’Italia fascista? Centinaia di italiani, comunisti, antifascisti e a volte anche ebrei, che erano fuggiti dall’Italia fascista, furono uccisi nella Russia comunista con l’avallo del segretario del suo partito, il sullodato Togliatti. In Italia, persino sotto il Duce, avrebbero avuto una sorte migliore… 

Sapete poi che il presidente dell’infame Tribunale della razza, nonché firmatario del «Manifesto della razza», Gaetano Azzariti, diventò il più stretto collaboratore del leader del Pci, Palmiro Togliatti al ministero di Grazia e Giustizia, dopo essere stato Guardasigilli con Badoglio? Avete mai avuto nulla da ridire, sul fatto che poi, grazie a questi precedenti, lo stesso Azzariti sia diventato il primo presidente della Corte costituzionale fino alla sua morte nel 1961?

Infine. Sapevate che il primo concordato tra lo Stato italiano e gli ebrei fu fatto nel 1930 dal regime fascista? Una commissione composta da tre rappresentanti degli ebrei e tre giuristi varò un concordato in cui, scrive De Felice, «il governo fascista accettò pressoché in toto il punto di vista ebraico».

Il presidente del consorzio ebraico, Angelo Sereni, telegrafò a Mussolini «la vivissima riconoscenza degli ebrei italiani» e sulla rivista ebraica Israel Angelo Sacerdoti definì la nuova legge «la migliore di quelle emanate in altri Stati».

Se ricordate le infami leggi razziali, ricordatevi pure di questo: e chiedetevi cos’è successo nel frattempo, a chi e a cosa attribuire il cambio di passo…Ma voi non sapete, e se sapete fingete di non sapere. Mi vergogno di voi non solo al cospetto di tutti costoro che ho citato, ma anche nei confronti di chi il fascismo lo affrontò a viso aperto, pagando di persona. Sfruttate come iene, corvi e sciacalli la memoria di costoro e martoriate i corpi senza vita di coloro che furono onesti, puliti, a volte anche grandi, però dalla parte “sbagliata”. Vilipendio di cadavere, oltraggio alla memoria, omissioni plurime e aggravate, questi sono i vostri reati di cui nessuno avrà il coraggio di accusarvi e nessuno di voi avrà il pudore di vergognarsi. Chi l’avrebbe mai detto che dopo tre quarti di secolo dalla sua sepoltura, nell’era della fibra, noi dovessimo star lì ancora a discutere di fascismo e di antifascismo viventi…PS A Roma al centro anziani, militanti antifascisti aggrediscono quelli di Casa Pound. Viva la libertà, la democrazia e la legge Fiano.

Il tormentone dell'estate: "In Italia è tornato il fascismo". Dall'"Osservatorio sui nuovi nazismi" della Toscana a Povia bandito dall'Anpi. La sinistra è ossessionata, scrive Matteo Basile, Venerdì 1/09/2017, su "Il Giornale". Ogni estate ha il suo tormentone e quello del 2017, più ancora di Rovazzi e dei fenicotteri rosa gonfiabili, è il fascismo. A sinistra lo vedono ovunque, anche se tra stupri di maghrebini, sbarchi di migranti, rischio di attentati islamici e occupazioni illegali con annesso racket dei letti abusivi, non parrebbe la maggiore emergenza nazionale. E invece sì. Ma per prevenire una nuova marcia su Roma in camicia nera, stavolta ci si sta attrezzando per tempo. I partigiani sono in azione e hanno già liberato Trezzano sul Naviglio, amena cittadina dell'hinterland milanese che rischiava di essere occupata da un esponente di «una formazione dichiaratamente neofascista, una figura profondamente divisiva sui temi dell'accoglienza e della solidarietà», che poi sarebbe Povia, un cantante (quello di I bambini fanno ooh...) colpevole di non essere di sinistra come il 99% dei colleghi, tacciato di neofascismo dall'Anpi che è riuscita a far annullare il suo concerto a Trezzano - il sindaco è del Pd - in quanto pericolo pubblico («La libertà e la democrazia hanno perso mentre la mafia e la dittatura hanno vinto» si lamenta lui). Ma la resistenza procede bene anche in Toscana. Per quattro militanti di Forza Nuova andati a «vigilare» la messa di don Biancalani, il prete che porta in piscina gli immigrati africani, si è gridato al fascismo ormai alle porte. Il governatore toscano Enrico Rossi, troppo a sinistra per stare nel Pd tanto che è passato a Mdp, non si è lasciato sfuggire l'occasione e ha preso al volo il tormentone estivo. Ecco dunque che la Regione Toscana, come informa solerte il bollettino regionale, si è subito dotata su idea di Rossi di un «Osservatorio sui nuovi fascismi», spiegando che l'Agenzia di Informazione della Giunta regionale sarà incaricata di «monitorare i media e il web e raccogliere le segnalazioni dai cittadini, che saranno poi girate all'avvocatura della Regione per eventuali esposti. In Italia ci sono delle leggi in materia, la legge Scelba e la legge Mancino, e vanno fatte rispettare» ha spiegato il governatore toscano. Tanto più che è di Carrara il professore che ha sventolato la bandiera della Repubblica di Salò dopo essersi inerpicato sulle Alpi Apuane, altro scandalo estivo sul filone «all'armi son fascisti».

Del resto, era bastato un bagnino di Chioggia per allertare la coscienza democratica della nazione sul rischio di un nuovo regime mussoliniano. Il bagnino, grazie all'intervento di Repubblica, è stato rapidamente messo in condizione di non nuocere e indagato per apologia di fascismo. Ma il pericolo è così incombente che il Comune di Pisa, dopo 93 anni, si è sentito in dovere di revocare la cittadinanza onoraria concessa a Benito Mussolini il 23 maggio 1924. Non si sa mai. L'amministrazione comunale di Tremezzina, sul lago di Como, ha invece deciso di intitolare ai partigiani uno spiazzo vicino al luogo dove Mussolini nel 1945, in frazione Giulino di Mezzegra, fu fucilato dai partigiani, appunto: si chiamerà «Largo Partigiani Tremezzini». Un'estate infiammata dal neofascismo, tanto che è stata incendiata la scritta «Dux» realizzata nel 1939 sul monte Giano. È chiaro, serve una nuova legge. Il deputato Pd Emanuele Fiano ne ha proposta una: due anni di galera ha chi commette il «reato di propaganda del regime fascista e nazifascista», mentre Laura Boldrini è in ansia perché «ci sono persone a disagio quando passano sotto i monumenti fascisti». I tormentoni danno facilmente alla testa.

“Il comunismo è la filosofia dei falliti, il credo degli ignoranti, il vangelo dell’invidia; la sua caratteristica intrinseca è la condivisione della povertà”. Winston Churchill.

SEDICENTI ANTIFASCISTI. «Il più bello esemplare di fascista in cui ci si possa oggi imbattere (e ne raccomandiamo agli esperti la più accurata descrizione e catalogazione) è quello del sedicente antifascista unicamente dedito a dar del fascista a chi fascista non è» Leonardo Sciascia, Nero su nero, Torino, Einaudi, 1979 Pag. 73

All'armi son fascisti. Repubblica e Stampa fanno a gara a nascondere i fatti di nera che vedono protagonisti gli immigrati. Vogliono imporre il pensiero unico manipolando i fatti e occultando la realtà, scrive Alessandro Sallusti, Sabato 2/09/2017 su "Il Giornale". In questi giorni mi sono sentito dare più volte del fascista per via dello spazio che stiamo dedicando sul giornale agli episodi di cronaca - occupazioni, stupri, rivolte - che vedono coinvolti gli immigrati. In effetti i giornali che rappresentano il mondo politico e culturale da cui partono queste critiche - il nuovo polo editoriale unico della sinistra salottiera tra La Repubblica e La Stampa - fanno a gara a nascondere i fatti di nera che vedono protagonisti gli immigrati. Ieri sulle loro prime pagine non c'era traccia dei nuovi casi di stupro a Rimini, Milano e Desio, solo scarni e incompleti resoconti all'interno (nell'articolo della Stampa non è citata neppure la nazionalità marocchina degli aggressori). Grande spazio i due quotidiani dedicano invece ad appelli di politici e prelati a non alimentare odio e razzismi, un'ossessione che i loro lettori, non conoscendo i fatti censurati dal giornale che stanno leggendo, potrebbero addirittura trovare eccessiva e incomprensibile.

Facciamo subito chiarezza. Primo, noi non odiamo gli immigrati, semplicemente troviamo odioso - e lo scriviamo a caratteri cubitali - che un uomo, di qualsiasi colore sia la sua pelle, stupri una donna. Riteniamo però molto pericoloso che una politica dell'accoglienza fuori controllo abbia prodotto l'effetto che, a differenza degli stupratori italiani, quelli immigrati il più delle volte non sappiamo chi siano e dove andarli a prendere per assicurarli alla giustizia, perché oltre che delinquenti sono fantasmi, spesso protetti dalla loro stessa comunità che a differenza delle nostre non considera la violenza sulle donne un reato grave e odioso.

Secondo. Non siamo razzisti, banalmente pensiamo che senza legalità non ci possa essere uguaglianza, solidarietà, democrazia e libertà. La legalità, come ha scritto di recente persino la Gabanelli, non è di destra né di sinistra, né bianca né nera. O è o non è. E se non è - come nel caso dei flussi immigratori che abbiamo subito e non governato - sono guai per tutti e dirlo è un dovere. Per intenderci, siamo fieri degli atleti di colore che vestono le maglie delle nostre nazionali e guardiamo con ammirazione e rispetto le tante ragazze straniere che studiano nelle nostre scuole e università anche se consideriamo ridicolo che una bellissima ragazza di colore vinca Miss Italia, come successo anni fa, perché sarebbe come dire che l'ottimo kebab rappresenta il meglio della cucina italiana nel mondo.

Terzo. Non siamo fascisti, e la prova sta proprio nell'accusa che ci viene mossa. Una delle architravi del fascismo fu di imporre ai giornali il divieto assoluto di pubblicare notizie di cronaca che potessero contraddire la narrazione ufficiale del regime. Cito da La stampa nel ventennio di Mauro Forno (edizioni Rubbettino): «Fin dal 1925, l'allora ministro dell'interno Luigi Federzoni, aveva ordinato attraverso apposite circolari ai prefetti di sequestrare tutti i giornali che indugiavano su delitti di sangue adulteri e simili e Mussolini stesso aveva impartito l'ordine di smobilitare la cronaca nera. Il fascismo temeva molto la cronaca nera perché poteva distrarre il lettore dalle pagine politiche e per l'intralcio che essa arrecava al processo di una tensione positiva, in grado di rafforzare la tensione sociale e il senso di appartenenza ad una grande nazione sempre in marcia verso alti ideali... Insomma per uno stato totalitario era intollerabile che la stampa si facesse portavoce di messaggi negativi diffondendo all'esterno immagini di disagio e di disgregazione sociale».

Mi sembra quindi chiaro che «fascista» è obbedire «all'ordine» del ministro della Giustizia Orlando di dire che non c'è alcuna emergenza e censurare dalle prime pagine dei giornali e dei telegiornali i fatti efferati che vedono protagonisti gli immigrati. Il pericolo di un neofascismo - cioè di un nuovo totalitarismo - non viene dai nostalgici di destra che salutano a mano tesa in ridicoli raduni ma da chi, come il gruppo La Repubblica-La Stampa, vorrebbe imporre un pensiero unico manipolando i fatti e occultando la realtà. Verrebbe da dire: all'armi, son fascisti.

Giornalismo che vive nel social-odio, scrive Piero Sansonetti il 23 Agosto 2017 su "Il Dubbio". Non saprei dire con certezza se sono i giornalisti a guidare l’incanaglimento dei “social” o viceversa. Probabilmente è un circolo vizioso, un inseguirsi a vicenda. Con risultati pessimi. I risultati sono due. Il primo è lo scadere oltre ogni libello di oscenità della stessa lingua italiana, che dopo secoli di sviluppo rischia di tornare indietro e imbarbarirsi. Il secondo è l’obnubilamento che questo linguaggio di aggressione e di odio inevitabilmente porta con sè. Il pubblico obnubilamento del pensiero ha delle inevitabili conseguenze sul funzionamento della democrazia e quindi anche sul dispiegarsi della libertà. Di che sto parlando? Vediamo. Vi trascrivo un brano di un editoriale pubblicato proprio ieri su uno dei più importanti giornali italiani. E’ firmato da uno dei quattro o cinque giornalisti che in Italia contano. Non vi dico neppure il nome del giornale né del giornalista, perché non mi va di personalizzare. Se lo capite da soli bene, sennò non cambia niente, quello che conta non sono i nomi ma la sostanza. Leggete qui: «… Non faccio che pensare a loro. E naturalmente a Lui che, cattivissimo come solo i nani sanno essere, detesta tutte le sue creature e, pur di non vedere più quell’orda di parassiti forforosi, sudaticci, e alitosi, se ne sta asserragliato ad Arcore (dove nessuno lo fotografa e può evitare di montarsi ogni mattina quella calotta catramata che lui chiama capelli) con qualche puntatina a Merano per darsi una sgonfiata (dove ogni tanto si scorda il toupet sul comodino accanto alla dentiera…)». L’articolo prosegue per molte e molte righe, sempre con questo tono. Come si capisce, si riferisce a Silvio Berlusconi, cioè il capo del centrodestra italiano più volte ex presidente del Consiglio e al suo gruppo parlamentare. L’estensore è un uomo forte dell’establishment di Beppe Grillo. Se però avete un po’ di pazienza potrete trovare molti esempi simili di giornalismo, riferiti magari, anziché a Berlusconi, a Renzi, oppure – molti – a Laura Boldrini, ma anche a tantissime altre persone famose. Difficile trovare dei precedenti per questo linguaggio giornalistico. Qualche volta ho cercato un antenato in un certo Roberto Farinacci, che – poco meno di un secolo fa – fu un gerarca fascista molto esagitato, e per questa ragione, dopo qualche anno, emarginato dalla stesso Mussolini. Ci sono delle analogie e delle differenze tra il farinaccismo e questo nuovo giornalismo nostrano (che non è solo di matrice grillina). L’analogia sta nel sentimento che lo muove. E il sentimento che lo muove è quello che Leonardo Sciascia, con la sua solita arguzia, definiva “la collera degli imbecilli”. Diceva Sciascia che è esattamente la collera degli imbecilli il carburante di tutti i fenomeni fascisti. La differenza sta invece nel carattere essenzialmente politico del farinaccismo (che rispondeva a una esigenza aggressiva e sfacciata del fascismo, che in quegli anni era ancora molto giovane e aveva assolutamente bisogno di affermarsi e unirsi schiacciando i nemici), e nel carattere invece poco politico e molto populistico di questo nuovo giornalismo d’assalto, che – esattamente al contrario di Farinacci – ha bisogno assoluto di nemici per affermarsi. Il farinaccismo era funzionale a una politica e a una ricerca di stabilizzazione del potere. Il nuovo populismo, che nasce o comunque vive e si alimenta nei social, è semplicemente questo: la ricerca, l’esaltazione e la mostrificazione del nemico. In questa catena, la mostrificazione è essenziale, e per questa ragione assurge a un ruolo decisivo l’odio, la formazione dell’odio, la coltivazione dell’odio e dunque il linguaggio dell’odio. L’odio serve a formare i mostri, i mostri sono i pilastri del nuovo populismo. Nello sviluppo del linguaggio dell’odio (che diventa ancora più importante dello stesso odio, e naturalmente molto, molto più importante della ragione dell’odio, che è assolutamente secondaria, se c’è resta sullo sfondo) ha una funzione decisiva l’interfacciarsi tra giornalismo e social. L’autore dell’articolo che abbiamo citato certamente usa un linguaggio in gran parte mutuato dai social. Che è diventato ormai il suo linguaggio. Avrete notato come dà una importanza decisiva agli aspetti fisici della persona che critica, e a quelle che ritiene le proprie superiorità fisiche rispetto al nemico, individuato e indicato al pubblico odio. Dunque lui che scrive è più alto del nemico, e quindi il nemico è un nano. Ha più capelli, più denti, più gioventù del nemico, e quindi la scarsità dei capelli, la necessità di portare una dentiera e l’età avanzata diventano colpe e motivi di insulto. La politica scompare. Il conflitto politico non esiste, non è neppure immaginato. Il conflitto è tra il bello e il brutto. Tra il giovane e il vecchio. Tra l’uomo robusto e l’uomo anziano con una dentatura debole. E anche le persone che circondano il nemico non sono colte o ignoranti, reazionarie o progressiste, liberali o totalitariste, violente o miti. No: sono sudaticce, hanno cattivo odore, molta forfora. Ma non è solo il giornalista a mettersi alla coda del social. Succede anche il contrario. Il giornalista, che ha attinto al linguaggio del social diventa l’esempio per i fruitori del social, i quali lo eleggono a simbolo e iniziano a imitarlo. E vogliono superarlo, e allora incattiviscono ulteriormente il proprio linguaggio e – contemporaneamente – riducono sempre di più l’interesse per i contenuti. E quando incattiviscono le parole e abbassano il livello del pensiero, diventano a loro volta un modello per il giornalista. Si forma la spirale. Il bersaglio dell’odio può essere chiunque. Ha pochissima importanza chi sia il bersaglio, perché ciò di cui si ha bisogno non è colpire un avversario per indebolirlo, ma costruire un avversario per colpirlo. Quindi si cerca l’avversario che abbia le caratteristiche migliori per essere colpito. Più un personaggio è considerato possibile catalizzatore di odio più viene prescelto dai social e dal giornalismo post- social. Ma non basta che abbia le caratteristiche giuste, cioè i punti deboli (l’altezza fisica nel caso di Berlusconi, l’esser donna nel caso della Boldrini, eccetera…) è necessario che sia un personaggio con l’indice più alto possibile di visibilità. Perché questo indice di visibilità fa da moltiplicatore alla quantità di odio che si mette in movimento. Da questo punto di vista andava molto bene Obama e va molto bene anche Trump. Oltretutto Obama era nero e Trump ha una strana capigliatura, ottimi punti deboli. Ma il massimo, dal punto di vista della visibilità, è il papa. Il capo dell’intera cristianità. Raramente un papa aveva concentrato su di se tanto odio, e tanto linguaggio dell’odio – da parte dei cristiani come è successo a Francesco. Eppure, in passato, molti papi solo stati al centro di scontri durissimi, in politica e non solo in politica. Quasi mai però un cattolico praticante aveva avuto l’ardire di sostenere che il papa (che ha chiesto il diritto allo Ius soli) dovrà risponderne «davanti alla storia e davanti, addirittura, a Dio». Lo ha fatto l’altro giorno un famoso psichiatra. E’ preoccupante, questo fenomeno, o è solo un fatto folcloristico e passeggero? Penso che non sia un fatto passeggero. E che dipenda da tre fattori stabili nell’attuale fase della modernità. Uno di questi fattori – l’unico positivo – è lo sviluppo delle tecniche informatiche, cioè l’enorme diffondersi del web. Il secondo fattore è la coincidenza temporale – e probabilmente casuale – almeno qui in Italia, tra questo sviluppo e la caduta dell’intellettualità, della sua robustezza, della sua autorevolezza, della sua funzione nella società e nell’establishment. Per capirci: avevamo Pasolini, Calvino, Calogero, Argan, Calamandrei, Lombardo Radice, e oggi – se tutto va bene e senza sottovalutare i miei colleghi – abbiamo Gramellini, Saviano, Scanzi. Non solo non c’è una intellettualità in grado di costituire un punto di riferimento esterno ai social, e magari di indirizzarli e funzionare come esempio; ma abbiamo una intellettualità “debole”, subalterna organicamente ai social, e da essi stregata. Il terzo fattore è la caduta della politica, che non è più in grado di costruire programmi, speranze, conflitti, e sostituisce tutto questo con la rappresentazione di conflitti che, inevitabilmente, si nutre dell’odio. Come si può intervenire? Come si può frenare la tendenza a trasformare l’odio – l’odio senza contenuti e senza conflitto – in pilastro del dibattito pubblico e in costruttore del linguaggio? Con delle leggi? Con delle contromisure culturali? Con la scuola? Lascio aperte queste domande. Perché non so rispondere. Mi aspetto delle risposte dal G7 delle avvocature, che si terrà a settembre proprio su questi argomenti, e del quale riferiamo qui accanto. NON CONTA PIÙ NIENTE IL PERCHÉ SI ODIA. CONTA ODIARE.

E ANCOR DI PIÙ CONTA IL LINGUAGGIO CON IL QUALE SI ODIA. SEMPRE PIÙ ASPRO, SEMPRE PIÙ VOLGARE.

L’odio per lo straniero costruito da politici e giornali, scrive Piero Sansonetti il 26 Agosto 2017 su "Il Dubbio". La battaglia di strada tra profughi eritrei e polizia, combattuta l’altro giorno in pieno centro di Roma, suggerisce molte riflessioni e molti spunti contraddittori. Sul comportamento della polizia, sul dovere della legalità, sull’immigrazione, sull’accoglienza, sulla violenza e sulla dolcezza. Purtroppo gran parte dei nostri politici, e dei giornalisti, hanno voluto evitare sia la riflessione sia le contraddizioni. Hanno preferito usare la clamorosità dei fatti per fare propaganda e attaccare i propri avversari. Fanno così quasi sempre. È una vecchia abitudine della politica e del giornalismo, non solo in Italia ma in Italia di più. Certe volte questa abitudine trascende, e arriva a creare volontariamente odio, odio per altri esseri umani. Perché c’è chi considera l’odio un elemento importante e insostituibile della battaglia politica. Succede così, in genere, quando le idee sono poche. Allora si preferisce rivolgersi al popolo, usando questa leva, che è potentissima. La rabbia, la rabbia che diventa ribellione, la ribellione che diventa odio, e divide l’umanità in buoni e cattive, fratelli e demoni. Quando sul terreno della battaglia si viene a trovare un problema complicato, come quello dell’emigrazione, che è un problema in carne e ossa e che riguarda gli stranieri, l’odio, molto facilmente, si trasforma in razzismo e in sentimenti violenti. E’ successo così anche stavolta. Però, stavolta, il razzismo non è rimasto padrone del campo: non solo perché sono apparse sulla scena le tradizionali figure di contrasto con il razzismo – come i preti, i vescovi, le suore – ma perché si è manifestata una figura inaspettata: il poliziotto. Un poliziotto in assetto di guerra che invece di bastonare accarezza una signora, una signora nera, una signora eritrea, una signora piangente e disperata. Quella foto, bellissima, ha mandato all’aria la macchina razzista, oliata e pronta a colpire. Proviamo a vedere con ordine le varie questioni sollevate dalla giornata di guerriglia di giovedì.

IL COMPORTAMENTO DELLA POLIZIA. Non si può certo liquidare con un aggettivo. Della polizia fa parte quell’agente, o ufficiale, che si è fatto prendere dalla foga e ha gridato «spaccategli le braccia». Merita un aggettivo molto aspro. Della polizia fa parte anche il gigante in divisa antisommossa che consola la signora in lacrime. Merita un aggettivo dolcissimo. E della polizia fa parte il dottor Franco Gabrielli, il quale – tra tutti i rappresentanti dell’establishment – è stato forse l’unico ad averci offerto una analisi seria e pacata. Ha detto che la frase del suo agente è intollerabile, e si è lasciato sfuggire anche una critica velata all’uso esagerato degli idranti, poi però ha voluto indicare i veri colpevoli. E non ha detto, come hanno fatto vari giornali, che i responsabili sono gli eritrei, i negri. Ha detto che sono quelli che hanno lasciato una moltitudine di persone a vivere ammassate lì in condizioni sub umane. Ecco, Gabrielli non è certo nell’elenco dei cercatori d’odio. Ha anche lui delle responsabilità? Può darsi, ma comunque è una persona che le responsabilità se le assume. Non le nasconde alzando polveroni. La polizia doveva intervenire perché si era creata una situazione di illegalità? La polizia comunque doveva rispondere a ordini precisi. Il prefetto ha ordinato lo sgombero. Avrà avuto le sue ragioni. Forse però avrebbe fatto meglio a spiegarle queste ragioni, anziché parlare di infiltrati e provocatori tra gli eritrei. Francamente non si capisce chi avrebbe potuto infiltrarsi, e perché, e a che scopo. Del resto tutte le persone identificate sono risultate perfettamente in regola con le norme sull’immigrazione.

IL COMPORTAMENTO DEL COMUNE. Non si può dire che sia stato ineccepibile. È vero che a volte i problemi sono molto complessi e difficili da risolvere. Anche in questo caso. Da una parte la necessità di liberare il palazzo e restituirlo ai legittimi proprietari, e fare rispettare la legge, e la Costituzione, che prevede la proprietà privata. Dall’altro la necessità di trovare una soluzione abitativa per queste persone. Che vivono qui a Roma, hanno i permessi, molti lavorano vicino alla stazione e mandano i figli a scuola. I problemi sono complessi, ma la politica dovrebbe servire proprio a questo: a trovare soluzione ai problemi complessi. La politica non è semplicemente l’arte di far polemica, non è la prosecuzione di un talk show. È un lavoro duro, che richiede esperienza, professionalità e molto, molto sacrificio. Detto questo, danno fastidio anche le polemiche fatte e rifatte sempre uguali. Urla contro l’assessora che ieri non era a Roma perché stava in vacanza. Urla contro la Raggi che non era sul posto. Canovacci di propaganda politica presi a prestito dai nonni e dai bisnonni. Cerchiamo di risolvere i problemi non di acchiappare voti.

IL COMPORTAMENTO DEI POLITICI. Anche qui siamo, più o meno, al cliché. Quelli di sinistra si strappano i capelli per la mancanza di misure sociali. Quelli di destra per l’offesa alla legalità e le critiche alla polizia. Poi ci sono i Cinque stelle. I Cinque stelle che si preparano a governare. E allora Di Maio ricopia pari pari certi slogan della Lega, o della Meloni, e dice che vengono prima gli italiani, o i romani, e che il Comune deve preoccuparsi delle loro emergenze e non delle emergenze dei migranti. Può anche sembrare una frase di buon senso, ma invece è la culla del razzismo. Nessuno contesta la necessità di difendere la legalità (poi possiamo dividerci su quando e fino a che punto sia opportuno farlo in modo intransigente e quando invece sia meglio mediare) e nessuno contesta neppure la giustezza di individuare una scala delle priorità nelle emergenze. Ma sostenere che una emergenza non è emergenza perché non riguarda i nati a Roma ma riguarda gente con la pelle nera ( è esattamente questa la sostanza della dichiarazione di Di Maio) vuol dire mettere dei mattoncini che servono a tirare su il muro del razzismo. Non lo dico come un anatema. Si tratta solo di ragionarci su, cosa che i nostri politici spesso non fanno. Se a determinate la scala della priorità non è l’oggettiva urgenza dei problemi ma è la nazionalità ( e dunque la razza) delle persone coinvolte, si stabilisce, di fatto, una scala razziale, magari con ottime intenzioni ma il risultato è quello.

IL COMPORTAMENTO DELLA STAMPA. Trascrivo qualche titolo preso dai giornali di ieri. Per esempio: «GIUSTZIA è FATTA (a caratteri cubitali, maiuscoli, a tutta pagina) Casa occupata, liberata a colpi di manganello». Oppure: «Rubano agli anziani per dare agli stranieri». Non voglio annoiarvi citando altri titoli, o altri brani di articoli. Dico solo che questo atteggiamento verso la cronaca ha poco a che fare con l’informazione e molto a che fare con la propaganda razzista e violenta. Rubano agli anziani per dare agli stranieri (oltre ad essere un titolo che porta una notizia del tutto falsa) è un titolo che spinge a questa distinzione: noi e gli stranieri. Noi buoni e loro ladri. Noi con diritti, loro senza. E assomiglia moltissimo agli schemi della propaganda antisemita che era stata allestita nella seconda metà degli anni trenta dal regime fascista. Del resto, esultare per una giustizia che finalmente si fa largo a colpi di manganello, involontariamente (o forse, invece, volontariamente) è qualcosa che riecheggia le canzoncine sul “santo manganello” che sono anche quelle un’eredità (che credevo ormai dimenticata e superata) del mussolinismo.

LA MACCHINA DEL RAZZISMO. I giornali poi non restano soli. Dettano la linea. Ai politici, a qualche Tv, ai social. L’idea del contrattacco dello Stato che manganella i neri e li disperde, si diffonde in un baleno. Ogni tanto qualcuno mi chiede: ma secondo te viviamo in un paese razzista? Io non credo che un paese sia razzista. Tantomeno l’Italia. Il razzismo è qualcosa che ovviamente nasce da sentimenti popolari profondi, dalla paura, dal senso di debolezza, dalla ricerca disperata di identità, ma il razzismo vince e dilaga solo se è sostenuto dall’establishment. È stato così in Germania, in Italia, in Francia, quando Hitler lo impose. È stato così, per decenni, negli stati meridionali degli Usa. È stato così in Sudafrica. C’è una macchina del razzismo, che si mette in modo, e produce odio. L’odio è l’elemento fondante del razzismo. L’odio come sostituzione del senso civico, o del patriottismo, o degli ideali. Gli americani chiamano proprio così i reati razzisti: hate crimes, crimini dell’odio. Non sono il frutto di un fenomeno spontaneo. Sono costruiti da una macchina infernale, potente e sofisticata, della quale i principali manovratori sono i giornalisti.

Battista: «L’odio c’è sempre stato. Senza più partiti (e giornali) ora nessuno lo frena», scrive Giulia Merlo il 30 Agosto 2017 su "Il Dubbio". «In quest’odio di oggi non c’è nulla di nuovo». Pierluigi Battista, editorialista del Corriere della Sera e saggista, analizza le radici di un odio che definisce «ideologico» anche in un tempo in cui le ideologie sono scomparse, un odio «freddo e razionale» che ha trasformato i cittadini in haters senza punti di riferimento, soli davanti ai loro computer.

«Negli ultimi anni, soprattutto grazie ai Social Network, l’odio sembra essere diventato la cifra linguistica della società. Dissento profondamente: non c’è alcuna novità. Si continua a ripetere che questo è avvenuto negli ultimi anni, ma è falso: l’epoca delle contrapposizioni ideologiche è stato un periodo di odio feroce. Gli ultimi anni sono solo una fase, ma l’odio politico è una caratteristica tipica delle società di massa.

L’odio affonda le radici nell’ideologia, quindi?

«È il cemento emotivo che tiene insieme le grandi comunità ideologiche. Si tratta di un odio che è riferito a un soggetto terzo, che non è un avversario ma un vero e proprio nemico da demolire e abbattere, in effige o anche fisicamente, nel caso di forme di potere totalitario. Un fenomeno, questo, che non nasce con la politica ma ancora prima, con la religione. Le ideologie, infatti, altro non sono che la sostituzione della credenza religiosa con la politica».

Anche nelle religioni c’è odio?

«Per citare Carl Schmitt, «la politica è la secolarizzazione delle categorie teologiche». Durante le crociate si uccidevano gli infedeli in nome di Dio, nel Novecento si è sostituito al linguaggio religioso quello dell’ideologia politica. Negli anni Settanta si uccideva nel nome dell’odio politico e chi, come me, ha avuto la sfortuna anagrafica di aver vissuto quel periodo lo ricorda in modo indelebile. Allora si sparava, alimentati da un odio freddo: i terroristi non erano malati di una febbre d’odio improvviso ma si appostavano per giornni e giorni, si organizzavano, studiavano l’azione sin nei minimi dettagli. È difficile spiegare quale spinta mentale servisse per fare una cosa del genere».

Come definirebbe l’ideologia?

«L’ideologia è una forma di giustificazione razionale dell’odio, che non è mai personale ma colpisce intere categorie di soggetti. Se in tempo di guerra il nemico non si odia, ma gli si spara perchè vale la legge del mors tua vita mea, in tempo di pace l’ideologia è il carburante ideale necessario ad accendere l’odio per colpire il nemico. Il meccanismo è: tu che ti opponi a me sei il nemico da distruggere, non un avversario che la pensa diversamente da me con cui vivo un rapporto di conflitto politico anche molto duro, ma che contiene uno scambio positivo. Nell’ideologia non esiste il riconoscimento di una ragione altrui».

Oggi però non si spara più in dell’ideologia e le parole non sono proiettili. Come fa a dire che non c’è alcuna novità rispetto al passato?

«E’ finita l’era ideologica ma gli stampi mentali sono rimasti: nulla si azzera, prende solo nuove forme. Il punto è un altro: oggi è in atto una forma di imbarbarimento della società, che affonda in ciò che dicevo prima: le radici dell’odio si trovano nell’annientamento morale dell’individuo. Succede così sui Social, dove si sostituisce l’essere umano con un nemico contro cui sparare. E’ la traduzione in tempo di pace di un comportamento bellico: del resto anche le parole possono annientare, seppur non fisicamente».

E come, allora?

«Penso, per esempio, alla morte giudiziaria. Distruggere un nemico politico attraverso gli strumenti della magistratura cos’altro è, se non una forma di annientamento? Esattamente questo è successo in Italia, e il passaggio dalla Prima alla Seconda repubblica è avvenuto attraverso una disintegrazione politico- simbolica del nemico politico nell’aula giudiziaria. E il popolo dov’era? Tirava le monetine e i cappi. Perchè le monetine tirate a Craxi erano la manifestazione dell’odio verso una persona che rappresenta qualcosa, in quel caso il nemico di classe».

E dunque Craxi è stato annientato, come diceva lei prima, dalle parole.

«Craxi è stato il sacrificio umano su cui è nata la Seconda repubblica. A produrla è stata lo stesso odio che descrivevo prima: non un’esplosione barbarica ma un odio freddo e razionale, meticoloso nel raggiungere il suo scopo e implacabile contro un nemico permanente che deve essere cancellato».

Oggi, però, il tutto sembra ancora più amplificato, e l’odio online e sui Social Network è un fenomeno che esaspera ogni tipo di contrapposizione.

«Anche in questo non vedo novità. Nel 1992 non c’era Facebook, ma al suo posto c’era il cosiddetto popolo dei fax: invece che organizzare campagne social, la gente inondava i giornali di fax indignati, in cui dava del cialtrone o del buffone a quel giornalista o a quel politico. Come vede, cambiano le forme espressive, ma non la sostanza».

Parliamo allora del giornalismo. Anche nel linguaggio dei giornali l’odio è diventato cifra stilistica.

«Nel giornalismo militante l’odio è la caricaturizzazione, la riduzione del nemico a male assoluto, la legittimazione al silenziamento del nemico, che non deve parlare e deve essere messo fuori legge, in un recinto di appestati. In questo modo di ragionare i giornali rincorrono i Social e viceversa, in una spirale infinita verso il basso. Certo, le novità tecnologiche hanno amplificato tutto, dando al fenomeno una dimensione più estesa e drammatica».

E che cosa può frenare quest’odio?

«Prima parlavo dell’annientamento morale dell’individuo. Ecco, un tempo erano i partiti e i sindacati a svolgere la funzione di ammortizzatori morali: strutture in cui gli individui potevano sentirsi meno soli e vulnerabili. I corpi intermedi creavano comunità, sostenevano i singoli e in un certo senso ne capivano e governavano le pulsioni, depotenziando l’odio. Tutto ciò oggi è sparito e, senza questa intermediazione, le persone si trovano sole davanti al computer: così diventano haters».

Il giornalismo può avere un ruolo nel governare il fenomeno?

«Il giornalismo di oggi non ha alcun seguito e non influenza più l’opinione pubblica. Realisticamente, i giornali hanno perso la funzione di orientare la società e lo dimostra il fatto che le nuove generazioni non li leggono più».

Eppure viviamo in un mondo che è sempre più inondato d’informazione.

«Certo, ma l’informazione non è più sinonimo di giornalismo, quell’epoca è finita da un pezzo. I giovani di oggi si informano con altri mezzi e uno di questi sono i Social. Mia figlia qualche giorno fa mi ha parlato di un libro di Grossman e io, stupito, le ho chiesto dove ne avesse sentito parlare. Lei mi ha risposto che ha letto un post su Facebook che ne parlava. Ecco, le nuove generazioni acquistano libri, vedono film, assistono a concerti e formano i propri gusti attraverso strumenti che non sono più le recensioni sul Corriere e Repubblica. Nello stesso modo, ormai, si veicola anche la politica, ammesso che interessi ancora a qualcuno».

E i giornali come possono reagire a questa concorrenza?

«Guardi, la crisi mortale del giornalismo sta sullo stesso piano concettuale della crisi dei partiti e dei sindacati: sono stati gli strumenti che hanno dato orientamento al mondo in cui è cresciuta la mia generazione, ma non quella di oggi. Ora i giornali annaspano, inseguono, cercano disperatamente di stare nell’onda ma vengono sempre più espulsi da un presente che va in un’altra direzione. Il giornalismo ha perso una partita storica e non solo in Italia, ma a livello globale».

La politica, invece, sta trovando nuove forme di espressione?

«Il crollo di interesse per il giornalismo è anche il crollo di interesse per la politica. Pensi ai talk show politici: solo qualche anno fa occupavano i palinsesti e facevano il 12% di share, oggi nella migliore delle ipotesi arrivano al 5%. Solo ai giornalisti interessano giornali e talk show, i giovani la sera guardano i serial americani e a mala pena sanno cosa sia la Rai».

Ma senza politica, partiti e giornalismo, che cosa si può fare per arginare l’odio che lei ha descritto prima?

«La mia generazione ha creduto alla grande illusione che, caduto il Muro di Berlino, si potesse voltare pagina. In realtà questo non è successo e io oggi non vedo elementi di stabilizzazione, né nelle teste dei singoli né nei governi. Quel che si può fare è smetterla con questa retorica nuovista, come se quelli di oggi fossero fenomeni mai esistiti prima: hanno solo altre forme. Non esistono ricette miracolose per uscire da questo vortice, ma solo un’etica della responsabilità».

Tutto ricade sulle spalle dei singoli?

«Credo che ognuno di noi debba cercare di agire al meglio delle sue capacità, io stesso credo profondamente in ciò che ho detto e cerco di fare il mio lavoro nel modo migliore. Avrà un’influenza? Questo è impossibile dirlo, ma bisogna agire come se l’avesse. Mi rendo conto che può suonare come una soluzione minimalista, ma non esistono formule magiche. Del resto, tutto ciò che conosciamo oggi era imprevisto solo 15 anni fa: chi avrebbe mai immaginato la portata di fenomeni come Twitter e Facebook e la crisi completa della politica e dei corpi intermedi?»

Sembra quasi che le manchino, questi partiti.

«Per me i partiti sono sempre stati degli elefanti burocratici, centri orrendi di corruzione che era meglio morissero. Ora che sono finiti, invece, mi rendo conto che svolgevano una funzione sociale importante, perchè sono stati anche centri di educazione democratica, che davano un senso alle città e ai quartieri. Dove prima c’erano le sedi del Pci e della Dc oggi non c’è più nulla e, con la loro scomparsa, la gente è rimasta sola, senza più luoghi di confronto e soggetti con cui confrontarsi. Ed è nella solitudine che l’odio assume dimensioni apocalittiche».

L’odio fa calare sul mondo una notte nera. Di Martin Luther King il 29 Agosto 2017 su "Il Dubbio".  Lettera dal carcere di Birmingham. Quello che pubblichiamo è un estratto della lunga lettera scritta da Martin Luther King dal carcere di Birmingham (Alabama) dove era stato rinchiuso al termine di una manifestazione di protesta contro la segregazione dei neri. Era l’aprile del 1963.

"Sappiamo per dolorosa esperienza che l’oppressore non concede mai la libertà per decisione spontanea: sono gli oppressi che devono esigere di ottenerla. Francamente, non mi è ancora accaduto di intraprendere una campagna di azione diretta che apparisse tempestiva agli occhi di quanti non hanno subito indebite sofferenze a causa del morbo segregazionista. Da anni sento dire la parola Aspettate!, che risuona all’orecchio di ogni nero con stridente familiarità. Questo Aspettate significa quasi sempre Mai. Noi dobbiamo arrivare a comprendere, insieme a uno dei nostri massimi giuristi, che la giustizia ottenuta troppo tardi è giustizia negata. Noi aspettiamo da oltre 340 anni di ottenere i nostri diritti sanciti dalla Costituzione e donati da Dio. Le nazioni asiatiche e africane si muovono con velocità supersonica verso l’indipendenza politica, mentre noi ancora ci trasciniamo, al passo di un calessino all’antica, per cercare di ottenere una tazza di caffè al banco delle tavole calde. Forse dire ‘ Aspettate’ è facile per chi non è mai stato ferito dalle frecce aguzze della segregazione. Ma se uno vede plebaglie inferocite lasciate libere di linciare vostra madre, vostro padre, di annegare i vostri fratelli e sorelle a piacimento; se vede poliziotti pieni d’odio insultare, prendere a calci e perfino uccidere i vostri fratelli e sorelle neri; se uno vede la stragrande maggioranza dei venti milioni di suoi fratelli neri che soffocano, in una gabbia di povertà a tenuta stagna, nel bel mezzo di una società opulenta; se uno sente che la lingua s’inceppa e le parole escono in un balbettio perché bisogna cercare di spiegare alla figlia di sei anni come mai non può andare al parco pubblico di divertimenti che la televisione ha appena finito di pubblicizzare, e si accorge che le vengono le la crime agli occhi appena sente che la Città dei divertimenti è vietata ai bambini di colore, e vede minacciose nubi di inferiorità cominciare a formarsi nel suo piccolo cielo mentale, e la sua personalità cominciare a distorcersi nello sforzo di maturare un inconscio rancore verso i bianchi; se uno deve cercare di rispondere a un figlio di cinque anni che chiede: ‘ Papà, ma perché i bianchi trattano così male la gente di colore? ‘; se uno, quando fa un viaggio in macchina, si trova costretto una notte dopo l’altra a dormire in posizione disagiata, in un angolo dell’automobile, perché non lo accettano in nessun motel; se tutti i giorni, immancabilmente, uno vive incalzato da umilianti cartelli su cui sta scritto bianchi e di colore; se il suo nome di battesimo diventa negraccio, il secondo nome ragazzo ( qualunque sia la sua età) e il cognome diventa ‘ John’, e se per sua moglie o sua madre nessuno usa mai il titolo di cortesia di  signora Tal dei tali; se il fatto di essere un nero lo tormenta di giorno e l’ossessiona di notte, lo costringe a vivere sempre in punta di piedi, senza sapere che cosa può capitare da un momento all’altro, se lo sentire angustiato da ogni sorta di paure interiori e da ogni sorta di risentimento verso l’esterno; se uno non può mai smettere di lottare contro la corrosiva sensazione di non essere nessuno… se tutte queste cose accadessero a voi, capireste perché per noi è difficile aspettare. Arriva il momento in cui la coppa della sopportazione trabocca, e gli uomini non accettano più di sprofondare nell’abisso della disperazione. Spero, signori, che possiate comprendere la nostra legittima e inevitabile impazienza. Sembrate molto in ansia per la nostra dichiarazione di disponibilità a violare la legge. Si tratta senza dubbio di una preoccupazione legittima. Dal momento che con tanta diligenza noi insistiamo perché sia osservata la sentenza emanata nel 1954 dalla Corte suprema, in base alla quale il regime segregazionista è bandito dalle scuole pubbliche, potrebbe in effetti apparire un paradosso che noi stessi, consapevolmente, ci disponiamo a violare le leggi. Si potrebbe chiedere: Come potete propugnare la violazione di alcune leggi e l’osservanza di altre? Ora una simile posizione viene definita estremista. Ma sebbene sul momento mi disturbasse essere messo nel novero degli estremisti, continuando a riflettere sull’argomento sono arrivato pian piano a ricavare una certa soddisfazione da questa etichetta. Gesù non era forse un estremista dell’amore?  Amate i vostri nemici, fate bene a coloro che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi calunniano e vi perseguitano [Lc, 6, 27? 28]. Amos non era forse un estremista della giustizia? Il diritto abbia il suo corso come l’acqua, e la giustizia come un fiume perenne [Am, 5, 24]. Paolo non era forse un estremista del vangelo cristiano? Io porto nel mio corpo le impronte di Gesù [Gal, 6, 171]. Martin Lutero non era forse un estremista?  Qui sto e non posso altrimenti, che Dio mi aiuti. E John Bunyan: Preferisco restare in prigione fino alla fine dei miei giorni piuttosto che fare scempio della mia coscienza. E Abraham Lincoln: Questa nazione non può sopravvivere schiava per metà e libera per metà. E Thomas Jefferson: Noi riteniamo queste verità essere evidenti di per sè: che tutti gli uomini sono creati uguali….

Perciò non si tratta tanto di sapere se siamo estremisti o no, ma piuttosto quale tipo di estremisti siamo. Siamo estremisti dell’odio o dell’amore? Siamo estremisti nel difendere l’ingiustizia o nell’estendere l’ambito della giustizia? Nella drammatica scena del calvario ci sono tre uomini crocefissi. Non dobbiamo mai dimenticare che tutti e tre sono stati crocefissi per lo stesso delitto, un delitto di estremismo: due erano estremisti dell’immoralità, e quindi sono caduti al di sotto del loro 7 ambiente; il terzo, Gesù Cristo, era un estremista dell’amore, della verità, della bontà, e in virtù di questo si è innalzato al di sopra del suo ambiente. Forse gli stati del Sud, la nazione e il mondo hanno un estremo bisogno di estremisti creativi. Ho viaggiato in lungo e in largo in Alabama, nel Mississippi e in tutti gli altri stati del Sud. Nelle afose giornate estive e nelle frizzanti mattinate autunnali ho guardato le bellissime chiese del Sud, con le loro alte guglie puntate verso il cielo. Ho osservato il profilo imponente degli edifici dove si attua l’educazione religiosa. Mi sono sorpreso più e più volte a pensare: Di che genere sono le persone che pregano qui? Chi è il loro Dio? Dov’era la loro voce quando dalle labbra del governatore Barnett scaturivano parole di compromesso interlocutorio e di nullification? Dov’erano, quando il governatore Wallace faceva risuonare una fanfara di sfida e di odio? Dov’erano le loro voci a sostegno quando uomini e donne neri, feriti e stanchi, hanno deciso di sollevarsi dalle buie segrete dell’autocompiacimento fino ai monti luminosi della protesta creativa?

Sì, questi interrogativi sono ancora nella mia mente. Profondamente deluso, ho pianto per la negligenza della chiesa. Ma siate certi che le mie lacrime erano lacrime d’amore. Non può esserci una profonda delusione se non dove c’è un profondo amore. Sì, io amo la chiesa. Come potrei non amarla? Mi trovo in una situazione unica: sono il figlio, il nipote e il pronipote di pastori. Sì, vedo la chiesa come il corpo di Cristo. Ma, ahimè, di quanti sfregi e cicatrici abbiamo coperto questo corpo per negligenza verso la società e per la paura di apparire non conformisti!

C’è stato un tempo in cui la chiesa era molto potente: il tempo in cui i primi cristiani si rallegravano per essere considerati degni di soffrire per quello in cui credevano. Allora la chiesa non era un semplice termometro che misurava le idee e i principi dell’opinione pubblica: era un termostato, che trasformava il costume della società. Quando i primi cristiani entravano in una città, le autorità si allarmavano e subito cercavano di imprigionare i cristiani perché disturbavano l’ordine pubblico ed erano agitatori venuti da fuori. Ma i cristiani non cedettero, convinti di essere una colonia del cielo, chiamati a obbedire a Dio e non agli uomini. Erano un piccolo numero, ma la loro dedizione era grande. Erano troppo inebriati di Dio per cedere a intimidazioni spaventose. Con il loro impegno e il loro esempio misero fine a mali antichi, come l’infanticidio e le lotte fra i gladiatori. Oggi la situazione è diversa. Troppo spesso la chiesa di oggi è una voce inefficace, debole, dal suono incerto. Troppo spesso è la prima a difendere lo status quo. Per lo più, la struttura di potere di una comunità non è affatto allarmata dalla presenza della chiesa, anzi è confortata dalla silenziosa – e spesso perfino stentorea approvazione dello status quo da parte della chiesa stessa. Ma sulla chiesa incombe il giudizio di Dio, come non era mai accaduto prima. Se la chiesa di oggi non recupera lo spirito di sacrificio della comunità ecclesiale dei primi tempi, perderà la sua autenticità, renderà vana la fedeltà di milioni di aderenti, e sarà messa da parte come una associazione qualunque, priva di qualsiasi senso per il XX secolo.

Tutti i giorni incontro dei giovani in cui la delusione nei confronti della chiesa si è trasformata in vera e propria avversione. Forse sono ancora una volta troppo ottimista. Forse la religione organizzata è legata allo status quo da nodi talmente inestricabili da non essere in grado di salvare la nazione e il mondo intero? Forse devo rivolgere la mia fede alla chiesa interiore e spirituale, la chiesa all’interno della chiesa, come vera ecclesia e speranza del mondo. Ma anche qui, sono grato a Dio che nelle file della religione organizzata alcune anime nobili si siano liberate dalle catene paralizzanti del conformismo e si siano unite a noi per prendere parte attiva alla lotta per la libertà. Hanno lasciato la sicurezza delle loro congregazioni e insieme a noi hanno percorso le strade di Albany in Georgia. Hanno viaggiato per le autostrade del Sud nei tortuosi percorsi dei ‘ viaggi della libertà’. Sì, sono andati in prigione con noi. Alcuni sono stati espulsi dalle loro chiese, hanno perduto il sostegno dei loro vescovi e confratelli ecclesiastici. Ma hanno agito sostenuti da una fede assoluta: che la giusta ragione, anche quando viene sconfitta, è più forte del male trionfante. La loro testimonianza è stata il sale dello spirito che in questi tempi tumultuosi ha preservato intatto il significato autentico del vangelo. Sono riusciti a scavare una galleria di speranza nella montagna tenebrosa della delusione. Io spero che la chiesa nel suo insieme raccoglierà la sfida di quest’ora decisiva. Ma anche se la chiesa non dovesse venire in aiuto della giustizia, non dispero del futuro. Non ho timore circa l’esito della nostra lotta a Birmingham, anche se per ora le nostre motivazioni rimangono incomprese. Raggiungeremo il traguardo della libertà, a Birmingham e in tutta la nazione, perché la libertà è l’obiettivo dell’America. Per quanto maltrattati e vilipesi, il nostro destino è legato a quello dell’America. Prima che i pellegrini sbarcassero a Plymouth, noi eravamo qui. Prima che la penna di Jefferson vergasse le solenni parole della Dichiarazione d’indipendenza sulle pagine della storia, noi eravamo qui. Per oltre due secoli i nostri antenati hanno lavorato in questo paese senza ricevere compenso; hanno fatto del cotone una ricchezza; hanno costruito le case dei loro padroni mentre pativano macroscopiche ingiustizie e vergognose umiliazioni: e tuttavia, grazie a una inesauribile vitalità, hanno continuato a crescere e a svilupparsi. Se le crudeltà inaudite della schiavitù non sono riuscite a fermarci, l’opposizione con cui oggi abbiamo a che fare dovrà senza dubbio fallire. Noi conquisteremo la nostra libertà, perché nelle nostre reiterate richieste si incarnano il sacro retaggio della nostra nazione e l’eterna volontà di Dio. Se in questa lettera ho detto qualcosa che dipinge la verità in colori troppo accesi e indica impazienza irragionevole, vi prego di perdonarmi. Se ho detto qualcosa che dipinge la verità in colori troppo smorti e indica che la mia capacità di pazientare mi permette di accettare qualcosa di meno della fraternità, prego Dio di perdonarmi".

Primo Levi, l’etica degli indignati. «Nella vita politica nostra mi pare ci sia stata una mutua degradazione. Ci si influenza a vicenda, fatalmente. Fra dominante e dominato c’è uno scambio fatale per cui il livello morale della classe dominante influenza il livello morale dei soggetti, dei cittadini. E viceversa». Un pensiero che per cupo realismo e la forza della sua attualità, sembra appena sgorgato in questo Paese. È il pensiero forte di Primo Levi, in un’intervista rilasciata a «L’Unità» il 26 settembre del 1986, pochi mesi prima della sua morte. Era l’11 aprile del 1987, quando l’autore conosciuto in tutto il mondo per il romanzo capolavoro sulla Shoah, Se questo è un uomo lasciò questa terra. 

L’odio degli indignati da fake news, scrive Marco Santambrogio il 3 settembre 2017 su “Il Sole 24 ore". Secondo Spinoza, è compito della democrazia «contenere gli uomini per quanto è possibile entro i limiti della ragione, affinché vivano nella concordia e nella pace». Acuto come sempre, Spinoza vede un nesso strettissimo tra democrazia, ragione e pace. Invece, è una tecnica collaudata degli autocrati quella di soffiare sul fuoco delle passioni - soprattutto passioni negative come odio, paura e indignazione. Niente di meglio di una guerra contro un nemico esterno o interno per salvare un trono. Dopo l’odio nazionalistico e razziale del Novecento, l’indignazione è oggi la passione più diffusa in politica, non solo in Italia. In Spagna ha dato nome a un intero movimento. Come mai? È semplice. Noi non ci indigniamo per un torto o un’ingiustizia qualunque. Immaginate che Arsenio Lupin, ladro gentiluomo, vi rubi i gioielli dalla cassaforte. È ingiusto e potete protestare, dispiacervi, arrabbiarvi. Ma sarebbe inappropriato indignarsi. Lupin è un ladro dichiarato, non c’è malafede da parte sua. Infatti l’indignazione presuppone sempre una particolare forma di disonestà: la malafede. Ci indigniamo solo con chi commette scientemente un’ingiustizia e fa finta di agire per alti ideali. A questo punto ci sentiamo in diritto di fargli qualsiasi cosa. A bandito, bandito e mezzo - come si suol dire. Per questo l’indignazione è così utile in politica: squalifica gli avversari e abbassa il livello dell’autocontrollo. Ci sono diversi modi per scatenare l’indignazione contro gli avversari politici. In Numero zero, Umberto Eco ne ha illustrati alcuni, ma si tratta di metodi d’altri tempi, che cercavano di salvare le apparenze e si avventavano su avversari che avevano un nome e un cognome. Da allora si sono fatti grandi progressi. Oggi c’è gente che diffonde spudoratamente, non so se attraverso Youtube, Facebook, Twitter o Instagram, la notizia che i vaccini sono pericolosi («Sono fatti con plutonio, zinco, polifosfati!») e raccoglie mezzo milione di visualizzazioni. Altri scrivono che gli «immigrati» hanno festeggiato la strage di Manchester in un bar di Pioltello. Queste sono fake news: notizie false diffuse allo scopo di scatenare odio, paura e indignazione. Chi le diffonde non ha bisogno di fare nomi e cognomi dei presunti colpevoli perché chi le legge pensa di sapere già a chi attribuire la responsabilità di tali nefandezze. (Chi ha messo il plutonio nei vaccini? Per la destra sarà stato il PD, per la sinistra, Renzi.) Si evita il reato di calunnia o di procurato allarme e intanto l’indignazione cresce. Tanto più si eccitano le passioni, tanto più si abbassano le difese della ragione e si riduce il prezioso capitale della fiducia nei concittadini e nelle istituzioni. Dovremmo introdurre regole più severe per contenere le fake news sul web? Beppe Severgnini pensa che il diritto penale sia stato preveggente e gli strumenti giuridici esistano già ma manchi la volontà di procedere, perché continuiamo a «considerare il web una sorta di Grande Stadio dove tutto è permesso». A me sembra ottimistico. La volontà di procedere è mancata anche quando fake news e post-verità circolavano liberamente nei programmi di discussione politica in tv. Circolano ancora. Se Spinoza vedesse quei programmi resterebbe inorridito. Altro che «contenere gli uomini per quanto è possibile entro i limiti della ragione». C’è poco di razionale in quelle discussioni. Non sono ammessi ragionamenti che durino più di venti secondi. È invece consentito gettare il sospetto di malafede sugli avversari per suscitare l’indignazione degli spettatori. Quali sono invece le regole della discussione razionale? Un bellissimo libro, il Robert’s Rules of Order, lo spiega anche a chi non ha mai letto Spinoza. Henry Roberts era un ingegnere dell’esercito degli Stati Uniti che un giorno si trovò a presiedere l’assemblea di una chiesa battista e restò molto insoddisfatto del modo in cui si era comportato. Decise che prima di farlo di nuovo avrebbe studiato a fondo le procedure parlamentari. Per fare cosa utile a tutti coloro che si trovano a partecipare a assemblee, consigli o comitati, decise di scrivere un breve manuale sull’argomento. Oggi il Pocket Manual of Rules of Order for Deliberative Assemblies è l’autorità indiscussa in materia e le sue regole sono seguite in tutte le assemblee degli Stati Uniti, dalle associazioni sportive alle società per azioni. Se avete mai partecipato all’assemblea del vostro condominio, saprete che per procedere con ordine e fare in modo che tutti si sentano trattati con equità, non si può fare di testa propria: bisogna seguire regole prestabilite e accettate da tutti. Di sicuro avrete sentito la mancanza di uno strumento di questo tipo, poiché in Italia non esiste niente del genere. Tutte le regole di Robert sono violate in un «normale» dibattito televisivo. Ad esempio, una regola fondamentale stabilisce che il tema di un dibattito, cui è obbligatorio tenersi, non siano mai le persone presenti, ma la mozione sul tappeto o l’argomento fissato. Si può criticare il ragionamento di un avversario, mai l’avversario personalmente. Non si possono attaccare o mettere in questione nemmeno le motivazioni per cui un avversario sostiene quello che sostiene. Qualunque riferimento personale va evitato. «Menzogna», «bugiardo» e simili sono termini da evitare. Perché? Perché è vietato insinuare che l’avversario sia in malafede. Un’altra regola dice che i moderatori non possono dare o togliere la parola a loro piacimento. I dibattiti sulle nostre tv sono spettacoli per un pubblico indifferente al fair play e alla pacatezza di cui l’intelligenza ha bisogno per capire chi ha ragione e chi ha torto. Servono ad accendere le passioni. L’indignazione è la più politica delle passioni. Ci sono paesi in cui si seguono le regole di Robert e paesi in cui non si seguono. Perché la differenza? Forse nei primi si possono seguire le regole della fairness perché ci sono meno mascalzoni che le violano, mentre i secondi sono afflitti da livelli di mascalzonaggine così alti che è impossibile affrontarli in politica indossando i guanti? O è vero invece il contrario e proprio quando le regole esistono e molta gente per bene cerca di farle rispettare ci sono meno mascalzoni in giro? Non so rispondere ma sono sicuro che là dove le regole sono rispettate si vive meglio. Inversamente, quando si assume di default che gli avversari politici siano in malafede e si soffia sul fuoco dell’indignazione, può succedere come in Olanda nel 1672. Johan de Witt, un bravo matematico che per vent’anni aveva governato il paese con moderazione, fu linciato insieme al fratello dalla folla aizzata dagli orangisti, massacrato, appeso a testa in giù, squartato. Le sue viscere arrostite furono divorate dalla folla. «Ultimi barbarorum» commentò Spinoza.

ODIO. COME TI PRIVATIZZO ANCHE LA CENSURA, scrive il 26 luglio 2017 Giorgio Cremaschi su "Alga News". La senatrice del PD Filippin, con il concorso entusiasta di berlusconiani e centristi, ha presentato una legge per rimuovere le notizie scomode. Se la legge passasse, qualsiasi potente e prepotente di turno potrebbe rivolgersi al Garante della Privacy, che in cinque giorni cancellerebbe dalla rete e da qualsiasi altro luogo quella notizia, quel commento. Così anche la censura verrebbe privatizzata, come tutto il resto, e avremmo un funzionario del governo, questo in realtà è il Garante, che amministrerebbe la libertà di opinione per conto dei poteri forti. L’avesse fatto il governo venezuelano sentireste che indignazione da parte dei professionisti dei diritti umani altrui. Invece da noi questa legge liberticida va avanti senza particolare scandalo, avvalendosi della copertura della Presidente della Camera e di tutta la compagnia degli indignati contro “l’odio”. L’on. Boldrini da tempo ha richiesto misure contro le Fake News in rete, con uno strabismo da far invidia ad una ambasciatrice USA degli anni 50. Così in un paese ove il 98% della stampa è in mano a gruppi di potere industriali e finanziari e ove abbiamo misurato con il referendum costituzionale il pluralismo reale delle tv. In un paese dove il pensiero unico, i suoi dogmi, le sue bugie sono presentati come verità assoluta dai mass media. In un paese dove basterebbe una settimana di verità su giornali e tv per far saltare il palazzo, in questo paese al novantesimo posto nel mondo per la libertà d’informazione, la presidente della Camera e il PD se la pigliano con la rete. Nella quale si annidano certo anche bufale e posizioni ignobili, ma che resta comunque la principale fonte di delegittimazione delle falsità e delle ipocrisie del potere. Che per questo vuole la censura. Ora vengono messi in campo addirittura i sentimenti, una commissione parlamentare dedicata alla deputata laburista Jo Cox assassinata durante la Brexit, ha chiesto misure contro ogni forma di odio. Gli odiatori dell’odio partono da veri fatti orribili, persecuzioni, violenze omicidi. Oppure da manifestazioni odiose di sessismo, razzismo e fascismo. Però si fa finta di dimenticare che le leggi per colpire questi reati ci sono tutte e se questo non avviene è per colpa di governi, autorità ed istituzioni, non della carenza legislativa. Inventarsi ora il generico reato d’odio significherebbe affidare al potere il diritto di giudicare i sentimenti. Perché allora non obbligare per legge all’amore? Io che odio il capitalismo e gli sfruttatori, che faccio mie le parole del grande Edoardo Sanguineti, che scrisse che i poveri dovrebbero tornare all’odio di classe, perché i potenti comunque li odiano; io che odio il potere ingiusto sarò fuorilegge? Mentre nei luoghi e nel mercato del lavoro i diritti fondamentali delle persone sono cancellati nel nome del mercato, mentre le leggi Minniti colpiscono le opposizioni e le lotte sociali, ora la censura sulle notizie e il reato d’odio dovrebbero anche disciplinare le coscienze. Scriveva Primo Levi che il fascismo si ripresenta sempre, ma mai allo stesso modo. Sarà per questo che la Presidente della Camera ha accolto con tutti gli onori ed i consensi il presidente del cosiddetto parlamento ucraino, senza riconoscere in lui il fondatore di un partito neonazista. Si vede che, come tutti i potenti, era riuscito a mascherare il suo odio con ipocrisia e malafede.

Superata in peggio la profezia di Umberto Eco sui social, al voto andrà un popolo geneticamente modificato. Facebook nato probabilmente con diverse intenzioni ha avuto come effetto trasformare nel profondo le personalità, cambiare non solo le persone dal di dentro, ma anche l’atteggiamento di vita e delle relazioni, amplificare ed estremizzare i propri convincimenti. La diagnosi di Eco, secondo cui si dava voce a milioni di imbecilli, oggi gli stessi imbecilli sono diventati rissosi e livorosi, scrive Giuseppe Musmarra il 14 settembre 2017. La battaglia è perduta, direi completamente. Secoli di progresso civile buttati al vento. Siamo regrediti a un livello di gogna medievale, gli istinti più bassi di rabbia e di vendetta, auspici di pena di morte, maledizioni varie, insulti, volgarità, certezze senza dubbi, invettive senza educazione. Una barbarie, la barbarie dei commenti su Facebook, contro cui ormai non c’è nulla da fare. Una barbarie così rapidamente sviluppatasi negli ultimi anni da influenzare anche le coscienze degli elettori e il prossimo voto, in primavera. Una barbarie che somiglia a un silenzioso colpo di Stato, a un popolo che andrà alle urne geneticamente e inconsapevolmente modificato. Non c’è bisogno di evocare il terribile caso dello stupro di Rimini. È sufficiente pensare al dramma della povera bimba morta a Trento di malaria e alle assurdità scritte e lette in rete, alle diagnosi sbrigative e sprezzanti fatte da gente che non ha mai aperto un libro di medicina. Ma potremmo arrivare episodi del tutto minori, eppure rivelatori.  Proprio ieri un giornale ha pubblicato l’innocua notiziola di una sentenza della Cassazione che impone al papà di mantenere la figlia 26enne che non studia e non lavora. Una banalità, quasi una vicenduola di colore che un tempo avrebbe fatto sorridere. I commenti sono agghiaccianti: è una cretina, piuttosto andrei sotto i ponti pur di non mantenere una scema opportunista così, è tutta colpa della famiglia. Eppure non sappiamo cosa sia realmente accaduto in quella casa, in quella famiglia. Non sappiamo nulla di nulla, però parliamo di tutto, e insinuiamo, e sentenziamo. Ormai Facebook è diventato un enorme moltiplicatore di tensione, un luogo di tifoseria senza il minimo approfondimento, una piazza tribale dove si va per scontrarsi e darsele di santa ragione. Superata tristemente anche la diagnosi di Eco, secondo cui si dava voce a milioni di imbecilli, oggi gli stessi imbecilli sono diventati rissosi e livorosi. Non sono infrequenti i casi di persone, conoscenti, che hanno bisogno di prendersi una pausa perché non reggono più lo stress. Il problema è che ciascuno si è costruito su misura un palco improvvisato da commentatore, dove spesso tra strafalcioni grammaticali e sproloqui senza competenza e senza senso fa a fette il resto del mondo o divide il resto del mondo in amici che la pensano come lui e nemici da insultare o insolentire. Vivi o morti non fa differenza.

Chiunque può fare a pezzi la memoria di Montanelli o di Pavarotti, insultare indifferentemente Montale o la Boldrini o Salvini. Nessuno è risparmiato da questo tribunale del popolo, celebrità o vicini di casa, conoscenti con cui si litiga virtualmente ma alla fine realmente. E per nessuno o quasi c’è pietà, o comprensione, o attesa, o dubbio. La parrucchiera di Brisighella si sente esperta di vaccinazioni e certamente conosce un amico di un amico il cui figlio è diventato autistico. L’oste di Pizzo Calabro sa per certo che i medici a Trento hanno sbagliato, che hanno fatto morire Chiara. Il godimento per il nemico in difficoltà è garantito, l’esibizione di sé, dei propri sgrammaticati convincimenti è così un momento di sfogo, di riscatto esistenziale importante come l’ossigeno che si respira. Sì, perché quel palco è diventato la nostra stessa vita, senza più alcuna distinzione tra virtuale e reale anzi si potrebbe dire che nulla è più reale del virtuale. Si potrebbe ironizzare sui “selfie”, ma i “selfie” e l’esibizione estetica di sé sono la parte più candida, più ingenua, più accettabile. Poi c’è il pettegolezzo maligno, il regolamento di conti a suon di like messi o non messi, in una spirale che somiglia a un delirio. Facebook nato probabilmente con diverse intenzioni ha avuto come effetto trasformare nel profondo le personalità, cambiare non solo le persone dal di dentro, ma anche l’atteggiamento di vita e delle relazioni, amplificare ed estremizzare i propri convincimenti. Basti vedere un presidente onorario di Cassazione come Ferdinando Imposimato scrivere palesi assurdità sui vaccini in relazione alla povera bimba morta a Trento. Le prossime elezioni si giocheranno proprio su questo campo di battaglia, che vale più di mille comizi, diecimila manifesti e centomila discorsi.

È un moderno luccicante Colosseo, un’arena dove la folla tumultuosa decide la tua vita o la tua morte. E non vede l’ora di schiacciare un bottone.

«Gli haters sono malati di protagonismo», scrive Giulia Merlo il 13 Settembre 2017 su "Il Dubbio". Intervista al professor Elia Annibale, ordinario di Linguistica e nuovi media all’università di Salerno, che analizza il profilo degli haters. «Chi odia sul web è un soggetto con una credenza estrema che ha bisogno di sentirsi protagonista». Il professor Elia Annibale, ordinario di Linguistica e nuovi media all’università di Salerno, analizza il profilo degli haters del web e spiega che cosa muove il loro comportamento: «Il bisogno di esprimere un potenziale ideologico», nelle forme possibili grazie al cambiamento sociale e mediatico avvenuto negli ultimi quindici anni.

Professore, chi è l’hater del web?

«E’ un soggetto che vuole sentirsi protagonista giornalisti o mediatico, perché messo in grado di parlare a molti grazie al web. Un soggetto che diviene tale a causa di una congiuntura storica di cambiamento: fino a poco tempo fa la possibilità di parlare a un pubblico indifferenziato era pre- rogativa dei produttori di comunicazione di massa come i giornali o la televisione. Oggi, invece, la diffusione pervasiva web ha fatto sì che chiunque può diventare protagonista di notizie. Si è capovolto il meccanismo: ciò che era prerogativa del giornalismo è diventata uno strumento a disposizione di ogni cittadino».

E’ bastato questo spostamento di prospettiva a determinare il fenomeno di oggi?

«No, parallelamente è avvenuta anche una trasformazione a livello di comunicazione politica. Basti pensare al “picconatore” Cossiga o a Achille Occhetto, che parlava con la stampa prima che con il comitato centrale del Pci. La politica come il giornalismo ha subito un cambiamento epocale, che è sfociato nella creazione di partiti personali, basati sulle doti di comunicazione dei leader. Questa trasformazione nei mass media e nel mondo politico, cui si è sommata l’ipercentralizzazione delle capacità mediatiche del web, ha prodotto l’escalation di protagonismo che oggi permea il web».

Ma che cosa genera questo bisogno così spasmodico di commentare e condividere contenuti sul web, che poi sfocia in odio?

«Per capirlo basta guardare l’infinità di commenti alle notizie sui siti online dei grandi quotidiani, che oggi sono una delle valvole di sfogo di un’ansia partecipativa degli individui. Prima, invece, era tutto più fisico: esistevano i partiti, le associazioni, si manifestava e ci si incontrava faccia a faccia anche in scontri violenti, con dure e nette separazioni ideologiche. Oggi, tutto questo potenziale ideologico si esprime sul web».

Senza alcuna differenza?

«Al contrario con una differenza enorme. Allora un confronto faccia a faccia imponeva a chi lo cominciava di rischiare, esponendo la propria credenza. Sul web, invece, attaccare qualcuno mette molto meno a rischio – per non dire per nulla – chi lo porta avanti. Questo libera il potenziale di una credenza di costruzione fideistica: l’individuo è portato a esprimersi sul web in modo duro e violento e lo fa per sentirsi protagonista della notizia, anche solo per un momento. Un fenomeno, questo, che è esploso e di cui non credo ci libereremo.

Quindi questo odio è frutto di una ideologica?

«Chi si esprime in questo modo sul web lo fa, in sostanza, perché è portatore di credenze e ideologie estremizzate e, in questo modo, ha la possibilità di sentirsi protagonista. Attenzione: non bisogna sottovalutare il fenomeno degli influencer nella comunicazione di massa, ovvero persone che, anche positivamente, hanno trovato il modo di monetizzare la loro presenza online e la loro capacità di generare interesse per ciò che scrivono e commentano».

E come si combatte questa spinta a sentirsi protagonisti attraverso l’odio?

«Io credo che l’unica cosa da fare sarebbe che giornalismo e politica prestassero maggiore attenzione. I giornalisti, in particolare, dovrebbero essere coscienti che pubblicare sul web tre notizie di fila in cui si parla di stupratori stranieri, senza aggiungere nei pezzi che gli extracomunitari condannati per tale reato sono solo il 12%, è una miccia per l’odio in rete. Oggi, basta non aggiungere un dato comparativo per dare a un razzista, per esempio, lo spunto per esprimere odio attraverso commenti e insulti su Facebook. Commenti che, inoltre, vanno ad alimentare un calderone telematico pieno di parole con la stessa carica d’odio».

E’ possibile una risposta giuridica?

«Io credo che la regolamentazione sia molto complessa, perchè si parla di eventi che viaggiano attraverso nuove tecnologie. Io credo che, prima di tutto, serva una risposta forte del giornalismo, perchè si sviluppi una cultura della comparazione e della complessità contro le cosiddette fake news».

Come si generano le fake news?

«Sostanzialmente le fake news sono uno strumento che serve a generare comunicazione elettronica di odio. Sono fatte apposta: chi le scrive lo fa per destabilizzare qualcosa, come ad esempio le istituzioni, oppure contro qualcuno».

Lei crede che anche il linguaggio si sia estremizzato? I commenti online sono spesso infarciti di parolacce.

«Io non credo. Il web non è altro che la banale amplificazione di ciò che accade nella società. Gli scambi di insulti e di violenza lessicale che si vedono negli incontri sportivi o nelle sedute parlamentari non sono molto differenti da ciò che si legge sul web e la liberazione data al turpiloquio deriva anche dal cinema e dalla televisione. In 15 anni abbiamo assistito a una escalation di volgarità, che però viene percepita come tale solo da una classe media. Un ragazzo, infatti, percepisce molto meno questo tipo di volgarità rispetto, ad esempio, ad una persona della generazione precedente».

Il G7 dell’Avvocatura dibatterà, all’interno del tema del “linguaggio dell’odio”, anche la questione della privacy. Lei ha parlato di bisogno di protagonismo: come si coniuga con la tutela dei propri dati personali?

«La questione è molto complicata. Basti pensare che i Social Network, oggi, informano gli utenti che, iscrivendosi, accettano che i loro dati personali diventino pubblici. Gli utenti, quindi, sono disposti a cedere la loro privacy pur di mantenere i vantaggi che un Social Network garantisce loro. Il punto, dunque, è che a chi si vuole sentire protagonista non importa nulla di mantenere la propria privacy. Tanto più, se sa che attraverso il web è possibile diventare una star».

E dunque una riflessione è necessaria?

«Certo, serve una riflessione culturale prima ancora che normativa. La tutela, infatti, passa per un cambiamento della cultura e soprattutto dell’approccio con i ragazzi più giovani su questo tema. La nostra società dovrebbe cominciare una riflessione profonda su che cosa significa essere immersi nel web. Anche perchè, oggi, le condotte ascrivibili a un reato sono circa il 6%, ma il restante 94% che non configura condotte dolose è comunque un comportamento che forma la cultura e la personalità degli individui».

Il male e la sua catarsi, l’odio narrato nei fumetti classici, scrive Luciano Lanna il 13 Settembre 2017 su "Il Dubbio". Da Paperino a Dylan Dog, come le strisce più famose hanno raccontato la genesi di questo sentimento. Ormai da tempo sdoganato come autentica forma di espressione artistica, definito dai più “letteratura disegnata”, come il mondo del fumetto tratta nelle sue molteplici manifestazioni il tema dell’odio? E in particolare con quali modalità lo fa il “fumetto classico”? Vanno infatti tralasciati nell’interrogativo generale i più recenti “graphic novel” – narrazioni disegnate con tutti i crismi narrativi e letterari – in cui è più che naturale che la tematica sia stata e venga affrontata sotto le angolazioni culturalmente più complesse. Parlando invece di “fumetto classico” ci riferiamo – questo va spiegato – alle storie a strisce e in “comics book” che hanno formato le generazioni degli ormai ex baby boomers. Da qualche tempo, sul fenomeno, una tendenza di pop- sofia si sta esercitando a individuare la filosofia implicita nei fumetti Disney, nei Peanuts, in Tex, Dylan Dog e nei super- eroi. E cosa ne scaturisce allora attorno alla tematica dell’odio? «È l’odio – annotava il filosofo Emil Cioran – a far andare le cose avanti quaggiù, a impedire che la Storia resti a corto di fiato. Sopprimere l’odio significa privarsi di eventi. Odio ed evento sono sinonimi. Dove c’è l’odio succede qualcosa…». Ovvio sottolineare che nelle storie a fumetti classiche la cornice generale non assume mai queste considerazioni. Ma non mancano, in compenso, tutta una serie di personaggi negativi che improntano la propria esistenza sulla tendenza a odiare. Difficile, forse, trovarli nell’universo Disney dove, comunque, Rockerduck, il miliardario rivale di Zio Paperone creato da Carl Barks e approfondito negli anni dai fumettisti italiani della scuderia Disney, si differenzia notevolmente da Paperon de’ Paperoni. Quest’ultimo continua sicuramente a vessare il nipote Paperino, ma non c’è in lui malvagità, semmai un paternalismo vecchi tempi. Rockerduck, invece, esprime esplicitamente un senso di invidia che sfocia a volte anche nell’odio per il suo rivale più ricco. Non a caso, Guido Martina, uno dei primi autori italiani, gli diede caratteristiche quasi da mafioso, facendogli organizzare perfino rapimenti, e affiancandogli talvolta come alleati quelli della Banda Bassotti. Quasi sempre sconfitto, di conseguenza la sua rabbia (e il suo odio) lo spingono a divorare la propria bombetta a morsi. Qualcosa di analogo nei fumetti di Tex Willer dove c’è, anche lì, un “odiatore” di professione: Steve Dickart, più conosciuto con il nome di Mefisto, un potente negromante, non solo odiatore del nostro ranger amico degli indiani, ma di fatto la nemesi del protagonista. Pazzo, crudele e vendicativo è impegnato a tempo pieno nell’odiare l’umanità e la convivenza pacifica tra statunitensi e nativi americani. Ma dove la figura degli haters assume centralità nell’ambito della narrazione fumettistica è nel genere rappresentato dai “supereroi”. «Alla loro nascita, sul finire degli anni ’ 30, i supereroi ristabilirono un rapporto diretto della coscienza collettiva con il mito», ha scritto Daniele Brolli nel suo Il crepuscolo degli eroi, studiando la genesi di Superman e di tutti i suoi colleghi delle strisce. Ed effettivamente, è attraverso di loro che una serie di questioni “filosofiche” hanno fatto irruzione nell’universo dei comics, in precedente diviso solo tra il genere avventuroso e quello comico- infantile. Superman – il progenitore di tutti – ha ripreso la forza di Achille e il suo tallone, surrogato nel sole rosso del suo pianeta Kripton e nella stessa kriptonite. Batman si è trasformato in un totem metropolitano, incarnando il retroterra simbolico degli uccelli notturni. La parabola dei Fantastici Quattro richiama il mitico Golem, creato dal rabbino Low nella magica Praga. Ma tutti quanti gli avversari di questi personaggi – le cosiddette “minacce” all’umanità – sono oggettivamente incarnazioni simboliche dell’odio. Un discorso che vale per Lex Luthor, antagonista di Superman, per lo psicopatico Joker, nemico giurato di Batman, per Norman Osborn, il Goblin avversario di Spiderman, o per il Dottor Destino, contro cui si battono i Fantastici Quattro. La presenza di questi haters è costante nel genere, sia nei fumetti della Dc Comics – la casa editrice di Superman e Batman sin dagli anni ’ 30 e ’ 40 – che in quelli della Marvel, che negli anni ’ 60 lancia i nuovi supereroi con super- problemi: Spiderman, Daredevil, Silver Surfer, i Fantastici Quattro, Thor e gli altri… Joker, ad esempio, compare sin dal primo fumetto di Batman nel ’ 40 e – a differenza degli altri avversari dell’uomo pipistrello che vengono sconfitti di volta in volta e spariscono – è una presenza seriale. Antagonista per eccellenza del Cavaliere Oscuro, è forse il cattivo più cattivo in assoluto dei fumetti. È l’odio fine a se stesso, messo in atto per puro gioco, imprevedibile, gratuito, incontrollabile. Il Dottor Destino, freddo, geniale e spietato, con la sua passione per la scienza e la magia e il suo passato tormentato, è invece l’odiatore più pericoloso della Marvel Comics. Mentre Norman Osborn/ Goblin è un personaggio così cattivo da avere la mente criminale fatta proprio per l’annientamento totale non solo dei suoi nemici ma forse della stessa umanità. Per non dire di Galactus, un enorme dio- cosmico- spaziale la cui carica di odio allo stato assoluto lo conduce a divorare pianeti. Nell’universo Marvel c’è infine un hater tutto particolare: è Magneto, un mutante che – odiando gli uomini per il loro razzismo – tende a coalizzare gli altri mutanti con lo scopo di distruggere il genere umano. Nel suo personaggio la persecuzione subita da giovane si trasformano in un rancore e un odio spropositato e quindi nell’idea, che caratterizza la sua figura nelle varie vicende degli XMen, di sterminare tutto il genere umano non mutante. Passando, infine, a un personaggio “made in Italy”, Dylan Dog, le sue avventure sono uno straordinario squarcio fumettistico dentro l’orrore e lo spirito dell’odio. Nato nell’ 86 dalla mente di Tiziano Sclavi e dalle chine di Claudio Villa e Angelo Stano, Dylan Dog è a oggi il fumetto più venduto in Italia. È stato forse l’unico periodico capace di affermarsi, oltre che come “fumetto di massa” – una tiratura che qualche anno fa ha superato il milione di copie al mese – anche come fumetto d’autore. Il personaggio di Dylan è un investigatore privato 34enne che vive a Londra: un uomo alla ricerca di demoni suoi e altrui con la saggezza di chi è sensibile a questioni sottili e complesse come la banalità del male, il mistero della morte, la diffusione devastante dell’odio. Non a caso, lui si definisce “indagatore dell’incubo”. La paura di fondo che emerge in tutte le sue storie è quella per il dilagare del male. Innumerevoli sono i clienti di Dylan che si rivolgono a lui nella speranza di trovare qualcuno che accolga e spieghi le loro paure, che creda all’esistenza dei loro timori e dei loro orrori, che non li confini nel mondo recluso della follia. La soluzione suggerita dagli autori è quasi sempre quella del non subire l’odio, dell’apertura al diverso, dell’apparentemente banale ma fondamentale capacità di amare. Ancora una volta, anche questo fumetto, alla stregua di altre forme espressive e estetiche, veicola un messaggio d’alternativa all’odio, offrendo al lettore una possibilità di consapevolezza e un’occasione – a tratti psicanalitica – per tentare di capire meglio se stessi e gli altri. E per disinnescare, in qualche modo, le ondate quotidiane dello spirito dell’odio.

Il grande nemico dell’insulto è il dubbio, scrive Lucrezia Ercoli il 12 Settembre 2017 su "Il Dubbio". L’aggressività, il “cosiddetto male”, per parafrasare un celebre libro dell’etologo Konrad Lorenz, oltre ad essere un istinto primordiale, è motore dell’evoluzione. «Le opinioni delle persone, su internet, sono mutevoli come il clima. Non è odio vero, non lo pensano davvero» spiega la protagonista di Odio universale, in originale Hated in the Nation, una delle più belle puntate dell’amata serie tv britannica Black Mirror. Il cinguettio di Twitter con il suono del disprezzo, la notifica Facebook con il rumore del dileggio. Una sintesi perfetta che ritrae l’inquietante metamorfosi di un sentimento ancestrale e immortale che impatta con l’universo dei social network. La puntata inizia con la storia di Jo Powers, un’editorialista – colpevole di aver scritto un articolo spietato contro una disabile – che diventa vittima di un vero e proprio linciaggio da parte del cosiddetto popolo del web. La pressione dell’odio virtuale la conduce, in circostanze sospette, alla morte. Ed eliminato un capro espiatorio, la gogna mediatica ne elegge un altro: nella puntata dai toni apocalittici si susseguono senza interruzione minacce di morte e veri cadaveri. La serie prodotta da Netflix, insomma, ci consegna l’obbligo di riflettere sui peccati d’odio digitale di cui, consapevolmente o meno, ci macchiamo ogni giorno. Il centro dell’analisi è la gogna pubblica che avviene quotidianamente su internet e che ha per protagonisti internauti che commentano e accusano, con una disinvoltura alimentata dall’assoluta mancanza di responsabilità garantita dall’indistinto popolo della rete. Un odio mediatico finora sconosciuto che si diluisce in una proliferazione infinita di avatar anonimi, in un’onda virtuale difficile da controllare e da arginare, che si nasconde dietro la viltà del gregge dove nessuno è colpevole e nessuno innocente. Un odio leggero che ha effetti pesanti. Il battito d’ali di una farfalla che provoca un uragano. Un uragano che è diventato il centro dell’importante incontro delle avvocature dei Paesi del G7: è infatti fondamentale discuterne e trovare soluzioni. A partire dalla storia di questo sentimento.

ORIGINE DEL MALE. Ma non dobbiamo farci ingabbiare in una liberatoria critica apocalittica che scarica la colpa sul perfido e perverso sistema mass mediatico. L’odio, se si rintraccia la sua natura antropologica, alberga da sempre nel cuore dell’uomo. È sempre esistito e non cesserà di esistere: fa parte delle caratteristiche essenziali che definiscono l’umano e che ne determinano la sopravvivenza. L’odio, infatti, non è solo una forza disgregativa e distruttiva. E, viceversa, l’amore non è solo un’energia aggregativa e costruttiva. Anche la passione amorosa è una potenza cannibalica che implica egoismo e possesso, isolamento e selezione, scelta ed esclusione. Odiare, al contrario, può essere un formidabile collante, un cemento che definisce e unisce con una forza più potente dell’amore. Non c’è Eros senza Thanatos, amore senza odio: le due forze indispensabili, diceva già Empedocle di Agrigento nel V secolo a. C., per tenere in equilibrio il mondo. Se è vero che l’uomo non è per natura una creatura mansueta, la dose di aggressività che si annida nei fenomeni legati all’odio nel mondo contemporaneo fa parte da sempre del corredo pulsionale della nostra specie. L’uomo è per natura un animale sociale che detesta i suoi simili. Anzi, l’aggressività, il “cosiddetto male” per parafrasare un celebre libro dell’etologo Konrad Lorenz, oltre a essere un istinto primordiale che esige di essere scaricato, è il motore dell’evoluzione della vita animale e umana.

Odi ergo sum, odio quindi sono. L’odio rafforza la nostra identità, localizzando all’esterno di noi ciò che non riusciamo a gestire all’interno: se il male è tutto proiettato nell’oggetto odiato, la rappresentazione ideale di noi stessi non è intaccata. E in più elaboriamo la frustrazione che riconosce nell’altro una differenza non assimilabile, uno scarto che ci meraviglia e terrorizza.

SENTIMENTO PLURALE. Se l’amore rimane un sentire singolare, l’odio diventa inevitabilmente plurale: il mio risentimento si salda con quello del vicino e si scaglia contro una persona o un’intera categoria. A livello sociale, l’odio si trasforma in strumento di coesione e in arma di propaganda. L’odio – ha scritto Umberto Eco in una nota bustina di Minerva – «non è individualista bensì generoso, filantropico, e abbraccia in un solo afflato immense moltitudini». Non è un caso che le dittature e i populismi, le religioni e i fanatismi lo utilizzino per saldare in modo indelebile la comunità dei proseliti. L’odio per un nemico comune unisce più di qualsiasi programma politico. Il fanatismo identitario utilizza l’odio come collante per fondare la comunità su valori intramontabili: il risentimento e la rivalsa. L’odio, come dice Lacan, non è stato messo ancora al posto che gli spetta. L’odio plasma, singolarmente e collettivamente, la visione di noi stessi e del mondo. La lotta per l’esistenza e l’odio, ci ricorda Lev Tolstoj, «sono le uniche cose che leghino gli uomini». In termini filosofici, potremmo parlare di una metafisica della convinzione contro lo scetticismo dell’incertezza. Noi contro loro. La luce contro la tenebra. I buoni contro i cattivi. Gli onesti contro i ladri. I virtuosi contro i viziosi. L’odio, in questi termini, è lo sforzo di cancellare l’ambivalenza, di estirpare tutto ciò che non si lascia definire, di annullare l’indeterminato. L’odio alimenta la produzione di coriacei stereotipi, definisce una cartografia della parte giusta e della parte sbagliata che non lascia spazio al dialogo e alla discussione. L’odio, quindi, non è una malefica invenzione della società iper tecnologizzata né dell’economia capitalista. Non è stata la tecnologia a renderci livorosi e malevoli. La rete non produce odio, ma funge da potente catalizzatore di un fenomeno originario inestirpabile. La tecnologia è un megafono che amplifica ciò che, già da sempre, siamo.

INDIGNAMOCI! Eppure non possiamo negare che il risentimento indignato che sfocia nella violenza verbale sia il mood dominante della nostra epoca. D’altronde “Indignamoci!” è l’imperativo morale che dirige i dibattiti quotidiani, dal bar alla televisione. Il motto, mutuato dal famoso pamphlet intitolato Indignezvous! di Stéphane Hessel, è un invito all’indignazione come panacea di tutti i mali, come risveglio della coscienza, come impulso verso l’azione. E l’indignazione si è diffusa esponenzialmente in una cultura convergente, dove i commenti rimbalzano da una piattaforma mediatica all’altra, senza soluzione di continuità. Grazie alle comunicazioni di massa, l’indignazione livorosa si è amplificata e diffusa con un raggio d’azione finora sconosciuto. Una grande fucina che ha dato voce al richiamo della foresta, al risveglio dell’istinto bestiale di chi agogna la vendetta più che la giustizia. Nel web si è aperta una pericolosa terra di mezzo dove la rabbia sociale e lo sdegno morale si confondono con la frustrazione e l’aggressività dell’anima ferina che alberga dentro di noi. Come ha scritto il sociologo Erich Fromm, «non c’è fenomeno che contenga così tanto sentimento distruttivo quanto l’indignazione morale, che permette all’invidia o all’odio di manifestarsi sotto le spoglie della virtù». E in una società virtuale dove tutto rimane online e niente può essere dimenticato, il risentimento, letteralmente il “sentire ancora, sentire di nuovo”, diventa il principale veicolo di una comunicazione che ritorna incessantemente sulle proprie ossessioni.

POPOLO DEL WEB. Il fumoso e indistinto “popolo del web” è il nuovo branco dove l’odio si dirige verso un nuovo nemico che, però, ha sempre le stesse caratteristiche: è debole, isolato, attaccabile e sconfiggibile. Dai riti tribali agli haters da tastiera, l’odio – per essere davvero efficace e vincente – deve seguire la stessa immutabile legge: colpire l’inerme e l’indifeso. Infatti, non c’è odio senza una folla che si scaglia contro un singolo. È sempre tutti contro uno. E le folle di cui parlava lo psicologo Gustave Le Bon, oggi pascolano nella piazza virtuale. E sono diventate, nella definizione del filosofo sudcoreano Byung- Chul Han, un vero e proprio “sciame” che non ha un’anima né uno scopo. Uno sciame sovraeccitato le cui opinioni si esprimono attraverso una costante Shitstorm – letteralmente una “tempesta di merda” – che assume i connotati dell’antica gogna. Sopravvive, nella sua versione digitale, l’antico castigo che affonda le radici nella nostra storia culturale e che esponeva l’accusato agli insulti del popolo in un luogo pubblico, con le mani legate e un cartello di accuse appeso al collo. “Signore dacci la nostra gogna quotidiana”. E puntuale ogni mattina arriva la flagellazione di turno. Con la folla del Colosseo mediatico che grida ai poveri gladiatori della politica: “Onestà! Onestà!”. Lo aveva già scritto Seneca in tempi non sospetti: «La prima arte che devono imparare quelli che aspirano al potere è di essere capaci di sopportare l’odio». Perfino la comicità, che dovrebbe essere orientata al buonumore, è infettata dall’odio. La satira si è trasformata in mero sarcasmo fondato sul dileggio e sull’offesa. L’ironia si è deformata in caustica derisione che disprezza ostentatamente l’oggetto di cui si occupa, in ghigno corrosivo incapace di nascondere l’odio settario di chi si prende troppo sul serio. E se le conseguenze di quest’odio impalpabile e volubile, senza pensiero e senza ragione, sono efferate e visibili? E se le parole colpiscono con la stessa brutalità delle azioni? Se non ci sono dei limiti a ciò che può essere detto, come potranno esserci a ciò che può essere fatto? Qual è il limite tra la libertà di espressione e l’istigazione all’odio e alla violenza? Siamo tutti chiamati a guardarci nel black mirror, nello “specchio nero” dove si intravede la nostra coscienza che gioca con le vite degli altri. Qualcuno ha definito così il rancore e il risentimento: «È come prendere un veleno e aspettare che l’altro muoia». L’odio che dilaga sul web, oltre a essere l’inestirpabile retaggio di un passato che non passa, è un’intossicazione pericolosa di cui siamo al contempo colpevoli e vittime. In una spirale senza uscita, l’odio si nutre vampirescamente dell’insoddisfazione che contribuisce ad alimentare e ci traghetta in un mondo barbaro e incivile che credevamo di aver abbandonato. Il clima è saturo di passioni biliose, ma forse proprio la cultura e la filosofia, amiche dell’indefinito e nemiche del fanatismo, possono rappresentare una – seppur temporanea – scialuppa di salvataggio contro l’odio settario e beota degli haters. L’odio infatti ha un solo nemico: il dubbio. Chi odia non può farsi lacerare dalle domande, è per definizione dogmatico e integralista. Perché, come chiosava giustamente il filosofo Ortega y Gasset, l’uomo saggio è colui che è tormentato dal sospetto di essere un imbecille, mentre solo l’imbecille è sempre fiero di sé.

I “Due stupri due misure” di Travaglio: ma qualcuno gli ha mai spiegato il Codice Penale? Mai una sua vera inchiesta giornalistica, mai un’indagine, che abbiano fatto scaturire l’azione penale della magistratura. Solo e soltanto fotocopie e salotti televisivi alla conquista di una visibilità. Senza disdegnare le aule di giustizia per i vari processi penali e civili subiti. Dimenticando di raccontare quelli che perde…scrive Antonello de Gennaro il 12 settembre 2017 su "Il Corriere del Giorno". A volte mi chiedo se Marco Travaglio abbia veramente il coraggio di credere nelle sue teorie astruse. Travaglio come ben noto ha una sua personalissima visione delle cose, che in qualcosa mi ricorda l' “affarismo” giornalistico editoriale di Vittorio Feltri, che chiede agli editori la percentuale sulle copie vendute in edicola. Questa è la seconda volta che mi tocca giornalisticamente occuparmi di lui. Il “Marchino” ha passato un’intera vita da “gregario”, ad acquisire e fotocopiare atti processuali, intercettazioni, interrogatori ecc. necessari a confezionare i suoi libri enciclopedici, firmando praticamente quasi tutti i suoi libri con il collega Peter Gomez, direttore del Fatto Quotidiano.it.   Travaglio è diventato ben noto a tutti negli ultimi anni solo e soltanto grazie alla visibilità televisiva offertagli da Michele Santoro, che stato il vero responsabile dell' “esplosione” dell’arroganza travagliana, ma intelligentemente negli ultimi tempi Santoro ha interrotto i contatti, uscendosene persino dagli accordi societari con il Fatto raggiunti tempo addietro. Mai una sua vera inchiesta giornalistica, mai un’indagine, che abbiano fatto scaturire l’azione penale della magistratura. Solo e soltanto fotocopie per i suoi libri, e onnipresenza nei salotti televisivi alla conquista di una visibilità. Senza disdegnare le aule di giustizia per i vari processi penali e civili subiti. Dimenticando chiaramente di raccontare quelli che perde…come per esempio quello davanti alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo a Strasburgo. Oggi Travaglio (insieme al suo fedele “scudiero” Marco Lillo), non sa più a che santo votarsi dopo che le procure di Milano e Roma (a cui si è aggiunto anche “last minute” quella di Napoli) hanno chiuso i rubinetti delle soffiate, che nel codice penale si chiamano “atti d’indagine” che sono notoriamente coperti dal segreto istruttorio, previsto dal Codice Penale, la cui pubblicazione è un reato. Quello stesso Codice Penale che il suo compagno di spiaggia, l’ex-pm Ingroia deve avergli ha inculcato non completamente durante le loro vacanze in spiaggia sotto lo stesso ombrellone. Incredibilmente ieri mattina il “Marchino” ha avuto la sfacciataggine di sostenere questa sua personalissima impressione e cioè “che esistano due codici penali, procedurali, informativi, politici ed etici: uno per i criminali “comuni”, l’altro per i colletti bianchi. L’affare si complica – aggiunge Travaglio – quando lo stesso orrendo crimine – nel nostro caso lo stupro – sono accusati di averlo commesso persone di diverso status sociale: prima gli ultimi della graduatoria, cioè un gruppo di immigrati a Rimini; poi due carabinieri in uniforme a Firenze”. Travaglio si lamenta sul fronte giudiziario, scrivendo e sostenendo che “i quattro immigrati di Rimini finiscono in carcere, mentre i due carabinieri di Firenze restano a piede libero (nemmeno ai domiciliari)”. Eppure, per i primi come per i secondi, è arduo sostenere che ricorrano le esigenze cautelari previste dalle rigidissime leggi italiane per poterli arrestare prima del processo (leggi scritte apposta dai politici per non far arrestare nessun colletto bianco, dunque nessun criminale di qualunque specie, ceto e censo): non possono concretamente inquinare le prove (ormai affidate all’esame del Dna, a video di telecamere o Iphone, al racconto delle vittime e dei testimoni); né sono sul punto di scappare (il pericolo di fuga dev’essere concreto e dimostrabile, tipo col biglietto aereo già comprato); né, essendo indagati coram populo per stupro, è prevedibile che si dedicheranno ad altri stupri. Ma chi andrà mai a invocare il “garantismo” o a denunciare un caso di “manette facili” per quattro “stranieri”? Quindi, anche per tacitare l’opinione pubblica e i politici pronti ad aizzarla, non si va tanto per il sottile e si butta via la chiave.” Mister “simpatia” made in Piemonte, sostiene che “per i carabinieri è diverso, anche se dovrebbe essere uguale: il caso è già di per sé abbastanza imbarazzante per l’Arma e per l’Italia (le due vittime sono americane), figurarsi la scena di due paia di manette sulla divisa della Benemerita. Eppure gli immigrati di Rimini hanno ammesso più dei Carabinieri di Firenze”. Niente di più FALSO. Gli immigrati di Rimini arrestati, in realtà non hanno ammesso proprio niente!

Sarebbe il caso che qualche bravo avvocato, ma uno veramente bravo e competente, o qualche magistrato serio (e ce ne sono!) e soprattutto indipendente dalle correnti politicizzate della magistratura, gli spiegasse qualche differenza. Mi permetto di provarci io umilmente. Travaglio dimentica qualche particolare: gli immigrati hanno violentato e stuprato nel vero senso della parola una povera ragazza polacca (picchiando il suo fidanzato) ed una trans peruviana. I due Carabinieri di Firenze, non hanno picchiato e violentato nessuno. Hanno solo approfittato dello stato alcolico delle due studentesse universitarie, abusandone sessualmente, ed offeso la divisa che indossano e quindi tutti i loro colleghi che in Italia garantiscono la legalità rischiando la vita per pochi soldi. Il che sicuramente costituisce un fatto molto grave e merita la sanzione penale e disciplinare che subiranno a breve. Ma da qui a richiedere le manette per i Carabinieri di Firenze ponendoli sullo stesso livello del branco di stupratori di Rimini passa un abisso! Travaglio diventa all’improvviso “garantista” sostenendo che nessuno si sogna di definire i quattro immigrati di Rimini dei “presunti stupratori” sostenendo che “se poi, puta caso, si scopre che uno dei quattro non ha stuprato nessuno”, chi se ne frega. I due carabinieri invece, essendo italiani e usi a obbedir tacendo, hanno almeno diritto alla qualifica “presunti stupratori”. Non contento attacca il comandante generale dei carabinieri Tullio Del Sette e la ministra della difesa Roberta Pinotti, sostenendo che “usano parole durissime” e, nel dubbio, li sospendono dal servizio in via “precauzionale” ed aggiunge “Giusto: nessuno può indossare la divisa di tutore della legge col sospetto di averla così orrendamente violata. Dice Del Sette, senz’attendere la sentenza definitiva, né quella provvisoria, né il rinvio a giudizio, né la richiesta del pm, “il primo dovere di un carabiniere è quello di essere un cittadino esemplare, di agire nell’onestà morale, nella piena legalità. Se non lo fa, tradisce una scelta di servizio”. Parole sante. Ma siccome “il Marchino” non ha simpatia per questo Governo che ha osteggiato sin dal suo primo minuto di vita , sostiene che “ad adottare il provvedimento sono un governo che non sospende quattro suoi membri indagati o imputati per gravi reati; e un comandante (Del Sette, appunto), indagato per rivelazione di segreto e favoreggiamento agli inquisiti dello scandalo Consip, cioè per aver rovinato l’indagine sulle tangenti per truccare l’appalto più grande d’Europa, che il Governo non sospende, anzi conferma“. Probabilmente al “Marchino” non deve essere ancora andato giù il fatto che il suo giornale non riesce ad avere sottobanco assolutamente nulla dai Carabinieri, dimenticando che nel frattempo sotto indagine (ed è ben più di una) vi è un ufficiale del NOE responsabile di far girare troppe “balle” investigative e troppe carte intorno alla “compagnia di giro” del Fatto Quotidiano. Secondo Travaglio “la fondatezza delle accuse a Del Sette è pari a quella delle accuse ai due carabinieri: la parola di due testimoni (gli ex dirigenti Consip Ferrara e Marroni) contro la sua. Certo, il favoreggiamento non è lo stupro: ma si può seriamente sostenere che un appuntato e un carabiniere scelto accusati di stupro infanghino l’Arma più del comandante generale accusato di spifferare segreti agli indagati di un mega-scandalo di corruzione?”. Marchino scrive dall’alto della sua autorefenziale superbia giornalistica che se “il primo dovere di un carabiniere è quello di essere un cittadino esemplare, di agire nell’onestà morale, nella piena legalità”, questo dovrebbe valere tanto per gli ultimi anelli della catena quanto, a maggior ragione, per il primo. Che ci fa ancora Del Sette al vertice dell’Arma? Che ci fa il generale Emanuele Saltalamacchia, indagato per gli stessi reati, al comando dei Carabinieri toscani (diretto superiore dei due presunti stupratori)? E che ci fa Luca Lotti, indagato per gli stessi reati, al ministero dello Sport?. In pratica secondo Travaglio, se uno viene indagato dovrebbe essere rimosso dalla sua poltrona. Ma allora di conseguenza anche lui stesso dovrebbe lasciare quella di direttore del suo giornale. Qualcuno dei suoi giornalisti dovrebbe spiegare e raccontare al direttore del “Fatto” che nella vicenda Consip Alfredo Romeo ha vinto il suo ricorso dinnanzi al Tribunale del Riesame e persino in Cassazione, ed a suo carico non sono state trovate prove di corruzione e tangenti ed infatti sono stati costretti a restituire ad Alfredo Romeo la proprietà e gestione delle sue aziende. Così come Travaglio dovrebbe chiedere scusa alla famiglia Renzi per aver reiteratamente diffamato Matteo Renzi, suo padre ed il ministro Luca Lotti, accusandoli (senza alcuna prova concreta e tangibile) di reati che non hanno mai commesso. Anzi come i fatti hanno dimostrato, hanno solo subito!

Ma alla fine esce la vera motivazione di questo editoriale a dir poco imbarazzante. Travaglio scrive che “Sugli stupri di Rimini e Firenze, tv e giornali hanno pubblicato i verbali, fin nei minimi e più raccapriccianti dettagli, degli indagati e addirittura delle vittime (che, trattandosi di testimonianze, sono coperte dal segreto), e i pm e gli avvocati ne hanno diffusamente parlato in interviste e conferenze stampa. (Falso ! n.d.a)  Secondo noi, è giusto così, visto l’interesse pubblico delle notizie. Peccato che le stesse regole non valgano per i politici e i potenti in genere: noi, ad esempio, per molto meno – notizie e intercettazioni segrete su Consip che infastidivano la Renzi Family –siamo stati perquisiti dalla Procura di Napoli, mentre quella di Roma indagava il pm Woodcock e la sua compagna” (cioè Federica Sciarelli, giornalista RAI notoriamente molto “vicina” alla compagnia di giro… del Fatto Quotidiano). Peccato che il Travaglio ed il Fatto Quotidiano non si soffermino su qualcos’altro.  I pm nell’interrogatorio agli ufficiali del NOE, il colonnello Sessa ed il capitano Scafarto. Hanno chiesto chiarimenti sul filone che riguarda la fuga di notizie sull’inchiesta e che vede indagati per rivelazione del segreto d’ufficio e favoreggiamento il ministro dello sport Luca Lotti, il comandante generale dell’arma Tullio Del Sette e quello della regione Toscana Emanuele Saltalamacchia.  Il colonnello Sessa del NOE secondo i magistrati avrebbe mentito sulle date. In sostanza, Sessa avrebbe avvertito con largo anticipo gli alti ufficiali delle indagini in corso, cosa che avrebbe permesso la fuga di notizie verso il ministro Lotti e, da questi, verso Tiziano Renzi. Le conversazioni Whatsapp trovate sul cellulare del capitano Scafarto dimostrano che lui avrebbe informato il comandante del Noe, Generale Sergio Pascali, in estate, mentre lui ha deposto di averlo fatto solo dopo il 6 novembre.  I magistrati hanno interrogato il capitano (ora maggiore) Scafarto al quale hanno chiesto chiarimenti sul suo ultimo interrogatorio, durante il quale aveva chiamato in causa il sostituto procuratore di Napoli, Henry John Woodcock, anche lui titolare di un filone di inchiesta su Consip. “Fu lui a dirmi di fare un apposito capitolo sul coinvolgimento dei servizi segreti”, aveva messo a verbale Scafarto.  La “storia” dei Servizi era quindi una bufala. Ma Travaglioquando vuole dimentica (o vuole dimenticare)!

Il suo vice direttore Lillo ha raccontato questo particolare a proposito della vicenda Consip: «Il giornalista del Corriere della Sera Giovanni Bianconi ha svelato per primo oggi l’indagine per rivelazione di segreto su Woodcock per l’inchiesta Consip. Io lo conosco bene. Mi ha incontrato proprio negli uffici della Procura di Roma una ventina di minuti prima dell’uscita del suo scoop. Né lui né l’Ansa che ha ripreso e ampliato la notizia aggiungendo il particolare di Federica Sciarelli indagata hanno ritenuto utile chiedere la mia versione su questa notizia. Dopo l’uscita del pezzo sul Corriere.it ho chiamato il collega per dirgli: “Giovanni, scusa perché quando mi hai incontrato non mi hai chiesto la mia versione come avresti fatto con un indagato per fuga di notizie qualsiasi come Luca Lotti?”. La risposta è stata: “Perché non ho messo il tuo nome e tu non sei una notizia”. Gli ho detto: “Hai messo la testata e tutti sanno che sono io. E poi scusa, sono un collega. Mi conosci. Ti avrei potuto spiegare come sono andate le cosee avresti fatto un pezzo più completo per il tuo lettore”. Mi ha risposto che gli avrei potuto mentire e quindi non era interessato alla mia versione». Un comportamento corretto quello di Bianconi, che sorprende Marco Lillo ed i suoi colleghi. Perchè? Semplice. Al Fatto Quotidiano non si preoccupano di pubblicare notizie inesatte o tendenziose, ed hanno una certa “allergia” ad autorettificarsi. Il “Marchino” così conclude il suo editoriale: “Dobbiamo dedurne che le fughe di notizie sono lecite per gli stupri e proibite per le mazzette? E dove sta scritto? Nel Codice del Marchese del Grillo?”. Travaglio purtroppo però non spiega ai suoi esigui lettori, che sono crollati con il suo arrivo alla direzione del Fatto Quotidiano, al posto dell’ottimo Antonio Padellaro (rimpianto dalla stragrande maggioranza dei giornalisti “fondatori” del giornale) quali sarebbero “le fughe di notizie sugli stupri”. Quelle sulla vicenda Consip invece lui le conosce molto bene…. E conosce molto bene i responsabili che hanno violato la Legge ed il Codice Penale. Povero “Marchino” Travaglio che gli tocca fare pur di vendere qualche copia in più del giornale e dei libri editi dalla loro casa editrice per far quadrare i conti...!

Per una più ampia valutazione del lettore, segnaliamo alcuni “precedenti” giudiziari sul giornalismo … di Marco Travaglio:

• Nel 2000 è stato condannato in sede civile per una causa intentata da Cesare Previti dopo un articolo su L’Indipendente del 24 novembre 1995: 79 milioni di lire, pagati in parte attraverso la cessione del quinto dello stipendio.

•  Nel giugno 2004 è stato condannato dal Tribunale di Roma in sede civile a un totale di 85.000 euro (più 31.000 euro di spese processuali) per un errore contenuto nel libro «La Repubblica delle banane» scritto assieme a Peter Gomez e pubblicato nel 2001. Nel libro, a pagina 537, così si descrive «Fallica Giuseppe detto Pippo, neo deputato Forza Italia in Sicilia»: «Commerciante palermitano, braccio destro di Gianfranco Miccicché… condannato dal Tribunale di Milano a 15 mesi per false fatture di Publitalia. E subito promosso deputato nel collegio di Palermo Settecannoli». Dettaglio: non era vero. Era un caso di omonimia tuttavia spalmatosi a velocità siderale su L’Espresso, su il Venerdì di Repubblica e su La Rinascita della Sinistra: col risultato che il 4 giugno 2004 sono stati condannati tutti a un totale di 85mila euro più 31mila euro di spese processuali; 50mila euro in solido tra Travaglio, Gomez e la Editori Riuniti, gli altri sparpagliati nel Gruppo Editoriale L’Espresso. Nel 2009, dopo il ricorso in appello, la pena è stata ridotta a 15.000 euro.

• Nell’aprile 2005 eccoti un’altra condanna di Travaglio per causa civile di Fedele Confalonieri contro lui e Furio Colombo, allora direttore dell’Unità. Marco Travaglio aveva scritto di un coinvolgimento di Confalonieri in indagini per ricettazione e riciclaggio, reati per i quali, invece, non era inquisito per niente: 12mila euro più 4mila di spese processuali. La condanna non va confusa con quella che il 20 febbraio 2008, per querela stavolta penale di Fedele Confalonieri, il Tribunale di Torino ha riservato a Travaglio per l’articolo Mediaset «Piazzale Loreto? Magari» pubblicato sull’Unità del 16 luglio 2006: 26mila euro da pagare; né va confuso con la citata condanna a pagare 79 milioni a Cesare Previti (articolo sull’Indipendente) e neppure va confuso con la condanna riservata a Travaglio dal Tribunale di Roma (L’Espresso del 3 ottobre 2002) a otto mesi e 100 euro di multa per il reato di diffamazione aggravata ai danni sempre di Previti, reato – vedremo – caduto in prescrizione.

•  Nel giugno 2008 è stato condannato civilmente dal Tribunale di Roma al pagamento di 12.000 euro più 6.000 di spese processuali per aver descritto la giornalista del Tg1 Susanna Petruni come “personaggio servile verso il potere e parziale nei suoi resoconti politici“. «La pubblicazione», si leggeva nella sentenza, «difetta del requisito della continenza espressiva e pertanto ha contenuto diffamatorio».

•  Nell’aprile 2009 è stato condannato dal Tribunale penale di Roma (articolo pubblicato su L’Unità dell’11 maggio 2007) per il reato di diffamazione ai danni dell’allora direttore di Raiuno Fabrizio Del Noce. Il processo sarebbe pendente in Cassazione.

•  Nell’ottobre 2009 è stato condannato in Cassazione (Terza sezione civile) al risarcimento di 5.000 euro nei confronti del giudice Filippo Verde, che era stato definito «più volte inquisito e condannato» nel libro «Il manuale del perfetto inquisito», affermazioni giudicate diffamatorie dalla Corte in quanto riferite «in maniera incompleta e sostanzialmente alterata».

•  Nel giugno 2010 è stato condannato civilmente dal Tribunale di Torino (VII sezione civile) a risarcire 16.000 euro al Presidente del Senato Renato Schifani, avendo evocato la metafora del lombrico e della muffa a «Che tempo che fa» il 10 maggio 2008.

•  Nell’ottobre 2010 è stato condannato civilmente per diffamazione dal Tribunale di Marsala: ha dovuto pagare 15mila euro perché aveva dato del «figlioccio» di un boss all’assessore regionale siciliano David Costa, arrestato con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa e successivamente assolto in forma definitiva.

•  Quindi la condanna più significativa. Si comincia in primo grado nell’ottobre 2008: Travaglio beccò otto mesi di prigione (pena sospesa) e 100 euro di multa in quanto diffamò Previti. L’articolo, del 2002 su l’Espresso, era sottotitolato così: «Patto scellerato tra mafia e Forza Italia. Un uomo d’onore parla a un colonnello dei rapporti di Cosa nostra e politica. E viene ucciso prima di pentirsi». Lo sviluppo era un classico “copia & incolla”, dove un pentito mafioso spiegava che Forza Italia fu “regista” di varie stragi. Chi aveva raccolto le confidenze di questo pentito era il colonnello dei Carabinieri Michele Riccio, che nel 2001 venne convocato nello studio del suo avvocato Carlo Taormina assieme a Marcello Dell’Utri. In quello studio, secondo Riccio, si predisposero cose losche, tipo salvare Dell’Utri, e Travaglio nel suo articolo citava appunto un verbale reso da Riccio. E lo faceva così: «In quell’occasione, come in altre, presso lo studio dell’avv. Taormina era presente anche l’onorevole Previti». E così praticamente finiva l’articolo.

L’ombra di Previti si allungava perciò su vari traffici giudiziari, ma soprattutto veniva associato a un grave reato: il tentativo di subornare un teste come Riccio. Il dettaglio è che Travaglio aveva completamente omesso il seguito del verbale del colonnello. Eccolo per intero: «In quell’occasione, come in altre, presso lo studio dell’avv. Taormina era presente anche l’onorevole Previti. Il Previti però era convenuto per altri motivi, legati alla comune attività politica con il Taormina, e non era presente al momento dei discorsi inerenti la posizione giudiziaria di Dell’Utri». Il giudice condannò Travaglio ai citati otto mesi: «Le modalità di confezionamento dell’articolo risultano sintomatiche della sussistenza, in capo all’autore, di una precisa consapevolezza dell’attitudine offensiva della condotta e della sua concreta idoneità lesiva della reputazione». In italiano corrente e più chiaro significa che Travaglio l’aveva fatto apposta, cioè aveva diffamato ben sapendo di diffamare. La sentenza d’Appello è dell’8 gennaio 2010 e confermava la condanna, ma gli furono concesse attenuanti generiche e una riduzione della pena. La motivazione, per essere depositata, non impiegò i consueti sessanta giorni: impiegò un anno, dall’8 gennaio 2010 al 4 gennaio 2011. Così il reato è caduto in prescrizione. «La sentenza impugnata deve essere confermata nel merito… (vi è) prova del dolo da parte del Travaglio». Il quale, ad Annozero, ha raccontato di un ricorso in Cassazione: attendiamo notizia sull’esito. Secondo voi, se sarà negativo Travaglio nè darà notizia? Abbiamo seri dubbi …

“Ciliegina sulla torta”. la Corte Europea dei Diritti Umani. I tribunali italiani non hanno violato il diritto alla libertà d’espressione di Marco Travaglioquando in primo e secondo grado, nel 2008 e 2010, l’hanno condannato per aver diffamato Cesare Previti nell’articolo ‘Patto scellerato tra mafia e Forza Italia’ pubblicato nel 2002 sull’Espresso. L’ha stabilito la Corte europea dei diritti umani dichiarando inammissibile il ricorso presentato dal giornalista nel 2014. Secondo i giudici di Strasburgo i tribunali italiani hanno ben bilanciato i diritti delle parti in causa, da un lato quello di Travaglio alla libertà d’espressione e dall’altro quello di Cesare Previti (che nella decisione odierna è indicato solo con l’iniziale P.), al rispetto della vita privata. I togati europei hanno quindi dato ragione ai colleghi italiani che hanno condannato Travaglioper aver pubblicato solo una parte della dichiarazione del colonnello dei Carabinieri Michele Riccio“generando così nel lettore – si legge nella decisione della Corte – l’impressione che il ‘signor P.’ fosse presente e coinvolto negli incontri riportati nell’articolo“. La Corte osserva “che, come stabilito dai tribunali nazionali, tale allusione era essenzialmente fuorviante e confutata dal resto della dichiarazione non inclusa dal ricorrente nell’articolo”. La Corte di Strasburgo ha quindi ribadito che uno sputtanamento è uno sputtanamento e che le post verità…. si possono definire solo in un modo: menzogne. E pubblicare una storia a metà, con il metodo del “taglia e cuci”, non è un fatto alternativo: è una non verità. E per fortuna c’è un giudice a Strasburgo. Ma tutto questo “Marchino” Travaglio evidentemente non ama ricordarlo, figuriamoci scriverlo!

Travaglio: “I giornali a Taranto non scrivono nulla perchè sono comprati dalla pubblicità”. E’ vero, ma non per tutti…Lettera aperta al direttore de IL FATTO QUOTIDIANO dopo il suo intervento-show al Concerto del 1 maggio 2015 a Taranto di Antonello de Gennaro del 2 maggio 2015 su "Il Corriere del Giorno". "Caro Travaglio, come non essere felice nel vedere Il Fatto Quotidiano, quotidiano libero ed indipendente da te diretto, occuparsi di Taranto? Lo sono anche io, ma nello stesso tempo, non sono molto soddisfatto della tua “performance” sul palco del Concerto del 1° maggio di Taranto. Capisco che non è facile leggere il solito “editoriale”, senza il solito libretto nero che usi in trasmissione da Michele Santoro, abitudine questa che deve averti indotto a dire delle inesattezze in mezzo alle tante cose giuste che hai detto e che condivido. Partiamo da quelle giuste. Hai centrato il problema dicendo: “A Taranto i giornali non scrivono nulla perchè sono comprati dalla pubblicità”. E’ vero e lo provano le numerose intercettazioni telefoniche contenute all’interno degli atti del processo “Ambiente Svenduto” e per le quali il Consiglio di Disciplina dell’Ordine dei Giornalisti di Puglia tergiversa ancora oggi nel fare chiarezza sul comportamento dei giornalisti locali coinvolti, cercando evidentemente di avvicinarsi il più possibile alla prescrizione amministrativa dei procedimenti disciplinari e “salvarli”. Intercettazioni che ti segnalo, solo il quotidiano che dirigo, ha pubblicato “integralmente”. Hai detto qualche inesattezza. Forse qualcuna di troppo. Innanzitutto il giornalista dell’emittente Blustar TV, che hai citato e fatto passare come un “eroe-vittima”, in realtà non ha mai fatto un’inchiesta giornalistica sullo stabilimento siderurgico, bensì ha solo rivolto una domanda scomoda ad Emilio Riva al termine di un convegno, a confronto della quale,  credimi, le domande fatte ai malcapitati dagli inviati di Striscia la Notizia e Le Iene nei loro servizi,  potrebbero tranquillamente concorrere ed aspirare a vincere il “Premio Pulitzer“  E poi, caro Travaglio, quella televisione cioè Blustar TV, che sta per chiudere,  la pubblicità dall’ ILVA la incassava anche lei ! Le domande “scomode” di quel giornalista a Riva sono arrivate solo, guarda caso…quando i rubinetti della pubblicità si erano chiusi da tempo! Hai paragonato ingiustamente ed erroneamente l’attuale  Sindaco di Taranto Ippazio Stefàno ai suoi predecessori Giancarlo Cito  e Rossana Di Bello, senza sapere che a differenza dei degli altri due, l’attuale primo cittadino di Taranto, al suo secondo mandato consecutivo, è stato eletto con i voti di una sua lista civica, senza della quale il centrosinistra non avrebbe mai governato la città di Taranto, sindaco che gestisce ed amministra la città in “dissesto economico” finanziario da circa 8 anni, dopo quanto ha ricevuto in “eredità”…dal precedente sindaco di Forza Italia Di Bello. Hai ha detto erroneamente che il dissesto di Taranto ammontava a 900mila euro, dimenticando qualche “zero”. Magari fossero stati solo così pochi! In realtà il “buco” era di 900 milioni di euro!

Se ti avessero informato e documentato meglio, caro Travaglio, invece di ironizzare sulla pistola alla cinta del Sindaco, avresti appreso delle pesanti minacce ricevute dal primo cittadino di Taranto, persino nel suo studio a Palazzo di Città, ad opera di appartenenti alla criminalità organizzata, la quale grazie a dei consiglieri comunali collusi silenziosamente si era infiltrata anche all’interno dell’amministrazione comunale (mi riferisco all’ “operazione Alias” della DDA di Lecce). Paragonandolo al tuo amico ed ex pm Ingroia che se ne andava girando in lungo e largo per l’Italia con la “scorta” di Stato, almeno il sindaco di Taranto non è costato nulla al contribuente, e la sua pistola è rimasta sempre al suo posto. Caro Travaglio ti anticipo subito un possibile dubbio. Non sono un elettore, simpatizzante o apostolo, nè tantomeno amico o parente dell’attuale Sindaco di Taranto, ma sull’ onestà di Ippazio Stefàno non sono il solo a sostenerla. Ti informo che oltre al sottoscritto c’è “qualcuno” come il Procuratore capo della repubblica di Torino, Armando Spataro (tarantino) che dovresti ben conoscere, il quale essendo persona seria, coerente ed attendibile, sono sicuro sarà pronto a ripetere quello che disse al sottoscritto: “Sull’onestà di Ippazio Stefàno sono pronto a mettere la mano sul fuoco”. Non ti ho sentito dire neanche una sola parola sui tuoi “amici” “grillini”, che difendi spesso e volentieri in televisione e nei tuoi articoli. Se ti fossi informato bene, avresti scoperto che i due “cittadini” eletti in Parlamento a Taranto del M5S, sono stati i primi dopo qualche mese dalla loro elezione ad abbandonare il movimento di Grillo e Casaleggio. Rinunciare allo stipendio “pieno” da parlamentare è cosa dura ed ardua. Soprattutto per uno come Alessandro Furnari (ex disoccupato) ed una come l’ex-cittadina-pentastellata-deputata Vincenza Labriola la quale, due anni prima si era candidata alle elezioni comunali per il M5S, ricevendo dal “popolo grillino” e dai cittadini di Taranto un grande…consenso: la bellezza di 1 voto. Forse il suo! Per avere traccia della loro attività parlamentare, e conoscere il loro impegno per Taranto, credo che sia consigliabile alla nostra brava collega Federica Sciarelli conduttrice di “Chi l’ha visto”. Chissà se ci riesce …Hai raccontato di intercettazioni, avvenute realmente, fra gli uomini dell’ILVA e la stessa famiglia Riva, che si intrattenevano telefonicamente con non pochi politici pugliesi, da destra a sinistra, compreso il neo (ma già ex) deputato Ludovico Vico. Hai accusato il Pd di averlo fatto rientrare in Parlamento. Peccato che (purtroppo) gli spettasse di diritto in quanto primo dei non eletti nel collegio jonico-salentino alle ultime elezioni politiche. O forse bisognava fare una “legge ad personam” per impedirglielo?  Tutta roba vecchia, riciclata, caro Travaglio, non hai rivelato nulla di nuovo rispetto a quanto già pubblicato (con audio) dai colleghi del quotidiano La Repubblica, e che noi umili cronisti di provincia del Corriere del Giorno, abbiamo approfondito con l’ulteriore pubblicazione integrale online delle intercettazioni più salienti. Eppure tutto questo, il vostro giovane collaboratore locale Francesco Casula poteva raccontartelo….ma forse era troppo impegnato nelle sue conversazioni nell’ufficio dove lavora a Taranto,  e cioè un centro di formazione professionale riconosciuto dalla Regione Puglia (dove viene retribuito quindi con soldi pubblici) in cui il giovane collega lavora insieme alla figlia dell’ex-presidente della Provincia di Taranto Gianni Florido (PD – area CISL) un politico arrestato a suo tempo anch’egli  per l’ inchiesta “Ambiente Svenduto“… Chissà !!! ??? Hai citato il procuratore capo di Taranto Franco Sebastio ed i suoi magistrati, come se fossero stato loro gli artefici con una propria azione “autonoma” a far decollare l’inchiesta giudiziaria sull’ ILVA. Ed anche in questo caso… in realtà non è andata proprio così perchè l’inchiesta “Ambiente Svenduto” è nata grazie a degli esposti e denunce di associazioni ambientaliste tarantine, e proprio del sindaco Ippazio Stefàno, esposti e denunce che non potevano essere dimenticate nei cassetti, come invece accade tuttora per molti altri casi. Hai dimenticato caro Travaglio di ricordare che a Taranto un pubblico ministero è stato arrestato e condannato a 15 anni …, e ti è sfuggito che un giudice del Tribunale civile di Taranto è stato arrestato anch’egli mentre intascava una “mazzetta”. Se vuoi gli atti, te li mando tutti.  Completi. Hai dimenticato anche qualcos’altro. E cioè qualcosa che non poteva e non doveva sfuggire alla tua nota competenza in materia giudiziaria. Anche perchè il quotidiano che ora dirigi ne aveva parlato. La Procura di Taranto aveva realizzato (solo sulla carta) uno dei sequestri più grossi della storia giudiziaria italiana, nei confronti della famiglia Riva, sotto indagine per disastro ambientale nell’ambito dell’inchiesta ILVA . Un decreto di sequestro per equivalente, firmato nel maggio scorso dal gip Patrizia Todisco su richiesta appunto della procura tarantina, che imponeva di mettere i sigilli a beni per 8,1 miliardi di euro senza peraltro mai trovarli ed identificarli! Quindi un sequestro “fittizio”, rimasto solo sulla carta. E guarda caso, proprio in merito a questo “strombazzato” grande sequestro…  la Corte di Cassazione ha stabilito che i beni posti sotto sequestro della holding Riva Fire, società proprietaria di ILVA spa, su richiesta del pool di inquirenti composto dal procuratore capo  Franco Sebastio, dall’aggiunto Pietro Argentino e dai sostituti Mariano Buccoliero, Giovanna Cannarile e Remo Epifani,  non andavano confiscati motivo per cui ha annullato senza rinvio il decreto di sequestro, che era stato confermato nel giugno 2014 anche dal Tribunale del riesame di Taranto. Il che vuol dire come puoi ben capire da solo, che sui Riva a Palazzo di Giustizia di Taranto, avevano “toppato” tutti! In ordine: la Procura della Republica, l’ufficio del GIP, ed il Tribunale del Riesame. Altro che complimenti! Per fortuna ci ha pensato la Procura di Milano (procedendo per reati di natura fiscale), grazie alla preziosa cooperazione che intercorre sui reati finanziari fra la Banca d’ Italia, l’Agenzia delle Entrate e la Guardia di Finanza che hanno scovato un rientro fittizio (cioè mai effettuato) dall’estero in Italia di capitali della famiglia Riva, operazione camuffata come “scudata” del valore di 1miliardo e 200 milioni di euro a cui stanno per aggiungersene altri 3-400 come ha annunciato in audizione al Senato il procuratore aggiunto milanese Francesco Greco, che sono in pratica i soldi che la gestione commissariale dell’ ILVA in amministrazione straordinaria ha richiesto ed ottenuto (ma non ancora sui conti bancari)  in utilizzo dal Gip del tribunale di Milano, previa tutta una serie di garanzie legali a posteriori, in quanto il contenzioso giudiziario fra Adriano Riva (il fratello e “patron” del Gruppo, Emilio è deceduto diversi mesi fa) e lo Stato non si ancora concluso, neanche in primo grado. In compenso, sei stato molto bravo a spiegare con chiarezza gli effetti reali e vergognosi (mi trovi d’accordo con te al 100%) dei vari “decreti Salva Ilva”. Permettimi di provocarti: a quando una bella inchiesta del Fatto Quotidiano su quello che accade dietro le quinte di Taranto, possibilmente coordinata dall’ottimo Marco Lillo per evitare cattive figure? Ci farebbe piacere non dover restare i soli dover scoperchiare i “tombini” di questa città, che per tua conoscenza è ILVA-dipendente a 360°. Concludendo caro Travaglio, pur riconoscendoti delle innate capacità giornalistiche e narrative, e stimandoti personalmente, questa volta te lo confesso mi hai deluso. Hai dimenticato di farti qualche domanda molto importante come questa: “Come mai al “referendum sull’ inquinamento ambientale “a Taranto hanno aderito e votato solo 20 mila tarantini?”  su circa 200mila elettori. Oppure come questa: “Ma gli altri 180mila tarantini che non sono andati a votare al referendum, dov’erano?”. Eppure sarebbe stato facile chiederglielo. Ieri sera caro Travaglio, li avevi più o meno tutti di fronte al tuo palco …. Domande serie, caro collega Travaglio, non le fotocopie di “seconda mano” che ti hanno passato.

STUPRI, ABUSI E VIOLENZA SESSUALE: DUE PESI E DUE MISURE.

Come distinguere Stupro, Abuso Sessuale e Violenza Sessuale, scrive l'Istituto Beck. Ci sono tanti modi e altrettanti termini per descrivere un comportamento sessuale non consensuale. Si può chiamare stupro, abuso sessuale o violenza sessuale. A prescindere dal nome, qualsiasi forma di violenza sessuale può influenzare negativamente la salute fisica e psichica delle vittime. Di seguito sono descritte le varie tipologie di violenza.

STUPRO. La definizione esatta di stupro differisce da paese a paese. Più in generale, lo stupro si riferisce a un atto sessuale non consensuale completo in cui l’aggressore penetra la vagina, l’ano o la bocca della vittima con il pene, la mano, le dita o altri oggetti. Presenta una o più delle seguenti caratteristiche:

manca il consenso di una delle persone che partecipa all’atto sessuale;

il consenso viene ottenuto con l’utilizzo della forza fisica, della coercizione, di inganni o minacce;

la vittima è incapace di intendere;

la vittima non è completamente cosciente (per uso volontario o involontario di alcool e/o droghe);

la vittima è addormentata o incosciente.

Uno degli elementi più critici riguardo allo stupro è il consenso. Infatti, se l’accordo di una delle due parti è forzato, coercizzato o ottenuto sotto pressione non può considerarsi consenso poiché non è stato dato liberamente. Nel tentato stupro l’aggressore tenta, ma non completa, l’atto sessuale non consensuale. La violenza che sfocia in un tentato stupro può avere sulle vittime lo stesso impatto di uno stupro con penetrazione completa. In letteratura vi è un accordo unanime nel ritenere lo stupro il crimine meno denunciato alla polizia, nonostante i tassi d’incidenza del fenomeno siano molto alti. Per esempio, negli Stati Uniti è stato stimato che 1/5 delle donne e 1/71 degli uomini ha subìto uno stupro in una fase della propria vita (Black et al., 2011). In Italia, i dati ISTAT del 2015 hanno mostrato che ben 652.000 donne hanno subìto stupri e che sono 746.000 le vittime di tentati stupri.

ABUSO SESSUALE. Per abuso sessuale si intende ogni tipo di contatto sessuale non consensuale. Le vittime possono essere donne o uomini di ogni età. L’abuso sessuale da parte del partner o di una persona intima può includere l’uso di parole dispregiative, il rifiuto di utilizzare metodi contraccettivi, causare deliberatamente dolore fisico al partner durante i rapporti sessuali, contagiare deliberatamente il partner con malattie infettive o infezioni di tipo sessuale oppure utilizzare oggetti, giochi o altre cose che causano dolore o umiliazione senza il consenso del partner. Scarica la traduzione a cura dell’Istituto A.T. Beck del capitolo “Comparative Qualification Of Health Risks. Geneva World Health Organization, 2004 (Chapter 23 Child Sexual Abuse)” autorizzata il 14 Maggio 2015. Si tratta di atti sessuali con un bambino, compiuti da un adulto o da un bambino più grande. E’ un crimine sessuale che, per essere attuato, è connotato necessariamente anche da un abuso di fiducia, potere e autorità del carnefice nei confronti del minore, che determina gravi problemi a breve e lungo termine su di esso (National Sexual Violence Resource Center, 2013). Alcuni comportamenti tipici dell’abuso su minori comprendono:

toccamenti a sfondo sessuale di qualsiasi parte del corpo, sia essa coperta da vestiti o nuda;

rapporti con penetrazione, inclusa la bocca;

incoraggiare un bambino a intraprendere attività sessuali, inclusa la masturbazione;

avere rapporti sessuali davanti a un bambino, essendo consapevoli della sua presenza;

mostrare materiale pornografico a minori o utilizzare bambini per produrre questo materiale;

incoraggiare un minore a prostituirsi.

L’abuso sessuale nei bambini non è sempre ovvio e molte delle vittime non riferiscono l’abuso che hanno subìto (Finkelhor et al., 2008). Ci sono alcuni cambiamenti comportamentali che possono indicare un abuso sessuale. Eccone alcuni:

la bambina/il bambino ha paura, in particolare, di alcune persone o di alcuni luoghi;

risposte inusuali del minore alla domanda “sei stata/o toccata/o?”;

paura irragionevole di una visita medica;

disegni che ritraggono atti sessuali;

variazioni improvvise del comportamento, come bagnare il letto o perdere il controllo degli sfinteri;

improvvisa consapevolezza dei genitali, degli atti e delle parole a sfondo sessuale;

tentativi di ottenere comportamenti sessuali da parte di altri bambini.

VIOLENZA SESSUALE. Si definisce violenza sessuale qualsiasi attività sessuale con una persona che non voglia o sia impossibilitata a consentire all’atto sessuale a causa di alcool, droga o altre situazioni. Violenza sessuale è un termine molto generico che include diversi comportamenti come:

lo stupro, anche se l’autore è il partner o il marito;

qualsiasi contatto sessuale indesiderato;

l’esposizione non gradita di un corpo nudo, l’esibizionismo e il voyeurismo;

l’abuso sessuale di un minore;

l’incesto;

la molestia sessuale;

atti sessuali su clienti o dipendenti perpetrati da terapeuti, medici, dentisti, capi, colleghi o altre figure professionali.

La violenza sessuale è un atto di potere e non sempre vengono utilizzate la forza fisica o le minacce contro la vittima, perché la violenza può essere molto sottile (come nel caso in cui l’autore dell’atto utilizzi la propria età, fisicità o status sociale per spaventare o manipolare la vittima). La violenza sessuale accade in tutto il mondo ed è presente in tutti i gruppi sociali, economici, etnici, razziali, religiosi e di età. Inoltre, gli uomini quanto le donne possono essere vittime di violenza sessuale. Per quanto riguarda il genere femminile, i dati ISTAT del 2015 hanno riportato che del 31,5% delle donne (di età compresa tra i 16 e i 70 anni), che nel corso della propria vita era stato vittima di una qualche forma di violenza, ben il 21% aveva subìto violenza sessuale.

Coro di Ratisbona, ora il Vaticano s’arrabbia: «Due pesi e due misure», scrive venerdì 21 luglio 2017 "Il Secolo d’Italia". Alla Chiesa in quanto “istituzione speciale” viene “giustamente richiesta un’esemplarità assoluta, ma questo ricorso costante a due pesi e due misure nel giudicare i suoi comportamenti e nell’attribuire responsabilità non giova a nessuno”. Lo sottolinea Lucetta Scaraffia in un suo intervento sull’Osservatore Romano, quotidiano della Santa Sede, nel quale torna sull’inchiesta legata agli abusi nel Coro di Ratisbona. “Non giova alla chiarezza delle questioni, e non giova soprattutto quando si tenta di eliminare ingiustizie, di punire i colpevoli di violenze, di impedire che queste si ripetano”, annota la storica nel sottolineare come di fronte ad altri gravi episodi di violenza avvenuti in altre istituzioni, “nonostante la gravità” dei casi non sia seguita la stessa “indignazione collettiva”. “Ben diversa – osserva Scaraffia sul quotidiano d’Oltretevere – è stata l’attenzione che i media hanno rivolto alla triste vicenda dei piccoli cantori di Ratisbona: ampio spazio e titoli che, denunciando 547 casi di violenze, hanno spesso lasciato intendere che si sia trattato di quasi seicento stupri, mentre i casi di abusi sessuali nell’arco di quasi mezzo secolo sono stati 67. E bisognava approfondire per capire che sono stati soprattutto deprecabili interventi maneschi – ma certo meno gravi degli stupri – da parte di docenti, peraltro non di rado sadici. E soprattutto per capire che non era uno scoop, ma il risultato di una rigorosa indagine voluta dal vescovo della diocesi, quindi dalla Chiesa stessa, decisa ad andare a fondo di voci e denunce su questo scandalo”. “Nessuno – osserva la storica – dubita che si tratta di atti ignobili e vergognosi, che dovevano essere puniti e soprattutto prevenuti, ma colpisce il livello di manipolazione mediatica del caso, e soprattutto la percezione diversa che l’opinione pubblica ha di episodi simili: da una parte tolleranza verso la vita militare e gli eccessi di un nonnismo che degenera in violenza, dall’altra estrema severità verso l’istituzione ecclesiastica. Del resto, l’abitudine a indicare la Chiesa cattolica come fonte di tutti i mali fa ormai parte dell’esperienza quotidiana e prepara l’opinione pubblica a considerare questo normale”.

STUPRO DOMESTICO. Stupri e femicidi, due pesi e due misure. Negli ultimi 10 anni in Italia 1.740 donne sono state uccise dal partner o dall’ex partner e 2.333 sono state stuprate. Due volti della stessa medaglia, la violenza del maschio sulla femmina, rispetto alla quale però valgono due pesi e due misure: nelle mura domestiche, dove c’è l’uomo che dovrebbe amarti, non vale la stessa indignazione provata per quanto è avvenuto a Rimini il 25 agosto scorso, scrive Natascia Ronchetti l'11 settembre 2017.

Stupro, dal latino stuprum: onta, disonore. Femicidio o femminicidio: la prima parola è un adattamento dell’inglese femicide, per la seconda dobbiamo risalire allo spagnolo parlato nel Centroamerica, che parla di feminicidio. Ma oltre l’etimologia qual è la vera e concreta differenza nelle nostre risposte alle violenze sulle donne? Certo, nel primo caso non c’è la morte. Eppure lo stupro – e ce lo insegna il caso della brutale aggressione avvenuta a Rimini nella notte tra il 25 e il 26 agosto ai danni di una giovane turista polacca e di una transessuale peruviana da parte di un gruppo di giovanissimi africani – riesce a calamitare la nostra attenzione più di quanto avviene, quotidianamente, di fronte a un femicidio, che è un omicidio di genere: la donna viene uccisa in quanto donna. Lo stupro, che mantiene di fatto inalterato nelle nostre menti il suo significato latino, ci indigna e ci impaurisce perché può essere commesso da chiunque, è il male che può colpirci in qualsiasi luogo fuori dalle mura protettive della nostra casa, mentre facciamo una passeggiata, mentre siamo in vacanza – come è accaduto alla giovane polacca -, mentre rientriamo nella nostra abitazione dopo una serata con amici o parenti. Il femicidio è invece l’estremo atto di violenza di chi conosciamo bene: il fidanzato, il marito, il convivente, l’ex partner; è qualcuno che fa parte della nostra vita, è il killer tra le mura di quella stessa casa che dovrebbe proteggerci e farci sentire al sicuro. Essendo l’omicida una persona della quale dovremmo fidarci da un lato potenzialmente respingiamo semplicemente l’idea che possa accadere a noi, dall’altro lato non ci confrontiamo pienamente con una realtà tragica: stupro e femicidio sono due facce della stessa medaglia, quella di una cultura patriarcale sopraffattrice, maschilista e misogina che continua a insinuarsi nella mente e nella vita di tutti noi, uomini e donne. Antropologi culturali e femministe potrebbero ricordarci – dandoci subito una prima risposta – che in realtà esiste una distinzione fondamentale tra femicidio e femminicidio. Il primo è uccisione, il secondo è l’insieme delle violenze di genere – fisiche, psicologiche, economiche – che vengono esercitate dagli uomini sulle donne. In base a questa distinzione è evidente che lo stupro non è altro che una delle tante drammatiche manifestazioni del femminicidio, un esercizio di potere sul corpo della donna attraverso la violenza sessuale. Un’aggressione di gruppo come quella di Rimini è capace di dare la stura, oltre alla nostra legittima indignazione, alle polemiche politiche più becere mentre di fronte a un femicidio ci spaventiamo, certo, ma non prendiamo atto fino in fondo della gravità del fenomeno come se fosse una terribile partita che si gioca in casa d’altri e non anche nella nostra casa. Titoli sui giornali e via, si passa – purtroppo – al prossimo, come dimostrano le statistiche. Negli ultimi dieci anni – i dati provengono dall’Istat e dal ministero della Giustizia – nel nostro Paese sono state uccise dal partner o dall’ex partner 1.740 donne, nel solo 2017 siamo stati costretti a contare un omicidio ogni tre giorni. Contemporaneamente nello stesso periodo, tra gennaio e luglio, sono stati commessi 2.333 stupri, in quattro casi su dieci l’autore era uno straniero. Il tema dell’immigrazione e dell’integrazione non è irrilevante rispetto al problema della differenza delle nostre reazioni. Nel caso di Rimini abbiamo potuto circoscrivere la gravità del fatto – lo stupro di gruppo è punito dal nostro ordinamento con pene che vanno da sei a dodici anni – a qualcosa che consideriamo estraneo: la violenza è stata perpetrata da quattro immigrati, di cui uno con il permesso di soggiorno per motivi umanitari. Nel caso di un femicidio il nemico – il patriarcato – è semplicemente tra di noi.

Natascia Ronchetti. Vive e lavora a Bologna. È stata a lungo redattrice de "l’Unità". Ha scritto per "Diario", e ora per "Il Sole 24 Ore", "Venerdì di Repubblica", "l’Espresso", "D-Donna", "Linkiesta", "Left". Per le edizioni L’Atelier ha scritto “Finanza etica. Una rivoluzione silenziosa” (2012), con la casa editrice David and Matthaus ha pubblicato “Il rituale del femicidio” (2016). Nel tempo libero viaggia. O sogna di viaggiare.

STUPRO DI RAZZA. Stupro di Firenze, e quel garantismo di “razza”. Migranti e carabinieri trattati in maniera diversa, scrive Piero Sansonetti il 12 Settembre 2017 su "Il Dubbio". Ieri il quotidiano Libero si è schierato con passione a difesa dell’arma dei carabinieri, dopo le polemiche provocate dall’accusa di stupro rivolta contro due militari di Firenze. E ha posto una domanda dalla risposta ovvia: «Se nei carabinieri ci sono due pecore nere, vuol dire che tutti i carabinieri sono pecore nere?». Chiaro che no. E una seconda domanda, dall’altrettanto ovvia risposta: «Per dichiarare colpevoli quei due carabinieri, non occorrerebbe, prima, una sentenza?». Chiaro che sì. Persino i giornali che son stati punta di lancia di svariate campagne giustizialiste capiscono che alcuni capisaldi del garantismo vanno rispettati, sennò è la fine. Il problema è però questo: se ne ricorderanno, tra qualche giorno, quando sul banco degli accusati siederanno gli immigrati? Lo stupro di Firenze e quel garantismo di “razza”. Ieri il quotidiano Libero si è schierato con passione a difesa dell’arma dei carabinieri, dopo le polemiche provocate dall’accusa di stupro rivolta contro due militari di Firenze. E ha posto una domanda dalla risposta ovvia: «Se nei carabinieri ci sono due pecore nere, vuol dire che tutti i carabinieri sono pecore nere?». Chiaro che no. E una seconda domanda, dall’altrettanto ovvia risposta: «Per dichiarare colpevoli quei due carabinieri, non occorrerebbe, prima, una sentenza?». Chiaro che sì. Persino il quotidiano Il Fatto, forse per la prima volta nella sua storia ( a parte la vicenda- Marra) ha parlato non di colpevoli ma di “presunti colpevoli”. Possiamo esultare. Dopo una estate nella quale si è fatto strame dei principi essenziali del diritto (in particolare sulla questione migranti) si torna finalmente a ragionare. Persino i giornali che son stati punta di lancia di svariate campagne giustizialiste capiscono che alcuni capisaldi del garantismo vanno rispettati, sennò è la fine. Il problema è semplicemente questo: se ne ricorderanno, tra qualche giorno, quando sul banco degli accusati non siederanno più due ragazzi in divisa ma due “balordi” qualunque, o forse due immigrati? E se ne ricorderanno anche quando il reato del quale vengono accusati gli imputati, o gli indiziati, non sarà più stupro ma, per esempio, immigrazione clandestina, o concussione, o abuso d’ufficio? (Spesso, nel nostro giornalismo, il reato di abuso di ufficio è considerato molto più grave del reato di stupro…) Ecco, io temo che non se ne ricorderanno. L’articolo che ha scritto sul Libero il mio amico Renato Farina (al quale voglio bene soprattutto perché in passato è stato spesso linciato dalla stampa giustizialista) è inappuntabile. Un vero esempio di garantismo e io non dubito della sua assoluta buonafede. Osserva come sia indecente prendere spunto dal reato di due appartenenti a una categoria per criminalizzare la categoria (in questo caso i carabinieri), osserva come prima di condannare qualcuno occorra un processo, osserva come i due ragazzi dell’Arma abbiano, come tutti, pieno diritto alla difesa. Sottoscrivo tutto, al 100 per cento. Sottoscrivo persino il suo sospetto – che mi è sembrato di intravedere – che ci sia qualcuno che vuole speculare, per motivi di potere, e indebolire i carabinieri o alcuni settori dei carabinieri. Quel che non mi convince è la contraddizione tra questo articolo, impeccabile, e la campagna che il giornale sul quale Farina scrive ha condotto nei mesi scorsi contro, ad esempio, gli immigrati, identificandoli – sempre ad esempio – come la categoria alla quale appartenevano i quattro africani accusati di stupro a Rimini (ripeto: “accusati- di- stupro- a- Rimini”). I titoli a tutta prima pagina erano molto chiari. Dicevano: gli immigrati ci portano stupri. E cioè esprimevano una bestialità. Così come è una bestialità quella di chi dice: i carabinieri ci portano stupri. Gli stupri sono opera semplicemente degli stupratori, che non sono negri, non sono sbirri, non sono disoccupati, né ingegneri, né padri di famiglia: sono stupratori e cioè colpevoli del reato peggiore di qualunque altro reato dopo l’omicidio. Detto questo, anche stavolta abbiamo assistito a dichiarazioni politiche che fanno a pugni col diritto. Comprese qualche dichiarazione degli stessi carabinieri, smaniosi di mostrarsi inflessibili. Non è di retorica inflessibilità che abbiamo bisogno, ma solo di diritto, di legge e di giustizia. E non abbiamo nessun bisogno di sentenze né anticipate né esemplari. Non è la gravità di un reato, o di un presunto reato, a determinare la colpevolezza e dunque la durezza delle contromisure. I reati vengono puniti più o meno severamente a seconda della loro gravità (e la loro gravità dovrebbe essere stabilita dai codici penali e non dalla pressione dell’opinione pubblica e dei giornali), ma i metodi di accertamento e le garanzie di difesa sono uguali per qualunque reato, anzi, nel caso di reati più gravi (siccome sono più gravi le conseguenze in caso di colpevolezza) le garanzie devono essere più grandi. Allora delle due l’una: o i giornali (non solo Libero) che nei giorni scorsi hanno avuto atteggiamenti forcaioli nei confronti degli africani si rendono conto di avere sbagliato. E questo, francamente, farebbe fare un bel passo avanti al dibattito pubblico. Oppure dichiarano apertamente e onestamente di voler affermare una distinzione tra due modi di fare giustizia: una verso i cittadini italiani e l’altra verso gli africani. E di volerlo fare per una serie di ragioni che saranno anche fondatissime e che ora non ci interessa approfondire. Ci interessa che sia chiaro che in questo modo si afferma il seguente principio: esiste una giustizia di razza. Diversa a seconda della razza (o presunta razza) alla quale appartiene il sospettato. Questo principio, dal punto di vista scientifico (lasciamo stare le polemiche politiche o gli anatemi) si chiama “razzismo”. Possiamo anche decidere che il “razzismo”, come tante altre ideologie (spesso sciaguratissime) sia legittimo, perché ogni opinione anche la più orrenda è legittima, purché si chiamino le cose con il loro nome. Senza alzare la voce. Senza pretendere sdegno o condanne e senza esprimere senso di superiorità. Del resto la giustizia razzista è solo una delle tante varianti del “garantismo- giustizialista”. Scusate se uso questo ossimoro, ma non è un paradosso, è più o meno la normalità nella discussione politica. L’idea che solo i propri amici debbano essere garantiti. O solo i sospettati di alcuni reati. E tutti gli altri vadano presi e messi sulla graticola. Questo è il garantismo giustizialista che dilaga nella politica, nel giornalismo, nell’intellettualità. Volete qualche esempio? Date un’occhiata alla polemica feroce che si è aperta, da parte di molti giornali e anche del sindacato giornalisti, contro l’ipotesi di un decreto che limiti la possibilità di mettere alla gogna liberamente tanta gente attraverso l’uso incontrollato delle intercettazioni e la loro pubblicazione. Perché questa ira? Davvero qualcuno teme che possa essere messa in discussione in Italia la libertà di stampa? No, tranquilli, nessuno lo crede. Molti però pensano che la stampa possa essere costretta ad essere garantista, non solo con i propri amici; e ritiene che in questo modo la stampa perda la metà del suo potere. Soprattutto – credo – perda il potere di interagire con pezzi di magistratura creando una potenza che sfugge a ogni legge, a ogni controllo, a ogni meccanismo democratico. Cosa c’entra questa discussione con la polemica con Libero? C’entra. Finché non ci si convincerà che il garantismo è uno solo e che è essenziale alla democrazia, i giornali resteranno quello che in gran parte sono oggi: megafoni di faziosità, esibita e rivendicata.

Carabinieri accusati di stupro, Salvini: "Vicenda molto strana". Molti i punti ancora da chiarire. Il leader della Lega: "Se hanno fatto sesso con le due ragazze, anche se queste erano d'accordo, devono lasciare la divisa. Se si trattasse di stupro dovrebbero essere trattati come tutti gli altri infami. Ma ho dei dubbi che sia successo questo", scrive il 9 Settembre 2017 “Il Populista”. La vicenda dei presunti stupri commessi a Firenze da due Carabinieri in servizio, nei confronti di due studentesse americane, presenta ancora molti punti oscuri. Sabato uno dei due militari accusati si è presentato in Procura, con il suo avvocato, dichiarando di aver avuto un rapporto con una delle due ragazze. Precisando però che “lei era consenziente”, e che dunque “non c’è stata violenza”. “Lei mi ha invitato a casa e poi siamo stati insieme”, ha raccontato. Intanto l’Arma ha avviato le procedure per la sospensione dal servizio di entrambi. Il leader della Lega Matteo Salvini, nel tardo pomeriggio di sabato, ha commentato così su Facebook: "In Italia ci sono più di 100.000 Carabinieri che fanno bene il loro lavoro. Hanno tutta la mia stima, guai a chi li tocca. Se due di questi a Firenze, in divisa e in servizio, hanno fatto sesso con due ragazze, anche se queste erano d'accordo, hanno fatto un errore enorme e dovrebbero immediatamente lasciare il lavoro e la divisa. Se poi si trattasse di stupro, dovrebbero essere trattati come tutti gli altri infami che mettono le mani addosso a donne o bambini. Permettetemi però, fino a prova contraria, di avere dei dubbi che si sia trattato di uno "stupro", e di ritenere tutta la vicenda molto, molto, molto strana.  Sono l'unico a pensarla così?”. Il post ha ricevuto nel giro di poco tempo migliaia e migliaia di approvazioni.

Firenze, le fake news dei giornali sugli stupri inventati. Diversi quotidiani nazionali hanno pubblicato la notizia: A Firenze nel 2016 false 90% delle denunce per violenza sessuale. Il questore smentisce, scrive Domenico Camodeca, Esperto di Cronaca l'11 settembre su "it.blastingnews.com". “Tutte le studentesse americane in Italia sono assicurate per lo stupro e a #Firenze su 150-200 denunce all’anno, il 90% risulta falso”. È questo il passaggio incriminato, privo di virgolette nella versione originale, di un articolo apparso il 9 settembre scorso sui quotidiani La Stampa e Il Secolo XIX, a margine di una intervista al ministro della Difesa, Roberta Pinotti, sui fatti legati all’ancora presunto stupro di Firenze [VIDEO]. Anche altre testate, tra cui Il Messaggero, Il Gazzettino e Il Mattino (o, almeno, questa la ricostruzione fatta dalla giornalista del Fatto Quotidiano Luisiana Gaita) hanno poi rilanciato la notizia che, però, si è rivelata essere una #Fake News, una bufala insomma. A smentire i Media ci ha pensato il questore di Firenze Alberto Intini: “Secondo la banca dati della polizia solo 51 denunce per#violenza sessuale nel 2016 e, nei primi 9 mesi del 2017, solo 3 da parte di ragazze americane”. Di fronte alla presunta fake news smascherata, Stampa e Secolo decidono di non mollare, virgolettano la frase da loro pubblicata e la attribuiscono a una non meglio precisata “fonte istituzionale attendibile”, anche se coperta dal segreto professionale. Dunque, a Firenze, nel 2016, ci sono state tra le 150 e le 200 denunce per violenza sessuale (reato che va dal palpeggiamento al vero e proprio stupro), oppure solo 51?. E poi, è vero che le denunce presentate dalle donne americane sarebbero false per il 90%? Sostenitori della prima tesi sono, come detto, le redazioni di Stampa e Secolo le quali, nella nota apparsa successivamente in calce al pezzo contestato, spiegano che “i dati cui fa riferimento la fonte non sono nelle statistiche ufficiali perché non sono ancora confluiti nei database Istat”. Una pezza di appoggio abbastanza fumosa che, infatti, il procuratore di Firenze Intini contraddice fornendo i numeri provenienti dalla banca dati della polizia. Per non parlare dell’altra fake news che tutte le studentesse Usa in Italia sarebbero assicurate contro lo stupro Infatti, come ha spiegato anche Gabriele Zanobini, avvocato delle due ragazze protagoniste della vicenda, l’assicurazione stipulata dalle donne americane che si recano in Italia è generica e comprende ogni tipo di incidente o aggressione in cui si può incorrere.

"Se la sono cercata", su Facebook l'odio per studentesse stuprate a Firenze, scrive il 09/09/2017 Marta Repetto su "Adnkronos.com". Bugiarde, disoneste, drogate, prostitute. Nessuna pietà per le presunte vittime: il caso di Firenze, che vede indagati due carabinieri per stupro, visto dai social mette i brividi. Nessuna empatia o quasi per le studentesse americane ma, al suo posto, un'ondata d'odio e di scherno in ogni singolo post o notizia pubblicati sull'argomento. Giovani ree, secondo gli umori dei commentatori, di aver peccato di ingenuità, di aver irretito i due appartenenti all'Arma o, nel peggiore dei casi, di essersela andata a cercare, perché "se non vuoi andarci a letto, sulla macchina dei militari non ci sali". La giuria del web, insomma, ha già emesso il verdetto: le ragazze - e "non dimenticate che sono americane e gli americani sono famosi per il vittimismo" - sono le colpevoli e saranno loro a doversi discolpare agli occhi degli italiani e degli inquirenti. Tanta, tantissima solidarietà invece per gli indagati, per molti "innocenti a prescindere". E fra le notizie trapelate finora dalle indagini in pieno svolgimento, più che colpire il fatto che siano stati trovati dei riscontri al racconto delle due ragazze - fra cui le immagini di alcune telecamere di sorveglianza che testimonierebbero l'effettiva presenza delle giovani sulla macchina dei carabinieri -, i lettori sembrano concentrarsi sul particolare dell'assicurazione contro lo stupro stipulata dalle ragazze. Un'assicurazione che, sempre secondo la giuria popolare online, certificherebbe senza ombra di dubbio la colpevolezza delle americane: "Hanno inventato tutto - sentenziano - per prendersi i soldi". E poco importa che questo tipo di assicurazioni - che riguardano ogni aspetto e ogni eventualità medica - siano pressoché la prassi per gli stranieri che risiedono in Italia per un periodo medio-lungo. Come del resto ha spiegato l'avvocato di una delle due giovani. Ma non c'è solo l'analisi minuziosa delle indagini. C'è infatti anche chi si spinge più in là, magari vestendo i panni del medico che le ha prese in carico per gli accertamenti clinici: "Se non ci sono lesioni la violenza non c'è stata", azzarda qualcuno, che evidentemente ha già il quadro chiaro pur non avendo in mano gli atti. Fra gli esperti e i giudici, colpisce come siano tante le donne che non mostrano alcun tipo di compassione, ma che invece rincarano la dose nei 'commenti tecnici' al caso: "Saranno state loro a fare le zoccole", l'opinione più diffusa. Nel mezzo, una minoranza che ricorda - o almeno prova a far ricordare - come in Italia siano previsti tre gradi di giudizio per gli imputati, "di qualsiasi colore siano" aggiungono riferendosi ai recenti fatti di Rimini, che investigatori e scientifica sarebbero forse gli unici a dover indagare sul complesso caso e che le presunte vittime siano da tutelare e proteggere fino a prova contraria. Una minoranza che purtroppo sembra avere la peggio, persa irrimediabilmente in quel girone infernale di commenti su Facebook e Twitter dove tutti diventano esperti di tutto, sostituendosi spesso e volentieri a inquirenti e tribunali.

Stupro di Firenze. Quando il web è pronto a giustificare gli aggressori. Su Internet i carabinieri indagati dopo la denuncia per stupro di due studentesse americane hanno raccolto la solidarietà di molti utenti (anche donne), che invocano il garantismo e mettono in dubbio la credibilità delle ragazze. Ma era andata molto diversamente, fin dalle prime ore, nel caso degli stupri compiuti a Rimini da quattro ragazzi di origine straniera, scrive Massimiliano Jattoni Dall'Asèn su "Io Donna" dell'8 settembre 2017. “Come sono le studentesse americane a Firenze lo sappiamo tutti…”. “L’hanno fatto apposta per i soldi”. “Sono delle bugiarde”. La fiera degli orrori social, il bar sport dell’insulto virtuale e becero, non chiude mai. Ogni occasione è buona in Italia per sfogare in rete il disprezzo verso le donne. Ma questa dilagante piaga nazionale non riguarda solo gli uomini: le frasi qui sopra riportate, per esempio, sono state scritte da due ragazze e una signora. Loro, come molti altri lettori, nelle ultime ore hanno voluto commentare così la notizia delle due studentesse americane che hanno sporto denuncia per stupro a Firenze, e che hanno indicato in due carabinieri i loro aguzzini (i militari, di 33 e 45 anni, sono stati identificati grazie a telecamere che hanno ripreso il passaggio della pattuglia e ora sono indagati per violenza sessuale). Basta scorrere i profili social di chi è accorso a commentare gli articoli online per difendere i carabinieri (qui il vero insulto, se sarà appurato, è lo stupro di due ragazze, penseremo poi al buon nome dell’Arma) per scoprire che gli stessi hanno commentato con ben altre posizioni le violenze avvenute pochi giorni fa a Rimini a una donna polacca e una trans peruviana, ancora prima di avere la certezza di chi fossero i colpevoli. In occasione di quella terribile vicenda, i quattro stupratori di origine straniera sono stati subito processati e condannati da chi invece per la vicenda di Firenze chiede “cautela prima di puntare il dito” o solleva dubbi sulla credibilità delle vittime, visto che “le americane la danno via subito”. Lo stupro che avrebbero subito le due studentesse americane non suscita dunque lo stesso sdegno, la stessa voglia di giustizia; e così i leoni (e leonesse) da tastiera hanno sentito il bisogno di difendere aprioristicamente i carabinieri e insultare le vittime, proprio a partire dal loro essere donne, giovani e – forse – sessualmente libere. In migliaia hanno condiviso la bufala creata ad hoc dai soliti mendicanti di “like” sulla polizza antistupro che le ragazze potrebbero incassare, accusando le vittime di aver architettato tutto per “farsi una vacanza gratis in Italia”. È chiaro che chi usa due pesi e due misure nel giudicare queste due storie di stupro, chi è forcaiolo e spietato se si parla di violenze commesse da stranieri, e garantista se quelle stesse violenze le hanno commessi degli italiani, non è mosso da alcun interesse per la tutela delle donne e della loro sicurezza. Le sue ragioni sono altre e sono quelle che fanno la fortuna social (e nelle urne) di alcuni politici senza scrupoli. E così, mentre si consuma la solita canea social, mentre alcuni quotidiani preferiscono dimenticarsi del ruolo culturale e sociale che dovrebbe avere la stampa in un Paese civile, per cercare di vendere una copia in più stimolando i bassi istinti della gente, le vittime vengono strattonate, usate, mercificate per un click in più e poi abbandonate in pasto agli sciacalli. Abusate una seconda volta. Del resto, lo si evince bene dal Rapporto della Commissione parlamentare “Jo Cox” sui fenomeni dell’intolleranza, della xenofobia, del razzismo in Italia: nella “piramide dell’odio” è alle donne che spetta un posto di rilievo. Sono loro «le maggiori destinatarie del discorso d’odio online», come aveva spiegato durante la presentazione del rapporto nel luglio scorso la presidente della Camera Laura Boldrini (lei che conosce purtroppo sulla sua pelle cosa significhi essere insultati, minacciati e umiliati sul web). Se le donne sono oggetto del 63% di tutti i tweet negativi rilevati all’Italia nel periodo agosto 2015-febbraio 2016, come evidenzia l’indagine dell’Osservatorio VOX, è chiaro che viviamo in un Paese dove gli uomini odiano le donne, ma dove anche le donne disprezzano le donne. E a nulla serve, per quanto giusto, far chiudere profili (che tanto poi rinascono sotto altre forme e con altri nomi), così come non basterebbe una legge capace di punire severamente certi comportamenti. Perché la verità è che prima di Internet, dei social network o dei politici delinquenti, che hanno sdoganato l’insulto e la violenza verbale pur di arraffare una sedia in Parlamento, prima di tutto questo c’è un grande vuoto umano e culturale. Perché non sono Internet e i social network il vero problema: siamo noi.

Stupro Firenze: i fanatici della ruspa, le ragazze facili e le fake news, scrive Sara Frangini il 12 settembre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Per i fanatici del Ruspa, quello che è successo a Firenze è un dramma nel dramma. L’accusa di stupro è arrivata per due italianissimi, due appartenenti alle forze dell’ordine, due militari, per l’esattezza carabinieri. Non per “i soliti stranieri”, come si legge su Facebook nei commenti vomitati dai giustizieri da quattro soldi. Non per i “vermi che hanno aggredito la turista polacca” o hanno abusato della donna trans peruviana. Ora sono finiti sotto i riflettori coloro che avrebbero dovuto tutelarci, difenderci, darci sicurezza e protezione. Allora che si fa? Cerchiamo di screditare le ragazze, diciamo che sono facili, che avevano la gonna corta, che andavano perfino in discoteca. Ah la discoteca, che luogo di perdizione! E che ci facevano? Ballavano. Allora erano facili, sicuro. In pochi azzardano un “se la sono andate a cercare” ma lo pensano in molti, compresi gli imbecilli che hanno fatto girare sui social network la foto di una coppia di ragazze insinuando fossero le americane stuprate. Così le hanno volute rappresentare: che bevono senza remore, di facili costumi. I commentatori di quelle immagini e i “condivisori” della bufala di questa portata, soprattutto, hanno pensato più ai carabinieri che alle vittime. E sono gli stessi che hanno fatto girare la notizia dell’assicurazione contro lo stupro come se fosse stata tutta una messinscena delle vittime per poter intascare qualche soldo alla faccia dei poveri carabinieri. Le cose restano così: per parecchi ci sono presunti stupratori e stupratori da evirare. Ci sono italiani che “potrebbero aver commesso una violenza sessuale anche se sembra strano” e stranieri che “hanno violentato una ragazza”. “Irregolari che devono essere cacciati”. “Che sono degli schifosi”. Per me siete voi gli schifosi. Voi che fate i distinguo quando, per chi subisce una violenza, la nazionalità dell’aguzzino è l’ultimo pensiero. Voi che cercate ogni pretesto per scagliarvi contro gli immigrati e magari avete per anni taciuto davanti ai tantissimi casi di violenze domestiche. Voi che vedevate gli stupri dei mariti alle mogli come abusi di serie B su cui tacere. Entrare nel merito delle differenze tra violenze è una pratica che rasenta il morboso: ve la lascio volentieri. Voglio solo ricordare che non sono stati questi i soli stupri avvenuti. Che dovremmo parlare più del problema, meno dei singoli casi. Che non sono tutti sociologi né investigatori. Ma soprattutto che a fine agosto ci sono stati anche altri soprusi, e che in quei giorni di vermi ne sono strisciati parecchi. Una giovane donna, nemmeno trentenne, ha denunciato di essere stata attirata nel bosco tra Paganico e Capannori e violentata da due uomini stranieri. Come straniera è la vittima 17enne di una violenza sessuale avvenuta a Desio, in Brianza. Lo stesso giorno è stato accusato un 27enne originario di Latina per uno stupro avvenuto in Salento. A Cinisello Balsamo, poi, è stata violentata un’ottantunenne al Parco Nord, mentre due giorni prima a Jesolo è stato arrestato un 25enne vicentino, di origini marocchine, per una violenza sessuale verso una 17enne paraguaiana residente nel veronese. Di ieri, infine, la violenza a Roma di una ventenne finlandese. Un ultimo appunto, con gentilezza. Alcuni “colleghi” riportano su testate nazionali dati inquietanti quanto, a mio parere, fantasiosi e inopportuni. Come la frase che leggiamo in un articolo: “Però non si può neppure dimenticare che tutte le studentesse americane in Italia sono assicurate per lo stupro e a Firenze su 150-200 denunce all’anno, il 90% risulta falso”. Guardate qui quante sono le denunce e qui quante altre volte vengono diffuse informazioni superficiali. Nel 2016 sono stati complessivamente denunciati 51 casi di violenza (non solo verso “americane”) mentre nel 2015 sono stati 57. E, per dire se sono stupri falsi o meno, c’è da aspettare davvero molto più di qualche mese, cari colleghi. Visti i tempi e le articolazioni delle indagini (e vista la burocrazia), spesso un anno nemmeno basta. Cerchiamo di essere seri, ve ne prego.

La Stampa ha deciso di ritirare una falsa notizia sugli stupri a Firenze. Un dato palesemente inventato sulle denunce di violenza sessuale era stato molto contestato su internet: il direttore ha ammesso che non aveva "le dovute conferme", scrive il “Il Post" il 12 settembre 2017. Il direttore del quotidiano La Stampa ha annunciato che il giornale ha rimosso dall’edizione online di un articolo, uscito sabato anche sul quotidiano di carta, un passaggio che era stato contestato da molti lettori soprattutto su internet nei giorni passati. L’articolo riguardava i primi sviluppi delle indagini sulle accuse di stupro contro due carabinieri da parte di due studentesse americane a Firenze. A un certo punto vi si diceva: Però non si può neppure dimenticare che tutte le studentesse americane in Italia sono assicurate per lo stupro e a Firenze su 150-200 denunce all’anno, il 90 per cento risulta falso. Il dato era subito sembrato implausibile e privo di qualunque fondamento a molti lettori (tra le prime diffidenze online c’erano anche state anche quelle del Post), oltre che vergognoso e pericoloso per quello che implicava sulla presunta falsificazione delle denunce di violenza sessuale da parte delle donne che ne sono vittime. Lo stesso articolo era stato pubblicato anche su un altro quotidiano del gruppo, Il Secolo XIX, e il dato era stato riportato anche dai quotidiani Il Messaggero e Il Mattino. Dopo molte proteste online il Messaggero aveva rimosso da internet senza spiegazioni il suo articolo (in cui quel passaggio sembrava stato aggiunto a un testo originario, scritto da New York), mentre la Stampa si era limitata a mettere la frase tra virgolette e a sostenerla confermata. Intanto il dato veniva fattualmente smentito dalle indagini di alcuni lettori online, e dallo stesso questore di Firenze, mentre crescevano i sospetti sulle possibili fonti che fossero state interessate alla diffusione di quella calunnia. Martedì sera la “public editor” della Stampa Anna Masera ha pubblicato nel suo spazio online una domanda al direttore Maurizio Molinari sulla vicenda. Nella risposta Molinari – pur sostenendo contraddittoriamente che la presunta notizia fosse stata “più volte avvalorata” – dice che ulteriori verifiche hanno “preso tempo” e non hanno “trovato le dovute conferme”. Da qui la decisione di rimuovere quel falso, tre giorni dopo la pubblicazione, con scuse verso i lettori. Cara Anna, la notizia in questione è stata pubblicata da La Stampa e da altri tre quotidiani il 9 settembre. La fonte che ce l’ha fornita l’ha più volte avvalorata, su richiesta dei lettori abbiamo svolto ulteriori verifiche senza trovarne le dovute conferme. Dunque l’abbiamo tolta dalla versione online dell’articolo in questione. Come è evidente tale processo di verifica delle fonti ha preso tempo, e di questo ci scusiamo con i lettori, ma ci ha portato a rispondere in maniera corretta alle richieste di delucidazione ricevute. Confermando il rispetto che questo giornale ha per le notizie ed i lettori. La Stampa non ha ritenuto di pubblicare la risposta del direttore sull’edizione di carta del quotidiano, ma solo su internet.

Quella cosa delle fonti, scrive l'11 settembre 2017 Luca Sofri su Wittgenstein. La lezione preziosa di questa storia è che ora ci possiamo domandare: se è andata come è sospettabile, quante altre volte leggo sui giornali notizie che arrivano strumentalmente da fonti interessate? E possiamo spiegare quanto sia importante quello che a molti giornali sembra un rigido capriccio, ovvero l’attribuzione alle fonti (anche fonti anonime, ma definite, rivendicate, contestualizzate): perché chi scrive si assuma la responsabilità di un fatto e ne indichi i confini di credibilità. È il solo modo per avere un’informazione affidabile oppure per non diventare stupidamente paranoici e dietrologi e non fidarsi più di niente (che è l’ingenuità speculare a quella di credere a tutto). Il giornalismo dei “circola voce”, “pare che”, “risulta”, non è giornalismo: è fiction, o Facebook. I giornalisti e i giornali sono responsabili della credibilità di quello che pubblicano: altrimenti incollare qualunque cosa e inventare qualunque cosa è capace di farlo chiunque, e hai voglia a dire “la professionalità dei giornalisti”. Se tu lo pubblichi, ritieni di avere sufficienti garanzie che sia vero: se non lo ritieni ma pensi sia importante, allora condividi i tuoi dubbi e i limiti di quella informazione, insieme all’informazione stessa. E se decidi che quelle fonti debbano restare anonime, devi averne una ragione: che ragione di timore ci può essere per la fonte di un dato di fatto che dovrebbe essere pubblico e verificabile? (e che dovresti avere facilmente verificato prima di pubblicarlo, se non ti basta la testa a capirne l’implausibilità e la natura). A lavorare in questo modo, assumendosi responsabilità, definendo le fonti, diffidando degli interessi delle fonti – non c’entrano i singoli cronisti, ripeto: è una cultura di cui è mandante tutto il sistema dell’informazione italiana e chi ne ha maggiori responsabilità; nei giornali stranieri seri li licenziano, come approccio, e prima gli hanno insegnato che non si fa – quella notizia non sarebbe mai uscita. Ma siccome lavorare così in Italia è vissuto come un rigido capriccio (“eddai, tu non sbagli mai?”), ai lettori tocca stare all’erta ogni giorno.

Stupro di Firenze, la verità del carabiniere più giovane: "L'americana mi ha preso per il braccio poi...", scrive il 20 Settembre 2017 "Libero Quotidiano". Dopo giorni di silenzio, anche davanti agli inquirenti, il carabiniere Piero Costa ha deciso di raccontare la sua verità sul presunto stupro avvenuto a Firenze ai danni di due giovani studentesse americane di cui è accusato insieme al collega Marco Camuffo. Il 31enne Costa, subito dopo lo scoppio del caso, è stato trasferito nella piccola stazione di San Marcello (Pistoia) prima di venire sospeso. Durante il primo sopralluogo nella discoteca di piazza Michelangelo per sedare una rissa, ha spiegato il carabiniere ai pm secondo quanto riferito dal TgLa7, "abbiamo conosciuto Celeste e Tatiana, 19 e 22 anni. Celeste mi ha fatto uno squillo sul mio cellulare e mi ha detto Così domani mi chiami e ci vediamo". La serata però è andata diversamente, perché dopo qualche minuto i carabinieri in servizio ritrovano le due ragazze all'esterno del locale. Cercano un taxi per tornare a casa, ma non c'è. Così Camuffo, capopattuglia con 20 anni di esperienza alle spalle, offre un passaggio alle ragazze e i due carabinieri le riaccompagnano nel loro appartamento del centro. Al momento di scendere, Celeste avrebbe tirato il braccio a Costa: i due si sarebbero prima baciati e poi avrebbero consumato un "rapporto veloce e consensuale nell'androne, interrotto - ha precisato l'agente - appena sono stato colto da lucidità improvvisa. Celeste era sobria e mi ha salutato". Dagli esami a cui sono state poste le due studentesse, tuttavia, è emerso che entrambe erano in evidente stato di ebbrezza dopo una notte di bagordi.

I carabinieri e lo stupro a Firenze, il legale di Costa scrive a Del Sette: "Attendete il processo, si ricordi che...", scrive il 19 Settembre 2017 "Libero Quotidiano". Una lettera non priva di veleno. L'avvocato del 31enne Piero Costa, il più giovane dei due carabinieri accusati di stupro ai danni di due giovani studentesse americane, ha inviato al generale dell'Arma Tullio Del Sette un appello pubblicato dal sito GrNet.it Sicurezza e difesa per chiedere clemenza. "Destituzione inutile e avventata", spiega il legale a proposito della proposta arrivata a Del Sette dalla ministra della Difesa Roberta Pinotti. Costa e la sua difesa chiedono di evitare la gogna mediatica e attendere gli esiti di un regolare processo. "L'Arma ha immediatamente sospeso dal servizio i due carabinieri, privandoli di pistola, tesserino e manette (e di metà dello stipendio) - scrive l'avvocato -. I due militari, quindi, malgrado protestino la propria innocenza, sono ora barricati in casa ed – essendo stati privati delle funzioni – non potranno in alcun modo reiterare i reati loro contestati né ulteriormente ledere l'immagine dell'Istituzione". E poi l'appello diretto a Del Sette, con malizioso riferimento all'inchiesta Consip che vede indagato lo stesso generale: "La invito rispettosamente a volere anche lei incontrare il carabiniere Costa ed a guardarlo negli occhi. Non le chiedo di assolverlo da ogni mancanza disciplinare, ma solo di valutare con i suoi occhi se questo ragazzo possa essere uno stupratore. Lo ascolti e sono persuaso che anche lei arriverà alle stesse mie conclusioni. Un avviso di garanzia non può essere assolutamente assimilato ad una condanna e, infatti, la stragrande maggioranza dei militari che incorrono i procedimenti penali continuano a prestare servizio durante la pendenza del procedimento penale".

"Nuda, legata. E in bocca...": ecco i dettagli dello stupro che non indignano nessuno. Già, perché se non li scrive "Libero"..., scrive il 20 Settembre 2017 Pietro Senaldi su "Libero Quotidiano". Chiedo lumi all’Ordine dei Giornalisti, a tutte le femministe italiane, alla presidenta Boldrini e anche al sottosegretario Boschi, che mi pare malgrado i gravosi impegni della presidenza del Consiglio conservi con orgoglio la delega per le Pari Opportunità, a chi ritiene di avere una moralità superiore alla mia e a tutti i benpensanti del Paese, perché proprio sono disorientato. Libero, il giornale di cui mi onoro di essere il direttore responsabile, è stato crocifisso due settimane fa per aver divulgato i verbali dello stupro della ragazza polacca a opera di un branco di giovani extracomunitari su una spiaggia di Rimini. Erano crudi, forse è più corretto dire realistici, e li abbiamo pubblicati con spirito di servizio, perché i nostri lettori, padri, madri e figlie, sappiano cosa rischia oggi in Italia una ragazza ad appartarsi in spiaggia, e si possano comportare di conseguenza. Volevamo anche documentare la ferocia selvaggia degli aggressori, a cui l’Italia ha generosamente spalancato le porte. Colleghe autorevoli, e meno autorevoli, ci hanno accusato di fare pornografia. Alla cronista che ci ha procurato lo scoop sono arrivate minacce e contumelie di ogni tipo da parte dei sostenitori del bon ton giornalistico. Non torno sui particolari per non alimentare ulteriori polemiche, mi limito a ricordare che l’accusa principale che ci è stata mossa è di aver umiliato la vittima, infierendo e violandone la privacy, anche se ci siamo ben guardati dal riferirne il nome, e quindi le violenze che abbiamo riportato non hanno faccia né identità se non quelle degli stupratori. Noi abbiamo replicato convinti di aver fatto solo il nostro lavoro. Caso vuole che ieri sia stata stuprata a Roma una vagabonda tedesca di 57 anni, con modalità altrettanto brutali rispetto a quelle di Rimini. Ebbene, nessun organo di stampa si è premurato di risparmiare i dettagli dell’aggressione. Ci hanno tutti informato con dovizia di particolari che la donna è stata denudata, legata e lasciata con un fazzoletto in bocca che le toglieva il fiato; in pratica sottoposta a pratiche dal sapore sadomaso. Siamo certi che nessuno dei colleghi che hanno riportato le cronache della violenza sarà accusato di fare pornografia e nessuno verrà messo alla gogna come la nostra cronista. Perché? Scrivere che una donna ha subìto una doppia penetrazione ed è stata gettata in mare la umilia di più che scrivere che è stata denudata in pubblico, legata e imbavagliata? Sofismi, io l’unica differenza che vedo è tra una notizia d’agenzia, riportata da tutti senza farsi troppe domande, e uno scoop di una grande giornalista, contestato in virtù della sua esclusività. Così fan tutti, si dice, intendendo che se lo fanno tutti non dà scandalo. Comandano il conformismo e il branco, come a Rimini, la medesima realtà viene giudicata diversamente a seconda di chi la descrive. Se lo stupro lo racconta l’Ansa, è giornalismo, se lo riporta Libero, diventa pornografia. Ma se il concetto di umiliazione della donna varia a seconda di chi ne parla, il mondo dell’informazione si macchia di uno stupro di genere. Pietro Senaldi

STUPRO DI PARTE. "Devono tutti vergognarsi": Myrta Merlino e Laura Boldrini, la gogna in diretta a "L'aria che tira", scrive il 10 Settembre 2017 "Libero Quotidiano". Lunedì mattina Myrta Merlino torna su La7 con L'aria che tira e per l'occasione lancerà una campagna stile Laura Boldrini contro i tweet sessisti che riceve ogni giorno. "Rintracciare gli anonimi dei social è praticamente impossibile, non ho mai presentato denunce, assuefatta all'idea che non ci potevo far niente - ha spiegato la conduttrice al Corriere della Sera -. Poi, quest' estate, guardavo mia figlia Caterina, 16 anni, controllare like e faccine e mi sono accorta di essere terrorizzata: io, se ricevo un insulto, spengo e non ci penso più, ma una sedicenne no, ne soffre. Buona parte del riconoscimento della sua identità passa dai social". Da qui è nata la nuova campagna tv, "Odio l'odio". "La presidente della Camera Boldrini mi ha promesso il suo sostegno e sarà nella prima puntata, l'11 settembre. L'odio fa male a chi lo prova e a chi lo riceve. Ed è contagioso. Gli odiatori vanno stanati, segnalati, puniti". Accanto alla Merlino nella sua lotta ci sarà anche Enrico Mentana, "il primo a dire che tutti devono essere rintracciabili facilmente, anche se nascosti da un nickname. Io ho querele da persone che si sono ritenute offese da cose che ho detto, ci metto la faccia e pago dazio. Nell'era Gutenberg abbiamo imparato che non tutto si può dire in pubblico, l'era Zuckerberg deve offrire la stessa lezione di civiltà". Pronta, dunque, la gogna per gli incivili e i mazzolatori del web: "Ogni giorno, darò una grafica con i peggiori post. Che siano persone comuni, anonimi, politici, devono tutti vergognarsi. E manderemo i nostri redattori a cercarli".

Laura Boldrini dalla Merlino a La7: "Perché non ho parlato dello stupro di Rimini. Italia peggio dell'ex Jugoslavia", scrive l'11 Settembre 2017 "Libero Quotidiano". Dopo lo stupro di Rimini "non ho parlato subito perché c'erano ancora indagini in corso". Laura Boldrini torna sulla polemica successiva al suo silenzio nei giorni della violenza sessuale dei 4 immigrati alla turista polacca in spiaggia a Miramare. L'occasione, in diretta da Myrta Merlino a L'Aria che tira, su La7, è quella giusta per criticare chi l'ha accusata di indifferenza e alzare il tiro, confondendo i piani. Quelli, cioè, tra critica politica e vile insulto social: "Trovo disgustosa la strumentalizzazione. Oggi per offendere una figura istituzionale si arriva ad evocare lo stupro. Non c'è più niente da dire. Lo ho visto fare solo in guerra: in Rwanda ed in ex Jugoslavia". Frase che descrive nella maniera più brutale il livello, spesso rasoterra, dei commenti politici e non solo sui social. Una situazione che, al di là delle iperboli presidenziali, umilia l'Italia. "Io non faccio la commentatrice di professione - prosegue -. Il mio impegno a 360 gradi sulle donne è noto. Che qualcuno metta in dubbio il mio impegno dimostra tutta la cattiva fede e la volontà di strumentalizzare". Tutto vero, ma proprio perché la Presidenta della Camera non ha mai mancato un commento sulla violenza subita dalle donne, anche in caso di inchieste ancora aperte, è suonata perlomeno singolare la scelta di tacere su un atto così efferato che ha coinvolto una turista straniera e quattro immigrati. Un atto che ha messo a durissima prova l'immagine dell'Italia, il senso di sicurezza di residenti e ospiti e l'onore stesso di tanti immigrati onesti e regolari. Una parola di condanna per le bestie di Rimini avrebbe giovato non solo alle donne, ma anche a loro. 

VIOLENZA SESSUALE: QUANDO AD ESSERE STUPRATO È UN UOMO, scrive il 18 gennaio 2016 Nicolamaria Coppola. Smentiamo categoricamente che le vittime di violenza sessuale siano sempre e solo le donne. Ritenere che gli uomini siano sempre e solo gli assalitori e le donne sempre e solo le aggredite è fuorviante, tendenzioso, sessista e profondamente ingiusto. Nessuno vuole sottostimare la gravità e la drammaticità della violenza sessuale ai danni delle donne, anzi; i dati parlano chiaro, ed è cosa nota che la violenza contro le donne sia un fenomeno ampio e diffuso. Secondo l’Istat, sono 6 milioni 788 mila le donne che hanno subito nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale, il 31,5% delle donne tra i 16 e i 70 anni: il 20,2% ha subito violenza fisica, il 21% violenza sessuale, il 5,4% forme più gravi di violenza sessuale come stupri e tentati stupri. Sono 652 mila le donne che hanno subito stupri e 746 mila le vittime di tentati stupri. Questi dati, che si riferiscono al solo 2015, sono agghiaccianti, e chi di competenza dovrebbe affrontare con ancora più serietà e con un progetto a lungo termine il fenomeno, al fine di porre in essere strategie di contrasto e campagne di sensibilizzazione tali da debellare questo abominio. È giusto, però, e intellettualmente corretto dire che anche gli uomini sono vittime di violenza sessuale. Sì, anche i maschi vengono stuprati, checché si pensi e si dica. E le situazioni e le dinamiche in cui avviene lo stupro sono esattamente le stesse in cui si consuma la violenza sessuale ai danni delle donne. Lo stupro non è di genere: è compiuto sia da uomini sia da donne, sia ai danni degli uomini sia ai danni delle donne, e come tale la questione dovrebbe essere affrontata. Diversamente da quanto previsto e garantito dalla legge alle vittime femminili, però, l’uomo trova oggettive ed obiettive difficoltà nel denunciare la violenza subita, poiché non esiste nessun centro di accoglienza, non è attivo nessun numero verde, non c’è nessuno sportello di ascolto pubblico o privato. Niente di niente! “Persino in commissariato – hanno fatto notare quei pochi ricercatori che si dedicano allo studio delle violenze sugli uomini – quando prova a sporgere denuncia, l’uomo che ammette di essere (stato) vittima di violenza carnale ha difficoltà ad essere creduto e si scontra con un atteggiamento di sufficienza, sottovalutazione del fenomeno, spesso anche derisione”. Gli uomini violentati, dunque, non subiscono soltanto danni psicologici e fisici, ma devono affrontare anche lo stigma di una società tendenzialmente omofoba e in cui i valori predominanti sono quelli legati al concetto di macho, di maschio, di homme viril. Gli uomini che sono stati stuprati tendono a tenere nascosta la violenza e non chiedono aiuto a nessuno perché, qualora la notizia dovesse diventare pubblica, verrebbero immediatamente bollati, additati come omosessuali, emarginati dalla comunità, e, probabilmente, abbandonati dalla famiglia. L’abuso sessuale diventa una colpa che pesa come un macigno e che fa male: molti uomini violentati finiscono addirittura per suicidarsi. È molto difficile per gli uomini vedersi – ed eventualmente accettarsi – come vittime di abusi sessuali. La questione è stata spiegata chiaramente dalla psicoterapeuta Elizabeth Donovan in un’intervista rilasciata alla CNN e ripresa dal Post: “Gli uomini hanno il peso aggiuntivo di dover affrontare una società che non crede che lo stupro possa succedere anche a loro”. C’è pure un secondo motivo che impedisce agli uomini di parlare apertamente o meno delle violenze subite: la paura di vedere intaccata la loro mascolinità. “Aver subito una violenza di questo tipo – spiega ancora la Dottoressa Donovan – viene comunemente interpretato come un de-potenziamento della propria virilità: significherebbe insomma essere ‘meno uomini’, più fragili e dunque più simili alle donne”. In una cultura come la nostra in cui l’uomo, solitamente, deve rispondere di fronte alla legge del proprio comportamento sessuale aggressivo, è assai difficile che riesca a trovare facilmente posto dall’altra parte della barricata e, quindi, come vittima. Ma la realtà è un’altra! Andando un po’ a ritroso nel tempo, uno studio del 2014 pubblicato sulla rivista dell’American Psychological Association Psychology of Men & Masculinity e riportato dettagliatamente qui, ha svelato che oltre 4 uomini su 10 (il 43%) di scuola superiore e università avevano vissuto una coercizione sessuale, che si era tradotta nella metà dei casi in un rapporto sessuale. Il 31% dei partecipanti allo studio aveva ricevuto coercizione verbale, il 18% coercizione fisica e il 7% coercizione tramite sostanze per sesso non consenziente, mentre il 26% ha riportato di aver ricevuto seduzioni sessuali non volute per lo stesso motivo. Il 95% degli intervistati ha inoltre riferito che i perpetratori di tali violenze fossero donne e l’1,6% che fossero uomini e donne contemporaneamente. Un altro studio comparso sull’American Journal of Public Health, che riprende i dati raccolti dal 2010 al 2012 dal Bureau of Justice Statistics, dai Centers for Disease Control and Prevention e dall’FBI, rivela che proprio l’FBI sostiene che le indagini federali rilevano un’elevata prevalenza di vittimizzazione sessuale tra gli uomini in molte circostanze simile alla prevalenza trovata tra le donne. “Abbiamo identificato i fattori che perpetuano percezioni errate circa la vittimizzazione sessuale degli uomini: la dipendenza dagli stereotipi di genere tradizionali, le definizioni obsolete e incoerenti, e i pregiudizi metodologici di campionamento che escludono i detenuti”. Fino a pochi anni fa, la definizione stessa di stupro del dipartimento di giustizia degli Stati Uniti era tale da escludere gli uomini come possibili vittime. Lo stupro veniva considerato e affrontato a livello legislativo come: “Conoscenza carnale – carnal knowledge – di una femmina con la forza e contro la sua volontà”. Nel 2013, però, la definizione è stata modificata, e oggi l’FBI chiarisce che lo stupro è: “La penetrazione, non importa quanto delicata, della vagina o dell’ano con qualsiasi parte del corpo od oggetto, o la penetrazione orale da un organo sessuale di un’altra persona, senza il consenso della vittima”.  I pregiudizi e gli stereotipi che orbitano attorno al fenomeno dello stupro maschile toccano anche gli studi sulla violenza sessuale verso gli uomini. Innanzitutto, molta della ricerca si focalizza sulle prigioni e sulla popolazione carceraria ma, come ha fatto giustamente notare il New York Times, “gli uomini sono anche violentati fuori dalle prigioni, normalmente da persone che conoscono, inclusi amici e partner intimi, ma occasionalmente anche da sconosciuti. Vengono stuprati durante aggressioni violente, quando sono ubriachi o drogati, durante interrogatori, durante aggressioni a sfondo omofobo o durante episodi di nonnismo, come nell’esercito”. In secondo luogo, si tende a pensare che superata una certa età, e quando, quindi, si smette di essere bambini, gli uomini non rischino più di essere violentati. Non è così, perché un dettagliato studio americano del 2012 su studenti universitari ha rivelato che il 51,2% era stato vittima di una qualche forma di violenza sessuale dall’età di 16 anni in poi. C’è poi la questione degli uomini stuprati dalle donne perché sì, ci sono donne che stuprano uomini. Come si può leggere in un paper pubblicato nel 2013 sulla rivista scientifica JAMA Pediatrics e ripreso qui: “Non è raro credere che un uomo non possa essere stuprato da una donna. Gli stereotipi di genere possono rendere difficile immaginare una donna dominante costringere o forzare un uomo che non vuole a fare sesso. Di conseguenza, le vittime maschili di autori femminili sono giudicate più duramente delle vittime maschili di autori maschili. Inoltre, gli stessi comportamenti percepiti come sessualmente aggressivi quando commessi da un maschio possono essere percepiti come romantici o promiscui se commessi da una femmina. Ciò nonostante, i dati fisiologici suggeriscono che gli uomini possono essere stuprati; un’erezione non significa necessariamente eccitazione sessuale e può essere riflessogenica. Gli operatori sanitari per gli adolescenti hanno bisogno di valutare il potenziale dei propri pregiudizi di genere in questo settore in modo che possano essere più efficaci nell’identificare e nel trattare autori femminili e vittime maschili quando essi si presentano”. È bene smentire, dunque, la radicata convinzione che sia impossibile per i maschi rispondere sessualmente quando molestati sessualmente da donne: è stato dimostrato, infatti, che l’erezione può verificarsi in una varietà di stati emotivi, tra cui la rabbia e il terrore. Dunque, “L’induzione di eccitazione e l’orgasmo non indicano che i soggetti vittime di violenza abbiano acconsentito alla stimolazione. La difesa dei perpetratori costruita semplicemente sul fatto che la prova di un’eccitazione genitale o dell’orgasmo dimostri il consenso non ha validità intrinseca” e deve essere ignorata quando ci si trova dinanzi a un episodio di stupro maschile. Non è questa l’occasione per parlare di stupro maschile come strumento di guerra, ma è bene notare che durante i conflitti spesso vengono commessi stupri allo scopo di seminare il terrore tra la popolazione, di disgregare famiglie, di distruggere comunità e, in alcuni casi, di modificare la composizione etnica della generazione successiva. Come scrive Kirthi Jayakumar, avvocato specializzato in diritto internazionale pubblico e dei diritti umani, la violenza sessuale contro gli uomini in situazioni di conflitto ha l’obiettivo di distruggere l’essenza del “maschio” che dovrebbe essere custode della società, i capifamiglia di famiglie in un contesto sociale, e di sbriciolare la santità legata alla loro mascolinità. Che lo stupro nella sua dimensione generale e globale sia una piaga da debellare è noto a tutti. Che lo stupro ai danni delle donne sia un abominio lo è altrettanto. Che le vittime di stupro possano essere e siano uomini, invece, è un fenomeno ancora sottovalutato e sottostimato. Uomini e donne non sono poi così diversi: sono potenziali vittime di violenza sessuale allo stesso modo. Lo stupro maschile non vale meno di quello femminile e non deve essere taciuto, né come fenomeno tangibile né come evidenza possibile. Solo quando si comincerà ad affrontare con fermezza ed onestà intellettuale il problema della violenza sessuale ai danni degli uomini potremmo dire di aver compiuto un ulteriore passo verso l’equiparazione tra uomini e donne.

Stupro di Rimini, la madre dei fratelli marocchini una clandestina. E il padre fu espulso ma restò in Italia, scrive il 4 Settembre 2017 "Libero Quotidiano". Lo stupro di Rimini uno stupro di Stato? L'affermazione è forte, certo, eppure andando ad analizzare a fondo la vicenda non si può non tenere conto di alcuni particolari decisivi, che mettono l'intera vicenda sotto un'altra luce. Si parla, in questo caso, dei due fratelli marocchini e minorenni, i primi ad essersi consegnati. E del loro padre, entrato in Italia negli anni '90 - come riporta Il Giornale - e si insedia in Veneto. È irregolare, ma una sanatoria del 1995 gli dà la possibilità di regolarizzare la sua posizione. Peccato che poi inciampi nella legge, tra denunce, arresti e altri precedenti: permesso revocato, lui dovrebbe essere espulso. Ma, afferma, deve accudire i suoi bimbi. Di solito è la madre a rivendicare quest'occupazione. Peccato però che la madre sia clandestina. Insomma, nessuno è regolare nella famiglia che ha allevato i due baby-stupratori. E nessuno, in Italia, ci sarebbe dovuto restare. Ma tant'è, questo il Paese in cui tutto è possibile (per gli immigrati). Ma se le leggi fossero più dure, e soprattutto applicate e rispettate, forse avremmo avuto due stupratori in meno a casa nostra.

L'ira dei vicini (marocchini): "Già denunciati, inutilmente". Nella palazzina dove vivevano i due fratelli arrestati «Furti, minacce, violenze: forse ora avremo giustizia», scrive Stefano Zurlo, Lunedì 4/09/2017 su "Il Giornale".  Una macchina sfreccia sula strada e dalla finestra aperta entra un urlo terrificante: «Andate via». Donia fa una faccia feroce: «L'Italia è un paese di m perché più processi hai, più guai combini, più ti tengono qua». Anna, la sua amica, un velo colorato in testa, conferma con un cenno. Qualcuno punta una telecamera e comincia a riprendere. Allora le due donne, rabbiose, gridano a loro volta: «Noi non c'entriamo». Ma ormai quella palazzina bianca che si affaccia sul fiume è l'edificio più fotografato d'Italia e i vicini di Donia e Anna sono sulla bocca di tutti: i loro figli di 15 e 17 anni sono in carcere dopo aver confessato le violenze di Rimini. Una manciata di gradini e un piccolo corridoio separano gli inquilini, ma Donia vorrebbe che in mezzo ci fosse il Mar Rosso. Non è per la vergogna di quello che è successo. Anzi: «Forse è la volta buona che ottengo giustizia». Donia è minuta. Ha 37 anni e lo sguardo di chi non si rassegna: «Quei due fratelli, oggi in carcere, me ne hanno fatte di tutti i colori. È anni che subisco le loro angherie e quella della madre. Lei mi ha minacciato con il coltello, loro mi hanno rubato, mi hanno spinto per terra, mi hanno fatto finire all'ospedale con un trauma cranico». Donia ha origini marocchine, è nata in Francia ma ha la cittadinanza italiana. Come Anna. Le due riprendono: «Abbiamo testimoniato in tribunale contro la madre e i due figli, ma non è servito a niente, almeno finora». Donia è inarrestabile: «È tre anni che vivo nel terrore, è tre anni che questi rubano e spadroneggiano, è tre anni che chiamo i carabinieri e sporgo denunce. È tre anni che i militari ripetono che, fosse per loro, avrebbero risolto il problema da un pezzo, ma che più di tanto non possono fare, le leggi sono queste, tocca andare avanti cosi». Fuori diluvia e dal bosco sale un assaggio di inverno. Gelido e desolato. Le case intorno si contano sulle dita di una mano: Ponte Vecchio è una frazione lillipuziana di Vallefoglia. Qui le Marche sono una cartolina da sogno: il Montefeltro carico di storia; Urbino e i tesori del Rinascimento e poi Tavullia che è sinonimo di Valentino Rossi. Invece, Donia vive il suo piccolo inferno: «Ogni giorno ho paura che mi facciano del male, anzi che mi ammazzino». C'è da stropicciarsi gli occhi: la famiglia dei fratelli che hanno terrorizzato Rimini è nell'occhio della giustizia da tempo. Piano piano saltano fuori le carte che documentano quella situazione grottesca: la mamma dei due, e di un altro fanciullo più piccolo e di una sorellina di quattro anni, è stata raggiunta da un ammonimento per stalking e nei suoi confronti è aperto un procedimento per atti persecutori. «Non può avvicinarsi a casa mia - riprende Donia - ma qui siamo tutti stretti in pochi metri». Insomma, il provvedimento è un pezzo di carta all'italiana: vale per quello che vale. «Io ho fatto l'errore di aiutarli all'inizio, poi loro non mi hanno più mollato. Furti. Botte. Ingiurie. Ma sono sempre qui, nessuno li butta fuori, nessuno li rimanda in Marocco. E non hanno rubato solo a me, no qua tutti sanno chi sono». Ma le sorprese non sono finite. Saliamo i gradini e bussiamo. Una tenda copre la porta: un mano la sposta e dall'oscurità emerge, solo in parte, il volto di un uomo sulla cinquantina. La suggestione è fortissima: sembra di stare dentro un dipinto di Caravaggio. «Sono distrutto, non voglio dire più nulla, almeno per oggi, ho già spiegato che i miei figli devono pagare». Solo che pure lui sta pagando: è blindato, in detenzione domiciliare, in quella casa popolare dal canone bassissimo. La situazione è quasi incredibile: la famiglia, in Italia dagli anni Novanta, ha messo radici ma è irregolare che più irregolare non si può. Una sanatoria nel 95, poi la revoca del permesso di soggiorno per i troppi inciampi penali, poi equilibrismi e i tanti misteri della legge italiana. Il grappolo dei figlioletti a fare da scudo. Il nucleo resiste a dispetto di tutto e tutti. Donia riassume la propria frustrazione: «Io ora sono italiana, io pago le tasse e pretendo giustizia, invece devo adeguarmi ai ritmi del tribunale e del tribunale per i minori». Si avvicina il figlioletto di Anna: «Mi ricordo quando a scuola il secondogenito, quello che oggi ha 15 anni, ha tirato un bidone in faccia alla maestra». A quanto pare, il primo di una lunga serie di episodi di bullismo. Ma nessuno è riuscito a fermarlo.

Stranieri che stuprano? Il problema esiste, scrive Tiziana Maiolo il 3 Settembre 2017 su "Il Dubbio". È vero che da un punto di vista culturale il problema dell’indisponibilità del corpo delle donne non è ancora stato risolto tra i maschi italiani. È altrettanto vero che la presenza di uomini di diverse culture e di differenti valori e disvalori come quelle dei paesi dell’est o di un mondo dove prevale lo Stato etico sullo Stato di diritto… Migranti, non tutti sono stupratori Ma non si può ignorare il problema…(come è una parte del mondo islamico) ha aggravato di molto la condizione delle donne nel nostro paese. È vero che in termini assoluti sembra che la maggior parte degli stupri avvenga a opera di italiani: dei 2.438 denunciati nei primi mesi di quest’anno, 1.534 sono italiani e 904 stranieri. Ma sono vere altre due cose. La prima è puramente matematica: millecinquecento italiani su una ventina di milioni è una percentuale un po’ diversa da novecento su qualche centinaio di migliaia. Ma la seconda è ben più rilevante: le donne che sono state stuprate sono molte di più, ma la gran parte di loro non ha sporto denuncia. Più che la paura (una componente a volte presente, specie nei piccoli centri), è la sfiducia nelle istituzioni a frenare. Noi donne sappiamo da sempre che i luoghi del potere non ci sono amici. Neanche la magistratura. Non è solo questione di pari opportunità, qualcuna ce la fa anche a infilarsi tra le cravatte, ma la questione del corpo femminile è sempre lì presente, sia quando viene usato nella complicità di alcune donne, sia quando viene insidiato dagli uomini, colleghi capoufficio eccetera. Non se ne può prescindere, anche quando non parliamo di stupri. Le donne non chiedono pene esemplari o ergastoli o castrazione chimica, ma pretendono dalle istituzioni una presa di coscienza sull’inviolabilità dei loro corpi. Se è così difficile far entrare nella testa degli uomini italiani il fatto che il corpo delle donne, di tutte le donne, non è sempre e comunque a loro disposizione, ancora più complesso è entrare in altre culture. Sia in quelle che non danno importanza alcuna alla stessa vita (come hanno dimostrato spesso alcuni cittadini albanesi o rumeni), sia in quelle a prevalenza religiosa dei paesi islamici, per i quali il corpo della donna è addirittura considerato impuro e quindi nascosto in abiti- carcere che consentono, nelle situazioni migliori, di esporre solo il viso e le mani. Non dobbiamo lasciarci ingannare dal fatto che anche nel nostro paese, prima che arrivassero le suffragette dei primi novecento e prima della rivoluzione di Mary Quant e della minigonna, il corpo delle donne era più coperto e una caviglia nuda era considerata un potente afrodisiaco. Le differenze sono due: la prima è l’assenza della questione religiosa e la seconda è la volontà delle donne che, quando hanno voluto spogliarsi lo hanno fatto e basta. Nessuno le ha lapidate. Non chiudiamo gli occhi di fronte a una realtà tremenda: le donne vengono stuprate in guerra e il loro corpo a volte diventa merce di scambio e il soggetto stupratore si fa pallottola, e le donne vengono stuprate in tempi e luoghi di pace, anche dal ragazzo della porta accanto quando non dal marito e compagno. Ma oggi in Italia abbiamo un problema in più, e non va nascosto, anzi va studiato con attenzione. Anche perché non se ne occupa nessuno, né i politici né il mondo dell’informazione, né studiosi o sociologi o psicologi. E’ il problema della solitudine di queste migliaia di ragazzi africani che sbarcano sulle nostre sponde in cerca di fortuna. Questi ragazzi arrivano qui senza famiglia né fidanzata. Sono giovani e con sani, normali appetiti sessuali, ma anche un grande vuoto affettivo. A questo aggiungiamo il fatto che nella loro mentalità, se un corpo femminile è poco coperto, cioè vestito come normalmente ci vestiamo noi, questo è sicuramente disponibile. Quindi alcuni di loro cercano di prenderselo. Non trattiamoli tutti come potenziali stupratori, ma non sottovalutiamo il problema. La violenza di una parte di loro c’è, la loro visione della donna anche, e per noi donne occidentali è inaccettabile. E il fatto grave è che il loro arrivo in massa (tutti maschi giovani sani e dannatamente soli) si inserisce in una situazione quale quella di tanti uomini italiani che non è proprio tranquillizzante nella quotidianità delle donne. Italiane e non.

"Cara Presidente Boldrini, adesso ti racconto il mio stupro". Polemiche per i silenzi della Presidente su Rimini. Così la donna violentata nella Capitale da due rom scrive alla terza carica dello Stato: "Sulle violenze sessuali dei 4 immigrati la politica dice cose folli, e quel mediatore va cacciato" di (Lettera firmata dalla ragazza violentata da due rom a Roma) Pubblicata su “Il Tempo” il 30 Agosto 2017. "Caro direttore, mi permetta l’intrusione ma a tutto c’è un limite. Le chiedo un po’ di spazio e un po’ di coraggio che so non mancarle. Ci ho pensato e ripensato ma penso che oggi serva far parlare i fatti per mettere fine a questa follia dello stupro politico-mediatico. Le voglio raccontare in diretta cosa prova una donna, di qualsiasi nazionalità o religione, quando viene violentata. Le racconto cosa significa precipitare all’inferno, sporcarsi l’anima e non rivedere mai più la luce. Non ne posso più dell’ipocrisia della politica che interviene o non interviene a seconda se lo stupratore è un immigrato oppure no (o nel caso della signora Boldrini che ha condannato lo stupro di Rimini a tre giorni dai fatti e solo dopo le polemiche sollevate dai suoi avversari) o perché qualche simpaticone, tipo quel mediatore culturale della coop, rilancia l’idea che lo stupro è tale solo all’inizio perché poi la donna si calma e gode. Ora le racconto..."

"Cara Boldrini, ti racconto il mio stupro". Sul quotidiano Il Tempo, la lettera di una ragazza vittima della brutalità due rom nella Capitale: "Ora basta col perbenismo", scrive Luca Romano, Mercoledì 30/08/2017, su "Il Giornale". "Le voglio raccontare in diretta cosa prova una donna, di qualsiasi nazionalità o religione, quando viene violentata". Inizia così una lettera pubblicata in prima pagina dal quotidiano Il Tempo e firmata da una ragazza violentata da due rom a Roma. "Non ne posso più dell'ipocrisia della politica che interviene o non interviene a seconda se lo stupratore è un immigrato oppure no (o nel caso della signora Boldrini che ha condannato lo stupro di Rimini a tre gironi dai fatti e solo dopo le polemiche sollevate dai suoi avversari) o perché qualche simpaticone, tipo quel mediatore della coop, rilancia l'idea che lo stupro è tale solo all'inizio perché poi la donna si calma e godo", scrive la ragazza. Che poi si addentra nel racconto della sua tremenda vicenda in cui è finita vittima di "esseri umani stranieri che sarebbe meglio chiamare animali". "Mentre chattavo su Facebook al telefono con il mio ex ragazzo ho visto un'ombra nera allungarsi sempre di più. Mi sono fermata per capire cosa fosse ma quando l'ho vista correre verso di me era già troppo tardi. Ho provato a strillare ma l'urlo è tornato in gola rimbalzando sulla mano pigiata sulla bocca. Quell'uomo mi ha colpita e trascinato attraverso oltre la rete fino a chiudermi in una baracca maleodorante. Due belve feroci. Non era solo, quel bastardo. Mi hanno fatto sdraiare su un materasso putrido, strappato, mi hanno bloccato le gambe e a quel punto ho chiuso gli occhi e pregato mentre mi sentivo strappare la pelle, violare nell' intimità, in balia del mostro, privata della mia libertà, carne da macello. Come se la mia vita non avesse valore. Piangevo e tremavo mentre quei maiali si divertivano a turno. Sarà politicamente scorretto, sarà non bello a dirsi, sarà che cristianamente bisogna perdonare, ma queste persone, caro direttore, non credo possano vivere in mezzo a noi. Non posso dire cosa gli farei, ma chiunque nelle mie condizioni penserebbe di fargli esattamente le stesse cose. Fatico a considerarli umani. Perversi, infami, vigliacchi, questo sono". La ragazza poi spiega di aver ripensato a quel momento quando la vicenda dello stupro di Rimini ha fatto capolino nelle cronache. Anche lì uno stupro violento nei confronti di una donna e poi di un transessuale. "Per quegli schifosi, quell'abuso sessuale era una via di mezzo tra una festa e un sacrificio. Io ero lì, loro fumavano, bevevano, ridevano, si sfogavano sessualmente, parlavano tra loro mentre io ero buttata lì. Poi, forse per eccitarsi, inframezzavano parole in italiano e discutevano ad alta voce se uccidermi o tenermi invita, ovviamente dopo aver fatto un altro giro sguazzando nella mia carne, stuprando la mia anima. E ridevano, quanto ridevano...", si legge ancora sul Tempo. Poi alla fine la ragazza è riuscita a scappare, approfittando di un momento di distrazione di uno dei rom. Un incubo finito. Un incubo che rimarrà impresso indelebilmente nella sua anima. "Sa, direttore, tanta era la vergogna che non ho detto nulla a mio papà per 4 giorni, non volevo farlo soffrire. Poi però non ce l'ho fatta e mi sono liberata di tutto. Lui è stato un papà d' oro, si sorprendeva solo del silenzio stampa intorno a questa storia che coinvolgeva dei rom (zingari non si può scrivere, vero?). Ma non si dava pace. Temeva che altre ragazze potessero fare la mia stessa fine. Sa cosa ha fatto? Ha riempito il quartiere di volantini per raccontare cos'era successo, ed è solo a quel punto che i giornali hanno cominciato a scrivere. Non voglio buttarla in politica, non mi interessa. Non sono di destra e nemmeno di sinistra. Ma da allora sono iniziate ad accadere cose assurde. Certe associazioni di sinistra non solo non hanno avuto il minimo rispetto per quanto avevo subìto, ma hanno addirittura detto per telefono a mio padre che non doveva manifestare perché i due violentatori erano dei rom e così si sarebbe alimentato il «razzismo». Quei giorni sono stati terribili, ci chiamavano «fascisti», andavano in giro per il quartiere a mettere voci in giro che io mi ero inventata tutto, che ero una puttana". Infine l'appello: "Supplico tutti a finirla con questo politichese da schifo, col perbenismo, coi due pesi e le due misure. Perché quel che è capitato a me può capitare stasera a vostra figlia. Vorrei che la signora Boldrini, che tanto si batte per i diritti delle donne, non avesse remore a parlare di immigrati se immigrati sono gli stupratori, o di italiani se un italiano fa cose del genere. La violenza sessuale non ha colori, ideologie, religioni".

Boldrini clandestina. Accusa la polizia violenta, ma tace sugli stupratori nordafricani. Poi insulta chi la critica. E a Rimini il branco è ancora libero, scrive Alessandro Sallusti, Mercoledì 30/08/2017, su "Il Giornale".  Giorgia Meloni, leader di Fratelli d'Italia, critica a modo suo Laura Boldrini per il silenzio sullo stupro di Rimini e scoppia il pandemonio. La presidentessa è poi uscita dal riserbo solo per difendere se stessa dall'attacco, ma ancora una volta non ha detto una parola sulla ragazza vittima e sui nordafricani immigrati suoi aguzzini. Piagnucola come una bambina viziata, quasi che il problema del Paese e delle donne fosse la Meloni e non i suoi amici migranti fuori controllo e spesso in combutta con la delinquenza locale. Clandestina tra i clandestini, per la Boldrini è violenta solo la polizia che pochi giorni fa ha sgomberato una casa nel centro di Roma occupata dai clandestini e che oggi si scopre essere stata pure un «ufficio» dei trafficanti di esseri umani. Vorremmo tanto che la presidentessa della Camera, terza carica dello Stato, rompesse il silenzio per fare un appello alle comunità di immigrati che da quattro giorni proteggono, aiutano e forse ospitano i nordafricani autori dello stupro, sottraendoli così alla giustizia. Avremmo voluto vederla all'ospedale di Rimini a portare la solidarietà di tutti gli italiani alla ragazza vittima dell'abuso. Avremmo voluto sentirla zittire chi in questi giorni dà a noi dei razzisti perché abbiamo osato svelare l'identità (scomoda per quelli del politicamente corretto) degli aggressori. Sarebbe stata interessante una sua riflessione sul fatto che nella cultura islamica lo stupro non è poi così grave perché la donna non ha diritti, come scritto nel Corano (anzi, come noto, un giovane mediatore culturale pakistano da noi gentilmente ospitato, e pagato, ha sostenuto nelle scorse ore che alle donne lo stupro, superato il primo impatto, piace assai). Purtroppo le nostre speranze resteranno deluse. Ci resta la speranza che le donne italiane, soprattutto le politiche di ogni partito, in questa ennesima polemica, sappiano scegliere da che parte stare. Chi sta con i silenzi della Boldrini agevolerà la voglia di immunità degli stupratori nordafricani, della loro comunità e di eventuali balordi italiani che li stanno proteggendo; chi starà con Giorgia Meloni sarà al fianco della ragazza stuprata.

Filippo Facci su "Libero Quotidiano" il 29 Agosto 2017: le stuprate godono? È ciò che pensano gli islamici in Africa e Medio Oriente. Fosse solo un demente - un cretino, un idiota, scegliete voi - sarebbe meno grave: «Lo stupro è un atto peggio ma solo all’inizio, una volta che si entra il pisello poi la donna diventa calma e si gode come un rapporto sessuale normale». Ma non è solo un demente sgrammaticato: ad aver scritto che alle donne, in pratica, lo stupro piace - scritto su Facebook a commento della violenza di Rimini - è un 24enne che si chiama Abid Jee e che vive a Crotone anche se studia giurisprudenza a Bologna. Ma non è solo un demente sgrammaticato e immigrato che si presuppone minimamente istruito: è uno che, intanto, fa anche il «mediatore culturale e operatore sociale» in una cooperativa bolognese che gestisce migranti e che, l’anno passato, ha guadagnato 883.992 euro di utile: dunque costui, con questa mentalità progredita, sarebbe un pontiere tra la nostra cultura e un’altra. Quale? Ecco, ci siamo: perché costui non è solo un demente e un migrante istruito eccetera che viene pagato per gestire altri migranti e fa il mediatore culturale, ma la cultura che dovrebbe «mediare» è quella islamica, visto che è un pakistano di Peshawar (paese dove i musulmani sono il 98 per cento) e visto che a quanto pare frequentava una comunità islamica. Da qui, in sintesi, il giustificato sospetto che la sua considerazione della donna non sia tanto quella di un demente, ma semplicemente quella di un musulmano: quella, cioè, che la sua cultura e religione gli suggeriscono. Tipo che la donna sia inferiore, impari, sprovvista di tutti i diritti, una bambola in mano all’uomo, una a cui spetta meno quota di eredità, la cui testimonianza vale meno nei processi, una che non può decidere di divorziare, viaggiare, guidare, fumare, talvolta studiare o vestirsi senza celare il corpo. Questo è lo status femminile nei paesi più ortodossi, beninteso: laddove una 19enne saudita, per esempio, è stata violentata da un gruppo di sette uomini e però poi, a processo, è stata condannata a 200 frustate perché colpevole di trovarsi in un luogo pubblico senza un membro maschio della famiglia. Accadeva nel 2015. Ma qui per fortuna siamo in Occidente, dove esiste una «mediazione culturale» che ti permette di sostenere, al massimo, che alle donne piace essere stuprate purché abbiano la pazienza di aspettare che «entra il pisello». Ora: se per voi questa è una notiziola - come l’hanno trattata molti quotidiani online - per noi non lo è, perché sintetizza molte cose. Ovviamente è scoppiato un casino. Il mediatore culturale ha subito rimosso il suo commento da Facebook ma era comunque troppo tardi: tanto che la cooperativa Lai Momo di Sasso Marconi, nel pomeriggio, ha dovuto smarcarsi e ha detto di ritenere «gravissime» le sue dichiarazioni. Il ragazzo lavorava all’hub regionale di via Mattei dove si smistavano i migranti poi ridistribuiti in tutta la regione o in altre strutture di accoglienza della città: prima di essere assunto a tempo determinato, e di firmare il contratto, ha dovuto sottoscrivere un codice etico che a questo punto ci piacerebbe leggere. La decisione di sospenderlo è avvenuta solo dopo le polemiche politiche: non tanto quelle della consigliera comunale della Lega Nord Lucia Borgonzoni («gente così meriterebbe solo di stare in galera», mi aspetto «una presa di posizione dalla comunità islamica cittadina») ma solo dopo l’intervento dell’assessore bolognese al welfare Luca Rizzo Nervo: «Parole di una gravità inaudita da parte di un operatore sociale che opera nel campo della accoglienza dei migranti: è intollerabile». Sì, lo è. Se n’erano già accorti tutti da diverse ore. Ma l’assessore si è detto certo «che la cooperativa, che conosco per la serietà del lavoro che svolge, saprà trarre le conseguenze». Insomma, si sono telefonati. In serata sui social è poi circolato un cosiddetto «fake» (un falso) scritto da un presunto esponente del Pd, Alberto Neri: «Abid non ha detto nulla di sbagliato, a livello biologico ha ragione». Un falso, appunto. O - peggio - l’esito di una mediazione culturale.

SIAMO TUTTI CHRISTIAN RAIMO. QUELLO CHE ..., scrive il 30.08.2017 Gianmichele Laino su "Giornalettismo". È difficile reggere una trasmissione come Dalla vostra parte, in onda nel pre-serale su Rete 4, già come spettatore, figurarsi come ospite. Il coraggio di Christian Raimo, giornalista di Internazionale, si è manifestato innanzitutto quando ha accettato di essere protagonista di un collegamento con lo studio diretto da Maurizio Belpietro, ma è emerso ancor di più quando ha scelto il modo in cui portare avanti lo stesso collegamento. Raimo ha deciso di non giocare un ruolo passivo, ma di attaccare una trasmissione che – nella puntata del 28 agosto come in altre occasioni – aveva l’unico scopo di proporre agli italiani una versione dei fatti tarati su una certa opinione politica: l’attacco indiscriminato ai migranti, accusati di essere tutti stupratori, terroristi, delinquenti e artefici del declino dell’Italia. Dall’altra parte dello schermo, sempre in collegamento, c’era il direttore de Il Giornale Alessandro Sallusti, con cui Raimo, nei giorni scorsi, aveva avuto un’altra, fortissima discussione su La7, durante la trasmissione In Onda. Proprio durante un intervento del direttore de Il Giornale, Raimo ha deciso – all’ennesimo attacco gratuito nei confronti dei migranti – di abbandonare lo studio, non prima di aver mostrato dei cartelloni – scritti al momento – con frasi provocatorie. L’ultimo diceva «Non c’avete un altro servizio sui negri cattivi?» e intendeva denunciare proprio il continuo ciclo di interventi proposti dalla trasmissione sul rapporto tra l’Italia e i migranti, caratterizzato da un forte pregiudizio nei confronti di quest’ultimo. Raimo ha poi spiegato il suo punto di vista in un lungo post su Facebook, in cui metteva in luce l’approssimazione di un certo tipo di giornalismo, che non offre dati numerici e che si basa soltanto sulle reazioni «di pancia» nei confronti di questo o di quell’argomento. «A un certo punto – scrive Raimo su Facebook -, visto che si parlava di occupazioni, ho chiesto a Belpietro, se si era preparato qualche dato sull’emergenza abitativa. Ha balbettato che glieli fornissi io. Gli ho detto: Ma come hai fatto un pezzo di trasmissione su questo e non c’hai manco un dato?, e poi glieli ho detti io. Ho detto a Sallusti che tutto ciò che stava dicendo su immigrazione e occupazioni non aveva nessuna base dal punto di vista dell’informazione. Mi ha risposto che è vero è d’accordo anche lui che i giornali dovrebbero fare più inchieste; gli ho detto che gli basterebbe leggere mezzo libro, o qualche giornale fatto appena decentemente, e ripetere quello che c’è scritto lì». Ma è proprio la trasmissione Dalla vostra parte a rappresentare una delle pagine peggiori del giornalismo in Italia. Raimo – sempre su Facebook – l’ha definita «una trasmissione orripilante, che si compone essenzialmente di servizi, girati con i piedi, su neri che stuprano, neri che rubano, neri che minacciano bambini, neri che occupano le case degli italiani, neri che sono troppi, neri che se ne dovrebbero andare, neri che è già tanto che li sopportiamo e non li facciamo affogare tutti». Il suo post ha scatenato un ampio dibattito sul social network, farcito di insulti e offese. Dalle più banali volgarità riferite direttamente alla persona, sino ad arrivare a discorsi più ampi, a sfondo populista e razzista. C’è chi scrive: «ma lo fai o ci sei? vivi su Marte? ti piacciono? la mia città è rovinata da questi spacciatori del c***o. E se questo vuol dire essere razzista, ok: IO SONO RAZZISTA E ME NE FOTTO DI QUELLI COME TE E QUANDO SARAI A PECORA CON LORO IO RIDERÒ», o ancora: «Ridiamo l’Italia agli italiani! Poi se rimane spazio qualcuno può rimanere! E voi radical chic del c***o fatela finita di fare i finti buonisti». Anche da questo punto di vista, Raimo ha avuto il coraggio di denunciare. Sempre nel suo post su Facebook ha scritto: «Oggi sulla mia bacheca ci sono commenti di insulti, minacce di stupro a donne che commentano, la feccia della feccia. Risponderò ad uno ad uno, appena avrò tempo. Ma risponderò con la stessa franca risata con cui, prima di andarmene a metà, ho opposto ieri a Sallusti che affermava che nel Corano c’è scritto di fare attentati terroristici».

La lotta di Christian Raimo contro il fascismo da talk show. Christian Raimo ha osato criticato il fronte anti-immigrazionista guidato da Sallusti e Belpietro e per tutta risposta oggi il Giornale gli dedica un attacco personale dove lo si accusa di volere vedere di essere amico degli immigrati per poter avere un posto in Parlamento. Nessuna notizia invece sul colore dei suoi calzini. Per ora, scrive Giovanni Drogo mercoledì 30 agosto 2017 su "Next". Nonostante al Giornale ci sia chi sostiene che non è deontologicamente corretto per un giornalista criticare un collega oggi sul quotidiano diretto da Alessandro Sallusti possiamo leggere un attacco a Christiam Raimo. Per il Giornale Raimo, giornalista di Internazionale è “il solone della sinistra” e “il nuovo provocatore che agita i talk show”. Cosa ha fatto di così terribile per meritarsi di essere definito “provocatore smanioso di visibilità à la Gabriele Paolini”? Semplice, non ha dato ragione ad Alessandro Sallusti e Maurizio Belpietro sullo scottante tema dei crimini dei negri.

Per il Giornale Raimo è un “aspirante profeta dell’umanitarismo”. Lunedì sera Raimo era ospite della trasmissione gentista condotta dal direttore della Verità (il giornale che qualche giorno fa ci raccontava degli esperimenti all’ossitocina per farci amare gli immigrati) dove si parlava di terrorismo, di occupazioni, di stupri commessi da parte degli immigrati e del silenzio della sinistra buonista che minimizza quanto successo a Rimini. A “Dalla vostra parte” gli italiani vengono costantemente presentati come vittime dell’immigrazione e gli immigrati sono naturalmente e culturalmente tutti votati alla violenza e alla sopraffazione. In buona sostanza il programma di “approfondimento” di Rete 4 è la versione televisiva delle vignette di Ghisberto. Perché, ha esordito Belpietro, sui giornali si tace dell’origine di questi stupratori? Non è che forse c’è la volontà di nascondere che sono di origine nordafricana e forse anche clandestini (in realtà risulterebbero essere immigrati regolari NdR)? Sallusti né è convinto, è colpa del “virus che hanno seminato per l’Italia le varie Boldrini e i vari Saviano”. È il temutissimo virus del “razzismo all’incontrario” per cui non si può dire e non è politicamente corretto dire che i nordafricani stuprano delle donne. I buonisti insomma hanno tutto l’interesse a nascondere agli italiani la verità: gli immigrati sono tutti violenti, terroristi e stupratori. Verità che invece viene raccontata ogni sera su Rete 4. La realtà delle cose è che tutti i giornali hanno parlato della presunta nazionalità degli stupratori. Così come nessun organo di stampa ha nascosto in qualche modo il fatto che a Barcellona (o a Parigi o a Bruxelles) gli attentatori fossero di fede islamica. Certo, magari non hanno titolato “bastardi islamici” come fece Belpietro quando era direttore di Libero. E di sicuro i buonisti non godono in prima pagina quando muore un razzista.

Non avete un alto servizio su negri cattivi? Ma il vero crimine di Raimo è stato un altro. Lui, con “la sua aria da letterato impegnato che si carica sulle spalle tutta la sofferenza del mondo” ha osato chiedere a Belpietro alcuni dati sull’emergenza abitativa a Roma. Era appena stato mandato in onda un servizio che contrapponeva i criminali stranieri che prendono quello che vogliono e occupano abusivamente le case alla situazione di una donna italiana costretta a vivere in auto. È la solita storia degli immigrati negli alberghi a 5 stelle e gli italiani terremotati nelle tende.

Dalla vostra parte: e gli analfabeti funzionali godono..., scrive Fabio Morasca lunedì 28 agosto 2017 "Tv Blog". Gli analfabeti funzionali sono un target appetibile. Come i vegani. Non stiamo dicendo che i vegani siano analfabeti funzionali (anche se una parte, effettivamente, lo è), stiamo solo parlando di marketing. Concentriamoci sui vegani. Ci sono aziende che, coraggiosamente, li sfottono, come il Panettone Motta, e altre aziende che, dopo aver intravisto il business, decidono di lanciare sul mercato prodotti ad hoc, come lo storico Cornetto Veggy, tanto per fare un esempio. Perché? Perché i vegani sono un target appetibile. Medesimo discorso, per i complottari dell'olio di palma. C'è chi coraggiosamente li sfida, proponendo un confronto, come la Nutella, e c'è chi, invece, stampa sulle confezioni dei propri prodotti, la scritta "SENZA OLIO DI PALMA" a caratteri cubitali. Perché? Perché i complottari dell'olio di palma sono un target appetibile. Stesso discorso, quindi, si può fare sugli analfabeti funzionali (che ci rifiutiamo di definire "pancia del paese"). Sono un target appetibile, soprattutto perché sono tanti. Se li lavorano i politici, se li lavorano i programmi televisivi. Programmi televisivi come Dalla vostra parte. Dalla vostra parte è come un Cornetto Veggy, con la differenza che quest'ultimo può anche essere buono mentre il programma di Rete 4 risulta ampiamente indigesto. Si può intuire il target della trasmissione in appena 10 secondi. E' incredibile. L'intento di certi programmi televisivi, e di certi media in generale, è palese, non si spendono neanche nello sforzo di renderlo subliminale. Definirlo giornalismo sfacciato è quasi come fare una carezza su un volto. Ma, essendoci gli analfabeti funzionali che, se ancora non vi è chiaro, sono un target appetibile, programmi come Dalla vostra parte avranno sempre senso di esistere. Il problema è di chi li guarda, non di chi li fa.

20:33. Inizio trasmissione. Maurizio Belpietro saluta gli spettatori e annuncia gli argomenti: terrorismo, sgomberi e criminalità sulle spiagge. In collegamento c'è Chiara Russo, sorella di Luca Russo, vittima dell'attentato di Barcellona.

20:36. Va in onda un servizio dedicato al terrorista arrestato a Torino. Chiara Russo: "Stiamo cercando di dare un senso a tutto ciò ma il senso non c'è".

20:39. Chiara Russo: "Bisogna pensare a come cambiare le cose. Non è concepibile una morte del genere. E' una cosa atroce. Non voglio che Luca diventi un numero".

20:42. Va in onda un servizio dedicato agli stupri avvenuti a Rimini e a Jesolo.

20:45. A Rimini, c'è l'inviato Mario Marchi: "C'è una pista specifica e sicura. Il caso si risolverà nelle prossime ore". In collegamento ci sono Alessandro Sallusti e Christian Raimo. Sallusti: "Per 2 giorni, non si è detta la nazionalità degli stupratori".

20:48. Raimo: "Tutti l'hanno detto. Avete fatto 4 servizi di questo tipo. Mai vista una tv così brutta". Raimo mostra un cartello con su scritto: "Fate una tv razzista e islamofoba". Belpietro risponde polemicamente.

20:51. Sallusti: "C'è un razzismo al contrario. Non si può dire la nazionalità". Raimo: "Ma la state dicendo!". Va in onda un servizio dedicato agli sgomberi a Roma.

20:54. In collegamento c'è l'inviato Alessio Fusco che si trova a Roma, all'interno di un palazzo occupato.

21:03. Fusco si addentra nel palazzo occupato. In collegamento c'è una donna che vive in un'automobile. Va in onda il servizio dedicato a lei.

21:06. La donna si chiama Simona: "Non ci sono possibilità su questo territorio. I servizi sociali, ci mettessero la faccia".

21:09. Nuova polemica Raimo - Belpietro. Raimo: "A casa mia, ospito due sfollati. Conosco la trafila della signora".

21:12. Sallusti: "Noi non pensiamo più ai nostri cittadini". Raimo mostra un altro cartello con su scritto: "Avete un altro servizio sui negri cattivi?". Raimo discute con Sallusti sul terrorismo. Raimo: "I terroristi non sanno nulla del Corano".

21:15. Raimo abbandona la sua postazione. Nuovo collegamento con Marchi. In collegamento c'è un bagnino picchiato da un venditore ambulante, Riccardo Bonato. Va in onda il servizio.

21:17. Bonato: "Le forze dell'ordine hanno le mani legate. Sono troppo tutelati". Fine prima puntata.

Il nuovo provocatore che agita i talk show e vede fascisti ovunque. Christian Raimo, prof di liceo, fa il solone di estrema sinistra. E magari cerca un seggio, scrive Laura Tecce, Mercoledì 30/08/2017, su "Il Giornale". «In futuro ognuno sarà famoso per 15 minuti». Aveva ragione Andy Warhol, tutti vogliono apparire, tutti bramano quel breve ed effimero briciolo di notorietà. Che non si nega a nessuno. Neanche a Christian Raimo, assurto nei giorni scorsi agli agognati «onori della cronaca» per l'accanita difesa degli immigrati sgomberati dall'immobile occupato di piazza Indipendenza a Roma. Classe 1975, professore in un liceo statale della Capitale dove insegna storia e filosofia, scrittore per Minimum Fax e articolista per L'Internazionale, quest'estate la palma del provocatore smanioso di visibilità à la Gabriele Paolini, spetta dunque a Raimo. Con la sua aria da letterato impegnato che si carica sulle spalle tutta la sofferenza del mondo, si candida al ruolo di vice Saviano - causa ferie agostane di quest'ultimo - e di leader mediatico dei movimenti per il diritto alla casa. Il copione è il solito: il prof ha imparato la lezioncina e ha messo in atto con scrupolo ciò che un aspirante intellettuale di riferimento di una certa area culturale di sinistra, la cui longa manus si estende dai centri sociali ai salotti radical chic, deve fare: il cavaliere senza macchia nella difesa degli «ultimi». Dove gli ultimi, ovviamente, sono i profughi e gli immigrati come ogni aspirante star del politicamente corretto che si rispetti ben sa. Laura Boldrini docet: ci ha costruito una carriera politica. Chissà se anche Raimo non voglia fare il grande salto e dalla testa dei cortei anti sgombero planare diretto in Parlamento. L'aspirante profeta dell'umanitarismo a un certo punto però si deve essere reso conto che mancava un tassello: l'antifascismo militante in assenza di fascismo. Un cliché logoro ma che ancora racimola qualche indignato e titoli di giornale. Al via dunque il lancio della petizione su change.org «Per una Roma antirazzista, antifascista e solidale» e poi l'occasione della vita: dare del fascista in diretta tv a un direttore di un quotidiano «nemico», il Giornale, Alessandro Sallusti. «Essere comodamente fascisti in questo tempo conviene» (In Onda, La7, 24 agosto). Così parlò il filosofo illuminato Raimo. Del resto «in questo tempo» affibbiare a casaccio epiteti quali fascista, razzista, xenofobo a chi la pensa differentemente o a chi difende la legalità è un sicuro lasciapassare per l'Olimpo delle star del buonismo in salsa terzomondista. Mai domo, il nostro campione dall'alto della sua superiorità morale e culturale, il giorno dopo ha esternato nuovamente il suo fine pensiero con un post su Facebook: «Ieri ho partecipato a una trasmissione tv. C'era anche Alessandro Sallusti in collegamento da Forte dei Marmi (in prima linea in zona apericena) che biascicava dati completamente sbagliati, faceva esempi incomprensibili, e diceva cose comodamente fasciste. Non c'era nessun giornalista del suo Giornale in piazza tra l'altro, per le notizie fa direttamente Ctrl+C dalle veline della questura. Per intenderci anche, il fondatore del Giornale Indro Montanelli a suo tempo si comprò un'eritrea di dodici anni come schiava sessuale e nel 1936 rispetto alla guerra italiana in Etiopia dichiarava: Non si sarà mai dei dominatori, se non avremo la coscienza esatta di una nostra fatale superiorità». Stendiamo un velo pietoso. Tutta la nostra umana comprensione agli studenti liceali che loro malgrado hanno a che fare con un insegnante che mostra di avere un tale equilibrio, tale proprietà di linguaggio e tale rispetto per la legalità.

Però nè fascisti nè comunisti parlano del fenomeno del razzismo sui meridionali.

Cori razzisti contro il Napoli. Barbari e pure ignoranti. A Verona, alcuni tifosi, oltre che barbari, sono razzisti e pure ignoranti. Un video pubblicato dal canale YouTube "Tutto Verona web 1" mostra l'inizio della prima di campionato del Napoli allo stadio Bentegodi il 19 agosto 2017. Lo speaker annuncia la formazione azzurra e la curva urla "scimmia" dopo il nome di ogni giocatore (video Tutta Verona web 1). Peccato che nella formazione del Napoli c’era solo un italiano: il napoletano Lorenzo Insigne.

Certo è che l'analisi di Sansonetti può essere condivisibile. Come certo è che i media di propensione buonista e catto comunista, con il sistema ideologico del politicamente corretto, disinformano ed influenzano la società civile.

I diritti negati che cancellano la proprietà, scrive Carlo Lottieri, Martedì 29/08/2017, su "Il Giornale". A sinistra come a destra, quando si parla di accoglienza e immigrazione si fa riferimento alla necessità che quanti arrivano da lontano riconoscano i nostri diritti e si comportino di conseguenza. In fondo, è idea abbastanza condivisa che sia più «integrato» uno straniero che non sa una parola della nostra lingua ma si guadagna onestamente da vivere rispetto a uno che, invece, ha imparato bene l'italiano, ma vive di furti e violenze. Se le cose stanno così, bisognerebbe essere chiari sul tema delle occupazioni abusive. Venire in Italia ed entrare in casa d'altri significa fin dall'inizio non voler rispettare i diritti del prossimo. In uno degli episodi più affrontati dalla stampa nel corso degli ultimi giorni, lo sgombero ha riguardato una proprietà detenuta da una società tra i cui azionisti vi sono, essenzialmente, fondi pensione. In questo caso, occupare un immobile senza pagare l'affitto significa dare pensioni più esigue agli anziani. Quando il governo ha deciso che prima di sgombrare un immobile bisognerà trovare una sistemazione agli occupanti, esso ha rinunciato del tutto all'idea che sia suo compito garantire il diritto. Dinanzi a chi viene in Italia e occupa stabili, invece che cercare abitazioni alternative bisognerebbe capire come sia possibile rispedire nel Paese d'origine queste persone. Questo non per assumere un atteggiamento punitivo, ma per affermare il principio che non si può avere convivenza senza regole e, soprattutto, senza rispetto della proprietà. Perché tutto questo non avviene? Perché il governo non è spinto dall'opinione pubblica ad adottare soluzioni drastiche di fronte agli occupanti? La ragione di tale disfatta è semplice ed è da trovare nel fatto che gli italiani, per primi, hanno perso ogni cognizione elementare del diritto. Gli abusi compiuti dagli immigrati, d'altro canto, sono assai simili a quelli compiuti da molti nostri connazionali, che senza problemi occupano case altrui e non vengono perseguiti dalle autorità. E in fondo gli stessi squatter copiano una classe politica tanto abile nel mettere le mani dentro le nostre tasche. Dobbiamo capire che se non sappiamo integrare nel nostro ordine giuridico chi viene da lontano la prima ragione sta nel fatto che noi stessi abbiamo dissolto (quasi) ogni regola e ogni rispetto del prossimo. Avendo smesso di credere nella proprietà e nel diritto, abbiamo aperto la strada alla barbarie.

Jesolo, arrestato un 25enne marocchino: "Violenza sessuale su una 17enne in discoteca", scrive il 28 Agosto 2017 "Libero Quotidiano". Una ragazza 17enne ha denunciato di avere subito una violenza sessuale dopo una notte passata in discoteca. La denuncia è arrivata ai carabinieri di Jesolo (Ve) dalla giovane, originaria del Paraguay e residente a Verona, che ha passato sabato notte alla discoteca Il Muretto di Jesolo. Lì avrebbe conosciuto un ragazzo di origine marocchina di 25 anni, residente nel vicentino. Nelle prime ore siti e tv parlavano del presunto stupratore come di "italiano", ben specificandolo nel titolo di lancio della notizia. Alle prime ore della mattina di domenica la ragazza è stata trovata dalle sue amiche sotto choc davanti all'ingresso della discoteca e ha detto di essere stata stuprata. I gestori della discoteca hanno quindi chiamato i carabinieri che domenica hanno rintracciato e arrestato il presunto violentatore che è accusato di violenza sessuale. I due giovani sabato sera, dopo una prima parte della serata trascorsa insieme a ballare, si sono allontanati dal locale mano nella mano, come evidenziato dalle telecamere di videosorveglianza del locale, ma, una volta raggiunta una zona appartata nel parcheggio, il ragazzo avrebbe costretto la 17enne a un rapporto sessuale.

Vietato dire che i ricercati sono stranieri. Neppure di fronte all'orrore di uno stupro di gruppo ai danni di una ragazza il politicamente corretto molla il colpo, scrive Alessandro Sallusti, Lunedì 28/08/2017, su "Il Giornale". Neppure di fronte all'orrore di uno stupro di gruppo ai danni di una ragazza il politicamente corretto molla il colpo. Lo stupro è un reato infame, chiunque lo commetta. Ma il punto è: perché non dire chi, o meglio chi si sta cercando come presunti responsabili, come sta accadendo per il caso della ragazza violentata sulla spiaggia di Rimini? I lettori della maggior parte dei giornali quotidiani di ieri e dei telegiornali, che pure hanno riservato ampio spazio al fatto, non sanno o hanno al massimo intuìto, leggendo tra le righe, che la polizia sta dando la caccia a tre immigrati maghrebini. Saranno loro i colpevoli? Non lo sappiamo, ma la notizia è che gli inquirenti stanno cercando proprio loro. E allora perché non dirlo, non fornire all'opinione pubblica l'identikit del possibile assassino, come avviene in tutti i casi di cronaca nera fin dai tempi dei tempi? Siamo certi che se la ragazza stuprata e il suo compagno ferito avessero riferito di essere stati assaliti invece che da persone di carnagione scura da italiani, non ci sarebbero state tutte queste precauzioni e omertà. E i titoli sarebbero stati più o meno: «La banda dei biondini violenta giovane turista». Ripeto, oggi nessuno sa la verità, ma gli inquirenti sanno bene chi stanno cercando, i giornalisti sanno bene la pista battuta dagli inquirenti, i direttori dei giornali sanno bene cosa sanno i giornalisti. Tutti sanno, ma nessuno osa dire e scrivere con chiarezza. Siamo al punto che gli immigrati, rispetto a noi italiani, non solo sono tutelati dal sistema quando occupano una casa ma pure quando sono sospettati di avere stuprato una ragazza. È il maledetto virus con cui le Boldrini e i Saviano hanno infettato il paese, un razzismo all'incontrario, tutelato perfino dall'Ordine dei giornalisti che indaga e punisce i colleghi che osano vaccinarsi, cioè chiamare le cose con il proprio nome. Di recente sono finito sotto processo per un titolo: «Tentano di rapire un bimbo, la polizia setaccia campo rom», che riportava fedelmente i fatti. Rivendico la libertà di informarvi che la polizia, per i fatti di Rimini, sta cercando tre immigrati, il che non vuole dire nulla di più e nulla di meno di ciò che sta accadendo in queste ore. Non saremo politicamente corretti ma professionalmente sì. E questo ci basta.

"Lo strano mistero dello stupro di Rimini", scrive Pietro Senaldi il 27 Agosto 2017 su "Libero Quotidiano". I giornali non dicono la verità sugli stupratori di Rimini. O meglio, omettono che essi siano magrebini. Pietro Senaldi, a #90secondi, spiega perché al contrario Libero lo ha rivelato subito: "Non è nascondendo la verità che si evita l'odio sociale". La nuova prassi italiana, ma forse sarebbe più appropriato definirla terzomondista, per cui i carnefici si proteggono e le vittime si offrono alla piazza, si è arricchita di un altro capitolo. Dopo la solidarietà agli immigrati che avevano occupato abusivamente un palazzo romano di proprietà dei pensionati e la condanna dei poliziotti che, presi a bombole del gas in testa, li hanno sgomberati con la forza, il circolo mediatico votato al boldrinismo più fazioso si è cimentato in un altro fattaccio di cronaca. Una coppia di turisti è stata aggredita da una banda di ragazzotti sulla spiaggia di Rimini che hanno pestato a sangue lui e violentato ripetutamente lei. Sappiamo che le vittime sono polacche, che i delinquenti hanno poi riservato lo stesso trattamento a un trans peruviano e che la testimone chiave della vicenda è una prostituta romena. I particolari sono stati riportati da tutti, in certi casi perfino con disegnini illuminanti. Ma solo Libero, il Quotidiano Nazionale e i «giornalacci» della destra hanno evidenziato che secondo la polizia gli stupratori erano sì ubriachi, come hanno scritto tutti, ma anche immigrati, particolare ritenuto irrilevante invece dagli altri, per i quali era viceversa fondamentale la nazionalità delle vittime. Cautela? Può darsi, perché i criminali sono alla macchia e il rischio figuraccia c' è, ma non ci crediamo poi tanto. Dopo la cinquantesima riga infatti qualcuno l' ha anche scritto, in un sussulto di professionalità o confidando che il caporedattore non si spingesse fino a lì nella lettura, qual è l' origine degli aggressori, il che significa che è stata confermata da più fonti. Cionondimeno, anche ieri, i tg non hanno ritenuto di calcare sull' argomento. Insomma, è fondamentale che la prostituta sia romena e le vittime polacche e peruviane ma è un dettaglio da omettere chi abbia fatto loro la festa. Forse perché nessuno vuole che le lettrici e le telespettatrici si allarmino se vengono circondate di notte da una banda di immigrati. Meglio non instillare in loro il germe del razzismo e lasciare che girino, ignare e sicure, per le nostre spiagge e strade multietniche. Tutt' altro trattamento è stato riservato invece all' italiano che, multato per aver parcheggiato sul posto riservato a un disabile e da questi denunciato ai vigili, si è vendicato affiggendo un cartello infame in cui insultava il portatore di handicap rallegrandosi per la sua condizione. Un comportamento orribile, stigmatizzato anche da Libero ma che è valso al suo autore una gogna nazionale senza eguali. Di lui sappiamo l'età, l'auto, la professione, il titolo di studio e perfino il paese. Infatti non è un immigrato ma un italiano, addirittura un truce brianzolo, a cui forse Paolo Virzì, il regista di «Il capitale umano», sta già dedicando un film. Da stigmatizzare anche il silenzio del presidente della Camera, Laura Boldrini e, al momento della stragrande maggioranza delle paladine del femminismo. Evidentemente le donne si tutelano meglio se si costringono gli italiani a chiamarle avvocata o presidenta piuttosto che se le si mette in guardia dai rischi dell'invasione. D' altronde è cosa nota che per i nostri rappresentanti, e per i nostri media, un fatto non vale tanto per se stesso bensì per il significato politico che gli si vuole dare e per l'ideologia alla quale è funzionale. Il villano brianzolo, forse vicino di casa di Berlusconi, va messo alla gogna più dello stupratore nordafricano, del quale si sottolinea lo stato di ebbrezza, a mo' di attenuante, quando invece è un'aggravante, e non solo per il Corano ma anche per il nostro codice penale. Forse questa cortina di fumo viene messa per non alzare il livello di tensione sociale, come i tedeschi che non rivelano le nazionalità di chi commette attentati per evitare episodi di linciaggio. Forse siamo noi maliziosi nel voler vedere a tutti i costi la cattiva fede altrui e a sentire odore di ordini di scuderia in redazione. Ma la verità è che siamo allarmati e che chi nasconde l'identità degli stupratori immigrati ci fa quasi paura quanto questi. Nascondere, minimizzare, relativizzare i problemi, non aiuta a risolverli ma li aggrava rapidamente, fino a farli diventare ingestibili e portarli al punto di esplosione. Non si sa quando lo scoppio avviene, perché fino a un attimo prima la situazione è immutata e immanente, ma quando accade, è incontrollabile. È successo così con il traffico di uomini agevolato dalle organizzazioni non governative, molte delle quali, in combutta con gli scafisti, facevano i soldi spacciandosi per santi. È capitato con gli occupatori abusivi di case, a cui lo Stato fino al giorno prima aveva permesso di comportarsi come proprietari, consentendo loro di dare addirittura in affitto gli alloggi che abitavano illegalmente. Succederà anche con le violenze degli immigrati che nascondiamo sotto il letto come la polvere. Un giorno, improvvisamente, per vincere le elezioni, perché colpito in prima persona o per "impazzimento" individuale, qualcuno non ne potrà più, e sarà il caos. Ci auguriamo di no, ma lo temiamo.

E poi...Saviano va in tv a spiegare che una volta eravamo noi italiani gli zingari d’America. Ma è una bufala, scrive il 12 Giugno 2013 Carlo Giovanardi su "Tempi". Ospite di Fabio Fazio, lo scrittore cita «un documento dell’Ispettorato per l’immigrazione Usa» che tratta gli italiani come zecche. Peccato che sia una patacca. Domenica 26 maggio Roberto Saviano, intervistato da Fabio Fazio nella trasmissione Che tempo che fa, per combattere quella da lui definita l’ondata di «odio morale verso gli immigrati» ha letto un testo. Cito testualmente le sue parole: «Avevo visto e trascritto qui alcune parole della relazione dell’Ispettorato per l’immigrazione del Congresso americano, quindi un documento ufficiale del governo americano del 1912, così descrive gli italiani». Ecco il testo letto da Saviano: «Gli italiani sono generalmente di piccola statura e di pelle scura, non amano l’acqua, molti di loro puzzano perché tengono lo stesso vestito per molte settimane, si costruiscono baracche di legno e alluminio nelle periferie delle città dove vivono, vicini gli uni agli altri. Si presentano di solito in due, cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci, tra loro parlano lingue a noi incomprensibili probabilmente antichi dialetti. Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l’elemosina, fanno molti figli che poi faticano a mantenere. Dicono siano dediti al furto, e le nostre donne li evitano non solo perché poco attraenti e selvatici, ma perché si parla di stupri o agguati in strade periferiche. Propongo che si privilegino le persone del nord, veneti e lombardi, corti di comprendonio e ignoranti, ma disposti più degli altri a lavorare». Concludeva poi Saviano: «Incredibile che il nostro paese tutto questo non lo ricordi, non ne faccia memoria attiva, ma lo trasferisca quando si rivolge ad altre comunità o “etnie”». Conosco bene la storia dell’emigrazione italiana e delle terribili discriminazioni e umiliazioni di cui i nostri connazionali sono stati vittime all’estero ma, trovandomi per caso quella sera davanti alla tv di Stato, mi è parso del tutto evidente il fumus di “patacca” che emanava da frasi così volgari ed offensive in un documento ufficiale del Senato degli Stati Uniti nei confronti di un intero popolo. Una rapida ricerca su Google mi ha permesso di scoprire che già Paolo Attivissimo sul sito del CICAP (Comitato italiano per il controllo delle affermazioni sul paranormale), aveva a suo tempo verificato che di quel testo erano in circolazione varie versioni, una delle quali, lanciata da Rainews24, citava come fonte il giornalista e conduttore televisivo Andrea Sarubbi che nel 2009 aveva pubblicato un articolo con quella citazione. Sarubbi, interpellato, aveva precisato di non aver tratto la citazione direttamente dal documento statunitense originale. La sua frase: «Ho fra le mani un documento dell’Ispettorato per l’immigrazione», non era quindi letterale, ma derivava da una fonte italiana, «un articolo pubblicato un anno fa sul giornale Il Verona dall’avv. Guarenti». Guarenti, a sua volta, dichiarava di averlo trovato «in un libro di un anno fa» ma non era in grado di citare il titolo del libro. Insomma, concludeva Attivissimo: «Siamo di fronte ad una situazione almeno di terza mano di cui non si sa la fonte intermedia». Sulla traccia di Attivissimo ho interpellato pertanto formalmente l’ambasciata americana che mi ha risposto il 30 maggio: «La commissione sull’immigrazione degli Stati Uniti conosciuta come la Dillingham Commission dal nome del senatore del Vermont che l’ha presieduta ha lavorato dal 1907 al 1911 e ha pubblicato 41 volumi  di rapporti contenenti dati statistici sull’immigrazione negli Stati Uniti, l’occupazione degli immigrati, le condizioni di vita, la scolarizzazione dei bambini, le organizzazioni sociali e culturali, delle comunità degli immigrati e la legislazione sull’immigrazione a livello statale e federale». Continuava poi l’ambasciata americana: «Questi sono gli unici rapporti ufficiali sull’immigrazione elaborati in quegli anni e disponibili al pubblico. Da una visione superficiale, la citazione da lei riportata nella sua mail non appare in nessuno di questi rapporti, ma per esserne certi bisognerebbe eseguire una ricerca più accurata, per la quale purtroppo noi non siamo in grado di aiutarla in questo momento». Aiutati che Dio ti aiuta, ho consultato tramite la mail inviatami dall’Ambasciata tutti i volumi senza trovar traccia del documento citato da Saviano, ma viceversa una interessantissima disamina sull’immigrazione dell’Italia che ho fatto tradurre dall’inglese e si può leggere sul mio sito. Per il resto ringrazio Saviano che mi permette di aggiungere il XII ed ultimo capitolo al libro intitolato Balle che sto pubblicando, dove spiego come l’opinione pubblica italiana fonda le sue convinzioni su vere e proprie bufale che vengono troppo spesso disinvoltamente spacciate come verità.

Roberto Saviano tenta di smontare le bufale sui migranti, ma scivola e ruzzola a terra. Con un video editoriale su Repubblica lo scrittore napoletano prova a dare una rappresentazione plastica della grettezza italiana sul tema dei migranti, ma l’impresa si rivela un flop, scrive Rocco Todero su “Il Foglio” del 28 Agosto 2017. Con un video editoriale apparso su Repubblica il 27 agosto Roberto Saviano ha provato a smontare le dieci presunte bufale che ammorberebbero il dibattito pubblico sui migranti e che sarebbero amplificate in rete e per ogni dove da italiani gretti, razzisti e ignoranti. Lo scrittore napoletano ha sottolineato, fra le altre cose, come, dati alla mano, i migranti costino al contribuente italiano solo lo 0,2% del PIL (circa 3,3 miliardi) mentre arricchiscano le casse dello Stato per circo 8 miliardi di euro (in pratica ci pagano le pensioni, ha chiosato Saviano), rappresentino appena il 7% della popolazione europea composta da ben cinquecento milioni di abitanti, percepiscano solo 2,5 euro al giorno e non già 35 euro, come in mala fede sarebbe stato detto in più occasioni, atteso che quest’ultima cifra, in realtà, è quanto viene speso (dal contribuente italiano) per vitto, alloggio e pagamento di servizi vari. I migranti nella ricostruzione di Saviano, poi, svolgono lavori che gli italiani non vogliono più realizzare, vengono accolti in alloggi che tutto sono fuorché alberghi comodi e confortevoli e rappresentano l’unica risorsa per contro bilanciare il calo demografico italiano e per riequilibrare il conto complessivo delle pensioni nazionali. Lo scopo della reprimenda è, evidentemente, quella di attribuire esclusivamente al pregiudizio italico l’atteggiamento poco conciliante manifestato da una parte dell’opinione pubblica nei confronti degli sbarchi di migranti e clandestini che negli ultimi due anni hanno tenuto banco nel dibattito politico nazionale ed europeo. Il sottinteso, che Saviano non esplicita ma che rimane impresso nella mente dello spettatore come la cifra principale dell’intervento apparentemente chiarificatore dello scrittore partenopeo, è quello di mettere una parte dell’opinione pubblica italiana di fronte alla propria presunta grettezza, al proprio atavico razzismo, alla propria proverbiale ignoranza. La conclusione risulta inevitabile: state buoni perché così dovete. Saviano, tuttavia, non si avvede come nella foga della tirata d’orecchie alla gente italica abbia messo insieme problematiche del tutto eterogenee sotto l’ombrellone ampio e multiforme della nozione di migranti. I migranti che impegnano lo 0,2% del PIL italiano, infatti, sono evidentemente quelli che ospitiamo per ragioni umanitarie e che non possiamo respingere in ossequio all’effettività della tutela dei diritti umani e del rispetto delle principali convenzioni internazionali che abbiamo sottoscritto. I migranti che ci arricchiscono di ben 8 miliardi di euro, invece, sono quelli che grazie ad un regolare permesso di soggiorno (per lo più per ragioni di lavoro) hanno trovato in Italia una sistemazione definitiva dentro un flusso di immigrazione regolato periodicamente dalla legge dello Stato. Per quale ragione il versamento dei contributi previdenziali da parte di immigrati residenti regolarmente in Italia, che traggono sostentamento dall’attività lavorativa esercitata all’interno del nostro sistema economico, debba diventare un merito, da ascrivere agli stessi immigranti, e da utilizzare (come fa Saviano) per controbilanciare lo sforzo che il contribuente italiano mette in atto per finanziare (anche solo con lo 0,2% del PIL) l’accoglienza di altri e ben diversi migranti, non è dato sapere. Saviano (come altri commentatori del resto) omette di considerare che il pagamento dei contributi pensionistici da parte degli immigrati regolari non rappresenta una gentile concessione nei confronti delle casse previdenziali italiane e che quanti risiedono regolarmente in Italia pagano tasse e contributi perché viene riconosciuto loro il diritto di godere di tutti i servizi e le previdenze garantite ai cittadini italiani. Il tentativo, pertanto, di mettere in correlazione un flusso di migrazione privo di alcun limite predeterminato da cui derivano costi non indifferenti per lo Stato ed una immigrazione periodica programmata e governata dalla legge, al fine di operare una compensazione di benefici - sacrifici che dovrebbe convincere il contribuente italiano a sopportare migliaia di sbarchi irregolari senza battere ciglio di fronte ad inerzia diplomatica e militare e nella assoluta inconsapevolezza della quantità limite dello sforzo richiesto alle tasche di ciascuno (per quanto tempo e per quanti migranti?), appare un mero espediente dialettico dietro il quale nascondere l’incapacità di dare risposte concrete alle legittime preoccupazioni di una parte dell’opinione pubblica. Allo stesso modo non si comprende la ragione per la quale la necessità di riequilibrare il calo demografico italiano per mezzo di immigrati (che dovrebbero necessariamente vivere del loro lavoro) dovrebbe zittire quanti si pongono legittimi interrogativi circa l’entità dell’impegno economico che ci è stato sin qui richiesto in maniera pressoché esclusiva (anche a causa di quello che sino ad ora è apparso un isolamento internazionale che pare dovrebbe cessare quanto prima) e dal quale derivano in aggiunta complicazioni di sicurezza ed ordine pubblico. Ciò detto, di quale bufala vogliamo parlare adesso?

Bugie su sbarchi e accoglienza: ecco le 10 fake news di Saviano. I 35 euro giornalieri, i soggiorni in hotel a 4 stelle, i legami coop-mafia. Ecco la realtà negata dallo scrittore buonista, scrive Paolo Bracalini, Lunedì 28/08/2017, su "Il Giornale". Lo scrittore Roberto Saviano ha diffuso sui social il decalogo delle dieci bufale sui migranti. Eccole smontate una per una.

«I MIGRANTI NON RICEVONO 35 EURO AL GIORNO DALLO STATO». Ogni migrante viene mantenuto dallo Stato che garantisce alloggio e vitto (colazione, pranzo e cena, con menù che devono osservare tassativamente le «regole alimentari dettate dalle diverse scelte religiose») in una delle strutture predisposte, più il cosiddetto pocket money. Il costo giornaliero del mantenimento sono appunto i famosi 35 euro, una cifra non fissata per legge ma stabilita dai singoli bandi. Ai 35 euro si aggiungono 2,5 euro giornalieri che invece vanno direttamente ad ogni clandestino, più una scheda telefonica di 15 euro all'arrivo. Vitto, alloggio, un aiuto per le spese, ricarica del cellulare. Un trattamento che a molti italiani non dispiacerebbe.

«LE COOP NON HANNO LEGAMI CON LA MAFIA». È lo stesso Saviano a riconoscere che è vero: «Le mafie si infiltrano anche nella gestione degli immigrati». Un business miliardario che il crimine non poteva lasciarsi sfuggire, visto poi che i barconi approdano in zone da loro controllate. Solo le più recenti operazioni: ndrangheta e business dei migranti, 68 arresti a Isola Capo Rizzuto; a Rimini la Questura scopre che 8 hotel su 15 che si erano proposte al Comune per ospitare i migranti erano legate a mafia, camorra e Sacra Corona Unita. Secondo una ricerca dell'Istituto Demoskopika gli sbarchi dal 2011 ad oggi hanno fruttato alla criminalità organizzata un giro di affari di 4 miliardi di euro.

«I MIGRANTI NON FANNO LA BELLA VITA NEGLI HOTEL DI LUSSO». Lusso magari no, ma ex hotel anche a 3 o 4 stelle riconvertiti a strutture per accoglierli, quello sì. Per molti gestori in difficoltà l'immigrazione è diventata una soluzione per riempire l'hotel e farsi pagare dallo Stato. Quando non è l'hotel a rendersi disponibile, la Prefettura può anche disporre un'ordinanza di requisizione. Sono previsti degli indennizzi per i proprietari, tanto paga sempre lo Stato. Col sussidio pubblico il menù per gli ospiti non può essere quello di Cracco, ma dovrebbe andare più che bene a chi scappa dall'Africa. Invece capita spesso che i migranti si lamentino per la qualità del cibo o perché il wifi prende male.

«I MIGRANTI NON SONO UN COSTO TROPPO ALTO PER IL SISTEMA ITALIANO». Vanno distinti gli immigrati regolari, che risiedono e lavorano in Italia, dai clandestini. L'emergenza migranti è un costo enorme per l'Italia. Nel 2016 il prezzo per l'Italia è stato di 3,3 miliardi di euro al netto dei contributi della Ue (appena 120 milioni), costi - ha scritto il ministro Padoan in una lettera a Bruxelles - dovuti principalmente «ai salvataggi in mare, all'identificazione, al ricovero, ai vestiti, al cibo, ai costi di personale, operativi e di ammortamento di navi e aerei». E l'ultimo Def nota con allarme: «Se l'afflusso di persone dovesse continuare a crescere la spesa potrebbe salire nel 2017 fino a 4,6 miliardi».

«I MIGRANTI NON PORTANO MALATTIE». Sarà brutto dirlo, ma non è proprio così. L'Unhcr riscontra che «nel 2015 i casi di scabbia rilevati dai medici di confine negli sbarchi degli immigrati sono stati circa il 10%», ma definisce eccessivo l'allarme dato dai media anche perchè «la scabbia è una malattia piuttosto banale, tipica delle fasce sociali più svantaggiate, favorita da scarsa igiene e sovraffollamento, condizioni che facilmente si associano ai viaggi sui barconi». Oltre alla scabbia, si sono verificati spesso casi di tubercolosi nei centri di accoglienza (38, nel 206, solo in quelli di Milano). È la stessa Oms a spiegare che la condizione di immigrato agevola il rischio di contrarre la Tbc.

«NON SONO TROPPI NON È UN'INVASIONE». Saviano anche qui parla degli immigrati regolari, che in Italia sono l'8,3% (ultimo censimento Istat), ma concentrati per metà in tre regioni: Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Lazio. Anzi, concentrati soprattutto nelle grandi città, a Milano ad esempio gli immigrati sono il 18,9%. Ma la percezione di una invasione è data soprattutto dall'arrivo dei clandestini, non dagli stranieri regolari. Sono stati 95.215 gli immigrati sbarcati solo nel 2017, 176mila l'anno prima. Le strutture di accoglienza sono sature, tanto che il Viminale si è trovato più volte in difficoltà e ha dovuto allertare le prefetture per trovare velocemente dei posti dove metterli. Arduo sostenere che non siano troppi.

«GLI IMMIGRATI NON TOLGONO IL LAVORO AGLI ITALIANI». Il Cer (Centro Europa Ricerche) nel suo studio «European Migration and the Job Market» scrive che «la migrazione ha un effetto negativo sull'occupazione dei nativi dei Paesi periferici», cioè dei paesi del Sud Europa, tra cui appunto l'Italia. È vero, gli immigrati fanno in maggioranza lavori di livello basso, ma sono proprio i lavori per cui hanno competenze la maggior parte dei lavoratori dei paesi del Sud Europa, meno qualificati rispetto a tedeschi, francesi, norvegesi etc. Insomma, «mentre nei Paesi ad alta scolarità gli immigrati di basso livello culturale occupano posti di lavoro che i cittadini non vogliono più fare, nel Sud entrano direttamente in competizione con i locali». Gli immigrati, poi, accettano compensi più bassi e sono quindi più vantaggiosi rispetto agli italiani con le stesse competenze. Che si ritrovano più facilmente fuori dal mercato del lavoro.

«GLI IMMIGRATI CI PAGANO LE PENSIONI». Se gli stranieri che lavorano regolarmente e pagano gli oneri previdenziali contribuiscono ovviamente all'Inps, è anche vero che una larga parte degli immigrati lavora in nero e quindi non contribuisce affatto, pur beneficiando del welfare pubblico. Nel 2014 i lavoratori stranieri hanno «pagato» la pensione a 640mila italiani. Però, ogni anno l'Italia versa le pensioni mensili a 100mila immigrati (75mila extracomunitari e 25mila comunitari dell'Est). Non solo, oltre ai benefici previdenziali vanno calcolati anche gli oneri per il welfare. Nel 2016 la Fondazione Leone Moressa ha certificato in circa 16 miliardi il costo in spesa pubblici per i 5 milioni di immigrati in Italia (non contiamo i clandestini). Dunque il saldo è negativo.

«LA MAGGIOR PARTE DEGLI IMMIGRATI NON COMMETTE CRIMINI». Un'elaborazione della Fondazione David Hume di Luca Ricolfi ha messo in fila i tassi di criminalità relativi tra stranieri e nativi nei Paesi Ue: «In media gli stranieri delinquono 4 volte di più, con punte di 12 in Grecia, 7 in Polonia, 6 in Italia, 5 nelle civilissime Svezia, Austria, Olanda. Per quanto riguarda l'Italia l'indice si attesta intorno al 6 che è sopra la media europea». In Italia pur essendo l'8,3% dei residenti, gli stranieri sono il 32% della popolazione carceraria.

«CON LO IUS SOLI NON AUMENTERANNO GLI SBARCHI». La connessione è difficilmente stimabile, visto che ancora lo ius soli non è legge, ma la concessione della cittadinanza a chiunque nasca nel nostro Paese indipendentemente dalla cittadinanza dei genitori può costituire un ulteriore incentivo ad imbarcarsi per l'Italia. La penisola come grande sala parto per diventare cittadini Ue.

La smentita questa sconosciuta. La più grande catastrofe derivata dall’enorme quantitativo di bufale è il fatto che le persone che ci cascano e non prestano orecchio alle smentite, scrive Paolo Campanelli il 22 agosto 2017 su “Il Corriere del Giorno". L’Italia detiene due primati logicamente incompatibili tra di loro: la più grande percentuale di bufale riconosciute e segnalate come tali, e il maggior numero “lordo” di commenti e condivisioni di notizie faziose o false di tutta Europa (seppur la seconda nazione, la Germania, non sia troppo lontana, secondo statistiche antecedenti all’estate). Con il continuo perfezionamento dell’arte del vendere idiozie ai creduloni, in un periodo ristretto come i tre mesi estivi, nuove generazioni di bufale sono emerse: vecchie notizie provenienti dall’estero riciclate e ripresentate come attuali (soprattutto se si tratta di aree “problematiche” come Libano, Turchia e nord Africa), elenchi di danni causati in lunghi periodi che a loro dire sono avvenuti in una notte di bagordi di giovani annoiati, e notizie di “persone pubbliche” che dichiarano di voler prendere posizioni legali contro i detrattori, quest’ultime le più insidiose poiché effettivamente attuabili su base legale nella maggior parte dei casi. Queste notizie “non vere ma quasi” sono molto più rischiose, perché più resistenti all’applicazione della logica che, normalmente, è più che sufficiente a comprendere la falsità, e conseguentemente anche le persone più argute cadono spesso e volentieri nella trappola. Ma dove un credulone vede e si fa abbindolare da una bufala, e una persona con un po’ di intuito fallisce nel convincerlo del contrario, segue una smentita non letta, una rettifica non considerata, una statistica ignorata, o una cieca e quasi fanatica necessità di forzare il proprio punto di vista, incorretto o completamente errato, su altri. Un grave problema dei “creduloni” è la assolutistica certezza delle proprie posizioni, mentre in innumerevoli casi la loro laurea all’università della vita non fornisce loro nemmeno gli strumenti necessari ad andare oltre il titolo e leggere l’articolo in questione, vero o falso che sia. Un Credulone, una volta “guidato” a prendere una posizione, è quasi impossibile che possa modificarla, e la sua risposta preferita ad una richiesta di prove sarà inevitabilmente “informati!”. Non importa chi tu sia, non importa che tu gli abbia chiesto esplicitamente dove andare ad informarti, oppure di indicarti fonti o nomi: non sarà mai possibile ricevere una risposta più precisa. Particolare nota è l’estrema, cieca risolutezza nell’utilizzare le loro immisurabili conoscenze in materia di legge per dimostrare il loro punto, negando a pie’ sospinto l’esistenza del’ Art.8 della Legge sulla Stampa, il diritto alla rettifica (e l’obbligo della stessa) allo stesso tempo chiamando in causa “cugini” appartenenti alle varie forze dell’ordine, e insultando ogni senso della decenza in quanto “l’ordine dei giornalisti non è una cosa seria in Italia”. Un problema di fondo di questo fenomeno è la velocità con cui una notizia diventa “vecchia”, oggi ai massimi storici; un fatto che non vada particolarmente a genio ad una persona tende a lasciare il segno più di una buona notizia (soprattutto se si tratta di politica, capace di riportare in auge torti vecchi di decenni) ma una volta che la notizia è più o meno letta, fino al momento in cui non diventa necessario ricordarsene, non è più qualcosa di cui curarsi, e ulteriori articoli al riguardo vengono ignorati in quanto…. è qualcosa che è già stato letto. Così le smentite passano sempre in secondo piano. Talvolta con risultati oltre qualsiasi limite di serietà. La questione “Sorella della Boldrini” è ormai l’emblema, ripetuto fino alla nausea in quella che sembra una storia degna di un film horror: nella seconda settimana di Maggio per la prima volta, sedicenti giornalisti affermano di aver scoperto un racket in cui la familiare della presidente della Camera è il capo assoluto, ma in meno di una settimana, con grande disgusto da tutte le cariche politiche, persino quelle avversarie, la verità che la donna in questione sia morta da ormai un decennio è resa pubblica; lo sdegno è tale che più persone cadute nella trappola provenienti da vari ceti sociali fanno pubblica ammenda, e le sezioni italiane dei più comuni social network, tra cui Facebook e Twitter rendono più visibili e facili da usare strumenti per segnalare bufale e fake news. Tuttavia, utilizzando i motori di ricerca e confrontando date, le accuse a Luciana Boldrini (nome tra l’altro errato, in quanto la donna si chiamava Lucia) continuano imperterrite ad essere lanciate anche oltre la metà di Agosto in relazione ad articoli giornalistici sulla instabile situazione dell’immigrazione, tanto su testate giornalistiche accreditate quanto su quelle risaputamene poco credibili. Tralasciando inquietanti implicazioni sulla qualità della cultura in Italia, è ormai evidente che è necessario che ogni singolo utente sia costretto a dover lottare per far comprendere la verità, una “radicalizzazione” del Debunking (termine inglese che indica l’analisi e spiegazione sistematica delle bufale), e una necessità del rendere gli utenti Indignati verso la propria mancanza di cultura e capacità di riconoscere le caratteristiche che si ripetono sempre uguali in ogni falsa notizia.

Facebook cancella un post contro la Boldrini. Giovanni Negri, ex segretario dei Radicali, si è visto cancellare un post contro la Boldrini ma ora si difende: "Nel post ho messo alla berlina una presidenza della Camera inadeguata, incolta", scrive Francesco Curridori, Domenica 20/08/2017, su "Il Giornale". Punito da Facebook per aver scritto un post contro il “boldrinismo”. Giovanni Negri, ex segretario dei Radicali, si è visto sparire un post in cui parlava delle “Boldrine”, termine sociologico con cui intende raffigurare le nuove maestrine di costumi nazionali e internazionali. “Il boldrinismo sta alla intelligenza e alla cultura come Briatore sta all'eleganza. A prima vista ti interroghi, poi leggi, ascolti e capisci tutto”, dice Negri in un’intervista ad affaritaliani.it. “Nel post ho messo alla berlina una presidenza della Camera inadeguata, incolta. Ho sfottuto queste trentenni/cinquantenni che sono Laura formato mignon, Lilli da Rimini, Concite da gommone che sanno e spiegano tutto: dalla flautolenza senile al complesso fallico di Confucio, da quanto sei ANA-accogliente l'emigrante a come non devi fare il ruttino a tavola”, ha spiegato l’esponente radicale che definisce questo tipo di donne come “le ultime autoproclamate Erin ni di una sinistra (non) pensante che ha consegnato il pensiero alla sottocultura da Bar del Pigneto "un zacco alternativo ahó". Negri, a Ferragosto, è solito sfottere i personaggi politici: “Lo scorso anno feci I Civati nonché il dialogo tra Scalfari e Dio con prefazione di Papa Francesco. Ieri – dice - avevo fatto Le Boldrine. Gente che non vive. Bacchetta ed insegna”. Stavolta, però, “qualche occhiuto funzionario della Presidenza della Camera che ormai passa la vita ad impugnare la matita rossa e blu del ‘politicamente corretto’ ha chiesto di intervenire”, ipotizza Negri che rivela di aver ricevuto 650 richieste d’amicizia dopo aver scritto quel post. Ora, però,“non posso più scrivere su FB. Bandito”, sottolinea. “E ho capito che è un problema di pubblica decenza. Non di rado – aggiunge - il Cretinismo di Sinistra, vero brodo di coltura del Boldrinismo, si fa fascismo e autoritarismo. Elettronico e non. Perso ogni Palazzo d'Inverno si dedica al Perbenismo di ogni primavera”. Le alternative, perciò, secondo Negri, sono due: “o cambia l'insopportabile attacco alla libertà di opinione di certo Régime Autoritaire di FB che non rispetta il libero pensiero, o sgombriamo questa signora da una Presidenza della Camera che è manifestamente incapace di rappresentare. Meglio ancora se otterremo tutti e due gli obiettivi insieme”.

Boldrini sbotta: “Ora basta, denuncio chi mi insulta online”, scrive il 14 luglio 2017 "Il Dubbio". L’annuncio della presidente della Camera: “Lasciar correre significa autorizzare i vigliacchi a continuare con i loro metodi e non opporre una resistenza insufficiente alla deriva di volgarità e violenza”. #adessobasta, “da oggi in tutelerò la mia persona e il ruolo che ricopro ricorrendo, se necessario, alle vie legali”. In un lungo post su Facebook Laura Boldrini dice basta a insulti e offese che le giungono sugli account social e annuncia di voler denunciare chi persevera con gli hate speech sul web. A testimonianza delle offese che le sono giunte la presidente della Camera pubblica alcuni dei commenti ai suoi post. “Adesso basta – scrive Laura Boldrini -. Il tenore di questi commenti ha superato il limite consentito. Ho deciso che d’ora in avanti farò valere i miei diritti nelle sedi opportune. Ho riflettuto a lungo se procedere o meno in questo senso, ma dopo quattro anni e mezzo di quotidiane sconcezze, minacce e messaggi violenti ho pensato che avevo il dovere di prendere questa decisione come donna, come madre e come rappresentante delle istituzioni”. “Il calore e il sostegno che finora mi sono giunti da più parti, fuori e dentro la rete, mi hanno spinta a non temporeggiare oltre. Da oggi in poi quindi tutelerò la mia persona e il ruolo che ricopro ricorrendo, se necessario, alle vie legali – annuncia sulla sua pagina Facebook -. E lo farò anche per incoraggiare tutti coloro – specialmente le nostre ragazze e i nostri ragazzi – che subiscono insulti e aggressioni verbali a uscire dal silenzio e denunciare chi usa internet come strumento di prevaricazione”. “E’ ormai evidente – sottolinea la presidente della camera – che lasciar correre significhi autorizzare i vigliacchi a continuare con i loro metodi e non opporre alcuna resistenza alla deriva di volgarità e violenza. Nessuno deve sentirsi costretto ad abbandonare i social network per l’assalto dei violenti. Ma purtroppo anche molti casi di cronaca recente – dalla professoressa di Cambridge Mary Beard ad Alessandro Gassmann, dal cantante Ed Sheeran ad Al Bano – dimostrano che le ingiurie e le intimidazioni hanno l’effetto di una gogna difficile da sopportare”. Per Laura Boldrini “educare le nuove generazioni a un uso responsabile e consapevole della rete” è “una necessità impellente e su questo continuerò a impegnarmi. Nel frattempo, però, non possiamo stare a guardare. Soprassedere rischia di inviare un messaggio di sfiducia verso le istituzioni preposte a far rispettare le leggi e a garantire la sicurezza dei cittadini. Come posso chiedere ai nostri giovani di non soccombere e di denunciare i bulli del web se poi io stessa non lo faccio? Ai nostri figli dobbiamo dimostrare che in uno Stato di diritto chiunque venga aggredito può difendersi attraverso le leggi. E senza aggiungere odio all’odio, ne abbiamo già abbastanza”.

Laura Boldrini. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Laura Boldrini (Macerata, 28 aprile 1961) è una giornalista, funzionaria e politica italiana, dal 16 marzo 2013 Presidente della Camera dei deputati nella XVII legislatura. Dal 1998 al 2012 ha ricoperto l'incarico di portavoce dell'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati per il Sud Europa (UNHCR, Regional Representation Southern Europe).

Figlia primogenita di un avvocato e di un'insegnante d'arte, entrambi di Matelica, trascorre infanzia e parte dell'adolescenza nella campagna di Jesi, in provincia di Ancona, dove frequenta la scuola elementare insieme alla sorella e ai tre fratelli minori. Dopo gli anni delle medie la famiglia si trasferisce a Jesi, dove lei si diplomerà al liceo classico. Nell'estate del 1981 decide di andare a lavorare per tre mesi in Venezuela in una piantagione di riso, per poi intraprendere un viaggio per l'America Centrale, passando per Panamà, Costa Rica, Nicaragua, Honduras, Guatemala, Messico e Stati Uniti, fino a New York. Da allora decide di scindere in due gli anni dell'Università, dedicando sei mesi allo studio e gli altri sei al viaggiare: visita così il Sud-est asiatico, l'Africa, l'India, il Tibet. Si laurea in Giurisprudenza presso la Università di Roma "La Sapienza" nel 1985 con una tesi sul diritto di cronaca. Nel frattempo, dal gennaio '83 al dicembre '86, lavora per l'Agenzia Italiana Stampa e Emigrazione (AISE). Giornalista pubblicista, iscritta all'Albo dal 2 dicembre 1986, tra il febbraio '87 e l'agosto '88 è impiegata alla Rai con contratti a tempo determinato in vari programmi televisivi e radiofonici, nel settore della produzione, tra cui Cocco di Pier Francesco Pingitore. È stata sposata con il giornalista Luca Nicosia, dal matrimonio è nata la sua unica figlia.

Nel 1989, vinto un concorso per Junior Professional Officer, comincia la sua carriera all'ONU lavorando per quattro anni alla FAO come addetta stampa, dove si occupa in particolare della produzione video e radio. Dal 1993 al 1998 lavora presso il Programma alimentare mondiale (WFP) come portavoce e addetta stampa per l'Italia. In quegli anni svolge ripetute missioni nella ex Jugoslavia, nel Caucaso in Afghanistan, Tagikistan, Mozambico e Iraq. Dal 1998 al 2012 è portavoce della Rappresentanza per il Sud Europa dell'Alto Commissariato per i Rifugiati dell'Organizzazione delle Nazioni Unite (UNHCR) a Roma, per il quale coordina anche le attività di informazione in Sud Europa, svolgendo svariate mansioni: responsabile dell'ufficio stampa italiano, capo redattore della rivista trimestrale Rifugiati, prende parte ad eventi pubblici sulle tematiche relative al diritto d'asilo, ai flussi migratori nel Mediterraneo e alle emergenze internazionali, tiene conferenze e partecipa a seminari presso università e istituti di ricerca. Svolge missioni in diversi luoghi di crisi: Bosnia, Albania, Kosovo, Pakistan, Afghanistan, Sudan, Caucaso, Angola, Zambia, Iran, Giordania, Tanzania, Burundi, Ruanda, Sri Lanka, Siria, Malawi, Yemen.

Ha ricevuto diversi riconoscimenti, tra i quali la medaglia ufficiale della Commissione nazionale per la parità e le pari opportunità tra uomo e donna (1999), il titolo di cavaliere dell'Ordine al merito della Repubblica italiana (2004), il Premio Consorte del Presidente della Repubblica (2006) e il Premio giornalistico alla carriera Addetto stampa dell'anno del Consiglio nazionale dell'Ordine dei Giornalisti (2009). Il settimanale Famiglia Cristiana, nel suo numero 1 del 2010, l'ha indicata quale "italiana dell'anno 2009", in ragione del «costante impegno, svolto con umanità ed equilibrio, a favore di migranti, rifugiati e richiedenti asilo» della «dignità e (...) fermezza mostrate nel condannare (...) i respingimenti degli immigrati nel Mediterraneo effettuati nell'estate del 2009». È stata insignita nel 2011 del Premio Renato Benedetto Fabrizi, premio nazionale ANPI.

Nell'aprile 2010 pubblica per Rizzoli Tutti indietro, un libro in cui racconta la propria esperienza nelle crisi umanitarie, oltre che l'Italia della solidarietà, di chi rischia la vita per salvare i naufraghi che arrivano dalle coste africane e di chi lavora per realizzare l'integrazione di immigrati e rifugiati. I ricavati delle vendite del libro destinati a lei sono devoluti per borse di studio a ragazzi afgani giunti in Italia senza genitori.

Il 20 marzo 2013 viene pubblicato il suo secondo libro, edito da Rizzoli, Solo le montagne non si incontrano mai. Storia di Murayo e dei suoi due padri, storia di una bambina somala gravemente ammalata portata in Italia da un militare italiano nel 1994, che dopo quattordici anni riconosce il padre naturale in una puntata di Chi l'ha visto?. Incoraggiata dalla sua famiglia siciliana, Murayo contatta il padre che, con l'aiuto di Laura Boldrini, rivedrà in Kenya. Il denaro ricavato dalle vendite è destinato al campo profughi di Dadaab.

Nel marzo 2016 viene pubblicato il suo terzo libro, edito da Giulio Einaudi Editore, Lo sguardo lontano, dove racconta i primi due anni a Montecitorio. I ricavati delle vendite del libro destinati a lei sono stati devoluti per borse di studio.

Fino alla sua elezione a presidente della Camera dei deputati, ha scritto in diverse riviste e ha tenuto un blog, Popoli in fuga, sul sito del quotidiano la Repubblica e The Huffington Post Italia.

Alle elezioni politiche italiane del 2013 Laura Boldrini è candidata alla Camera dei deputati come indipendente nelle liste di Sinistra Ecologia Libertà (partito di Nichi Vendola) come capolista nelle circoscrizioni Sicilia 1, Sicilia 2 e Marche. La sua candidatura era infatti stata inclusa tra le ventitré persone nominate dalla segreteria del partito. Risultata contemporaneamente eletta in tutte e tre le circoscrizioni, optando in Sicilia 2. Alla Camera dei Deputati si iscrive al gruppo parlamentare di Sinistra Ecologia Libertà.

Il 16 marzo 2013, a sorpresa viene candidata ed eletta Presidente della Camera dei deputati, ottenendo 327 voti su 618 votanti. È la terza donna, dopo Nilde Iotti (1979-1992) ed Irene Pivetti (1994-1996), a ricoprire questo ruolo. Come primo gesto, decide di ridurre il proprio stipendio, rinunciare all'alloggio ufficiale e ad altri benefit previsti per la sua carica istituzionale. Il 22 giugno 2013 è la prima Presidente della Camera italiana a prendere parte al Gay Pride Nazionale, svoltosi a Palermo. Il 2 agosto dello stesso anno, in occasione del trentatreesimo anniversario della Strage di Bologna, sale sul palco della città per un discorso commemorativo.

Nel corso del suo mandato Boldrini ha istituito due commissioni di studio, composte di deputati, esperti, rappresentanti di organismi sovranazionali e associazioni: la Commissione internet che ha adottato la Dichiarazione sui i diritti e i doveri in internet e la Commissione "Jo Cox" sull'intolleranza, la xenofobia, il razzismo e i fenomeni di odio. Ha inoltre introdotto il linguaggio di genere negli atti e nei lavori alla Camera, istituito l'intergruppo delle deputate per la parità di genere e dedicato una sala di Montecitorio alle donne delle istituzioni. Ha poi introdotto un codice di condotta per i parlamentari, una regolamentazione per le attività di lobbying, abolito i vitalizi per gli ex parlamentari condannati per reati gravi e operato per la desecretazione di atti parlamentari fondamentali nella storia del Paese, come quelli sulla Seconda Guerra Mondiale e sull'omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin.

Il 3 marzo 2017 abbandona il gruppo parlamentare Sinistra Italiana - Sinistra Ecologia Libertà (di cui faceva parte come indipendente dall'inizio della legislatura) e passa al gruppo misto. È il primo Presidente della Camera ad aver presieduto due spogli per l'elezione del Capo dello Stato (Napolitano prima, Mattarella poi) nell'arco di un'unica Legislatura.

A partire dall'agosto 2013 il Movimento 5 Stelle contesta Laura Boldrini per il suo operato come Presidente della Camera, dapprima sulla presentazione del DDL anti-femminicidio convocata per il 20 agosto, poi sulla legge sull'omofobia e poi a fine gennaio 2014, in occasione del dibattito sul Decreto IMU-Bankitalia, durante il quale ha applicato un istituto, noto come "ghigliottina", contenuto nel regolamento del Senato ma mai applicato alla Camera che consente di interrompere il dibattito parlamentare e passare direttamente alle votazioni per evitare la decadenza del decreto stesso. Conseguentemente agli avvenimenti in aula, Beppe Grillo ha condiviso sul suo profilo Facebook un video, commentandolo con le parole Cosa succederebbe se ti trovassi la Boldrini in macchina? Il post è stato fatto oggetto di commenti sessisti da parte di numerosi utenti, ma essi sono stati cancellati dallo staff del Movimento 5 Stelle, il quale successivamente ha emesso un comunicato in cui si dissociava da questi ultimi. Tuttavia, tali commenti hanno suscitato la reazione di Boldrini e di gran parte delle forze politiche. In occasione della parata tenutasi a Roma per la Festa della Repubblica il 2 giugno 2017, Boldrini, presente in quanto Presidente della Camera, non ha applaudito al passaggio della Brigata Folgore. Nei giorni successivi il Secolo d'Italia ha usato l'episodio per attaccare sia lei che il Presidente della Repubblica Mattarella, che aveva mantenuto uguale atteggiamento. Quest'ultimo ha risposto ricordando che al passaggio di un reparto in armi con la bandiera, il protocollo impone al Presidente di rimanere sugli attenti e rispondere al saluto con un leggero inchino. Per parte sua, Boldrini ha definito l'episodio e le polemiche susseguenti "Bufale dei giornali di centrodestra".

Pubblicano vignetta sulla Boldrini: ​10 denunciati dalla polizia. L'accusa è di "diffamazione di corpo diplomatico". Il fotomontaggio pubblicato durante la visita della Boldrini a Latina, scrive Rachele Nenzi, Venerdì 18/08/2017 su "Il Giornale". L'accusa è di "diffamazione contro corpo diplomatico". Dopo l'annuncio di Laura Boldrini a voler denunciare tutti gli utenti di Facebook che la ricoprono di insulti, arriva il primo caso di indagine aperta ai danni di un internauto. A far scattare le indagini della postale sarebbe stata una fotografia in cui si vede un piccolo balilla di epoca fascista fare pipì su una foto del Presidente della Camera. Bisogna dire che la Boldrini in questo caso non aveva fatto alcun esposto. Ma era stato direttamente la postale ad aprire le indagini e a denunciare l'autore della vignetta diventata in breve tempo virale sui social network. Nei giorni scorsi infatti la Presidente era andata a Latina per partecipare alla cerimonia del cambio di intitolazione a quello che era stato il parco Mussolini. A diffondere per primo l'immagine, secondo quanto emerge dalle indagini della polizia, sarebbe stato un uomo di Terracina. Ad aiutarlo sarebbero state altre 10 persone, anche loro denunciate per aver contribuito alla diffusione della foto considerata lesiva e diffamante ai danni di un "corpo diplomatico".

Offese alla Boldrini: indagato un uomo di Cosenza, scrive Iacchite il 18 agosto 2017. Diventa “operativo” l’annuncio di qualche giorno fa del presidente Boldrini di denunciare tutti coloro i quali attraverso i social le hanno arrecato squallide offese. E così la polizia del Parlamento sta inviando a tutte le questure d’Italia i post dove i “vigliacchi digitali”, così definiti dalla Boldrini in un lungo post dove annuncia tolleranza zero nei loro confronti, si sono espressi in malo modo nei suoi riguardi. E non poteva certo mancare Cosenza. Infatti è stato trasmesso alla procura di Cosenza un fascicolo contenente diversi post offensivi contro la Boldrini a “firma” di un cosentino, un uomo di 48 anni, con la richiesta di agire nei suoi confronti. Il dottor Spagnuolo ha incaricato la questura di Cosenza, e in particolare la sezione DIGOS, di occuparsi della vicenda e di svolgere gli accertamenti del caso per procedere penalmente contro il “vigliacco digitale”. Da quello che trapela pare che l’uomo 48enne non sia il solo ad essere “indagato” dalla procura. Il fascicolo arrivato sulla scrivania di Spagnuolo è corposo, ed è molto probabile il coinvolgimento di altri soggetti.

Dopo la farfalla che sbatte le ali a New York e causa un temporale a Tokio ecco che la politica dell'accoglienza del governo italiano (e della Boldrini) è in grado di causare un attentato in Spagna. Le connessioni neurali dei razzisti italiani si sono accese come un albero di natale alla notizia della strage di Barcellona, e tutti gli indizi puntano contro la Presidente della Camera (e le ONG), scrive Giovanni Drago venerdì 18 agosto 2017 su "Next Quotidiano”. Mandante, istigatrice, diretta responsabile. Queste le accuse che vengono rivolte alla Presidentessa della Camera Laura Boldrini subito dopo che è stata diffusa la notizia dell’attentato terroristico di Barcellona. Ancora non si sapeva l’identità degli attentatori ma già i razzisti dell’Internet, quelli che credono che la Boldrini sia la responsabile dell’invasione organizzata dell’Italia da parte dei migranti provenienti dall’Africa. I complottisti del piano Kalergi, istruiti da trasmissioni televisive come La Gabbia di Gianluigi Paragone e da politici come Matteo Salvini e Daniela Santanché che da anni parlano di “sostituzione di popolo” per descrivere i fenomeni migratori, ormai non hanno più bisogno di imbeccate e sanno sempre che la colpa è degli islamici amici della Boldrini.

L’odio del Giornale per Laura Boldrini. A dare la stura all’odio nei confronti della terza carica dello Stato è stato ieri il direttore del Giornale Alessandro Sallusti che a poco più di un’ora dall’attentato già se la prendeva con la Boldrini. Il motivo ovviamente era noto solo a Sallusti, ma purtroppo non è il solo a pensarla così. Più o meno contemporaneamente al tweet di Sallusti dalla redazione del quotidiano fondato da Indro Montanelli Paolo Giordano chiedeva a gran voce la presenza della Boldrini sulla Rambla, luogo della strage di ieri. Uno spettacolo davvero penoso che ha lasciato esterrefatto Domenico Naso del Fatto Quotidiano che incredulo ha provato a chiedere spiegazioni a Giordano. Le spiegazioni, se così le possiamo chiamare, di Giordano sono deliranti: la Boldrini deve prendersi la responsabilità delle sue “posizioni radicali”. Quali che siano non è noto di saperlo, e sarebbe curioso scoprire che nell’Italia del 2017 essere anti-razzisti è una posizione radicale. Anche perché sempre su Twitter Laura Boldrini aveva duramente condannato la strage islamista condannando l’azione dei terroristi. Eppure c’è chi vorrebbe che la Boldrini andasse “sulla Rambla” per farsi investire dai suoi “amici terroristi”. Nel frattempo il tweet di Giordano ha fatto scuola e c’è chi si rammarica che la Boldrini non fosse ieri sulla Rambla tra le vittime.

Il razzismo degli italiani e gli attacchi a Laura Boldrini. Ma non è solo al Giornale che ieri si parlava di Barcellona e delle responsabilità di Laura Boldrini. Diversi utenti mettevano in correlazione le scelte del PD e della Boldrini con l’attentato avvenuto in Spagna. Il tutto prima ancora che gli inquirenti abbiano concluso le indagini e appurato come è stato pianificato e organizzato l’attentato. Ma è chiaro a tutti che né il PD né la Presidentessa della Camera hanno partecipato all’organizzazione della strage. Ma la Boldrini ha una colpa che la rende il capro espiatorio perfetto: non odia i migranti. Per i razzisti però tutti i migranti sono direttamente responsabili di ogni attentato (di matrice islamista). La responsabilità penale non è più personale, è collettiva. E quindi la Boldrini finisce sul banco degli imputati assieme ai molti innocenti che nulla hanno a che fare con l’odio dei terroristi dell’ISIS (o chi per loro) nei confronti della società europea. Non era ancora chiara l’identità dell’attentatore, che è stata diffusa dalla polizia catalana solo oggi, eppure tutti erano certi che si trattasse di una “risorsa” della Boldrini. Ed è ovvio che alla Boldrini, nota simpatizzante del terrorismo islamico, dispiaccia più per i “poveri terroristi” che per le vittime. Nella narrazione distorta degli ultra nazionalisti italiani – che evidentemente hanno qualche difficoltà a leggere – chiunque non predichi l’odio cieco nei confronti di ogni straniero allora sta con i terroristi. Anzi, per fortuna che ci sono loro, i nostri valorosi patrioti da tastiera che lottano contro lo Ius Soli temendo l’invasione. Perché sono loro le vittime, ed è la Boldrini con le sue “azioni scellerate” a strappare questi commenti violenti dalle tastiere della ggente.

Quelli che danno la colpa alle ONG. Alla ggente stupisce anche il “silenzio delle Ong su Barcellona”. In fondo non sono state loro a portare nel nostro Continente i terroristi? Poco importa che fino ad ora gli attentati terroristi siano stati commessi da cittadini europei, residenti in Europa da anni o addirittura nati in Belgio, Francia e Regno Unito. Sono gli sbarchi a causare gli attentati. Non c’è fino ad ora nessuna correlazione causa–effetto tra gli sbarchi e gli attentati terroristici, eppure i seminatori d’odio che siedono anche in Parlamento hanno raccontato così bene questa storia che ormai sono in molti a crederci. Ed infatti ecco che si prende di mira lo Ius Soli, e si ridicolizzano i manifestanti dei gessetti colorati. Anche loro finiscono nel mucchio dei responsabili. Manovrati probabilmente dalla Boldrini&Co. E non c’è pietà nemmeno per gli abitanti della città colpita dall’ennesimo attacco terrorista. C’è chi sotto sotto ci gode ricordando come qualche tempo fa gli abitanti di Barcellona fossero scesi in piazza per manifestare a favore dell’accoglienza dei rifugiati. Ben gli sta, twitta un razzista palesemente shockato dalla notizia della strage: hanno voluto favorire l’invasione? E allora di cosa si lamentano. Da ultimo Alessandro Meluzzi, psichiatra televisivo e pope ortodosso, ci ricorda “che i foreign fighters islamici stanno tornando in massa mescolati ai migranti” ed esorta a prepararci. Al momento in cui Meluzzi lanciava l’allarme l’identità dell’attentatore non era ovviamente ancora stata accertata.

Su Al Jazeera il tifo per l'Isis. slamici italiani in imbarazzo. La tv araba mostra gli «smile» degli spettatori durante la diretta da Barcellona. Dal Caim condanna di circostanza, scrive Alberto Giannoni, Sabato 19/08/2017 su "Il Giornale". Silenzi assordanti, dichiarazioni rituali o parole imbarazzate. E poi, certo, arrivano anche le condanne chiare e forti. «Non ci piegherete, infami islamisti!», tuona la antropologa italo-somala Maryan Ismail, donna simbolo della lotta all'integralismo, che maledice i terroristi. Cerca «un antidoto» la Coreis (i musulmani italiani di via Meda). Fanno in ogni caso rumore le reazioni islamiche dopo gli attentati compiuti in nome di «Allah». Ed è inevitabile che queste reazioni siano attese e analizzate, in Italia e in Europa; anche perché sull'altro sponda del Mediterraneo risuona come una macabro, agghiacciante sberleffo il «sorriso» di chi assiste alla tragedia di Barcellona e Turku con un moto di delirante soddisfazione. Piovevano «smile» e commenti folli, ieri e giovedì, sotto le dirette che «Al Jazeera» proponeva via facebook. Sulla pagina della discussa tv qatariota (da molti additata come megafono della Fratellanza musulmana) insieme alle lacrime e alle reazioni di rabbia e sconcerto, scorrevano infatti - a decine - gli «emoticon» dei sorrisini, ancora visibili, così come il commento di chi scrive: «Avanti, Isis!». In Italia non si manifesta una tale tempesta d'odio. I vertici del mondo musulmano, ieri, sono stati attenti a prendere subito posizione. L'Unione delle comunità islamiche italiane, l'Ucoii, ha parlato di «immenso dolore» per lo «spregevole attacco terroristico» di Barcellona, di «sconcerto» e «condanna» per «questi che consideriamo crimini contro l'umanità». E la Confederazione islamica, che in Italia rappresenta un gran numero di «moschee» frequentate soprattutto da marocchini, ha scritto: «Dalla moschea di Napoli, i nostri cuori e i nostri pensieri, le nostre preghiere sono per Barcellona e la sua gente, per tutte le vittime. Il terrore non spegnerà le milioni di voci che chiedono coesistenza e pace. Tutti uniti contro l'odio». A Milano, la consigliera comunale (velata) Sumaya Abdel Qader, eletta col Pd, si è detta «in ansia per Barcellona», e ha rivolto un pensiero alla famiglia di Bruno Gulotta, il milanese ucciso in Catalogna. Ha parlato solo in serata, al contrario, la sigla dell'islam organizzato (in tutto a Milano si contano 80mila fedeli). «Il terrore non vincerà» ha scritto il Coordinamento delle associazioni islamiche di Milano, interlocutore privilegiato del Comune fino all'anno scorso. Al Caim, la fallimentare gestione di Davide Piccardo si è conclusa 6 mesi fa e il suo posto è andato al controverso Omar Jibril. Loquace e incauto, Piccardo era stato spesso al centro di polemiche. Dopo il Bataclan di Parigi per esempio, quando in piazza San Babila aveva detto che «fratelli e sorelle francesi» erano morti «ingiustamente» aggiungendo che altri giovani si erano sacrificati credendo di morire per qualcosa. In ogni caso non ha mai fatto mancare il suo «No» all'Isis, sebbene accompagnato spesso da improbabili teorie. Oggi Piccardo jr, insieme al padre, Hamza, si è allontanato dall'Ucoii (di cui Piccardo senior è fondatore) e ha dato vita alla movimentista Costituente islamica, che ieri sul suo profilo, per tutto il giorno non ha ritenuto di intervenire in alcun modo, proprio come i suoi leader (Davide ha pubblicato un video sul sionismo). Lo stesso Caim sembra sempre meno aperto alla città, come Jibril, che fra l'altro fa parte dell'Alleanza islamica d'Italia, inserita (fra le proteste del presidente) nella black-list antiterrorismo degli Emirati Arabi. Dopo la strage di «Charlie Hebdo», 2 anni fa, Jibril aveva fatto discutere col suo «Stop Charlie», che definì «rivista blasfema, odiata e disprezzata in tutta la Francia». «Rispetto per le vittime, rispetto per la fede di 1,5 miliardi di persone, rispetto per il profeta Muhammad». «Stop Charlie Hebdo» aveva scritto. Purtroppo qualcuno aveva già provato a farlo. Ma a colpi di mitragliatore.

Islam e terrorismo: ecco la foto che smaschera l’ipocrisia dei media, scrive il 18 agosto 2017 Marcello Foa su "Il Giornale". Dunque riepiloghiamo: la Cia aveva avvertito i servizi spagnoli sul rischio di un attentato proprio alla Rambla. L’Isis già in febbraio aveva minacciato azioni terroristiche nelle aree frequentate dai turisti e il rischio era così elevato che, come ha sottolineato ieri Germano Dottori durante lo speciale su Rai3, alcuni tour operator hanno reclutato in segreto più di 100 ex membri delle truppe speciali britanniche, affinché controllassero siti sensibili, come le spiagge di Ibiza. Sulla strage di Barcellona è già stato detto quasi tutto, mi limito a due osservazioni. La prima. Considerato l’altissimo livello di allarme era così difficile blindare le Ramblas con delle protezioni anti intrusione, come avviene in molte piazze europee? Purtroppo siamo di fronte, come già avvenuto a Parigi e a Nizza, a un clamoroso fallimento dei servizi di intelligence, in questo caso spagnoli. La seconda. E’ giunto il momento di smascherare l’ossimoro dietro a cui si trincerano le autorità dopo fatti come questi. Il refrain è sempre lo stesso: orrore per gli attentati, ma noi siamo migliori, noi non dobbiamo aver paura; dunque dobbiamo continuare a mantenere le frontiere aperte e ad accogliere gli immigrati islamici. Paradossalmente fino ad oggi questo approccio è stato vincente, ma razionalmente non sta in piedi. Anche l’ultimo attentato in Finlandia è avvenuto al grido di Allah Akbar. E questo perbenismo porta a inaccettabili forme di autocensura. Guardate queste immagini: due bimbi morti. Vi ricordano qualcosa? La prima la conoscete tutti. I media non si sono fatti scrupoli nel mostrare l’immagine del piccolo Aylan, perché serviva a giustificare moralmente l’immigrazione, ma la seconda immagine, segnalata su twitter, non diventerà una hit mondiale. La maggior parte del pubblico non la vedrà mai, eppure mostra un altro bambino di tre anni ucciso assieme alla madre dei terroristi islamici sulla Rambla. Viene censurata. Perché se venisse diffusa susciterebbe un’altra ondata emotiva ma nel senso contrario a quello desiderato dal mainstream multiculturale e globalizzante. E’ un’ipocrisia, ma rivelatrice. Così si gestisce l’opinione pubblica. Sia chiaro: sebbene le cause del terrorismo non possano essere banalizzate e ha ragione chi sostiene che a destabilizzare il Medio Oriente siamo stati noi occidentali, in primis gli americani in Irak, Afghanistan, Libia e Siria, è innegabile che l’immigrazione incontrollata a cui stiamo assistendo da mesi e che riguarda principalmente l’Italia, sia fonte di destabilizzazione sociale, per la mancata integrazione di masse enormi di migranti a cui è impossibile garantire un lavoro e una normale accoglienza, e dunque di fenomeni estremi, come l’aumento della violenza, della criminalità, dell’estremismo religioso e, infine, del terrorismo. Ecco perché ha ragione chi manifesta gridando “io non ho paura”. Ma quel grido andrebbe accompagnato con l’urlo: “Enough is enough” come dicono gli inglesi. Ovvero l’immigrazione incontrollata, soprattutto quella islamica, non è più accettabile. Ovvero, in italiano, abbiamo sopportato abbastanza.

Barcellona, Alessandro Sallusti: "Il killer una fottutissima bestia. Ora la Boldrini mi denunci", scrive il 18 Agosto 2017 "Libero Quotidiano”. Dopo l'attentato a Barcellona, nel mirino ci finisce Laura Boldrini, la presidenta della Camera che predica integrazione e si auto-censura quando si tratta di assegnare l'aggettivo "islamico" alla parola terrorismo. Finisce nel mirino di molti, online, e tra questi anche Alessandro Sallusti, che la incenerisce con un cinguettio durissimo. "Barcellona, chiunque sia stato è una fottutissima belva. E che la Boldrini e i suoi amici mi denuncino pure per offesa via web". Un cinguettio, quello del direttore de Il Giornale, che ha riscosso molto successo in termini di retweet e "mi piace".

Filippo Facci il 3 Agosto 2017 su “Libero Quotidiano”: La maestra, i bimbi. Il battibecco che ieri c'è stato tra due deputati grillini e la presidente della Camera (molti siti l'hanno sparata come notizia del giorno: rendiamoci conto) deve la sua esistenza mediatica a una penuria estiva di notizie «politiche» (le chiamiamo politiche: rendiamoci conto anche di questo) ma è anche vero che in condizioni normali sarebbe rimasto uno dei tanti siparietti a cui il Parlamento più ignorante di sempre ci ha ormai abituato. Da una parte due burbanzosi ragazzotti come Alessandro Di Battista (espulso, giustamente) e Alfonso Bonafede che hanno chiesto di intervenire per «richiamo al regolamento» ma poi hanno mostrato di non sapere che cosa significhi, tanto che si sono messi a pontificare col tono dei bambocci che fanno gli sprezzanti con la maestra per farsi vedere dai compagni. Dall'altra, oggettivamente, c'era la maestra: la quale resta il personaggio più tracotante, protervo, spocchioso e strabordante che questa disgraziata Seconda Repubblica abbia portato con sé; una che dovrebbe badare al funzionamento della Camera (ruolo che altrove è quello di un capostazione istituzionale) ma che è solita intestarsi battaglie politiche che poi ammazza regolarmente: se domattina invitasse gli italiani a svacanzare al mare, è la volta che anche i sardi imparerebbero a sciare. Insomma: scegliere chi buttar giù, nel gioco della torre, ieri sarebbe stato difficilissimo. Anche per questo abbiamo la torre più squalificata del Dopoguerra.

Vittorio Sgarbi: “La Boldrina? È lei che offende la nostra civiltà cristiana. E allora la denuncio”, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 18 agosto 2017. “Abbiamo un’eroina: la Boldrina. Finalmente la Boldrina è scesa in campo e ha dichiarato: Da oggi denuncio chi mi insulta online”. Esordisce così il critico d’arte Vittorio Sgarbi, in una invettiva-video contro la presidente della Camera, Laura Boldrini. “Non so se gli insulti alla Boldrini, che non leggo e che saranno pure offensivi” – continua – “siano più gravi del fatto che lei è stata offensiva ed è offensiva rispetto alla nostra civiltà, alle nostre tradizioni, a quello che noi siamo. Io sono certo che la Boldrini è contraria al crocifisso nelle scuole e al presepe di Natale. Quella che offende è lei. Offende la sensibilità cristiana e quella umana, le tradizioni, la civiltà. Non ha mai letto “Non possiamo non dirci cristiani” di Benedetto Croce”. E chiosa: “Sicuramente la Boldrina, che si offende per tutto, è politicamente corretta, ma lei offende il nostro sentimento religioso. E allora la denuncio. La denuncio. La denuncio”.

Vittorio Sgarbi attacca la Boldrini: offende il nostro sentimento religioso, scrive "NewNotizie.it" il 18 agosto 2017. Un video attacco contro la Presidente della Camera Laura Boldrini. Lo ha ‘sferrato’ il critico d’arte Vittorio Sgarbi che, poche decine di minuti fa ha postato sulla sua pagina social un breve filmato nel quale critica la Boldrina, come da lui stesso ribattezzata, perchè a suo dire offenderebbe il sentimento religioso degli italiani. “Abbiamo un’eroina, la Boldrina – esordisce Sgarbi – Finalmente è scesa in campo e ha dichiarato ‘da oggi denuncio chi mi insulta online, così incoraggerò le altre vittime di insulti, di minacce’. Online ognuno scrive quello che gli pare ma ovviamente se lo scrive della Boldrini è un’offesa perchè lei ha grandi ideali, grandi idee, grandi principi. E quindi la solidarietà di tutti, il Parlamento vicino a questa donna umiliata, mortificata e che adesso denuncia”. Il critico d’arte prosegue il suo attacco e con cinismo sottolinea: “Non so se gli insulti alla Boldrini, che non voglio immaginare e che saranno pure offensivi, siano più gravi del fatto che lei è stata offensiva ed è offensiva rispetto alla nostra civiltà, alle nostre tradizioni. Io sono certo che la Boldrini è contraria al crocefisso negli uffici pubblici e nelle scuole e contraria al presepe per Natale”. Proseguendo poi nel ribadire che “quella che offende è lei, che offende la sensibilità cristiana, quella umana, le tradizioni, la civiltà. Non ha mai letto Benedetto Croce, Non possiamo non dirci cristiani. Quello che è bello per alcuni giovani e ragazzi e che alcuni presidi proibiscono – aggiunge poi Sgarbi – è ritrovare la felicità infantile nel presepe, vedere il piccolo bambino, che è una fantasia della nostra infanzia. E che nella grande pittura trova rappresentazioni in Botticelli, in Paolo Uccello, in Caravaggio. Ma se un giovane guarda un presepe, ‘non è corretto perchè i musulmani non ce l’hanno’. Se un giovane guarda il Cristo di Mantegna e le crocifissioni dei grandi pittori del Rinascimento, ‘eh sì va bene, però gli altri’. Allora sicuramente la Boldrini, politicamente corretta, la Boldrina, che si offende per tutto, offende il nostro sentimento religioso – e poi conclude con – La denuncio, la denuncio, la denuncio”.

Vittorio Sgarbi dopo Barcellona: "Chi sono i complici dei terroristi delle Ramblas", scrive il 18 Agosto 2017 “Libero Quotidiano”. Un messaggio breve, ma che si è guadagnato in poche ore 54mila "like" su Facebook. E' quello che Vittorio Sgarbi ha postato dopo l'attentato di Barcellona, nel quale hanno perso la vita 13 persone e un centinaio sono rimaste ferite. Gli autori della strage sono tutti immigrati dal nord Africa, di religione musulmana. E Sgarbi, come al solito, non fa sconti: "Chi, di fronte a tanta violenza, continua a pronunciare vacui appelli alla pace e alla tolleranza, è un complice". Chi ha orecchie per intendere, intenda...

Laura Boldrini sui social, altro che querele: qui ci vuole un’operazione simpatia, scrive Vincenzo Russo il 18 agosto 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Le parole hanno il potere di distruggere e di creare. Quando le parole sono sincere e gentili possono cambiare il mondo (Buddha). Importante premessa prima di iniziare: questo post non vuole entrare nel merito delle idee politiche della Presidente della Camera, Laura Boldrini, né sul valore e sul modo in cui conduce le sue battaglie politiche e civili. Il mio intento è solo quello di analizzare la sua comunicazione sui canali social, scovare gli errori e suggerire soluzioni. Da una lettura veloce dei suoi ultimi venti post su Facebook, sulla timeline di Twitter e sul suo sito personale, noto subito una certa distanza, mancanza di calore, contenuti poco originali. Decido di prendermi un po’ di tempo per un’analisi più metodica. Ed ecco le mie conclusioni. Cosa non fa (e invece dovrebbe fare):

– Non risponde mai pubblicamente ai tantissimi commenti che riceve (e non sono solo insulti). Ma qualcuno del suo staff legge? Qualcuno glieli riporta?

– Scopro che dalla sua pagina Facebook non è possibile inviare un messaggio diretto. Dove è l’ascolto? E’ questa la concezione di web 2.0?

– Qualcuno le ha spiegato che il web è prima di tutto conversazione e non obbedisce alle stesse regole della televisione? Ho provato a chiederlo a un componente del suo staff ma non ha saputo darmi risposta.

– Veniamo alle foto e al linguaggio iconico. Un aspetto della comunicazione politica, che non è nata certo con i social media, e che chi gestisce i suoi canali dovrebbe usare con maggiore maestria: al posto delle fotografie dei beneficiari delle sue battaglie, campeggia ovunque il suo volto compiaciuto. Lei da un palco, lei con un gruppo di studenti, lei sui megaschermi di una conferenza, foto istituzionali con strette di mano: tutte rappresentazioni che mettono una distanza smisurata tra la politica e i cittadini, ovvero tra lei e i membri della community che in teoria dovrebbero partecipare alle conversazioni.

Le occasioni perse. A onor del vero, nella timeline affollata di messaggi retorici, scovo una storia vera, un tentativo concreto di dare un volto e un nome a una migrante diversamente dalle solite immagini d’archivio con persone dalla pelle scura in fuga da guerre e carestie: una donna di colore in costume tradizionale con un bimbo in braccio si asciuga le lacrime. Dalla didascalia scopriamo che si chiama Priscilla, ha solo 23 anni ed è già madre di diversi bambini, uno l’ha perso mentre scappava da Boko Haram. Ora si trova in un campo vicino alla capitale nigeriana. Pur apprezzando lo sforzo, credo che si tratti di un’occasione persa. Nonostante inizi con il racconto diretto di Priscilla, il tono del post è freddo, si fa quasi subito impersonale e distante; la sensazione è che serva solo a introdurre la riflessione retorica di Madame Boldrini in visita al campo profughi: “La sua è solamente una delle tante storie di violenza che ho ascoltato in questo luogo”.

Poiché mi piacciono gli esempi concreti, chiudo questo post con un confronto Laura Boldrini – Bernie Sanders. I politici americani sono avanti anni luce rispetto ai nostri nel modo di utilizzare i social, ma non finisco mai di stupirmi dell’efficacia comunicativa, del calore e della credibilità che emanano i post di questo simpatico settuagenario Bernie – per cui ammetto di aver fatto il tifo durante le primarie Usa. Chi dà consigli alla Boldrini sui social, si deve ispirare a un uomo di sinistra come lui. Per le querele c’è sempre tempo. 

La lista fascista al 10% fa infuriare la Boldrini. Il 10 per cento raccolto dalla "Lista dei Fasci italiani del lavoro" a Sermide e Felonica ha scatenato la reazione della Boldrini, scrive Luca Romano, Martedì 13/06/2017 su "Il Giornale".  Il 10 per cento raccolto dalla "Lista dei Fasci italiani del lavoro" a Sermide e Felonica (provincia di Mantova) con fascio littorio nel simbolo agita e non poco la politica italiana. Con 334 voti, la candidata Fiamma Negrini è entrata in Consiglio comunale. Un'affermazione, quella della Negrini, che ha subito suscitato diverse polemiche e reazioni. Una su tutte quella della presidente della Camera, Laura Boldrini che ha scritto al ministro degli Interni, Marco Minniti: "L'ammissione alle elezioni di una lista che si richiama dichiaratamente a nomi e immagini del partito fascista desta forti perplessità sul piano giuridico in quanto - come rilevato, tra gli altri, dall'Anpi - sembra contrastare con le norme costituzionali e legislative che vietano la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del partito fascista. In questo senso - continua Boldrini - ricordo che anche le "Istruzioni per la presentazione e l'ammissione delle candidature", emanate nello scorso mese di maggio dal Ministero dell'Interno, stabiliscono che le commissioni elettorali circondariali ricusano 'i contrassegni in cui siano contenute espressioni, immagini o raffigurazioni che facciano riferimento a ideologie autoritarie (per esempio le parole "fascismo", "nazismo", "nazionalsocialismo" e simili), come tali vietate dalla XII disposizione transitoria della Costituzione". La Boldrini ha poi chiesto l'intervento del Viminale. E così, come riporta Repubblica, il Ministero d'accordo col prefetto di Mantova ha revocato le designazioni dei funzionari componenti della settima sottocommissione elettorale circondariale di Mantova, competente per quel Comune". In realtà la lista era già presente nelle consultazioni del 2002, 2007 e 2012. Proteste anche da Sinistra Italiana con Nicola Fratoianni: "Rimane incredibile come sia stata ammessa una lista dichiaratamente fascista in questa elezione - dice Nicola Fratoianni, annunciando l'interrogazione parlamentare -. Un fatto vietato espressamente dalla Costituzione della Repubblica e dalle leggi. Come è stato possibile che il Ministero dell'Interno e la Prefettura non abbiamo assunto decisioni nelle settimane scorse? Lo vogliamo sapere. Il ministro Minniti è tanto solerte nell'azione contro poveracci e migranti e quanto mai assente su questi episodi. Vogliamo che sia fatta chiarezza e se qualche funzionario dello Stato ha chiuso un occhio, contravvenendo alle leggi della Repubblica, siano presi provvedimenti urgenti". Infine interviene anche Eleonora Cimbro, di Articolo 1 Mdp: "La lista Fasci Italiani del Lavoro rievoca un passato che si contrappone chiaramente ai principi della Costituzione repubblicana, delle leggi Scelba e Mancino e che ha come propria finalità l'eliminazione delle democrazie per il ritorno di visioni dittatoriali - attacca la deputata di Articolo 1 Mdp Eleonora Cimbro -. Chiediamo al ministro dell'Interno quali iniziative il Governo intende mettere in atto per porre finalmente un argine all'avanzata, anche culturale, di movimenti neonazisti e neofascisti che si pongono apertamente in contrasto con i valori della Repubblica". L'ultima follia della Boldrini: censurare la democrazia.

Nel Mantovano eletta una consigliera "fascista". La presidente s'infuria e chiede l'aiuto di Minniti, scrive Massimo Malpica, Mercoledì 14/06/2017 su "Il Giornale". Come volevasi dimostrare. I «fasci» vincono e gli autoproclamati difensori della democrazia si ritrovano sull'orlo di una crisi di nervi. La storia è nota: nel piccolo comune di Sermide e Felonica, provincia di Mantova, tra le liste in corsa c'è «Fasci italiani del Lavoro», partito creato da Claudio Negrini, e la cui figlia, Fiamma, è candidata sindaco. Non è la prima volta che sulla scheda compare quel simbolo al profumo di Ventennio. Il partito col fascio littorio aveva già presentato una sua lista alle elezioni nel 2002, nel 2007 e nel 2012, senza mai sollevare polemiche. Stavolta succede l'imponderabile. Ben 334 elettori votano per Fiamma, il 10,41 per cento dei votanti. E la ragazza, 20 anni, si ritrova consigliera comunale. E pensare che a una settimana dal voto, in seguito a una sassaiola «social» contro Negrini e il suo partito, papà Claudio aveva pensato di evitare le polemiche chiamandosi fuori: «Inizialmente volevo sospendere la campagna elettorale per tutelare i membri della lista - aveva raccontato all'Adnkronos - ma sia l'intervento di mia figlia Fiamma che quello degli altri due candidati sindaci Mirco Bortesi e Anna Maria Martini, che ringrazio, mi hanno fatto cambiare idea». La storia di tolleranza di provincia diventa però un clamoroso successo elettorale, rendendo virale la vicenda. E moltiplicando i mal di pancia. Tra i più fastidiosi, quello accusato dalla terza carica dello Stato, Laura Boldrini. Che ha chiesto «aiuto» a Marco Minniti, lamentandosi con il titolare del Viminale per quella lista col fascio littorio «presentata e ammessa» alle elezioni, con una decisione che «desta forti perplessità». Cercando conforto in leggi e regolamenti contro l'affronto, Boldrini pesca le «istruzioni per la presentazione e l'ammissione delle candidature» diramate dalla direzione dei servizi elettorali del ministero a maggio scorso. Lì, ringhia, c'è scritto che vanno ricusati «i contrassegni con espressioni, immagini o raffigurazioni che facciano riferimento a ideologie autoritarie (per esempio, le parole fascismo, nazismo, nazionalsocialismo e simili)». E invece i «fasci del lavoro» sono passati indenni. Di fronte alla «questione di particolare gravità» sollevata dalla furiosa Boldrini, Minniti scatta senza indugi. E il prefetto di Mantova revoca i malcapitati funzionari della sottocommissione responsabili della svista-attentato alla democrazia. Che, però, appunto, è democrazia. E non può toccare la volontà manifestata dagli elettori che hanno scelto di portare la Fiamma candidata per i «Fasci» dentro il Consiglio comunale del paese del Mantovano. «Un risultato straordinario», esulta papà Negrini, che invece di alimentare le polemiche fa sfoggio di fair play: «Quello non è il fascio littorio ma il fascio della Repubblica sociale italiana, sono 15 anni che presento lo stesso simbolo in tutt'Italia e nessuno ha mai avuto nulla da ridire. Vorrà dire che la prossima volta lo cambierò».

Se da un lato “La Presidente della Camera” dovrebbe essere imparziale e sembrare tale, “La Presidente della Camera” partigiana comunista e legislatore dovrebbe essere informata sul nostro ordinamento legislativo e sui rischi di vulgate ideologiche morte e sepolte nel passato, compresa la sua.

Saluto romano e croce celtica in corteo: nessun reato, scrive il 12/06/2017 “La Stampa”. Riflettori puntati sui partecipanti ad una manifestazione svoltasi 3 anni fa a Milano. Per i giudici, però, il ricorso a simboli e riti fascisti non erano minimamente caratterizzati dall’idea di provocare sentimenti nostalgici. Croce celtica e saluto romano non sono punibili. Ciò perché, pur appartenendo alla simbologia e ai riti della destra mussoliniana, essi possono essere valutati come legittime manifestazioni del pensiero. Decisivi sono il contesto e la mancanza di una chiara, evidente finalità di restaurazione del regime fascista (Cassazione, sentenza n. 28298/2017, depositata il 7 giugno 2017). Corteo. Ultimo strascico giudiziario per una vicenda cominciata tre anni fa, in occasione di una manifestazione a Milano. L’evento, organizzato da diverse forze politiche di destra, era finalizzato alla commemorazione di tre personaggi fascisti, e si è caratterizzato, ovviamente, per il ricorso a determinati simboli e a determinati riti, come «la ‘chiamata del presente’, il ‘saluto romano’ e le croci celtiche». Oltre mille le persone coinvolte, e alcune di esse sono finite sotto accusa per «apologia del fascismo». In particolare, ora, i riflettori sono puntati su un giovane pugliese che, approdato nel capoluogo lombardo per la manifestazione, è stato beccato a «partecipare al corteo esibendo una bandiera raffigurante la croce celtica, simbolo notoriamente adottato dalle formazioni di ispirazione nazi-fascista». Per il Gup di Milano, però, gli elementi a disposizione non sono sufficienti per parlare di «manifestazioni» vietate. Ciò perché «le modalità di svolgimento della manifestazione, di carattere commemorativo» non avevano minimamente «creato il pericolo di ricostituzione del partito fascista». Pericolo. Ora la visione tracciata dal G.U.P. viene condivisa dai magistrati della Cassazione. Anche a loro avviso, difatti, nonostante le obiezioni mosse dal Procuratore della Repubblica di Milano, il corteo oggetto di discussione e il ricorso a «saluto romano e croci celtiche» non hanno mai fatto balenare «il pericolo di ricostituzione di organizzazioni fasciste». Allargando l’orizzonte, poi, viene evidenziato che «l’apologia del fascismo», per «assumere carattere di reato», deve «consistere non in una difesa elogiativa ma in una esaltazione tale da poter condurre a una riorganizzazione del partito». In questa vicenda, invece, è emerso che la «simbologia fascista» utilizzata a Milano era «rivolta esclusivamente alla commemorazione di tre defunti, in segno di omaggio e umana pietà». A confermarlo, poi, anche il fatto che «il corteo si è svolto secondo modalità ordinate e rispettose, in assoluto silenzio, senza che venisse intonato alcun canto o inno o slogan fascista» e «senza alcun accenno a comportamenti aggressivi, minacciosi o violenti, senza armi e senza riferimenti a lotte o rivendicazioni politiche». Così, una volta esclusa l’ipotesi di «sentimenti nostalgici», si può, concludono i magistrati, far cadere l’accusa di «manifestazioni fasciste» vietate in occasione del corteo a Milano.

La signora comunista indulgente coi carnefici. Le esternazioni barricadere del presidente della Camera stupiscono molti. Ma ricalcano le posizioni di estrema sinistra dei suoi elettori, scrive Stefano Filippi, Venerdì 03/05/2013, su "Il Giornale". Il Foglio ha scritto che è il volto bello del comunismo, e che se facesse amicizia con Mara Carfagna le due parlamentari rappresenterebbero la bellezza delle larghe intese. Ma più che dall'avvenenza o dal taglio delle giacche nere, di Laura Boldrini colpiscono le esternazioni barricadere e combattive. Segreto di Stato, 25 Aprile, il disagio sociale, la sparatoria davanti a Palazzo Chigi: gli italiani sono sconcertati da una presidente della Camera che sembra prendere a spallate le istituzioni più che puntellarle. «Mi unisco a chi chiede l'abrogazione completa e definitiva del segreto di Stato per i reati di strage del terrorismo perché in un Paese civile verità e giustizia non si possono né barattare né calpestare», ha detto a Milano alla manifestazione per l'anniversario della Liberazione. Una festa in cui, stando alle sue parole, gli «italiani liberi» sarebbero soltanto quelli presenti nelle piazze, «piazze vive» perché «festeggiano la riconquista della libertà». E sulla crisi l'erede di Gianfranco Fini a Montecitorio ha usato la bilancia a due pesi. Da un lato «non è lecita alcuna confusione tra chi spara e chi viene colpito», ma dall'altro «sulla crisi le istituzioni e la politica devono tornare a intervenire e dare risposte quanto prima, anche perché in più di un caso - lo stiamo vedendo con frequenza crescente - la crisi trasforma le sue vittime in carnefici». Le vittime diventano carnefici per colpa della crisi. Sembra ricalcato dal manuale del perfetto marxista, laddove si teorizza che non esistano responsabilità personali ma soltanto sociali. Le colpe sono pubbliche, della «politica che non dà risposte», dei «cattivi esempi». Un modo per giustificare a prescindere, perché se non c'è peccato non c'è neppure il peccatore. La solidarietà della Boldrini al brigadiere Giangrande e alla figlia è arrivata in un secondo momento. E per fortuna che i due carabinieri feriti non hanno preso in parola l'ex portavoce dell'Alto commissariato Onu per i rifugiati. Anch'essi, i militari, sono vittime. Vittime colpite non dalla crisi, ma dai proiettili esplosi dalla pistola di Luigi Preiti. E se si fossero trasformati in carnefici? Se avessero sparato contro l'attentatore? Non sarebbero finiti loro sul banco degli imputati per eccesso di legittima difesa, come purtroppo è successo già troppe volte in questo nostro Paese? In realtà non c'è nulla di cui stupirsi nelle parole di Laura Boldrini. La signora è coerente con se stessa, con il suo passato e le sue idee coltivate negli anni. Idee di sinistra, giustificatrici a prescindere, per le quali le colpe sono sempre collettive e mai personali, anche se Preiti ha pianificato con lucida follia in 20 giorni l'agguato di domenica mattina. Non c'è proprio niente da meravigliarsi per le cose dette da una parlamentare eletta con il partito di Nichi Vendola. Nelle piazze e sui giornali ricalca le posizioni espresse quando lavorava per le Nazioni Unite. A ogni sbarco di disperati sulle coste italiane, l'allora portavoce dell'alto commissario scaricava le colpe dell'accaduto sul «sistema», particolarmente quando al governo c'era Silvio Berlusconi. Le emergenze, le ondate di sbarchi da decine di migliaia di persone erano parole da esorcizzare. Le emergenze erano provocate dal governo, dai politici, «dal sistema che non funziona come avrebbe dovuto». Oppure dagli italiani stessi, nei quali «a prevalere sono l'ansia, la paura e la non disponibilità». La Boldrini lamentava che «non si parla di gente che sta arrivando dal Nord Africa per motivi umanitari, bensì di clandestini, che è una parola con un'accezione negativa che dovrebbe essere messa al bando». E i negrieri che organizzano la tratta? La complicità dei governi nordafricani che chiudono gli occhi davanti ai mercanti dei nuovi schiavi? Quello che vedeva la Boldrini era che «c'è molto poco slancio nel dare aiuti» perché «questi arrivi vengono percepiti come invasioni». È la posizione di quando l'immigrazione era governata da Livia Turco. Laura Boldrini è soltanto una persona coerente con le proprie idee e con quelle di quanti l'hanno eletta al Parlamento.

Cara Boldrini benvenuta nel club degli insultati. Sostiene che la sua è una battaglia per tutti. No. La sua è una legittima battaglia per se stessa, scrive Nicola Porro, Martedì 15/08/2017, su "Il Giornale".  In Doctor Faustus, un libro complicatissimo di Thomas Mann che solo d'estate si può avere il tempo di prendere in mano, c'è però una favolosa descrizione di una donnetta ritenuta, dal popolo ignorante, una strega: «Il suo habitus s'era a tal punto adeguato al pregiudizio dell'opinione pubblica che anche chi era del tutto scevro da preconcetti, sebbene in lei non ci fosse nulla che non andava, poteva essere colto, incontrandola, da un arcaico brivido di terrore». Ecco, mi è venuta in mente Laura Boldrini. Mi sento come quel popolino che quando sente parlare la nostra terza carica dello Stato, non una strega ovviamente, ha un brivido di terrore. Il suo stile da «Madonna addolorata» alimenta il pregiudizio. Due giorni fa ci ha spiegato vibrante che contro le Ong c'era un'inqualificabile campagna di odio (fake news) e ieri ha denunciato attacchi disgustosi a lei rivolti (real news). In due giorni è riuscita a confondere talmente i piani, da rendere il suo j'accuse di ieri più debole del dovuto. Chiunque frequenti un poco la Rete, sa bene che gli odiatori riescono a rivolgere alla Boldrini, come a chiunque abbia un minimo di visibilità, insulti orrendi, disgustosi e vigliacchi. Ma la Boldrini ha questa capacità di sbagliarle tutte. Si veste da strega anche se non lo è, parafrasando Mann. La terza carica dello Stato ha infatti tutti gli strumenti per difendersi, e sono ben superiori a quelli dei comuni mortali. Che peraltro glieli pagano, questi strumenti: uffici stampa, avvocati, consulenti e un rapporto con la polizia postale che non passa per il centralino come per il signor Rossi. E non dica sciocchezze, anche se in modo dolente, sostenendo che la sua è una battaglia per tutti. No. La sua è una legittima battaglia per se stessa, volta a sbattere in galera o farla pagare ai suoi insultatori; quei deficienti che credono di stare sulla Rete come quei bulli che in macchina, protetti dalle lamiere, ritengono di poter fare di tutto e restare impuniti. Altro che «leoni da tastiera», come oggi va di moda di dire, conferendo loro una grande dignità animale. Sono pirati della strada. Ma la Boldrini (cito il Corriere della Sera) «è una donna, una mamma, una cittadina italiana e ricopre la terza carica dello Stato», manca solo il segno zodiacale (magari di aria) e la descrizione della Madonna addolorata e trafitta è completa. Resta il fatto che là fuori ci sono milioni di frequentatori della Rete, magari anche maschi e single e senza cariche politiche, che subiscono insulti di tutti i tipi e si comportano come cittadini normali: in parte soprassiedono e talvolta provano a denunciare. E là fuori ci sono anche centinaia di politici che hanno subìto il trattamento Boldrini, nel silenzio più generale degli opinionisti e dei compiaciuti che nel proprio circoletto possono dire di aver sputato sulla Casta.

Maschi, giornalisti e militari. Tutti gli insultati dalla Boldrini. Il presidente della Camera denuncia e fa bene. Ma anche lei è una odiatrice: chi la critica viene mortificato, scrive Francesco Maria Del Vigo, Giovedì 17/08/2017, su "Il Giornale". Ben ha fatto Laura Boldrini ad annunciare denunce nei confronti degli haters, odiosa parola molto in voga per definire gli odiatori seriali. Ma chi sono questi haters? Persone fisiche che utilizzano mezzi virtuali, specialmente i social network, per insultare il prossimo loro. Con un po' più di gusto se il prossimo loro è un vip. I famosi quindici minuti di celebrità ora si possono raccattare anche scrivendo un commento al vetriolo in calce al post su Facebook di qualche personaggio pubblico. «Denuncerò chi mi insulta» ha annunciato, col solito piglio dolente di chi porta sulle spalle tutte le responsabilità del mondo (possibilmente il terzo), la più discussa presidente della Camera di tutti i tempi. A pensar male verrebbe da dire: se facessero la stessa cosa tutti quelli che sono stati insultati da lei, i tribunali sarebbero intasati per secoli. Perché la presidenta esprime, più che legittimamente, posizioni durissime, impopolari e a tratti violente: lo straniero è sempre meglio dell'italiano, il diverso del tradizionale e - ovviamente - la sinistra meglio del resto del mondo. Pare che abbia in odio quello che pensa la maggioranza del Paese. Insomma: è lei stessa una «hater». Che cosa sono queste se non offese? La lista di quelli che potrebbero portarla alla sbarra sentendosi legittimamente insultati dalle sue parole è sterminata. Proviamo a fare un breve ed incompleto Bignami di tre anni di boldrinate presidenziali. Il bersaglio principale dei suoi strali sono sempre stati i maschi. Trattati come bestie in preda ai propri istinti più animaleschi. La presidenza Boldrini è stata imperniata sulla battaglia per la parità dei sessi, presto tracima in disparità: sempre prima le donne, quando si scappa dalle navi in avaria. Meno interesse per i bambini, invece, a meno che non siano africani. Non si sa cosa abbia ottenuto Laura in tre anni alla Camera, di sicuro ha risvegliato un femminismo fuori tempo massimo. E ha insultato gli uomini. Di convesso pure una parte delle donne: trattate come panda da irreggimentare nelle gabbie delle quote rosa. Monumentale la battaglia per il ruolo delle donne nelle pubblicità: «Perché le donne servono sempre a tavola? È mortificante per il nostro Paese», tuonò con sprezzo del ridicolo dallo scranno più alto di Montecitorio. Sempre nel campo delle macrocategorie insultate a strascico dalla Boldrini ci sono gli italiani «che sono ignoranti perché non sanno che i migranti sono una risorsa». E qui, oltre ad insultare una sessantina di milioni di concittadini, inanella pure una fake news. Perché che i migranti non siano una risorsa lo hanno certificato i fatti. Ma per la maestrina quella della rieducazione da campo sovietica è una vera e propria missione. Altra categoria in uggia alla ex portavoce dell'Unhcr sono i giornalisti, ai quali ha tentato più volte di imporre un dizionario di parole politicamente correttissime da usare nei loro articoli. Ovviamente tutte al femminile. Ma nella lista degli ipotetici querelandi si possono iscrivere pure i dipendenti della Camera: costretti a convertire tutte le loro qualifiche e a mandare a memoria le più strampalate teorie sul gender. E diciamo che, se non è stato un vero e proprio insulto, presentarsi dal Papa in ciabatte non è stato sicuramente un gesto di grande rispetto. Uno sberleffo invece a tutte le forze armate non alzarsi al passaggio della Folgore durante la parata della Festa della Repubblica. Per non parlare degli elettori del centrodestra, trattati alla stregua di un branco di subumani, e della sua battaglia demolitrice nei confronti dei monumenti del Ventennio. Punto apicale del delirio ideologico. Uno schiaffo alla cultura del nostro Paese nel nome di un antifascismo da poseur, in evidente assenza di fascisti. Usando il suo dizionario, un fulgido esempio di «populismo» sessista. E poi, in ordine sparso, sono volati insulti nei confronti di chiunque la pensasse in modo diverso da lei: da chi criticava l'immigrazione selvaggia a chi poneva dubbi sull'operato delle Ong (ancora pochi giorni fa in un'intervista sul Corriere), da chi difende il mercato a chi semplicemente chiede un po' di sicurezza sotto le finestre di casa sua. Una hater di prima classe che ha insultato tutti, soprattutto il buonsenso, che per sua fortuna non la può querelare.

ALTRO CHE QUERELE. Filippo Facci il 16 Agosto 2017 su “Libero Quotidiano”. Il ritratto senza ipocrisie di Laura Boldrini: "Ecco perché ti insultano". Laura Boldrini è insopportabile, o perlomeno questo pensa una quantità impressionante di italiani che la detesta trasversalmente e, vien da dire, genuinamente. Non sto parlando, infatti, del livore fisiologico che è riservato a tutti i politici particolarmente divisivi in quanto protagonisti, visibili, iperattivi e mediatici: è una specificità tutta sua, una partita che gli odiatori della Boldrini giocano da soli e a cui non corrisponde una squadra avversaria di pari livello. Perché? È una domanda a cui la Boldrini dovrebbe cercare di rispondere per prima, e, per non essere ipocrita, voglio anticipare che la risposta che formulerò non prevede soluzione, senonché lei sparisca dalla circolazione e lasci le istituzioni che si illude di rappresentare. Cercherò di argomentare, ma va detto che, nell' attesa, la presidente della Camera ha deciso di passare al contrattacco e di querelare perlomeno i peggiori dei suoi molestatori online. Ieri il giornalista-intrattenitore Giuseppe Severgnini (perfetto per il ruolo) ha pensato bene di pubblicare alcuni esempi di «commenti» online che la riguardano, forse non facendole un buon servizio: storie di sodomie di gruppo e di morti violente, messaggi spesso firmati con nome e cognome, roba orrenda - ripeterlo pare anche stupido - ma non esemplare, perché sono escrescenze degenerative che gli italiani conoscono già e che riguardano tutti i personaggi noti. Ecco, giusto per cominciare: forse al duo Severgnini-Boldrini non è chiaro che anche questa loro reazione («sta passando l' idea pericolosissima che i social siano l' inferno dove tutto è possibile») potrebbe essere classicamente associata alla «politica» che si accorge delle cose solo quando la riguardano, potrebbe essere associata, cioè, a una reazione per lesa maestà da parte di chi non sopporta l' onta che riguarda i comuni mortali: compresi altri politici meno altezzosi di lei, anche se vengono insultati uguale. Anche questa reazione, insomma, contiene parte dell'essenza per cui Laura Boldrini forse è tanto detestata: l'apparente protervia di chi si sente oltremodo intoccabile in quanto non è persona ma «istituzione», peraltro per autodeterminazione: parliamo di un'ex giornalista che si occupava di rifugiati per l' Onu e che poi - pum - diventa presidente della Camera. Insomma, ci stiamo girando troppo attorno: signora Boldrini, il punto è che lei è percepita come un'imbucata senza titolo, la classica miracolata che smuove risentimenti, l'essenza della «casta percepita» e della rappresentanza che poco rappresenta. Anche questa improvvisa battaglia, probabilmente, verrà recepita come qualcosa di molto lontano dal comune sentire: vergato con la carta intestata della Presidenza della Camera, senza spese per la Presidente, con automatica pubblicità mediatica e ben distante, insomma, dalla quotidianità di chi Severgnini richiama come esempio, cioè noi tutti: «Abbiamo il dovere di sostenerla in questa iniziativa», scrive il nostro, perché «domani potrebbe capitare a noi». Ma stia tranquillo, Severgnini: a molti di noi, magari, è già più o meno capitato, ma senza la volontà o possibilità di fare tanto baccano. «Lo farò anche per incoraggiare tutti coloro che subiscono insulti e aggressioni verbali a uscire dal silenzio e denunciare», scrive la Boldrini, inoltre «dobbiamo dimostrare che in uno Stato di diritto chiunque venga aggredito può difendersi attraverso le leggi». Ah sì? Può farlo? Forse può lei, che è presidente della Camera: questo penserà la maggioranza. Detto questo, sono consapevole del semplicismo dei miei argomenti: ma questo cambia poco. C' è una forma e una sostanza, e la Boldrini è una catastrofe in entrambe. Ho chiesto a trentacinque persone di mia conoscenza (culturalmente certificate, e politicamente trsversali) una rapida e istintiva opinione sulla Boldrini: l'esito è stato devastante. Hanno prevalso le espressioni «maestrina», in un caso «infermiera di "Qualcuno volò sul nido del cuculo"», in quattro casi «è il nulla» e poi una serie di intolleranze su aspetti fisici e fisiognomici (il tono di voce, l'espressione boriosa) e solo in seconda battuta ci sono state opinioni sui contenuti, cioè su quello che dice. Più in generale, un rafforzamento del «boldrinismo» inteso come forma caricaturale del politicamente corretto: col la dote di ottenere il contrario di quanto si prefiggeva. Ma a parte questo, ancora più in generale, si ricava l'impressione che quando una persona non ha il «fisico» del ruolo, e oltretutto lo trascende, forse dovrebbe cambiare mestiere. E lo scriviamo senza essere entrati nel merito - notare - di nessun contenuto a cui pure dedicammo articoli interi: la campagna per scrivere al femminile alcuni nomi e professioni, il suo darsela a gambe e serrarsi in ufficio quando i grillini impazzavano a Montecitorio, certa arroganza nell' applicare le regole della Camera, le prediche contro gli spot in cui le donne fanno le casalinghe, le paranoie sul sessismo e sul femminicidio, le bandiere di Montecitorio a mezz' asta per l' 8 marzo, le improbabilissime proposte politiche e «tecniche» a Mark Zuckerberg di Facebook, la frase infelice sull' architettura del Ventennio, l' invenzione sui simboli del nazismo che in Germania non ci sarebbero più, il mancato applauso al passaggio della Brigata Folgore il 2 giugno, l' intestarsi battaglie - in pratica - su temi politici che spetterebbero agli organi democraticamente eletti. Battaglie che lei preferisce perdere da sola. Filippo Facci

Da Al Bano a Cortina: la deriva social degli untori d'odio. Veleni online sui vip ma anche sulle vittime di calamità naturali o di femminicidi, scrive Nino Materi, Martedì 8/08/2017, su "Il Giornale". «L' invasione degli imbecilli» preconizzata da Umberto Eco, si è antropologicamente «evoluta», tanto che ora siamo assediati da milioni di Napalm51, l'irresistibile (e angosciante) personaggio inventato da Maurizio Crozza che «clicca clicca» e «banna banna», distillando h24 gocce d'odio contro tutto e tutti. Ma il vero dramma è che la tipologia dell'untore-social è tragicamente reale e la sua «filosofia» sul web fa sempre più proseliti. Le frustrazioni, per nulla virtuali, del popolo Napalm tracimano online trasformandosi in offese, insulti, invettive, calunnie: tutte rigorosamente «gratuite», sia nel senso che sono «false» sia nell'accezione che «non costano nulla» (finanziariamente e giuridicamente). Insomma, oggi, «a costo zero», in rete si può diffamare chiunque senza rischiare quasi nulla. Anche per questa ragione molti personaggi pubblici (ma pure persone comuni) hanno deciso di uscire definitivamente da Facebook o di mettere momentaneamente «in sonno» i propri profili. Solo nell'ultima settimana lo ha fatto il cantante Al Bano («Sono esasperato dalla campagna d'odio contro di me e la mia famiglia»). Prima di lui medesima decisione anche per Claudia Gerini, Alessandro Gassman, Linus, Lapo Elkann e molti altri interpreti dello showbiz internazionale: dal cantante Ed Sheeran, alla pop star Selena Gomez, passando per l'attore Josh McDermitt, solo per fermarci alla categoria «spettacolo». Ma la cosa diventa ancora più inquietante quando a colpi di mouse si vomita fango perfino su un simbolo della lotta contro la violenza sulle donne come Gessica Notaro, la ragazza sfregiata con l'acido dal suo ex. Di cosa è stata «accusata» dagli untori del web? Di volere la riapertura del delfinario di Riccione dove lei lavora come istruttrice. Apriti cielo. Ecco subito gli «haters» che, sotto le mentite spoglie degli animalisti, «augurano» a Gessica di «essere ancora sfregiata, perché lei i delfini non li ama ma li tortura». E che dire dei Napalm51 che dopo l'alluvione che ha causato un morto a Cortina esultano perché «finalmente le calamità naturali colpiscono anche le località dei ricchi»? Sono gli ebeti del web che Enrico Mentana ha battezzato (con un felice neologismo) «webeti», diffidandoli nel continuare a seguirlo come «amici» sulla sua pagina Facebook. Mentana, di questi «indesiderati», ha tracciato anche le caratteristiche: sono quelli che «negano l'olocausto», che «sostengono che non siamo mai andati sulla luna»; gente non molto dissimile da quanti gioiscono per la morte di qualcuno o dopo una strage. Non c'è infatti attentato, sciagura o incidente dopo i quali il Napalm51 di turno non si fiondi a cliccare il suo infame «mi piace». Anche il mondo dell'informazione ha le sue responsabilità, inseguendo (lo stiamo facendo anche noi con questo articolo, ndr) gli ignobili post di chi su internet si sente «realizzato» solo lanciando frasi di melma. Ma il futuro non promette nulla di buono. Un recente studio condotto dall'Università Cattolica dimostra infatti come un giovane su tre «non consideri grave l'uso sul web di termini che offendono, aggrediscono, esprimono odio o intolleranza». Osserva il professor Alessandro Rosina, docente di Demografia e Statistica sociale alla Cattolica di Milano: «Dobbiamo riflettere sul fatto che un gruppo, per quanto minoritario, di giovani utenti dei social non abbia consapevolezza delle insidie che il web nasconde, non sappia formulare un giudizio critico e viva in modo deresponsabilizzato la sua presenza in rete». Le parole d'odio («hate speech») sono considerato «grave» solo dal 44% degli intervistati e «abbastanza grave» dal 45%. Decisamente poco per sperare in un'inversione di tendenza. I Naplam51 continueranno a sputare parole di fuoco.

«Hate words» parole per ferire, scrive il 6 agosto 2017 "Il Dubbio". Anche nell’odio le parole non sono tutto, ma anche l’odio non sa fare a meno delle parole. Pubblichiamo un ampio estratto del saggio che il noto linguista Tullio De Mauro scrisse prima di morire. Censire le parole dell’odio circolanti in Italia e cercare di classificarle come primo passo per analisi ulteriori è l’obiettivo di questa nota, un contributo strettamente linguistico all’impegnativo e ben più vasto lavoro della Commissione. Anche nell’odio le parole non sono tutto, ma anche l’odio non sa fare a meno delle parole. Di queste parole dell’odio e dell’intolleranza il catalogo può essere forse istruttivo ma a tratti è ripugnante. Per renderne meno sgradevole la eventuale lettura c’è all’inizio una allegra e filosofica filastrocca di Rodari e alla fine il richiamo a due testi quibus maxima debetur reverentia: i nostri codici e il catalogo di Evagrio.

Gianni Rodari, con una sua filastrocca diventata famosa specialmente nella versione musicata e cantata da Sergio Endrigo, ha dato quella che si potrebbe dire con pomposità tecnica una lessico- semantica in prospettiva pragmatica. Ne riporto qui il testo nella versione cantata: Abbiamo parole per vendere, / parole per comprare, / parole per fare parole. / Andiamo a cercare insieme / le parole per pensare.

Abbiamo parole per fingere, / parole per ferire, / parole per fare il solletico. / Andiamo a cercare insieme / le parole per amare.

Abbiamo parole per piangere, / parole per tacere, / parole per fare rumore. / Andiamo a cercare insieme / le parole per parlare.

Ci si propone qui di censire, con speciale riferimento all’italiano, “le parole per ferire”. È la categoria che almeno in parte va da tempo sotto il nome di hate words.

Sotto questa voce Aaron Peckham (Urban Dictionary: Fularious Street Slang Defined, Andrews McMeel, 2005) dà la seguente definizione: «Le parole dell’odio sono, come spiega il nome, parole piene d’odio che causano dolore, perché sono dispregiative per loro natura. Sono le peggiori parole da usare, specialmente se fai parte di un gruppo che ha un potere di prevaricazione su un altro gruppo, il quale ha meno potere a causa del suo essere minoranza o del suo essere storicamente discriminato. (Per esempio gli eterosessuali sugli omosessuali, i bianchi sulle minoranze razziali, gli uomini sulle donne, i cristiani sulle altre religioni, gli abili sui disabili etc). Esempi: negro, frocio, puttana, mignotta, ritardato, troia, cagna, giudeo.» Per quanto già ampia, la definizione pare ammettere un utile ampliamento che prenda in considerazione anche parole che non siano “derogatory in nature” (cioè, parrebbe di poter dire, che non siano stabilmente tali nel sistema e nella norma di una lingua), ma che tuttavia nell’uso si rivelano eccellenti “parole per ferire” in una parte rilevante dei loro impieghi. Diciamo in una parte rilevante dei loro impieghi, perché nel concreto dell’esprimersi può accadere che qualsiasi parola e frase, del tutto neutra in sé, in circostanze molto particolari possa essere adoperata per ferire.

In un sempre istruttivo libro di Clive S. Lewis, Le lettere di Berlicche ( The Screwtape Letters), Berlicche nella traduzione italiana, ricorda a un junior temptor, Wormwood, Malacoda in italiano, un giovane diavolo tentatore alle prime esperienze tra gli umani, gli ottimi effetti sulla via della dannazione che i tentatori possono ricavare dal far dire a qualcuno, specie in famiglia, frasi di apparente assoluta innocenza che però feriscono gravemente e vogliono ferire chi le ascolta ( il coniuge, un parente stretto): «Brava, hai preparato il tè» ( ossia: cretina, sei la solita peciona, sono le sette, renditi conto, stupida, che ormai è quasi ora di cena e per il tè siamo in ritardo di due ore). Risentimento della peciona, controrisentimento del marito che si appella all’innocenza della frase, eccellente astioso litigio sul nulla o quasi e preziosa fonte di odio.

Nell’Opera da tre soldi di Bertolt Brecht in una scena madre la signora di aspirazioni aristocratiche insulta Jenny Diver, una prostituta, gridandole: «Puttana!». E Jenny con calma le risponde con uno sferzante «Signora!». Ma già Dickens si era divertito a osservare quanto a volte potesse essere ingiurioso l’uso allocutivo, vocativo, di Mister, Signore.

Una fondata indagine comparativa sugli hate words nella varie lingue è desiderabile, a smentire l’ipotesi che la schiera sia particolarmente folta in italiano a causa del vivace apporto di parole d’origine dialettale e/ o regionale (un’origine ormai dimenticata per i parlanti e relegata nelle etimologie solo nei dizionari più attenti): di esse lo standard si è nutrito a mano a mano che la lingua nazionale veniva comunemente usata nel parlare già dal tardo Ottocento e ancor più nel Novecento.

Nell’attesa è possibile qualche osservazione. La definizione di hate words data da Peckham è un passo avanti rispetto allo stato delle ricognizioni in varie lingue. L’attenzione dei repertori si concentra su due poli: da un lato gli insulti volgari, le male parole, in genere legate a materie escrementizie e attività sessuali tabuate, swear words, four- letters word, dirty words in inglese, i gros mots, le insultes e injures in francese, le blasfemias e gli insultos in spagnolo, gli unanständige Wörter in tedesco; dall’altro le parole su cui la political correctness ha portato l’attenzione, designazioni insultanti di categorie deboli o tali ritenute. La definizione di Peckham considera unitariamente questi due insiemi stante la comune possibilità di usarle per esprimere odio verso persone. Tuttavia esiste una vasta categoria di parole che non sono in sé volgari insulti né sono parole riconducibili a stereotipi etnici e sociali. Si stenterebbe a rintracciare volgarità o stereotipi discriminatori in parole come bietolone, bonzo, lucciola, parrucchiere, che tuttavia in italiano sono usate anche come insulti efficaci.

Come si vedrà, anche i nomi di categorie socialmente rispettate possono essere punto di partenza di espressioni ingiuriose. Queste poi non sono solo quelle che colpiscono persone, occorre considerare anche quelle che qualificano negativamente situazioni (pasticcio, sconcezza), ciò che naturalmente si riverbera poi sulle persone implicate. E dunque nel censimento che qui si è cercato di fare le “parole per ferire” sono anzitutto quelle che sono tali con tutta evidenza nel loro valore generale, tipicamente i derogatory words ( barbaro, imbecille, fesso per citare per ora le meno indecenti), ma anche, oltre le parole portatrici di stereotipi ( baluba, omo), altresì parole di valore prevalentemente neutro che, tuttavia, presentano accezioni spregiative e sono in tali accezioni eccellenti insulti ( accademia, maiale, pappagallo, professore) come spesso viene rivelato da alcuni derivati che selezionano e mettono in luce l’accezione negativa ( accademismo, maialata, pappagallismo, professorale).

Fonti primarie della ricognizione sono state il GRADIT, Grande dizionario italiano dell’uso (nella sua seconda edizione in otto volumi, UTET, Torino) che allo stato è la più ampia fonte lessicografica su carta, e il Dizionario on line di Internazionale. Va avvertito tuttavia che rispetto alle due fonti sono state lasciate da parte parole che, pur segnalate come spregiative, sono tuttavia marcate anche come obsolete o puramente letterarie o di basso uso ( per es, abbarcarsi, arrendatario, bellospirito, cantalluscio, delittore) e sono state invece recuperate e qui censite diverse parole che, come già accennato, pur non marcate come spregiative o stereotipiche, nell’uso sono utilizzate “per ferire”, tra altre sono tali tipicamente parole che identificano autori di reati, come assassino o ladro. Ancora qualche avvertenza per chi dovesse leggere questo inventario. Per limitare le ripetizioni le singole parole in generale figurano una sola volta nella prima delle classi in cui sono citate, ma ben figurerebbero anche in altre. Alcune parole sono accompagnate da glosse che tra virgolette chiariscono l’accezione particolare per cui figurano in una categoria. Con parsimonia ricorrono abbreviazioni come piem., lomb., tosc., rom., napol. ecc. che individuano l’area regionale di origine di una parola in un modo abbastanza trasparente.

Parole o accezioni evocanti stereotipi negativi. Circa duecento lemmi delle fonti lessicografiche attestano parole che possono evocare uno stereotipo negativo e che possiamo definire “parole per ferire a doppio taglio”, in quanto offendono una persona o un oggetto o attività ma anche evocano offensivamente un’intera categoria. Vengono anzitutto gli etnici (sostantivi e aggettivi), cioè nomi di un popolo straniero, spesso lontano e mal noto, usati per offendere una persona: albionico “britannico” “perfido”; americanata “grossolanità vistosa e superficiale”; ascaro “seguace di basso rango”; baluba lomb. “persona rozza e incivile”; barbaro ( una sorta di iperonimo generalissimo, ereditato dalle lingue classiche), “rozzo, incolto”, ma anche “feroce, crudele, efferato”; beduino “incivile”; calmucco “persona goffa o imbacuccata in modo ridicolo”; bulgaro “che presenta caratteri di statalismo ottusamente burocratico e poliziesco”; cinese “scritto, scrittura, discorso incomprensibile”; crucco, dal serbocroato kruh “pane”, nomignolo dato da soldati italiani prima ( 1939) ai militari altoatesini e trentini, poi ( 1942) anche agli slavi meridionali, infine generalmente ai tedeschi; dego in Canada e Stati Uniti “immigrato spagnolo o italiano”; ebreo “avido di guadagno”; franceseria “ostentazione di modi francesi”, infrancesare; giallo “orientale”; giudeo “ebreo”; guascone “spaccone”; inghilesarsi, inghilesco, inglesarsi; italiese, italiesco, italiota; levantino “astuto”, levantinismo; mammalucco “sciocco” ( nome di una milizia turca battuta da Napoleone); mongolo e mongoloide “idiota, deficiente”; negro, nero; ostrogoto “rozzo, incivile”; ottentotto “rozzo, incivile”; scozzese “avaro”; unno; vandalo; watusso “rozzo, incivile”; zingaro “persona senza fissa dimora o dall’aspetto trasandato e sporco”; zulù “rozzo, incivile”. Un secondo gruppo è dato da sostantivi o aggettivi tratti da nomi di regioni o città italiane e impiegati in modo spregiativo: bassitalia “meridionale”, burino “rozzo, maleducato”, gabibbo lig. “meridionale”, genovese “avaro”, marocco “africano”, maumau “meridionale”, napoli “napoletano, meridionale immigrato nel settentrione”, polentone, terrone.

Terzo gruppo: parole (sostantivi, aggettivi, talora verbi) indicanti una particolare professione o attività o socialmente disprezzata oppure non disprezzata, almeno in genere, ma considerata sotto un particolare profilo valutato negativamente: accademia “chiacchiere inutili e pretenziose”, accademico “pomposo, verboso”; ammazzasentenze “giudice incline ad annullare giudizi di gradi inferiori”; avvocato con avvocateggiare, avvocatesco, avvocaticchio, avvocatucolo, avvocatuncolo ( altri epiteti e nomignoli per mediocri avvocati: leguleio, paglietta, parafanghista “avvocato dedito a cause per incidenti stradali”); ayatollah “fanatico”; barotto piem. “contadino”, anche agg., “rozzo”; beccaio “carnefice”, “cattivo chirurgo”; beccamorto; biscazziere; bonzo “monaco buddista” ma anche “persona, specie autorevole, che si comporta con eccessiva e ridicola solennità”; bottegaio; burosauro “alto burocrate”; cafone ( originariamente e in dialetti meridionali “contadino”); caporale “militare di minimo grado nella gerarchia militare capo di una piccola squadra di uomini”, “persona prepotente, autoritaria” come evidenziano i derivati caporalesco “prepotente, autoritario” ( diffusosi dal 1914– 15 con l’inizio del conflitto mondiale), caporalescamente, caporalismo ( l’accezione è alla radice del celebre dilemma di Totò: “Siamo uomini o caporali”); carrettiere “volgare, sgraziato” anche “ignorante”; cattedratico “che ostenta inutile erudizione”; cavadenti “dentista di scarso valore”; cavasangue “medico di scarso valore”; conciaossa “chirurgo di scarso valore”; pescivendolo; politico coi derivati politicante, politicantistico, politicastro, politicheggiare, politicismo, politicistico, politicume; portiere, portiera “persona pettegola”, portinaia “donna pettegola”; (…)

Diversità, difetti, mancanze rispetto a quel che appare normale. In particolare le diversità di abilità, sono individuate da parole che, anche se in origine neutre e tecniche, sono spesso avvertite come ingiuriose e usate stereotipicamente come tali. Distinguiamo qui di seguito tre gruppi.

Parole per diversità e disabilità fisiche: antropoide, abnorme, bamberottolo, brutto, cecato, crozza, deforme, gibboso, gobbo, handicappato, minorato, nanerottolo, (…) Parole per diversità e disabilità psichiche, mentali, intellettuali: analfabeta; babbeo, babbalucco; balordo; bambinesco; beota; (…) cretino, deficiente; ebete; idiota, idiozia; ignorante; imbecille; inetto anche in senso morale e intellettuale; inintelligente ( parola cara a Benedetto Croce); macrocefalo; mentecatto; microcefalo; puerile; ritardato; spaghettaro “cialtrone inconcludente” ( usato da Alberto Arbasino); stolido; subnormale; testone; tonto; umanoide.

Parole per difetti morali e comportamentali: abietto, bandito, bigotto o bizzoco “persona che ostenta l’adesione a pratiche religiose”, becero, briccone, brigante, buffone, bugiardo, cialtrone, delinquente, disdicevole, disetico (usato da Carlo Emilio Gadda), disgraziato “privo della grazia divina, moralmente turpe”, disonesto, dissoluto, fannullone, farabutto, fetente, spregevole, squallido, tristo, triviale, truffatore, turlupinatore ( da turlupinare “imbrogliare”, che è da turlupino “seguace di setta predicante la povertà evangelica e praticante dissolutezze”), turpe, vagabondo, voltagabbana, zozzo con zozzone e zozzeria di area romana.

Parole denotanti inferiorità socioeconomica: affamato (e morto di fame), biotto (area settentrionale), cacino (area toscana), disagiato, emarginato, escluso, gramo, infelice, misero, meschino, miserabile, pezzente, pitocco col derivato pitoccare “chiedere l’elemosina”, povero, tapino, straccione. (…)

I codici ed Evagrio. Infine due gruppi di parole, le riconducibili a reati identificati nel codice penale e le riconducibili ai peccati e vizi capitali della tradizione cristiana. Nel primo gruppo rientrano parole che nella lessicografia non sempre sono sufficientemente individuate nella loro valenza spregiativa e aggressiva ( specialmente evidente in usi inappropriati e indebitamente estensivi), cioè parole di valore descrittivo indicanti reati e atteggiamenti condannati dalla legge e/ o dal comune sentire: abuso, calunnia, camorra, estortore, ladro, mafioso, stupratore (…) L’ultimo gruppo di parole è relativo ai sette vizi o peccati capitali della tradizione cristiana, definiti nel IV secolo da Evagrio e ancora largamente utilizzabili per ingiuriare e offendere con qualche nobiltà di linguaggio: (1) superbia, superbo, vanità, vanitoso; (2) avarizia, avaro, cupidigia, cupido, avido, avidità; (3) lussuria, lussurioso, concupiscenza, concupiscente; (4) invidia, invidioso; (5) gola, crapulone, epulone, goloso, ghiottone, ghiottoneria, ingordigia, ingordo, vorace, voracità; (6) ira, irascibile, irato; (7) accidia, accidioso, abulia, abulico, fannullone.

News24Roma pubblica il 6 ottobre 2016 un articolo dal titolo “Benigni: “Il problema degli Italiani è la stupidità. La massa è composta da persone stupide e ignoranti, i pochi che si salvano devono partire””, il quale ha superato in poche ore le 4 mila condivisioni Facebook: Parole pesanti che hanno suscitato l’indignazione di molti, quelle di Roberto Benigni durante un’intervista rilasciata ieri sera nella quale ha dichiarato di ritenere gli Italiani come un popolo “stupido”, “ignorante”. Ha infatti dichiarato: “In Italia il problema non è la politica. Diciamoci le cose come stanno: gli Italiani sono stupidi, limitati, guardatevi intorno, quante persone stupide conoscete? Anche nelle vostre famiglie avrete sicuramente parenti che proprio non ci arrivano alle cose. Questo è il problema, la stupidità e anche l’ignoranza, perché non sono solo stupidi, il 90% degli Italiani compensa anche con l’ignoranza e la poca voglia di studiare e imparare le cose. I pochi “eletti”, quelli che per fortuna o dono di Dio sono intelligenti devono fare i bagagli e partire verso città che possono valorizzarli, come la Germania, l’Inghilterra, l’America o il Giappone”. Una presunta intervista rilasciata “ieri sera” (il 5 ottobre 2016), senza riportare il nome della testata o dell’emittente televisiva, di cui non si trova riscontro. Suona molto strano il linguaggio usato nella presunta intervista, non è il modo in cui comunica, inoltre non è così scemo da denigrare in quel modo il pubblico italiano.

Eppure, se non è stato Benigni, solo un genio non omologato alla massa poteva pensare e dire una verità lapalissiana conosciuta nel mondo, ma taciuta in Italia.

Il linguaggio dell’odio. Scrive "Il Dubbio" il 19 agosto 2017. Il 14 settembre 2017, presso Palazzo della Cancelleria a Roma, gli avvocati dei Paesi membri del G7, riuniti per la prima volta in occasione della Presidenza italiana, sottoscriveranno una “raccomandazione” per la difesa dei diritti individuali di fronte ai rischi della manipolazione dell’informazione on line e alla diffusione del linguaggio dell’odio e della violenza. L’iniziativa, intitolata appunto “Sicurezza e linguaggio dell’odio, è stata assunta dal Consiglio nazionale forense: organizzato “sotto gli auspici della Presidenza Italiana del G7”, si tratta del primo incontro internazionale tra i rappresentanti delle avvocature di Stati Uniti, Giappone, Regno unito, Germania, Francia, Canada e Italia. Il documento, che sarà sottoscritto alla presenza del ministro della Giustizia italiano Andrea Orlando e di alti esponenti delle istituzioni nazionali e internazionali, conterrà le linee guida per rafforzare una strategia sovranazionale che, tra rispetto dei diritti costituzionali ed esigenze di tutela del diritto di espressione, all’anonimato e alla privacy, consenta di adottare forme di collaborazione tra i sistemi giuridici contro le informazioni false e lesive della persona derivanti dall’incitamento all’odio, alla discriminazione razziale, religiosa e di genere.

Anche nell’odio le parole non sono tutto, ma anche l’odio non sa fare a meno delle parole, scrive Rocco Buttiglione il 19 Agosto 2017 su "Il Dubbio". Il Dubbio è preoccupato per il diffondersi del linguaggio dell’odio e mi chiede di commentare. Il primo commento che mi viene è che c’è un bel po’ di ipocrisia in tutto questo scandalo per il linguaggio dell’odio. È davvero una novità nella politica italiana? I comunisti e i fascisti hanno sempre fatto uso del linguaggio dell’odio e gran parte della società italiana è stata alternativamente fascista o comunista. Anche la grande stampa ha giocato questo gioco. A me è capitato più di una volta nel corso della mia carriera politica si essere fatto oggetto di campagne diffamatorie violente e totalmente false, costruite su accuse evidentemente inventate. Pochi hanno alzato la voce non tanto in mia difesa quanto in difesa della verità. Si difende l’amico e l’amico dell’amico, contro l’avversario qualunque mezzo è buono e le regole del fair play in Italia non sono di casa (e per la verità non godono di molto buona salute nemmeno altrove) Già, la verità… A chi importa della verità? I maestri del pensiero ci hanno insegnato che la verità non esiste e che la cosa che importa è ferire l’avversario, distruggerlo. La politica non vive di verità ma di miti, cioè di idee forza capaci di muovere le masse. La verità? La verità è ciò che serve la rivoluzione (lo ha detto Lenin). La rivoluzione poi è stata rimandata ma il discredito per l’idea di verità è rimasto come è rimasto l’amore per l’urlo, lo schiaffo, il gesto dimostrativo, la convinzione che la faziosità non sia un vizio di cui vergognarsi ma il segno di un animo nobile che non si adatta alla mediocre realtà. Tutti questi sono tratti caratteristici del fascismo ma che sono continuati in gran parte della cultura della sinistra e della destra italiane. Certo, il web potenzia tutto questo ma non si faccia finta che il linguaggio dell’odio sia cominciato ieri. Più profonde sono le radici. C’era una volta un Papa che ammoniva che una democrazia senza verità era destinata a dissolversi nella corruzione e nel conflitto senza regole. La opinione comune invece gridava che la verità è nemica della democrazia. Ma è davvero questo il problema? È solo un problema di cattiva educazione e di cattivi maestri? Forse no. Proviamo ad andare più a fondo. Una funzione del linguaggio è quella veritativa che consiste nel dire le cose come stanno. Un’altra funzione del linguaggio è quella espressiva. Questa esprime il nostro mondo interiore. Spesso parliamo per dare semplicemente espressione a ciò che abbiamo dentro, a ciò che sentiamo. Noi dovremmo essere capaci in linea di principio di tenere separate queste due funzioni. Per esempio noi possiamo sentire antipatia per una persona e tuttavia sapere che è una persona per bene, competente ed onesta. Può però anche accadere che le due funzioni del linguaggio si mescolino ed io proietti i miei sentimenti sul mondo reale. Io provo antipatia per gli ebrei e dico che sono stati loro ad orcon ganizzare l’attentato alle torri gemelle. O provo antipatia per i democristiani e faccio un film per mostrare che Andreotti è il capo della mafia. Sento qualcosa così profondamente che lo proietto sulla realtà anche se la realtà non offre conferme empiriche della mia tesi. Una volta le funzioni del linguaggio erano tenute separate dai generi letterari. Se andavo al cabaret sapevo che le cose dette erano esagerazioni umoristiche e che non dovevo prenderle per vere. A partire da un certo punto le differenze dei generi letterari sono saltate: i buffoni hanno cominciato a fare i politici ( e anche i politici hanno cominciato a fare i buffoni). La caricatura ha cominciato ad essere scambiata con la realtà. Facciamo ancora un passo in avanti nella analisi del nostro problema. È vero, si parla ( nel web e non solo) non per una onesta ricerca della verità ma per dare voce al proprio mondo interiore. C’è un problema ancora più grave del fatto che si sia smarrita l’idea di verità e si confonda il proprio mondo interiore con il mondo reale. Questo problema è ciò che il web ci rivela sul nostro mondo interiore. Grandi masse di italiani hanno un mondo interiore carico di risentimento, di frustrazione e di violenza e fanno fatica a tenere a freno questa interiorità malata. Certo, bisogna rafforzare le barriere inibitorie, colpire con il biasimo sociale chi proietti il proprio odio su obiettivi innocenti. Io non ho mai condiviso la lotta contro la repressione che ha caratterizzato la mia generazione. Essa ha finito l’intaccare l’autodominio e l’autopossesso che sono la base dell’umano essere nel mondo. Tuttavia non credo che questo basti. La soggettività è impazzita perché molti non riescono a trovare un punto di incontro fra i loro desideri soggettivi ed il mondo oggettivo fuori di loro. Sembra che nella realtà non ci sia posto per il loro desiderio ed allora il desiderio può essere detto solo dentro una realtà virtuale (una volta si sarebbe detto allucinatoria). In parte ci hanno educato a desideri sbagliati. C’era chi voleva la rivoluzione, ma la rivoluzione non c’è stata. Pasolini aveva la certezza interiore che i democristiani fossero i capi della mafia ma non ha mai trovato riscontri. Falcone e Borsellino stavano ai fatti e non hanno mai avallato la idea che dietro la mafia ci fosse un “terzo livello”, di direzione politica. Altri magistrati hanno fatto una intera generazione di processi alla ricerca di questo livello ma non lo hanno trovato, probabilmente per il semplice motivo che non c’era. Un effetto però lo hanno ottenuto: hanno compromesso il prestigio dello stato e della politica ed hanno autorizzato qualunque paranoico a spacciare la proprie fantasie come verità rivelata. Una continuazione di quella saga sono stati poi i processi contro Berlusconi: qualunque sospetto è stato subito ritenuto credibile e passato ai giornali come strumento di lotta politica. La destra ha reagito demolendo con eguale incoscienza e malafede il prestigio della Magistratura. Tutto questo genera frustrazione e rabbia nell’epoca delle aspettative crescenti e delle opportunità declinanti. In parte è venuta meno o si è indebolita la grande mediazione fra il desiderio e la realtà che è il lavoro. Il lavoro è poco e una intera generazione rimane sul limitare della vita adulta. Lavorare, sposarsi, costruire una famiglia era il modo in cui una volta un uomo ed una donna costruivano un (piccolo) mondo nuovo in cui desiderio e realtà potevano incontrarsi. Adesso il lavoro non c’è e comunque la famiglia è screditata. Il segreto della felicità è contenere i propri desideri e lavorare duro per realizzarli. Adesso c’è una generazione a cui abbiamo insegnato a desiderare senza limiti e non abbiamo insegnato a lavorare per realizzare i desideri. Quello che ho cercato di descrivere nel linguaggio di Hegel si chiama la separazione dello spirito soggettivo dallo spirito oggettivo. I desideri soggettivi non trovano uno spazio di realizzazione nella realtà, imputridiscono e diventano risentimento ed odio senza oggetto, pronto a scaricarsi su di un capro espiatorio quale che sia. Essi possono rapportarsi alla realtà esistente solo in modo negativo, distruttivo. I discepoli di sinistra di Hegel erano convinti che alla fine la distruzione avesse un carattere creativo e che dalla distruzione del mondo vecchio dovesse necessariamente emergere un mondo nuovo. Spengler era più pessimista e pensava che il risultato potesse essere semplicemente la decrescita (non felice) e la fuoriuscita dalla storia. Aumenta l’angoscia il fatto di non capire. Non è solo il fatto che il mondo diventa sempre più complicato. È anche l’impressione che i fatti ci diano torto, ci condannino e che non ci siano via d’uscita sul piano della realtà dal labirinto nel quale siamo finiti (o nel quale ci siamo cacciati). Allora allo sforzo di capire e trovare una soluzione si sostituisce la ricerca del capro espiatorio. Le energie non sono più indirizzate allo ricerca di una via d’uscita reale ma di uno sfogo immaginario. Fioriscono le teorie del complotto e le ricerche del colpevole, con una duplice finalità. Da un lato si vuole sfogare la frustrazione e la rabbia in un qualunque modo. Dall’altro nell’immaginario la congiura contro di noi diventa sempre più ampia, coinvolgente, irresistibile. In fondo se contro di noi sono alleate la Cia, il Kgb, il grande capitale, Bilderberg, la massoneria, i gesuiti, Renzi e anche Berlusconi non è più nostra la colpa dei nostri fallimenti. Il nemico è invincibile. Ribellione e rassegnazione si danno la mano e quasi si identificano. C’è una via d’uscita? C’è una grande questione educativa. Abbiamo abituato una generazione a pensare che l’autodominio, l’autocontrollo, lo sforzo paziente di imparare, il rispetto delle opinioni degli altri, la abitudine a pensare prima di parlare fossero virtù superate. Pensavamo di stare per entrare in una fase nuova della storia della umanità in cui si potesse godere la prosperità senza fare lo sforzo di guadagnarla. Viviamo invece in un tempo di competizione accresciuta in cui i poveri del mondo si sono messi a lavorare e ci fanno concorrenza. O paghiamo salari bassi come i loro oppure impariamo a fare cose che loro non sanno fare. Per mantenere lo stesso livello di benessere di ieri dobbiamo essere più bravi e darci da fare di più: questa è l’amara verità. C’è bisogno di uno sforzo educativo per tornare ad insegnare le antiche virtù. È abbiamo anche bisogno di una politica che invece di continuare con la ricerca del capro espiatorio indichi una via per restituire prospettive e certezze alla vita della nazione, senza avere paura di chiedere a tutti, cominciando da chi sta meglio, i sacrifici necessari per il bene comune. È necessario ripristinare un minimo di regole di civiltà nel dibattito pubblico ma è ancora più necessario prosciugare il lago di disperazione e di angoscia che alberga nel cuore di tanti ed alimenta la frustrazione e il risentimento che sfociano poi nei discorsi dell’odio.

La banalità dell’odio invase l’Europa e scoppiò il razzismo, scrive Paolo Delgado l'11 Agosto 2017 su "Il Dubbio". La Germania nazista resta il modello principe della rapidità e radicalità con cui una civiltà può degenerare nel suo opposto e trasformarsi in razzismo. Il primo aprile 1933 il partito nazista arrivato al potere due mesi prima dichiarò il boicottaggio di tutti gli esercizi commerciali ebrei in Germania. Fu un fallimento. In Germania l’antisemitismo aveva radici profonde e antiche anche se, allo stesso tempo, probabilmente in nessun altro Paese europeo l’integrazione era altrettanto avanzata. Tuttavia il coinvolgimento, sia in forma attiva che semplicemente complice, del popolo tedesco nella crociata genocida dei nazisti procedette per passi successivi. Le leggi razziali del 1935 non sarebbero state possibili, o comunque avrebbero incontrato ben altra resistenza, nel 1933. La stessa legge dell’aprile 1933 che colpiva gli ebrei nell’amministrazione statale e nelle professioni, la prima nella quale venivano per la prima volta dall’emancipazione del 1871 presi di mira e fatti oggetto di discriminazione legale gli ebrei tedeschi, fu in realtà applicata nella sua versione più “morbida”. Grazie alle esenzioni dei veterani, dei figli o padri di caduti nella guerra mondiale e degli impiegati in servizio dal primo agosto 1914 l’impatto effettivo della legge fu parzialmente mitigato. Saul Friedlander stima che il 70% degli avvocati e circa metà dei giudici e pubblici ministeri poterono continuare a lavorare, sia pure in un clima di intimdiazione e crescente terrore. Perché la campagna razziale assumesse realmente i caratteri totali a cui Hitler mirava sin dal principio, perché si arrivasse al pogrom, alla Notte dei Cristalli, a Wansee e alla soluzione finale dovettero entrare in gioco non uno ma diversi linguaggi articolati su piani molteplici e tali da coinvolgere fasce di verse di popolazione. Dovettero essere attivati dispositivi distinti, tra i quali la propaganda rozza e pornografica in cui eccelleva il Der Sturmer di Julius Streicher, con le sue caricature razziste e i suoi continui accenni al pericolo sessuale rappresentato dagli ebrei per le donne ariane, era certamente il più esplicito e osceno ma, da solo, non necessariamente il più pericoloso. Il tema riguarda l’oggi, non solo la ricostruzione storica. La Germania nazista resta infatti il modello principe della rapidità e radicalità con cui una civiltà può degenerare nel suo opposto, della facilità con la quale può essere operata e recepita una trasmutazione dei valori tale da rendere la disumanità non solo positiva ed encomiabile ma addirittura massima espressione di umanità, in quanto piena attuazione dello scopo evolutivo del genere umano. Da questo punto di vista, le molte leggi e aggravanti varie che mirano a sanzionare penalmente le espressioni di odio razziale, così come il diffondersi di un senso comune basato sul politcally correct che mette quelle espressioni al bando in ampie fasce sociali, sono un tentativo di contrastare razzismo e antisemitismo punendo le sue manifestazioni più triviali ma ignorando i dispositivi più sofisticati e minacciosi. Il ri- sultato è l’America nella quale la parola “negro” è stata sostituita dalla formula “N- word” ma i neri ammazzati per strada si contano ogni anno a centinaia. Ma è anche un’Italia in cui moltissimi si indignano di fronte a frasi o comportamenti palesemente razzisti ma trovano normalissimo consegnare i migranti ai centri di detenzione libici, pur sapendo che si tratta di lager non per modo di dire ma nel senso pieno del termine, proprio come qualche anno fa reputavano il deserto cosparso di cadaveri in seguito all’accordo di Gheddafi con l’Italia molto più tollerabile che non sentir pronunciare anche da noi la “N- Word”. Perché un senso comune razzista si diffonda e si radichi è necessario prima di tutto che sia posta una “questione”, cioè che venga dato per assodato non solo dagli energumeni in camicia bruna ma anche da sofisticati intellettuali e pacifici commentatori che esiste un “problema”. Perché ci sia una “soluzione”, finale o momentanea, totale o parziale, deve prima esserci un problema. Allo stesso tempo questo “problema” non può però essere definito e circoscritto con precisione, e la sua indefinita vaghezza vale a renderlo di fatto irresolubile. In Germania l’esistenza di una “questione ebraica” era universalmente acquisita sin dall’emancipazione del 1871. Dibattiti continui, proliferazione fluviale di articoli, saggi, pamphlet e libelli. Scontri intellettuali spezzo acerrimi accompagnati dal moltiplicarsi di organizzazioni o micro- organizzazioni la cui ragione d’esistere era essenzialmente affrontare, di solito con mezzi radicali, la “questione ebraica”. Ma in cosa consistesse detta “questione”, in una Nazione in cui gli ebrei rappresentavano circa l’1% della popolazione ed erano in massima parte perfettamente integrati, sarebbe impossibile dirlo con chiarezza. La situazione non è molto diversa nell’Europa alle prese con l’immigrazione. Da decenni ormai è data per scontata la presenza di una “questione” i cui contorni sono tuttavia mobili, fluttuanti e incerti. Ogni tentativo di definirne i connotati, dal “portano via lavoro agli italiani” al “costano troppo” sino al “veicolano criminalità e malattie” va infatti puntualmente a sbattere contro i dati di realtà, senza che ciò modifichi di una virgola la percezione diffusa del “problema”. Il secondo luogo, il discorso dell’odio razziale, deve camuffarsi, spesso anche in buona fede, da “offensivo” in “difensivo”. Al presidente della Repubblica Hindenburg, un tipico conservatore moderatamente antisemita della Germania guglielmina, Hitler rispose nella primavera del 1933 con una lettera nella quale, negando ogni velleità di pogrom, parlava della presenza ebraica in Germania come di “un’inondazione”, termine affine all’attuale “invasione”. Il compimento del razzismo, il suo trionfo finale, consiste com’è noto nella capacità di negare l’umanità dell’oggetto d’odio. Anche da questo punto di vista i nazisti fanno scuola, più che la volgarità odiosa e da osteria di Streicher fu la derubricazione degli ebrei da esseri umani ad animali ripugnanti, insetti o topi, e addirittura a bacilli e virus a siglare il trionfo della visione nazista. Non corriamo rischi del genere in Europa, non per ora almeno. Però scontiamo certamente un valore profondamente diverso assegnato alla vita umana. Se i giornali registrassero quotidianamente l’annegamento di decine di francesi o inglesi, americani o canadesi, la reazione sarebbe ben diversa da quella, tutto sommato quasi indifferente, con la quale reagiamo alle stragi di migranti. Sono vite anche quelle: lo sappiamo, lo sentiamo, applaudiamo i tentativi di salvarle, sia pur con convinzione sempre più flebile. Però sono vite che valgono po’ meno, o molto meno, delle nostre o di quelle di chi ci somiglia.

Quando a odiare è l’intellighenzia, scrive Francesco Damato il 25 Agosto 2017 su "Il Dubbio". La tolleranza è ormai sinonimo di resa, di vigliaccheria. La riflessione e il ripensamento equivalgono spesso nel confronto politico al tradimento. Il confronto è diventato pleonastico, perché è più di moda lo scontro, fino alle estreme conseguenze, che nella vita dei partiti sono le scissioni. Si attribuì una volta alle ideologie la tendenza all’intolleranza, al fanatismo e persino all’odio. Ma non mi sembra francamente che il quadro sia cambiato con la fine delle ideologie. Se fosse solo una questione di linguaggio, pur con la diffusione moltiplicata dalla tv, dove la ricerca dell’audience è esasperata, e da quelli che Enrico Mentana ha brillantemente definito una volta “webeti”, potremmo anche fare spallucce all’odio che pervade la comunicazione e intossica i rapporti sociali e persino personali. Sì, lo so. Le parole possono ferire come pietre. “L’intera società – ha scritto sul Corriere della Sera Claudio Magris – è culturalmente e umanamente una plebe volgare e pretenziosa”. Ma siamo pur sempre alla lapidazione come metafora. Il guaio è che l’odio è diventato anche una componente della politica, dove la tolleranza sembra a volte scambiata per una parolaccia, come una volta si disse a sinistra del riformismo. La tolleranza è ormai sinonimo di resa, di vigliaccheria. La riflessione e il ripensamento che ne può conseguire equivalgono spesso nel confronto politico al tradimento. E anche il confronto è diventato pleonastico, perché è più di moda lo scontro, fino alle estreme conseguenze, che nella vita dei partiti sono le scissioni, comuni ormai a tutte le forze: grandi, medie, piccole e persino piccolissime. Si attribuì una volta alle ideologie la tendenza all’intolleranza, al fanatismo e persino all’odio. Ma non mi sembra francamente che il quadro sia cambiato con la fine delle ideologie. Tutt’altro: dai calci nel sedere di Alcide De Gasperi promessi nel 1948 da Palmiro Togliatti, uomo di grandissima cultura ma smanioso di vincere le elezioni col suo fronte popolare destinato invece ad essere sconfitto, si è passati l’anno scorso alle pur folcloristiche parole del governatore della Campania Vincenzo De Luca contro la presidente della commissione antimafia Rosy Bindi, peraltro sua compagna di partito. “L’ucciderei”, si lasciò sfuggire il personaggio meglio imitato da Maurizio Crozza, non perdonando alla Bindi di avergli fatto rischiare la sconfitta nelle elezioni regionali del 2015 con la decisione di inserirlo quasi sulla soglia delle urne in una lista di “impresentabili” per pendenze giudiziarie. Si, lo so, anche a Roma si grida per strada “t’ammazzerei” e “li mortacci tua” più a vanvera che seriamente, ma un dirigente politico dovrebbe darsi un altro linguaggio. E non irrompere con un cappio nell’aula di Montecitorio, come fece il legista Luca Leoni Orsenigo a suo tempo, o spettacolizzare la loro opposizione, sempre in Parlamento, come fanno i grillini scimmiottando i vecchi comunisti alla Giancarlo Pajetta. Che avevano però ben altre credenziali per esasperare l’opposizione, per esempio quando contrastarono animatamente, diciamo così, la cosiddetta legge elettorale truffa, essendosi fatta molte volte la galera per restituire al Paese una democrazia che non c’era. Non parliamo poi dell’odio planetario, senza frontiere, diffuso e praticato nel mondo dal terrorismo islamista, rispetto al quale l’odio di casa nostra diventa una bazzecola. Intervenute nel dibattito aperto dal Dubbio appunto sul linguaggio dell’odio e persino sull’azione che in Italia n’è conseguita, e può ancora conseguire, prima Tiziana Maiolo e poi Stefania Craxi si sono richiamate alla stagione per niente gloriosa delle cosiddette mani pulite: la prima ricordando i cortei di quanti a Milano incitavano i vari Antonio Di Pietro a farli sognare con le manette e la seconda denunciando il linciaggio del padre Bettino la sera del 30 aprile 1993, dopo che la Camera aveva osato rifiutare alcune delle autorizzazioni a procedere chieste contro di lui per il diffusissimo fenomeno del finanziamento illegale della politica, e per la corruzione che poteva averlo accompagnato. Ma che non sempre l’accompagnò, come dimostrarono tante sentenze destinate a non fare notizia né in prima pagina né all’interno dei giornali. Certo, quello contro l’allora già ex segretario socialista, dimessosi spontaneamente dopo l’arrivo degli avvisi di garanzia, e quando già le voci di un suo coinvolgimento nelle indagini gli avevano procurato al Quirinale il rifiuto dell’incarico di presidente del Consiglio, fu uno spettacolo ignobile. Fu un’ostentazione d’odio allo stato puro, si fa per dire: qualcosa che grida ancora vendetta, e non solo perché Craxi poi sarebbe morto anche di quello spettacolo, in un esilio contestato dai magistrati in quanto considerato latitanza, nonostante Bettino fosse espatriato sei anni prima con un regolare passaporto. E non fosse andato a nascondersi in qualche caverna, trovandosi a casa sua, in Tunisia. Tiziana e Stefania hanno ragione. Ma una volta fu proprio Bettino, ad Hammamet, a consolarsi di quell’orrendo linciaggio subìto davanti all’albergo dove risiedeva a Roma dicendomi che ad altri era capitato di peggio. E sapete a chi si richiamò? Al povero commissario di polizia Luigi Calabresi. Che era morto ammazzato a Milano come un cane sotto casa il 17 maggio 1972, meno di un anno dopo che più di settecento intellettuali – ripeto, intellettuali avevano firmato un manifesto pubblicato a più riprese sull’ Espresso per attribuirgli praticamente la responsabilità della morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, fermato in Questura per la strage del 12 dicembre 1969 in Piazza Fontana, sempre a Milano. Un magistrato che sarebbe poi diventato senatore della sinistra, Gerardo D’Ambrosio, e fra i protagonisti delle indagini su “Mani pulite”, era stato scambiato per un fascista avendo scagionato Calabresi dall’accusa di avere lasciato buttare giù il povero Pinelli da una finestra durante gli interrogatori. Eletto alla Camera nel 1968, Craxi all’epoca dell’assassinio del commissario papà dell’attuale direttore di Repubblica, era con Giovanni Mosca uno dei due vice segretari del Psi guidato da Francesco De Martino. Ne sarebbe diventato il successore nel 1976 per sollevare il partito dal minimo storico al quale era ridotto. Già allora Bettino maturò la diffidenza, a dir poco, verso gli intellettuali che, prima ancora dei partiti e dei magistrati, o di certi magistrati, si erano arrogati il diritto di dividere insindacabilmente l’Italia fra buoni e cattivi e di fomentare contro quest’ultimi campagne di discredito e di odio anche a costo di armare i fanatici di turno: tanti piccoli Robespierre in esercizio permanente effettivo, di cui – mi disse Bettino – non sapeva se impressionarsi più per il numero che per la qualifica. Quando divenne capo del Psi Craxi cercò di invertire anche quella rotta sbottando una volta contro “gli intellettuali dei miei stivali”. I meno giovani o più anziani lo ricorderanno. E ricorderanno anche gli insulti che si rimediò e contribuirono ad affilare la matita del non ancora pentito Sergio Forattini, che nelle sue vignette su Repubblica gli infilò gli stivaloni neri alla Benito Mussolini e – ahimè – lo appese con la testa in giù. Era satira, mi direte. Ma non fu satira la scopiazzatura di Piazzale Loreto quella sera del 30 aprile 1993, quando su Craxi si rovesciarono sputi, insulti, monetine, accendini, ombrelli e quant’altro. Gli scalmanati non riuscirono tuttavia a intimidirlo e a farlo rinunciare ad uscire dal portone principale dell’albergo Raphael, come invece gli consigliavano gli addetti alla sicurezza: non so se più la loro, di sicurezza, o quella del “cinghialone”, come Craxi veniva definito anche nella Procura di Milano, oltre che sui giornali ostili.

Stefania Craxi: «L’odio iniziò all’hotel Raphael». Intervista di Riccardo Tripepi del 20 Agosto 2017 su "Il Dubbio". Le origini dell’odio che sta invadendo i social network? Stefania Craxi non ha dubbi: «Tutto è nato la sera del 30 aprile del 1993», giorno in cui Craxi fu bersagliato da centinaia di monetine davanti al Raphael hotel di Roma: «Bettino Craxi, la sua famiglia, i suoi amici e, posso dire, un’intera comunità ha conosciuto un odio del tutto speciale che ancora continua. Ma la cosa più incredibile di questo odio è che si è consumato interamente all’interno della sinistra». L’odio che si riversa sui social è frutto di un percorso che affonda le sue radici nella storia d’Italia. E le monetine lanciate all’Hotel Raphael sono scolpite nella memoria del Paese e, inevitabilmente, in quelle della famiglia Craxi e in particolare di Stefania, figlia del leader socialista scomparso nel gennaio del 2000. «Bettino Craxi, la sua famiglia, i suoi amici e, posso dire, un’intera comunità ha conosciuto un odio del tutto speciale che ancora continua. Ma la cosa più incredibile di questo odio è che si è consumato interamente all’interno della sinistra, specialmente se considero che tantissime volte mi hanno detto che Craxi è stato un grande leader della sinistra riformista».

Un “odio incredibile” perché proviene dalla sua stessa parte politica?

«Le sinistre in questo Paese sono state due. Quella che io porto nel cuore pensa che si deve combattere la povertà, soccorrere i bisognosi e premiare i meriti, e la sinistra che ha inteso nascondere il suo fallimento dietro una supposta questione morale che di certo non poteva sbandierare visto che da un lato ha partecipato alla spartizione delle tangenti in Italia – o meglio a quello che è stato il finanziamento illegale ai partiti – e dall’altro ha preso soldi e ordini da una potenza militare nemica di questo Paese. Ed è la stessa sinistra che pensa che si debba combattere la ricchezza, considerata non un merito ma un privilegio, e che ha instillato un odio frutto dell’invidia sociale. Un odio diventato prima moralismo militante e poi giustizialismo, che ha figliato il populismo che ancora oggi avvelena i pozzi della politica. E’ un odio che viene da lontano ed è arrivato fino a Craxi, la cui effige veniva bruciata nelle pubbliche piazze, mentre nei festival dell’Unità veniva cucinata la trippa alla Bettino fino ad arri- vare al lancio delle monetine davanti al Raphael. Una delle peggiori barbarie della prima Repubblica. Ed è noto: la maggioranza dei lanciatori di monetine aveva appena partecipato al comizio di Occhetto».

Come se lo spiega? Suo padre in qualche modo aveva ricostruito le ragioni di quest’odio?

«Lui non odiava i comunisti, ma combatteva il comunismo che riteneva incompatibile con la libertà che per noi è un valore non negoziabile. Gli ho sentito dire tante volte: “non capisco questa avversione personale di Enrico (Berlinguer ndr) contro di me”. L’odio non appartiene alla nostra famiglia e all’impegno di un uomo della sinistra che si era limitato a sfatare tutte le teorie marxiste e aveva ridato il giusto valore all’individuo. Si è trattato di un odio personale di cui non si è mai dato una spiegazione».

Lei ci è riuscita invece?

«Si tratta di una categoria che non ci appartiene. Non ho mai odiato nessuno dei responsabili dell’esilio e della morte prematura di mio padre. Certo che però mi sono fatta sempre delle domande…»

Che domande?

«Quali sono stati i reati di Craxi, considerato che nelle sentenze non ce ne sono? Perché gli sono stati offerti i funerali di Stato ma non ha avuto il diritto e la possibilità di curarsi nel suo Paese? Non ho mai ricambiato dello stesso odio gli odiatori. Si può essere in disaccordo con il proprio avversario politico, ma non odiarlo fisicamente. L’odio nei confronti di mio padre è stato di una violenza inaudita che avuto il punto massimo nel lancio delle monetine, ma l’odio non dovrebbe essere una categoria della politica. Craxi non odiava ma soffriva e si chiedeva perché. Avrà fatto certamente degli errori, ma ha agito sempre nell’intereresse degli italiani. Non esistono spiegazioni, tranne quella di aver svelato il paradosso e l’ipocrisia della cultura comunista. Di quei comunisti che invocavano quell’uguaglianza che spesso vuol dire povertà per tutti tranne che per loro».

Ma davvero lei crede che l’odio sia stato solo e soltanto di sinistra?

«Le assicuro che le manifestazioni di odio sono arrivate tutte da persone che votano a sinistra. Le premetto che la mia famiglia, notoriamente, è stata antifascista, ma se incontro per strada un vecchio fascista ha rispetto della storia di mio padre. Tra coloro che hanno tirato le monetine c’era anche qualcuno di destra che poi ha chiesto scusa. I tiratori di sinistra non l’hanno fatto mai. Ancora adesso il mondo politico tace e continua a tacere. La sinistra dovrebbe confrontarsi su Craxi e chiedere scusa».

I media che ruolo hanno avuto nel momento in cui un’intera classe politica è finita sotto accusa?

«Un ruolo centrale. Il vento dell’antipolitica che fu alzato dalla sinistra che ho descritto fu alimentato dai media. Un altro paradosso tutto italiano è che i giornali che hanno alimentato l’odio e l’invidia sociale appartenevano alla grande industria e alla grande impresa italiana e non certo a rivoluzionari. Gian Antonio Stella ha scritto della casta, ma io non conosco nessuno che fa più parte della casta di lui e di altri giornalisti che sono spesso intoccabili e pieni di privilegi. Ma lo stesso discorso vale per una parte della magistratura».

In che senso?

«Non è odio dire dopo il suicidio di un soggetto coinvolto in Mani Pulite “forse provava ancora vergogna”? Vuol dire istigare all’odio ed è grave che l’istigazione arrivi da parte di una casta privilegiatissima che usava la giustizia per fare politica e non per difendere i diritti dei cittadini».

Dopo tanti anni questo sentimento si è affievolito?

«In realtà anche in questi anni è continuata l’avversione nei confronti di mio padre e della mia famiglia. Se sono a destra è per- ché soltanto in Forza Italia è stato possibile fare politica in piena libertà e in maniera coerente rispetto alla mia storia, così come è successo a molti altri socialisti. Pur di non fare i conti con l’ultimo grande leader della sinistra riformista, i democratici di oggi preferiscono non parlare. Ad esempio a Milano si vota contro un riconoscimento pubblico a Craxi, che non sarebbe stato certo solo “toponomastico” ma conferito a un milanese illustre che ha servito le Istitu-zioni. E a votare contro sono stati proprio i renziani del Pd».

L’avvento dei social network ha fornito un canale in più alla comunicazione, ma anche all’attacco personale. Che esperienza ne ha avuto?

«I social purtroppo consentono la vigliaccheria di potersi nascondere dietro uno schermo, magari dietro uno pseudonimo. Un mondo in cui non occorre confutare delle tesi, ma vincono gli insulti e le cattiverie. In questi luoghi virtuali l’odio viene condito dalla vigliaccheria e diventa invisibile, impunibile. Mi vien quasi da dire che ho nostalgia dei duelli ottocenteschi dove c’era la sfida violenta, ma l’odio aveva una lealtà di fondo. L’odio della folla, invece, è vigliacco e quello dei social lo è ancora di più».

Condivide le parole di Laura Boldrini che ha annunciato denunce per tutti coloro che la insultano sui social?

«Una volta ho denunciato una signora che mi aveva fatto delle minacce. Andai anche al Commissariato. Dopo qualche mese mi dissero di non essere riusciti neanche a trovare l’autore».

Vuol dire che non c’è protezione?

«Non c’è protezione. I social vomitano l’odio figlio di invidia sociale e frustrazione personale. La cosa grave è che quel morbo giustizialista e moralista, partito dal lancio delle monetine, ha fatto gravissimi danni alla società italiana e ha fatto nascere il grillismo».

Ma non esiste un modo per invertire la rotta o contenere il fenomeno?

«Dovrebbe tornare il primato della politica e anche le regole che nella Prima Repubblica c’erano, così come c’era il rispetto. Provi a guardare una trasmissione tv di oggi e paragonarla a una qualsiasi delle trasmissioni elettorali degli anni’ 80. La differenza nel linguaggio, nei toni e anche nel senso delle Istituzioni è abissale. Purtroppo l’invidia sociale è un grande motore di odio in Italia: quando qualcuno ha successo gli altri invece di volerlo emulare lo vogliono tirar giù. Del resto le due grandi culture italiane, quella comunista e quella cattolica, sono entrambe pauperiste e ipocrite. Altrimenti perché la sinistra non coglie la paura delle persone davanti all’immigrazione? Perché deve essere di destra regolare i flussi? Poi magari ci arrivano con vent’anni di ritardo. Così oggi di mio padre si inizia a parlare come di uno statista, ma si dovrebbe parlare chiaramente della persecuzione giudiziaria di Craxi se non vogliamo far passare altri 25 anni. Per fortuna l’odio non mi appartiene anche perché ho avuto la fortuna di vivere in una famiglia in cui passava il respiro lungo della storia che è portatrice di equilibrio al contrario del fiato corto della cronaca che è intriso di odio».

Boato: «Vi dico cos’è l’odio di oggi: il giustizialismo», scrive Giulia Merlo il 24 Agosto 2017 su "Il Dubbio". «L’odio si combatte con la cultura delle garanzie e dello Stato di diritto». Marco Boato ha attraversato gli anni caldi della storia d’Italia, dal ‘68 alla facoltà di Sociologia di Trento dove fondò Lotta Continua insieme ad Adriano Sofri e Mauro Rostagno, sino alle lotte garantiste in Parlamento con i radicali di Marco Pannella».

Di quegli anni, che ha raccontato nel libro Il ‘68 è morto, viva il ‘68! (e un altro è in uscita per il cinquantesimo anniversario), analizza il clima, i sogni e gli errori. Lei è stato protagonista, a Trento, della stagione del 1968. Fu un anno d’odio, quello, e soprattutto di odio di classe?

«Per come l’ho vissuto io, insieme a molti altri, è stato tutt’altro che un anno d’odio. Anzi, in quel movimento c’è stata una grande gioia di vivere, la riscoperta della solidarietà, sia tra gli studenti che con gli operai, un impegno per l’uguaglianza contro ogni forma di autoritarismo. Il Sessantotto fu soprattutto un movimento caratterizzato dall’antiautoritarismo in tutte le sue forme: nell’università, nella fabbrica e in quelle che venivano definite le istituzioni totali: carceri, caserme e ospedali psichiatrici».

Nessuna estremizzazione, quindi?

«Le estremizzazioni e gli errori ideologici ci furono dopo, quando finì la prima fase del cosiddetto “stato nascente”. Io, però, non credo che siano stati errori dettati dall’odio. Semmai da un eccesso di utopia, tipica delle giovani generazioni quando si affacciano sulla scena sociale e vogliono cambiare il mondo».

Lei fu tra i fondatori di Lotta Continua, nel 1969. Nel movimento teorizzaste il cosiddetto "scontro generale" con la borghesia e lo Stato. Che cosa significava?

«Quello fu un tipico esempio di estremismo ideologico, che a dire il vero durò meno di un anno, a cavallo tra il1971 e il 1972. Poi venne corretto da una riflessione autocritica, fatta pubblicamente sulle pagine di Lotta continua. Comunque, dopo il cosiddetto “biennio rosso ‘68-‘69”, gli anni Settanta furono certamente attraversati da momenti drammatici e tragici, che cominciarono a partire dalla strage fascista di Piazza Fontana a Milano, il 12 dicembre 1969. Non a caso si è detto e scritto che quel trauma rappresentò la perdita dell’innocenza per una intera generazione».

L’odio che lei fa iniziare dopo la strage di Piazza Fontana e che ha attraversato l’Italia in quegli anni ha segnato la storia del Paese. Che cosa lo ha generato?

«Quella che non a caso fu definita la “strage di Stato” – e poi si vide che vi furono effettivamente complicità istituzionali in una strage fascista che si era cercato di attribuire agli anarchici – cambiò completamente lo scenario italiano. La strategia della tensione e delle stragi, il terrorismo di destra e di sinistra soffocarono le istanze di giustizia e libertà che avevano caratterizzato il biennio ‘ 68- ‘ 69 e scatenarono reazioni molto violente, anche cariche di odio. Paradossalmente, gli anni Settanta furono anche anni di grandi riforme, ma quel decennio si concluse nel 1978 con il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro e della sua scorta. Da quel momento nulla fu più come prima».

Oggi, a quasi cinquant’anni di distanza, che eredità rimane di quegli anni?

«Con riguardo alla stagione del ‘ 68, io da tempo invito ad evitare sia le mitologie reducistiche sia le ridicole demonizzazioni. Il ‘ 68 è stato, non solo in Italia ma anche sul piano internazionale, un anno di svolta ma anche di frattura, non solo generazionale. I cambiamenti hanno investito la società e le istituzioni, la cultura e i rapporti interpersonali, sia familiari che sessuali. In ambito ecclesiale, ci furono il cosiddetto “dissenso cattolico” e la “contestazione ecclesiale”. Ecco, gli schemi ideologici di allora sono caduti, ma i cambiamenti sociali e culturali sono rimasti».

Lei, da oppositore in piazza negli anni delle contestazioni, divenne oppositore in Parlamento negli anni Ottanta insieme ai radicali. Famoso è stato il suo discorso di 18 ore, come forma di ostruzionismo. Come mai questo cambiamento?

«Sono entrato in Parlamento nel 1979 accettando una proposta di candidatura, insieme a Leonardo Sciascia e altri, da parte di Marco Pannella. L’ingresso alla Camera fu per me decisivo per imparare a vivere dentro le istituzioni rappresentative. Ho maturato l’importanza della cultura delle garanzie e dello Stato di diritto, di rapporti corretti tra maggioranza e opposizione. Sono poi stato anche nella maggioranza e ho fatto parte delle due Bicamerali per le riforme istituzionali, De Mita-Iotti e D’Alema, e in quest’ultima sono stato relatore per i temi della giustizia».

Lei era in Parlamento anche negli anni di Tangentopoli, una stagione feroce nello spazzare via un’intera classe politica. Lei come l’ha vissuta?

«In modo drammatico. Certamente il sistema della corruzione andava perseguito, e del resto non mi pare che oggi sia diminuito. Ma il modo in cui è avvenuto, però, mi ha trovato molto critico e credo abbia lasciato guasti profondi, che durano tuttora».

L’odio di classe degli anni Settanta è diventato oggi odio per i politici?

«Il paradosso è che l’odio per i politici, indiscriminato, è alimentato anche da chi della politica fa parte a pieno titolo. Persino la campagna sul referendum costituzionale è stata alimentata da una fortissima dose di antipolitica, sia da chi si opponeva sia da chi lo sosteneva. E la questione referendaria ne è rimasta travolta».

Anche la politica è cambiata, quindi?

«Io credo che oggi siamo di fronte ad una degenerazione delle istituzioni rappresentative, dove troppo spesso prevalgono appunto l’odio, il disprezzo e l’antipolitica».

Lei si è sempre distinto per le sue posizioni garantiste. Ritiene che oggi, l’Italia, prevalga il giustizialismo?

«Non c’è dubbio, purtroppo. Ma questa ondata di giustizialismo viene da lontano ed è stata il frutto delle logiche “emergenziali”: dapprima nella lotta contro il terrorismo, poi contro la mafia e quindi contro la corruzione politica. E chi si opponeva a queste logiche emergenziali in nome dello Stato diritto veniva accusato di volta in volta di essere complice dei terroristi, dei mafiosi o dei corrotti. Il giustizialismo di oggi è sempre più carico di odio e di disprezzo».

E come si combatte questo odio?

«L’unico antidoto è proprio quella cultura politica che oggi è venuta sempre più meno. La cultura in generale, ma soprattutto la cultura delle garanzie dello Stato di diritto. Quando manca, la democrazia è compromessa e lo Stato delegittima se stesso».

Se anche l’élite dei magistrati cavalca la tigre del giustizialismo, scrive Errico Novi il 22 Agosto 2017 su "Il Dubbio". La voglia di controriforma del magistrato bolognese Valter Giovannini. Il tono non è da crociata moralista. Il dottor Valter Giovannini non si abbandona ad anatemi. Eppure dà una chiara testimonianza di quali idee circolino oggi sul carcere: “Le leggi in vigore devono essere applicate: oggi ha ragione il ministro Orlando, dopo oltre vent’anni di reclusione certi benefici si possono ottenere. Se poi la sensibilità culturale è mutata rispetto al tempo della loro emanazione, nulla vieta di modificarle…”. Ecco qual è il clima in cui dovrebbero essere introdotte le norme del nuovo ordinamento penitenziario, riforma in attesa dei decreti attuativi. All’articolo 85 quella legge dice che si dovranno superare tutte le condizioni ostative per la concessione dei benefici ai condannati all’ergastolo, categoria a cui appartiene anche il detenuto al centro dell’ultimo caso, Marino Occhipinti, tra i killer della Uno Bianca. Ebbene, Giovannini dice che sarebbe meglio una riforma scritta in direzione opposta. L’attuale procuratore aggiunto di Bologna fu il pm che sostenne l’accusa proprio contro quella banda criminale. Il che non dovrebbe esimerlo dal conservare la misura nel giudizio che sarebbe lecito aspettarsi da un magistrato. Da chi cioè appartiene a un élite intellettuale. A volte i segnali che arrivano sono incoraggianti: sono un esempio le parole del nuovo procuratore di Termini Imerese Ambrogio Cartosio, che alcuni giorni fa ha coraggiosamente parlato di carriere in toga “costruite sulle infamie gettate addosso agli innocenti”. Altre volte dalla magistratura arrivano spinte in direzione opposta: Giovannini propone persino di escludere i periodi di detenzione cautelare dal meccanismo delle riduzioni di pena. A un’opinione pubblica già molto sollecitata da pulsioni ultragiustizialiste si aggiunge la nonchalance di magistrati che traducono il generico “gettate la chiave” in proposte di controriforma. È questo che lascia increduli: anziché raffreddare il clima, chi è a presidio dei diritti si fa portavoce delle tesi più esasperate. In anni in cui in Parlamento non capita spesso di ascoltare discorsi sensati sulla giustizia, l’elite dei giudici potrebbe dare un contributo di responsabilità. A volte, come con Cartosio, accade. Altre volte, come con Giovannini, viene da pensare che la Costituzione sia davvero esposta al rischio di modifiche nella sua parte decisiva, quella dei principi fondamentali. 

Il garantismo vale per tutti, scrive Piero Sansonetti il 24 Agosto 2017 su "Il Dubbio". La dottoressa Mariarosaria Guglielmi, che è la leader della corrente di sinistra della magistratura (cioè Md), pone una questione che non può essere aggirata. Provo a riassumerla con questa domanda: la modernità sta nella difesa dei diritti – di tutti e soprattutto dei più deboli – o la modernità sta nella religione – o addirittura nella burocrazia – delle regole? E quindi le regole, la loro definizione, la loro applicazione, sono il fulcro dell’impegno intellettuale degli operatori del diritto, o invece il fulcro è il diritto, e le regole sono gli accessori, e debbono essere funzionali al diritto? Naturalmente dal modo nel quale si pone la domanda c’è già l’embrione della risposta. Si potrebbe anche porre la questione in termini del tutto diversi, diciamo rovesciati. Per esempio questi: è o non è il rispetto pieno e incondizionato delle regole, di tutte le regole – e delle leggi – la missione del diritto? O invece la missione del diritto è quella di interpretare le leggi e piegarle a una scelta politica? Vedete bene che le risposte non sono affatto scontate. Però nella lettera della dottoressa Gugliemi c’è una novità. E la novità sta nel fatto che finalmente si pone la domanda. Dentro la magistratura, in questi ultimi – calcoliamo ad occhio – 25 anni, tranne piccole frange, nessuno osava porre quella domanda in termini così netti e a voce alta. E cioè nessuno osava ipotizzare che il valore del garantismo sia un valore intangibile e stia alla base del funzionamento della democrazia e della sopravvivenza (e dello sviluppo) della libertà. E che il problema sia quello di capire come si afferma il garantismo, e non se si afferma. La dottoressa Guglielmi ha avuto il coraggio di rompere il silenzio. Lo ha fatto partendo da un caso specifico e da una polemica molto forte ma circoscritta: quella sulle Ong. Ha sentito il dovere di denunciare gli effetti di una campagna mediatica e giudiziaria (come da un po’ di tempo, spesso, sono le compagne politiche) che mettendo in difficoltà le Ong che prestano soccorso ai profughi nel Mediterraneo, ottiene il risultato di danneggiare i profughi e probabilmente di aumentare i morti e il numero di quelli che non riescono a sfuggire alla fame e alla guerra. Dice la dottoressa Guglielmi: «L’attacco alle Ong è parte di un più ampio progetto… che ripropone come prioritarie le risposte all’emergenza emigrazione in chiave securitaria, difensiva e repressiva ». E aggiunge che in questo modo si alimentano paura e insicurezza, sa dia via libera ai populismi e ai nazionalismi, si ostacola chi pone al primo posto i diritti. E quindi invita la magistratura – almeno a me è sembrato così – a capire che il futuro della democrazia ha bisogno di un impegno comune contro i populismi. Si può condividere o no la posizione di Mariarosaria Guglielmi, non si può negare che sia una posizione controcorrente e coraggiosa. A me però piacerebbe che si allargasse il discorso. Non fermandosi solo al problema Ong. E mi piacerebbe porre questa domanda al leader di Md: «non crede che se si è arrivati a questa estremizzazione burocratica della legalità, che ha portato il Procuratore Zuccaro, di Catania, a lanciare la campagna contro le Ong, sostenuto da gran parte della magistratura e dei suoi giornali ( con in testa il Fatto Quotidiano) e da una parte consistente dei partiti populisti ( la Lega e i 5 Stelle in primo luogo) è perché da molti anni la magistratura, spinta anche dalle sue correnti di sinistra, ha fatto del “populismo giudiziario” ( come lo chiama, ad esempio, Luciano Violante) la propria bussola?» . Io credo di sì. La sinistra, dentro e fuori della magistratura, ha creduto che un certo estremismo giudiziario – da mani pulite in poi – sarebbe servito a farla pagare ai potenti. Non è così? E che ridurre al minimo il garantismo ed esagerare il legalitarismo fosse utile a questo scopo. Non è così? E in questo modo si è indebolito – sì, fortissimamente indebolito – lo stato di diritto e si è dato carburante alla macchina populista, incitando uno spirito pubblico – come dice la Guglielmi, uso le sue parole – “securitario e repressivo”. Non è così? Si volevano colpire i potenti, è chiaro, ma alla fine chi paga sono i poveri naufraghi che finiscono in fondo al mare o vanno a crepare in un campo di concentramento libico. Ecco, forse si può ripartire da qui per riaprire un discorso, dentro la magistratura – e trasversalmente fra le sue correnti – sul valore del garantismo. Archiviando l’annus horribilis, quello segnato dalla presidenza dell’Anm assegnata a Piercamillo Davigo, e riallacciando i fili di un ragionamento che non può non partire da qui: non esiste un diritto dei più deboli, o un diritto dei più forti, o un diritto dei buoni, o un diritto dei cattivi. Esiste un diritto uguale per tutti. E tante più sono le garanzie per gli accusati tanto più forti sono la legge e lo Stato di diritto. Siamo d’accordo su questo punto?

Perché se siamo d’accordo possiamo davvero intenderci su tutto. Magari non solo sui profughi, anche su Dell’Utri, per esempio, o su Contrada, o su faccia da mostro.

Commentare le notizie senza leggerle, quando Facebook è lo specchio dell’Italia di oggi. Cosa succede quando un gesto di disperazione (non) è di un lavoratore italiano, scrive Emanuele Capone il 29/07/2016 su "La Stampa". Ripubblichiamo l’articolo comparso su Il Secolo XIX che ricostruisce la vicenda dei commenti all’articolo pubblicato il 28 luglio sull’edizione online. Ieri mattina abbiamo pubblicato sulla pagina Facebook del Secolo XIX la notizia dell’uomo di 38 anni che ha cercato di darsi fuoco a Sarzana (foto) dopo avere perso casa e lavoro, ma senza specificare che si tratta di un cittadino marocchino. Abbiamo scritto semplicemente che «un uomo di 38 anni, sfrattato e senza lavoro, tenta di darsi fuoco davanti alla moglie e ai figli». Il primo commento è arrivato 4 minuti dopo la pubblicazione del post: «Diamo lavoro agli altri...», con tanto di “mi piace” di un’altra persona che evidentemente ha la medesima opinione; poi, un diluvio: «(con gli, ndr) immigrati non lo fanno», «aiutiamo gli italiani come il signore», o anche, in rapida sequenza, «per lui non esistono sussidi, alberghi e pranzi pagati, vero?» e «aiutiamo gli altri, noi carne da macello», «come mai non gli hanno dato un albergo a tre stelle come ai (suoi, ndr) fratelli migratori?», e i vari «ma noi... pensiamo a ‘sti maledetti immagrati (così nel testo, ndr)» e «invece agli immigrati... » o il più articolato «ma perché, perché... basta andare a Brindisi, imbarcarsi per l’Albania e fare ritorno a Brindisi il giorno dopo... vestito male... e il gioco è fatto!». È solo quasi 4 ore dopo la condivisione del post che qualcuno legge la notizia e si accorge che il 38enne è in effetti un cittadino straniero, e lo fa notare agli altri: «24 commenti e nessuno ha letto l’articolo, viste le risposte!». Proprio così: sino a quel punto, evidentemente, moltissimi avevano commentato basandosi solo sul titolo, senza nemmeno sapere su che cosa stavano esprimendo la loro opinione. Da quel momento, il tenore degli interventi cambia, c’è chi fa notare a molti dei primi commentatori che «guardate che è marocchino» e comunque il post perde rapidamente d’interesse: il 38enne non è italiano e quindi, come fa notare qualche irriducibile, «non avremo perso nulla...». Quel che è accaduto ieri dimostra innanzi tutto qual è il rapporto degli italiani (di una parte, almeno) con i cittadini stranieri: nessuna sorpresa qui, purtroppo. E nemmeno sorprende quel che è diventato il rapporto degli (stessi?) italiani con l’informazione: se prima si sfogliava velocemente il giornale al bar, si spiavano i titoli dalla spalla del vicino in autobus, adesso il bancone del bar è diventato il News Feed di Facebook e i titoli si scorrono ancora più velocemente, perché tempo da perdere per leggere non ce n’è. Per commentare quello che non si è letto, invece, sembra essercene in abbondanza. Ed è anche per questo, per la mancanza di attenzione di chi legge, che da tempo il rapporto dei siti d’informazione con commenti e commentatori è parecchio travagliato. E nell’ultimo anno non è migliorato: «Spegniamo i commenti per un po’», aveva annunciato The Verge a luglio 2015, più o meno nello stesso periodo in cui la Bbc si chiedeva se «è iniziata la fine dei commenti online». In realtà, almeno per il momento, i commenti sopravvivono, ma sempre più siti decidono di passare la “patata bollente” (di chi insulta, offende, minaccia di morte, si esprime in modo razzista e così via) a Facebook: sotto gli articoli non si può più commentare e si è “costretti” a farlo sui social network, dove chi scrive è identificabile con un nome e un cognome e soprattutto dove la responsabilità legale diventa personale (perché anche i giornali devono tutelarsi): se offendi, vieni chiamato tu a rispondere , non chi gestisce il sito. Pensateci, se siete fra le oltre 60mila persone che ieri si sono viste passare davanti su Facebook la notizia dell’uomo (sì, un marocchino) che ha cercato di darsi fuoco a Sarzana e avete lasciato un commento basandovi solo sul titolo. Se a scuola vi hanno insegnato a leggere, prima che a scrivere, un motivo ci sarà. Abbiamo scelto di non pubblicare qui i nomi dei commentatori, ma il post è pubblico: se siete curiosi, potete trovare gli autori sulla nostra pagina su Facebook.

Filippo Facci censurato. Vittorio Feltri su “Libero Quotidiano il 31 luglio 2016, la furia e lo sdegno: "Il popolo di fessi e cretini". I social network talvolta possono essere divertenti, ma sono quasi sempre dannosi. Amplificano i luoghi comuni, danno voce a chi di norma non ne ha e ciò ha un valore democratico almeno apparente. Non serve combatterli e chiederne l’abolizione. Chi non ha niente da dire di solito è molto ciarliero e si esprime con veemenza verbale nella speranza - vana - di farsi sentire e di avere udienza. La maggioranza dei fruitori dei social è costituita da gente isterica che si sfoga insultando chiunque abbia un ruolo più o meno importante, politici, uomini e donne sotto i riflettori, insomma i cosiddetti vip. I luoghi di incontro telematico sono la versione moderna e ingigantita del bar commercio, dove ciascuno dice la prima scemata che gli viene in testa, raramente verificando l’attendibilità delle proprie sparate. Su Twitter e su Facebook dominano il turpiloquio, l’invettiva e l’ingiuria. Persone anonime si divertono un mondo ad avere accesso alla piazza web che consente loro di sparacchiare giudizi anche temerari, comunque incauti, di sicuro poco ponderati. I social permettono a tutti di porsi in evidenza, anzi di illudersi di contare qualcosa e di orientare l’opinione pubblica. Però sul piano pratico non so fino a che punto le idee della folla che usa internet per farsi notare incidano sulle decisioni di chi ha in mano le leve del potere. Poco, suppongo. Anche perché l’uso del computer in Italia è ancora limitato alle persone giovani che hanno dimestichezza con le tecnologie avanzate. Osservando quanto avviene sui social si ha poi la sensazione che essi siano un moltiplicatore di banalità atte ad incrementare il conformismo. Chi esce dagli schemi più diffusi del pensiero unico, quello di moda, si trova a dover combattere con una massa di disinformati che però, essendo assai folta, si ritiene forte e invincibile. L’esempio più eclatante lo si è avuto in questi giorni. Il nostro ottimo inviato Filippo Facci, per aver scritto articoli documentati e vigorosi contro le violenze islamiste, è stato confinato all’indice da Facebook, escluso dalla community quale elemento indesiderabile. In altri termini, censurato, bocciato quale disturbatore intollerabile di coloro che sono al servizio della divulgazione convenzionale. Facci, giornalista eminente di Libero, come tutti può piacere o no, ma è indubbio che sia un uomo di rara intelligenza e capace di interpretare i fatti della vita in modo originale. Sull’islam egli ha scritto pagine che è da fessi sottovalutare in quanto offrono spunti di riflessione profonda. Ebbene, poiché le sue tesi non rientrano nel calderone delle insulsaggini correnti, i guardiani di Facebook le hanno disinvoltamente oscurate, quasi si trattasse di bestemmie. Ormai siamo a questo punto. Chi non sta con i musulmani, assassini o no, in Italia è sgradito, considerato un reietto, un fascista, peggio, un essere indegno di ospitalità. Fossi in Facci, mi vanterei di essere respinto dai cretini. Libero è suo e lo sarà sempre. Vittorio Feltri

E poi la pietra tombale...

«I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli», scrive “La Stampa” il 10 giugno 2015. Attacca internet Umberto Eco nel breve incontro con i giornalisti nell’Aula Magna della Cavallerizza Reale a Torino, dopo aver ricevuto dal rettore Gianmaria Ajani la laurea honoris causa in “Comunicazione e Cultura dei media” perché «ha arricchito la cultura italiana e internazionale nei campi della filosofia, dell’analisi della società contemporanea e della letteratura, ha rinnovato profondamente lo studio della comunicazione e della semiotica». È lo stesso ateneo in cui nel 1954 si era laureato in Filosofia: «la seconda volta nella stessa università, pare sia legittimo, anche se avrei preferito una laurea in fisica nucleare o in matematica», scherza Eco. La sua lectio magistralis, dopo la laudatio di Ugo Volli, è dedicata alla sindrome del complotto, uno dei temi a lui più cari, presente anche nel suo ultimo libro `Numero zero´. In platea il sindaco di Torino, Piero Fassino e il rettore dell’Università di Bologna, Ivano Dionigi. Quando finisce di parlare scrosciano gli applausi. Eco sorride: «non c’è più religione, neanche una standing ovation». La risposta è immediata: tutti in piedi studenti, professori, autorità. «La tv aveva promosso lo scemo del villaggio rispetto al quale lo spettatore si sentiva superiore. Il dramma di Internet è che ha promosso lo scemo del villaggio a portatore di verità», osserva Eco che invita i giornali «a filtrare con un’equipe di specialisti le informazioni di internet perché nessuno è in grado di capire oggi se un sito sia attendibile o meno». «I giornali dovrebbero dedicare almeno due pagine all’analisi critica dei siti, così come i professori dovrebbero insegnare ai ragazzi a utilizzare i siti per fare i temi. Saper copiare è una virtù ma bisogna paragonare le informazioni per capire se sono attendibili o meno». 

Piergiorgio Odifreddi, intervistato da Nicola Mirenzi sull'Huffington post il 25/09/2016: "Il 90 per cento degli italiani è stupido". Beppe Grillo: "È un minus habens". I grillini: "Peggio di lui". In generale: "Il novanta per cento delle persone è stupido. In un paese di 60 milioni di abitanti come l'Italia, saranno all'incirca 54 milioni: non possono essere andati tutti alla festa nazionale dei 5 stelle a Palermo". Piergiorgio Odifreddi – matematico, divulgatore scientifico, saggista – ha scritto un Dizionario della stupidità (Rizzoli, 378 pagine, 18 euro) per proteggersi dalle "scemenze della vita quotidiana". Laico fervente, ha studiato prima dalle suore, poi dai preti: "Non erano niente male". Se deve immaginare uno scenario politico peggiore di quello odierno, torna con la memoria alla stagione della Democrazia cristiana: "Anche se Giulio Andreotti – racconta – mi salvò da un pericoloso fermo in Unione Sovietica". Con l'Huffington Post, parla di banchieri da "mandare all'infermo", di politicamente corretto e Islam, della "superiorità" di Benedetto XVI sulla "banalità" di Papà Francesco, e di politica.

Odifreddi, nel suo dizionario c'è anche la voce: Matteo Renzi. Perché?

«Se vogliono conquistare voti, i politici devono dire alle persone ciò che si vogliono sentir dire. Tendenzialmente, delle stupidaggini. E Matteo Renzi è l'erede perfetto di Berlusconi: il Cavaliere ha imparato a farlo cantando sulle navi, lui esordendo alla Ruota della fortuna».

Ma politicamente?

«Renzi ha realizzato il programma berlusconiano, andando addirittura oltre con il Jobs act, che ha dissolto le tutele dello statuto dei lavoratori».

Dedica un lemma anche a Grillo.

«Grillo ha iniziato a dire scemenze prima di cominciare a fare politica. Per dire: sosteneva che l'AIDS era una bufala, che l'OGM ammazza, che le radiazioni dei cellulari cuociono le uova. Ma lui ci crede. È questa la grande differenza tra Grillo e un politico di professione: che il politico deve dire delle cretinate per racimolare voti, lui le dice per convinzione».

Eppure ha un gran consenso.

«Non voglio dire che il suo pubblico sia fatto di deficienti. È una parola brutta. Dico: ingenui. Ma rimane il fatto che sono persone che credono alle scie chimiche e fanno battaglie contro i detersivi. È la parte della società con meno mezzi culturali per giudicare».

Possibile che siano tutti così?

«Bertrand Russell diceva che i politici hanno nei confronti degli elettori un vantaggio: che gli elettori sono più stupidi di loro. E giudicare Grillo, per me, è troppo difficile: mi è così distante che lo considero un minus habens. Quando lo sento, mi viene la pelle d'oca. Dicono che i suoi siano argomenti di pancia. Io fatico a considerarli proprio argomenti».

A Palermo, però, molte persone sono andate per ascoltarlo alla Festa nazionale dei 5 stelle.

«Il novanta per cento delle persone è stupido. Quindi, considerato che siamo 60 milioni, in Italia ci sono almeno 54 milioni di stupidi: non credo ve ne siano di più a quella festa».

E gli altri dove vanno?

«Vanno anche alle feste dell'Unità. Come si fa a pensare che dopo due anni di governo Renzi quella festa abbia un senso? Almeno, per decenza, cambiassero nome».

Non le sembra di sottovalutare? Il partito democratico governa il Paese, i Cinque stelle hanno conquistato due grandi città alle ultime elezioni.

«C'è una differenza enorme tra le due città: a Torino, Chiara Appendino è il prodotto di ciò che i 5 stelle stessi chiamano poteri forti; a Roma, invece i poteri forti li hanno contro».

Può essere più esplicito?

«Dietro Appendino c'è la Fiat. Appena aletta, John Elkan è subito corso a incontrarla. Viceversa, Virginia Raggi è dovuta recarsi in visita dal Papa».

C'è solo questa differenza tra le due?

«No, Appendino ha le qualità per governare, Raggi le ha solo per vincere le elezioni».

Scrive: "E' venuto il momento di tornare a considerare i banchieri paria della società e reietti da Dio".

«Nel Medio Evo, era considerato usuraio chiunque prestasse denaro, a qualsiasi tasso. Oggi il fastidio per i banchieri è tornato a essere forte. Quando la gente vede i posti di lavoro che evaporano, le tutele che si dissolvono, e dall'altra gli aiuti di stato per tenere in vita istituti che hanno fallito, s'incazza».

Però è difficile vivere in un mondo senza banche.

«Certo che si può vivere in un mondo senza banche. Per metà del secolo scorso, l'Unione Sovietica ne ha fatto a meno».

Non è andata benissimo, però.

«Non per quel motivo. Mi domando perché non si possano nazionalizzare le banche che vengono salvate. Perché è diventata una bestemmia?»

In Europa, nazionalizzare è contrario alle regole dell'Unione.

«È per questo che l'UE suscita l'astio dei suoi cittadini: perché è solo un'unione economica».

Nel suo libro, mostra di preferire Ratzinger a Papa Francesco. Perché?

«Da ateo, con Benedetto XVI ho avuto un dialogo. Mi è interessato leggere le cose che scriveva, Ratzinger aveva una profondità di pensiero. La statura intellettuale Papa Francesco lascia perplessi. Quando parla, mi cadono le braccia. La misericordia, il vogliamoci bene, l'amore: sono cose talmente banali. Chi può essere contrario?»

È facile criticare l'Islam allo stesso modo in cui lei, ora, ha fatto con il Cattolicesimo?

«Penso che, in realtà, sia molto più facile criticare l'islam che il Cristianesimo. Farlo, è politicamente corretto. Ci sono partiti politici che fanno propaganda sull'equazione musulmano uguale terrorista. E l'opinione pubblica è sempre sul chi va là».

Dimentica quello che è successo in Francia per le vignette di Charlie Hebdo su Maometto?

«La diversità è che i cristiani non vengono sotto casa ad aspettarti se li prendi di mira con la satira. Ma ricorda la parodia di Ratzinger fatta da Crozza? A un certo punto ha dovuto smettere di farla. E potrei fare altri esempi. Nei risultati, non è molto diverso da quello che accade con l'Islam».

Lei è stato compagno di classe di Flavio Briatore. Ha letto della polemica sul turismo al sud, secondo lui poco sensibile ai bisogni dei ricchi?

«Non saprei dire se è così. So che con Briatore studiavo al geometra. Lui fu bocciato al secondo anno, poi lasciò e fece una scuola privata per recuperare tutti gli anni in uno. Credo sia la dimostrazione che il detto popolare – "ultimi a scuola, primi nella vita" – è vero».

GLI ITALIANI E LA STUPIDITA’.

Sul web impazza la presa per il culo altrui. Specchio immaginario di una società alla deriva stupidaria.

Dalla rete. Divertenti dichiarazioni dei carabinieri. Alcune divertenti dichiarazioni tratte dai verbali dei carabinieri:

Entravamo nella stalla e rinvenivamo sette mucche di cui una toro;

Notavamo autovettura Bmw sospetta e ci ponevamo all’inseguimento con la vettura (Fiat Panda) di servizio; nonostante l’impegno profuso, autovettura sospetta si dileguava;

Durante l’identificazione, il soggetto assumeva una sudorazione sul corpo non consona al momento (stante che erano le due di notte) e alla stagione (inverno);

Abbiamo rilevato ferite sullo stomaco e più in basso sulla zona PUBBLICA;

(Dal rapporto di un ufficiale dei carabinieri contro un subordinato che andava in libera uscita con la divisa in disordine): Usciva che sembrava che entrava;

Nonostante il portinaio lo avesse avvisato che sulla facciata del palazzo vigeva un divieto di AFFLIZIONE…;

Sotto falso nome, il pregiudicato è riuscito a imbarcarsi su un volo AIR FRANZ;

E’ una zona impervia e idonea alla latitanza, dove vivono solo poche capre allo stato BRAVO;

Sostiene di essere dottore avendo ottenuto la LAURA honoris causa;

Si definisce fotografo d’arte, nel senso che produce nudi FEMMINILI sia di uomini sia di donne;

Inoltre il fermato rispondeva alle domande con poco rispetto e mi dava del tu, mentre IO PER LUI ERO LEI;

Truffava gli sprovveduti fingendosi esperto di astrologia e segni ZOODIACALI;

La parte anteriore del camion guardava verso piazzale Loreto;

“… il suddetto Liotta Pasquale è stato da me sorpreso a defecare in un vicolo. Alla contestazione del reato il Liotta mi ha mandato a prenderlo nel culo. Io l’ho preso e lo tengo a disposizione del signor comandante…”;

Gli schiamazzi avevano raggiunto una tale intensità da potersi definire notturni;

Scorgevamo vettura sospetta, con i vetri completamente appannati che sobbalzava vistosamente; abbiamo bussato per identificare gli occupanti, ma quando ci siamo resi conto che trattavasi di due uomini, li abbiamo tratti in arresto;

Lo spaccio avviene giorno e notte, alla luce del sole;

I due venivano alle mani coi piedi;

Alla rissa partecipavano attivamente ambetre;

Girando la borsetta con “non-scialans” come le “signorine buonanotte”;

Stava con una prostituta vicino ad un lampione e sosteneva di aver preso lucciole per lanterne;

Il cadavere, al piede destro, aveva una sola scarpa;

I tre erano entrambi pregiudicati;

Ha dichiarato di aver sparato un colpo di avvertimento colpendolo al torace;

Il cadavere presentava evidenti segni di decesso;

Il C. si rifiutava di aprire la porta dichiarandosi irreperibile;

Ignoti rubavano l’autoradio e alcune musica7;

Alla perquisizione, notavamo all’altezza dei genitali un bozzo anomalo, dopo aver proceduto alla stessa, constatavamo che detto bozzo risultava essere una pistola calibro 7.65;

Al bar, dichiara il pregiudicato, aveva consumato solo alcuni salatini e un Wiskey di marca Black and Decker;

Nella notte ignoti ladri sollevavagli l’auto sopraindicata su dei mattoni asportandole quadrambe le ruote marca Pirelli.

Se ne sentono e se ne leggono davvero di tutti i colori...

Ecco una raccolta delle più belle "stupidaggini" del nostro secolo.

Recentemente il "Massachusetts Bar Association Lawyers Journal", ha riportato 21 domande REALMENTE chieste da avvocati a testimoni durante lo svolgimento di processi. "A" sta per avvocato; "T" sta per testimone o medico legale.

"Dunque dottore, non è forse vero che quando una persona muore mentre dorme, non se ne rende conto fino al mattino?"

"Era presente quando le scattarono questa sua fotografia?"

"Il figlio più giovane, quello di vent'anni, quanti anni ha?"

"Era da solo o era solamente lei?"

"Fu lei o suo fratello a morire in guerra?"

"Vi ha ucciso?"

"Quanto erano distanti i veicoli al momento della collisione?"

"Lei era lì finchè non se ne è andato, giusto?"

"Quante volte si è suicidato?"

(A) "Così, la data di concepimento (del bambino) fu l'8 di Agosto?"

(T) "Si'".

(A) "E che cosa stava facendo in quel momento?"

(A) "Lei ha tre figli, giusto?"

(T) "Sì".

(A) "Quanti sono maschi?"

(T) "Nessuno".

(A) "Qualcuno di loro è femmina?"

(A) "Lei dice che le scale andavano giù fino al piano terra".

(T) "Sì".

(A) "E queste scale, tornavano anche su?"

(A) "Signor Slatery, lei ha avuto una luna di miele particolare, vero?"

(T) "Sono andato in Europa".

(A) "E ci ha portato la sua nuova moglie?"

(A) "Da cosa è stato interrotto il suo primo matrimonio?"

(T) "Dalla morte".

(A) "E dalla morte di chi è stato interrotto?"

(A) "Può descrivere l'individuo?"

(T) "Era di media altezza e aveva la barba."

(A) "Si trattava di un maschio o di una femmina?" 

(A) "La sua presenza qui questa mattina è dovuta alla notifica di deposizione che ho recapitato al suo avvocato?"

(T) "No, così è come mi vesto quando vado a lavorare."

(A) "Dottore, quante autopsie ha eseguito su persone morte?"

(T) "Tutte le mie autopsie sono eseguite su persone morte!"

(A) "Tutte le tue risposte devono essere orali, OK? Che scuola frequenti?"

(T) "Orali".

(A) "Si ricorda l'ora in cui ha esaminato il corpo?"

(T) "L'autopsia è iniziata attorno alle 20:30".

(A) "E il signor Dennington era morto?"

(T) "No, era sdraiato sul tavolo desideroso di sapere perchè gli stavo facendo un autopsia!"

(A) "Può fornirci un campione di urina?"

(T) "Lo posso fare sin da quando ero piccolo!"

(A) "Dottore, prima di eseguire l'autopsia, ha controllato la presenza del battito cardiaco?"

(T) "No".

(A) "Allora ha controllato la pressione del sangue?"

(T) "No".

(A) "Ha controllato se respirasse?"

(T) "No".

(A) "Allora è possibile che il paziente fosse vivo quando ha cominciato l'autopsia?"

(T) "No".

(A) "Come puo esserne così sicuro dottore?"

(T) "Perchè il suo cervello era in un contenitore sulla mia scrivania".

(A) "Ma è tuttavia possibile che il paziente possa essere stato ancora vivo?"

(T) "Sì, è possibile che fosse vivo e che stesse facendo l'avvocato da qualche parte!".

E poi i curricula ridicoli.

Sono un migliaio, pasticciati, esagerati, pieni di ingenuità e strafalcioni esilaranti. E ora un cacciatore di teste li ha raccolti in un libro che è già un successo. Si intitola "La mia azienda sta stirando le cuoia - mille curricula ridicula dell'Italia che cerca lavoro". L'editore è Sperling & Kupfer. L'autore si nasconde dietro lo pseudonimo di Enza Consul. Ma si sa che è un professionista della selezione del personale: uno di quelli che, nel gergo aziendale, vengono chiamati "cacciatori di teste". Per 15 anni ha diligentemente raccolto, tra le migliaia di risposte alle inserzioni di ricerca del personale, i curriculum più spiritosi e divertenti. Tutti rigorosamente autentici, assicura l'anonimo autore. Obiettivo: farne un best-seller della risata, da pochi giorni approdato in libreria. Per gentile concessione dell'autore, "Il Mondo" ne ha pubblicato alcuni brani e noi ve li riproponiamo...

Sono un laureato in economia e commercio, vi scrivo perché voglio diventare un manager con la A maiuscola.

Ho visualizzato la Vs. inserzione leggendola sul giornale.

Allego alla presente il mio identikid.

Vi chiedo di essere infiltrato nella vostra Banca dati.

Prendo sputo dalla vostra inserzione.

In risposta al Vostro annuncio premetto che dispongo di un ampio bagagliaio d'esperienza.

Mi sono impelagato in un lavoro che fa piangere.

Sono in offerta speciale perché tra due giorni mi dimetto.

Allego un breve straccio del mio curriculum.

Se nel mio curriculum trovate due buchi è perché ho avuto due figlie.

Spero di essere ancora "just in time" per inviarvi un curriculum, anche se sono passati 32 giorni dall'inserzione.

Mi è giunto il tam-tam della vostra ricerca.

Vi farò una breve ricapitolazione del mio bedground.

Volete un venditore coi baffi, pelo e contropelo?

C'era una volta un laureato in filosofia al primo impiego che cercava lavoro.

Vi ringrazio del Vs. invito, ma siccome ci ho ripensato, non accetto inviti da sconosciuti.

La vostra offerta mi inebria.

Vi allego una breve ma mi auguro chiara circumnavigazione delle mie esperienze professionali.

La mia può sembrare un'Odissea, ma Ulisse in confronto non è nessuno, ho viaggiato per tutta la vita.

Il mio curriculum è breve e potrebbe stare nel palmo di una mano: sono monoaziendale.

Non ho segreti, vi scrivo senza veli.

Ecco la mia testa su un piatto d'argento.

La vostra inserzione è tentacolare.

Sono perito agrario ancora in erba.

Non sono calvo e ho il fisic du rolex.

Sono un tipo piuttosto longilineo.

Mio padre è stato ufficiale della Guardia di Finanza, che salva più vite umane degli stessi medici e a rischio della propria.

Stato di famiglia: padre, madre, fratello inferiore.

Ho due bambini piccoli di 12 e 18 anni. 

Circa trenta dei miei parenti sono laureati, come il fratello di mia madre. Circa venti dei miei parenti sono diplomati alle scuole medie superiori.

Sono sposato ragioniere, mia moglie è ragioniera, i miei figli ragionieri.

Il marito di una cugina di mio padre da parte di mio nonno paterno era ingegnere.

Mi sono separato, poi divorziato, poi risposato poi ancora separato, adesso non ci casco più.

Alto: 1.83; pesante: 60 kg. Miei punti di forza: bicipite 40 cm in trazione, torace 140 cm, capacità inspiratoria 10 litri.

Ho sposato un'ereditiera che però non ha mai ereditato.

Se prima eravamo in due, adesso col bambino siamo in tre.

Di salute sto più che bene, e posso migliorare dopo quattro piccoli interventi chirurgici.

Qui ora c'è la parte più appetitosa del mio curriculum.

Ritengo di essere di natura contabile.

Come potete vedere il mio è un curriculum variopinto.

Ai fini di un'assunzione a posteriori della mia laurea.

Ho fatto un corso di specializzazione alla Sordona.

Sono di padre-madre-lingua inglese.

L'italiano lo conosco bene ed è già di pochi, le lingue straniere sono scolastiche ma me la cavo con la mimica.

Lingue attive: anglo americano. Lingue passive: francese.

Non sono un pataccaro, anche se vendo orologi.

Non sono un markettaro, ma un uomo di vendita.

Nell'ultima battuta ho portato a casa 50 clienti.

Sono depositario di cultura parauniversitaria e polifunzionale.

Ho partecipato ad un gioco quiz di Mike Bongiorno.

A otto anni prima di andare a scuola vendevo tutte le mattine un cestino di frutta. I miei clienti erano operai che con un pezzo di pane del giorno precedente ed il mio genuino prodotto potevano gustare un lauto pranzo. A 14 anni pur continuando a studiare ho avuto una qualifica commerciale superiore e infatti sono passato da venditore abusivo ad ambulante con banco mobile.

Come vedete sono un autodidattico.

Prima lavoravo sotto padrone, ma adesso faccio il free-lunch.

Ve lo scrivo sotto voce, ho intenzione di cambiare. 

Per la cronaca sono molto gettonato, cioè ho molte offerte.

Nonostante sia saldamente in sella al vertice aziendale.

La mia escalation professionale è in discesa.

Opero soltanto per obiettivi ed aspiro ad una carriera piramidale.

Per tanti soldi, prestigio, e avere una segretaria bella e disponibile e con le tette grosse.

Ci sono tre facce della medaglia che mi spingono ad andar via: la prima, la distanza. La seconda: i soldi. La terza: mia moglie che lavora nel mio ufficio e già la sopporto a casa.

La crisi ci ha messo inginocchiati.

Sono pronta a partire dal primo gradino, ma, se posso essere sincera, me lo risparmierei volentieri.

Non sono abituato a mercanteggiare quando si parla di soldi.

Del colore dei soldi ne parleremo in un eventuale colloquio.

Riguardo allo stipendio vorrei definire il quorum.

Aspettativa economica: vanno bene soldi anche di piccolo taglio basta che non siano al di sotto dei 40 milioni lordi.

E poi gli annunci di domande di lavoro.

Ragazzo molto lento cerca lavoro part-time da svolgere a tempo pieno.

Operaio agricolo cerca lavoro terra terra.

Pastore protestante cerca lavoro in un gregge di pecore nere.

Killer disoccupato cerca qualcosa per ammazzare il tempo.

Ragazza di facili costumi cerca lavoro solo a carnevale.

Equilibrista esperto cerca impiego stabile.

Ex calciatore cerca un lavoro serio. Anche come portiere di notte.

Uomo di vecchio stampo cerca lavoro in una Tipografia.

Disoccupato cerca un posto qualsiasi (anche a tavola).

- Trapezista cerca esagono per uscire dalla solita routine.

- Se vi serve una persona veloce, scattante e con molta voglia di lavorare, assumetemi e vi darò una mano a cercarla.

E poi ci si mettono anche i giornalisti con i titoli da prima pagina.

Capufficio condannato per molestie sessuali. Aveva detto: "Signorina, voglio quel rapporto sulla mia scrivania entro le 9".

Grave incidente d'auto: perde il braccio destro. La polizia indaga sul sinistro.

Nota casa automobilistica costruirà auto senza portiere... ma con citofono!

Governo pratica drastici interventi sui tassi. Tasse incazzate.

Arrestato venditore abusivo di caldarroste. Aveva merce che scotta.

Spinto dal bisogno ruba un pacco di carta igienica.

Disegnatore fa cadere mina per terra: 22 morti.

Un uomo si butta dal 4° piano... viene raggiunto dai capelli 4 ore dopo... perchè usava "MIM TUP" che ritarda la caduta dei capelli.

e ancora....SI E' SPENTO L'UOMO CHE SI E' DATO FUOCO (Giornale di Sicilia, 1998)

TROMBA MARINA PER UN QUARTO D'ORA. (Corriere del Mezzogiorno, 1997)

FA MARCIA INDIETRO E UCCIDE IL CANE, FA MARCIA AVANTI E UCCIDE IL GATTO. (Corriere della Sera, 1992)

INCREDIBILE! ALL'AEROPORTO SPARISCONO LE VALIGE DEL MAGO SILVAN (Il Messaggero del 29/08/01)

IN CINQUECENTO CONTRO UN ALBERO, TUTTI MORTI. (La Provincia Pavese)

E poi ci sono gli annunci...

QUESTA MACELLERIA RIMANE APERTA LA DOMENICA SOLO PER I POLLI. (Insegna di un negozio di Roma)

QUI CHIAVI IN 5 MINUTI. (Insegna di un negozio di Cuneo)

SI AFFITTA L'ABITAZIONE DEL TERZO PIANO, LA SIGNORA DEL SECONDO LA FA VEDERE A TUTTI. (Inserzione in una strada di Trapani)

PER OGNI TAGLIO DI CAPELLI VI FAREMO UNA LAVATA DI CAPO GRATIS. (Insegna di un negozio di Reggio Calabria)

VENDO TUTTO PER ESAURIMENTO. (Insegna in un negozio di Brescia)

ELIMINAZIONE TOTALE BAMBINI A SOLE 29.000. (Insegna in un negozio di abbigliamento di Trieste)

FUNERALI A COSTI RIDOTTI. CINQUANTASEI RATE A PREZZI BLOCCATI. AFFRETTATEVI. (Pubblicità su La Nazione, Firenze)

SI FANNO GIACCHE ANCHE CON LA PELLE DEI CLIENTI. (Cartello in un negozio di confezioni di Latina)

SI AVVERTE IL PUBBLICO CHE I GIORNI FISSATI PER LE MORTI SONO IL MARTEDI' E GIOVEDI'. (Ufficio anagrafe di Reggio Calabria)

Inserzione su un giornale locale: "Smarrito piccolo barboncino. Lauta ricompensa. Castrato, come di famiglia".

Inserzione su un giornale locale: "Smarrito Terrier bianco, orbo, sordo, castrato. Risponde al nome 'Fortunato' ".

Inserzione su un giornale locale: "Vendesi cane: mangia di tutto e ha un debole per i bambini".

Cartello in un ristorante: "Cena speciale: tacchino 2.50 dollari, pollo 2 dollari, manzo 3 dollari, bambini 2 dollari".

Avviso su una confezione di noccioline: "Istruzioni: Aprire il pacchetto. Mangiare le noccioline".

Avviso su una confezione di un sonnifero: "Attenzione: può provocare sonnolenza".

Avviso su una medicina per bambini: "Attenzione: Non guidare, nè azionare macchinari".

Sulla porta di un reparto Maternità: "Spingere".

Su un rasoio usa e getta: "Non usare durante un terremoto".

Scritta su una confezione di pesce fritto: Potresti avere vinto! Non è necessario alcun acquisto. Dettagli all'interno.

Cartello su un negozio: "La macelleria resta chiusa per i Santi, ma sarà aperta per i morti". 

Cartello in un ambulatorio medico: Il medico i giorni festivi deve essere chiamato solo per pronto soccorso. Mali di testa e dolori di ossi non sono pronti soccorsi.

Etichetta in un phon: ''Non asciugatevi i capelli mentre dormite''.

Analfabeti? Scriveteci subito, vi invieremo gratis le nostre brochure sui corsi rapidi di formazione! 

Cartello: Si riparano bici anche se rotte.

Cartello in una chiesa: "Questo è un luogo di preghiera. Siete pregati di pregare".

Cartello in un negozio di orologeria: Cercasi commessa sveglia.

E poi ci sono gli stupidari celebri.

"Abbiamo apertuto il collegamento" - Giampiero Galeazzi

"Si sono fatti nomi di squadra di cui non sono d'accordo, si sono fatte avanti queste squadre di qua, di cui ho detto che rinuncerei anche a stare" - Toto Schillaci

"Speriamo di esserci evolti" - Carlo Ancelotti

"Quando fui estromesso esprisi, espretti, esprimetti la mia perplessità" - Pippo Marchioro

"Questo rovescio di Lendl è potentissimo, sembra una bomba al nepal" - Giampiero Galeazzi

"Tutti si aspettavano un punteggio più largamente" - Toto Schillaci

"Bugno e Chiappucci saranno, anzi Bugno e Chiappucci dovrebbero: meglio usare il connazionale" - Adriano De Zan

"Certo, non ho un fisico da bronzo di Rialto" - Toto Schillaci

"Vedo un sorriso come nemmeno Giotto riuscì a fare alla Gioconda" - Maria Teresa Ruta

"Il cinquecentenario colombiano è una delle cose che capitano solo qualche volta all'anno" - Alberto Tomba

"E' un gol che dedico in particolare a tutti" - Toto Schillaci

"Io credo che gli Europei sono una cosa mondiale" - Stefano Sacconi

"Ho preso un dosso che mi ha sbandato, ho perso tanto, poi prima dell'intermedio un sassetto sotto i sci col mio peso ne risentivo sotto le lamine che tenevo poco. La seconda son partito un po', non dovevo partire così piano però ho recuperato: peggio di settimo e meglio di secondo non ho fatto... Mi sto preparando per questi anni dispari andava sempre male, 89, 91, 93, spero che vadi bene" - Alberto Tomba

"Allora mi sono girato su se stesso..." - Riccardo Ferri

"E' l'unico italiano che nel SuperG riesce a tenere gli sci uniti. Larghi ma uniti" - Furio Focolari

"Non mettiamo il carro davanti ai buoi, ma lasciamo i buoi dietro al carro" - Giovanni Trapattoni

"E' l'ultimo anello che mancava al nostro collage" - Sandro Ciotti

"Questo è un altro paio di scarpe" - Lothar Matthaus

"Oggi gli spettatori sono stati 230 mila lire" - Simona Ventura

"Ora vi proponiamo un summit: sì, un sommario, non è la stessa cosa?" - Alba Parietti

"Apro una piccola parente" - Jose Altarini

"Ferri ha riportato - lo dico per tranquillizzare i famigliari - la frattura della mandibola" - Enzo Foglianese

"Mi hai tolto la palla di bocca" - Alba Parietti

"Io la Laura Antonelli me la farei ancora" - Maurizio Mosca

"Andrea Moreno sta andando molto bene, è già nel sedere di Berger" - Andrea De Adamich

"E' sempre meglio venire da dietro" - Nils Liedholm

"Il propagarsi o l'essere protagonista comunque sulla base quotidiana dei mezzi di comunicazione è un'esigenza che molti hanno, ma che è altamente inflazionistica" - Giovanni Trapattoni

"Qui al Processo del Lunedì le polemiche fioccano come nespole" - Aldo Biscardi

"C'è maggior carne al fuoco al nostro arco, anche se l'arco lancia le frecce" - Giovanni Trapattoni

L’ITALIA DELLA SCARAMANZIA.

Il situazionismo di De Magistris trasforma Napoli nella capitale della scaramanzia. La giunta partenopea installerà sul lungomare un corno di sessanta metri d'altezza per dare “risalto alle tradizioni popolari sul tema 'Napoli e la Scaramanzia'”, scrive Francesco Maselli il 21 Giugno 2017 su “Il Foglio”. Negli ultimi mesi a Napoli la giunta del sindaco Luigi de Magistris ha deciso darsi al situazionismo. E così in rapida sequenza ha deciso di approvare le seguenti delibere: il comune ha ritirato la cittadinanza onoraria al generale piemontese Enrico Cialdini, che nel 1861 condusse una violenta campagna militare contro i briganti; ha proclamato Napoli “città della pace e della giustizia” inserendo la dicitura nello statuto comunale; ha fatto poi installare N’Albero, un gigantesco albero di Natale in ferro, sul lungomare: un mostro alto 40 metri illuminato di verde per dare finalmente alla città un luogo simbolico dove festeggiare il Natale. Ma non bastava. E' arrivata così l’ultima trovata: ‘O Corno, ossia il "progetto, di elevato impatto visivo ed architettonico, relativo all'installazione di un corno di ferro di 60 metri di altezza e 30 metri di base di colore rosso”, per dare “risalto alle tradizioni popolari sul tema 'Napoli e la Scaramanzia'”, si legge nel bando pubblicato sul sito. In questo modo il comune ha raccolto la manifestazione d'interesse della società Italstage s.r.l., già responsabile dell'albero di Natale. Il monumento, cioè un gigantesco corno scaramantico, dovrebbe essere installato tra ottobre 2017 e gennaio 2018 nella parte centrale di via Caracciolo, alla rotonda Diaz, proprio dov’era posto N’Albero. Per non farsi mancare niente la società Italstage prevede una sorta di percorso della buona sorte, grazie all’installazione di “n. 12 corni, dell'altezza di 270 cm, realizzati in vetroresina e decorati da 12 artisti locali, lungo un percorso cittadino”. Tutto questo, naturalmente, per valorizzare Napoli, elevata a capitale mondiale della superstizione, visto che “con il suo popolo ricco di sensibilità e fantasia, è considerata la città scaramantica per eccellenza. Il malocchio, la jella, la sfortuna, la scaramanzia, sono parti integranti della cultura di Napoli e dei napoletani da sempre legati a questo 'rito propiziatorio'”. Tutto ciò mentre lo stesso comune ha appena soppresso 40 linee di autobus per l’estate, vista la crisi nera in cui versa l’Anm, l’azienda cittadina dei trasporti. In compenso ha però da tempo predisposto lo sportello “difendi la città”, prendendo spunto dal famoso coro dei tifosi del Napoli. Nella descrizione sul sito del comune si legge che l’iniziativa è nata per raccogliere “segnalazioni dei cittadini napoletani relative alle offese contro Napoli, chiedendo attraverso gli uffici comunali interessati precisazioni e apposita rettifica, ma eventualmente avviando, previa attenta valutazione dell'Avvocatura comunale, iniziative legali per tutelare la dignità del territorio, l'immagine e la reputazione della città di Napoli e del popolo partenopeo.” Insomma un modo di tutela dallo “sputtanapoli”, neologismo odioso utilizzato dai sostenitori del sindaco per silenziare chiunque provi a criticare la giunta arancione.

Via il corno della discordia, scrive il 16 settembre 2017 Luciano Scateni su "La Voce delle Voci". Se ti propongono qualcosa che non condividi, che ritieni sbagliata o comunque negativa i modi di dire alla buona ti suggeriscono un convincente “Mica l’ha ordinato il medico”. La frase si addice perfettamente al caso “corno” di sessanta metri che dovrebbe svettare nella via Caracciolo dove un anno fa fu installato un obbrobrioso albero natalizio, flop che avrebbe dovuto scoraggiare repliche a vario titolo. E invece, Napoli si è destata dopo il poltrire invernale con la notizia choc di una geniale idea. Eccola in sintesi: è un caso se lo iettatore Totò tutto vestito di nero, ebbe successo nella parte di iettatore. Nell’esilarante film e in altre performance ripeteva litanie scaccia iella: “Uocchio, malocchio, frutticielle a ll’uocchio, prutusino  e ffenucchio” e “aglio,fravaglie e ffattura ca nun quaglia cap’ ‘alice e capa d’aglio, cuorno e bicuorno”. Ancora oggi nella Napoli popolare circolano poveri cristi che spargono incenso nelle botteghe per scacciare gli spiriti del male e venditori deambulanti di cornetti rossi. Cornetti non mancano nei mazzi di chiavi e non pochi napoletani toccano il proprio nella tasca dei pantaloni per mandar via la sfortuna. In San Gregorio Armeno le varietà di corni sono infinite e sul tema si cimentano affermati artisti. Chi conosce superficialmente la città si chiede se è abitata da un milione di sciocchi superstiziosi e deve esserselo chiesto anche l’imprenditore che dopo l’incarico di installare l’albero sul lungomare ci riprova con il corno di sessanta metri. Sul tema si sono cimentati cittadini qualunque, con lettere al direttore e intellettuali a vario titolo: tra gli altri Sgarbi, Niola, Achille Bonito Oliva. I “no”, decisivo il recentissimo della Sovrintendenza, sono prevalenti non totali. Comunque, il corno in via Caracciolo non racconterà il mito della superstizione dei napoletani ma da qualche dovrà essere ospitato perché il progetto è stato approvato istituzionalmente. Tra le ipotesi in campo c’è la stazione marittima che riproporrebbe il ruolo di pessimo biglietto da visita per i turisti o l’ex Ilva di Bagnoli, ma sarebbe una vera provocazione, considerata la iattura dell’aera inutilizzata da trent’anni. Chissà, forse le pendici del Vesuvio, dove l’avidità dei costruttori ha edificato agglomerati urbani a rischio eruzione. Sarebbe un monito per spingere gli incoscienti a non contare sugli scongiuri per affidarsi a seri piani di evacuazione in caso di pericolo. In futuro si rifletta con la calma dei saggi sull’offerta invernale per la città e il turismo, a cominciare dalla normalizzazione della via Caracciolo, liberata dall’aspetto di sagra paesana e rigenerata come grande, accogliente ed elegante boulevard litoraneo.

Il corno portafortuna, tra storia e superstizione. Per i napoletani è l'oggetto scaramantico per eccellenza. Secondo la credenza popolare, il corno sarebbe in grado di allontanare le negatività, le influenze maligne. Una superstizione dalle origini molto antiche, scrive il 9 ottobre 2014 "Napoli Today". Il corno portafortuna ('o curniciello) per i napoletani è l'oggetto scaramantico per eccellenza. Secondo la credenza popolare, il corno sarebbe in grado di allontanare le negatività, le influenze maligne. Per potere fare effetto, però, sempre secondo la superstizione popolare, il cornicello deve essere stato ricevuto in dono. Per riceverne gli effetti benefici quindi, l'oggetto apotropaico non va comprato. Il corno, inoltre, deve avere una serie di specifiche caratteristiche per portare fortuna: la buona sorte arriva se il cornetto è a punta, cavo all'interno, rigido e a forma sinusoidale. Secondo quanto si apprende, l'uso del corno come oggetto simbolico ha origini molto antiche: già in età neolitica (3500 a.C.), pare che gli abitanti delle capanne appendessero corni, simboli di fertilità, all'uscio della porta. I corni compaiono anche nella mitologia greca: secondo la leggenda infatti Giove donò proprio un corno, dotato di vari poteri magici, alla sua nutrice in segno di gratitudine. Più tardi, in epoca medioevale, un corno donato era simbolo di fortuna se rosso e realizzato a mano. Una credenza che affonda le sue origini, quindi, in tempi antichissimi, ma che a Napoli, più che in altri luoghi, è diventata parte integrante della cultura e della tradizione popolare.

Napoli: tutto quello che c'è da sapere sui cornetti portafortuna. Caratteristiche e curiosità sugli amuleti più antichi e famosi della tradizione artigianale partenopea, scrive Eleonora Autilio su "Turismo.it" il 10.01.2017. E' uno dei talismani più antichi e conosciuti. Nel corso della storia la sua forma ha accompagnato e caratterizzato usanze di diverse epoche e culture. Il cornetto portafortuna vanta origini remote ed è diventato, con il tempo, uno degli emblemi della tradizione artigianale di Napoli dove la superstizione e la scaramanzia sono da sempre profondamente radicate.

LA TRADIZIONE. L'associazione della forma del corno alla fortuna, e dunque alla fertilità ed alla prosperità, risale alla notte dei tempi. In epoca preistorica, infatti, si valutava la potenza ed il vigore di un animale in base alle dimensioni delle loro corna che divennero, dunque, ben presto un simbolo benaugurale spesso esposto all'esterno delle capanne in segno di buon auspicio. Nel corso del tempo la superstizione legata alla sua simbologia non perse suggestione ed, anzi, a seconda delle epoche e delle culture assunse, talvolta, persino connotazioni mitologiche. Non è un caso che combattenti e condottieri indossassero, ad esempio, elmi ed ornamenti che richiamavano le corna degli animali. Con il trascorrere dei secoli questi amuleti vennero caricati di significati e di funzioni sempre più numerose: si credeva, ad esempio, che allontanassero il malocchio e che fossero portatori di guadagno. Nella zona di Napoli la tradizione legata alla realizzazione di oggetti a forma di corni e cornetti si diffuse sin da epoche remote, probabilmente antecedenti alla nascita di Cristo, ma fu nel Medioevo che conobbe la sua vera fortuna, quando orafi e gioiellieri si specializzarono nella creazione di monili e preziosi con le sembianze del corno. Ben presto questi oggetti ed i loro produttori riscossero un crescente apprezzamento creando, inevitabilmente, un legame ancora più forte tra questo talismano e la cultura partenopea. Oggi, infatti, corni e cornetti, chiamati “curnicielli” rappresentano uno degli oggetti più famosi e caratteristici dell'artigianato locale.

LE CARATTERISTICHE. Secondo la superstizione, affinchè il corno eserciti la sua funzione di portafortuna deve essere innanzitutto rosso, da sempre colore della fortuna, ma anche della potenza e della vittoria, e fatto a mano in modo che colui che lo modella gli possa infondere energie positive con le proprie mani. Un tempo si riteneva, inoltre, che quelli realizzati in corallo avessero una maggiore efficacia perchè sfruttavano le proprietà attribuite a questo materiale che si riteneva scongiurasse il malaugurio e proteggesse le donne incinte. Un detto popolare, infine, specifica con chiarezza quali sono le caratteristiche fondamentali del talismano che dovrà essere, necessariamente “tuosto, stuorto e cu 'a ponta” (rigido, storto e con la punta). Perchè sia realmente efficace, però, il corno non deve essere mai acquistato ma sempre ricevuto in dono.

IL TERRITORIO. I riferimenti alla superstizione legata alla forma del corno sul territorio partenopeo sono numerosi. In molti associano persino i simboli fallici rivenuti negli scavi di Pompei ed Ercolano (molto simili al “curniciello”) proprio alle credenze riguardanti i benefici apportati dai manufatti aventi questa forma. GLI INDIRIZZI. Per scoprire, acquistare (ma sempre rigorosamente per offrirli in dono) ed ammirare tutte le differenti versioni del tradizionale “curniciello” napoletano (da quello semplice, a quello adornato con corone e simboli associati alla fortuna, sino a quelli sormontati dallo “scartellato” - il gobbo - personaggio portafortuna rappresentato con il cilindro sul capo), l'appuntamento è nelle numerose botteghe artigiane del capoluogo partenopeo. Da non perdere, ad esempio, quelle di San Gregorio Armeno, famosa via dei presepi ma anche, appunto, degli artigiani.

Iella e jettatura a Napoli, scrive Sergio Benvenuto su "Doppio zero" il 4 settembre 2017. Il piano del sindaco Luigi de Magistris di elevare a Napoli un monumento di 60 metri che rappresenti il corno anti-iella ha innescato, come sempre accade quando si progetta un monumento, un vespaio di polemiche. Ora, non c’è bisogno di essere psicoanalisti per capire che il tipico amuleto contro la malasorte, e quindi la scultura che lo iperbolizza, è un oggetto fallico. In sostanza, de Magistris propone di elevare un monumento al Fallo. In effetti, nel mondo antico la migliore protezione contro il malocchio era Priapo, la divinità in perpetua erezione nata da una sbandata di Afrodite per Dioniso. Già Plinio chiamava il fallo Medicus invidiae. Tertulliano in Ad nationes scrive che alla sua epoca i bambini pagani avevano una speciale protezione contro il malocchio: al loro collo veniva sospesa una custodia contenente fascinum e cyprea, il primo amuleto rappresentava il fallo, l’altro invece il sesso della donna. Per molti secoli il gesto più comune sia di scherno che di protezione dal malocchio era “fare le fiche”: ripiegare le dita della mano tranne il pollice, che veniva fatto spuntare dritto tra indice e medio – un’allusione all’erezione o al rapporto sessuale. Insomma, al desiderio invidioso del malocchio si contrapponevano i genitali d’ambo i sessi o la loro unione in quanto metafore del desiderio erotico. I vari rimedi che a Napoli si usavano e si usano contro iella e jettatori hanno tutti una connotazione fallica – anche se le donne possono difendersi battendosi le natiche (probabile spostamento del toccarsi la vagina). Ad esempio, allungando il dito medio e ritraendo le altre quattro dita. Grattarsi i testicoli, estirpandone alcuni peli; oppure stringere corni di corallo o di giada, oggetti solidi – o, in mancanza di meglio, toccare ferro o legno. Insomma, l'importante è opporre al fascinum malefico un oggetto duro: corno, ferro, legno, dito teso, i.e. pene in erezione. Il termine fascinum significava appunto pene. La vista del sesso maschile in erezione non è la cosa che affascina per eccellenza, non ci ammutolisce? Il Fallo progettato dal comune di Napoli è comunque politicamente corretto perché si vuole contro la iella, non contro lo jettatore. In effetti quella dello jettatore è una leggenda metropolitana persecutoria, lo jettatore è l’escluso per eccellenza, insomma è una figura tragica. Ma tutti capiscono che quel fascinum scultoreo allude alla figura dello jettatore. E non bisogna confondere il malocchio con la jettatura. (Per chi volesse approfondire, rimando al mio capriccio filosofico Lo jettatore, Mimesi, Milano). La credenza nella jettatura veniva chiamata dagli intellettuali di un tempo “una faceta filosofia”, ma non è da prendere sotto gamba. Quando qualcuno, nel Sud d’Italia, acquista la fama di jettatore, può spingersi fino al suicidio. Del resto "la jettatura è una malattia incurabile; si nasce jettatore, si muore jettatore. Si può, a stretto rigore, diventarlo; ma, una volta che lo si è, non si può più cessare di esserlo" (A. Dumas, Le corricolo). Si resterà sempre nu’ schiattamuorto, un becchino, come si chiama anche lo jettatore a Napoli. Ora, la credenza nel malocchio – cioè nello sguardo invidioso che provoca disgrazie a chi è invidiato – è una delle credenze più antiche e meglio distribuite nelle culture europee vernacolari. Era l’“occhio secco” del Mezzogiorno. Il malocchio è un corollario magico dell’invidia, termine che viene da invidere, ovvero guardare contro. L’invidioso, chi guarda storto l’altro, desidera avere un bene che quest’altro possiede, insomma, il malocchio testimonia della potenza sovrannaturale del desiderio umano. Ora, Napoli nel Settecento è stata protagonista di una coupure épisthémologique – taglio epistemologico – come l’avrebbe chiamata il filosofo Louis Althusser. Grazie a questo taglio, dal vecchio malocchio è venuta fuori la figura moderna dello jettatore, figura partenopea ab origine. Lo jettatore non invidia, né desidera fortemente. Suol dirsi che artefice di questa rivoluzione sia stato il saggio Cicalata sul fascino volgarmente detto jettatura, pubblicato a Napoli nel 1787 dal giurista Nicola Valletta. Valletta era un intellettuale imbevuto di miscredenza voltairriana. In un contesto decisamente illuminista, Valletta, due anni prima dello scoppio della Rivoluzione francese, inventa lo jettatore moderno. In effetti, nota Ernesto de Martino: A differenza della magia demonologica, nella quale predominano figure di povere donnette qualificate per streghe e come tali perseguitate, la jettatura è dominata da personaggi prevalentemente maschili, e molto spesso da rappresentanti del ceto colto e da pubblici ufficiali, da professori, letterati, medici, avvocati e magistrati. 

Anche Valletta è un professore colto e illuminista. Ma anziché essere preso lui per jettatore, crea il nuovo paradigma. In realtà la sua Cicalata tende a interpretare lo jettatore ancora nei termini arcaici dell’invidioso che provoca disastri. Eppur qualcosa si muove… Prima di lui il giurista Giuseppe Pasquale Cirillo – maestro di Valletta in scienze giuridiche, ma anche in jettatura – aveva composto e fatto recitare a casa sua la commedia I Mal’occhi, imperniata attorno a un celeberrimo jettatore, Don Paolo Verdicchio. Da notare che Verdicchio non appariva mai in scena, anticipando così il personaggio di Godot nel dramma di Beckett. A Verdicchio bastava salire su un campanile di Salerno e guardare verso Napoli “con l’intenzione di far male” [corsivo mio] per produrre disastri nella capitale del Regno delle Due Sicilie. Appunto, Don Verdicchio è ancora uno che vuole il male: prosegue il paradigma pre-moderno che spiega la malasorte con la causalità psicologica, ovvero, egli è agitato dal desiderio invidioso. Invece, con Valletta comincia già a consumarsi il divorzio tra la psicologia e la fisica, tra la forza del desiderio e le cieche energie naturali. Perché lo jettatore post-vallettiano non vuole affatto il male altrui. Scrive: L'jettatore è di solito magro e pallido, il naso ricurvo, occhi grandi che hanno qualcosa di quelli del rospo, e ch'egli di solito copre, per dissimularli, con un paio di occhiali; il rospo, come è noto, ha ricevuto dal cielo il dono fatale della jettatura; uccide l'usignolo col solo sguardo.

Il suo trattato ha un tono ironico e faceto, e il lettore non può capire se l'autore creda davvero negli jettatori o scherzi. Benedetto Croce presenta Valletta come "rampollo in prosa della poesia bernesca in lode delle cose non lodevoli e in asserzione della verità delle non vere"; la sua è una retorica ironica che porta a "negare e assentire, sospettare e irridere" (B. Croce, La ‘Cicalata’ di Nicola Valletta, in La letteratura italiana del Settecento. Note critiche, Laterza, Bari 1949). Per de Martino, piuttosto, il saggio è una "combinazione colta di scetticismo e di credulità, di paura reale e di enfasi scherzosa". Ma questa ambiguità caratterizza in fondo il rapporto che molta intellettualità napoletana ancor oggi ha con la superstizione e l’occulto: una faccia spesso irridente e sardonica, che protegge l'altra faccia, credula e allineata alle credenze popolari. Napoli ha dato natali o residenza ad alcuni dei maggiori filosofi italiani, ha avuto scienziati illustri, la sua intellighentzia si è volta alla razionalità e al disincanto. Ma d’altro canto a Napoli più che altrove restano vive le superstizioni più antiche e ingenue, il culto dei morti e lo spiritismo, la magia nera che si fa discendere dalle arti di Raimondo de Sangro principe di Sansevero, noto soprattutto per la straordinaria cappella Sansevero nel cuore di Napoli, da lui fatta edificare nel Settecento. E poi le credenze nei munacielli, fantasmi domestici. Queste due antitetiche vocazioni dei napoletani, una al rigore logico e l’altra a una sontuosa irrazionalità, invece di entrare in tensione come incompatibili, spesso si amalgamano: il napoletano è a un tempo campione di disincanto talvolta anche cinico, e preda facile di tutto ciò che brilla con la fatua seduzione dell’esoterico e del magico. Da qui spesso la sua aria che tanto seduce chi napoletano non è: un sorriso allusivo, un modo di parlare succoso e sghembo, un’aria insomma da credulone scafato. Oggi sappiamo che Valletta credeva davvero nella jettatura. Quando scrisse che sua figlia era morta in fasce perché un "empio jettatore" l'aveva guardata "con occhio torvo e obliquo", non scherzava. Stendhal, che lo visitò nel 1817, scrisse: “ho trovato nella sua camera uno smisurato corno che può avere dieci piedi di altezza”. Ma d'altro canto Valletta era un professore illuminista. Il tono giocoso e umoristico della Cicalata, scrive de Martino, nasce dalla mancata soluzione di tale contrasto e dalla istituzione di un atteggiamento mentale e pratico di compromesso, che per un verso non sa rinunciare al vecchio impegno ideologico, e per un altro verso lo svaluta [...] [La finzione letteraria quindi] è un espediente psicologico che, in tempi non più adatti a trattare certi argomenti come cose serie, finge [...] di trattarli come scherzosi, consentendo in tal modo di non rinunziare completamente ad una ideologia e ad un comportamento nei quali, in fondo, ancora si crede.

La nascita della jettatura testimonia della secolarizzazione in corso in Italia nel momento stesso in cui esibisce l’insufficienza di questa secolarizzazione: mondo della magia e mondo della scienza non sono ancora totalmente separati, ma producono un terzo stato di cui la credenza nella jettatura è un esempio: una disincantata superstizione. Ma la jettatura sospende non solo la separazione epistemologica tra realtà e illusione: sospende anche quella etica tra Bene e Male. Questi due si trovano ambiguamente fusi nella stessa persona, dato che lo jettatore porta il male, ma lui stesso di solito è un brav’uomo. Racconta Alberto Consiglio: Accompagnavo un pomeriggio [verso il 1940] un vecchio e illustre magistrato, il Duca di Vastogirardi […], quando incontrammo un signore molto anziano, piccolo, di espressione mite e addirittura simpatico. Era costui un altro insigne magistrato, e il Duca scambiò con lui alcuni convenevoli; poi proseguì il cammino: – È uno jettatore – mi disse il vecchio amico. (Mi avvidi che aveva un cornetto di corallo tra le dita.) E lo sa. Ma porta la sua croce con infinito spirito. Ha il taschino del panciotto pieno di piccoli cornetti di corallo. Quando gli presentano qualcuno di riguardo, o un avvocato o altra persona che gli riesce simpatica, trova modo di regalargli un cornetto, e dice con un sorriso: “Sapete, regalato da me…”.

Si noti che i due protagonisti – lo jettatore e il suo beneficiato – sono entrambi magistrati, che l’autore, nello stile encomiastico così diffuso a Napoli, qualifica di “illustri” e “insigni”. Il corno di corallo bene appuntito, se regalato da uno jettatore, sprigiona una potenza protettiva massima: il magistrato quindi, regalando un corno al suo collega e amico, non solo lo protegge dai propri deleteri influssi, ma anche da quelli gettati da altri. Lo jettatore è selettivo: elargisce il suo prezioso dono unicamente a chi gli è simpatico, soprattutto a colleghi. In questo modo il menagramo controlla ciberneticamente la potenza cieca di cui è dotato – premia l’amico e il buono, lascia colpire il reprobo. Emerge qui una jettatura post-moderna: lo jettatore viene rivalutato al pari di altri sotto-gruppi da sempre spregiati o emarginati, come omosessuali, ebrei, amerindi, rom. Insomma, per quella che de Martino chiama "ideologia della jettatura" lo jettatore moderno non è più l'invidioso, ma chi, a differenza dei più, manca eccessivamente di invidia. La carenza di desiderio dello jettatore tipico si ritorce sugli altri come forza indesiderabile. Viene così caricato di un potere funesto il dotto puritano e pedante.

René Girard ha insistito sulla funzione, in tutte le epoche e civiltà, del capro espiatorio: un individuo o un sotto-gruppo viene considerato portatore di un male che contagia o corrode la collettività, per cui occorre evacuarlo a ogni costo. Le varie persecuzioni etniche sarebbero ripetizioni storiche di questo meccanismo. Secondo Girard questo accade perché il desiderio umano è sempre competitivo e rivale: ciascuno desidera quello che un altro desidera o ha. Questa invidia-rivalità universale porterebbe ogni società al disfacimento se non si trovasse, di tanto in tanto, qualche capro espiatorio su cui scaricare tutto il Male. Lo jettatore sarebbe quindi un capro espiatorio. Allora, qualcuno che per lo più non desidera troppo e non invidia guarirebbe il gruppo sociale da quel grumo di desideri e invidie da cui ogni società è permeata. Se in tanti pensiamo che X è jettatore, questo ci affratella: ci daremo una mano nell’evitare X, e così dimenticheremo la rivalità invidiosa che altrimenti demolirebbe la nostra convivenza.

Dominique Fernandez (in Madre mediterranea) nota che lo jettatore è di solito un illuminista: aleggia attorno a lui un odore di studi severi, di letture scientifiche o classiche, di discorsi competenti e puntigliosi, insomma di secolarizzazione razionalista. Ovvero, lo jettatore è per lo più qualcuno che, si presume, non crede nella magia e nella superstizione. Per un dialettico contrappasso, diventa vittima di questa superstizione proprio qualcuno che dovrebbe rifiutare ogni forma di superstizione. L'affermazione che una superstizione mediterranea sia un prodotto originale dell'Illuminismo può stupire. Ma di fatto ogni epoca razionalista dissemina sottoprodotti irrazionali travestiti da pratiche scientifiche. Nel Settecento l’Illuminismo produsse il mesmerismo, antesignano dell’ipnosi: secondo Franz Anton Messmer certe crisi – definite più tardi isteriche – erano il prodotto di un magnetismo animale che lui avrebbe scoperto. Il positivismo ottocentesco inventò il moderno spiritismo. La seduta spiritica da salotto, con il treppiede che traballa, aggiorna vecchi Misteri di evocazione degli spettri imbastendo una scimmiottatura mondana dell'esperimento scientifico. 

Oggi i superstiziosi sono attirati piuttosto dall'elettronica, ad esempio si accusano certe persone di "dare cattive vibrazioni". E il New Age, che si sta spartendo con l’informatica il dominio spirituale della California, è l'altra faccia del nuovo positivismo cognitivista e virtuale. Queste filosofie misticheggianti che vantano il potere straordinario della mente umana sulle cose ottuse e dure sono un contrappunto al trionfo della computer science e dell’Intelligenza Artificiale. Valletta era un conservatore filo-borbonico, oggi diremmo “uno di destra”. Già l’anno successivo la pubblicazione della Cicalata – nel 1788 – appare uno jettaturismo “di sinistra”: i Capricci sul fascino del pugliese Gian Leonardo Marugi di Manduria. Il Marugi era filosofo e medico rinomato, l’anno prima aveva pubblicato un trattato sulle malattie con flatulenza. Traduttore del Saggio sull’intelletto umano di Locke, studioso di scienze, verrà chiamato nel 1797 a insegnare etica all’Università di Napoli. Questo lockiano liberale e progressista, esperto di peti, trovò il tempo di scrivere quel trattato semiserio su una flatulenza cognitiva come la jettatura. A lui risale la fondamentale distinzione della jettatura in fisica e morale. La prima “attacca le qualità della nostra corporea sostanza”; la seconda invece "agisce sugli atti della volontà". Marugi vuol essere “scientifico”: edotto della recente scoperta dell'elettricità da parte di Franklin, Galvani e Volta, connette il potere jettatorio a quello elettrico. È come se oggi uno spiegasse la jettatura facendo riferimento alle neuroscienze e magari ai neuroni specchio. Quarantadue anni dopo, la moda scientifica è cambiata: ora tutto va spiegato col “galvanismo” o magnetismo animale. Così, nel 1830 Antonio Schioppa pubblica Antidoto al fascino detto volgarmente jettatura: secondo lui il magnetismo “è un effetto degli effluvi jettati da un corpo all’altro” i cui effetti sono benefici, mentre quelli della jettatura sono malefici. 

Di impostazione filologica – oggi diremmo “antropologica” – è invece il libro del 1825 di Michele Arditi. Nel 1835 il barone Michele Zezza, poeta dialettale, scrive un “poema comico” sulla jettatura. Insomma, molti intellettuali napoletani tra ‘700 e ‘800 pubblicano su questa diceria. Ora, tutto quel rigoglio di jettaturisti all’epoca in realtà dava corpo a una vera e propria ossessione paranoide che si era impadronita dell’intera città di Napoli, non vi si parlava d’altro. Scrive un visitatore tedesco, K. A. Mayer (Neapel und die Neapolitaner oder Briefe aus Napel in die Heimat, 1840): Ferdinando I [di Borbone] nei giorni di corte o quando gli erano presentati degli stranieri, teneva ogni volta un cornetto appeso alla sua catena, apparentemente facendolo giocare fra le dita, e anche suo figlio, Francesco I, …, cercò di premunirsi in tal modo contro la jettatura. Grosse corna di buoi, spesso ben pulite e coperte di metallo, che stanno su una toeletta, o su uno stipo, proteggono la camera e l’edificio dal cattivo influsso di un jettatore; se sono appese alla finestra trattengono le maledizioni pronunziate dalla strada contro la casa. Nelle taverne queste corna pendono sulle botti, nelle officine sulle casse, dove sta la bilancia. Così il capo della polizia, quando von Lüdemann visitò Napoli, le aveva in tutte le parti della sua casa, perché, egli se ne scusava ingenuamente così, aveva a che fare con tanti e così diversi stranieri.

La psicosi della jettatura all’epoca era insomma una forma di xenofobia. Ogni straniero poteva essere jettatore, e lo jettatore era a suo modo un estraneo. Ideale capro espiatorio. Psicosi contagiosa, se bisogna credere a Dumas:

Quando un forestiero arriva a Napoli, comincia col ridere della jettatura, poi a poco a poco se ne preoccupa, e infine, dopo tre mesi di soggiorno, lo vedete ricoperto di corni dai piedi alla testa e con la mano eternamente contratta (Le Corricolo). L'Ottocento francese è particolarmente attratto da questa ossessione napoletana. Antoine Amatre de Caradeuc nel 1828 pubblicava un voluminoso romanzo sulla jettatura, Urbin Fasano ou La Jettatura, Histoire napolitaine. Théophile Gautier pubblica nel 1857 un romanzo di tono tragico, Jettatura, che si svolge appunto a Napoli.

Abbiamo detto che tra gli jettatori di chiara fama più celebri troviamo per lo più intellettuali, eruditi, studiosi di alto sentire. O illustri politici e patrioti. Era considerato jettatore Giuseppe Mazzini. Menagramo proprio per il suo grande rigore politico e morale: più che di diritti, parlava di doveri. La tradizione partenopea considera il più grande jettatore di tutti i tempi don Cesare della Valle Duca di Ventignano (1766-1860). Essendo morto a 94 anni, ebbe molto tempo a sua disposizione per seminare sciagure. La celebrità di questo scrittore e filosofo virtuoso ispirò Alexandre Dumas, che dedicò alle sue gesta tre capitoli del Corricolo (pubblicato nel 1841). Dumas lo chiama Principe di ***. Il Principe di *** già alla nascita manifestò pienamente la sua forza: sua madre, mettendolo al mondo, morì di parto. Poco dopo provocò la disgrazia del padre, ambasciatore del Borbone di Napoli alla corte di Toscana. Alla sua entrata in seminario, seminò colà una epidemia di tosse convulsa. Fece spezzare una gamba ad un compagno di seminario che era stato premiato. Quando Ferdinando IV di Napoli mosse guerra alla Repubblica Francese, fulminò di apoplessia un alfiere; agitò la bandiera gridando Viva il re, e il re perse la guerra.  Il giorno dopo che entrò come novizio in un convento, gli ordini religiosi furono soppressi dal nuovo governo bonapartista. Poi gettò la tonaca alle ortiche; e quando egli decise di andare al San Carlo, l’Opera di Napoli, il teatro venne distrutto dalle fiamme. Quando debuttò in società in casa di una contessa, appena entrato fece cadere per terra il cameriere con un vassoio pieno di gelati; nella stessa occasione, ammirando a gran voce il cielo stellato, fece scoppiare un tremendo temporale; dopo aver lodato un bel lampadario, questi subito si staccò dal soffitto e cadde al suolo sfracellandosi; in sua presenza, quando una famosa cantante del San Carlo prese a cantare un’aria di Paisiello, dovette abbandonare precipitosamente la scena dopo alcune clamorose stecche; e quando invitò la contessa padrona di casa a sedere in una poltrona, questo pregiato capo di mobilio si sfasciò non appena costei si fu seduta. Non c’è da stupirsi se, dopo questa memorabile serata, il Principe di **** guadagnasse una vasta e meritata celebrità. Un tale insultò il Nostro di fronte al suo fratello maggiore: questi lo sfidò a duello e, ovviamente, fu ucciso. Subito dopo aver sentito della morte del primogenito, il padre morì di infarto. Quando il Principe di **** andò all’estero, nell’attraversare il Tirreno distrusse una fregata francese e una fregata e un vascello inglesi. Ecc. ecc. Oltre un secolo dopo l’opera di Dumas, questo asteriscato principe continua a ispirare scrittori: Harold Acton – noto storico inglese – nel romanzo Prince Isidore riedita la nefasta carriera del Duca di Ventignano. Il vero duca di Ventignano era un valente letterato, autore di commedie, poemi, trattati di filosofia della storia, la sua tragedia Medea fu rappresentata con successo a Napoli. La poetessa tedesca Federica Braun, che lo frequentò nel 1807, lo descrisse come un galantuomo che viveva "in virtuosa povertà e tranquillità e innocente come un angelo". Eppure le sue opere sono state ignorate dalla storia letteraria successiva. Per ovvie ragioni, insinuò Croce: chi avrebbe mai osato scrivere una monografia sul più micidiale jettatore della storia?

Un altro celeberrimo jettatore fu il canonico Andrea De Jorio, direttore del museo di Pompei, erudito e archeologo stimatissimo. Anch’egli longevo, morì a 82 anni. Fu colpito dalla sua tetra celebrità anche Stendhal, che ne parla in Rome, Naples et Florence (alla data 2 luglio). Stendhal lo chiama Don Jo: Ecco un fatto del 1824: Don Jo, direttore del museo di P... e uomo di vaglia, ha la disgrazia di passare per jettatore. Egli sollecitava dall'ormai defunto re di Napoli, Ferdinando, un'udienza che il principe si guardava bene dall'accordargli. Alla fine, cedendo, dopo otto anni, alle sollecitazioni degli amici di don Jo, il principe riceve il direttore del suo museo. Nei venti minuti che durò l'udienza, egli sta sulle spine, e agita tra le dita un cornetto di corallo. La notte successiva, è colpito da apoplessia.

Si dà il caso che De Iorio sia annoverato tra i principali studiosi della jettatura: nel suo autorevole libro Mimica degli antichi investigata nel gestire napoletano (1832) descrive con precisione la tradizionale mimica dei napoletani contro la jettatura. È un puro caso che uno degli jettatori più celebri sia stato anche jettaturologo? Certo lo sguardo dello jettatore è temibile, come nell’antico malocchio, ma ancor più è efficace la sua parola. Ad esempio, quando la figlia del Principe di *** di Dumas presentò al padre l’uomo che stava per sposare – un ben noto donnaiolo di Napoli – ebbe la malaugurata idea di chiedergli la sua “paterna benedizione”. Il padre disse solo “Crescete e moltiplicatevi”. Il risultato fu che lo sposo, che aveva cornificato centinaia di mariti e fidanzati del Regno, e che aveva disseminato vari figli, non riuscì mai a consumare il matrimonio. L’augurio evangelico del padre si trasformò in una maledizione operativa. In effetti, lo jettatore non maledice mai, come abbiamo detto non odia: è il suo benedire, dire bene, a portar male. Se lo jettatore dice “spero che non accada x…”, se x è qualcosa di nefasto sicuramente accadrà. Le sue parole sono per lo più bene-vole, ma hanno sempre il senso pratico di una male-dizione. Il passaggio dal malocchio alla jettatura segna quindi un passaggio dal primato dello sguardo a quello della parola, si slitta da una magia visiva consapevole alla magia inconsapevole del linguaggio. In effetti, come abbiamo detto, con la coupure vallettiana viene privilegiata come iellante una figura sociale che padroneggia il linguaggio e la scrittura. Lo jettatore è un uomo colto dai costumi severi, che veste di scuro, stimabile ma tetro. Per la gente del popolo, infatti, scienza e cultura sono depressive: lo sguardo serio, analitico, sul mondo è una minaccia per la gioiosa credulità, spensierata e cialtrona. Il potere dello jettatore, equiparato a una forza oggettiva della natura – come l’elettricità o il magnetismo –, è una res extensa del tutto indipendente dalla res cogitans e dalle disposizioni affettive. La jettatura, invenzione di eruditi illuministi, ritorna su di loro come un boomerang: l'oggetto che essi hanno stigmatizzato è in fondo la loro stessa immagine speculare, che da allora li braccherà senza pietà. La jettatura è la ragione illuminista che si trova dotata dei poteri nefasti della sragione oscurantista, questo rovescio assume la funzione persecutoria del sapere che tarpa le ali all'usignolo incantato dal mondo magico. Valletta lo sapeva bene, per cui scriveva minaccioso: “Vi so a dire però, miei signori, che perlopiù chi la jettatura nega suol essere fral numero de’ jettatori”. Lo jettatore, capro messo al bando dalla comunità civile, sdogana la cultura “incantata” pre-moderna.

Il proto-jettatore – l’invidioso apportatore di disgrazie – era prima di tutto uno brutto, come un rospo. Una racchia in un paese anglofono è a toad, un rospo. Ci sono donne jettatrici – certamente lo è se è gobba – ma una bella ragazza che scoppi di salute non sarà mai jettatrice. Bruttezza, austerità e qualche difetto fisico sono condizioni spesso sufficienti, anche se non necessarie, per entrare in odore di gettatori di malocchio (lo jettatore erediterà questi tratti). Sono infatti favoriti alla reputazione di jettatori i portatori di handicap: calvi, guerci, uomini con i capelli rossi (in passato considerati effeminati), vecchie con il mento aguzzo. Portano iella anche i monaci, in particolare i francescani: anche loro sono in condizione di inferiorità, dato che hanno fatto voto di povertà, castità e obbedienza. Ma le superstizioni sfidano le interpretazioni lineari perché spesso ribaltano il potere fausto o infausto: in altri contesti, il monaco invece porta fortuna. Secoli fa a Napoli il gobbo maschio annunciava disastri, oggi invece incontrarlo è un’occasione fortunata. Chi getta il malocchio è specificamente un rospo che guarda. Si diceva che si diventava porta-iella – se proprio ci si teneva a diventarlo – affogando un rospo in un boccale trasparente pieno di alcool. Il rospo morto sbarrava gli occhi, e l’aspirante malefico doveva fissare per ventiquattr'ore questi occhi senz'anima. Per una sorta di metonimia speculare, “chi jetta” diventava ciò ch'egli guardava: un rospo immerso nel liquido che fissa con eyes wide shut gli esseri umani, invidiando loro bellezza e vita. Anche lo jettatore, come ricorda Valletta, striscia per terra, è infelice: invidia l'usignolo che invece vola e canta. Il rospo-jettatore è soprattutto pesante, si muove basso – sua vittima è una creatura leggera, che vola ed è felice. Dopo il taglio vallettiano, si candida difatti alla fama di jettatore chiunque risulti grave: il parlatore erudito e noioso, lo scrittore prolisso. La caduta del lampadario – effetto prototipico di ogni presenza iettatoria – segnala appunto che la gravità prende il sopravvento sulla aerea oscillazione del pendolo. Ma l'uccello non è solo la vittima designata del rospo che guarda: nel senso anatomico che esso ha nell'Italia del Centro-Nord, ne è anche il contrasto trionfatore, come abbiamo visto con corni e altri oggetti fallici. Non bisogna però concluderne che, siccome l'erezione e le sue metafore sono il miglior antidoto alla iella, questa abbia connotati femminili. Dopo tutto Priapo, fallo prototipo di ogni scaramanzia, è sin dalla nascita minacciato da un malocchio femminile: quello di Era, che, essendo sterile, invidia la gravidanza di Afrodite e cerca di distruggerne il frutto, Priapo. Il fascino micidiale dello jettatore è dialetticamente un anti-fascinum, una forza anti-fallica, a cui si può opporre solo un "fascino" fallico surrogato. Possiamo concluderne che la jettatura incarna una sorta di invidia poenis? Ma allora, perché lo jettatore è più spesso un uomo?

Certo, nell’area napoletana porta sfortuna la femmina scoliotica. Portano invece buona fortuna due tipi di maschi: il gobbo e il marito cornuto. Il gobbetto elargisce benessere soprattutto se uno, elargendo un abbraccio amichevole, riesce a toccargli la schiena gibbosa. Per secoli si è creduto che il gobbetto maschio sia sagace, ingegnoso, infido, malizioso e ben dotato sul piano genitale, così la sua protuberanza nella parte alta del corpo promette una aggettanza analoga nella parte più bassa; il gobbo esibisce una doppia ridondanza fallica. Toccargli la gobba equivale allora metaforicamente a palpargli gli attributi virili. Quanto al marito tradito, si pensava che egli fosse virtualmente sodomizzato dall’amante della moglie, portatore quindi anch’egli di un surplus fallico. La gobba femminile invece è una conflagrazione semantica inquietante: figura a un tempo femminile e penica, infligge disastri alla Città. Più in generale, lo jettatore è, in fin dei conti, la combinazione di due minacce: 

(1) la severità e la malinconia; 

(2) l’intelligenza critica, che rovina la festa alle gioiose illusioni del wishful thinking, del prendere i propri desideri per realtà.

Insomma, lo jettatore è spesso uno che grazie alle sue qualità morali o culturali fa sentire gli altri carenti o colpevoli. In sostanza, incarna l’istanza della ragione illuminista che irride favole e credenze del mondo incantato. Ragione e Intelligenza uccidono l’ingenua e felice euforia della credulità. A Napoli l’incredulità che disincanta ha prodotto un nuovo incanto: che questa incredulità disincantata è nociva. Il pessimismo della ragione si oppone all’ottimismo della volontà di illudersi. Forza e autorità della Ragione vengono così disinnescate nell’irrazionale credenza nei danni magici della razionalità. Sardonica astuzia della dialettica dell’anti-Illuminismo.

Superstizioni e gesti scaramantici: come sono nati e perché ci crediamo ancora. Pur essendo del tutto irrazionali e arbitrarie, le credenze popolari hanno da sempre un'enorme presa sulle persone. Ecco da dove traggono origine, scrive il 20 settembre 2017 Simona Marchetti su "Il Corriere della Sera".

Non è vero (ma non si sa mai). Secondo lo psicologo Stuart Vyse «la superstizione è un'azione in contrasto con la scienza». Eppure milioni di persone in tutto il mondo continuano a credere che venerdì 13 porti sfortuna, che vedere un gatto nero sia un cattivo presagio e che toccare ferro porti bene. «Questo perché le superstizioni ci vengono insegnate fin da bambini - spiega Stuart Vyse, autore de "Believing in Magic: The Psychology of Superstition", a LifeHacker - e fanno parte della tradizione popolare, svolgendo quindi un ruolo importante nel basilare processo di socializzazione. In aggiunta a ciò, c'è poi il fatto che viviamo in un mondo in cui non è possibile riuscire sempre a controllare tutto e, di conseguenza, le superstizioni diventano una sorta di rassicurante meccanismo di controllo per ridurre l'ansia e fare in modo che tutto funzioni nel modo giusto». Un altro aspetto interessante delle credenze popolari è la loro natura apparentemente arbitraria. «Non c'è un riscontro razionale nell'avversione per il 13 o per i gatti neri o nel fatto che non si debba passare sotto ad una scala - sottolinea Tom Gilovich, professore di psicologia alla Cornell University - ma si è portati a crederci comunque, per il timore che, sfidando il destino, possa capitare qualcosa di ancora più brutto».

I gatti neri e Papa Gregorio IX. Le superstizioni hanno però anche dei benefici, soprattutto quando hanno a che fare con la fortuna. La conferma arriva da uno studio pubblicato sulla rivista Psychological Sciencee volto a scoprire le conseguenze e i potenziali benefici delle superstizioni, individuando al tempo stesso i meccanismi psicologici che sono alla base: dopo aver dato a tutti i partecipanti delle palline da golf, i ricercatori avevano detto a metà di loro che le palline che avevano ricevuto erano fortunate e questi avevano fatto il 35% in più di putt con esito positivo. «L'attivazione di una superstizione ha aumentato la fiducia dei giocatori nelle loro abilità - commentano i ricercatori - e questo ha portato a un miglioramento delle loro prestazioni». Adorati dagli Antichi Egizi e celebrati dalla tradizione nordica, i gatti hanno cominciato a essere guardati malissimo nel 1200, quando Papa Gregorio IX, nella sua guerra culturale ai simboli pagani, li bollò come servi di Satana. Da quel momento in tutta Europa i gatti, soprattutto quelli neri, cominciarono a essere sterminati, il che, secondo alcuni storici, fu la causa della diffusione nel Vecchio Continente di malattie portate dai ratti, come la peste bubbonica del 1348. E le dicerie continuarono per secoli, tanto che nel 1600 molti puritani si convinsero che i gatti neri fossero dei demoni soprannaturali al servizio delle streghe e iniziarono così a dar loro la caccia.

Le scale e la Trinità. A seconda del contesto sociale nel quale si è cresciuti, una scala appoggiata al muro può indicare una semplice giornata di lavoro, un problema di geometria o il simbolo della Santissima Trinità. E quest'ultima convinzione risale agli antichi Cristiani, per i quali ogni triangolo rappresentava la Trinità e, quindi, romperlo avrebbe richiamato il Male e portato l'anima alla perdizione. Al giorno d'oggi la fobia della scala ha un significato un tantino più pratico e suggerisce di evitare di passarci sotto per non correre il rischio di essere colpiti in testa da attrezzi, detriti o altro in caduta libera.

Rompere uno specchio sono 7 anni di guai. Numerose culture antiche concordano sul fatto che nel riflesso di qualcuno in uno specchio ci sia anche un pezzo della sua anima che, di conseguenza, andrebbe in frantumi nel caso in cui lo specchio dovesse rompersi, lasciando così la persona vulnerabile alla cattiva sorte. Il fatto invece che tale sfortuna debba durare sette anni risalirebbe agli Antichi Romani, che erano convinti che anima e corpo si rigenerassero completamente ogni sette anni, quindi ogni eventuale rottura (dell'anima e dello specchio) prima di tale scadenza avrebbe significato dover convivere col proprio “karma negativo” fino alla nuova rinascita.

La luna piena fa uscire i pazzi allo scoperto. Non è un caso che il termine "lunatico" derivi dal latino classico "luna" (ovvero, «colui che patisce di eccessi di pazzia ricorrenti con le fasi lunari») e che lo stesso Aristotele sostenesse che il cervello, essendo uno degli organi col più alto contenuto di acqua, fosse suscettibile all'influenza della luna allo stesso modo delle maree. Questa suggestione è arrivata fino ai giorni nostri portando a credere che durante la luna piena aumentino il numero di incidenti, suicidi e omicidi, sebbene manchino dei dati scientifici in grado di confermare queste convinzioni.

Dire «salute!» dopo uno starnuto evita malattie più gravi. Premesso che uno starnuto non ferma il cuore né separa il corpo dall'anima, come invece sostiene una credenza popolare, il fatto di augurare buona salute a uno che starnutisce ha a che fare con Papa Gregorio I: durante infatti la prima pandemia di peste nel sesto secolo, capitava sovente che starnuti ripetuti portassero in seguito a morte improvvisa, così pare che il Pontefice avesse chiesto ai suoi seguaci di ripetere la frase «Dio ti benedica» (poi diventata semplicemente «bless you», traducibile appunto con «salute!») ogni volta che qualcuno starnutiva, così da scongiurare ulteriori effetti negativi. Oggi è invece solo un gesto di buona educazione. 

L’ITALIA DEI PAZZI.

Il professor Vittorino Andreoli: "L'Italia è un Paese malato di mente. Esibizionisti, individualisti, masochisti, fatalisti", scrive Andrea Purgatori su L'Huffington Post del 06/08/2013. “L’Italia è un paziente malato di mente. Malato grave. Dal punto di vista psichiatrico, direi che è da ricovero. Però non ci sono più i manicomi”. Il professor Vittorino Andreoli, uno dei massimi esponenti della psichiatria contemporanea, ex direttore del Dipartimento di psichiatria di Verona, membro della New York Academy of Sciences e presidente del Section Committee on Psychopathology of Expression della World Psychiatric Association ha messo idealmente sul lettino questo Paese che si dibatte tra crisi economica e caos politico e si è fatto un’idea precisa del malessere del suo popolo. Un’idea drammatica. Con una premessa: “Che io vedo gli italiani da italiano, in questo momento particolare. Quindi, sia chiaro che questa è una visione degli altri e nello stesso tempo di me. Come in uno specchio”.

Quali sono i sintomi della malattia mentale dell’Italia, professor Andreoli?

“Ne ho individuati quattro. Il primo lo definirei “masochismo nascosto”. Il piacere di trattarsi male e quasi goderne. Però, dietro la maschera dell’esibizionismo”.

Mi faccia capire questa storia della maschera.

“Beh, basta ascoltare gli italiani e i racconti meravigliosi delle loro vacanze, della loro famiglia. Ho fatto questo, ho fatto quello. Sono stato in quel ristorante, il più caro naturalmente. Mio figlio è straordinario, quello piccolo poi…”.

Esibizionisti.

“Ma certo, è questa la maschera che nasconde il masochismo. E poi tenga presente che generalmente l’esibizionismo è un disturbo della sessualità. Mostrare il proprio organo, ma non perché sia potente. Per compensare l’impotenza”.

Viene da pensare a certi politici. Anzi, a un politico in particolare.

“Pensi pure quello che vuole. Io faccio lo psichiatra e le parlo di questo sintomo degli italiani, di noi italiani. Del masochismo mascherato dall’esibizionismo. Tipo: non ho una lira ma mostro il portafoglio, anche se dentro non c’è niente. Oppure: sono vecchio, però metto un paio di jeans per sembrare più giovane e una conchiglia nel punto dove lei sa, così sembra che lì ci sia qualcosa e invece non c’è niente”.

Secondo sintomo.

“L’individualismo spietato. E badi che ci tengo a questo aggettivo. Perché un certo individualismo è normale, uno deve avere la sua identità a cui si attacca la stima. Ma quando diventa spietato…”.

Cattivo.

“Sì, ma spietato è ancora di più. Immagini dieci persone su una scialuppa, col mare agitato e il rischio di andare sotto. Ecco, invece di dire “cosa possiamo fare insieme noi dieci per salvarci?”, scatta l’io. Io faccio così, io posso nuotare, io me la cavo in questo modo… individualismo spietato, che al massimo si estende a un piccolissimo clan. Magari alla ragazza che sta insieme a te sulla scialuppa. All’amante più che alla moglie, forse a un amico. Quindi, quando parliamo di gruppo, in realtà parliamo di individualismo allargato”.

Terzo sintomo della malattia mentale degli italiani?

“La recita”.

La recita?

“Aaaahhh, proprio così… noi non esistiamo se non parliamo. Noi esistiamo per quello che diciamo, non per quello che abbiamo fatto. Ecco la patologia della recita: l’italiano indossa la maschera e non sa più qual è il suo volto. Guarda uno spettacolo a teatro o un film, ma non gli basta. No, sta bene solo se recita, se diventa lui l’attore. Guarda il film e parla. Ah, che meraviglia: sto parlando, tutti mi dovete ascoltare. Ma li ha visti gli inglesi?”.

Che fanno gli inglesi?

“Non parlano mai. Invece noi parliamo anche quando ascoltiamo la musica, quando leggiamo il giornale. Mi permetta di ricordare uno che aveva capito benissimo gli italiani, che era Luigi Pirandello. Aveva capito la follia perché aveva una moglie malata di mente. Uno nessuno e centomila è una delle più grandi opere mai scritte ed è perfetta per comprendere la nostra malattia mentale”.

Torniamo ai sintomi, professore.

“No, no. Rimaniamo alla maschera. Pensi a quelli che vanno in vacanza. Dicono che sono stati fuori quindici giorni e invece è una settimana. Oppure raccontano che hanno una terrazza stupenda e invece vivono in un monolocale con un’unica finestra e un vaso di fiori secchi sul davanzale. Non è magnifico? E a forza di raccontarlo, quando vanno a casa si convincono di avere sul serio una terrazza piena di piante. E poi c’è il quarto sintomo, importantissimo. Riguarda la fede…”.

Con la fede non si scherza.

“Mica quella in dio, lasciamo perdere. Io parlo del credere. Pensare che domani, alle otto del mattino ci sarà il miracolo. Poi se li fa dio, San Gennaro o chiunque altro poco importa. Insomma, per capirci, noi viviamo in un disastro, in una cloaca ma crediamo che domattina alle otto ci sarà il miracolo che ci cambia la vita. Aspettiamo Godot, che non c’è. Ma vai a spiegarlo agli italiani. Che cazzo vuoi, ti rispondono. Domattina alle otto arriva Godot. Quindi, non vale la pena di fare niente. E’ una fede incredibile, anche se detta così sembra un paradosso. Chi se ne importa se ci governa uno o l’altro, se viene il padre eterno o Berlusconi, chi se ne importa dei conti e della Corte dei conti, tanto domattina alle otto c’è il miracolo”.

Masochismo nascosto, individualismo spietato, recita, fede nel miracolo. Siamo messi malissimo, professor Andreoli.

“Proprio così. Nessuno psichiatra può salvare questo paziente che è l’Italia. Non posso nemmeno toglierti questi sintomi, perché senza ti sentiresti morto. Se ti togliessi la maschera ti vergogneresti, perché abbiamo perso la faccia dappertutto. Se ti togliessi la fede, ti vedresti meschino. Insomma, se trattassimo questo paziente secondo la ragione, secondo la psichiatria, lo metteremmo in una condizione che lo aggraverebbe. In conclusione, senza questi sintomi il popolo italiano non potrebbe che andare verso un suicidio di massa”.

E allora?

“Allora ci vorrebbe il manicomio. Ma siccome siamo tanti, l’unica considerazione è che il manicomio è l’Italia. E l’unico sano, che potrebbe essere lo psichiatra, visto da tutti questi malati è considerato matto”.

Scherza o dice sul serio?

“Ho cercato di usare un tono realistico facendo dell’ironia, un tono italiano. Però adesso le dico che ogni criterio di buona economia o di buona politica su di noi non funziona, perché in questo momento la nostra malattia è vista come una salvezza. E’ come se dicessi a un credente che dio non esiste e che invece di pregare dovrebbe andare in piazza a fare la rivoluzione. Oppure, da psichiatra, dovrei dire a tutti quelli che stanno facendo le vacanze, ma in realtà non le fanno perché non hanno una lira, tornate a casa e andate in piazza, andate a votare, togliete il potere a quello che dice che bisogna abbattere la magistratura perché non fa quello che vuole lui. Ma non lo farebbero, perché si mettono la maschera e dicono che gli va tutto benissimo”.

Guardi, professore, che non sono tutti malati. Ci sono anche molti sani in circolazione. Secondo lei che fanno?

“Piangono, si lamentano. Ma non sono sani, sono malati anche loro. Sono vicini a una depressione che noi psichiatri chiamiamo anaclitica. Penso agli uomini di cultura, quelli veri. Che ormai leggono solo Ungaretti e magari quel verso stupendo che andrebbe benissimo per il paziente Italia che abbiamo visitato adesso e dice più o meno: l’uomo… attaccato nel vuoto al suo filo di ragno”.

E lei, perché non se ne va?

“Perché faccio lo psichiatra, e vedo persone molto più disperate di me”.

Grazie della seduta, professore.

“Prego”. 

L'ITALIA DEI FAVORITISMI (ANCHE IN FAMIGLIA).

Il figlio preferito: non lo si ammette, eppure esiste. Una ricerca dice perché. Un libro, The favourite child e varie ricerche affermano il 75% delle mamme ha un prediletto. E lo stesso è per i padri. L’importante è confessarlo a sé stessi e cambiare, scrive Maria Luisa Agnese il 3 luglio 2017 su "Il Corriere della Sera". Il figlio preferito c’è, ma non si dice. Nessun genitore confesserebbe chi è il cocco fra la sua prole: è questo il segreto dei segreti, gran tabù indicibile, inconfessabile, anche se ben presente in una zona indefinita fra mente e cuore di madri e padri. Ma la domanda non va fatta, è sconveniente per qualsiasi genitore. A meno che non ci sia garanzia di anonimato. Le ricerche parlano chiaro. Il 75% delle mamme ammette di avere un prediletto (ricerca 2016 del Journal of Marriage Psicology), mentre in un’indagine dello stesso giornale di qualche anno prima confessavano lo stesso sentimento anche i padri, al 70%. Quindi, assodato che i favoritismi ci sono — e nella speranza di non essere mai messi nella condizione di Meryl Streep che nel film La Scelta di Sophie è costretta dai nazisti a scegliere chi sacrificare fra figlia e figlio — prenderne consapevolezza deve essere, oggi, la soluzione migliore. È quanto sostiene la psicologa americana Ellen Weber Libby nel suo ultimo libro The favorite Child, il figlio prediletto: non rimanere vittima di sensi di colpa, ma guardare la realtà dentro di noi per neutralizzare gli effetti negativi che i favoritismi possono scatenare, sia nei figli prescelti, caricati di troppo aspettative, che in quelli negletti, colpiti nell’autostima. «Il favoritismo esiste, ma non deve più essere un tabù o una vergogna: va affrontato, per migliorare i rapporti familiari», scrive Libby. Perché nel grande caleidoscopio dei sentimenti la percezione che ogni figlio ha di sé è importante, ma può anche essere fuorviante in quanto è legata a periodi della vita dei genitori o dei figli: «Spesso si dice che sono i primogeniti i favoriti», aggiunge lo psicologo Alberto Pellai. «Ma bisogna tener conto che i figli nascono in zone diverse della vita dei genitori, e ogni figlio intercetta un pezzetto della loro storia. Il primogenito spesso riceve più cure, ma questo non vuol dire che riceva anche più amore; significa solo che i genitori, inesperti e più ansiosi, fanno il rodaggio con lui». Libby poi dà anche alcuni suggerimenti per una politica più sana di equilibrio familiare. Primo non fare paragoni, non dire mai «Perché non fai come tuo fratello?», ogni figlio è unico e diverso. Secondo: non fare quel che un tempo si diceva figli e figliastri. Se in casa c’è un Maradona in erba che vuol giocare tutti i week end a calcetto, non dimenticarsi di onorare anche le passioni sportive della piccola, più portata per la pallavolo. Un tempo studiava solo il primogenito, oggi si cerca di onorare i talenti di ognuno, perché non succeda come in casa Pennacchi, dove negli anni Sessanta il piccolo e talentuoso Accio non poteva andare al classico perché «basta un figlio che andrà all’università», come poi raccontato da Antonio Pennacchi nel Fasciocomunista, diventato film dal titolo Mio fratello è figlio unico (rubando l’idea al mitologico brano di Rino Gaetano). Terzo: Cercare un feedback, mettersi alla prova, chiedendo ad amici e parenti un parere su se stessi come genitori: insomma non stancarsi di confrontarsi. E infine, quarto: Saper ascoltare i loro lamenti, le loro recriminazioni. «Se vi accusano di favoritismi, resistete alla tentazione di negare o di giustificarvi, ma state a sentire e cogliete l’opportunità di dialogo». Ma soprattutto, aggiunge Pellai «fate domande, è un modo per scoprire le diverse esigenze di ogni figlio». Alberto Pellai e sua moglie Barbara Tamborini, psicopedagogista a sua volta, hanno due maschi e due femmine. Capita mai che qualcuno vi venga a dire di sentirsi trascurato, figlio negletto? «Tutti i giorni, ognuno viene a dirci che pensa che favoriamo gli altri. E questa è la garanzia che abbiamo fatto un ottimo lavoro».

I genitori hanno il figlio preferito? Più del 70% ammette di sì. Uno studio americano ha confermato che c'è quasi sempre un trattamento preferenziale. Spesso riguarda i primogeniti. Sicuro invece che la «contesa» sulla primazia e il senso di disparità influiscano negativamente sull'autostima, scrive Simona Marchetti il 12 aprile 2016 su "Il Corriere della Sera". Gli amici uno se li cerca, ma i fratelli (o le sorelle) se li trova e fin dal primo vagito del nuovo arrivato è una lotta senza esclusione di colpi per conquistarsi il favore dei genitori e diventare così il figlio “prediletto”. Perché anche se i genitori giurano il contrario, un favorito c'è sempre. L’ennesima conferma arriva da uno studio trasversale iniziato nel 1989 dalla sociologa Katherine Conger dell'Università della California, Davis, e condotto su un campione di 384 coppie di fratelli adolescenti (divisi da non più di 4 anni di differenza) e sui rispettivi genitori, seguiti per tre anni, con due incontri annuali. Risultati alla mano, pubblicati sul Journal of Family Psychology, il 70% dei padri e il 74% delle madri hanno confessato di avere un trattamento preferenziale nei confronti di uno dei figli, senza però specificare quale. «È giusto che i genitori riconoscano finalmente di trattare i figli in maniera diversa - spiega la dottoressa Silvia Vegetti Finzi, che ha appena pubblicato il libro "Una bambina senza stella". Le risorse segrete dell'infanzia per superare le difficoltà della vita" - perché tutti meritano un trattamento personalizzato. Come efficacemente spiega un detto americano, "il primogenito è più intelligente, ma il secondogenito se la cava meglio nella vita": questo perché i genitori tendono a proiettare sul primo figlio tutte le loro aspettative, mentre i fratelli minori hanno sì lo svantaggio di essere relegati nelle retrovie ma, al tempo stesso, anche il vantaggio di essere "schermati" dai primogeniti e di potersi quindi muovere più liberamente e senza condizionamenti». Peccato però che i secondogeniti intervistati dal team della Conger non abbiano dato affatto l'impressione di saper gestire questa "condizione di vita privilegiata" di cui parla la Vegetti Finzi ma, al contrario, abbiano ammesso come la disparità di trattamento da parte dei genitori nei loro confronti abbia poi avuto delle ripercussioni negative sulla loro autostima. Non solo. I figli minori hanno anche confessato di ritenere i fratelli maggiori i veri “cocchi” di mamma e papà, sensazione peraltro condivisa dalla maggior parte degli stessi primogeniti che, a precisa domanda, ha infatti confermato di considerarsi effettivamente il figlio preferito. «Le conclusioni alle quali siamo giunti con la nostra ricerca sono state piuttosto sorprendenti - ha detto la dottoressa Conger alla rivista Quartz - perché, fermo restando che ognuno è convinto che il fratello o la sorella goda di un trattamento migliore da parte dei genitori e si senta, di conseguenza, il figlio non prediletto, l'ipotesi di partenza era che sarebbero stati i primogeniti quelli maggiormente colpiti dalla percezione di questa disparità, proprio a causa della loro condizione di figli maggiori e, quindi, con maggiori responsabilità e aspettative da parte dei genitori e, invece, non è stato così». Come conferma al "New York Times" la dottoressa Barbara Howard, assistente pediatrica alla Johns Hopkins University School of Medicine, «la sensazione di non essere il figlio preferito è spesso causa di problemi comportamentali. Del resto, è impossibile che un genitore non abbia un figlio preferito e la percezione di questo favoritismo è uno dei motivi principali della rivalità fra fratelli».

“Il figlio prediletto esiste”. Si tende a preferire il bambino che ci assomiglia di più, che ha lo stesso carattere o gli stessi capelli, il bambino-specchio che realizza il nostro sogno di immortalità. I genitori infrangono il tabù, scrive Stefano Montefiori il 23 marzo 2014 su "Il Corriere della Sera". Il tabù famigliare più grande, perché più diffuso, è quello sul figlio preferito. Nessun genitore ammette, prima di tutto a se stesso, di averne uno, e molti sono pronti a fornire zuccherose rassicurazioni come «l’amore di una mamma non si divide come le fette di una torta, quando nasce un nuovo bambino c’è una nuova torta intera di affetto anche per lui». Non è vero. I genitori spesso non lo sanno neppure, ma mentono. Le preferenze esistono, sono sempre esistite. Solo che in passato erano chiare, evidenti e riconosciute, anche socialmente: il primogenito ereditava tutto. Dal XX secolo in poi si è fatta strada la giusta convinzione che nelle famiglie non debbano esserci figli e figliastri, nel patrimonio e nell’affetto. Tutti o quasi ci provano, ma i rapporti speciali nascono e — ignorati, negati, repressi — resistono. Per questo in Francia sta avendo successo il libro di due docenti dell’Università di Nantes, Catherine Sellenet (Psicologia e Sociologia) e Claudine Paque (Letteratura), che indagano sul più comune non detto della vita famigliare. Accanto a segreti spaventosi e per fortuna relativamente rari (violenza, incesto), c’è quello banalissimo del «cocco di mamma», che molti hanno sperimentato in almeno una delle versioni, in qualità di figli o di genitori. «La preferenza esiste e la sua negazione non fa che danneggiare la relazione, talvolta pervertirla», scrivono le autrici di “L’enfant préféré, chance ou fardeau?” (edizioni Belin), che aggiungono: «Accettare la realtà della preferenza per uno dei propri figli potrebbe aiutare a ridurre i danni sia sull’eletto sia sugli altri fratelli». Le autrici hanno interrogato 55 genitori: all’inizio del colloquio neanche uno ha ammesso di avere preferenze per un figlio o una figlia in particolare. Alla fine l’80 per cento lo ha riconosciuto. Spesso è l’uso delle parole, il nomignolo, a tradire, come quel padre che cita «il primo figlio», «la più piccola», e poi racconta estasiato di «giocare a calcio con Paul», il prediletto chiamato per nome. Oppure quella madre che parla lungamente di François, Anne e infine arriva a «Josephine, la mia principessa», che unica ha diritto all’iperbole. Il libro è pieno di empatia per i genitori che cercano di fare del proprio meglio, ma la tesi è che bisogna cominciare a indagare sul perché si formano le preferenze e sugli effetti che hanno sui bambini: «una fortuna o un fardello?», si chiede il titolo. Intanto, cosa spinge un papà o una mamma ad avere una predilezione? L’unica socialmente accettata è verso il figlio svantaggiato, più debole o colpito da handicap. Le altre, inconfessabili, sono spesso generate da un riflesso narcisistico: si tende a preferire il bambino che ci assomiglia di più, che ha lo stesso carattere o gli stessi capelli, il bambino-specchio che realizza il nostro sogno di immortalità. E poi il bambino facile che va bene a scuola, non solo perché pone meno problemi, ma soprattutto perché ci risparmia la fatica di dubitare di noi stessi e ci conferma nella riuscita di genitori, grande imperativo della nostra era. Sellenet e Paque sottolineano che nell’attuale mondo di mamme e papà consapevoli e molto presi dalla loro missione, tutte le responsabilità vengono scaricate sui figli. Litigate tra voi, bambini cari? È perché siete di animo poco generoso, siete gelosi. In realtà, quando i figli trovano il coraggio di accusare un padre o una madre di fare preferenze, il più delle volte hanno ragione, hanno captato piccoli segnali molto eloquenti, un tono della voce, un’indulgenza in più, o anche solo una porzione migliore nel grande rito strutturante del pasto tutti insieme a tavola. Il libro non auspica un ritorno al passato, a Menelao che nell’Odissea preferisce serenamente Megapente o a Abramo al quale Dio chiede di sacrificare Isacco proprio perché è il preferito, senza dubbio alcuno. Ma genitori più onesti con sé stessi potrebbero agire per controllare le conseguenze dei loro sentimenti. Prevale una specie di sindrome da «La scelta di Sophie», il celebre e tremendo film nel quale i nazisti costringono la madre Meryl Streep a scegliere chi salvare tra il maschio e la femmina. In condizioni normali, ammettere con sé stessi una predilezione non dovrebbe essere così straziante.

Oltretutto preferire un figlio, proprio come discriminarlo, non equivale a fargli un favore. Il prediletto sarà probabilmente più sicuro di sé, affidabile, esperto nel sedurre le figure di responsabilità (dopo i genitori in famiglia, gli insegnanti a scuola e i superiori nel lavoro), ma pure oggetto della gelosia dei fratelli, patirà di sensi di colpa e da adulto farà forse più fatica a trovare una strada autonoma, lontana dall’amore in cerca di retribuzione di quei bene intenzionati, attenti, e bugiardi genitori.

“Figlio preferito? Inutili i sensi di colpa”. E’ normale provare attrazione verso un figlio piuttosto che verso un altro? Come gestire questo sentimento perché possa essere positivo e non frustrante per il prediletto e per gli altri fratelli? Parla l’esperto, scrive Paola Coen su "Stai Bene". Figli preferiti e figli che si sentono messi da parte. Il prediletto in casa è una realtà che molti genitori, spesso attanagliati dai sensi di colpa, rifiutano. Perché succede? E’ normale provare attrazione verso un figlio piuttosto che verso un altro? Come gestire questo sentimento perché possa essere positivo e non frustrante per il prediletto e per gli altri fratelli? Lo abbiamo chiesto a Paola Ulissi, psicologa e psicoterapeuta dell’età evolutiva.

E’ normale che un genitore abbia un figlio preferito?

“Sì è abbastanza normale perché siamo umani. Il problema è come viene gestita questa preferenza. Nel senso che ci sono genitori smaccatamente preferenziali, quasi a rasentare una patologia o a scatenare nei figli una patologia…”.

Ci spieghi meglio.

“Pensiamo ai figli viziati, o quelli incapaci di tollerare le frustrazioni, o di cavarsela nel vita di tutti i giorni. Il fatto è, però, che ci sono figli più simpatici, più presenti, che si fanno amare di più. Queste loro caratteristiche positive, rispetto agli altri fratelli magari più musoni o capricciosi, attraggono di più il genitore che li preferisce agli altri piccoli”.

Un genitore si deve sentire in difetto se predilige un figlio piuttosto che per un altro?

“No, il senso di colpa non serve a nulla. Se un genitore ha la consapevolezza di prediligere un figlio piuttosto che un altro deve sapere di dover compensare questa maggiore attrazione. Preferire è umano e lo facciamo con tutti. L’importante è esserne consapevoli. Per quel che riguarda i figli è la consapevolezza che ci può aiutare ad essere giusti nell’affetto, nella relazione, nella stimolazione alla crescita e all’indipendenza”.

Il figlio preferito è anche quello più amato?

“Non si ama un figlio più di un altro. Si ama in maniera diversa. Magari c’è un figlio che in un determinato momento della vita ha bisogno di maggiore attenzione e va sostenuto, mentre l’altro può camminare con le sue gambe. Anche noi siamo diversi quando nascono i figli…”.

In che modo?

“Per esempio quando arriva il primo figlio, spesso, siamo impreparati. Al secondo o terzo figlio, invece, siamo più sicuri, ma meno disponibili. Quel che conta quando diventiamo genitori è di essere attenti ai bisogni del bambino”.

Il figlio preferito ha un vantaggio o uno svantaggio nello sviluppo della propria personalità?

“Dipende da come è stato preferito. Essere preferiti non vuol dire necessariamente essere avvantaggiati o avere avuto qualche cosa in più. Per fare un esempio limite. In molte patologie della schizofrenia, per esempio, il doppio legame è un legame simbiotico, dove la mamma preferisce quel figlio ma non lo spinge all’individualità, non lo spinge alla separatezza e all’individuazione di sé, ma lo spinge a rimanere quasi nella pancia”.

I genitori preferiscono i secondogeniti. Sui primi nati, più controllo, pressioni e maggiori aspettative. Chi nasce dopo incontra più permissivismo e generosità, scrive "Stai Bene". Chi nasce per primo sarà più vessato dai genitori. Che sono sempre più severi, nei confronti dei primogeniti: li controllano, li limitano, li assillano, li opprimono con le loro aspettative. Quando avranno preso confidenza con il loro ruolo di genitori, all´arrivo dei figli successivi insomma, saranno molto più rilassati e accomodanti. Conseguenza: i secondogeniti si troveranno decisamente meglio dei fratelli maggiori. E' il risultato di una ricerca pubblicata sulla rivista "The Economic Journal", realizzata per cercare di capire come la ricchezza di una famiglia possa incidere sull´educazione dei figli, sulla vita dei genitori, sul rapporto tra genitori e figli, sul ruolo che il nucleo familiare può avere nella società. I ricercatori non hanno solo fatto i conti in tasca alle famiglie, ma si sono serviti anche dell´aiuto di sociologi e psicologi che hanno immaginato dei giochi di ruolo ai quali hanno fatto partecipare genitori e figli. Questi confronti generazionali hanno dimostrato che i genitori diventano più indulgenti crescendo e che, di conseguenza, sono molto più rigidi con i figli maggiori che con i più piccoli. Dall'indagine sono emerse anche altre indicazioni. L´atteggiamento di ribellione tipico degli adolescenti nei confronti dei genitori è il risultato di una reazione all´atteggiamento degli adulti: sebbene sia normale che gli adolescenti si ribellino come passaggio necessario per affermare la propria individualità, l'entità della ribellione e la gravità delle azioni dimostrative dipendono dall´educazione ricevuta in famiglia. Una tesi che ha trovato conferma dagli sviluppi delle nuove tecnologie della diagnostica per immagini. Lo psichiatra Giorgio Bressa, per esempio, cita nel suo libro "Reduci dall’adolescenza" che gran parte dei comportamenti, positivi ma anche patologici, che ognuno di noi acquisisce nella fase della crescita dipendono dal modo in cui la fisiologica ribellione degli adolescenti verso i genitori e in generale verso il mondo delle regole, viene affrontata con i metodi educativi adottati dai genitori. Bressa ricorda che è nella fase dell’adolescenza, tra gli 11 ed i 15 anni che si forma nella parte frontale del cervello quella componente cerebrale che presiede al giudizio critico. Cosa che emerge chiaramente dall’evoluzione dell’immagine di quella parte del cervello evidente dalle Tac effettuate ad età diverse.

Il figlio trascurato non è sempre svantaggiato. Il senso di colpa dei genitori è, certamente, verso il figlio svantaggiato, quello che riceve meno attenzioni. E le conseguenze, in effetti, possono esserci. Ecco che fare, scrive "Stai Bene". Il senso di colpa dei genitori è, certamente, verso il figlio svantaggiato, quello che riceve meno attenzioni. E le conseguenze, in effetti, possono esserci. Gli inglesi chiamano questa particolare condizione “Lfs” (less favoured sindrome), la sindrome del meno favorito). Sono spesso i genitori dar fuoco alle polveri e far scatenare una carica di esplosività, rivalità tra fratelli. Non sempre gli interventi di mamma e papà sono giusti, equilibrati e sereni.

Ma siamo sicuri che essere svantaggiati è sempre negativo per chi vive questa condizione? No, dicono gli esperti. Questo bambino può essere più forte del fratello o sorella preferiti. Perché colui a cui tutto è concesso, potrebbe essere impreparato ad affrontare le difficoltà della crescita per il solo fatto che la sua strada non è mai stata in salita. Cosa deve fare dunque un genitore? Inutile cercare l’uguaglianza tra i figli, ma i genitori dovrebbero cercare di valorizzare ciascun individuo e il sentimento che li lega a loro, convincendoli che ciò che si prova per uno non sarà mai uguale a quello per gli altri. Questo rappresenta il primo passo per una crescita sana, perché rafforza la loro autostima e risponde all’esigenza di sentirsi amati per quel che sono. L’unica cosa cui dobbiamo prestare molta attenzione è che l’altro o gli altri figli “non preferiti” costruiscano su questa delusione o gelosia dei comportamenti reattivi e impropri come il rancore verso i genitori o i fratelli. Ma un genitore si deve sentire in difetto se predilige un figlio piuttosto che per un altro? “Figlio preferito? Inutili i sensi di colpa”. Parla lo psicologo, scrive Staibene.it. Paola Ulissi, psicologa e psicoterapeuta dell’età evolutiva ha idee chiare: “No, il senso di colpa non serve a nulla. Se un genitore ha la consapevolezza di prediligere un figlio piuttosto che un altro deve sapere di dover compensare questa maggiore attrazione. Preferire è umano e lo facciamo con tutti. L’importante è esserne consapevoli. Per quel che riguarda i figli è la consapevolezza che ci può aiutare ad essere giusti nell’affetto, nella relazione, nella stimolazione alla crescita e all’indipendenza”.

Università, Italia prima per nepotismo (ma i dati dicono che sta migliorando). Lo studio su «Pnas»: sono stati contati i docenti con lo stesso cognome. É record rispetto a Francia e Usa. In Campania, Puglia e Sicilia i casi più ricorrenti. Ma la legge del 2010 funziona, diminuiscono le percentuali nel resto d’Italia. Troppi i prof insegnano nella città dove sono nati, scrivono Gianna Fregonara e Alessio Ribaudo il 3 luglio 2017 su "Il Corriere della Sera". Una mappa, non proprio edificante, che mostra come nelle università italiane il nepotismo sia un fenomeno più marcato rispetto ai nostri dirimpettai francesi o agli Stati Uniti. Per quanto riguarda le disparità di genere invece non c’è alcuna differenza: a tutte le latitudini sono marcate. È questa la fotografia scattata dalla ricerca pubblicata sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences(Pnas) dell’Accademia delle scienze degli Stati Uniti. Gli autori sono Stefano Allesina e Jacopo Grilli che lavorano nell’ateneo di Chicago. «Abbiamo analizzato i cognomi di 133 mila ricercatori italiani, francesi e delle migliori università pubbliche Usa — spiega Allesina, carpigiano di 41 anni, docente di Ecologia e Biologia evoluta nell’ateneo dell’Illinois —. Poi, con metodi statistici elementari, abbiamo dimostrato similarità e differenze tra i vari sistemi». Per esempio: gli accademici italiani, specialmente al Sud, tendono a lavorare dove sono nati e cresciuti mentre gli americani si spostano molto di più e hanno una forte immigrazione nelle discipline scientifiche. Il lavoro di analisi è stato lungo. «Abbiamo contato il numero di ricercatori con lo stesso cognome, in ogni dipartimento — dice Allesina — e l’abbiamo confrontato con quello che ci si aspetterebbe se le assunzioni fossero casuali secondo diverse ipotesi. L’abbondanza di ricercatori con lo stesso cognome nello stesso dipartimento potrebbe essere dovuta a effetti geografici (alcuni cognomi sono tipici di una zona) o da una immigrazione specifica (molti ricercatori in informatica negli Stati Uniti provengono dall’Asia). Se la ridondanza non si spiega così, allora potrebbe essere dovuta a professori che fanno assumere parenti stretti». In Italia, si può vedere il bicchiere anche mezzo pieno. «Abbiamo analizzato i dati dal 2000 al 2015 — racconta il docente — e il fenomeno è in calo. Nel 2015 ci sono anomalie solo in Campania, Puglia e Sicilia e i settori disciplinari con segni di nepotismo più evidenti sono Chimica e Medicina. Però, nel 2000 erano sette su 14». I motivi della diminuzione sono vari. «La riforma universitaria del 2010 ha proibito di assumere parenti dei docenti ma, soprattutto, la diminuzione è data dai pensionamenti e dalla riduzione delle assunzioni». «Non misconosco e non nego il fenomeno che è lo specchio della nostra società — avverte Gianni Puglisi, decano della conferenza dei rettori delle università — e questo malcostume va combattuto prima con l’etica e poi con il codice penale. L’università italiana, però, ha ancora grande dignità e lo dimostra il fatto che molti nostri laureati sono assunti pure da atenei stranieri. Non sia una scusa, ma le ricorrenze non sempre significano nepotismo. Ci sono altri docenti con il mio cognome ma nessuno è mio parente o affine. Neanche alla lontana».

Università italiane, nepotismo in calo ma resiste in alcune facoltà. Due ricercatori hanno dimostrato somiglianze e differenze tra i sistemi universitari italiano, francese e statunitense. Concludendo che nei nostri atenei il fenomeno dei dipartimenti passati di padre in figlio si è ridotto negli ultimi 15 anni. Grazie a un articolo della legge Gelmini e al mancato turn over, scrive Corrado Zunino il 3 luglio 2017 su "La Repubblica". C'è un nuovo lavoro del biologo Stefano Allesina, 41 anni, di Carpi, da otto stagioni professore al Dipartimento di Ecologia e Biologia evolutiva dell'Università di Chicago. Nel 2011 aveva pubblicato un rumoroso studio sul tema del nepotismo accademico che certificava come alcune discipline nelle università italiane, Legge, Medicina e Ingegneria su tutte, mostravano una grave scarsità di cognomi suggerendo che il nepotismo fosse la causa dei cognomi mancanti: su 60.288 docenti italiani c'erano settemila casi di omonimia, più della metà di quanto ci si potesse attendere. Il nuovo lavoro - "Nepotismo nei sistemi accademici" - ora sostiene che la Legge Gelmini è riuscita davvero ad abbassare le aliquote dei dipartimenti passati da padre in figlio negli atenei d'Italia. Questa volta - per Last name analysis of mobility, gender imbalance and nepotism across academic systems pubblicato oggi dalla prestigiosa rivista Pnas, organo dell'Accademia delle scienze statunitense - il professor Allesina, laureato a Parma e volato presto negli States "per mancanza di spazio nel mio Paese", ha collaborato con un altro migrant italiano, Jacopo Grilli, lui fisico di trent'anni, laureato alla Statale di Milano e ora arruolato nell'"Allesina Lab" di Chicago, laboratorio privato che mette il calcolo al servizio delle scienze ambientali. Insieme, analizzando liste di nomi ricavate da siti web pubblici, i due ricercatori hanno dimostrato somiglianze e differenze tra il sistema accademico italiano, francese e statunitense. Il professor Allesina e il postdoc Grilli hanno raccolto le generalità dei docenti italiani che nel 2000 (erano 52.004), nel 2005 (cresciuti a 60.288), nel 2010 (scesi a 58.692) e nel 2015 (crollati a 54.102) lavoravano nello stesso dipartimento e hanno ipotizzato che, se il numero dei "cognomi uguali" era superiore alle attese e la sorpresa non era spiegabile con ragioni geografiche o di immigrazione specifica, allora l'abbondanza delle ripetizioni nominali poteva dipendere "dall'abbondanza di professori che fanno assumere parenti stretti". Grilli e Allesina hanno analizzato l'impatto della Legge Gelmini, la "240", che contiene una norma - articolo 18 - che dal 2010 proibisce l'assunzione di parenti fino al quarto grado all'interno dello stesso dipartimento. I risultati ottenuti mostrano che il nepotismo in quindici anni è calato. Nel 2000 sette settori disciplinari su quattordici (la metà) mostravano i segni dell'assunzione familiare. Nel 2015 questo numero si è ridotto a due (Chimica e Medicina). La Legge Gelmini, dicono i ricercatori, non è l'unico fattore che ha portato al decremento del nepotismo: "Il declino era in parte visibile precedentemente ed è dovuto anche ai professori che sono andati in pensione e non sono stati rimpiazzati". L'università italiana è stata "sostanzialmente macellata negli ultimi dieci anni", sostiene Grilli, "con il 10 per cento dei posti persi complessivamente e alcune discipline in cui il personale è stato ridotto di un terzo". Ancora Allesina: "Il nepotismo segnala un problema più generale nel reclutamento. Se un professore può mettere in cattedra il figlio, allora potrà mettere in cattedra chiunque". Sottolinea il ricercatore, ora a Chicago: "Risolvere il problema del reclutamento proibendo l'assunzione di parenti è come risolvere la minaccia delle fughe di gas nella miniera uccidendo il canarino messo come cavia". Significa, ovvero, che l'abbassamento dei conflitti di interesse parentali dovuto a una legge ad hoc ancora non segnala un'inversione di metodo - l'assunzione basata sul merito - nelle università d'Italia. "La famiglia è la croce e delizia della società italiana, il sistema universitario riflette questa situazione", conclude Stefano Allesina. Ancora oggi i ricercatori nel nostro Paese tendono a lavorare dove sono nati e cresciuti mentre gli accademici americani sono caratterizzati da una grande mobilità e da una forte immigrazione, soprattutto dall'Asia, nelle discipline tecniche. In Italia il nepotismo sembra concentrarsi nel dieci per cento dei dipartimenti e in alcune regioni come Campania, Puglia e Sicilia. Con questo lavoro abbiamo risposto alle critiche avanzate sul primo lavoro da alcuni gruppi di divulgazione universitaria: oggi dimostriamo senza ombra di dubbio che i casi di omonimia in eccesso sono dovuti a parentele".

CONCORSO INFINITO: CONCORSO TRUCCATO!

Il Paese dei concorsi infiniti: 100 milioni al mese di spesa e ricorsi sempre in agguato. Il concorso della Banca d'Italia per 30 posti di vice assistente. La corsa al posto fisso alimenta la fabbrica delle selezioni, che durano anni o finiscono al Tar come per Bankitalia, scrive Sergio Rizzo il 4 luglio 2017 su "La Repubblica". Quanto grande sia la fame del posto fisso, nell'Italia dove la disoccupazione giovanile non si schioda dal 40 per cento o giù di lì, lo dice un numero: 393.413. Come se l'intera città di Bologna si fosse presentata in blocco per partecipare a soli due concorsi pubblici. Per la miseria di appena 830 stipendi: 800 da cancelliere, tanto da scatenare gli appetiti di 308.468 persone, e 30 vice-assistenti della Banca d'Italia, con 84.745 concorrenti. Ma la cifra sarebbe stata ancora più sorprendente se al concorso per quei posticini a via Nazionale non fossero stati esclusi in 76 mila diplomati. Ragion per cui sono già pronti i ricorsi per bloccare tutto. I sindacati sono sul piede di guerra perché sostengono che tagliar fuori chi non è laureato sarebbe discriminatorio. E su come potrebbe andare a finire non si possono nutrire particolari dubbi, se è vero che il Tar aveva già bocciato la regola del bando che poneva come limite minimo per l'ammissione un voto di laurea non inferiore a 105. Se c'è una regola, in questo Paese nel quale un articolo della Costituzione (97) prescrive che "agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede tramite concorso" è che non ce n'è uno nel quale fili tutto liscio. Prendete quello per i cancellieri. Per un mese la Fiera di Roma si è trasformata in un girone dantesco, finché il giudice del Lavoro di Firenze Stefania Carlucci ha intimato al ministero della Giustizia di riammettere la signora Mehillaj Orkida, un'albanese esclusa perché non in possesso della cittadinanza italiana. Ha fatto ricorso e il tribunale le ha dato ragione, considerando che la clausola dell'italianità in un concorso per cancellieri "non pare compatibile con la giurisprudenza comunitaria". Sospendendo, di conseguenza, la procedura degli esami "sino alla conclusione del giudizio di merito in modo da permettere ai cittadini comunitari e agli stranieri (...) di essere rimessi in termini per la presentazione delle domanda e partecipare con riserva al concorso". A luglio dello scorso anno era toccato invece al Tar del Lazio, come ha raccontato Marco Ruffolo sulle pagine del nostro Affari & Finanza, annullare il primo concorso regionale per 40 infermieri bandito negli ultimi nove anni. Sei mesi dopo gli esami per l'assunzione di 34 impiegati sono finiti sotto la mannaia del Tar dell'Umbria, mentre il Tar del Piemonte bloccava il concorso per 150 infermieri a Torino, dopo che in 2.500 avevano già superato le selezioni. Ma questo è niente rispetto a quello che è successo per il concorsone del Comune di Roma, con il quale si sarebbe dovuto fra l'altro rimpinguare di 300 unità il corpo dei vigili urbani della Capitale. Bandito nel 2010, è stato sospeso per sette anni. E qui, per una volta tanto, quella magistratura amministrativa che spesso e volentieri imprigiona il Paese con le sue decisioni (al punto che Romano Prodi si è schierato a un certo punto per la sua abolizione) non c'entra nulla. Prima la defenestrazione del presidente di commissione, il capo dei vigili urbani. Quindi la scoperta che le buste lasciavano intravedere il contenuto. Infine una seconda e una terza commissione dimissionarie. Insomma un pasticcio incredibile, che solo adesso pare avviato all'esito finale: a giorni, sembra, ecco gli orali. Per le assunzioni, poi, si vedrà. Perché una cosa è superare il concorso, un'altra è avere la certezza di essere assunti. A una signora di Pavia che l'esame l'aveva superato, e brillantemente, per l'assunzione alla locale Asl, è per esempio capitato di ricevere anziché la lettera d'incarico una comunicazione in cui si annunciava l'annullamento delle prove. Il motivo l'ha spiegato Luigi Ferrarella sul Corriere: le prove "non rispettano, in termini di eccessiva complessità, le indicazioni del bando per quanto attiene alle prove di idoneità in esso contenute, con conseguente violazione della lex specialis che il bando medesimo costituisce ". Le domande sono troppo difficili, quindi non vale: ci credereste? Per contro, procede invece senza intoppi il concorso per laureati in beni culturali bandito nell'estate del 2016 con un quesito sul materiale di cui sono composti i Bronzi di Riace con tre possibili soluzioni: a) legno; b) marmo); c) bronzo. Il fatto è, hanno spiegato gli studiosi Cristina Giorgiantonio, Tommaso Orlando, Giuliana Palumbo e Lucio Rizzica in un “Occasional paper” della Banca d'Italia, che il sistema dei concorsi italiani fa acqua da tutte le parti, fornendo un contributo fondamentale allo scadente livello della nostra burocrazia. Intanto "le caratteristiche strutturali del sistema di reclutamento non sembrano adeguatamente favorire l'ingresso dei candidati migliori". E poi i costi, non trascurabili. Il 45% di chi affronta un concorso studia almeno cinque mesi senza lavorare. Per poi finire magari invischiato in un groviglio inestricabile di ricorsi. Costi così elevati possono scoraggiare "i candidati più capaci e con migliori prospettive di mercato". Con il risultato di avvantaggiare "coloro che hanno più tempo da dedicare alla preparazione della prova, generalmente i non occupati. Nostre analisi", argomenta il dossier, "mostrano che la probabilità di superare un concorso dipende in maniera sostanziale da quest'ultima variabile piuttosto che dall'abilità del candidato". Non bastasse, le prove sono basate su quesiti nozionistici, facendo passare in secondo piano altre valutazioni importanti, quali per esempio le motivazioni personali. Si è calcolato che il "costo opportunità" per il Paese sopportato nel 2014 per 280 mila partecipanti ai concorsi pubblici abbia superato il miliardo e 400 milioni. Più di cento milioni al mese, e per trovarsi spesso e volentieri con un pugno di mosche in mano.

IL FASCINO DEL CONCORSO PUBBLICO E DEGLI ESAMI DI STATO (TRUCCATI).

L’eterno fascino del concorso. Palasport, sale da cinema, hangar, hotel, palestre, saloni delle fiere. Così migliaia di giovani inseguono il sogno di un impiego. Diecimila giovani per 14 posti da poliziotto a Milano, 1099 ragazze per un posto da infermiera a Cremona, scrive Dario Di Vico il 25 febbraio 2017 su “Il Corriere della Sera”. Un giovane fotografo, Michele Borzoni, ha investito una buona quota del suo tempo per girare e ritrarre l’Italia dei concorsi. Le sue istantanee sono state pubblicate a Parigi nell’ambito del Festival de Circulation(s), una manifestazione che ospita il meglio della giovane fotografia europea. Dobbiamo essergli grati perché ci ha regalato uno spaccato di quell’Italia che, volente o nolente, insegue l’impiego nella funzione pubblica. Borzoni ci dice che in qualche maniera quello che era il sogno dei padri oggi si ripropone anche per i figli. Gli hotel, i palasport, i saloni delle fiere, le palestre, le sale spettacoli e persino gli hangar che Michele ha fotografato sono gremiti di ragazzi e ragazze — rigorosamente distanziati per evitare che possano copiare — che aspettano di staccare il loro biglietto della lotteria. Diecimila giovani per 14 posti da poliziotto a Milano, 2.813 concorrenti per 12 posti nelle scuole materne a Firenze, 238 ragazzi per un posto in un laboratorio medicale a Palermo. Con una calcolatrice si può stilare una classifica delle (scarse) probabilità di farcela e in testa nella graduatoria del miraggio c’è il posto da infermiera a Cremona per il quale si sono mobilitate 1.099 ragazze. Borzoni sostiene che questi esami sono «il tempio della burocrazia italiana» ed è difficile dargli torto. Non solo assomigliano alla più classica delle lotterie ma iscriversi non è nemmeno facile, e capita anche che chi va a sostenere la prova d’esame in realtà sia solo una quota parte di quanti, fiduciosi, prima si erano iscritti e poi hanno lasciato perdere. Si potrà obiettare che le foto di Borzoni non ci rivelano niente che già non sapessimo ma oggi non deve essere il tempo del cinismo. Lo zoccolo duro della disuguaglianza italiana sta lì, nei numeri di una disoccupazione giovanile tra le più alte d’Europa. Si tenta di aggredirla ma purtroppo la sproporzione tra i posti che si generano e quelli che sarebbero necessari è clamorosa. Le istantanee di Borzoni, dunque, ci invitano a non desistere. È una battaglia che dobbiamo continuare a combattere e non è concesso di arrendersi.

LA REPUBBLICA DEI BROCCHI NEL REGNO DELL'OMERTA' E DEL PRIVILEGIO.

Una buona parola per tutti. Da Andreotti a Giolitti le suppliche per posti e case, scrive Matteo Pucciareli il 20 marzo 2017 su "La Repubblica". "Il signor Paolo M., da Latina, ha in corso presso codesto ente una domanda di assunzione. È possibile accontentarlo?". Firmato, Giulio Andreotti. Oppure: "Mi consenta di segnalarle, per quanto riguarda le Istituzioni di diritto romano, il professor Emilio B.". Firmato, Aldo Moro. Ancora: "Ti unisco l'appunto relativo al signor Ignazio S. e ti prego di un particolare interessamento in suo favore". Firmato, Oscar Luigi Scalfaro. Linguaggio semplice, asciutto, diretto: le lettere su carta intestata e protocollate sono decine, alcune scritte a mano, tutte datate fra i primi anni '50 e metà degli anni '60. I mittenti sono deputati della Democrazia cristiana, dirigenti della Cisl, monsignori; i destinatari sono ministri, sottosegretari e dirigenti di aziende parastatali. Un ufficio di collocamento parallelo, la Prima Repubblica in tutta la sua "ingenuità", per certi versi: si chiedeva un alloggio popolare per tal famiglia, un aumento di stipendio per l'invalido di guerra, la revoca di un trasferimento per un padre di famiglia e così via. Tutti scrivono, chiedono "ogni possibile benevolenza" e i "possibili consentiti riguardi" ai propri interlocutori, affinché intercedano: Emilio Colombo, Francesco Cossiga, Ciriaco De Mita, Arnaldo Forlani, Antonio Gava, Giorgio La Pira, Giovanni Leone, Antonio Segni, don Luigi Sturzo, Paolo Emilio Taviani, Benigno Zaccagnini. Dc in maggioranza assoluta, come si vede. Tra i documenti una sola firma extra-scudocrociato: quella del socialista Antonio Giolitti. Le missive erano tutte tra i faldoni dell'Archivio di Stato e come siano arrivate fin qui, su queste pagine, è una storia nella storia: l'impiegato Dante S. venne dislocato agli uffici archivistici dell'Eur a inizio anni '80. Persona mite, politicamente moderata - figlio di emigranti emiliani che prima si trasferirono in Inghilterra, poi in Libia e solo dopo la guerra rientrarono in Italia, a Roma - e senza particolari fervori rivoluzionari, alla visione di quelle centinaia e centinaia di lettere di raccomandazione non la prese bene. Le trafugò, una dopo l'altra, con l'idea di farne dono al figlio, allora militante della sinistra extraparlamentare. Sperando che fosse lui, in qualche modo, a "vendicare" quell'ingiustizia. Quello spaccato di storia contemporanea è rimasto per 35 anni dentro uno sgabuzzino, gelosamente custodito.

Ogni comunicazione è una storia a sé. Il deputato fiorentino della sinistra dc Renato Cappugi scrive al collega Pietro Germani: "Ti unisco un promemoria riguardante un nostro carissimo amico dell'Azione cattolica, Dc, Acli, Sindacati liberi. Desidera essere riassunto presso l'Intendenza di Finanza di Firenze. Ti prego, con eccezionale interesse, di voler fare tutto quanto è in tuo potere a tal fine". Ma le cose evidentemente vanno male e due mesi dopo Cappugi riscrive a Germani, gli spiega che il suo elettore è amareggiato: "Rileva la fortuna, diciamo così, che purtroppo hanno quasi sempre i "compagni" ogni qual volta si trovano a competere con i nostri". Cappugi continua: "Si tratta di uno dei nostri a prova di bomba e, credi, fa male al cuore pensare che non sia possibile trovare il modo di metterlo a posto. Vedi, caro Germani, se mi dai un buon consiglio e se mi aiuti...".

La Cisl nel 1954 chiede a un deputato della Dc, commissario governativo all'Ente economico zootecnia, di non far pagare al sindacato le spese processuali di una causa intentata in passato (e persa) contro lo stesso ente: "Fu intentata a nostra insaputa dal vecchio segretario provinciale di Perugia. Sono certo che non mancherà il tuo interessamento", scrive il segretario generale aggiunto Bruno Storti. Un altro onorevole ancora, prega lo stesso destinatario che venga pagata con celerità la liquidazione "di un nostro bravo attivista che si è tanto adoperato nella campagna elettorale. Mi faresti cosa gradita se potessi assecondare il suo desiderio".

Nel 1962 il sottosegretario sardo Salvatore Mannironi scrive al presidente delle case degli impiegati statali Umberto Ortolani (poi diventano uomo della P2): "L'appuntato dei carabinieri Sebastiano R., domiciliato a Tempio Pausania, deve eseguire alcuni lavori indispensabili ai servizi igienici per una spesa prevista di 77mila lire. Le sarò grato se vorrà esaminare la possibilità di autorizzare detti lavori con spese a carico dell'istituto, trattandosi di una somma molto elevata per le limitate possibilità economiche del R.". Un altro ras della Dc calabrese, Riccardo Misasi, sottosegretario anche lui, comunica che "Francesco Z. ha avanzato domanda per ottenere in affitto un locale, possibilmente nel lotto II° delle scuole elementari, nella borgata di Torrespaccata, da adibire a bar".

Ci si interessa anche per motivazioni in apparenza minori. Il ministro Bernardo Mattarella, padre dell'attuale presidente della Repubblica, interpella Heros Cuzari, presidente dell'Ente zolfi italiani: "Con la tua cortese lettera mi hai comunicato la concessione di un sussidio straordinario di 15mila lire a favore del signor Ignazio A. ma l'Ufficio regionale di Palermo trasmetteva un vaglia cambiario di 10mila lire. Ti sarò grato se vorrai gentilmente chiarirmi i motivi della discordanza ". Talvolta le richieste sono pressanti. L'arcivescovo di Bologna Giacomo Lercaro si rivolge all'"illustrissimo commendatore" commissario dell'Ente zootecnia: perora la causa di Giorgio G., che vorrebbe essere assunto. Viene descritto come una persona di "ineccepibile moralità, di fini sentimenti, attivo, capace e laborioso, da me ben conosciuto perché da un anno dà la sua opera, animata di spirito caritatevole, volontariamente, presso la mia segreteria. Il poter vedere sistemato questo giovane sarebbe per me causa di molto contento". Il monsignore viene accontentato, ma con un impiego di soli tre mesi. Allora Lercaro riscrive: "Abuso della sua gentilezza se le chiedo che il G. sia trattenuto e riconfermato?". La sponsorizzazione non sortisce effetto, allora insiste con una ulteriore lettera: "Le sarò grato se vorrà benevolmente accogliere questa mia ulteriore umile richiesta e dar consistenza alle aspirazioni del G.". Allora finalmente G. viene assunto a tempo indeterminato alla Gestione centri latti di Bologna: "La prego di gradire il mio più devoto e profondo ossequio", ringrazia il cardinale.

Non è facile fare contenti tutti. Nel 1958 il senatore liberale Edoardo Battaglia quasi si sfoga con il principe Franco Lanza di Scalea, presidente dell'Ente zolfi: "Tu sai che io di richieste ne ho infinitamente assai e sono in grado di fornirti dall'usciere al segretario particolare più abile. Allora gradirei sapere quali dovrebbero essere le qualità della persona (almeno una) che potresti assumere".

La piaggeria trasuda dalle formule di saluto: "carissimo", "devoti saluti", "distintamente ossequio", "vivi ringraziamenti", "devotissimo", "obbligatissimo". Una tra tante suona perlomeno più originale: "tante affettuosità".

Il regno dell’omertà e del privilegio. Perché in Italia vincono i mediocri. Il nuovo libro di Sergio Rizzo, «La Repubblica dei Brocchi», denuncia i comportamenti senza vergogna della classe dirigente pubblica e privata, scrive Ferruccio De Bortoli l'1 novembre 2016 su "Il Corriere della Sera". Il dominio esercitato dal ceto dirigente burocratico su un’Italia bendata che non è in grado di controllarlo. La Repubblica dei Brocchi di Sergio Rizzo (Feltrinelli) è un tagliente atto d’accusa nei confronti della classe dirigente italiana. Spietato. Non risparmia nessuno. Nemmeno i giornalisti. Nel leggerlo mi è venuto in mente, non solo per assonanza, un pamphlet pubblicato nella Francia d’inizio secolo scorso. La République des Camarades, ovvero dei compari, di Robert de Jouvenel, riproposto in Italia, qualche anno fa, a cura di Emanuele Bruzzone. Quando la democrazia deperisce nella ragnatela delle amicizie compiacenti, gli interessi particolari e le relazioni oscure. Ma il racconto giornalistico di Rizzo è così ricco di episodi di malcostume o di semplice incoerenza o stupidità da ridurre, nel confronto, lo scritto sui mali della Terza Repubblica francese alla mera fisiologia del potere. Nel caso italiano di normale c’è molto, troppo. La furbizia elevata a dote ostentata della vita sociale, la facilità con cui si violano le norme senza pagarne mai un dazio in termini di minore reputazione, la tendenza a sentirsi sempre vittime, imputando agli altri i mali del Paese. Al punto che lo straordinario saggio di Rizzo sul declino della classe dirigente (pubblica e privata, sia ben chiaro) italiana, poteva benissimo avere un altro titolo. I brocchi hanno talento. Sono inaffondabili. Sono esempi di successo. E a volte abbiamo la netta sensazione che, alla fine, vincano loro. Rizzo ha la freddezza del giornalista e commentatore d’inchiesta, attento al dettaglio, che non fa sconti, ma non è privo di speranza. Riconosce le tante qualità del Paese, le molte eccellenze, il capitale sociale della solidarietà e termina il suo libro con quelli che lui chiama piccoli consigli. Codici etici, per esempio, che non siano solo foglie di fico stese sul miope corporativismo italiano. Quello che fa dire ai tanti che si comportano bene: siamo tutti colleghi, dunque diamoci una mano. E chiudiamo un occhio, non si sa mai, prima o poi potrebbe accadere anche a noi. Un impegno autentico nel moralizzare la politica, magari attuando quell’articolo 49 della Costituzione sulla trasparenza e la democraticità della vita dei partiti. Oppure accogliendo, quando si formano le liste per le elezioni di qualsiasi natura, il «piccolo consiglio» di Gustavo Ghidini, storico fondatore del Movimento consumatori: dichiarare pendenze penali, situazione patrimoniale, interessi in conflitto. Proposta tanto semplice da essere caduta sempre nel vuoto. Del resto l’articolo 54 della Costituzione recita: «I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina e onore». Sia l’articolo 49 sia il 54 della Costituzione del 1948 sono rimasti largamente inattuati. È giusto riformare, ma forse è anche doveroso attuare. Senza vergogna. Ecco il filo conduttore delle tante storie raccontate da Rizzo. A volte si rimane senza parole, potremmo persino dire ammirati, nel costatare l’immensa fantasia giuridica degli italiani. Che cosa non si fa per mantenere un vitalizio, per giustificare un privilegio, e persino per aggirare i risultati di un concorso. Come quello della Asl (oggi si chiamano Ats) di Pavia, vinto da un’unica candidata, evidentemente sgradita, e annullato perché le domande sono state ritenute «troppo difficili». Un’eccezione si trova sempre. Per far sì, ad esempio, che i dirigenti statali chiamati a ricoprire incarichi negli organi collegiali delle società pubbliche, siano pagati a dispetto della gratuità inizialmente prevista per legge. O consentire a un prefetto di assumere la carica di sindaco della sua città. La burocrazia è refrattaria ad essere giudicata (le resistenze alla pur lieve riforma Madia ne sono una prova). Rizzo ricorda un’indagine del 2014, secondo la quale tutti i dirigenti pubblici di prima fascia hanno avuto una valutazione non inferiore a nove su dieci. Tutti geni o tutti, in qualche modo, complici. Il sindacato non è da meno, specie quello nel pubblico impiego e nelle municipalizzate. All’Azienda trasporti di Roma è prevista la concessione, nel 2016, di 131 mila ore di agibilità sindacale, corrispondenti al lavoro di 82 persone, per un costo di 4,3 milioni. Il dopolavoro, cioè il sindacato, gestisce mense ed altri servizi. A costi d’affezione. Chi ha proposto di sostituire la mensa, costosa come un ristorante stellato, con i buoni pasto si è visto tagliare le gomme della sua auto. A proposito di gomme, quelle dei mezzi circolanti in città sono fornite da una società esterna gestita da un funzionario Atac in aspettativa. C’è posto per tutti, parenti e amici, meglio se di sindacalisti importanti. Il servizio, o quello che resta, per gli utenti, può aspettare. Non stupisce nessuno che un ex giudice della Corte costituzionale difenda contro lo Stato un condannato per truffa. Né che membri dell’Avvocatura si rivolgano al Tar contro la decisione del governo di mandarli in pensione a 70 (settanta!) anni, o che magistrati si rivolgano alla Corte costituzionale per contestare un taglio in busta paga. Certo, sono cittadini come gli altri. L’esempio, come servitori dello Stato, censurabile. La classe dirigente privata non è migliore di quella pubblica. Spesso persino peggiore. «Burocrazia, concorrenza inesistente, incarichi affidati sulla base di relazioni personali. Eccole qui — scrive Rizzo — le cause del degrado generale di certe professioni». Le vicende dei dopo terremoto sono assai significative per giudicare il ruolo, non sempre professionale, dei tecnici chiamati a fare le perizie. Rizzo ricorda che il cratere del sisma che colpì, nel 2002, il Molise riguardava 14 comuni. Aumentati in seguito a 83, ovvero tutti quelli della provincia di Campobasso. Tranne uno. Guardiaregia, il cui sindaco non aveva denunciato danni. E probabilmente non è passato come un custode della legalità. I troppi scandali bancari pongono un interrogativo sulla qualità e la moralità di diversi manager, consiglieri d’amministrazione, sindaci, revisori e sulla loro incapacità di vedere o denunciare pratiche sospette. E aprono uno squarcio — che Rizzo indaga in profondità — su una certa omertà territoriale, sull’orgoglio delle appartenenze che sconfina spesso in complicità. Anche la Confindustria, nel suo gigantismo rappresentativo, fa parte della Repubblica dei Brocchi. Emergono le figure dei professionisti delle associazioni, collezionisti d’incarichi. Un mondo che riproduce al proprio interno difetti che denuncia come inaccettabili per la politica e per il resto della società.

Concorsi Pubblici ed abilitazioni Truccati. Chi è senza peccato scagli la prima pietra.

Il concorso truccato per magistrati. Un avvocato svela la truffa del 1992. Il Csm ammette: il suo scritto non è mai stato esaminato, scrive il 28/09/2017 Selma Chiosso su “La Stampa”. Era vestita di bianco, Francesca Morvillo. E’ il 23 maggio 1992 e all’hotel Ergife di Roma è il giorno dell’abbinamento delle buste del concorso in magistratura per uditore giudiziario: mercoledì 20, diritto penale; giovedì 21, diritto amministrativo; venerdì 22, diritto privato con riferimento al diritto romano. Lei alle 16 saluta, deve prendere l’aereo per Palermo. Rimarrà uccisa insieme a suo marito, Giovanni Falcone. È il primo colpo di scena del concorso durante le stragi di mafia. Concorso tanto particolare da finire ora in un libro scritto dal professore Cosimo Lorè e pubblicato da Giuffrè. Il dietro le quinte lo si deve 25 anni dopo alla caparbietà di Pierpaolo Berardi, avvocato astigiano. L’allora giovane legale è uno dei candidati. Quando legge il titolo del tema di penale si frega le mani soddisfatto: quel caso da sviluppare sulla responsabilità penale nel trattamento medico lo ha appena affrontato in tribunale; la prova di amministrativo fila liscia; quella di diritto privato e romano è stata oggetto di un seminario seguito poco prima. Un anno dopo, quando escono i risultati degli scritti, non riesce a credere ai suoi occhi: bocciato.  Ed è lì che inizia la sua battaglia; da un lato Tar e Consiglio di Stato che gli danno ragione, dall’altra il ministero e il Csm che oppongono resistenza. L’avvocato chiede di potere vedere i suoi scritti e il verbale. «Mi dissero al telefono che il verbale non c’era» racconta oggi. Quando, dopo un ennesimo vittorioso ricorso al Tar, ha prove e verbali ecco cosa scopre: «I mie temi e quelli di altri non vennero assolutamente corretti. Ho calcolato i tempi: tre prove giuridiche complesse per ogni candidato e grafie diverse possono essere corrette ed esaminate riportando voti e verbale per ciascuno in 3 minuti? Evidentemente no».  Va avanti e la legge gli consente di chiedere anche le prove degli altri candidati promossi. E lì scopre altre perle: temi riconoscibili perché scritti su una sola facciata, altri in stampatello; alcuni pieni di errori giuridici, altri idonei ma senza voto. Un candidato svolge il tema con una traccia diversa da quella indicata; uno scrive con una calligrafia doppia; un altro (si potevano solo consultare i codici) è degno di Pico della Mirandola: pagine e pagine copiate da manuali di Diritto. Tra i temi casuali che Berardi chiede di visionare c’è anche quello di Francesco Filocamo, attuale magistrato al tribunale di Civitavecchia ed estratto a sorte come presidente del tribunale dei ministri. Il ministero con estremo imbarazzo risponde a Berardi: le sue prove non sono in archivio. Un giallo.  Partono i ricorsi. A Perugia Berardi viene sentito da un pm con presente come uditrice una magistrata che aveva vinto quel concorso. Quando Tar e Csm ordinano di ricorreggere i suoi temi anziché nominare una nuova commissione è la stessa che lo aveva bocciato a farlo.  Nel 2008 il Csm dopo aver sempre affermato che era tutto regolare riconosce all’unanimità che gli elaborati dell’avvocato Berardi non furono mai esaminati dalla Commissione. Conseguenze? Nessuna.  

Un concorso truccato per aspiranti magistrati. Un avvocato svela la “truffa” subita nel 1992, scrive il 28 settembre 2017 "Il Corriere del Giorno".  Il Consiglio Superiore della Magistratura costretto ad ammettere: il suo scritto non era mai stato esaminato. Conseguenze? Nessuna! La vera “casta” porta la toga…Era il 23 maggio 1992 e all’Hotel Ergife sulla via Aurelia a Roma è il giorno dell’abbinamento delle buste del concorso in magistratura per uditore giudiziario: mercoledì 20, diritto penale; giovedì 21, diritto amministrativo; venerdì 22, diritto privato con riferimento al diritto romano. C’era anche Francesca Morvillo la compianta moglie del giudice Falcone, la quale alle 16 salutò tutti andando via. Doveva prendere quel maledetto aereo che la portò a Palermo dove venne uccisa insieme a suo marito, Giovanni Falcone. È il primo colpo di scena del concorso durante le stragi di mafia.

Un concorso così particolare da essere finito in un libro scritto dal professore Cosimo Lorè e pubblicato da Giuffrè Editore.  Scoprire il dietro le quinte di quel concorso, svelato 25 anni dopo, è stato possibile alla tenacia un avvocato di Asti, Pierpaolo Berardi all’epoca dei fatti un giovane legale candidato a quel concorso, il quale racconta che allorquando lesse il titolo del tema di diritto penale era più che soddisfatto: proprio quel caso da sviluppare sulla responsabilità penale nel trattamento medico, oggetto del concorso, lui lo aveva appena affrontato in Tribunale. La successiva prova di diritto amministrativo andò anche lei bene; quella di diritto privato e romano era stata oggetto di un seminario che aveva seguito poco prima del concorso. Ma passato un anno dopo quel concorso, allorquando vennero resi noti i risultati degli esami scritti, l’avvocato Berardi esito a poter credere ai suoi occhi. Era stato bocciato. Fu in quel momento che iniziò la sua battaglia legale. Il Tar ed Consiglio di Stato gli dettero ragione, mentre il Ministero di Giustizia e il Consiglio Superiore della Magistratura alzarono il loro solito muro di gomma “politico”. L’avvocato Berardi chiese legittimamente di potere vedere i suoi scritti e il verbale, ma – come racconta oggi al quotidiano LA STAMPA – “Mi dissero al telefono che il verbale non c’era”. Dopo un ennesimo ricorso vittorioso al Tar, il legale piemontese ottenne le prove ed i verbali del suo esame, da cui arrivò l’ennesima sorpresa: “I mie temi e quelli di altri non vennero assolutamente corretti. Ho calcolato i tempi: tre prove giuridiche complesse per ogni candidato e grafie diverse possono essere corrette ed esaminate riportando voti e verbale per ciascuno in 3 minuti? Evidentemente no”. Berardi non si fermò ed andò avanti, infatti la Legge gli consentiva di poter di chiedere anche le prove degli altri candidati promossi. E lì scoprì tante altre anomalie ed illegalità. I temi erano facilmente riconoscibili perché una volta scritti su una sola facciata, altre volte in stampatello, alcuni persino pieni di macroscopici errori giuridici, altri idonei come il suo, ma sui cui non era stato apposto alcun voto. Addirittura un candidato elaborò il tema su una traccia diversa da quella indicata nell’esame.  Qualcuno scrisse con una calligrafia doppia (per far riconoscere il suo elaborato a chi doveva esaminare; un altro () aveva riportato copiando pagine e pagine copiate da manuali di Diritto, mentre si potevano solo consultare i codici. Tra i temi casuali che Berardi chiede di visionare c’è anche quello di Francesco Filocamo, attuale magistrato al Tribunale di Civitavecchia ed estratto a sorte come presidente del Tribunale dei Ministri. Il Ministero di Giustizia con estremo imbarazzo è costretto a risponde a Berardi ammettendo l’inverosimile e cioè che le sue prove non sono in archivio. Uno scandalo o una vergogna? Probabilmente entrambi. Partono i ricorsi. L’avvocato Berardi viene ascoltato a Perugia da un sostituto procuratore della Repubblica alla presenza come uditrice, di una magistrata che aveva vinto proprio quel concorso. Ma non è finita. Infatti quando il Tar ed il Consiglio Superiore della Magistratura ordinano di ricorreggere i suoi temi, invece di nominare una nuova commissione, incredibilmente viene chiamato a valutarlo la stessa che lo aveva bocciato! Dopo aver sempre affermato che era tutto regolare, il Consiglio Superiore della Magistratura nel 2008 è costretto a riconoscere all’unanimità che gli elaborati dell’avvocato Berardi non erano mai stati esaminati dalla Commissione. Conseguenze? Nessuna.  E poi parlando di indipendenza della magistratura… In realtà si sentono degli “intoccabili”.

Toga vinta ‘un si rigioca, scrive Cosimo Loré, Docente universitario e scrittore, l'11 ottobre 2010 su "Il Fatto Quotidiano". Se si entra in una bisca non si può pretendere che si giochi pulito! E le selezioni pubbliche si presumono truccate ma si confermano tali appena i controlli verificano i tempi di un concorso. Come ben risulta fin da quelli per magistrato. Da chi si ricorre poi se iudex si diventa in tal modo? Si legga Le toghe ignoranti (L’espresso 9.9.2010) dove l’avvocato penalista di Asti Pierpaolo Berardi ricorda il calvario per la ricerca della verità su imbrogli a catena per commettere prima e occultare poi la serie di illeciti fatti da magistrati e politici che lo bocciarono nel concorso in magistratura svoltosi nel maggio 1992; lo boicottarono intralciandone i ricorsi per ben 16 anni: il 30 aprile del 2008, però, il plenum del Csm riconobbe che gli elaborati dell’avvocato Berardi non furono mai esaminati dalla commissione: l’organo di controllo dei giudici dei futuri giudici, il Csm, riconobbe il falso ideologico presente nel verbale, che invece affermava esservi stato l’esame delle prove scritte. Conseguenza in relazione a questo deliberato: nessuna. Intanto gli elaborati di un candidato vincitore, certamente esaminati, sono spariti dagli archivi del ministero: il padre è un magistrato ora in pensione, la mamma e il fratello magistrati in servizio; i cugini sono anch’essi magistrati; uno aveva superato il concorso del ’92, l’altro fuori ruolo al ministero ebbe l’incarico di esaminare un esposto dell’avvocato Berardi sul concorso, intanto vinto dal fratello e dal cugino…

Nel nostro volume Medicina Diritto Comunicazione (Giuffrè Milano 2005) scrivevamo…«L’attività dei seri ricercatori, la formazione dei giovani studenti, la memoria dei grandi maestri sarebbero meglio garantite se si provvedesse ad una più seria verifica (i concorsi sarebbero pubblici…) della idoneità oltre che della capacità di chi aspira ad indossare una toga. Non meno coraggiosa la denuncia dell’avvocato Pierpaolo Berardi nata nel 1992, anno in cui consegnò i propri scritti al concorso per magistrato, grazie alla legge 241 del 1990 che gli ha consentito di verificare con quale fraudolenti trucchi e impudichi marchingegni arraffarono la toga molti candidati (gli scritti sarebbero da pubblicare e studiare per far comprendere le ragioni reali di alcune disfunzioni della giustizia…). Su tale indagine vi sarebbe stato il silenzio-stampa (di fronte a fatti simili non c’è destra o sinistra che tenga…) se non avessero ritenuto di rendere pubblica questa vicenda – che a ragione si può definire storica – due giornalisti che onorano la professione e che riteniamo doveroso citare: Massimo Numa (La Stampa del 9 settembre 2004 a pag. 12, Lo strano concorso che fa tremare trecento magistrati) e Anna Maria Greco (Il Giornale del 10 settembre 2004 a pag. 10, Dopo dodici anni, concorso «sospetto», 275 toghe rischiano il posto).» La convinzione di molti  ̶  all’interno e all’esterno degli ambiti giudiziari e accademici  ̶  è che si tratti di aree affrancate da ogni forma di controllo e caratterizzate dall’assoluto arbitrio. In sostanza ed in sintesi vi è un assai consistente rischio – nel caso si vogliano adire le vie legali – di incappare in giudici non degni della toga indossata, talora con cupa alterigia …

Concorso truffa in magistratura: i testimoni raccontano, scrive il 28 Settembre 2017 "Zone d’Ombra". La storia è una di quelle tipiche italiane. Una di quelle, per intenderci, in cui spesso ci sono di mezzo politici e personaggi poco trasparenti. Questa volta, però, c'è di mezzo l'organo istituzionale che dovrebbe garantire il rispetto della legge. La vicenda è finita, 25 anni dopo, in un libro scritto dal professore Cosimo Lorè e pubblicato da Giuffrè. Pierpaolo Berardi, allora giovane legale, è uno dei candidati di un concorso in magistratura: era il 23 maggio del 1992. A quel concorso avrebbe dovuto partecipare anche Francesca Morvillo, moglie di Giovanni Falcone rimasta uccisa poco dopo. Berardi alla lettura del titolo del tema di penale non crede ai suoi occhi: quel caso da sviluppare sulla responsabilità penale nel trattamento medico lo ha appena affrontato in tribunale. Tutto fila liscio. Quando un anno dopo escono i risultati degli scritti, però, Berardi legge di essere stato bocciato.  Lui non ci sta e intraprende una battaglia. Tar e Consiglio di Stato che gli danno ragione, ma il ministero e il Csm che oppongono resistenza. Come racconta La Stampa, l’avvocato chiede di potere vedere i suoi scritti e il verbale ma il verbale non c’era. Berardi dopo aver vinto un ricorso al Tar scopre che: "I mie temi e quelli di altri non vennero assolutamente corretti. Ho calcolato i tempi: tre prove giuridiche complesse per ogni candidato e grafie diverse possono essere corrette ed esaminate riportando voti e verbale per ciascuno in 3 minuti? Evidentemente no".   L'avvocato non si ferma e va avanti nella sua battaglia. Visiona anche le prove degli altri candidati promossi e scopre altre questioni: i temi sono riconoscibili perché scritti su una sola facciata, altri in stampatello; alcuni pieni di errori giuridici, altri idonei ma senza voto. Un candidato svolge il tema con una traccia diversa da quella indicata; uno scrive con una calligrafia doppia; un altro copia pagine e pagine di manuali di Diritto.  A quel punto partono i ricorsi. A Perugia Berardi viene sentito da un pm con presente come uditrice una magistrata che aveva vinto quel concorso. Quando Tar e Csm ordinano di ricorreggere i suoi temi anziché nominare una nuova commissione è la stessa che lo aveva bocciato a farlo.  "Nel 2008 il Csm dopo aver sempre affermato che era tutto regolare riconosce all’unanimità che gli elaborati dell’avvocato Berardi non furono mai esaminati dalla Commissione. Conseguenze? Nessuna."  

La storia dell'avvocato Di Nardo. Un'altra denuncia sui presunti concorso truccati in magistratura è quella fatta dall'avvocato isernino, Giovanni Di Nardo. Nel 2014 l'avvocato partecipò al concorso in magistratura ma, dopo l'esame, arrivò la lettera dal ministero della giustizia che lo informò sulla non ammissione. A quel punto Di Nardo fa ricorso al Tar chiedendo in visione i compiti contenuti nella busta del primo candidato, dopo di lui, che aveva superato gli scritti. La copia risulta essere piena di errori ortografici e di sintassi. A quel punti Di Nardo presenta una denuncia alla Procura di Roma e al Csm. La denuncia viene archiviata. Di Nardo presenta un esposto alla Procura Generale e, a quel punto, viene ripresa in carico dalla Procura di Roma che ne chiede l’archiviazione. Di Nardo si oppone ed è in attesa della Camera di Consiglio che deciderà se mandare avanti l’inchiesta.

Corrado Carnevale: "Al concorso in magistratura, Di Pietro ha avuto due aiutini". L'ex giudice Corrado Carnevale: "Era stato in seminario ed era di famiglia povera. Fu così che chiusi un occhio", scrive Rachele Nenzi, Mercoledì 29/10/2014, su "Il Giornale". "Al concorso in magistratura Antonio Di Pietro ha avuto due "aiutini" agli scritti e poi è stato "stampellato" all’orale". A svelare questo dettaglio sulla carriera dell'ex toga di Mani Pulite è il Tempo che riporta quanto detto dall’avvocato Roberto Aloisio, legale del giudice in pensione Corrado Carnevale, al collegio della prima sezione civile della Corte d’Appello di Roma. Come scrive il quotidiano romano, "la vicenda giudiziaria prende le mosse da un’intervista che nel 2008 Carnevale rilasciò al condirettore del giornale online "Petrus", Bruno Volpe, in cui confessò di essersi pentito di aver fatto promuovere Di Pietro al concorso in magistratura. Fu un grande errore – svelò l’allora presidente della prima sezione penale della Corte di Cassazione – Mi lasciai commuovere dal suo curriculum. Era stato in seminario ed era di famiglia povera. Fu così che chiusi un occhio davanti ad alcune sue lacune". Corrado Carnevale è tornato in aula per difendersi dall'accusa di diffamazione mossa da Antonio Di Pietro. Il Tribunale civile di Roma recentemente ha condannato l’ex presidente della Cassazione a risarcire l’ex leader dell’Italia dei Valori di 15 mila euro, a fronte dei 200 mila chiesti da Di Pietro nell’atto di citazione. Ora i legali di Carnevale hanno chiesto alla Corte d’Appello di sospendere l’efficacia esecutiva della sentenza. Durante il dibattimento in tribunale, il legale di Carnevale ha ribadito le dichiarazioni del suo assistito: "In un’intervista in cui si parlava del fenomeno di Mani Pulite, il presidente Carnevale rispose che aveva sbagliato a valutare Di Pietro. Ha detto la verità, ossia ciò che sapeva. Il cosiddetto "aiutino" è stato riportato dal presidente Lipari e consiste in quello che è noto. Le commissioni esaminatrici per il concorso da uditori giudiziari si riuniscono preventivamente per stabilire i criteri di correzione dei compiti. Se alle prove scritte c’è una sufficienza seria e due 5 ci sono delle commissioni che legittimamente, nell’esercizio di un potere insindacabile, dicono: due 5 e un 6 passa poi vedremo agli orali. Non è mai stato detto che c’è stato un intrallazzo. Ha raggiunto la sufficienza agli scritti con questi due "aiutini". Poi all’orale, dove ha preso 8, è riuscito a raggiungere la media del 7, limite minimo che permette di superare il concorso. Infatti Di Pietro si è collocato nella parte finale della graduatoria". Opposta la versione del legale di Di Pietro: "Dagli atti documentali del processo di primo grado è emerso che l’esame condotto da Di Pietro ha portato alla sua promozione perché era pienamente sufficiente. Quindi non corrisponde al vero dire che prese due insufficienze e una sufficienza agli scritti e che all’orale non andò meglio. Se non si deve dare valore ai documenti, ma alla prassi, come sostiene la controparte, allora bisognerebbe fidarsi esclusivamente della parola del presidente Carnevale; visto che altre prove non sono state prodotte, né tantomeno ci sono testi pronti a testimoniare che la prassi è questa".

Quell’aiutino a Di Pietro per diventare magistrato. L’ex giudice Carnevale sull’esame di Tonino a pm: «Era povero, mi commossi. E due 5 diventarono 6», scrive il 29 Ottobre 2014 “Il Tempo”. «Al concorso in magistratura Antonio Di Pietro ha avuto due "aiutini" agli scritti e poi è stato "stampellato" all’orale». Un aspetto non trascurabile del percorso che ha portato un vicecommissario del Molise a diventare uno dei magistrati di punta del pool di Mani Pulite, viene alla luce da una causa civile per diffamazione. È stato l’avvocato Roberto Aloisio, legale del giudice in pensione Corrado Carnevale, a spiegare ieri al collegio della prima sezione civile della Corte d’Appello di Roma come andò l’esame per diventare uditore di Di Pietro. La vicenda giudiziaria prende le mosse da un’intervista che nel 2008 Carnevale rilasciò al condirettore del giornale online «Petrus», Bruno Volpe, in cui confessò di essersi pentito di aver fatto promuovere Di Pietro al concorso in magistratura. «Fu un grande errore – svelò l’allora presidente della prima sezione penale della Corte di Cassazione – Mi lasciai commuovere dal suo curriculum. Era stato in seminario ed era di famiglia povera. Fu così che chiusi un occhio davanti ad alcune sue lacune». Per quelle dichiarazioni, poi riprese da altre testate giornalistiche, Di Pietro ha querelato per diffamazione a mezzo stampa Carnevale. Il Tribunale civile di Roma recentemente ha condannato l’ex presidente della Cassazione a risarcire l’ex leader dell’Italia dei Valori di 15 mila euro, a fronte dei 200 mila chiesti da Di Pietro nell’atto di citazione. Ora i legali di Carnevale hanno chiesto alla Corte d’Appello di sospendere l’efficacia esecutiva della sentenza. «L’urgenza di un’inibitoria – ha spiegato l’avvocato Aloisio – è dovuta al fatto che è già stato notificato l’atto di precetto. Lunedì scorso eravamo in attesa dell’ufficiale giudiziario. Il mio assistito non solo ritiene che giustizia non sia stata fatta, ma ritiene che 30 mila euro (se si considerano pure le spese legali e gli interessi) non siano una bazzecola per nessuno, anche per un magistrato la cui pensione mensile corrisponde alla metà di quella somma». Prima di celebrare l’udienza, ieri, il presidente del collegio d’Appello Francesco Ferdinandi ha chiesto alle parti «data la levatura delle loro personalità» se volessero raggiungere un accordo bonario e rinunciare al contenzioso, ma il legale di Di Pietro si è opposto. A quel punto l’avvocato Aloisio è entrato nel merito della questione: «In un’intervista in cui si parlava del fenomeno di Mani Pulite, il presidente Carnevale rispose che aveva sbagliato a valutare Di Pietro. Ha detto la verità, ossia ciò che sapeva. Il cosiddetto "aiutino" è stato riportato dal presidente Lipari e consiste in quello che è noto. Le commissioni esaminatrici per il concorso da uditori giudiziari si riuniscono preventivamente per stabilire i criteri di correzione dei compiti. Se alle prove scritte c’è una sufficienza seria e due 5 ci sono delle commissioni che legittimamente, nell’esercizio di un potere insindacabile, dicono: due 5 e un 6 passa poi vedremo agli orali. Non è mai stato detto che c’è stato un intrallazzo. Ha raggiunto la sufficienza agli scritti con questi due "aiutini". Poi all’orale, dove ha preso 8, è riuscito a raggiungere la media del 7, limite minimo che permette di superare il concorso. Infatti Di Pietro si è collocato nella parte finale della graduatoria». A difendere l’ex pm di Mani Pulite, in udienza, c’era un avvocato dello studio legale Scicchiatano, di cui lo stesso Di Pietro fa parte da quando ha lasciato la carriera politica per quella forense. «Dagli atti documentali del processo di primo grado – ha spiegato il civilista – è emerso che l’esame condotto da Di Pietro ha portato alla sua promozione perché era pienamente sufficiente. Quindi non corrisponde al vero dire che prese due insufficienze e una sufficienza agli scritti e che all’orale non andò meglio. Se non si deve dare valore ai documenti, ma alla prassi, come sostiene la controparte, allora bisognerebbe fidarsi esclusivamente della parola del presidente Carnevale; visto che altre prove non sono state prodotte, né tantomeno ci sono testi pronti a testimoniare che la prassi è questa». Ora la parola passa ai giudici di secondo grado che dovranno decidere se accogliere la richiesta di sospensiva della sentenza.

"Quel concorso da giudice: tutto truccato". Il racconto al Giornale di una candidata che ha partecipato al concorso di Milano: Ho visto troppe irregolarità. Sui banchi codici commentati o intere enciclopedie. Decine le denunce. Il ministero ha aperto un’inchiesta, scrive Luca Fazzo, Giovedì 27/11/2008, su "Il Giornale". «Una scena che non dimenticherò facilmente. Marasma totale, candidati che chissà come erano riusciti a portarsi appresso intere enciclopedie giuridiche, nessuno che sapeva che pesci pigliare, e in mezzo al caos un membro della commissione che strillava “Fermate quello spelacchiato che incita le persone”. Sembrava di essere al mercato, non al concorso per una delle professioni più delicate della nostra società». Questo è il racconto di V. che ha trent’anni e - per motivi che spiegherà più avanti - non vuole vedere il suo nome sui giornali. Ma il suo nome ce l’ha il ministro della Giustizia Angiolino Alfano, in calce all’accorata lettera che V. gli ha mandato per raccontargli le condizioni surreali in cui si è svolto a Milano, dal 19 al 21 novembre, il concorso per 500 posti da magistrato. Delle decine di testimonianze come quella di V. si dovranno occupare in diversi. Il ministero, che ha avviato una inchiesta interna. Il Consiglio superiore della magistratura che - su richiesta dei Movimenti riuniti e di Md - stamattina aprirà una sua indagine. E la Procura della Repubblica di Milano sul cui tavolo sono arrivati gli esposti che alcuni candidati inferociti si sono precipitati a depositare dopo avere rinunciato a portare avanti la prova. «Io non voglio buttarla in politica», dice V., «non voglio ipotizzare che ci fossero forme di corruzione o di connivenza. Non sta a me accertarlo. A noi spetta denunciare le irregolarità macroscopiche che erano sotto gli occhi di tutti e che la commissione ha fatto finta di non vedere. Adesso leggo che il ministero per fare luce sulla vicenda ha chiesto una relazione al presidente della commissione. Che obiettività ci si può aspettare? Perché non vengono sentiti anche i candidati?». Tema dello scandalo: l’introduzione - da parte di numerosi candidati all’oceanica prova d’esame convocata presso la Fiera di Milano - di vietatissimi codici commentati. Tradotto per i profani: agli esami per magistrato i temi riguardano faccende astruse («diritto di abitazione del coniuge superstite e della tutela del legittimario nel caso di atti simulati da parte del de cuius», recitava una traccia di settimana scorsa) cui i candidati debbono rispondere basandosi unicamente sui testi di legge, e non sui codici assai diffusi in commercio che, in fondo alle pagine, forniscono le risposte a ogni dubbio. Peccato che alla Fiera di Milano i codici del secondo tipo circolassero quasi liberamente. Risultato: sollevazione degli onesti, assalto alla presidenza, la prova che si blocca, riparte, finisce a notte inoltrata tra urla di «vergogna, buffoni», minacce, metà dei 5.600 candidati che abbandonano senza consegnare il compito. Come è stato possibile? Il presidente della commissione d’esame, il consigliere di Cassazione Maurizio Fumo, rifiuta ogni spiegazione. Così per ricostruire i fatti - che rischiano di portare all’annullamento della prova - bisogna affidarsi al racconto di V. e degli altri candidati. «La mia non è una denuncia anonima - dice V. - il ministro ha il mio nome in mano. Ma io quell’esame voglio riprovare a affrontarlo, stanno per essere banditi altri 350 posti. E se il mio nome girasse ne uscirei enormemente penalizzata». Che una aspirante magistrata sia convinta che il «sistema» si vendicherebbe della sua denuncia civile la dice lunga sull’aria che tira. V. non si dichiara ancora ufficialmente una disillusa, ma poco ci manca. «Io da sei anni non faccio altro che prepararmi per questo concorso. Voglio fare il magistrato, e credo che lo farei bene. Non ho aspirazioni missionarie, non ho una visione giustizialista della società. Ma credo che ogni società abbia bisogno di una cultura delle regole, e che per questo servano magistrati equilibrati e preparati. Io credo di essere entrambe le cose. Consideravo il concorso per magistratura l’ultima trincea della meritocrazia, evidentemente mi sbagliavo. All’idea che questo concorso premi i furbi che “ci hanno provato” mi sento profondamente indignata». «Abbiamo passato un giorno intero - racconta - a fare controllare i testi di cui chiedevamo di servirci. A me hanno tolto persino i segnapagine. Il giorno dell’esame ci sono ragazze che si sono viste perquisire anche la busta dei Tampax. I controlli, insomma, sembravano seri. E invece quando siamo entrati nell’aula è arrivata la sorpresa. C’erano candidati che avevano sul banco, con tanto di autorizzazione, codici commentati, manuali di diritto, enciclopedie. A quel punto è partita la protesta». Ma chi è stato, a permettere l’ingresso dei testi vietati? «I controlli li facevano i vigilantes, gli stessi che poi giravano tra i banchi. Non so chi li abbia istruiti. Ma so che un codice semplice si distingue facilmente da uno commentato: c’è scritto in copertina, e uno è alto un terzo dell’altro. Impossibile non accorgersene». E allora? Come è stato possibile? «Non lo so. Era una situazione surreale. E il presidente diceva: la prova va avanti, non è successo niente. Nei due giorni successivi il concorso è andato avanti così, chi copiava dai testi e chi si arrangiava in qualche modo. Se provavi a guardare il banco del vicino quello ti saltava in testa: cosa vuoi, fatti i fatti tuoi, vattene». Ed era il concorso da cui sarebbero usciti i magistrati di domani.

«Vai in prigione, professore», scrive Domenico Battista il 28 Settembre 2017 su "Il Dubbio". “Cupola” dei professori: condanna definitiva, ma il processo deve ancora iniziare. In merito alla vicenda dei professori tributaristi, immediatamente è scattato il meccanismo: tutti certamente colpevoli, condanna già definitiva, si tratta soltanto di lasciare al giudice (quello vero!) un margine di discrezionalità per stabilire l’entità della pena (che comunque dovrà essere esemplare). Ognuno ha pensato «io lo sapevo- lo sapevano tutti», finalmente è arrivato un giudice che ha messo fine allo schifo. “Cupola” dei professori: condanna definitiva, ma il processo deve ancora iniziare. Premetto che conosco poco o nulla del procedimento pendente a Firenze, nel corso del quale il GIP ha emesso una lunga e complessa ordinanza di custodia cautelare nei confronti solo di alcuni dei numerosi indagati dei reati di «corruzione per atti contrari ai doveri di ufficio» o per «induzione indebita» o ancora per «turbata libertà del procedimento di scelta del contraente». Non sono, quindi, in grado di dire se effettivamente siano giustificati i provvedimenti cautelari emessi dal GIP su richiesta dei pm fiorentini. Ma non è questo il tema del mio intervento: le ipotesi di reato, se troveranno conferma in sede processuale, sono certamente gravi ed è giustificato l’allarmismo e lo sconcerto che una notizia tanto clamorosa determina nell’opinione pubblica. Nelle aule giudiziarie si raccoglieranno le prove e si stabilirà se gli odierni indagati, forse un domani imputati, meritino o meno una condanna e se la qualificazione giuridica delle condotte loro attribuite sia corretta o meno. Giusto dunque informare e altrettanto legittimo commentare la notizia degli arresti. Ma nella vicenda fiorentina si è manifestato qualcosa di diverso e, a mio avviso, di preoccupante: siamo ormai tristemente abituati alla deriva dei cosiddetti processi mediatici, con trasmissioni televisive che si affannano non a svolgere una attività di supplenza dei pubblici ministeri e della polizia giudiziaria ( sulla quale ci sarebbe già molto da discutere) ma a sostituirsi ai giudici, anticipando, sulla base di qualche elemento sensazionale, certezze che tali non sono, ma che influenzano ed alimentano non la ‘ sete’ di giustizia, ma la ‘ voglia’ di vendetta di tanta parte degli spettatori. Creando talvolta situazioni paradossali, di vero e proprio tifo ultrà tra innocentisti e colpevolisti, i primi pronti a fischiare i giudici che, nelle sedi proprie e sulla base di regole che, come si conviene in uno stato di diritto, sono predeterminate, pervengono ad affermazioni di responsabilità. Gli altri pronti ad insultare e finanche aggredire i giudici che, sulla base di una diversa convinzione, non hanno aderito alle tesi accusatorie giungendo a decisioni assolutorie. E’ venuto fuori infatti un nervo scoperto e si sa che anche sfiorarlo determina un sussulto. E’ sensazione diffusa, ed aggiungo non ingiustificata, che il sistema universitario – ricco di quelli che in gergo definiamo sprezzantemente ‘ baroni’ ed altrettanto popolato da allievi pronti ad eventuali compromessi che consentano progressioni di carriera – sia affetto da una grave patologia, da forme di chiusura in un mondo di pochi eletti che spesso taglia le gambe ai più meritevoli e favorisce i più scaltri. D’altra parte se le cause sono tante, l’effetto è evidente: le Università, salvo come sempre poche ma esemplari isole felici, sono allo sfascio; ed il ‘ prodotto’ che sfornano ormai da molti anni, i laureati, quando va bene poco preparati, ma per tanta parte incolti e finanche ignoranti (e non solo nella materia prescelta!) sono sotto gli occhi di tutti. La notizia degli arresti e delle interdizioni è arrivata improvvisa, ma non inaspettata e non ha colto di sorpresa, per quella ‘ consapevolezza inconscia’, come la ha definita qualcuno, che il marcio esisteva e che finalmente il pozzo nero era stato scoperchiato. Coinvolgendo tutti: arrestati, interdetti e finanche solo indagati (nei confronti dei quali, quanto meno perché non raggiunti da alcun provvedimento anticipatorio – che, in concreto, significa carenza di gravi indizi e/ o di esigenze cautelari dovremmo essere indotti ad un minimo di maggior prudenza). Immediatamente è scattato il meccanismo: tutti certamente colpevoli, condanna già definitiva, si tratta soltanto di lasciare al giudice (quello vero!) un margine di discrezionalità per stabilire l’entità della pena (che comunque, per soddisfare il palato delle novelle tricoteuses, dovrà essere esemplare). Ognuno ha pensato «io lo sapevo, io lo sospettavo, lo sapevano tutti, lo sospettavano tutti», finalmente è arrivato un giudice (in questo caso a Firenze e non a Berlino) che ha messo fine allo schifo. Pochi hanno riflettuto che è difficile immaginare che oltre una cinquantina di persone sparse su tutto il territorio nazionale fossero tutte d’accordo, pronte a delinquere. Può darsi che sia effettivamente accaduto un tale inconsapevole accordo, ma il dubbio, evocato nella denominazione di questo giornale, non fa parte della coscienza collettiva di certa opinione pubblica. E siccome ognuno di noi ha ormai – ed è un bene anche se talvolta utilizzato male un nuovo mezzo di comunicazione immediata e diretta del proprio pensiero e delle proprie opinioni, i Social, la condanna mediatica ha già fatto il suo corso: paradossalmente è già passata in giudicato finanche prima ancora di conoscere le imputazioni e la loro complessa articolazione (imputazioni che, se lette, forse qualche dubbio almeno agli addetti ai lavori dovrebbero suscitare). Un tempo, senza internet, era più complicato: occorreva preparare un palco in piazza, allestire una gogna, far sfilare il malcapitato, colpevole o innocente che fosse, tra due ali di folla urlante e ringhiosa, e sottoporlo al pubblico ludibrio. In tempi più vicini, in un impeto di esaltazione collettiva, i maoisti inventarono una forma più raffinata di gogna, appendendo cartelli ed orecchie d’asino ai controrivoluzionari: ironia della sorte anche in quel caso si trattava di molti professori universitari; e chi di noi sotto sotto non odia o non ha odiato un professore….

Oggi tutto è più semplice, ma le conseguenze sono drammaticamente peggiori: per i diretti interessati, vittime della gogna mediatica, ma anche, mi sia consentito di dirlo, per la civiltà di un paese che dovrebbe aver messo al bando da molto tempo l’idea della vendetta e dell’odio per chi ha sbagliato (se ha sbagliato), scegliendo in modo definitivo la cultura del processo propria di uno Stato di diritto moderno e democratico. Leggere i giornali cartacei o on- line, ascoltare giornali radio non è sufficiente per rendersi conto di quanto sta accadendo: occorre fare un giro su Facebook, sulle studiate condivisioni di foto degli indagati, sui commenti al limite del sanguinario per scoprire od avere conferma della degenerazione in atto. Ma c’è qualcosa di nuovo e ‘ di più’ che ho notato rispetto a tanti altri casi di giustizia popolar- mediatica (antitesi della giustizia vera, a cui tutti dicono di volersi ispirare che in troppi disdegnano). Il nervo scoperto di un sistema universitario che, a voler essere buoni, constatiamo tutti essere non funzionante, ha aperto un nuovo cantiere giustizialista. Non basta spiegare che una ordinanza di custodia cautelare non equivale ad una sentenza di condanna, che i gravi indizi non sono equiparabili alle prove certe al di là di ogni ragionevole dubbio, che le prove devono essere raccolte in contraddittorio tra le parti davanti ad un giudice terzo ed imparziale ( auspicabilmente un domani anche separato in carriera dal pm), che devono ancora essere espletati gli interrogatori di garanzia, che un indagato non soggetto a misure cautelari è in posizione processuale evidentemente diversa da altro indagato raggiunto da provvedimenti restrittivi o interdittivi. Tutto questo non interessa: alla condotta penalmente rilevante, agli elementi costitutivi di ogni reato, alla responsabilità penale necessariamente individuale (e non collettiva, salvo che nei casi di reati associativi, nel caso di specie non contestati) si è istantaneamente aggiunta una nuova categoria giuridica: la prassi. La prassi era quella, anzi è quella: lo sappiamo tutti quello che accade nei concorsi universitari, i favoritismi, il clientelismo, il nepotismo e via dicendo. Si è arrivati tardi, come hanno fatto i pm a non accorgersi prima che quella era la prassi e che quella andava e va punita? Ma il malcostume può da solo essere sufficiente a trasformare un comportamento scorretto in un condotta illegittima con caratteristiche tali da assumere rilevanza penale?

E’ un sofisma da giuristi o è un principio di civiltà prevedere che non qualsiasi condotta riprovevole, ma solo quella che integra gli elementi costitutivi di una fattispecie codificata costituisce reato? Si invoca tanto, e tante volte a sproposito, la Costituzione e poi ci dimentichiamo che esiste un sacrosanto principio, quello di legalità, sancito dall’articolo 25 della nostra Carta fondamentale, che a sua volta nasce da secoli e secoli di progressivo avanzamento della civiltà giuridica. Le prassi sono una cosa diversa; in certi casi, pur andando contro una specifica previsione normativa, possono finanche essere virtuose. Ma non è pensabile che possano assumere autonoma valenza penale e giustificare il pubblico ludibrio dell’intera classe di professori universitari. Attenzione a non cadere in questa ulteriore forma di populismo (già in parte coltivata dai nostri disattenti legislatori che sembrano fare a gara, per solleticare la pancia di un elettorato che sanno essere giustizialista e forcaiolo, ad inventare nuove imperdibili figure di reato destinate o a rimanere solo sulla carta, come altrettante grida manzoniane, o ad aggravare ulteriormente lo stato comatoso della nostra giustizia penale). Teniamo ben distinti, in conclusione, i giudizi morali dalle statuizioni penali: i primi sono del tutto soggettivi e, in quanto tali, possono essere privi di regole, ancorché necessariamente espressi nelle dovute forme, per non cadere nella diffamazione o peggio nella calunnia; le seconde necessitano di regole, di garanzie, di prove certe acquisite nel rispetto delle leggi, di aule giudiziarie dove non solo vengano celebrati processi, ma ‘ giusti processi’, come oggi ci impongono sempre di più non solo i principi costituzionali, ma anche quelli sanciti dalle carte sovranazionali e dalle Corti che ne sono i loro interpreti...

Crimini accademici senza pudore né pentimento, scrive Cosimo Loré, Docente universitario e scrittore, il 2 aprile 2011 su "Il Fatto Quotidiano". È di questi giorni la notizia che 22 docenti universitari in 11 città italiane siano stati indagati, perquisiti e accusati di aver gestito un sistema di concorsi nazionali truccati. Il primato più triste nel crimine universitario spetta all’ateneo di Siena, dove è stato chiesto il rinvio a giudizio di 27 persone per peculato, truffa e abusi. Non si attenda ora che la giustizia faccia il suo corso, lento e lungo com’è quando gli imputati con i soldi sottratti e i rapporti realizzati nel periodo aureo si possono poi permettere difese di lusso per prescrizioni di comodo! Borsellino docet: quanti disonesti non sono mai stati condannati perché mancavano le prove? Eppure gravi sospetti sul loro conto dovrebbero bastare a impedirne l’assunzione a incarichi che richiedono specchiata moralità. Su questo equivoco giocano soprattutto le toghe accademiche, dimostrandosi indegne di cattedre e non meritando neppure rispetto umano! Siena ne è l’esempio clamoroso e sconcertante: dopo tutto quello che è successo, nessuno dei rettori o presidi vecchi e nuovi ha speso una parola di ammissione di responsabilità proprie o altrui! E mi riferisco alle responsabilità ben più gravi di quelle di livello solo penale di coloro che hanno tentato di spacciare i criminali comportamenti in voga nel sistema senese per disattenzioni e banalità. Il presidente dei rettori italiani, una volta scoperto e smascherato, rimosso dalla forza pubblica per interdizione giudiziaria, rinviato a giudizio, condannato in un primo processo, ha la faccia di definire “disattenzioni” e “banalità” i reati all’origine dell’interdizione e della condanna, con oscena ostentazione della propria proterva persistente volontà di ripetere e pure offendere le vittime, oltre a chi, come il sottoscritto, andò per Procure a esporre il malaffare imperante sotto la rigida regia rettorale. Il clima nazionale, del resto, è quello di azzerare nei fatti ogni eccellenza, come quella di Francesco Lanzillotta, direttore d’orchestra italiano in Bulgaria, solo per citare l’ultima scoperta dalla stampa. Che testimonia la sfortuna di essere governati, a Siena e in Italia, da maldestri senza scrupoli legittimati da una casta accademica complice e corrotta e una popolazione italica di ignavi e indifferenti! E su chi osa gridare che il re è nudo incombono – per il gioco delle parti – danno e beffa aggiuntivi di pretestuose iniziative giudiziarie, perchè (Manzoni docet) “il prepotente offende e si ritiene offeso”! Così gli ex rettori Berlinguer e Tosi annunciano querela nei confronti di chi li ha coinvolti nel dissesto dell’Università di Siena. Minacciosi, disastrosi e incorreggibili questi signori e (ex) padroni dell’università italiana, certamente e tristemente da non inviare a trattamenti di recupero!

Soldi, sesso e ricatti: il lato oscuro delle università italiane. Dall'ordinanza di custodia cautelare della procura di Firenze esce uno spaccato inquietante sulle trame dietro ai concorsi. Lettere anonime, faide tra luminari e un suicidio: le carte dell'inchiesta, scrivono Alessandro Da Rold e Luca Rinaldi il 27 settembre su "Lettera 43". Sesso, ricatti, faide tra luminari del diritto, lettere anonime per infangare e mettere fuori gioco dai concorsi altri candidati a incarichi da professore. Persino il sospetto da parte degli inquirenti che le spartizioni baronali, con l'intento di favorire candidati associati agli studi legali, fossero un modo per qualificarli così da giustificare poi parcelle più onerose di svariate milioni di euro. In pratica, soldi, sesso e ricatti, come nei più classici romanzi di James Ellroy. E per di più l'ombra di un suicidio, causato da una fuga di notizie per informare uno degli indagati. Dall'ordinanza di custodia cautelare dell'inchiesta della procura di Firenze - che ha sgominato la presunta cricca di tributaristi che si spartivano i posti da professori nelle università italiane - emerge un quadro inquietante del mondo accademico.

L'indagine, partita grazie alle registrazioni con il cellulare del ricercatore Philip Jezzi Laroma, ha già portato agli arresti domiciliari sette professori, facendone interdire dalle lezioni altri 22. Le accuse sono di corruzione e abuso d'ufficio. Ma, in attesa del processo, gli strascichi rischiano di farsi sentire nel lungo periodo soprattutto nel mondo dei luminari del diritto tributario. Nelle carte firmate dal gip Angelo Palazzi c'è di tutto. Non solo le ormai note frasi del professore Pasquale Russo a Laroma, con i riferimenti nemmeno troppo velati a farsi da parte («È il mercato delle vacche» o «non fare l'inglese, fai l'italiano») abbandonando le speranze nella meritocrazia nostrana, ma c'è persino un caso di depistaggio organizzato ad arte durante un concorso universitario per screditare un altro candidato. Le parole pronunciate dal presidente della Commissione sono inequivocabili. Egli parla senza mezzi termini di "ricatto". C'è infatti una lettera anonima diretta a mettere in luce l'incompatibilità della candidata del professor Fabrizio Amatucci, ordinario di Diritto tributario a Napoli ai domiciliari, con l'accusa di corruzione. A farla preparare è il professor Adriano Di Pietro, presidente della commissione che deve decidere sulle candidature. E chi la prepara? Uno dei suoi candidati, Giangiacomo D'Angelo, perché da una parte lo stesso Amatucci ha «qualche debolezza, perché si dichiara a tempo pieno però lavora nello studio del padre», e poi «c'è una delle candidate che lavora sempre lì nel suo studio». Fatte verificare le informazioni dal proprio candidato, Di Pietro dà indicazioni perché lo stesso scriva una lettera e la faccia pervenire anonimamente al suo studio così da poterla aprire nel corso della seduta della commissione del primo aprile 2015. Una strategia che, dice Di Pietro intercettato, «fa parte del ricatto che devo fargli», altrimenti Amatucci si impunterà per l'abilitazione dei suoi. Annotano i magistrati: «Le parole pronunciate dal presidente della commissione sono inequivocabili. Egli parla senza mezzi termini di "ricatto"».

Di Pietro - scrivono i pm - ha pertanto bisogno di avere le informazioni richieste perché vuole ricattare Amatucci per ottenere che egli non si impunti per avere l'abilitazione dei candidati Selicato e Tundo. Dopo appena due giorni, il 28 marzo 2015, Di Pietro ottiene dal candidato D'Angelo le informazioni richieste. Quest'ultimo spiega al commissario: «Senta prof, io ho chiesto informazioni, ieri ho fatto qualche telefonata... sembrerebbe che la tipa in realtà collabora... collaborava con loro, veramente con un ruolo di sottordine, nel senso che... eh sì sì sì, ma con un ruolo di sottordine... portava delle cose, cioè non ha... non aveva.... era professionalmente soda/e, sostanzialmente... però senza un ruolo di...». Come se nulla fosse la lettera arriva a Di Pietro, viene aperta e mostrata ai commissari in coda alla riunione del primo aprile. Al termine della seduta mostra la lettera dicendo di averla aperta lì davanti a tutti. Giuseppe Cipolla, altro membro della commissione, dopo averla letta, la definisce «bruttissima». E, come previsto, mette in difficoltà Amatucci che nega ci siano incompatibilità con la candidata Ciarcia, segnalando che lui lavora a tempo pieno per l'università e che se anche la candidata collabora con lo studio del padre la cosa non lo riguarda. Seguendo la narrazione di Russo, l'abilitazione della ricercatrice sarebbe stata portata avanti quindi da Fransoni su richiesta di Boria, in assenza dei necessari requisiti.

Russo si distingue sempre per il modo di parlare. Annotano sempre gli inquirenti: il professore, senza mezzi termini, nel corso della telefonata del 4 aprile 2015, racconta a Di Pietro che la mancata abilitazione di Francesco Padovani, nel corso della prima tornata della commissione, è stato il «prezzo pagato» per «lasciare spazio come commissario» a Guglielmo Fransoni e per consentire, quindi, a quest'ultimo «di fare le porcherie per i candidati romani». Si ricorda che, una volta accertato che sussiste l'incompatibilità, Fransoni induce Padovani a ritirare la sua candidatura. Tra "i candidati romani", Russo annovera pure una delle ricercatrici del dipartimento di Diritto ed economia delle attività produttive de La Sapienza, a suo dire abilitata su richiesta di uno degli indagati, il professore ordinario di Diritto tributario presso la Facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli Studi di Roma Pietro Boria, nonostante la mancanza delle necessarie capacità. Russo si domanda quali meriti possa vantare la candidata («ehhhh che c'ha? Meriti fisici ehhh non lo so...») e rievoca il momento in cui lui le ha «bocciato» «la tesi in dottorato» dicendole: «Mi sembra modesta questa, questa tesi, mi sembra modesta, cerca di arricchirla, lavoraci un anno ancora». Russo continua il suo racconto dicendo: «Dopodiché, come parole al vento, dopo due mesi gliel'hanno fatta pubblicare, poi si è messa a scopare con Boria ed è diventata meritevole». Seguendo la narrazione di Russo, «l'abilitazione della ricercatrice sarebbe stata portata avanti quindi da Fransoni su richiesta di Boria, in assenza dei necessari requisiti». 

Una parte dell'ordinanza di custodia cautelare è dedicata a Gianni Zamperini, 42enne esperto di computer. Chiamato dagli amici BBK, e gestore del dominio salviniescalar.it utilizzato dallo studio professionale romano “Salvini - Escalared”, era amico di Livia Salvini, professoressa della Luiss, spesso ospite a Ballarò come esperta di tasse e già nel collegio sindacale del Pd. La guardia di finanza lo sente il 13 settembre, lui nega di aver avvisato la professoressa di indagini a suo carico, ma la polizia giudiziaria ritrova, sul suo apparecchio telefonico, delle comunicazioni con l'avvocato Liliana Spartera, amica sua e di Livia Salvini, nelle quali egli afferma con chiarezza di aver avvisato quest'ultima. Zamperini viene indagato per il reato previsto e punito dall'art. 378 del codice penale, cioè favoreggiamento. Il giorno dopo si suicida.

Si legge nell'ordinanza. «L'evento è stato comunicato a Livia Salvini da un tal Fabio. Costui, quando ha rinvenuto il cadavere di Gianni Zamperini, ha potuto prendere visione del decreto di intercettazione a carico di Livia Salvini. Dalla conversazione del 17 settembre 2014 si intuisce che Livia Salvini effettivamente sia stata rnessa a conoscenza della richiesta di intercettazione. Commentando con il compagno Eugenio il suicidio di Gianni Zamperini, ha affermato prima: "...magari era anche turbato da... da questa cosa della guardia di finanza" e poi: "...non posso fare a meno di pensare che é colpa mia" e "quanto meno sono stata l'occasione scatenante"». «Queste parole», scrivono gli inquirenti, «non avrebbero alcun significato se Livia Salvini non avesse saputo dell'intercettazione e sembrano confermare lo stato di disagio psicologico che possa essere provato il suo informatore dopo essere stato scoperto».

Concorsi truccati, Adi: "Succede in tutti i settori, dall'accesso al dottorato fino all'abilitazione". Il segretario nazionale dell'Associazione dottorandi e dottori di ricerca italiani, Giuseppe Montalbano, non è sorpreso dalle rivelazioni dell'inchiesta partita dalla denuncia di un ricercatore di diritto tributario: "Sfogarsi cercando di restare è impossibile", scrive Giorgia Pacino il 26 settembre 2017 su "La Repubblica". "Succede in tutti i settori accademici in modo trasversale e in tutta la filiera del precariato della ricerca. Dall'accesso al dottorato fino all'abilitazione nazionale". Giuseppe Montalbano è segretario nazionale dell'Adi, l'Associazione dottorandi e dottori di ricerca italiani. Non è sorpreso dalle rivelazioni dell'inchiesta sui concorsi truccati all'università, partita dalla denuncia di un ricercatore di diritto tributario.

Ha letto il racconto del ricercatore di Firenze?

"Una storia come quella non è affatto nuova, non è la prima volta che ci vengono segnalati casi di questo genere. Attenzione: non tutti i docenti sono baroni. Delle nicchie in cui prevale trasparenza e merito ci sono. È vero, però, che in molti settori avere un professore che ha seguito un candidato per anni e vuole investire su di lui costituisce un canale di accesso preferenziale".

Quant'è diffuso il sistema?

"Parecchio. È un problema con radici strutturali che affondano nella ricattabilità dei ricercatori precari, il prodotto di un sistema che come Adi denunciamo da sempre. La ricattabilità è stata introdotta con la riforma Gelmini, portata avanti con la promessa di sgominare i baroni. Non solo i baroni sono rimasti al loro posto, ma, introducendo una serie di figure contrattuali precarie, tagliando le risorse e dando più potere a chi tiene i cordoni della borsa e controlla l'accesso ai bandi - per di più limitati con il blocco del turn over - alla fine la riforma ha rafforzato quelle stesse baronie che a parole intendeva combattere".

Va cambiato il metodo di selezione?

"Un sistema così complesso, fatto di tanti indicatori e passaggi, è insufficiente rispetto alle necessarie garanzie di trasparenza. Va riformato coinvolgendo tutta la comunità accademica, a partire proprio dai segmenti meno tutelati come i ricercatori precari. Alla base, però, c'è sempre il sottofinanziamento che fa da cornice a tutto il resto. È giusto intervenire sui meccanismi di reclutamento e sulla trasparenza dei concorsi, ma bisogna prima affrontare il nodo del finanziamento e dello sblocco del reclutamento. Perché se i posti sono sempre meno e le opportunità per i giovani ricercatori si restringono, cresce la loro ricattabilità".

Allora aumentano i ricorsi?

"Per fortuna tanti colleghi, con parecchio coraggio, hanno la volontà di contestare decisioni di tipo arbitrario, spesso mettendo a repentaglio la loro stessa carriera. Si sta diffondendo una certa capacità di rispondere ai torti subiti, innanzitutto attraverso il ricorso. Di certo sono meno quelli disposti a denunciare alle autorità".

Il problema resta la prova.

"Quella spetta alle autorità. Consiglierei di prendere tutte le precauzioni possibili e raccogliere la la documentazione, anche attraverso strumenti come le registrazioni o altre modalità per dimostrare cos'è avvenuto. Sarebbe la prova migliore, certo, ma quando si fa un concorso dotarsi di microfoni non è la prima preoccupazione di un candidato. Riceviamo molte segnalazioni in forma confidenziale o anonima. Ma una cosa è una denuncia, un'altra una lettera di sfogo di chi magari decide di abbandonare il mondo dell'università. Il problema è che sfogarsi cercando di restare diventa impossibile".

Concorsi truccati all’università, chi controlla il controllore? Scrive Alessio Liberati il 27 settembre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Sta avendo una grande eco in questi giorni l’inchiesta sui concorsi truccati all’università, ove, come la scoperta dell’acqua calda verrebbe da dire, la procura di Firenze ha individuato una sorta di “cupola” che decideva carriere e futuro dei professori italiani. La cosiddetta “raccomandazione” o “spintarella” (una terminologia davvero impropria per un crimine tanto grave) è secondo me uno dei reati più gravi e meno puniti nel nostro ordinamento. Chi si fa raccomandare per vincere un concorso viene trattato meglio, nella considerazione sociale e giuridica (almeno di fatto) di chi ruba un portafogli. Ma chi ti soffia il posto di lavoro o una progressione in carriera è peggio di un ladro qualunque: è un ladro che il portafogli te lo ruba ogni mese, per sempre. Gli effetti di delitti come questo, in sostanza, sono permanenti.

Ma come si è arrivati a ciò? Va chiarito che il sistema giuridico italiano prevede due distinti piani su cui operare: quello amministrativo e quello penale. Di quest’ultimo ogni tanto si ha notizia, nei (rari) casi in cui si riesce a scoperchiare il marcio che si cela dietro ai concorsi pubblici italiani. Di quello relativo alla giustizia amministrativa si parla invece molto meno. Ma tale organo è davvero in grado di assicurare il rispetto delle regole quando si fa ricorso?

Personalmente, denuncio da anni le irregolarità che sono state commesse proprio nei concorsi per l’accesso al Consiglio di Stato, massimo organo di giustizia amministrativa, proprio quell’autorità, cioè, che ha l’ultima parola su tutti i ricorsi relativi ai concorsi pubblici truccati. Basti pensare che uno dei vincitori più giovani del concorso (e quindi automaticamente destinato a una carriera ai vertici) non aveva nemmeno i titoli per partecipare. E che dire dei tempi di correzione? A volte una media di tre pagine al minuto, per leggere, correggere e valutare. E la motivazione dei risultati attribuiti? Meramente numerica e impossibile da comprendere. Tutti comportamenti, si intende, che sono in linea con i principi giurisprudenziali sanciti proprio dalla giurisprudenza dei Tar e del Consiglio di Stato.

E allora il problema dei concorsi truccati in Italia non può che partire dall’alto: si prenda atto che la giustizia amministrativa non è in grado di assicurare nemmeno la regolarità dei concorsi al proprio interno e che, quindi, non può certo esserle affidato il compito istituzionale di decidere su altri concorsi: con un altro organo giurisdizionale che sia davvero efficace nel giudicare le irregolarità dei concorsi pubblici, al punto da costituire un effettivo deterrente, si avrebbe una riduzione della illegalità cui si assiste da troppo tempo nei concorsi pubblici italiani.

LA FINE DI UNA VITA FATTA DI BOCCIATURE.

La lettera di Michele che si è ucciso a trent'anni perchè stanco del precariato e di una vita fatta di rifiuti. La denuncia dei genitori: "Nostro figlio ucciso dal precariato, il suo grido simile ad altri che migliaia di giovani probabilmente pensano ogni giorno di fronte a una realtà che distrugge i sogni". Michele ha scritto: "Non posso passare il tempo a cercare di sopravvivere". Ecco il suo scritto-denuncia, scrive il 7 febbraio 2017 "Il Messaggero Veneto". Con questa lettera un trentenne friulano ha detto addio alla vita. Si è ucciso stanco del precariato professionale e accusa chi ha tradito la sua generazione, lasciandola senza prospettive. La lettera viene pubblicata per volontà dei genitori, perché questa denuncia non cada nel vuoto: «Di Michele - dice la madre - ricorderemo il suo gesto di ribellione estrema e il suo grido, simile ad altri che migliaia di altri giovani probabilmente pensano ogni giorno di fronte ad una realtà che distrugge i sogni».

“Ho vissuto (male) per trent’anni, qualcuno dirà che è troppo poco. Quel qualcuno non è in grado di stabilire quali sono i limiti di sopportazione, perché sono soggettivi, non oggettivi. Ho cercato di essere una brava persona, ho commesso molti errori, ho fatto molti tentativi, ho cercato di darmi un senso e uno scopo usando le mie risorse, di fare del malessere un’arte. Ma le domande non finiscono mai, e io di sentirne sono stufo. E sono stufo anche di pormene. Sono stufo di fare sforzi senza ottenere risultati, stufo di critiche, stufo di colloqui di lavoro come grafico inutili, stufo di sprecare sentimenti e desideri per l’altro genere (che evidentemente non ha bisogno di me), stufo di invidiare, stufo di chiedermi cosa si prova a vincere, di dover giustificare la mia esistenza senza averla determinata, stufo di dover rispondere alle aspettative di tutti senza aver mai visto soddisfatte le mie, stufo di fare buon viso a pessima sorte, di fingere interesse, di illudermi, di essere preso in giro, di essere messo da parte e di sentirmi dire che la sensibilità è una grande qualità. Tutte balle. Se la sensibilità fosse davvero una grande qualità, sarebbe oggetto di ricerca. Non lo è mai stata e mai lo sarà, perché questa è la realtà sbagliata, è una dimensione dove conta la praticità che non premia i talenti, le alternative, sbeffeggia le ambizioni, insulta i sogni e qualunque cosa non si possa inquadrare nella cosiddetta normalità. Non la posso riconoscere come mia. Da questa realtà non si può pretendere niente. Non si può pretendere un lavoro, non si può pretendere di essere amati, non si possono pretendere riconoscimenti, non si può pretendere di pretendere la sicurezza, non si può pretendere un ambiente stabile. A quest’ultimo proposito, le cose per voi si metteranno talmente male che tra un po’ non potrete pretendere nemmeno cibo, elettricità o acqua corrente, ma ovviamente non è più un mio problema. Il futuro sarà un disastro a cui non voglio assistere, e nemmeno partecipare. Buona fortuna a chi se la sente di affrontarlo. Non è assolutamente questo il mondo che mi doveva essere consegnato, e nessuno mi può costringere a continuare a farne parte. È un incubo di problemi, privo di identità, privo di garanzie, privo di punti di riferimento, e privo ormai anche di prospettive. Non ci sono le condizioni per impormi, e io non ho i poteri o i mezzi per crearle. Non sono rappresentato da niente di ciò che vedo e non gli attribuisco nessun senso: io non c’entro nulla con tutto questo. Non posso passare la vita a combattere solo per sopravvivere, per avere lo spazio che sarebbe dovuto, o quello che spetta di diritto, cercando di cavare il meglio dal peggio che si sia mai visto per avere il minimo possibile. Io non me ne faccio niente del minimo, volevo il massimo, ma il massimo non è a mia disposizione. Di no come risposta non si vive, di no si muore, e non c’è mai stato posto qui per ciò che volevo, quindi in realtà, non sono mai esistito. Io non ho tradito, io mi sento tradito, da un’epoca che si permette di accantonarmi, invece di accogliermi come sarebbe suo dovere fare. Lo stato generale delle cose per me è inaccettabile, non intendo più farmene carico e penso che sia giusto che ogni tanto qualcuno ricordi a tutti che siamo liberi, che esiste l’alternativa al soffrire: smettere. Se vivere non può essere un piacere, allora non può nemmeno diventare un obbligo, e io l’ho dimostrato. Mi rendo conto di fare del male e di darvi un enorme dolore, ma la mia rabbia ormai è tale che se non faccio questo, finirà ancora peggio, e di altro odio non c’è davvero bisogno. Sono entrato in questo mondo da persona libera, e da persona libera ne sono uscito, perché non mi piaceva nemmeno un po’. Basta con le ipocrisie. Non mi faccio ricattare dal fatto che è l’unico possibile, io modello unico non funziona. Siete voi che fate i conti con me, non io con voi. Io sono un anticonformista, da sempre, e ho il diritto di dire ciò che penso, di fare la mia scelta, a qualsiasi costo. Non esiste niente che non si possa separare, la morte è solo lo strumento. Il libero arbitrio obbedisce all’individuo, non ai comodi degli altri. Io lo so che questa cosa vi sembra una follia, ma non lo è. È solo delusione. Mi è passata la voglia: non qui e non ora. Non posso imporre la mia essenza, ma la mia assenza sì, e il nulla assoluto è sempre meglio di un tutto dove non puoi essere felice facendo il tuo destino. Perdonatemi, mamma e papà, se potete, ma ora sono di nuovo a casa. Sto bene. Dentro di me non c’era caos. Dentro di me c’era ordine. Questa generazione si vendica di un furto, il furto della felicità. Chiedo scusa a tutti i miei amici. Non odiatemi. Grazie per i bei momenti insieme, siete tutti migliori di me. Questo non è un insulto alle mie origini, ma un’accusa di alto tradimento. P.S. Complimenti al ministro Poletti. Lui sì che ci valorizza a noi stronzi. Ho resistito finché ho potuto”. Michele

VERONICA PADOAN ED IL RIBELLISMO DEI FIGLI DI PAPA’.

Il bamboccione antifascista di Giampaolo Rossi su “Il Giornale” il 9 febbraio 2017.

“Mamma, io esco a fare la rivoluzione!!” “Va bene, ma hai messo la maglia di lana?” Pensate sia un dialogo surreale? Non lo è. Nei giorni in cui in Italia scoppia la polemica per la figlia del ministro Padoan a capo dei cortei di clandestini e in America i nipotini di Soros mettono a ferro e fuoco Università e quartieri, picchiando, distruggendo e impedendo ai “fascisti trumpisti” di parlare “per difendere la democrazia” da un Presidente eletto democraticamente, in Germania il settimanale Bild pubblica i dati di una ricerca realizzata dal BfV (l’Ufficio Federale per la Protezione della Costituzione) uno degli organi dell’intelligence tedesca. La ricerca riguarda i reati a sfondo politico commessi a Berlino nel periodo 2009-2013, città dove la violenza politica negli ultimi anni è salita vertiginosamente; in tutto 1523 reati, la maggior parte dei quali compiuti dall’estrema sinistra.

“Papà scusa, mi dai la paghetta che devo comprarmi una molotov?” “Tieni ma non spenderti tutto come tuo solito!”. La ricerca del BfV traccia un identikit socio-antropologico dell’estremista di sinistra colpevole di reati politici; e il dato più eclatante (e più divertente) è che il 92% di loro vive ancora con mamma e papà. Si, avete capito bene: i campioni della rivoluzione, gli eroici antifascisti, i nuovi partigiani rimangono inguaribili mammoni. Sembrano cattivi, spietati, ideologicamente motivati, ma sotto le loro tute nere, i cappucci e la kefiah, batte “nu piezz’ ‘e core”; perché loro, tra un sampietrino e una spranga, uno slogan e una bandiera rossa, non schiodano dall’uscio domestico e si divertono a fare la rivoluzione con i soldi di papà. Predicano di abbattere le frontiere delle nazioni (retaggi borghesi e imperialisti) per accogliere immigrati e clandestini ma si tengono bene alzate quelle di casa propria. Secondo la ricerca, l’identikit del bamboccione antifascista germanico colpevole di reati politici è questo: maschio (84%), di età compresa tra i 18 e 29 anni (72%), studente o disoccupato (uno su tre), con istruzione bassa (34% scuola media, 29% diploma). I reati commessi dal bamboccione antifascista sono violenza, aggressione, incendio doloso, resistenza a Pubblico ufficiale; più raro il tentato omicidio. Il suo obiettivo sono per lo più persone fisiche (60%), prevalentemente poliziotti ma anche un 15% di avversari di destra.

“Mamma esco, vado a spaccare la testa ad un nemico del proletariato”. “Va bene, ma ricordati di prendere il latte quando rientri, sennò domani niente colazione!” Il bamboccione antifascista è una figura ancora più ridicola del radical-chic; è la sua involuzione antropologica. È il prodotto narrativo di una società che trasferisce la noia nella politica. Il bamboccione è carico di odio per il mondo perché incolpa il mondo del proprio fallimento; è un walking dead che si muove in gruppo perché da solo non ha alcuna consapevolezza di sé: in pratica è solo un nickname. Se il fighetto radical chic è un dandy ideologico, ricco e ipocrita e cattivo che copre con l’odio ideologico il senso di colpa per il suo benessere (di cui spesso non ha alcun merito), il bamboccione antifascista è il sottoprodotto di una modernità neanche liquida ma liquefatta. Mamma e papà non rappresentano il valore della famiglia, il legame fondante di un ordine naturale, ma solo l’area di parcheggio tra la Play Station e la rivoluzione. Tra il bamboccione di Berlino, lo studentello intollerante dell’Università liberal americana, il “rivoluzionario al cachemire” del Mamiani e la figlia di un ministro che guida i cortei di clandestini, si trova le stesse ridicola contraddizione: “Ci chiamano banditi, ci chiamano teppisti, ieri partigiani, oggi antifascisti”. E figli di papà…

La Veronica di Padoan, scrive il 24/08/2016 Massimo Gramellini su "La Stampa”. Tra gli indignati di professione c’è chi si è molto stupito che la figlia del ministro Padoan sia scesa in piazza armata di megafono contro la pigrizia del governo nella lotta al caporalato. Dove andremo a finire con questi ragazzi ribelli, signora mia. Che se poi hai il privilegio di avere un padre ministro, non faresti prima a protestargli addosso mentre addenta il cornetto della colazione? Senza contare che è tipico dei bambocci viziati della borghesia di sinistra abbracciare la causa esotica dei migranti sfruttati nelle campagne anziché solidarizzare con la nonnina di razza bianca che non arriva a fine mese. Queste le gocce di saggezza che grondavano dal web e da certe prime pagine vergate da campioni della coerenza intellettuale sempre pronti a eccitarsi appena scorgono un sospetto di contraddizione. A noi del reparto Ingenui ha invece colpito che come luogo di villeggiatura ferragostana la figlia di un ministro abbia preferito il cortile della prefettura di Foggia alle spiagge di Ibiza (o di Capalbio, dai). E che ci sia ancora qualcuno disposto a battersi per difendere relitti di un’antica civiltà come il rispetto dei contratti di lavoro. Se fossi Padoan, sarei orgoglioso di averle trasmesso certi valori. Qualcuno si scandalizzerà che la figlia di un ministro sia di sinistra. Ma a vent’anni succede e nel caso di Padoan pare lo sia stato persino lui, addirittura fino a non molto tempo fa.

La figlia di Padoan in piazza per i profughi con i centri sociali. L'agitatrice di immigrati è Veronica, pupilla di quel ministro dell'Economia che ha sempre difeso a spada tratta quei circa 4 miliardi di spesa pubblica che l'Italia dedica all'accoglienza dei richiedenti asilo, scrive l'8/02/2017 "Diario del web". Sembra assurdo, ma c'è una figlia di un ministro che è scesa in piazza a fianco dei centri sociali per manifestare contro le politiche sull'immigrazione del governo Gentiloni, considerate troppo restrittive. La cosa si fa ancora più assurda quando si scopre che l'agitatrice di profughi è Veronica Padoan, pupilla di quel Pier Carlo che ha sempre difeso a spada tratta quei circa 4 miliardi di spesa pubblica che l'Italia dedica all'accoglienza dei richiedenti asilo. Veronica è stata immortalata in un video che documenta la protesta dei clandestini che vivono nella tendopoli abusiva di San Ferdinando a Rosarno: lei è lì fra i promotori di quel corteo organizzato senza preavvisi fra le vie del paese, che con Rosarno, ospita il maggior numero di immigrati della provincia di Reggio Calabria. E' stata proprio la figlia di Padoan a guidare una delegazione che ha incontrato le istituzioni locali per avanzare le solite richieste retoriche: «Documenti subito», «Una casa e un lavoro per tutti», «Via le frontiere». Schiaffi in faccia ai residenti di quella sfortunata provincia che devono affrontare oltre a una cronica mancanza di lavoro anche servizi allo sbando, dalla sanità ai trasporti passando per l'assistenza sociale. La tendopoli di San Fernandino poi ha aggravato la situazione, portando in quel lembo di Calabria spaccio, prostituzione, degrado, il campo è un ammasso di baracche di fortuna dove l'immondizia viene smaltita con roghi in mezzo ai giacigli, e ha abbassato i diritti dei lavoratori più umili, con il racket del caporalato che si è sempre più ingrassato.

La figlia di Padoan guida la rivolta dei clandestini (insieme ai centri sociali). Le condizioni delle tendopoli sono al limite del disumano. E monta la rabbia degli italiani, scrive Michel Dessì, Martedì 7/02/2017, su "Il Giornale". È Veronica Padoan, figlia del Ministro dell'Economia, che guida il corteo di protesta organizzato assieme agli immigrati «sans papier» della tendopoli abusiva di San Ferdinando, il Comune della provincia di Reggio Calabria che, con Rosarno, ospita il maggior numero di africani e mediorientali, quasi tutti clandestini e senza documenti, fra quelli arrivati in gommone fino alle scalette delle navi della nostra Marina Militare. In molti si sono chiesti cosa ci facesse, fra tanti irregolari, la rampolla di un rappresentante del governo italiano, ma la domanda è rimasta senza risposta. Veronica Padoan, la giovane accanita manifestante, protetta dai suoi commilitoni del collettivo «Campagna in Lotta», era quasi irriconoscibile, nascosta dal cappuccio del suo giaccone. Una cosa è certa: è assieme a lei che un gruppo di immigrati è entrato a Palazzo per incontrare le istituzioni. Il tutto è accaduto nelle prime ore del giorno: i cittadini del piccolo comune pianigiano, usciti di casa per le quotidiane necessità, si sono trovati davanti un corteo di protesta organizzato, come spesso accade, senza alcun preavviso, dai centri sociali e dai più facinorosi tra gli ospiti della tendopoli. A preoccupare i sanferdinandesi, i toni sostenuti delle ormai arcinote richieste: «Documenti subito», «migliori trattamenti», «case e lavoro». Considerando le condizioni precarie di vita (sanità al collasso, trasporti scadenti, servizi sociali inesistenti) e la mancanza di lavoro anche per i lavoratori calabresi (non bisogna dimenticare che San Ferdinando è, assieme a Gioia Tauro e Rosarno, uno dei tre Comuni sul cui territorio insiste il porto. Così come non si deve dimenticare che proprio in quel porto si potrebbe consumare, a breve, una delle più gravi tragedie del lavoro degli ultimi anni: il licenziamento di oltre 400 lavoratori, paventato già parecchie volte negli ultimi mesi, le richieste degli stranieri risultano essere quasi fuori luogo. In realtà, la condizione di vita degli immigrati nelle tendopoli di San Ferdinando, è al limite del disumano. Capanne costruite con pali e legni di fortuna, coperte con teli di plastica, cartoni e cartelloni stradali, senza servizi igienici, immerse in dune di spazzatura che viene, ciclicamente, bruciata, sprigionando gas mefitici e dannosi alla salute di tutti. Promiscuità, uso e spaccio di sostanze stupefacenti, prostituzione e sfruttamento, caporalato e continui atti di violenza. A volte sedati dall'intervento delle Forze dell'Ordine, invitate ad intervenire dagli stessi immigrati; ma, molto spesso, finiti male, perché risolti senza l'intervento della Legge e regolamentati da patti tribali incomprensibili dalla Società Civile. La convivenza coi locali sta diventando, di giorno in giorno, sempre più difficile. E non solo per i problemi legati all'igiene e al malaffare: la rabbia delle famiglie italiane poggia su critiche pesanti anche alle istituzioni che non sono riuscite, in questi anni di immigrazione incontrollata, a difendere decenni di lotte sociali a tutela dei diritti dei lavoratori. In queste contrade, c'è chi, come Giuseppe Lavorato, è morto nel difendere i braccianti e le loro fatiche. E, dunque, sembra un ritorno ad un medioevo economico, la paga quotidiana a 25 euro per tutti, bianchi e neri, considerando l'eccessiva richiesta di lavoro anche sottopagato. La polveriera Piana di Gioia Tauro potrebbe esplodere da un momento all'altro. Come avvenne nel 2010. Anche per colpa di qualche «studentello» fricchettone che pensa di poter raccattare qualche minuto di celebrità a danno di tanti, italiani e non, che combattono ogni giorno contro il mostro della sopravvivenza.

La polizia contro la figlia di Padoan: "Il ministro prenda le distanze da questa vergogna". "E’ dannosissimo cavalcare l'emergenza immigrazione con il populismo di piazza. La figlia del ministro dovrebbe saperlo bene", scrive Michel Dessì, Martedì 7/02/2017, su "Il Giornale". Dopo le immagini da noi pubblicate, che ritraggono la figlia del Ministro dell’Economia al fianco degli extracomunitari in protesta, scoppia la polemica. “Sarebbe bello vedere una donna così vicina al mondo istituzionale e partitico fare un corteo pro forze dell'ordine. Soprattutto in una regione come la Calabria, dove lo Stato è in guerra contro l'anti stato.” Dichiara al Giornale.it Giuseppe Brugnano, segretario regionale del Coisp Calabria. Mentre i carabinieri e la polizia sono impegnati quotidianamente a mantenere l’ordine e, soprattutto, la calma all’interno della grande tendopoli c’è chi fomenta l’odio organizzando manifestazioni di piazza. “E’ inaccettabile che i corrispondenti di Radio Onda Rossa, “fratelli” del collettivo “Campagna in lotta”, di cui fa parte proprio Veronica Padoan, apostrofino in diretta radiofonica gli agenti di polizia in servizio per mantenere l’ordine pubblico come “sbirri”. E’ dannosissimo cavalcare l'emergenza immigrazione con il populismo di piazza. La figlia del ministro dovrebbe saperlo bene. Ogni volta che gli agenti entrano in quel campo abusivo rischiano la vita. Le risse sono all’ordine del giorno. Come dimenticare i tragici fatti di qualche mese fa dove, un carabiniere, intervenuto per sedare una rissa fra immigrati, è stato ferito al viso e, per legittima difesa, ha sparato uccidendo un migrante. Dobbiamo evitare che si ripeta una tragedia del genere. Veronica Padoan si vergogni! Auspichiamo che il padre, il ministro Padoan, prenda ufficialmente le distanze da questo mondo in cui gravita la figlia.” Conclude Brugnano. Gli oltre duemila immigrati che vivono nel ghetto di San Ferdinando chiedono documenti e, soprattutto, una nuova tendopoli. Già promessa mesi fa dalla regione Calabria, la quale ha stanziato 300 mila euro. Ma tutto è fermo.

Veronica Padoan: "Questa non è giustizia". E la figlia del ministro attacca: "Se il governo non ci ascolta porteremo la nostra protesta fino a Roma. La nuova legge aiuta l'illegalità", scrive Giuliano Foschini su "La Repubblica" il 23 agosto 2016. Scusi, ma davvero lei è la figlia del ministro Padoan? "Se permettete, non dovrebbe essere importante chi sono, ma quello che dico". Fuori dalla Prefettura di Foggia una decina di ragazzi e ragazze, italiani e migranti, protestano contro il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, i parlamentari, i rappresentanti della Prefettura e dei sindacati, che stanno discutendo della nuova legge sul caporalato. Con il megafono in mano c'è Veronica Padoan, figlia del ministro dell'Economia, Piercarlo. "Caro ministro dell'ingiustizia... ", comincia così, megafono in mano, uno dei messaggi che lancia a Orlando mentre, insieme ai compagni, grida: "Assassini in giacca e cravatta, assassini con la divisa".

Sono anni che chiedete una nuova legge sui braccianti. Ora quella legge è pronta, voluta da questo governo. Perché siete qui a protestare?

"Perché non è certo quello che serve. L'unico strumento reale per cambiare le cose sono i contratti nazionali di lavoro e gli accordi provinciali: sono l'unica maniera, seppur minima, per eliminare lo sfruttamento o parte di esso".

Che significa?

"Non inserire la questione del trasporto e dell'abitazione all'interno dei contratti significa regalare l'illegalità ai caporali. E questi signori lo sanno bene. Sanno che gli strumenti per cambiare le cose sono proprio quei contratti che loro hanno firmato. Sanno che la legalità del territorio e del lavoro in agricoltura passa attraverso la legalità di chi ci lavora. È una storia così banale, così triste, così vera".

Ma davvero lei è la figlia del ministro dell'Economia? Ne ha parlato con suo padre?

Veronica prende in mano il megafono. "Ministro Orlando, ci vediamo a Roma, perché se non ci ascoltate dobbiamo andare da un'altra parte". Poi, mano verso la Prefettura, il coro: "Questo palazzo non serve a un ca...".

Veronica Padoan e gli eredi ribelli dei politici, scrive Francesca Buonfiglioli il 23 agosto 2016. Da Marco Donat-Cattin fino alla figlia di Padoan. Passando per Delrio junior. Quando l'erede del politico è scomodo. O si schiera contro le istituzioni. «Se permettete, non dovrebbe essere importante chi sono ma quello che dico», ha detto secca Veronica Padoan, figlia del ministro dell'Economia, intercettata durante una manifestazione contro il caporalato e le condizioni subumane dei lavoratori del ghetto di Rignano garganico. Megafono alla mano ha minacciato: «Ministro Orlando, ci vediamo a Roma, perché se non ci ascoltate dobbiamo andare da un’altra parte». E poi, indicando il Palazzo della Prefettura, si è unita al coro in rima baciata: «Questo palazzo non serve a un ca...». Veronica Padoan è ricercatrice presso l'Ires, l'istituto di ricerche economico-sociali della Cgil, e da anni si occupa di tematiche legate all'immigrazione e al mercato del lavoro. «Ha collaborato con numerosi istituti di ricerca e istituzioni», si legge in un suo stringatissimo cv pubblicato anni fa da Social Europe, una casa editrice digitale londinese, «tra cui l'Anci, l'ufficio statistico del Comune di Roma, l'Iprs (Istituto psicoanalitico per le ricerche sociali) e l'Osservatorio sull'immigrazione dell'Ires».

Decisamente una strada diversa da quella intrapresa dalla sorella Eleonora che dal primo luglio 2015 è dipendente a tempo indeterminato di Cassa depositi e prestiti. Contratto arrivato senza concorso perché la Cdp non rientra nella Pa, ma «a seguito di una procedura di job posting iniziata nel novembre del 2014» e «volta a valorizzare professionalità interne al gruppo». E infatti Eleonora lavorava come economista alla Sace, controllata dalla Cassa depositi e prestiti.

Veronica Padoan, però, non è certo la prima né l'unica figlia ribelle di un politico o di un rappresentante delle istituzioni.

Donat-Cattin e Prima Linea. A metà degli Anni 70 Marco Donat-Cattin, figlio del noto Carlo esponente della sinistra sociale della Dc, tra i fondatori della Cisl e pluriministro, prese parte alla costituzione di Prima Linea. Con il nome di Comandante Alberto divenne uno dei leader dell'organizzazione terroristica. Identificato dalla polizia nel 1980 grazie alla testimonianza dell'ex compagno Roberto Sandalo, riuscì a riparare in Francia, ma venne estradato in Italia l'anno dopo. Lo scandalo travolse il padre che si dimise da ogni incarico di partito prendendosi una pausa dalla vita politica e pure l'allora presidente del Consiglio Francesco Cossiga accusato in un primo momento di aver agevolato la fuga del terrorista avvertendo il padre Carlo che il figlio era ricercato. Dissociatosi da Prima Linea, Donat-Cattin jr beneficiò della riduzione della pena ottenendo gli arresti domiciliari nel 1985. Tre anni dopo morì in un incidente stradale.

Tommaso Cacciari. Tra le calli di Venezia, invece, si consuma da anni la querelle dei Cacciari. A dare grattacapi a Massimo, ex sindaco della Serenissima, è stato il nipote Tommaso no global e tra i leader dei centri sociali veneziani e figlio di Paolo, fratello del filosofo ed ex deputato di Rifondazione. I sabotaggi al Mose e alcuni atti dimostrativi tra Venezia e Milano sono costati a «Cacciari il Giovane» (copyright Giancarlo Galan) grane giudiziarie. Nonché le reprimende dello zio che a più riprese aveva condannato le modalità di lotta del nipote. Ex «portiere di notte», su Twitter oggi si definisce «attivista del laboratorio occupato Morion e del Comitato NoGrandiNavi - NoMose, antifascista».  Insomma, le barricate, nonostante gli anni che passano, stanno ancora in piedi.

Michele Delrio. Tornando ai figli di ministri, pure in quel di Reggio Emilia Michele Delrio, detto Billo, uno dei nove figli dell'ex sindaco e ministro, decise di abbandonare il politically correct e attaccare su Facebook il governo Letta di cui suo padre era stato responsabile delle Autonomie regionali. «Sfido chiunque a dirmi un provvedimento a lungo termine che abbia approvato questo governo», aveva tuonato il giovane arbitro di calcio nel febbraio 2014, pochi giorni prima della caduta dell'esecutivo. «In 10 mesi nulla è stato fatto in tema di lavoro, oltre a rifinanziamento a cassa integrati. Pasticcio sull’Imu, pasticcio su Bankitalia, pasticcio su decreto carceri. Al Paese non serve un eroe ma un governo, che possibilmente governi e non punti a sopravvivere». Un'uscita da cartellino giallo per alcuni, ma che Michele non rinnegò: «Dico quel che penso indipendentemente da mio padre», commentò chiudendo la questione. A dirla tutta, però, Delrio jr un suo eroe lo aveva già e da tempo visto che nel 2012, appena 20enne, aveva creato un coordinamento cittadino per appoggiare Matteo Renzi alla primarie. Annunciando la nascita del gruppo, spiegò sempre sul social con entusiasmo: «Siamo un gruppo di amici, di ragazzi che non si rassegnano all’idea di dover consegnare la politica ai disonesti. Il nostro gruppo si chiama “Adesso!! Kairos” e vogliamo dare voce a chi non ha più la forza di alzarla e dare dignità a coloro che l'hanno persa. Matteo Renzi rappresenta una ventata di cambiamento, di politica fatta dal basso, di quella politica che si sporca le mani lavorando e sudando la fiducia del popolo. Abbiamo voglia prima di tutto di ricominciare a sognare, di tornare ad impegnarci, a credere in qualcosa e non in qualcuno». Endorsement che anticipò addirittura quello del padre. 

Figli ribelli, contro il sistema, contro lo Stato o contro il governo. Ma nulla in confronto a chi il parricidio lo organizzò per davvero. O almeno così racconta la storia.  Nel 2 a.C., Giulia Maggiore, unica figlia naturale di Augusto e moglie di Tiberio, fu arrestata con l'accusa di adulterio e tradimento per aver congiurato contro suo padre. Dopo l'esilio a Ventotene, morì forse di stenti a Reggio Calabria. Il rimorso non abbandonò mai Augusto, che parlando della figlia si narra prendesse a prestito le parole dell'Iliade: «Vorrei essere senza moglie, o essere morto senza figli».

La politica sfasciafamiglie. Dalla figlia di Padoan, occhiali da sole e megafono, che protesta contro i "giochini del governo", al figlio diciottenne di Yoram Gutgeld (consigliere economico di Matteo Renzi) in piazza contro il Jobs Act mentre suo padre elogia le riforme in un’intervista sul Financial Times. Il privato è dibattito, scrive Annalena Benini il 24 Agosto 2016 su “Il Foglio”. Veronica Padoan, figlia del ministro dell’Economia, ha protestato contro “i giochini” del governo. Occhiali da sole, capelli sciolti e megafono, ha manifestato pacificamente con il suo gruppo di attivisti davanti alla prefettura di Foggia, in occasione della visita del ministro della Giustizia Andrea Orlando (“bene, abbiamo l’interlocutore adatto”, ha detto con sarcasmo al megafono Veronica Padoan quando il ministro è arrivato). La questione è quella del lavoro nelle campagne dei braccianti stagionali, non solo extracomunitari, con le baraccopoli fatiscenti e abusive, il caporalato, migliaia di persone sfruttate e sottopagate, niente docce, niente tutele. E’ una battaglia che Veronica Padoan combatte da molto prima che suo padre diventasse ministro del governo Renzi, è qualcosa che attraversa la famiglia, i legami personali, il sangue, e ha bisogno di affermarsi anche controvento, come (ma in modo più evidente e serio) nei pranzi della domenica in cui non siamo mai d’accordo con nostra madre, nostro padre, i figli, sui destini del mondo, sui modi per salvarlo, e anche su chi è meglio votare. Veronica Padoan parla, accesa e severa, dei “signori del palazzo” e dei giochini del governo, anche se in questo governo c’è suo padre, e rivela l’umanissima, vitale tradizione del dissidio politico famigliare, anche doloroso, anche difficile da sopportare, che non viene pacificato da un ruolo importante né dalla fiducia personale. Si diventa adulti anche per contrarietà, si cerca la differenza, il conflitto, l’autonomia. Mai come mio padre, penserà forse il figlio di Yoram Gutgeld (consigliere economico di Matteo Renzi) che a diciotto anni, da presidente del Movimento studentesco milanese, ha protestato in piazza contro il Jobs Act e contro l’ingresso dei privati nella scuola pubblica, mentre suo padre elogiava le riforme in un’intervista al Financial Times. Padri e figli, mariti e mogli, litigano per la politica da sempre (la compagna di Matteo Orfini, madre dei suoi figli, ha raccontato lui stesso, “dà ragione a chi fa opposizione a noi, lei è oltre il Pd”) e in queste discussioni, in questi contrasti, in questo darsi torto, c’è anche il gusto di non essere mai d’accordo, di cercare di convincere l’altro, senza riuscirci quasi mai, perfino divertendosi a battere i pugni sul tavolo, a rincorrersi in bagno per continuare a litigare agitando fogli di giornale, citando a memoria stralci di talk-show notturni, anche negando il like all’ultimo severissimo giudizio politico postato su Facebook. Ci sono storie più dolorose: Giovanni Amendola e suo figlio Giorgio discutevano perché il padre era antifascista ma liberale e il figlio antifascista ma attratto dal comunismo (aderì al Pci dopo la morte del padre), ma non è immaginabile una riunione di famiglia, una cena di Natale in cui, al primo accenno alla politica, alla Costituzione, alle riforme, alla scuola, nessun parente cominci ad agitarsi sulla sedia, a sbuffare, a diventare rosso per la rabbia, a scuotere la testa con aria sarcastica. Ci si calma, di solito, quando qualcuno di molto saggio grida, dalla cucina: chi vuole un caffè?

Quella lunga lista di figli di papà che giocano a rinnegare i genitori. Veronica Padoan non è sola, scrive il 24 Agosto 2016 “Il Tempo”. Dall’altro ieri Veronica Padoan ha aggiunto un’altra pagina all’eterno diario dello scontro figli-genitori. Ordinario e fisiologico in tutte le famiglie, diventa suggestivo, e vagamente retorico, quando tra le parti opposte della barricata si piazzano uomini politici - e di governo- con la relativa progenie. Così la rampolla di Piercarlo, ministro dell’economia, è scesa in piazza a Foggia con tanto di megafono manifestando contro la visita di un collega di suo padre, il Guardasigilli Andrea Orlando, perorando la causa dei braccianti extracomunitari stagionali. Non vi è traccia, al momento, di reazioni pubbliche dell’augusto genitore. Al contrario di quanto fece, nel 2014, l’allora vice ministro agli Esteri Lapo Pistelli, quando il figlio liceale scese in piazza in una di quelle tradizionali manifestazioni contro le politiche del governo (tocca un po’ a tutti) sulla scuola. Pistelli senior la prese con ironia: «La prossima volta parliamone a cena a casa», scrisse sul suo profilo Facebook. Crisi familiare sventata dunque. Più complessa fu invece l’esperienza di Paolo Guzzanti, quando oltre ad essere editorialista del Giornale, nel 2001 fu eletto senatore con Forza Italia. Erano gli anni di girotondi, dell’«editto bulgaro», del mondo della cultura di sinistra lancia in resta contro Berlusconi. In prima linea si distingueva Sabina Guzzanti, regista e attrice figlia di Paolo. Suo padre le scrisse una lettera aperta, cercando di spiegarle la vera natura del berlusconismo. Lei le rispose con una mail privata in cui lo accusava, rivelò lui con comprensibile amarezza, di far parte «di un’accolita di delinquenti», perchè «Forza Italia e la Casa delle Libertà sono sinonimo di mafia, razzismo, fascismo, antidemocrazia». Può capitare, poi, che tra il padre politico e il figlio si incunei un certo ribellismo tipico dell’età, foriero di imbarazzi per il ruolo del genitore. Pare che, negli ultimi tempi, Barack Obama sia alle prese con le intemperanze festaiole della figlia Malia, ormai maggiorenne, paparazzata a fumare quel che ha tutta l’idea di essere uno spinello. Agli annali sono anche i rapporti burrascosi che ci furono tra George H. Bush e suo figlio, il discolo George W. Entrambi sarebbero diventati rispettivamente il 41esimo e il 43 esimo presidente degli Stati Uniti d’America. Ma nel 1973 non lo sapevano e così ecco un adirato George senior, allora presidente del Partito Repubblicano, accogliere sulla porta di casa il figlio ubriaco dopo una notte brava che lo voleva prendere a pugni. Ben più drammatiche furono alcune vicende di casa nostra. Carlo Donatt Cattin, esponente e uomo di governo diccì a cavallo tra i ’70 e gli anni ’80, ebbe la propria carriera politica compromessa dalla scelta compiuta da suo figlio Marco di abbracciare la lotta armata, nella schiera di Prima Linea, il gruppo guidato da Sergio Segio. Marco, negli anni, si dissociò dal percorso terroristico, ma poco dopo la vita gli presentò il conto più amaro, e morì investito dopo che si era fermato a soccorrere alcuni automobilisti coinvolti in un tamponamento. Prima di Donatt Cattin, anche Attilio Piccioni, ministro democristiano negli anni ’50, ebbe guai per via del figlio. Piero, compositore, fu infatti coinvolto nello scandalo Wilma Montesi, una ragazza trovata morta sul litorale di Tor Vajanica; dietro quel cadavere si delineava uno scenario di scandali nella Roma post bellica, in una mondanità sfrenata ribollente di orge e droga a fiumi. Piccioni Jr alla fine fu scagionato, ma suo padre nel frattempo si era dovuto dimettere da ministro degli Esteri. Ai giorni nostri, poi, ci sono alcuni casi più o meno noti di ribellismi elettorali. Due anni fa, a San Giorgio di Piano, in provincia di Bologna, il figlio del locale segretario Pd si è candidato al Comune con i Cinque Stelle, risultando eletto. Poi c’è anche il caso contrario, quando è il padre a ribellarsi al figlio. È il caso di Giambattista Borgonzoni, padre di Lucia, candidata leghista a sindaco di Bologna che è riuscita ad arrivare al secondo turno. Lui, moderato di sinistra, tessé pubblicamente le lodi alla figlia ma annunciò che no, la Lega non l’avrebbe mai votata. Perché i figli, quando ci si mettono sono spietati. Ma anche i genitori…

Di padre in figlia: italiani ultimo pensiero. Veronica Padoan, ricercatrice Cgil e pargola del ministro, alla testa di una protesta dei migranti, scrive “Il Giornale d’Italia” il 23/08/2016. C’era una pasionaria, ad attendere il ministro Andrea Orlando ieri a Foggia. Arrabbiata, per dire un eufemismo, nera: nera come gli occhiali da sole e come la quindicina di manifestanti dietro alle sue spalle. Capeggia la rivolta di “Campagna in lotta”, vorrebbe veder chiuso il “ghetto” di Rignano Garganico dove migranti economici (quelli che una volta sarebbero stati definiti semplicemente clandestini: ma si ha la sensazione che dirlo oggi siamo ormai vietato) vivono nelle baracche in attesa di lavorare nei campi e si chiama Veronica Padoan. Già, come il ministro dell’Economia. Di cui è, d’altronde, figlia. “È dal 2014 che la Giunta Vendola aveva millantato di smantellare il ghetto. Il problema non sono queste micro-comunità – il suo grido – il problema è che non si organizza effettivamente il lavoro nei campi”. E sfoggia, nelle interviste sotto la Prefettura, grande cognizione del tema. D’altronde è una ricercatrice dell’Ires, l’istituto di ricerca sociale fondato dalla Cgil e oggi sotto l’egida della Fondazione Di Vittorio. È anche convincente, quanto meno per chi ancora è succube di certe suggestioni assistenzialistiche che nell’Italia di oggi hanno ben poco senso. Per accorgersi di questa verità, la pasionaria Veronica, dovrebbe semplicemente cercare nella rubrica del suo smartphone il nome “papà”, e chiedere soldi. Oppure, potrebbe rivolgersi alla voce “Eleonora”. È sua sorella, anch’ella Padoan, da poco assunta alla Cassa Depositi e Prestiti con contratto a tempo indeterminato. La Cdp è considerata il bancomat preferito dal governo: chissà che non si trovi qualche “risorsa” per abbattere il ghetto e dare casa, diritti e lavoro alla quindicina di cui Veronica s’è messa a capo. D’altronde, da poche settimane, Eleonora Padoan si occupa all’interno della Cassa (ossia il gruppo pubblico che gestisce il risparmio postale degli italiani ed è controllato proprio dal Tesoro, cioè da papà…) del settore cooperazione e sviluppo internazionale. Che con la Cgil da un lato e i migranti nei campi dall’altro, guarda un po’, pare avere una competenza diretta.  Li troverà, la protettrice dei migranti, i soldi, per un progettino già pronto e firmato Cgil? C’è da ritenersene certi. Poi ci penserà Pier Carlo, a spiegare agli italiani che per loro risorse non ce ne sono, per il patto di stabilità, la richiesta di flessibilità, il Pil col fiato corto e i segnali di ripresa.

Dall'asilo nido ai posti di prestigio Cosa fanno gli eredi dei ministri. Eleonora Padoan assunta alla Cassa depositi e prestiti, la sorella è alla Cgil, Delrio jr fa l'arbitro di calcio. Molti bimbi e under 18, scrive Paolo Bracalini, Giovedì 22/12/2016, su "Il Giornale". Se Manuel Poletti ha una carriera già brillante nel mondo coop coi fondi pubblici di Palazzo Chigi, altri rampolli di governo non sono ancora sistemati a dovere. Sarà che avendo meno di 10 anni, alcuni ancora neonati, è un po' prestino per fare i dirigenti o i dipendenti di una coop rossa. Si faranno, bisogna avere pazienza. C'è poi che diversi ministri non hanno proprio figli (condizione che, in politica, può risparmiare svariate occasioni di imbarazzo), a iniziare dal primo ministro, Paolo Gentiloni, sposato senza eredi, come pure il Guardasigilli Andrea Orlando («45 anni ma eterno Peter Pan» dicono di lui gli amici), o la ministra dell'Istruzione Valeria Fedeli, che non ha la laurea ma un marito sì (e pure lui sindacalista e senatore Pd, Achille Passoni), e non risulta avere figli. Senza contare la sottosegretaria Maria Elena Boschi, che è addirittura single. Mentre altri giovani titolari di ministeri hanno pargoli in età da asilo nido (il renziano Luca Lotti, Marianna Madia, Beatrice Lorenzin), o under 18 (come i ministri Angelino Alfano e Carlo Calenda, quarantenne già padre di quattro figli, o il trentenne Maurizio Martina). Con i ministri più anziani però, tipo il titolare del Tesoro Pier Carlo Padoan, si rintracciano curriculum di rampolli già in carriera. La figlia Eleonora Padoan, dopo aver ricoperto il ruolo di senior economist alla Sace, società pubblica di prodotti assicurativi e finanziari, nel 2015, cioè quando il padre era già da oltre un anno ministro dell'Economia, è stata assunta dalla Cassa depositi e prestiti, società controllata all'82% proprio dal ministero del padre. Posto di lavoro ottenuto dalla figlia di Padoan «a seguito di una procedura di job posting iniziata nel novembre del 2014», spiegò la Cdp proprio al Giornale. Non un concorso vero e proprio, ma «una procedura volta a valorizzare professionalità interne al gruppo». Anche l'altra figlia, Veronica Padoan, ricercatrice all'Inca-Cgil, si può incontrare nei pressi di qualche ministero. Fuori, però, a protestare contro il governo in qualche corteo. Questa estate era a Foggia, megafono in mano, insieme ad una quindicina di attivisti e lavoratori africani della rete «Campagna in lotta» a contestare il ministro della Giustizia sulle condizioni di lavoro dei braccianti extracomunitari. Il ministro Graziano Delrio (Infrastrutture) di figli ne ha nove, cinque femmine e quattro maschi («Dopo il nono, abbiamo detto basta»). Anche solo per il calcolo della probabilità, qualche Delrio jr attivo in politica c'è. Renziano, ovviamente, ma senza incarichi di prestigio per ora. Trattasi di Michele Delrio, ventenne, talmente renziano che su Facebook stroncò il governo Letta («Non ha fatto nulla») di cui il padre era ministro. Le cronache locali riportano poi l'hobby di arbitro di calcio di Michele Delrio. Con côté di polemiche incluse, come quando arbitrò un Barletta-Casarano, e fu accusato di faziosità: «Non vorrei che il risultato maturato ieri, sia il frutto di una macchinazione politica a nostro danno...» si infuriò il presidente del Casarano, eliminato dal Barletta calcio. Il ministro all'Ambiente Gian Luca Galletti (Udc), da cattolico, tiene molto all'educazione, e vieta ai figli la visione di cartoni animati volgari, e non solo quelli. «Ho vietato ai miei figli più piccoli di vedere i Simpson e Beppe Grillo - twittò Galletti - Violenza e parolacce non fanno bene ai piccoli. E neanche ai grandi». Mentre Angelino Alfano, da ministro dell'Interno, assicurò che il rischio terrorismo non avrebbe modificato le sue scelte da padre: «Io sono papà di due bambini di 14 e 9 anni, anche loro andranno in gita scolastica e io li autorizzerò. E segnalo che loro non godono della tutela di cui gode suo padre». Per la ministra della Difesa Roberta Pinotti, si era vociferato di un importante destinato alle figlie dopo una missione in Kuwait, oltre ad un Rolex. Ma la Pinotti ha smentito: «Non mi occupo dei regali, c'è una stanza al ministero dove sono custoditi». Poi c'è la neoministra, ma con lunga esperienza politica, Anna Finocchiaro, sposata con Melchiorre Fidelbo. La Finocchiaro ha due figlie, Miranda e Costanza. E su Linkedin c'è il profilo di una Miranda Fidelbo, giovane avvocatessa che dopo un tirocinio al Parlamento Europeo, ora lavora nello studio Severino di Roma. Quello dell'ex ministro Paola Severino.

Poletti jr e gli altri figli dei ministri col lavoro assicurato. Dai banchi del governo hanno attaccato precari, bamboccioni, choosy. E ora pure gli expat. Ma a casa loro..., scrive "Lettera 43” il 21 dicembre 2016. Prima furono i bamboccioni, poi i choosy, gli sfigati e, ancora, i nostalgici della «monotonia» del posto fisso. Poteva Giuliano Poletti non dare il suo contributo alla lista di offese governative ai giovani disoccupati, non ancora laureati o desiderosi di un tempo indeterminato che non arriva mai? Certo che no. E così il ministro del Lavoro davanti alla fuga di 100 mila giovani all'estero ha commentato in modo sprezzante che «questo Paese non soffrirà a non averli più tra i piedi». Inutili le scuse per l'espressione un po' troppo colorita, soprattutto davanti a una disoccupazione giovanile al 36,4% (anche se è il valore più basso degli ultimi quattro anni, sic), al neo schiavismo dei voucheristi e all'aumento della precarietà effetto del Jobs Act. Il primogenito di Poletti, invece, è uno di quei giovani (nel senso italico del termine visto che di anni ne ha 42) «non pistola» che hanno deciso di restare in patria. E dire che l'ex sottosegretario Michel Martone lo avrebbe definito uno «sfigato» visto che è sensibilmente fuoricorso («Se non sei ancora laureato a 28 anni, sei uno sfigato», a essere precisi). Chissà poi cosa ne pensa il padre, visto che nel 2015 il ministro cadde in un'altra boutade impopolare sui fuori corso. «Prendere 110 e lode a 28 anni non serve a un fico, è meglio prendere 97 a 21», disse agli studenti all'inaugurazione di Job&Orienta. Una giustificazione, però, Poletti jr ce l'ha: in questi anni si è dedicato al lavoro e alla famiglia, ha raccontato al Fatto quotidiano. Già il lavoro. Manuel dirige il settimanale Sette Sere Qui diffuso tra Faenza, Lugo Ravenna e Cervia. L'editore è la Coop Media Romagna di cui il figlio del ministro è presidente. Il giornale nel 2015 ha ottenuto 190 mila euro di contributi pubblici, 521.598 in tre anni. Ma lui, ha assicurato, guadagna 1.800 euro al mese. Il solito welfare cooperativo. Come si diceva, Poletti non è certo il solo ad avere preso di mira i giovani, salvo poi poter vantare prole sistemata, stipendiata e soddisfatta. E molto probabilmente pure meritevole e talentuosa, ma questo è un altro discorso. Si prenda per esempio l'ex premier Mario Monti che definì monotono il posto fisso. «I giovani devono abituarsi all'idea di non avere più il posto fisso a vita: che monotonia», disse a febbraio 2012. «È bello cambiare e accettare delle sfide». E, infatti, suo figlio Giovanni Monti di lavori ne ha cambiati parecchi, sempre fissi però. L'enfant prodige bocconiano, classe '73, dopo un po' di "gavetta" come consulente alla Bain and Co, è passato dalla vicepresidenza di Citigroup a quella di Morgan Stanley. Nel 2009 entrò in Parmalat chiamato dall'allora commissario straordinario Enrico Bondi per occuparsi di business development. Esperienza che finì con dimissioni ctinte di giallo. Presso quali lidi sia approdato Monti jr difficile dirlo oggi, anche perché ai tempi della bufera cancellò il suo profilo da Linkedin. Invece, come ha ricordato Il Giornale, qualcosa in più si sa di Federica Monti, la secondogenita, che ha lavorato presso lo studio Ambrosetti, quelli dell'omonimo forum di Cernobbio. Alla faccia della monotonia, Federica ha pure sposato Antonio Ambrosetti: tutta casa e lavoro, insomma. Dai monotoni ai choosy, il passo è breve. Anche Elsa Fornero, che di Monti era ministro del Lavoro, invitò a smettere di cercare un posto a tempo indeterminato. «Il lavoro fisso?», disse, «Un'illusione». Insomma, aggiunse materna, «non bisogna mai essere troppo "choosy" (schizzinosi, ndr), meglio prendere la prima offerta e poi vedere da dentro e non aspettare il posto ideale». Sua figlia Silvia Deagliodeve essere stata fortunata. Nata nel 1974, sposata con un dirigente Unicredit, Deaglio è professore associato alla facoltà di Medicina e chirurgia dell'Università di Torino, lo stesso in cui insegnano i genitori. Per sconfiggere la monotonia montiana, la professoressa ricoprì anche un ruolo come «responsabile dell'unità di ricerca» della fondazione HuGeF, attiva nel campo della genetica. Un cervello non in fuga il suo. Anche perché, come scrisse il Fq, la fondazione riuscì a ottenere dai ministeri della Salute e della Ricerca «quasi 1 milione di euro in due anni, 500 mila nel 2008, 373.400 e 69 mila nel 2009». Ma i tecnici non sono stati gli unici ad aver dispensato consigli (non richiesti) alla popolazione di giovani precari italiani. Nel 2008 pure Silvio Berlusconi propose la sua ricetta. Durante la trasmissione Tg2 Punto di vista, a una ragazza che chiedeva come fosse possibile mettere su famiglia senza un'occupazione stabile rispose: «Da padre il consiglio che le do è quello di ricercarsi il figlio di Berlusconi o di qualcun altro che non avesse di questi problemi. Con il sorriso che ha potrebbe anche permetterselo». Dopo nove anni, quello del Cav resta - purtroppo e al netto delle comprensibili polemiche - l'unico bagliore di realtà. A sua insaputa.

IL FAMILISMO AMORALE ED IL COOPTISMO AMORALE.

Ripubblichiamo un pezzo di Bruno Trentin intitolato "A proposito del merito" uscito sull’Unità nel 2006. "La meritocrazia come criterio di selezione degli individui al lavoro ritorna alla moda nel linguaggio della sinistra e del centrosinistra, dopo il 1989; ma prima ancora con la scoperta fatta da Claudio Martelli a un Congresso del Psi sulla validità di una società «dei meriti e dei bisogni». In realtà, sin dall’illuminismo, la meritocrazia che presupponeva la legittimazione della decisione discrezionale di un «governante», sia esso un caporeparto, un capo ufficio, un barone universitario o, naturalmente un politico inserito nella macchina di governo, era stata respinta. Era stata respinta come una sostituzione della formazione e dell’educazione, che solo possono essere assunte come criterio di riconoscimento dell’attitudine di qualsiasi lavoratore di svolgere la funzione alla quale era candidato. Già Rousseau e, con lui, Condorcet respingevano con rigore qualsiasi criterio, diverso dalla conoscenza e dalla qualificazione specializzata, di valutazione del «valore» della persona e lo riconoscevano come una mera espressione di un potere autoritario e discriminatorio. Ma da allora, con il sopravvento nel mondo delle imprese di una cultura del potere e dell’autorità il ricorso al «merito» (e non solo e non tanto alla qualificazione e alla competenza accertata) ha sempre avuto il ruolo di sancire, dalla prima rivoluzione industriale al fordismo, il potere indivisibile del padrone o del governante; e il significato di ridimensionare ogni valutazione fondata sulla conoscenza e il «sapere fare», valorizzando invece, come fattori determinanti, criteri come quelli della fedeltà, della lealtà nei confronti del superiore, di obbedienza e, in quel contesto, negli anni del fordismo, dell’anzianità aziendale. Nella mia storia di sindacalista ho dovuto fare ogni giorno i conti la meritocrazia, e cioè con il ricorso al concetto di «merito», utilizzato (anche in termini salariali) come correttivo di riconoscimento della qualificazione e della competenza dei lavoratori. E, soprattutto negli anni 60 del secolo passato, quando mi sono confrontato con la struttura della retribuzione, alla Fiat e in altre grandi fabbriche e ho scoperto la funzione antisindacale degli «assegni» o «premi» di merito; quando questi, oltre a dividere i lavoratori della stessa qualifica o della stessa mansione, finirono per rappresentare un modo diverso di inquadramento, di promozione e di comando della persona, sanzionato, per gli impiegati, da una divisione normativa, che nulla aveva a che fare con l’efficienza e la funzionalità, ma che sancivano fino agli anni 70 la garanzia del posto di lavoro e quindi la fedeltà all’impresa. Un sistema di inquadramento e di organizzazione del lavoro apertamente alternativo alla qualifica definita dalla contrattazione nazionale e aziendale. Ma molto presto questa utilizzazione dei premi di merito o dei premi tout court giunse alla penalizzazione degli scioperi e delle assenze individuali (anche per malattia), quando di fronte a poche ore di sciopero o alla conseguenza di un infortunio sul lavoro (mi ricordo bene una vertenza all’Italcementi a questo proposito), le imprese sopprimevano anche 6 mesi di premio. È questa concezione del merito, della meritocrazia, della promozione sulla base di una decisione inappellabile di un’autorità «superiore» che è stato cancellato con la lotta dei metalmeccanici nel ‘69 e con lo Statuto dei diritti del lavoro che nel 1970 dava corpo alla grande idea di Di Vittorio di dieci anni prima. Purtroppo una parte della sinistra, i parlamentari del Pci, si astennero al momento della sua approvazione, solo perché esclusa dalla partecipazione al Governo. Ma quello che è più interessante osservare è come, alla crisi successiva del Fordismo e alla trasformazione della filosofia dell’impresa, con la flessibilità ma anche con la responsabilità che incombe sul lavoratore sui risultati quantitativi e qualitativi delle sue opere, si sia accompagnato in Italia a una risorgenza delle forme più autoritarie del Taylorismo, particolarmente nei servizi, santificata non solo dal mito del manager che si fa strada con le gomitate e le stock options, ma dalla ideologia del liberismo autoritario. Con gli «yuppies» che privilegiano l’investimento finanziario a breve termine, ritorna così per gli strati più fragili (in termini di conoscenza) l’impero della meritocrazia.

A questa nuova trasformazione (e qualche volta degrado) del sistema industriale italiano ha però contribuito, bisogna riconoscerlo, l’egualitarismo salariale di una parte del movimento sindacale, a partire dall’accordo sul punto unico di scala mobile, che ha offerto, in un mercato del lavoro in cui prevale la diversità (anche di conoscenze) e nel quale diventa necessario ricostruire una solidarietà fra persone e fra diversi, una sostanziale legittimazione alle imprese che hanno saputo ricostruire un rapporto diverso (autoritario ma compassionevole) con la persona sulla base di una incomprensibile meritocrazia. Non è casuale, del resto, che, di questi tempi, il concetto di merito, sinonimo di obbedienza e di dovere, abbia ritrovato un punto di riferimento nel sistema di promozione e di riconoscimento delle organizzazioni militari nel confronto del comportamento dei loro sottoposti. Le stesse osservazioni si possono fare per i «bisogni», contrapposti negli anni 60 del secolo scorso, alle domande che prevalgono nel vissuto dei cittadini nella società dei consumi. Era questa anche la convinzione di un grande studioso marxista come Paul Sweezy. Sweezy opponeva i «needs» (i bisogni reali, le necessità) ai «wants» (le domande, i desideri), attribuendo implicitamente ad uno stato illuminato e autoritario la selezione, «nell’interesse dei cittadini» fra gli uni e gli altri. Come se non fossero giunti i tempi in cui le domande e i desideri, pur influenzati dalla pubblicità, di fronte alle dure scelte e alle priorità imposte dalla condizione del lavoro e dalle lotte dei lavoratori si trasformano gradualmente in diritti universali, attraverso i quali, i cittadini, i lavoratori (non un padrone o uno stato illuminato), con il conflitto sociale, riuscirono a far progredire la stessa nazione di democrazia. Meriti e bisogni o capacità e diritti? Può sembrare una questione di vocabolario ma in realtà la meritocrazia nasconde il grande problema dell’affermazione dei diritti individuali di una società moderna. E quello che sorprende è che la cultura della meritocrazia (magari come antidoto alla burocrazia, quando la meritocrazia è il pilastro della burocrazia) sia riapparsa nel linguaggio corrente del centrosinistra e della stessa sinistra, e con il predominio culturale del liberismo neoconservatore e autoritario, come un valore da riscoprire. Mentre in Europa e nel mondo oltre che nel nostro paese, i più noti giuristi, i più noti studiosi di economia e di sociologia, da Bertrand Swartz a Amartya Sen, a Alain Supiot si sono affannati ad individuare e a riscoprire dei criteri di selezione e di opportunità del lavoro qualificato, capaci di riconciliare – non per pochi ma per tutti- libertà e conoscenza; di immaginare una crescita dei saperi come un fattore essenziale, da incoraggiare e da prescrivere, introducendo così un elemento dinamico nella stessa crescita culturale della società contemporanea. La «capability» di Amartya Sen non comporta soltanto la garanzia di una incessante mobilità professionale e sociale che deve ispirare un governo della flessibilità che non si traduca in precarietà e regressione. Ma essa rappresenta anche l’unica opportunità (solo questo, ma non è poco) di ricostruire sempre nella persona le condizioni di realizzare se stessa, «governando» il proprio lavoro. Perché questa sordità? Forse perché con una scelta acritica per la «modernizzazione», ci pieghiamo alla riesumazione – in piena rivoluzione della tecnologia e dei saperi – dei più vecchi dettami di una ideologia autoritaria. Forse qui si trova la spiegazione (ma mi auguro di sbagliare) della ragione per cui malgrado importanti scelte programmatiche del centrosinistra in Italia, per affermare una società della conoscenza come condizione non solo di «dare occupazione» ma anche per affermare nuovi spazi di libertà alle giovani generazioni, la classe dirigente, anche di sinistra, finisce per fermarsi, in definitiva, di fronte alla scelta, certo molto costosa, di praticare nella scuola e nell’Università ma anche nelle imprese e nei territori, un sistema di formazione lungo tutto l’arco della vita, aperto, per tutta la durata della vita lavorativa, come sosteneva il patto di Lisbona, a tutti i cittadini di ogni sesso di ogni età e di ogni origine etnica (e non solo per una ristretta elite di tecnici o di ricercatori, dalla quale è pur giusto partire). Speriamo che Romano Prodi che così bene ha iniziato questo mandato, sia capace di superare questa confusione di linguaggi, e di rompere questo handicap della cultura meritocratica del centro sinistra. Anche un auspicabile convegno sui valori, le scelte di civiltà di un nuovo partito aperto alle varie identità e alla storia dei partiti come della società civile, dovrebbe, a mio parere, assumere il governo e la socializzazione della conoscenza come insostituibile fattore di inclusione sociale.

Psicologia sociale: il familismo amorale nell’Italia di oggi, scrive Andrea Bellelli il 4 marzo 2014 su "Il Fatto Quotidiano". Andrea Bellelli Professore Ordinario di Biochimica, Università di Roma La Sapienza. La qualità dei servizi pubblici in Italia, soprattutto nel meridione, è da sempre oggetto di lamentele e proteste. Se in alcuni casi gli italiani hanno piena ragione (la giustizia italiana è stata spesso condannata per la sua lentezza nelle sedi internazionali), in altri casi il loro giudizio è ingeneroso e contrasta con le valutazioni internazionali (questo accade ad esempio per la ricerca o per la sanità). Una marcata discrepanza tra il giudizio popolare e quello oggettivo costituisce un problema di studio per la psicologia sociale. Molti spunti di riflessione possono essere tratti da un’importante ricerca di Edward C. Banfield pubblicata nel libro The moral basis of a backward society (Free Press, Usa). Lo studio fu condotto sessant’anni fa in un paese della Basilicata, nascosto sotto il nome fittizio di Montegrano, usando metodiche avanzate (per l’epoca) che includevano il test di appercezione tematica (TAT), e interviste strutturate e non strutturate. Banfield, con la moglie (italiana) e i due figli, rimase a Montegrano per quasi un anno. Lo studio di Banfield costituisce certamente uno dei più interessanti e originali contributi alla questione meridionale, almeno pari, se non superiore, a quelli di Giustino Fortunato, Gaetano Salvemini, Antonio Gramsci e Carlo Levi (autori che Banfield conosceva bene). La tesi centrale dello studio è che, accanto alle problematiche precedentemente individuate, ne esiste una socio-culturale, non individuata in precedenza, che Banfield chiama familismo amorale: “… i montegranesi si comportano come se seguissero la seguente regola: massimizza il guadagno materiale, a breve termine, della tua famiglia ristretta; assumi che tutti gli altri facciano lo stesso” (p. 83). Le regole del familismo amorale, come si vede, sono in effetti due: la prima indica all’individuo cosa fare; la seconda gli offre un facile modo per interpretare il comportamento altrui e relazionarsi con la società. Sebbene entrambe siano deleterie per il progresso socio-economico a medio o lungo termine, la seconda è particolarmente dannosa, perché inquina i rapporti sociali ed impedisce che si formi un rapporto di collaborazione e fiducia con il governo e le istituzioni locali o nazionali: “… la dichiarazione di una persona o di una istituzione, di essere ispirata dall’interesse per la cosa pubblica, anziché per il proprio, è vista come una frode” (p. 95); “in una società di familisti amorali sarà opinione comune che chi esercita il potere sia egoista e corrotto… il votante userà il voto … per punire” (p. 99). Non è in discussione, evidentemente, l’esistenza di funzionari pubblici corrotti e di servizi inefficienti (ampiamente analizzati da Banfield), ma l’idea che tutti i funzionari siano necessariamente corrotti e tutti i servizi necessariamente inefficienti e meritevoli di punizione; e non di rado i paesani intervistati da Banfield esprimevano ammirazione per il regime fascista (al potere fino a dieci anni prima dello studio) ritenuto capace di controllare e punire i suoi funzionari. In effetti, la collaborazione tra gli operatori e gli utenti del servizio è essenziale ai fini della qualità del risultato e nessun servizio può funzionare correttamente se è disprezzato dagli utenti. Banfield riteneva che due fattori causali fossero specialmente importanti nel determinare questo atteggiamento: la povertà e l’elevato tasso di mortalità, che cooperano nel produrre una condizione psicologica di perenne apprensione e inducono l’individuo a privilegiare scelte a breve termine. Poiché oggi le condizioni economiche sono migliorate, e l’aspettativa di vita è aumentata, la forma culturale del familismo amorale dovrebbe pian piano scomparire. Ma la cultura popolare cambia lentamente e non è difficile riconoscere i modi di pensare descritti nel libro di Banfield nella società contemporanea. Non si può non notare, ad esempio il desiderio di punizione nei confronti dei dipendenti pubblici che anima tanti cittadini, al punto di fargli apprezzare dei nemici dei lavoratori come gli ex ministri Brunetta e Gelmini; o la diffusa opinione che, se esistono realtà di eccellenza in questo paese, esse siano tutte concentrate in pochissime istituzioni tutte rigorosamente localizzate a nord del Po.

Il familismo amorale e il potere degli stupidi. L'intera società italiana ha adottato da tempo quello che nel 1958 il sociologico Edward C. Banfield definì “familismo amorale” che, unito alla cooptazione, porta gli "stupidi" ai posti di comando. Ne deriva una profonda arretratezza culturale evidente nel settore della ricerca dove sempre di più i buoni risultati si ottengono all’estero, scrive Rodolfo Guzzi il 24 gennaio 2015 su “La Voce di New York". Negli ultimi vent'anni la società italiana è regredita non solo dal punto di vista economico, ma soprattutto dal punto di vista culturale. La mancanza di un programma culturale e di un programma economico conseguente hanno portato la società italiana al livello in cui è: fanalino di coda di ogni classifica. Anzi no, qualche primato lo detiene, ma tutti in negativo: la libertà di stampa, la corruzione e via dicendo. Ma da dove viene questo degrado? In un controverso saggio sociologico Edward C. Banfield nel suo libro The Moral Basis of a Backward Society del 1958 (in traduzione italiana Le basi morali di una società arretrata, 1976, Il Mulino) studiando il Borgo di Chiaromonte, un paese della Basilicata, e comparando i dati in suo possesso con quelli delle comunità rurali della provincia di Rovigo e del Kansas giunse alla conclusione che “massimizzare unicamente i vantaggi materiali di breve termine della propria famiglia nucleare, supponendo che tutti gli altri si comportino allo stesso modo" porta inevitabilmente all’arretratezza. Egli chiamò questo comportamento: familismo amorale. Altri autori hanno ripreso in tempi recenti questo concetto e basta guardare alla società italiana per capire che essa è fortemente permeata di familismo amorale. È di pochi giorni fa un articolo di Sergio Rizzo sul Corriere della Sera che fa un elenco dei figli e parenti che stanno in Parlamento, non come parlamentari ma con cariche operative. Basta guardare ai figli e parenti dei baroni universitari e in particolar modo di quelli di Medicina per rendersi conto che tutta la nostra società ha adottato da tempo il metodo del familismo amorale: lo sguardo si può estendere all'intero sistema fino ai più piccoli anfratti della struttura pubblica italiana. Finanche il primo ministro oramai viene cooptato, non eletto: ne abbiamo avuti tre negli ultimi anni, alla faccia del popolo sovrano. Nel 1976 Carlo M. Cipolla scrisse The Basic Laws of Human Stupidity (poi pubblicato in italiano nel 1988 come Allegro ma non troppo, Il Mulino) in cui si divertì ad approfondire il tema della stupidità umana. Cipolla vede negli stupidi un gruppo che riesce ad operare con incredibile coordinazione ed efficacia, di gran lunga più potente delle maggiori organizzazioni siano esse mafie o lobby industriali. Chi è lo stupido? È uno che danneggia se stesso e gli altri. Gli altri non se ne accorgono subito, ma nel frattempo il danno è fatto irrimediabilmente. Insomma l’aver adottato il metodo del familismo amorale unito alla forma di cooptazione alla fine porta inevitabilmente ad assurgere ai posti di comando degli “stupidi” con le conseguenze che abbiamo detto: l’arretratezza culturale da cui non si riesce ad uscire e i danni che diventano sempre più profondi. Questo vale per ogni settore ed in particolare per il settore della ricerca dove sempre di più i buoni risultati si ottengono stando all’estero. Basti pensare ai nostri ultimi premi Nobel: tutti hanno ottenuto all’estero i risultati che hanno portato all’onorificenza. Non proprio tutti: uno di questi è stato Daniele Bouvet, uno svizzero naturalizzato italiano, che vinse il premio Nobel per la Medicina. Tuttavia il suo nome è caduto nell’oblio e pochi lo ricordano. E poi i recenti assegni di ricerca dell’European Research Council (ERC), vinti per lo più da italiani che operano all’estero. Il 2014 è stato l’anno in cui c’è stata la più alta emigrazione degli ultimi anni, complice la crisi economica, la discriminazione per aree di interesse funzionali al potere, ma anche per mancanza di un progetto culturale a largo spettro che coinvolga la nostra società verso una sua rinascita in primo luogo del miglior vivere utilizzando le potenzialità della ricerca, dell’impresa, del turismo e dei beni culturali. Nel frattempo speriamo che chi è emigrato utilizzi il potenziale di conoscenza che ha acquisito per rinnovare profondamente questo paese, uscendo finalmente dal familismo amorale che permea la società italiana.

Dal familismo amorale al familismo immorale. Famiglie italiane e società civile, scrive Francesco Benigno l'1 Luglio 2010 su “Italiani Europei”. In un’Italia in cui abbondano i “bamboccioni” e in cui emerge una tendenza ad “ereditare” anche gli incarichi pubblici tornano in auge le riflessioni sull’eccessivo potere assegnato alla famiglia nella sfe­ra pubblica. Ad un familismo che avrebbe ormai as­sunto i caratteri dell’amoralità – se non dell’immo­ralità – viene imputato il mancato radicamento dell’etica pubblica nel nostro paese. Quanta realtà e quanta mistificazione vi sono nel delineare questa presunta antitesi fra familismo e civismo? Periodicamente la famiglia torna sotto i riflettori dell’opinione pubblica, indagata come possibile matrice dei mali del “bel Paese”, scrutata come depositaria e riproduttrice delle virtù e, più spesso, dei vizi del carattere nazionale. In una recente intervista a “La Repubblica”, in cui vengono sintetizzati i risultati di una ricerca storica collettiva dedicata alle famiglie italiane nel Novecento, Paul Ginsborg ha riproposto nuovamente il tema del familismo come una possibile chiave di lettura della realtà italiana contemporanea. In un’Italia ripiegata su se stessa, in cui le giovani generazioni faticano a staccarsi dalle mura domestiche per progettare un futuro autonomo (i bamboccioni del ministro Brunetta), in cui ruoli politici e candidature passano disinvoltamente di generazione in generazione come fossero ereditarie (il figlio del ministro Bossi), e in cui recenti scandali coinvolgono responsabilità genitoriali (la «casa per la figlia» del ministro Scajola), conviene interrogarsi ancora – sostiene lo storico inglese naturalizzato italiano – sul concetto di familismo. Familismo è un’espressione famosa nel lessico delle scienze sociali, soprattutto dopo che nel 1958 lo studioso statunitense Edward Banfield ebbe coniato il concetto di «familismo amorale» per designare i comportamenti, descritti come angustamente individualistici, della gente di Montegrano (in realtà Chiaromonte, un isolato villaggio lucano). Lo studio di Banfield ha avuto una larga eco nel dibattito pubblico sulla questione meridionale, divenendo per alcuni (ma in modo assai contestato) una delle possibili spiegazioni delle carenze dello spirito pubblico nel Sud del paese. Successivamente, da Carlo Tullio Altan a Robert Putnam, è stato una ricorrente fonte di ispirazione per tutti coloro che si sono impegnati in schemi dualistici di raffigurazione della storia italiana. Ora Ginsborg lo recupera e, pur criticandolo, ne allarga la portata, fino ad usarlo per descrivere l’intero atteggiamento del “paese Italia”: anzi, richiamando il ben noto detto del «tengo famiglia» – e definito sorprendentemente non uno stereotipo ma la sintesi di «una filosofia antica e tipicamente italiana» – egli attribuisce al familismo, non più solo amorale ma ormai scopertamente immorale, il mancato radicamento di un’etica pubblica, di quel senso della collettività che è invalso nelle scienze sociali chiamare civicness. La tesi di Ginsborg, modellata sugli schemi dicotomici cari a tanta sociologia classica, è a prima vista suadente, e sembra anzi farsi forza di una sorta di riconoscimento immediato, un asseverarsi intuitivo che si nutre di evidenze: in Italia oggi saremmo di fronte alla ricorrente tendenza al tradimento della fedeltà allo Stato per arricchire parenti e consanguinei. Il familismo amorale, tracimando, si mescolerebbe così con l’uso delle risorse pubbliche per interessi privati, con il clientelismo. Può essere interessante rilevare – osserva Ginsborg – come nell’Europa mediterranea «questi fenomeni antichi non muoiano mai, ma si reinventino continuamente in forme nuove. Quel che fa impressione nell’Italia di oggi è il prevalere dell’organizzazione verticale tra patrono e cliente su quella orizzontale tra cittadini. Nella precarietà del mercato del lavoro diventa fondamentale la relazione con il potente che garantisce determinati accessi per te e per i tuoi figli, da qui un legame di gratitudine e asservimento. Tutto questo non ha niente a che vedere con cittadinanza, diritti e democrazia». Al fondo starebbe dunque una verità nascosta: insieme alla tardiva formazione dello Stato democratico, la chiave di volta dell’eccezione italiana, quel qualcosa che impedisce alla nazione di essere un paese normale, sarebbe il familismo, e cioè l’eccessivo potere assegnato alla famiglia nella società e nella sfera pubblica italiane. Il familismo svolge così nella visione di Ginsborg quel ruolo che un tempo era assegnato dalla retorica nazionalista al «particolarismo», un principio distruttivo e disgregatore di più ampie e morali solidarietà. La contrapposizione non potrebbe essere più netta: da una parte l’individualismo egoista nutrito nella culla familista e dall’altra l’etica pubblica solidaristica, cresciuta nell’alveo della società civile; da un lato una ricorrente tentazione alla gretta chiusura familistica e dall’altro una società civile colta, indipendente, reattiva, pronta ad organizzarsi e ad esprimere valori universalistici di partecipazione e di associazione; e ancora, per un verso un assetto sociale in cui il rapporto dominante è quello tra l’individuo e la famiglia, per l’altro compagini in cui al centro della vita individuale sta la relazione, variamente disposta, con lo Stato. A questa contrapposizione idealtipica corrisponde puntualmente una distribuzione geografica, o meglio una geopolitica dei valori. Secondo Ginsborg sarebbe familista l’Europa mediterranea: un insieme variegato e composito formato in buona sostanza dall’area dei cosiddetti PIGS (Portogallo, Italia, Grecia e Spagna) più i paesi mediorientali di tradizione islamica, descritti – questi ultimi – come comunità endogamiche, use al frequente matrimonio tra cugini primi e alla coabitazione delle coppie sposate coi genitori del maschio: tratti familiari che, uniti alla strutturazione clanica, avrebbe condizionato in senso negativo la crescita della società civile. In buona sostanza, l’accostamento di regioni così diverse funziona solo in negativo: esse sarebbero tutte segnate da una debole civicness a causa di strutture familiari troppo forti; sorta di controprova del successo del core nordeuropeo dello sviluppo economico (e insieme morale). In questa parte privilegiata del mondo (Inghilterra, Olanda e Scandinavia, più alcune aree della Germania e degli Stati Uniti) l’esistenza di famiglie più deboli e meno gerarchiche avrebbe permesso agli individui la libertà, gli spazi e i tempi per la partecipazione alla vita pubblica, da Ginsborg identificata con «la possibilità di sperimentare ed esplorare liberamente il variopinto mondo dell’associazionismo». La tesi della contrapposizione tra famiglie forti e famiglie deboli si può dimostrare, sostiene Ginsborg – che riprende qui tesi avanzate dal demografo David Reher – grazie all’analisi di tre piani distinti: quello delle strutture di coresidenza, dei sistemi demografici familiari e dei valori casalinghi. L’analisi comparativa delle strutture familiari di coresidenza è stata introdotta nel dibattito delle scienze sociali da Peter Laslett, uno dei padri della moderna storia della famiglia. Nella sua visione le famiglie inglesi (ma non irlandesi o scozzesi) e più in generale nordeuropeo-occidentali sarebbero state caratterizzate dal Cinquecento in poi da alcune caratteristiche specifiche: struttura nucleare, età tardiva della sposa, residenza neolocale. Grazie a queste caratteristiche, la famiglia inglese, portatrice di comportamenti virtuosi secondo l’etica maltusiana (con un’età tardiva al matrimonio cui corrispondeva un minor numero di figli) sarebbe stata il vero motore occulto della marxiana «accumulazione originaria», prodromo della rivoluzione industriale. A questo idealtipo dello sviluppo corrisponde, nella tipologia di Laslett, un idealtipo dell’arretratezza, costituito da famiglie variamente allargate, patriarcali, conviventi per più generazioni sotto lo stesso tetto, ordinate da strutture gerarchiche e costrittive, modellate sulle descrizioni fornite da antropologi anglosassoni dell’Europa meridionale e orientale: famiglie di pastori berberi o balcanici, di mezzadri toscani, di contadini calabri, di pescatori cantabrici. Va da sé che questi due modelli risultano – in quella visione – inscritti in un percorso evolutivo, un processo che prevede il passaggio da forme ritenute tradizionali o primitive ad altre reputate moderne. Questo schema semplificato e riduttivo è stato da tempo criticato e in gran parte abbandonato, ma la sua influenza continua ad avvertirsi nel discorso delle scienze sociali e nel dibattito pubblico. Malgrado l’evidenza, ad esempio, che in gran parte del Mezzogiorno la famiglia nucleare sia stata storicamente prevalente e le strutture di famiglie estese e complesse siano state invece minoritarie, l’idea che si possa trovare nella composizione familiare la chiave dell’arretratezza, il santo Graal della backwardness, non è stata mai abbandonata. È accaduto così che, scoperta negli anni Ottanta la cosiddetta Terza Italia, l’area valligiana centrosettentrionale a piccola impresa industriale diffusa, ci si è chiesti se non fosse da cercare nella struttura complessa, gerarchica e patriarcale della famiglia estesa mezzadrile, nella sua abitudine alla cooperazione nell’uso delle risorse comuni (il podere) il segreto del successo economico di questa parte del paese; laddove alla famiglia nucleare meridionale, descritta “alla Banfield” sarebbe venuta a mancare questa fondamentale risorsa cooperativa. In breve, patriarcale o nucleare che sia la famiglia, il risultato non cambia mai, se si continua inutilmente a porre la struttura familiare come pietra filosofale nell’eterna ricerca alchemica delle ragioni del sottosviluppo economico (o civico). Il secondo piano chiamato in causa da Ginsborg è quello dei sistemi demografici familiari. Si tratta di uno schema interpretativo elaborato a suo tempo dal demografo John Hajnal, che aveva prospettato l’esistenza nell’Europa moderna (dal XVI secolo in poi) di due sistemi familiari prevalenti e opposti fra loro: il primo, quello nordoccidentale, contraddistinto da una elevata età al matrimonio (soprattutto femminile) e strutture di residenza neolocali, e caratterizzato dall’abitudine di abbandonare presto la casa paterna per andare a servizio; il secondo, mediterraneo e orientale, a bassa età al matrimonio, segnato dalla preferenza per la convivenza di più generazioni nella stessa casa e dalla riluttanza a lasciare la famiglia d’origine. Questo schema, fuso in vari modi col precedente e formulato ancora una volta per spiegare le ragioni (virtuose) del primato economico nordoccidentale, divideva l’Europa secondo un’immaginaria linea disposta tra San Pietroburgo a Trieste, sì da isolare l’Europa nordoccidentale, vincente, e separarla dalla meno corretta, attardata e perdente “altra Europa” meridionale e orientale. Anche in questo caso le critiche all’impostazione di Hajnal non sono mancate, e hanno toccato sia l’inesistenza di una correlazione tra strutture neolocali ed età al matrimonio, sia l’inefficacia di isolare l’età al matrimonio come unica variabile indipendente e cioè senza considerare il regime demografico (soprattutto i tassi di mortalità) in cui è inscritta. Ma se l’applicabilità dello schema di Hajnal all’Europa preindustriale è assai dubbia, l’opportunità di isolarne solo un tratto (come l’età di abbandono della casa dei genitori) per determinare l’esistenza di famiglie “forti” o “deboli” oggi, a “rivoluzione demografica” da tempo conclusasi (con la conseguente completa equiparazione di tutti gli indicatori demografici fondamentali), appare alquanto controversa. Il dubbio grava specialmente sull’intento di inferire dalla comparazione delle diverse età nella fuoriuscita dalla famiglia di origine non un diverso livello delle opportunità, una differente struttura delle chances di mobilità, una variabile disposizione del mercato delle abitazioni, dei servizi e così via (tutte carenze rispetto a cui le strutture familiari possono funzionare da “ammortizzatori”) ma argomenti a sostegno di una tendenza culturale, riassumibile nello stereotipo indimostrato dell’italiano “mammone”, ovvero la predisposizione italica (ma poi, a seconda dei casi, meridionale, mediterranea oppure orientale) a convivere fino all’età adulta sotto lo stesso tetto dei propri genitori, una specie di tara insita nel carattere nazionale. Viceversa, la tendenza inglese di mandare presto i figli fuori di casa, un tempo a servizio, oggi a studiare, non viene collegata ad un sistema ereditario, quello dello one sole heir, che prevede la possibilità per i genitori di concentrare l’asse ereditario su un unico figlio a scelta, con la conseguente necessità di far sì che gli altri si costruissero una propria strada fuori dalle mura domestiche; e v’è da chiedersi se tale plurisecolare tradizione giuridica, decisamente volta alla conservazione del patrimonio familiare in barba a principi di elementare equità non possa con qualche ragione essere qualificata, essa sì, come “familista”. Infine, Paul Ginsborg, sulla scorta dei suoi studi precedenti, propone di dividere le famiglie in “aperte” e “chiuse”. Anche in questo caso ci troviamo di fronte ad una polarità. Da una parte ci sono le famiglie che «sviluppano al loro interno, nelle loro conversazioni e tradizioni, un’apertura nei confronti della società e dei suoi problemi, una disponibilità dei componenti ad impegnarsi in associazioni e movimenti, un concetto della casa come spazio domestico poroso e accogliente»; mentre dall’altra «quelle che considerano la famiglia come una fortezza e vivono la vita familiare come un bene prezioso in costante pericolo»: queste ultime famiglie sono autoreferenziali e non aperte, come è evidente dalle loro case, che rifletterebbero questi atteggiamenti «sia nell’architettura sia nei sistemi di protezione». Anche in questo caso nessuna relazione è ipotizzata tra architettura e sistemi di protezione abitativa e livelli di reddito e di criminalità (reali o percepiti) del contesto sociale. Quest’ultima polarità si affiancherebbe così alle prime due, anche se con modalità piuttosto oscure, sicché non è chiaro se sia lecito aspettarsi una relazione positiva tra una certa struttura familiare, un dato sistema familiare e determinati valori casalinghi. È interessante notare come questa ripresa della chiave interpretativa familistica avvenga tuttavia in un clima intellettuale profondamente diverso da quello in cui essa fu forgiata: durante il mezzo secolo di storia del concetto di familismo amorale il tema cardine verso cui si è indirizzata l’analisi è stato quello dello sviluppo economico – verso il quale esso finiva per svolgere in negativo più o meno lo stesso ruolo che l’etica protestante svolge nella celeberrima tesi di Max Weber relativa allo sviluppo del capitalismo. Oggi, tuttavia, tale prospettiva appare per molti aspetti usurata. È significativo che sia stato proprio Ginsborg a rigettare l’avventurosa affermazione formulata da Francis Fukuyama in un suo libro intitolato “Trust” secondo la quale il familismo andrebbe in sostanza considerato un freno al dispiegarsi della fiducia collettiva e dunque alla qualità dello sviluppo economico capitalistico, con la conseguente classificazione delle liberaldemocrazie in più moderne e sviluppate (Germania, Giappone, Stati Uniti) e meno moderne (Cina, Corea del Sud, Francia e Italia). Nello stroncare tali elucubrazioni, fondate sulla ripresa di un concetto carico di «insensato determinismo antropologico», Ginsborg ricordava giustamente come tutta l’industria più avanzata e attiva sia in Italia, e non solo in Italia, a base familiare. È interessante in questa discussione il ruolo che finiva per giocare il Meridione come antitipo della modernità. Fukuyama infatti – basandosi ancora una volta su Banfield – indicava il Sud dell’Italia come un caso estremo, come l’area limite dell’Europa progredita, quella in cui la fiducia collettiva non poteva dispiegare i suoi benefici effetti sull’economia a causa di un tratto culturale familista che egli qualificava in modo assai bizzarro come «confucianesimo»: affermazione che oggi nessuno si sentirebbe di ripetere, non perché il confucianesimo non sia stato un credo che abbia privilegiato il ruolo della famiglia, ma perché, nel frattempo, lo straordinario successo industriale cinese ha insinuato più di qualche dubbio non solo sulla veridicità ma anche sulla semplice sensatezza di queste contrapposizioni. Vi è in queste tesi un tratto evidentemente paradossale: il comportamento degli abitanti di Montegrano, così scopertamente orientato a massimizzare l’utile, diviene il prototipo di un’etica in fondo anticapitalistica; e ciò dopo che – com’è stato acutamente notato – sin dai filosofi morali scozzesi del Settecento la retorica liberista ha teorizzato l’ostinato e angusto perseguimento di fini personali come necessaria premessa al dispiegarsi del bene collettivo, secondo la celebre palingenesi dei vizi privati in pubbliche virtù. Il familismo resuscitato da Ginsborg non è più dunque quello di una volta; non costituisce più una chiave per spiegare il maggiore o minore successo economico: egli ne opera una vistosa revisione, torcendo il concetto in senso culturalista ed etico. Opponendosi a quelle concezioni del capitale sociale che da un lato puntano a sganciarlo dal sistema dei valori, e dall’altro a farne una base per nuove tassonomie economiche, questa visione tende a qualificare il capitale sociale come impegno civico, e a ribadire un nesso tra civismo e alcune pratiche associative, distinte sul piano valoriale e, verrebbe da dire, politico. La società civile viene infatti descritta come un essere fragile e in pericolo, assediata da mali antichi e nuovi, che hanno il nome di clientelismo, corruzione, familismo, nepotismo, monopolio mediatico. Si tratta, in altre parole, di un malato, per il quale Ginsborg propone la cura della democrazia partecipativa economica, citando l’esempio dei soviet ma sostituendo il soggetto portatore delle speranze di rinnovamento: non più evidentemente la classe operaia ma «la popolazione urbana istruita del Nord del mondo», solo provvisoriamente (anche se alquanto volontariamente) «assoggettata al capitalismo consumista e all’arricchimento personale». Evidentemente non tutti i modi di partecipare alla vita sociale risultano, in questa prospettiva, «civici» allo stesso modo: non lo sono i rapporti di vicinato, una partecipazione che «non equivale al vero impegno civico», non l’appartenenza alle associazioni di categoria, inficiate da evidenti interessi particolaristici, non i legami comunitari e l’affiliazione a movimenti di rivendicazione locale a base identitaria, sospetti di razzismo e xenofobia, e non (si suppone) quel vasto mondo, alquanto elitario, di club e associazioni di ex allievi, sorta di compagnonnage delle professioni liberali così diffuso in quella cultura anglosassone che affida al college una parte importante della formazione dei giovani. Ma soprattutto sembra esservi in questa concezione del civismo uno spazio limitato per la partecipazione basata su schemi ideologici o ideologico-religiosi: dovendosi in questo caso prendere in considerazione non solo i dimostranti di Teheran e di Bangkok e i partecipanti all’universo del volontariato ma evidentemente anche i membri dei movimenti del risveglio religioso cristiano, i fanatici antisionisti, gli iscritti a partiti che propugnano l’ineguaglianza sociale o l’esaltazione di figure di leader telegenici dal senso civico alquanto incerto. E dire che nella raccolta di saggi contenuti in “Famiglie del Novecento” vi erano esempi molto diversi, in grado di allargare la visione a famiglie cattoliche familiste ma disobbedienti ai precetti dell’enciclica “Humanae Vitae” del 1968 o a famiglie comuniste fortemente coese (entro quelle reti di vicinato e di comunità intessute di tradizione politica costitutive delle cosiddette Regioni rosse) ma al contempo devote al partito, controfigura e promessa dello stato socialista che verrà, e in un modo così assoluto da fare esclamare a Marina Sereni: «Il Partito si è fuso per me con la mia vita privata così strettamente e completamente da darmi sempre la certezza di essere una particella di quella immensa forza che porta il mondo in avanti». Solo una visione fortemente limitata della società civile permette di opporla specularmente al familismo, un’attitudine di cui non viene spiegato sulla base di quali parametri possa essere indagata. Gli studi condotti in questo senso dai sociologi mediante interviste qualitative volte a comprendere cosa la gente pensi della propria famiglia e della società che la circonda offrono migliori spunti di riflessione. Loredana Sciolla, ad esempio, ha argomentato con forza che, scomponendo il concetto di cultura civica nelle sue componenti diverse (valoriale, fiduciaria, identitaria) la supposta antitesi tra familismo (l’atteggiamento di chi ha fiducia esclusivamente nella famiglia) e civismo risulta falsa, che gli italiani non mostrano un abnorme attaccamento alla famiglia ma simile o anche inferiore a quello di popoli di radicata cultura civica, che le regioni meridionali sono meno familiste della media nazionale e più inclini ad avere fiducia nelle istituzioni. Sicché non resta che concludere con Giulio Bollati che «ogni discorso sull’indole, la natura, il carattere di un popolo appare come un’equivoca combinazione di conoscenza e di prescrizione, di scienza e di comando. Quello che un popolo è (o si crede che sia) non si distingue se non per gradi di dosaggio da ciò che si vuole debba essere».

Il paese degli egoisti con il record di donatori d'organi. Chiaromonte, sui monti lucani, fu descritto dal sociologo Banfield come culla dell'anti solidarietà. Ma è una bufala, scrive Nino Materi, Lunedì 23/01/2017, su "Il Giornale". A Chiaromonte, 1.933 abitanti in provincia di Potenza, due avventori del bar-ristorante-affittacamere La porta del Pollino discutono. E nell'aria echeggiano frasi un po' surreali, del tipo: «Amorali noi? Amorale sarà lui. Certo lui non era un donatore di organi come noi». Ma chi è il deprecato «lui»? Si tratta del professor Edward C. Banfield (Bloomfield, 1916 - Vermont, 1999) politologo e sociologo statunitense, autore del saggio The moral basis of a backward society del 1958 (tradotto per Il Mulino come Basi morali di una società arretrata), in cui introdusse la nozione di «familismo amorale», attribuendone l'«infamia» proprio al modo di «relazionarsi tipico dei chiaromontesi».

«A Banfield, se fosse ancora vivo, dovremmo far leggere la ricerca della nostra amica» riprende la coppia del bar. L'«amica» in questione è la giovane sociologa Antonietta Di Lorenzo, autrice dello studio «Arcipelago donazioni», in cui si dimostra come Chiaromonte sia «la capitale italiana delle donazioni di organi», con una percentuale doppia rispetto alla media nazionale. E così i chiaromontesi si interrogano su un quesito che li assilla non poco: «Ma noi siamo il paese amorale descritto da Banfield o il paese virtuoso descritto dalla Di Lorenzo?». Disonore o onore di Chiaromonte dipendono da questi due «opposti estremismi». «Avere una reputazione in bilico tra bene e male è la nostra condanna - ci racconta Vito Telesca, emigrato al nord ma con Chiaromonte nel cuore -. Quando ero studente lessi il saggio di Banfield ne soffrii tantissimo. Questa ricerca è una rivincita». Ma in cosa consiste tecnicamente il «familismo amorale»? Nel «massimizzare solo i vantaggi della propria famiglia ristretta, e pensare che tutti gli altri si comportino alla stessa maniera». Tradotto: farsi gli affari propri senza uscire dall'area ristretta del proprio clan. Ma probabilmente Banfield non aveva mai letto l'aforisma di Leo Longanesi che nel '45 scrisse: «La bandiera nazionale italiana dovrebbe recare una grande scritta: tengo famiglia». E di aforismi è pratico anche Angelomauro Calza, animatore del sito giornalistico-satirico TiGiuro cui la «maldicenza» di Banfield su Chiaromonte non va proprio giù: «La società italiana (e non solo quella italiana) è intrisa di nepotismo e raccomandazioni. Il mondo della politica è lo specchio di una parentopoli nazionale che abiura la meritocrazia premiando invece i furbetti dell'opportunismo. E Banfield che fa? Fa affondare le radici di questo diffuso malcostume solo nel terreno di Chiaromonte?». Allora Banfield si è inventato tutto? «Io penso - ci spiega Calza, figlio del poeta Carlo Calza - che Banfield abbia ipotizzato a tavolino la sua teoria, individuando in Chiaromonte il posto giusto per ambientarla. Magari anche raccogliendo suggerimenti che giovavano a opportunità di politiche internazionali degli Usa in quel periodo, Banfield mise piede su terra di Chiaromonte, per dimostrare, non per studiare e poi elaborare, come da decenni si millanta». Una difesa d'ufficio che però trova concreti riscontri di una ricerca della sociologa potentina, Antonietta Di Lorenzo. Mi sono concentrata sulla donazione degli organi a livello sia europeo che nazionale - spiega Di Lorenzo -. Poi, restringendo il mio campo d'azione, sono andata a cercarmi i dati riguardanti la Basilicata: l'elemento clamoroso che ho riscontrato è stato il dato registrato a Chiaromonte, che ha fatto registrare il più alto numero di donazioni per milioni di persone». Una prova di grande altruismo e solidarietà, con tanti saluti per il Banfield-pensiero. Ma da cosa nasce la «conversione» virtuosa? A venirci in soccorso è l'archivio storico del Comune di Chiaromonte dove si conserva memoria di una tragedia emblematica: nel 1995 Rosella Popia, una ragazza di Valsinni (paese limitrofo a Chiaromonte) morì a seguito di un incidente stradale e i suoi genitori decisero di donare gli organi. Una scelta che provocò un effetto-domino che venne ribattezzato «fenomeno Rosella»: a Chiaromonte, dove la madre di Rosella era ostetrica, la popolazione iniziò a sottoscrivere disponibilità alle donazioni. Un trend di generosità che da allora non si è mai fermato. Il tutto mentre a Valsinni si registrava, sempre grazie al «fenomeno Rosella», un altro piccolo record positivo: la fondazione della prima sede Aido (Associazione italiana donatori di organi) della Basilicata. La tesi di Banfield è quindi completamente da smontare? «Probabilmente sì - sostiene Di Lorenzo -. Nel '50 uscivamo da due guerre mondiali, è normale che si cercasse di racimolare quel che era possibile in primis per se stessi e per i propri cari». Peccato che Banfield parlasse essenzialmente di «profondi atteggiamenti e convinzioni interiori» che di materiale avevano ben poco. Ma ormai sono in molti i sociologi moderni che ritengono quella di Banfield una teoria superata. Tra loro spicca, ad esempio, Alessio Colombis: «Parlare ancora oggi del familismo amorale, senza prenderne le distanze, significa continuare a diffondere un grave pregiudizio nei confronti della popolazione chiaromontese e lucana in genere, che, rispetto alle altre del Mezzogiorno, era - ed ancora oggi in gran parte rimane - non solo priva di criminalità organizzata ma anche più genuina e più vicina allo spirito comunitario». Ma c'è anche chi vede nel familismo qualcosa non di non necessariamente amorale, anzi il suo opposto. Come Isaia Sales che scrive: «Collocare nella propria scala di affetti e di interessi i familiari prima degli estranei non è una cosa moralmente sanzionabile, né tanto meno chi lo fa è (agli occhi della pubblica opinione, ndr) necessariamente un pessimo cittadino. I Bush padre e figli sono stati presidenti degli Stati Uniti, la famiglia Kennedy è stata una specie di dinastia politica, Clinton e la moglie hanno occupato per anni la scena politica americana, in Italia gli Agnelli hanno trasmesso il potere sulla Fiat da quattro generazioni». Conclude sarcastico Angelomauro Calza, autore tra l'altro di un pamphlet su Giovanni Passannate, l'anarchico lucano autore nel 1878 di un attentato fallito alla vita del re Umberto I: «Perfino il nostro ex premier Renzi non è stato eletto dal popolo sovrano, ma cooptato nelle stanze del potere». Quando si dice il «cooptismo amorale».

La cooptazione è nella Costituzione, scrive il 2 ottobre 2012 "Wittgenstein.it". Alessandra Moretti – portavoce della campagna Bersani per le primarie e vicesindaco di Vicenza – ha saggiamente smontato un luogo comune e motivo di indignazione a comando: quello che vede il male dei mali nella “cooptazione” in quanto tale, a prescindere dai suoi criteri. Ne avevo scritto così in Un grande paese. Negli anni passati in Italia si è molto criticata la cooptazione. Abbiamo chiamato così il sistema per cui qualcuno accede a posti di più o meno grande responsabilità o rispettabilità, in quanto scelto da qualcun altro che abbia il potere di promuoverlo. E pensando che questo generico procedimento fosse responsabile di ogni mancato apprezzamento del merito, abbiamo stabilito che il problema fosse la cooptazione. Abbiamo associato un significato fortemente negativo a una parola che si riferisce genericamente alla scelta di qualcuno, senza farci domande sui criteri effettivi di quella scelta. Ogni promozione è diventata cooptazione, ogni cooptazione scandalo. Abbiamo convenuto che la radice da estirpare fosse la cooptazione, senza riflettere sul fatto che sistemi di cooptazione rendono efficaci istituzioni, comunità e aziende da sempre, e che persino la Costituzione prevede la cooptazione rispetto a diversi poteri dello Stato: indicando che si diventi ministri, o assessori, per cooptazione. Abbiamo discusso di: cooptazione. Abbiamo discusso di una parola. E tutto quel che abbiamo concluso è: la-cooptazione-è-sbagliata. E oggi Moretti condivide, con ragioni personali ma ben fondate. Meritocrazia e cooptazione (o nomina) non sono concetti necessariamente in conflitto tra loro. All’interno di un’organizzazione, sia economica che sociale, alcuni incarichi sono assegnati per via elettiva altri per via concorsuale e altri ancora tramite nomina o cooptazione. I meriti, le qualità, le doti per cui viene nominato un dirigente sono sempre oggettivi?  Si può parlare di meritocrazia? Credo che buon capo, come un buon dirigente si possano valutare anche sulla base della qualità dei collaboratori di cui scelgono di avvalersi, ma rimane pur sempre un metodo discrezionale. Anche il nostro attuale Premier ed i Ministri della nostra Repubblica sono dei cooptati.

Se la classe dirigente rappresenta solo se stessa e i suoi amici, scrive Daniele Marini su “L’Inkiesta” il 29 Maggio 2012. L’Italia soffre di un sistema di rappresentanza a circuito chiuso. Che si genera e alimenta tutta al suo interno. L’attenzione dei media e dell’opinione pubblica è focalizzata sul ceto politico, sulla casta. Giustamente. Sono quelli che portano la responsabilità maggiore delle scelte che ricadono su cittadini, famiglie e imprese. Ma se i politici sono lo specchio del Paese, allora dobbiamo porci qualche interrogativo in più. A maggior ragione dopo giorni di discussione sugli esiti delle recenti amministrative, sulla (presunta) antipolitica di una parte consistente della popolazione, sul fenomeno del Movimento 5 stelle. In questo senso, bene ha fatto Luca Ricolfi sulle colonne de La Stampa (27.5.2012) a sollevare il tema spinoso della classe dirigente. Che non è soltanto quella politica, appunto. Ma quella che alberga nei mondi associativi e della rappresentanza organizzata, nelle organizzazioni sindacali così come nelle banche, nelle sue fondazioni e negli enti intermedi. Con diverse gradazioni, i leader dei partiti politici, soprattutto di quelli personali e carismatici (come la Lega, Forza Italia prima e il PdL poi. Ma anche il centrosinistra non ne è esente), hanno realizzato un meccanismo di selezione della classe dirigente dove il criterio della fedeltà e dell’adesione ha fatto aggio su quello del merito, della professionalità e della critica. In una sorta di “familismo amorale”, rafforzato da un “con me o contro di me”, si è inverata una selezione per esclusione progressiva. Dove le voci critiche e riflessive sono diventate, poco alla volta, eretici da marginalizzare. Il problema è che un meccanismo analogo ha intessuto anche gli altri ambiti dei mondi della rappresentanza. Inverando – per riformulare la locuzione di Ricolfi – un meccanismo di “cooptazione a ripetere”. Senza voler fare tutto di un’erba un fascio, tuttavia è sufficiente, per esempio, fare un’esplorazione all’interno delle organizzazioni sindacali, dove i gruppi dirigenti cambiano sì, ma spostandosi da una categoria all’altra, limitando al massimo così l’ingresso di nuove forze. Oppure nell’ambito delle associazioni imprenditoriali. In questo caso, i ruoli di vertice hanno meccanismi di rinnovo più celeri (fatto salvo che negli anni recenti non sono pochi i casi in cui modifiche statutarie tendono a prolungare la durata degli incarichi), ma poi si assiste alla chiamata a incarichi di rappresentanza nei mondi collaterali, come quello bancario o assicurativo. Da qui, a loro volta, risulta facile cooptare all’interno di questi ambiti altre persone considerate vicine, che condividono i medesimi interessi e partecipano dei medesimi gruppi di potere. L’esito finale è lo sviluppo di un insieme di relazioni e regole vischioso che rende praticamente impossibile, se non in modo estremamente lento e complesso, un ricambio effettivo della classe dirigente. E rende questi gruppi dirigenti impermeabili alle sollecitazioni che vengono dall’esterno. Impermeabili perché la reciprocità delle loro relazioni le spinge ad auto-sostenersi e proteggersi. Tutto ciò spiega perché questi sistemi di rappresentanza sono incapaci: 1) di riformare le proprie organizzazioni; 2) di guardare al futuro e fare scelte strategiche, perché ripiegate sulla propria conservazione; 3) di percepire il distacco che si è generato nei confronti dei cittadini, degli aderenti, dei soci. È l’esito del meccanismo della “cooptazione a ripetere”. Un meccanismo che, a mio avviso, prende avvio negli anni ’70, quando i mondi dell’associazionismo e della rappresentanza non costituiscono più il canale privilegiato della formazione per l’approdo all’esperienza politica. Quando gli stessi partiti hanno via via smesso di formare nelle apposite scuole la loro classe dirigente. La “cooptazione a ripetere” si può rompe per un evento traumatico proveniente dall’esterno, com’è stato nel caso di Tangentopoli o, più di recente, com’è nel caso del PdL e della Lega. O perché emerge una leadership culturale in grado di esprimere e imporre una vision, nuovi valori dell’azione della rappresentanza. Una nuova leadership non può che venire dalle giovani generazioni. Finora, quelle che hanno tentano di approcciare questi percorsi più spesso hanno abbandonato sfiduciati e si sono dedicati ad altro. Esprimono il loro essere classe dirigente in altre forme: nell’imprenditoria, nella cooperazione, nell’associazionismo volontario. Una leadership per diventare tale necessita comunque di incubatori, di contenitori dove si realizzino percorsi di formazione e di educazione alla politica. Ciò non significa tornare alle forme del passato. Sarebbe impossibile. Ma offrire luoghi strutturati dove lo spazio della riflessione e dell’esercizio della critica sia la materia d’insegnamento quotidiana. Là dove ciò si realizza, i giovani non si sottraggono. La sfida della creazione di una classe dirigente del futuro si gioca nella sua formazione.

Merito e cooptazione, scrive Matteo su "tidiverticompany.com". Non mi piacciono le citazioni, sono un fare sfoggio della propria ignoranza, per dirla alla Nino Frassica. Però a volte capita che qualcuno, molto prima di noi, abbia espresso certi concetti meglio di tutti quelli che sono venuti dopo quindi ho bisogno di menzionare due aforismi. Uno é di la Rochefocauld che diceva che tutti sembriamo degni delle cariche che non ricopriamo. Il secondo appartiene al Saggio Confucio che raccomandava di non dolersi se non si vedono riconosciuti i propri meriti. La vera fonte di rammarico deve essere nel non saper riconoscere quelli altrui. Cito queste due massime per parlare riguardo la cooptazione che consiste nell’aggregare ad un organo collegiale candidati scelti da uno o piú membri del collegio stesso, in genere i più anziani o potenti. Questa maniera di fare é tipica delle corporazioni e delle associazioni di categoria. É molto diffusa anche nelle università, in politica e in tutti i centri da cui si sviluppa una qualsivoglia forma di potere. É una delle ragioni principali per cui si parla di casta riferendosi ad alcuni settori della società particolarmente chiusi, autoreferenziali che appaiono formati da persone occupate esclusivamente nel mantenere i privilegi acquisiti ( la casta dei notai, la casta della politica etc..). In maniera impropria si potrebbe utilizzare la parola “raccomandare” per descrivere alcune azioni insite nel termine cooptazione. Il più grosso dei danni compiuti da questa pratica non é quello di aver messo incapaci in posizioni di responsabilità, spesso ai più alti livelli decisionali. Non é neanche quello di aver, per proprietà transitiva, lasciato nel dimenticatoio gente di talento che per virtù varie avrebbe meritato soddisfazioni e compiti maggiori. Il danno consiste in due aspetti complementari: primo, l’aver fornito a un esercito di mediocri la giustificazione migliore ai propri insuccessi. Così, dopo anni di brutti voti perché” il professore non sa spiegare” o “perché al professore sto antipatico”, il mediocre potrà continuare a giustificarsi dicendo: “non mi assumono perché se non sei raccomandato non vai da nessuna parte”. Io chiamo questo ragionamento sindrome del tennista pensando a quei giocatori che se la prendono con la racchetta perché hanno sbagliato il passante. Il secondo aspetto é il senso di delegittimazione che circonda tutti quelli che sono riusciti a raggiungere una carica ambita da altri: sei diventata la conduttrice di un programma RAI? Tutti pensano che te la fai con il direttore di rete dimenticando le lunghe ore di lezioni di dizione, recitazione, sceneggiatura, danza canto che hai preso. Diventi assistente di un noto barone universitario? Questo perché qualcuno ti ha raccomandato e non perché il professore in te ha visto qualità superiori o una maggiore passione rispetto agli altri studenti. Fai strada in azienda? Sei uno yes man prono e sottomesso al capo. Fai carriera in politica? Sei un individuo squallido, pronto a ricattare, malversare, colluso, sceso chissà a quali inconfessabili compromessi. É ovvio che qualcuno che ha una opinione del genere dei suoi superiori non ci lavorerà che male, con crescente frustrazione e acredine di tutte le persone coinvolte.

Le raccomandazioni diventano così la scusa principale che molti mediocri utilizzano per consolarsi dei propri insuccessi e sentirsi migliori di quello che in realtà sono. Diffidate di chi fa della guerra contro il “familismo amorale”, il nepotismo, la cooptazione la propria principale ragione d’essere. La vera persona intelligente queste cose le mette in conto come parte delle difficoltà che si incontrano normalmente nell’ambito lavorativo. Magari cerca di utilizzarle a suo vantaggio. Sicuramente cerca di adattarsi e sviluppare meccanismi di compensazione che gli permettano di continuare a progettare, pensare. Vivere. Con questo non sto difendendo una prassi che ostacola pesantemente lo sviluppo del Paese e che crea migliaia di persone frustrate e insoddisfatte. Però, ho voluto portare all’attenzione un altro aspetto spesso trascurato: il giustificazionismo di molti che si sentono esclusi da vere e presunte spartizioni di incarichi.

CERVELLI IN FUGA.

Poletti, il calcetto e tutte le gaffe su giovani e lavoro. Dai "bamboccioni" di Padoa Schioppa alla monotonia del posto fisso di Monti. Oltre Poletti, tutti i politici che sono scivolati sui giovani e il loro futuro, scrive Maria Franco il 29 marzo 2017 su "Panorama". Questa volta non si è trattato di un congiuntivo sbagliato, di un errore di geografia, di una citazione erroneamente attribuita e nemmeno di sviste sulla Costituzione. A scatenare la polemica che ha investito il ministro del Lavoro Giuliano Poletti è stata infatti una frase espressa in italiano corretto, secondo molti anche onesta nel contenuto ma per tutti tragicamente inopportuna.

Il calcetto. Incontrando gli studenti dell'istituto tecnico professionale Manfredi-Tanari di Bologna, Poletti ha infatti suggerito loro di coltivare il più possibile le relazioni sociali. Nulla di male se non avesse anche aggiunto che per trovare lavoro è “più utile giocare a calcetto che mandare in giro curricula”. Molte ricerche gli danno ragione: secondo i dati Isfol solo il 3% trova lavoro attraverso i centri per l'impiego mentre “l’Italia continua ad essere un paese – ha dichiarato il Commissario straordinario dell'ente pubblico di ricerca Stefano Sacchi - dove per trovare lavoro conta moltissimo la rete di conoscenze che un individuo può mettere in campo”. Eppure il ministro è stato travolto da critiche e attacchi e le opposizioni, Lega e Movimento 5 Stelle in testa, ne hanno chiesto le dimissioni.

I cervelli in fuga. D'altra parte il ministro del Lavoro non è nuovo a questo tipo di esternazioni scivolose. Qualche mese fa, a colloquio con dei giornalisti in difesa del Jobs Act, Poletti usò frasi piuttosto sprezzanti nei confronti di chi decide di lasciare l'Italia per cercare miglior fortuna all'Estero: “conosco gente che è andata via e che è bene che stia dove è andata, perché sicuramente questo Paese non soffrirà a non averli più fra i piedi”. Anche allora il ministro tentò di correggere il tiro e si scusò: “non mi sono mai sognato di pensare che è un bene per l'Italia il fatto che dei giovani se ne vadano all'estero. Penso, semplicemente, che non è giusto affermare che a lasciare il nostro Paese siano i migliori e che, di conseguenza, tutti gli altri che rimangono hanno meno competenze e qualità degli altri”. Un'altra polemica risale a circa un anno fa quando sempre Poletti dichiarò che “prendere 110 e lode a 28 anni non serve a un fico, è meglio prendere 97 a 21”.

Fornero e i giovani “choosy”. Tra i ministri meno amati nella storia della Repubblica italiana, Elsa Fornero viene ancora oggi ricordata come la professoressa che ha sbagliato i conti sui cosiddetti “esodati” e che ha dato dei “choosy” (schizzinosi) ai giovani che non si accontentano di ciò che gli viene offerto quando si affacciano al mondo del lavoro. Per esattezza ciò che allora fece la ministra fu elargire loro il consiglio di “non essere troppo choosy, come dicono gli inglesi”. Ricordando ciò che ella era solita dire sempre ai suoi studenti, Fornero suggeriva che fosse opportuno prendere subito il primo lavoro che capitava per poi “da dentro” guardarsi intorno. Anche in questo caso sarebbe ipocrita negare che il 99% dei genitori italiani suggeriscano la stessa cosa ai loro figli. Ma da un ministro del Lavoro i giovani italiani si aspettano non consigli bensì soluzioni che li sottraggano a un futuro da precari a tempo indeterminato.

Monti e il posto fisso. Certo è che dentro il governo Monti, di cui Fornero ha fatto parte, il posto fisso non ha mai goduto di un particolare favore. “Che noia” dichiarò infatti l'allora premier Mario Monti a Matrix. “I giovani devono abituarsi all'idea che non avranno un posto fisso per tutta la vita. Del resto, diciamo la verità, che monotonia un posto fisso per tutta la vita. È più bello cambiare”. Peccato che in un Paese dove, secondo dati Istat, la disoccupazione giovanile si attestava a gennaio al 40,6%, il problema non è più nemmeno quello di trovare un posto fisso ma di trovarne uno qualsiasi.

Anna Maria Cancellieri e i mammoni. Quasi che denigrare i giovani fosse diventata l'ossessione di molti dei membri del governo Monti, anche l'allora ministro dell'Interno Anna Maria Cancellieri non si fece scappare l'occasione di lanciare la propria personale bombetta. Intervistata da Tgcom24, la ministra che fu costretta a dimettersi quando da Guardasigilli del governo Letta fu coinvolta nel caso Ligresti, in una sola frase Cancellieri rievocò la celebre etichetta di “bamboccioni” appiccicata addosso ai giovani dal Padoa Schioppa e ribadì il giudizio espresso da Monti sul posto fisso: “Siamo fermi al posto fisso nella stessa città – disse infatti – di fianco a mamma e papà...”.

Martone e gli sfigati. Sui giovani, il lavoro e il loro futuro anche l'allora viceministro al Welfare (sempre del governo Monti) volle consegnare alle cronache una perla di presunta saggezza ma di dubbia opportunità. Alla sua prima uscita pubblica, un convegno sull'apprendistato organizzato dalla Regione Lazio, Michel Martone bollò infatti come uno “sfigato” chi a 28 anni ancora non è riuscito a mettersi una laurea in tasca. “Dobbiamo dire ai nostri giovani - disse il vice della Fornero - che se a 28 anni non sei ancora laureato sei uno sfigato, se decidi di fare un istituto tecnico professionale sei bravo. Essere secchione è bello, almeno hai fatto qualcosa”. Anche in questo caso il consiglio dall'alto, paternalistico e secchione, di un “giovane” particolarmente fortunato, fu respinto al mittente con profluvio annesso di infuocate polemiche.

Padoa Schioppa e i bamboccioni. A conquistarsi il titolo di “madre di tutte le gaffe” fu quella scappata allo scomparso ministro dell'Economia nel secondo governo Prodi Tommaso Padoa Schioppa. Nel presentare la finanziaria del 2007, l'allora titolare di via XX Settembre disse infatti che le misure a favore delle famiglie sarebbero servite anche “a mandare i 'bamboccioni' fuori di casa". Cioé incentivare l'uscita di casa da parte dei giovani che adesso restano fino a età inverosimili con i genitori. Non crescono mai, non si sposano, non si rendono autonomi”. Ma quanti sono quelli che non si rendono autonomi per scelta? Una domanda che evidentemente il ministro non si pose o che non ritenne opportuno porsi per evitare di essere in futuro ricordato solo per questo episodio nonostante una prestigiosa e lunga carriera ai vertici sia della Commissione europea che della Banca d'Italia.

Brunetta e l'Italia peggiore. Anche perdere la pazienza in pubblico può giocare brutti scherzi a chi fa politica. È successo per esempio al capogruppo di Forza Italia Renato Brunetta all'epoca in cui era ministro della Funzione Pubblica. Al termine del suo intervento a un convegno sull'innovazione, un gruppo di precari chiede di prendere la parola. Il ministro chiamò sul palco due donne (precarie dell'agenzia tecnica del ministero del Lavoro) e appena quelle pronunciarono la parola “precarie”, Brunetta scese dal palco pronunciando uno stizzito “siete l'Italia peggiore”.

Poletti, Padoa-Schioppa, Berlusconi: dieci anni di battute contro i giovani precari. "Meglio il calcetto del curriculum" è stato solo l'ultimo sfottò di una lunga serie di uscite governative. Da Donne sposate mio figlio! agli sfigati senza ancora una laurea, scrive Wil Nonleggerlo il 28 marzo 2017 su "L'Espresso". Il ministro del Lavoro Giuliano Poletti "Sfigati", "poco occupabili", "bamboccioni", "choosy"”. Insomma, "l'Italia peggiore". Dieci anni di crisi economica, dieci anni di battutine, sfottò, consigli imbarazzanti per studenti, precari e mondo del lavoro in generale. Ecco la risposta governativa ad una disoccupazione giovanile che veleggia stabile sul 40%, tra le più alte dell'Eurozona. L'ultimo caso riguarda il ministro del Lavoro Poletti: inviare curricula? Meglio il calcetto, crea più opportunità. Scivoloni di questo tipo non riguardano ovviamente solo i governi Renzi-Gentiloni, partono da Padoa-Schioppa e attraversano 10 anni di esecutivi, politici e tecnici. Li abbiamo raccolti per voi.

- Meglio il calcetto dei curricula (Il ministro del Lavoro Giuliano Poletti agli studenti dell'istituto tecnico professionale Manfredi-Tanari di Bologna - 27 marzo 2017): Nella ricerca di un lavoro "il rapporto di fiducia è un tema sempre più essenziale", si creano più opportunità "a giocare a calcetto che a mandare in giro i curricula".

- Dopo lo scoppio delle polemiche il ministro Poletti prova a spiegare meglio il concetto (28 marzo 2017): "Critiche? È una stupidaggine sintetizzare in una riga due ore di dialogo con i ragazzi. Il calcetto, se volete, è la metafora della relazione sociale".

- Fuori dai piedi (Il ministro Poletti a colloquio con i giornalisti a Fano - 19 dicembre 2016): "Bene così: se 100mila giovani sono andati via non vuol dire che qui siano rimasti 60 milioni di pistola. Quelli che se ne sono andati è bene che stiano dove sono, il Paese non soffrirà sicuramente nel non averli più tra i piedi".

- Consigli per la laurea (Il ministro Poletti - non laureato - durante la convention di Veronafiere "Job&Orienta" - 26 novembre 2015): "Prendere 110 e lode a 28 anni non serve a un fico, è meglio prendere 97 a 21".

- Italiani poco occupabili (Enrico Giovannini, ministro del Lavoro nel governo Letta - 9 ottobre 2013): "L'Italia esce con le ossa rotte dai dati dell'Ocse diffusi ieri: dati che ci mostrano come gli italiani siano poco 'occupabili', perché molti di loro non hanno le conoscenze minime per vivere nel mondo in cui viviamo e non costituiscono capitale umano su cui investire per il futuro".

- Choosy (Elsa Fornero, ministro del Lavoro del governo Monti, durante un convegno a Milano - 22 ottobre 2012): "I giovani escono dalla scuola e devono trovare un'occupazione. Devono anche non essere troppo choosy, come dicono gli inglesi". 

- Sfigati (Michel Martone, viceministro del Lavoro del governo Monti, alla sua prima uscita pubblica, in un convegno sull’apprendistato organizzato dalla Regione Lazio - 24 gennaio 2012): "Dobbiamo iniziare a far passare messaggi culturali nuovi, dobbiamo dire ai nostri giovani che se non sei ancora laureato a 28 anni, sei uno sfigato".

- Precari, siete l'Italia peggiore! (Renato Brunetta, ministro per la Funzione Pubblica del governo Berlusconi, risponde così ad un gruppo di precari durante la terza edizione della “Giornata Nazionale dell’Innovazione” - 14 giugno 2011): Il ministro invita due donne che chiedono di fare una domanda sul palco, ma non appena pronunciano la parola "precari" Brunetta perde completamente la pazienza: "Grazie, arrivederci. Questa è la peggiore Italia!". Uscendo dalla sala strapperà pure il cartellone dei manifestanti.

- La ricetta di Berlusconi contro la precarietà: donne, sposate mio figlio! (L'allora premier risponde ad una studentessa che nel corso della rubrica del Tg2 Punto di vista gli chiede come sia possibile, per una giovane coppia, farsi una famiglia senza un lavoro stabile - 13 marzo 2008): "Intanto bisognerebbe che in questa giovane coppia - ed è un consiglio che da padre mi permetto di dare a lei - dovrebbe cercarsi magari il figlio di Berlusconi o di qualcun altro... Lei col sorriso che ha potrebbe anche permetterselo!".

- I bamboccioni (Tommaso Padoa-Schioppa, ministro delle Finanze del governo Prodi, promuovendo agevolazioni all'affitto per i più giovani - 6 ottobre 2007): "Mandiamo i bamboccioni fuori casa!".

 “Sfigati”, disse il dottor Michel Martone, viceministro per un quarto di stagione. “Bamboccioni”, disse il ministro Tommaso Padoa Schioppa. “Choosy”, schifiltosi e pigri, così il ministro Elsa Fornero. “Giovani in fuga? Conosco gente che è meglio non averla tra i piedi”, dice il ministro Giuliano Poletti in carica al dicastero del Lavoro. In principio fu Tommaso Padoa Schioppa. Nel 2007 l'allora ministro dell'Economia, scomparso nel 2010, definì "bamboccioni" i giovani italiani. "Mandiamoli fuori di casa", disse all'epoca. E giù polemiche, con l'Italia spaccata tra bamboccioni sì e bamboccioni no. Da allora è stato un susseguirsi di sparate sui ragazzi del Belpaese. Fornero, Martone, Giovannini e il 26 novembre 2015 Giuliano Poletti secondo cui una laurea presa a 28 anni con 110 e lode non serve a un fico.

Basta! Ora siamo pure incompetenti. Da Padoa-Schioppa a Fornero, da Martone a Giovannini: i ministri se la prendono sempre con gli italiani in difficoltà. Bamboccioni, choosy e chi ne ha più ne metta. Ma perché non si guardano allo specchio? 9 ottobre 2013 da Libero quotidiano. Dopo “choosy”, “scansafatiche” e “bamboccioni”, ora gli italiani sono pure “incompetenti”. Il ministro del Lavoro, Enrico Giovannini, dopo sei mesi a palazzo Chigi centra subito l’obiettivo: farsi odiare da chi lavora e soprattutto da chi un lavoro non ce l’ha. Intervenendo a un convengo sul Senato sui 10 anni della legge Biagi, Giovannini afferma: “L’Italia esce con le ossa rotte dai dati dell’Ocse diffusi ieri: dati che ci mostrano come gli italiani siano poco occupabili, perché molti di loro non hanno le conoscenze minime per vivere nel mondo in cui viviamo e non costituiscono capitale umano su cui investire per il futuro”. Affermazioni pesanti di per sé, ancora di più se a pronunciare è il ministro del Lavoro”. Ma il ministro non fa marcia indietro: “Quelle cifre – ha aggiunto – ci mostrano quanto siamo indietro in termini di capitale umano e di occupabilità. La responsabilità di questa situazione – ha concluso – è di tutti”. Il dato di ieri dell’organizzazione mostrava come l’Italia sia tra gli ultimi posti al mondo per le competenze fondamentali necessarie a muoversi nel mondo del lavoro e della vita sociale. Ma quei dati di certo non sono il passaporto per poter definire gli italiani come “incompetenti” e “inoccupabili”. Insomma Giovannini si accoda subito alla buona tradizione di offese che sono piovute sugli italiani negli ultimi anni. Giovannini come la Fornero – L’ex ministro del Lavoro Elsa Fornero qualche mese prima di lasciare il suo incarico disse chiaramente: “Gli italiani costano tanto e lavorano poco”. La bordata era arrivata subito dopo l’attacco ai giovani disoccupati che, sempre la Fornero, definì “choosy”, ovvero “stizzinosi, con poco spirito di adattamento”. Infine l’attacco di Giovannini è in linea con quello dell’ex ministro del Tesoro, Tommaso Padoa Schioppa che definì i giovani disoccupati come “bamboccioni”. Mentre l’ex sottosegretario al Lavoro, Martone disse che “laurearsi dopo i 28 anni, è roba da sfigati”.

Bamboccioni, choosy, pistola: quando i ministri fanno infuriare i giovani, scrive Ugo Barbàra su "Agi" il 20 dicembre 2016. Le scuse non bastano a fugare le nubi di tempesta che si addensano sul ministro del Lavoro, Giuliano Poletti. "Non mi sono mai sognato di pensare che è un bene per l'Italia il fatto che dei giovani se ne vadano all'estero" ha detto dopo che sul web si è diffusa alla velocità della luce una sua affermazione riportata dalla stampa su alcuni giovani andati all'estero, "questo Paese non soffrirà a non averli più tra i piedi". "Evidentemente mi sono espresso male e me ne scuso", si legge nella nota di precisazione. "Penso, semplicemente", aggiunge, "che non è giusto affermare che a lasciare il nostro Paese siano i migliori e che, di conseguenza, tutti gli altri che rimangono hanno meno competenze e qualità degli altri. Ritengo, invece, che è utile che i nostri giovani possano fare esperienze all'estero, ma che dobbiamo dare loro l'opportunità tornare nel nostro paese e di poter esprimere qui le loro capacità e le loro energie". 

Il Fatto Quotidiano traccia un parallelismo tra le parole di Poletti e quelle di Claudio Scajola, che definì "rompicoglioni" Marco Biagi, il giuslavorista ucciso il 19 marzo del 2002 dalle nuove Brigate Rosse. Ricercatori, ma anche liberi professionisti di livello, imprenditori, inventori di start up: per Poletti meglio che se ne siano andati, ad arricchire con le loro conoscenze, la loro capacità di intuito e di analisi, la loro immaginazione e fantasia, altri paesi. 

Non è la prima volta che Poletti attira su di sé le ire dei laureati. Poco più di un anno fa se ne uscì con un'altra frase destinata a scatenare ondate di polemiche: "rendere 110 e lode a 28 anni non serve a un fico, è meglio prendere 97 a 21". Ma non è l'unico, tra i vertici delle istituzioni, a primeggiare per impopolarità tra i giovani. 

In ottobre è stato il ministero dello Sviluppo economico a fare una gaffe non da poco: la blogger Eleonora Voltolina aveva trovato in un opuscolo destinato agli investitori esteri un invito forse allettante per loro, ma non lusinghiero per i lavoratori italiani il cui senso era questo: costano poco anche quando hanno un elevato tasso di scolarizzazione. 

Nell'ottobre del 2012 fu l'allora ministro del Lavoro, Elsa Fornero, a finire sotto il fuoco delle polemiche per una frase sui giovani che non devono essere troppo schizzinosi al momento dell'ingresso nel mercato del lavoro. “Non devono essere troppo choosy nella scelta del posto di lavoro. Meglio cogliere la prima occasione e poi guardarsi intorno”.

Dieci mesi prima, nel gennaio del 2012, era stato il viceministro del Lavoro, Michel Martone, a dare degli 'sfigati' ai giovani: "Se a 28 anni non sei ancora laureato - aveva detto partecipando a un incontro sull'apprendistato - sei uno sfigato. Bisogna dare messaggi chiari".

Nell'ottobre del 2007 era stato l'allora ministro dell'Economia, Tommaso Padoa-Schioppa a usare un termine destinato a diventare di uso comune nel dibattito politico. Le misure a favore delle famiglie, disse presentando la finanziaria, serviranno anche "a mandare i 'bamboccioni' fuori di casa. Cioé incentivare l'uscita di casa da parte dei giovani che adesso restano fino a età inverosimili con i genitori. Non crescono mai, non si sposano, non si rendono autonomi". 

La guerra infame del potere contro i giovani di questo Paese. Da Poletti alla Fornero. Ma il suo capostipite fu il ministro Padoa Schioppa, passato alla storia con la sua invettiva contro "i giovani bamboccioni", scrive Luca Telese il 20 dicembre 2016. Dei pistola. Malagente. Persone indesiderate da tenere - addirittura - fuori dall'Italia. L'incredibile gaffe del ministro al Lavoro Giuliano Poletti questa volta va studiata nel dettaglio. E non per ridicola e flebile richiesta di scuse che ha seguito l'infelice sortita, ma perché - purtroppo - non rappresenta un caso isolato. "Se 100mila giovani se ne sono andati dall'Italia - ha detto il ministro con incomprensibile fare aggressivo - non è che qui sono rimasti 60 milioni di 'pistola'". Il ministro del Lavoro, conversava amabilmente con i giornalisti a Fano e pochi minuti prima aveva difeso il Jobs Act del governo e aperto alla possibilità di rivedere le norme sui voucher. Già questa, a ben vedere, era una manifestazione di stato confusionale, visto che solo tre giorni prima lo stesso ministro si augurava una crisi anticipata del suo governo, pur di impedire il referendum abrogativo sui voucher e sull'articolo 18. Ma evidentemente, mentre fingeva di aprire, Poletti sembrava anche interessato a punire, se non altro sul piano simbolico: "Intanto - osservava stilando il suo atto d'accusa - bisogna correggere un'opinione secondo cui quelli che se ne vanno sono sempre i migliori. Se ne vanno 100mila, ce ne sono 60 milioni qui: sarebbe a dire che i 100mila bravi e intelligenti se ne sono andati e quelli che sono rimasti qui sono tutti dei 'pistola'. Permettetemi di contestare questa tesi". E a questo punto che era arrivato il colpo di grazia, la mazzata sui reprobi. "Conosco gente che è andata via e che è bene che stia dove è andata, perché sicuramente questo Paese non soffrirà a non averli più fra i piedi". A chi si riferisse Poletti, non è dato di saperlo, resterà un mistero. Però ci sono almeno due indizi importanti da seguire. Il primo: le parole del ministro arrivano dopo un preferendo in cui le tesi del governo sono state bocciate a maggioranza quasi unanime, dagli elettori compresi nella fascia anagrafica fra i 18 e i 35 anni. La seconda, però, è molto più profonda, sottile, e merita una riflessione.

Denigrare i giovani è diventato uno sport nazionale. La guerra infame ed ideologica dei governi italiani contro i giovani in questo paese parte da lontano, e non è stata incominciata da Poletti. Ha il suo capostipite nelle parole scioccanti del ministro Padoa Schioppa che con il sorriso sulle labbra la sua celebre invettiva contro "i giovani bamboccioni". Italiani infantili e colpevoli perché incapaci di trovare una strada, mammoni, desiderosi di protezioni, pappe pronte e tutele. Non era che l'inizio. Quindi dopo il ministro dell'ulivo, fu la volta della ministra Fornero, la sacerdotessa del rigore con la lacrima facile, in uno dei suoi momenti di melodrammatica megalomania, si lanciò in una invettiva contro "i choosy", gli schizzinosi, contro i ragazzini che non hanno voglia di fare la propria parte. La faceva egregiamente lei, peraltro, massacrando i pensionati, battezzando con le sue lacrime di coccodrillo, battaglioni di esodati.

E che dire dell'allora sottosegretario al lavoro, Michel Martone? Anche lui ci era andato giù duro: "Hai 28 anni e non ti sei ancora laureato? Allora sei uno sfigato". A queste frasi, divenute ormai proverbiale, si sono aggiunte decine di dichiarazioni, di gaffe rivelatrici, di infortuni lessicali, seguiti da scuse più o meno maldestre in alcuni casi, e da nessuna scusa, nella maggior parte. Piuttosto che considerare questo florilegio una collezione di parole dal sen fuggite, o casi isolati, bisognerà rassegnarsi a prendere in considerazione questo repertorio di errori come una sorta di inconsapevole ma fluente manifesto ideologico. Come una dichiarazione di guerra a una classe sociale, anagrafica, che le classi dirigenti italiane considerano nemica. Mentre smantellavano diritti in tutte le leggi sul lavoro a partire dal pacchetto Treu, mentre colpivano la #buonascuola, mentre bastonavano, e non solo metaforicamente la precarietà, costruivano una apartheid di diritti, i governi italiani si sono dati la staffetta in un opera di demolizione psicologica delle loro vittime. Non sono loro ad avere colpa dell'esodo, non nel loro la responsabilità della fuga dei cervelli, non sono loro ad essere deficitari nelle loro risposte e iniqui nel loro operato. Con un geniale riflesso istintivo, hanno trasformando le loro vittime in carnefici, e viceversa.

Per alcuni i privilegi sono ormai una grazia dovuta. A sentire le sparate di Poletti e dei suoi epigoni, è chi paga il prezzo delle loro politiche che si deve vergognare e non viceversa. C'è dietro questa retorica cattiva, anche qualcosa di più, un istinto corporativo. La classe dirigente dei garantiti, che pensa a se stessa, ai propri figli e ai propri privilegi come ad una grazia dovuta. Come al biglietto di ingresso nel club dell'aristocrazia e delle elite. A tutti gli altri, invece, guarda come una masnada di usurpatori, disperati che si affollano bussando alle porte delle loro fortezze. I giovani che sono partiti, in verità, sono quelli che non rinunciano a muovere l’ascensore sociale. Sono quelli che non si mettono in fila di fronte ai nonni e ai baroni. Sono quelli che non accettano la geometria di potere delle vecchie e nuove caste, coloro che non vogliono pagare la tassa d'ingresso nelle corporazioni garantite. Fra qualche anno, quando tutto sarà più chiaro, le Fornero e i Poletti, che in questi anni la stampa e i media hanno trattato con i guanti di velluto, saranno ricordati come i razzisti americani degli anni ‘60, quelli che sorridevano con i colletti inamidati, mentre dormono coperture ideologica discorso lui, ai cappi, e ai roghi in cui si bruciavano i "negri" che non volevano piegarsi e accettare la parte dello zio Tom.

NON SIAMO STOICI.

Seneca, l’inquietudine dello stoico che ci mette di fronte a noi stessi. In edicola con il quotidiano il volume che raccoglie «La brevità della vita» e «La provvidenza», opere dove il filosofo rovescia luoghi comuni e stereotipi, scrive Mauro Bonazzi il 20 ottobre 2016 su "Il Corriere della Sera. Riappropriarci di ciò che siamo: non è facile restare noi stessi quando intorno tutto cambia vorticosamente, eliminando punti di riferimento o appigli. Viene quasi da pensare che non esista qualcosa di autenticamente nostro, che possiamo chiamare legittimamente «io», perché siamo il prodotto delle interazioni sociali, il risultato della combinazione casuale degli eventi fortuiti che ci capitano. Nel mondo antico lo stoicismo è il movimento che più decisamente si è opposto a queste idee: possiamo decidere di non ascoltarla, ma dentro ciascuno c’è una coscienza morale, che parla. Siamo noi. Lucio Anneo Seneca (4 a. C. - 65) vissuto in un’epoca turbolenta, facendo esperienza delle lusinghe del successo e delle minacce del potere, Seneca è il filosofo che più intensamente ha provato a vivere secondo questi precetti, in cerca di quella voce, e di un’esistenza vera. Non è semplice, perché la tentazione di cedere al conformismo si fa sempre più forte quando la pressione sociale aumenta. E negli anni tra Caligola e Nerone questa pressione ha raggiunto vertici notevoli. Tra oscillazioni e incertezze, Seneca comunque ci ha provato. Non sono molti gli autori in cui dottrine e vita s’intrecciano davvero, in cui la linearità della teoria s’immerge nel disordine della vita quotidiana. Seneca è uno di questi: non una guida infallibile e perfetta, il terapeuta che indica senza esitazioni la via; ma un paziente insoddisfatto, in cerca prima di tutto per se stesso. C’è anche della retorica, certo, in questa strategia. Ma l’inquietudine che trapela da molte pagine è sincera, rivela l’insoddisfazione per la propria incapacità di mettere a frutto dottrine apparentemente così limpide e lineari. Anche questa è una forma di autenticità: e qui è il suo fascino. Costruire una vita felice, genuina, in cui si possa essere finalmente se stessi, è possibile ma non è facile. È più semplice lasciarsi vivere, seguendo il flusso rassicurante di pregiudizi e abitudini, incolpando poi la sorte o gli altri per i propri insuccessi. Il problema, però, lo sa Seneca e lo sappiamo noi, è che così non funziona. I responsabili delle nostre vite siamo noi stessi, e nessun altro, è inutile nasconderselo. E dunque non resta che guardare in faccia ai problemi, affrontandoli. Ci si lamenta sempre del tempo che fugge, delle occupazioni che distolgono l’attenzione dalle cose importanti. Ma quali sono poi le cose importanti? Il comportamento quotidiano delle persone lascia pensare che siano il successo, la ricchezza o il potere: è sempre dietro a questi idoli che tutti corrono. E di chi è la colpa allora quando il rischio di aver sprecato la propria vita in attività vane si fa tangibile? Davvero, se avessimo potuto godere di un po’ di tempo in più, tutto si sarebbe potuto sistemare? «Non è vero che abbiamo poco tempo: ma ne abbiamo perduto molto», si legge nelle prime battute del trattato sulla Brevità della vita. La lingua di Seneca è tagliente, perché rovescia luoghi comuni stereotipati, mettendoci di fronte alla realtà e noi stessi. Ad alcuni potrebbero sembrare luoghi comuni o facili moralismi. La lettura dell’altro testo, La provvidenza, mostra che non è così, perché le idee di Seneca affondano le loro radici sul solido terreno della filosofia stoica. Non si tratta solo di consigli brillanti o di frasi ad effetto. Piuttosto dobbiamo imparare a riconoscerci parte di un disegno più ampio. La vera sfida dello stoicismo è tutta qui: comprendere che ogni cosa è collegata, che tutto si tiene e che il risultato è il meraviglioso universo che si dispiega davanti a noi. Siamo membra di questo corpo immenso. Chiusi nei nostri piccoli mondi, attaccati alle nostre cose — alla «roba», come Mazzarò nella novella di Giovanni Verga — non ci rendiamo conto di questa realtà più grande e più bella, che sola può dare senso e valore alla nostra esistenza. Da un punto di vista teorico problemi e difficoltà non mancano, come lo stesso Seneca è pronto a riconoscere. Cosa è il male allora? Da dove si origina, se nell’universo tutto è perfetto? Oscillando come al solito tra certezza dottrinale e insicurezza personale, Seneca affronta anche queste domande, proponendo risposte diverse, non tutte ugualmente soddisfacenti ma sempre interessanti. Del resto non è un problema semplice quello del male. E su un punto almeno ha ragione: senza sapere cosa è il male non potremmo sapere cosa è davvero la felicità. «Non c’è, mi sembra, essere più sventurato di chi non ha mai avuto alcuna avversità». È un’affermazione quasi paradossale, che contiene però, forse, un grano di verità. Perché in fondo è così: nel gran teatro della vita lo «spettacolo è tanto più gradito quanto è più nobile chi lo dà». Ancora una volta tutto ricade su di noi. Siamo noi a dover scegliere da che parte stare; cosa fare insomma delle nostre vite, se lamentarci o combattere. A leggerlo bene è più coerente di quello che sembra, Seneca.

L’Italia e la guerra fredda che nessuno volle combattere. Un volume di Guido Formigoni (il Mulino), in uscita il 17 novembre 2016, ricostruisce le vicende del nostro Paese durante la fase più aspra del conflitto tra Est e Ovest, scrive Paolo Mieli il 31 ottobre 2016 su "Il Corriere della Sera". L’Italia è descritta da gran parte degli storici del secondo dopoguerra come un Paese «a sovranità limitata». C’è poi un’ampia letteratura che ha attribuito le colpe dei nostri misteri e delle nostre tragedie a una sorta di «spettro esterno, materializzato nelle oscure trame della Cia o del Kgb». Ma è appropriato spiegare tutto ciò che è accaduto qui da noi alla luce di condizionamenti «da fuori» o anche solo della collocazione internazionale del nostro Paese? No, secondo Guido Formigoni, che ha dedicato a questo tema un libro molto accurato, Storia d’Italia nella guerra fredda (1943-1978), in procinto di essere dato alle stampe dalla società editrice il Mulino. I problemi conosciuti dal nostro Paese andrebbero invece affrontati in tutta la loro ampiezza e profondità attraverso «una matura storia comparata» capace di valorizzare «i parallelismi e al contempo le diversità dei diversi contesti nazionali». In che senso? La guerra fredda costituisce la «seconda e culminante fase di quel Novecento dominato dalla politica totalizzante di massa a carattere fortemente ideologico». La politica estera non è stata, in questo secolo, il terreno del confronto tra Stati-nazione «nell’elitario e rarefatto meccanismo di gestione delle scelte statuali», come era avvenuto nei secoli precedenti. È stata piuttosto un «campo di legittimazione ideologica, orizzonte di riconoscimento o di scontro globale, motivo di contesa frontale nella dialettica politica interna». Lo scontro veniva predicato ideologicamente come «assoluto», sicché ognuno poteva «stare solo da una parte». In realtà — ed è qui che sta il senso più profondo del libro di Formigoni — il confronto venne praticato in modo molto meno radicale e unilineare. E per ciò che riguarda gli Stati Uniti, è sbagliato costruire «rassicuranti generalizzazioni» sugli apparati segreti di quella superpotenza «proiettati — per definizione — verso un oscuro disegno di dominio». È giunto il momento di prendere atto del fatto che il «centro» dell’impero americano ebbe, più spesso di quanto non si creda, un «volto polimorfico». Stesso discorso vale — anche se in minor misura — per il campo opposto. Inoltre all’interno dei due schieramenti c’era (ed erano i più, quantomeno nelle classi dirigenti) chi lottava contro avversari interni cercando di usare la sponda internazionale a proprio vantaggio. Triangolazioni che, a ben studiarle, risultano piuttosto complesse e ci conducono assai lontano dalla linea di divisione tra comunismo e sistemi liberali, tra Oriente e Occidente. Questo ha fatto sì che paradossalmente la democrazia italiana si sia consolidata — anzi si sia progressivamente rafforzata — per certi versi proprio «attraverso la spaccatura e la lacerazione profonda del Paese». Inizialmente, a spingere verso il rifiuto di una radicalizzazione del conflitto furono principalmente i costi di una eventuale militarizzazione dello scontro, per cui ambedue gli schieramenti erano segretamente attrezzati, ma che furono ritenuti troppo alti da entrambe le parti. Poi, però, i protagonisti videro le opportunità che potevano cogliere in questo sistema polarizzato: si accorsero che la divisione del mondo e dei ruoli funzionava sempre di più come fattore di stabilità. E che un mix tra toni da guerra civile e comportamenti da bipolarismo guidato e consensualmente sviluppato conveniva a entrambi. Ed è stato così che «bene o male quarant’anni di guerra fredda non hanno impedito, anzi hanno accompagnato una certa indubbia modernizzazione del Paese e la realizzazione di una statualità democratica». Sicuramente più articolata rispetto a quel che ci si sarebbe potuti aspettare. Ne consegue che la periodizzazione proposta da Formigoni è assai diversa da quelle tradizionali, le quali descrivono pressoché come un unicum — sia pure con qualche progressivo allentamento della tensione — il periodo che va dal 1946 al 1989. Lo studioso ritiene giusto fermarsi al 1978, l’anno del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro. E divide le «epoche» in periodi di tre o quattro anni, il più complicato dei quali è quello che va dal 1948, con la vittoria democristiana alle elezioni politiche del 18 aprile, al 1954 con l’uscita di scena e la morte di Alcide De Gasperi. Al centro di questa stagione c’è, tra il 1950 e il 1953, la guerra di Corea. Ed è proprio a proposito della Corea che colpiscono le esitazioni di De Gasperi, il quale, in una lettera al ministro degli Esteri Carlo Sforza (fine luglio 1950), così parla degli alleati che premono per il riarmo: «Non bisogna nascondersi che tra i nordamericani i fanciulloni sono molti e che anche le democrazie politiche hanno i loro punti deboli… La vecchia Europa è più equilibrata e più esperta». Poi, nel dicembre dello stesso anno, il capo del governo appunta sul proprio diario notazioni pessimistiche circa l’eventualità di un conflitto con l’Urss e con i suoi satelliti: «La guerra contro le democrazie popolari è un rischio gravissimo… Nella prima fase certamente perderemmo nel campo militare; nella seconda fase, anche se vittoriosa la guerra, sarà perduta la pace, cioè soccomberà il regime democratico». Formigoni mette in risalto il fatto che l’appello dei Partigiani della pace contro la bomba atomica, approvato a Stoccolma nel marzo del 1950(nonostante ne fosse evidente l’impianto filocomunista, tra l’altro il testo «fu scritto direttamente da Stalin»), venne approvato da don Primo Mazzolari. Fa notare come, sul fronte opposto, i partiti centristi italiani non riuscirono nemmeno a firmare un loro manifesto filoamericano. Mentre intellettuali del calibro di Mario Bracci, Arturo Carlo Jemolo, Luigi Russo e altri radunati attorno a «Il Ponte» di Piero Calamandrei elaborarono posizioni da «terza forza», in cui esprimevano simpatia nei confronti dei Partigiani della pace filocomunisti. Più fermo nella difesa dei valori occidentali è «Il Mondo» di Mario Pannunzio. Che però è critico nei confronti di alcune scelte politiche della Dc: tanto basta a Giulio Andreotti, braccio destro di De Gasperi, per lamentarsene con l’editore Mazzocchi senza dar peso al ruolo che quel settimanale svolgeva nella battaglia delle idee sulle questioni cruciali della guerra fredda. Nel giugno del 1951, Paolo Emilio Taviani, anche lui infastidito per qualche critica da parte dei grandi giornali moderati, chiede a un funzionario dell’ambasciata statunitense la fondazione di un quotidiano nazionale che sostenesse «il punto di vista americano e occidentale». Ovviamente gli sta a cuore che questo giornale sia a disposizione della Dc. Fa notare, Formigoni, che il ministro democristiano degli Interni Mario Scelba, in pubblico un anticomunista senza tentennamenti, nel Consiglio dei ministri «si esprimeva sul linee rigorosamente legalitarie», anche a costo di entrare in conflitto con il suo pari gradi alla Difesa, Randolfo Pacciardi (il quale, con una «durezza semplificatoria», diceva che sarebbe stato sufficiente mettere «quattro o cinquecento mascalzoni in condizione di non nuocere» e tutto si sarebbe risolto per il meglio). C’è Giuseppe Dossetti che si schiera contro l’ipotesi di dar vita a un «esercito volontario» anticomunista, ma poi, a sorpresa, appoggia Pacciardi allorché il ministro chiede l’aumento delle spese militari: per il vicesegretario della Dc quelle spese rappresentano l’occasione per avviare un circuito virtuoso di «guida politica dello sviluppo». In altri momenti Dossetti torna a criticare sia Sforza che Pacciardi. Il comunista Mauro Scoccimarro nel giugno del 1949 sostiene che «la situazione attuale non consente illusioni» e prevede che «le forze reazionarie continueranno a corrodere la Costituzione sino a quando non giudicheranno giunto il momento di abbatterla!». A quel punto, prosegue Scoccimarro, alle masse «rimarrà solo la via dell’animosa rivolta popolare». Ma un altro esponente comunista, Valdo Magnani, verrà allontanato dal partito non soltanto per aver, come è noto, solidarizzato con Tito contro Stalin, bensì per qualcosa di più specifico, cioè l’aver dichiarato di essere favorevole alla difesa del territorio nazionale contro qualunque esercito straniero invasore. Compreso, era implicito, quello russo. I socialisti di Pietro Nenni, invece, per le loro posizioni filosovietiche nel 1951, a Francoforte, vengono esclusi dall’Internazionale. Giuseppe Saragat li prende in contropiede più di quanto loro stessi si aspettino ed è il più deciso a schierarsi al fianco di De Gasperi. Ma un importante leader socialdemocratico, Umberto Calosso, assieme al deputato Dc Igino Giordani, cerca (e trova) un’interlocuzione con il comunista Davide Lajolo sui temi proposti dai Partigiani della pace. Un altro esponente Dc, Giorgio La Pira, in procinto di diventare sindaco di Firenze, cerca (e anche lui trova) un rapporto analogo con il comunista Luigi Longo. Un intelligente funzionario dell’ambasciata americana a Roma, Llewellyn Thompson, studia a fondo i movimenti nello schieramento centrista e giunge alla conclusione che la Dc potrebbe andare in frantumi: «De Gasperi sta fronteggiando una delle più grosse sfide della sua carriera politica del dopoguerra». Un’altra relazione di un consigliere d’ambasciata Usa sostiene che «si può ritenere che il problema del comunismo in Italia sia più profondo e complicato di quanto si sia spesso pensato e che la dissoluzione del Pci richieda uno sforzo molto maggiore» (8 giugno 1951). Questo stesso rapporto si premura di mettere in chiaro che quelli richiesti erano strumenti per la «guerra psicologica» e non per la «guerra guerreggiata». Lo schieramento centrista conosce mille difficoltà. Nel gennaio del 1952, al congresso di Bologna, i socialisti democratici, che nel 1947 avevano lasciato il Psi per approdare su posizioni riformiste, mettono in minoranza, da sinistra, Giuseppe Saragat, l’uomo che aveva guidato l’intera operazione. E all’ondeggiante leader socialista Nenni, che sonda i suoi sull’eventualità di una forma di accettazione del Patto atlantico, l’opposizione strenua di Lelio Basso e Sandro Pertini fa subito ingranare la marcia indietro. In quello stesso inizio del 1952 l’ambasciatore statunitense James Clement Dunn nota una svolta silenziosa nell’orientamento politico degli italiani. Una svolta fatta di insofferenza per la cooperazione americana, di crescenti richiami nazionalistici e di resistenza alla valorizzazione delle spese per la difesa. De Gasperi è in questa fase indebolito per gli effetti dell’«operazione Sturzo» con la quale il Vaticano gli vorrebbe imporre l’alleanza con i partiti monarchico e neofascista.

Il Movimento sociale (neofascista), guidato da Augusto De Marsanich, alla fine del 1951 è approdato al terreno atlantista a dispetto di personalità come Pino Rauti e Franco Servello che — in coerenza con le origini repubblichine — vorrebbero continuare su una linea antiamericana. L’intellettuale di riferimento di quest’ala dura, Julius Evola, di lì a breve sosterrà in Gli uomini e le rovine che si debba accettare l’Occidente come male minore. Il che consentirà a De Marsanich di presentare la sua falange quasi compatta all’appuntamento con l’operazione politica voluta da Pio XII. Ma il nuovo ambasciatore americano Ellsworth Bunker suggerirà al proprio Paese di fidarsi di De Gasperi e di non offrire sponde all’«operazione Sturzo». Ma quando in un incontro a Sella Valsugana (settembre 1952), l’ambasciatore Bunker, in cambio del sostegno dei mesi precedenti, chiede allo statista trentino la statizzazione del commercio con i Paesi d’Oltrecortina per impedire al Pci di lucrare sulle intermediazioni, questi spiega che la proposta non è praticabile e la lascia cadere. Altro che eterodirezione statunitense della politica italiana! Tutto fu assai più complicato. Nelle ricostruzioni tradizionali di questa stagione, l’anticomunismo viene ricondotto alle successive prese di posizione, in parte bizzarre, dell’ambasciatrice Clare Boothe Luce, che in Italia sostituì Bunker. In realtà furono i leader dc, in particolare Amintore Fanfani, a cercare di influenzare la Luce per ottenerne l’appoggio nella lotta per la successione a De Gasperi. Lo stesso Fanfani ebbe tuttavia l’accortezza di metterla in guardia da uno «smaccato intervento straniero» che, le spiegò, avrebbe favorito i comunisti. E lei ne riportò una pessima impressione talché, al momento della sua elezione a segretario dc, descrisse il politico aretino come «un prodotto del fascismo» che «non ha l’America nel suo cuore, nella sua mente o nella sua immaginazione» e che all’occorrenza avrebbe potuto diventare il «Kerensky italiano». In ogni caso i leader centristi furono, nel maneggiare la guerra fredda, assai più prudenti di quanto la storia abbia tramandato. Taviani ha raccontato che quando nel 1955 la Dc ebbe le prove di un finanziamento sovietico al Pci — per l’epoca stratosferico, due miliardi! — Scelba e il liberale Gaetano Martino decisero di non rendere pubblica la notizia proprio per non alzare il livello dello scontro e non rischiare di essere costretti a mettere al bando i comunisti precipitando il Paese in una situazione difficilmente governabile. La guerra fredda, insomma, fu una guerra che qui da noi nessuno volle davvero combattere.

Bibliografia. Il saggio di Guido Formigoni Storia d’Italia nella guerra fredda 1943-1978 (il Mulino, pagine 688, euro 35). L’autore è docente di Storia contemporanea presso l’Università Iulm di Milano. Il lavoro di Formigoni è uno dei saggi che sono usciti di recente sulle vicende del nostro Paese dalla Seconda guerra mondiale in poi, alcuni dei quali arrivano fino ai nostri giorni. All’inizio dell’anno lo storico Guido Crainz ha pubblicato il libro Storia della Repubblica (Donzelli, pagine 395, euro 27). In seguito sono usciti l’ampio saggio di Piero Craveri L’arte del non governo (Marsilio, pagine 582, euro 25) e quello di Agostino Giovagnoli La Repubblica degli italiani. 1946-2016 (Laterza, pagine 386, euro 24). Sullo stesso argomento Simona Colarizi ha pubblicato nel 2007 il libro Storia politica della Repubblica (Laterza). 

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

In molti mi hanno scritto chiedendomi il testo del mio monologo effettuato durante il Festival di Sanremo 2013 il 16 Febbraio scorso. Beh, eccolo. Inoltre alcuni di voi, sull'onda del contenuto di quel monologo hanno creato una pagina facebook "Quelli che domenica voteranno con un salmone". Come vedete, l'ho fatto anch'io... 

Sono un italiano. Che emozione... E che paura essere su questo palcoscenico... Per me è la prima volta. Bello però. Si sta bene… Il problema ora è che cosa dire. Su questo palco è stato fatto e detto davvero di tutto. E il contrario di tutto. Gorbaciov ha parlato di perestroika, di libertà, di democrazia… Cutugno ha rimpianto l’Unione Sovietica. Gorbaciov ha parlato di pace… e Cutugno ha cantato con l’Armata Rossa… Belen ha fatto vedere la sua farfallina (io potrei farvi vedere il mio biscione, ma non mi sembra un’ottima idea… è un tatuaggio che ho sulla caviglia, dopo tanti anni a Mediaset è il minimo…) Ma soprattutto Benigni, vi ricordate quando è entrato con un cavallo bianco imbracciando il tricolore? Ecco, la rovina per me è stato proprio Benigni. Lo dico con una sana invidia. Benigni ha alzato troppo il livello. La Costituzione, l'Inno di Mameli, la Divina Commedia... Mettetevi nei panni di uno come me. Che è cresciuto leggendo Topolino... Però, se ci pensate bene, anche Topolino, a modo suo, è un classico. Con la sua complessità, il suo spessore psicologico, le sue contraddizioni… Prendete Nonna Papera, che animale è? ... chi ha detto una nonna? Non fate gli spiritosi anche voi, è una papera. Ma è una papera che dà da mangiare alle galline. Tiene le mucche nella stalla... Mentre invece Clarabella, che anche lei è una mucca, non sta nella stalla, sta in una casa con il divano e le tendine. E soprattutto sta con Orazio, che è un cavallo. Poi si lamentano che non hanno figli... Avete presente Orazio, che fa il bipede, l’antropomorfo, però ha il giogo, il morso, il paraocchi. Il paraocchi va bene perché Clarabella è un cesso, ma il morso?!? Ah, forse quando di notte arriva Clarabella con i tacchi a spillo, la guêpiere, la frusta: "Fai il Cavallo! Fai il cavallo!" nelle loro notti sadomaso… una delle cinquanta sfumature di biada. E Qui Quo Qua. Che parlano in coro. Si dividono una frase in tre, tipo: "ehi ragazzi attenti che arriva Paperino/ e/ ci porta tutti a Disneyland", oppure: "ehi ragazzi cosa ne direste di andare tutti/ a/ pescare del pesce che ce lo mangiamo fritto che ci piace tanto..." ecco, già da queste frasi, pur banali se volete, si può evincere come a Quo toccassero sempre le preposizioni semplici, le congiunzioni, a volte solo la virgola: "ehi ragazzi attenti che andando in mezzo al bosco/, / rischiamo di trovare le vipere col veleno che ci fanno del male" inoltre Quo ha sempre avuto un problema di ubicazione, di orientamento... non ha mai saputo dove fosse. Tu chiedi a Qui: "dove sei?" "sono qui!" ... Chiedi a Qua "dove sei?", e lui: "sono qua!" tu prova a chiederlo a Quo. Cosa ti dice? "sono Quo?" Cosa vuol dire? Insomma Quo è sempre stato il più sfigato dei tre, il più insulso: non riusciva né a iniziare né a finire una frase, non era né qui, né qua... Mario Monti. Mari o Monti? Città o campagna? Carne o Pesce? Lo so. So che siamo in piena par condicio e non si può parlare di politica. Ma sento alcuni di voi delusi dirsi: ma come, fra sette giorni ci sono le elezioni. E questo qui ci parla di mucche e galline... Altri che invece penseranno: basta politica! Io non voglio nascondermi dietro a un dito, anche perché non ne ho nessuno abbastanza grosso… decidete voi, volendo posso andare avanti per altri venti minuti a parlare di fumetti, oppure posso dirvi cosa penso io della situazione politica… Ve lo dico? Io penso che finché ci sono LORO, non riusciremo mai a cambiare questo paese. Dicono una cosa e ne fanno un'altra. Non mantengono le promesse. Sono incompetenti, bugiardi, inaffidabili. Credono di avere tutti diritti e nessun dovere. Danno sempre la colpa agli altri… A CASA! Tutti a casa!!! (A parte che quando dici tutti a casa devi stare attento, specificare: a casa di chi? No perché non vorrei che venissero tutti a casa mia) Vedo facce spaventate... soprattutto nelle prime file... Lo so, non devo parlare dei politici, ho firmato fior di contratti, ci sono le penali... Ma chi ha detto che parlo dei politici? Cosa ve l'ha fatto pensare? Ah, quando ho detto incompetenti, bugiardi, inaffidabili? Ma siete davvero maliziosi... No, non parlavo dei politici. Anche perché, scusate, i politici sono in tutto poche centinaia di persone... cosa volete che cambi, anche se davvero se ne tornassero tutti a casa (casa loro, ribadisco)? Poco. No, quando dicevo che devono andare tutti a casa, io non stavo parlando degli eletti. Io stavo parlando degli elettori... stavo parlando di NOI. Degli italiani. Perché, a fare bene i conti, la storia ci inchioda: siamo noi i mandanti. Siamo noi che li abbiamo votati. E se li guardate bene, i politici, ma proprio bene bene bene... è davvero impressionante come ci assomigliano: I politici italiani… sono Italiani! Precisi, sputati. Magari, ecco, con qualche accentuazione caricaturale. Come le maschere della commedia dell'arte, che sono un po' esagerate, rispetto al modello originale. Ma che ricalcano perfettamente il popolo che rappresentano. C'è l'imbroglione affarista, tradito dalla sua ingordigia “Aò, e nnamose a magnà!... A robbin, ‘ndo stai?”; C'è il servitore di due padroni: "orbo da n'orecia, sordo de n'ocio"… qualche volta anche di tre. Certi cambiano casacca con la velocità dei razzi… C'è il riccone arrogante...”Guadagno spendo pago pretendo” C'è la pulzella che cerca di maritarsi a tutti i costi con il riccone, convinta di avere avuto un'idea originale e che ci rimane male quando scopre che sono almeno un centinaio le ragazze che hanno avuto la sua stessa identica idea... C'è il professore dell'università che sa tutto lui e lo spiega agli altri col suo latino/inglese perfetto: "tananai mingheina buscaret!" Cos’ha detto? “Choosy firewall spending review” Ah, ecco, ora finalmente ho capito… C'è quello iracondo, manesco, pronto a menar le mani ad ogni dibattito... “culattoni raccomandati” Insomma, c'è tutto il campionario di quello che NOI siamo, a partire dai nostri difetti, tipo l'INCOERENZA. Come quelli che vanno al family day... ma ci vanno con le loro due famiglie... per forza poi che c'è un sacco di gente.... E se solo li guardi un po' esterrefatto, ti dicono: "Perché mi guardi così? Io sono cattolico, ma a modo mio”. A modo tuo? Guarda, forse non te l'hanno spiegato, ma non si può essere cattolico a modo proprio... Se sei cattolico non basta che Gesù ti sia simpatico, capisci? Non è un tuo amico, Gesù. Se sei cattolico devi credere che Gesù sia il figlio di Dio incarnato nella vergine Maria. Se sei cattolico devi andare in chiesa tutte le domeniche, confessare tutti i tuoi peccati, fare la penitenza. Devi fare anche le novene, digiunare al venerdì... ti abbuono giusto il cilicio e le ginocchia sui ceci. Divorziare: VIETATISSIMO! Hai sposato un farabutto, o una stronza? Capita. Pazienza. Peggio per te. Se divorzi sono casini… E il discorso sulla coerenza non vale solo per i cattolici... Sei fascista? Devi invadere l’Abissinia! Condire tutto con l'olio di ricino, girare con il fez in testa, non devi mai passare da via Matteotti, anche solo per pudore! Devi dire che Mussolini, a parte le leggi razziali, ha fatto anche delle cose buone! Sei comunista? Prima di tutto devi mangiare i bambini, altro che slow food. Poi devi andare a Berlino a tirare su di nuovo il Muro, mattone su mattone! Uguale a prima! Devi guardare solo film della Corea… del nord ovviamente. Devi vestirti con la casacca grigia, tutti uguali come Mao! …mica puoi essere comunista e poi andare a comprarti la felpa da Abercrumbie Sei moderato? Devi esserlo fino in fondo! Né grasso né magro, né alto né basso, né buono né cattivo... Né…Da quando ti alzi la mattina a quando vai a letto la sera devi essere una mediocrissima, inutilissima, noiosissima via di mezzo! Questo per quanto riguarda la coerenza. Ma vogliamo parlare dell'ONESTÀ? Ho visto negozianti che si lamentano del governo ladro e non rilasciano mai lo scontrino, Ho visto fabbriche di scontrini fiscali non fare gli scontrini dicendo che hanno finito la carta, Ho visto ciechi che accompagnano al lavoro la moglie in macchina, Ho visto sordi che protestano coi vicini per la musica troppo alta, Ho visto persone che si lamentano dell’immigrazione e affittano in nero ai gialli… e a volte anche in giallo ai neri!, Ho visto quelli che danno la colpa allo stato. Sempre: se cade un meteorite, se perdono al superenalotto, se la moglie li tradisce, se un piccione gli caga in testa, se scivolano in casa dopo aver messo la cera: cosa fa lo stato? Eh? Cosa fa?... Cosa c’entra lo stato. Metti meno cera, idiota! Lo sapete che nell'inchiesta sulla 'ndrangheta in Lombardia è venuto fuori che c'erano elettori, centinaia di elettori, che vendevano il proprio voto per cinquanta euro? Vendere il voto, in democrazia, è come vendere l'anima. E l'anima si vende a prezzo carissimo, avete presente Faust? Va beh che era tedesco, e i tedeschi la mettono giù sempre durissima, ma lui l'anima l'ha venduta in cambio dell'IMMORTALITA'! Capito? Non cinquanta euro. Se il diavolo gli offriva cinquanta euro, Faust gli cagava in testa. La verità è che ci sono troppi impresentabili, tra gli elettori. Mica poche decine, come tra i candidati… è vero, sembrano molti di più, ma perché sono sempre in televisione a sparar cazzate, la televisione per loro è come il bar per noi... "Ragazzi, offro un altro giro di spritz" "E io offro un milione di posti di lavoro" e giù a ridere. "E io rimborso l'imu!” “e io abolisco l'ici!" “Guarda che non c'è più da un pezzo l'ici" "Allora abolisco l'iva... E anche l'Emy, Evy e Ely!" "E chi sono? "Le nipotine di Paperina! "Ma va là, beviti un altro grappino e tasi mona!..." Vedi, saranno anche impresentabili ma per lo meno li conosci, nome e cognome, e puoi anche prenderli in giro. Invece gli elettori sono protetti dall’anonimato… alle urne vanno milioni di elettori impresentabili, e nessuno sa chi sono! Sapete quale potrebbe essere l’unica soluzione possibile? Sostituire l'elettorato italiano. Al completo. Pensate, per esempio, se incaricassimo di votare al nostro posto l'elettorato danese, o quello norvegese. Lo prendiamo a noleggio. Meglio, lo ospitiamo alla pari... Au pair. Carlo, ma chi è quel signore biondo che dorme a casa tua da due giorni? “Oh, è il mio elettore norvegese alla pari, domenica vota e poi riparte subito... C'è anche la moglie”... E per chi votano, scusa? "Mi ha detto che è indeciso tra Aspelünd Gründblomma e Pysslygar". Ma quelli sono i nomi dell'Ikea!, che tra l’altro è svedese… "Ma no, si assomigliano… però ora che mi ci fai pensare, effettivamente ho visto nel suo depliant elettorale che i simboli dei loro partiti sono un armadio, una lampada, un comodino. Mah. E tu poi, in cambio cosa fai, vai a votare per le loro elezioni? In Norvegia? "Ah, questo non lo so. Non so se mi vogliono. Mi hanno detto che prima devo fare un corso. Imparare a non parcheggiare in doppia fila. A non telefonare parlando ad alta voce in treno. A pagare le tasse fino all'ultimo centesimo. Poi, forse, mi fanno votare." Si, va beh, qualche difficoltà logistica la vedo: organizzare tutti quei pullman, trovare da dormire per tutti... Ma pensate che liberazione, la sera dei risultati, scoprire che il nostro nuovo premier è un signore o una signora dall'aria normalissima, che dice cose normalissime, e che va in televisione al massimo un paio di volte all'anno.

(Lancio di batteria e poi, sull’aria de “L’italiano”)

Lasciatemi votare

con un salmone in mano

vi salverò il paese

io sono un norvegese…

VIVA GLI ANTIPATICI.

La rivincita degli antipatici (ma solo per lavoro). Spesso impopolari tra i colleghi perché troppo esigenti e poco inclini a compromessi. Ma portano efficienza e meritocrazia, scrive Elvira Serra il 5 febbraio 2017 su "Il Corriere della Sera”. Sono quelli più esigenti, non fanno mai sconti, a cominciare da se stessi. Pretendono, non si accontentano, talvolta sono così testardi e poco malleabili da risultare «impossibili». Antipatici, insomma. Come Lucy Kellaway, ancora per pochi mesi columnist del Financial Times (lo lascerà d’estate per insegnare matematica nelle scuole più disagiate di Londra con la sua nuova Fondazione). Sul quotidiano economico qualche giorno fa ha scritto un commento dal titolo eloquente: «Sono una persona difficile al lavoro e felice di esserlo». Lei puntualizza che — guarda caso — sono solo i colleghi maschi a giudicarla così «faticosa». Ma si è dovuta arrendere all’evidenza, facendone però un bandiera, quando sua figlia le ha detto: «Mamma, tu non ti rendi conto di quanto puoi essere difficile». Eppure, oltre che per una questione di autostima, essere esigenti, soprattutto in posizioni di comando, è l’unico modo per raggiungere determinati risultati. «Gli studi sulla leadership fin dagli anni Cinquanta hanno dimostrato che un modello troppo democratico non sempre è funzionale: quando si hanno poco tempo e scarse risorse, la guida autoritaria risulta quella più efficace», spiega Vincenzo Russo, docente di Psicologia del lavoro e delle organizzazioni allo Iulm di Milano. «Gli antipatici, se vogliamo chiamarli così, sono quelli che adottano sì una logica molto autoritaria, ma anche molto meritocratica. L’ideale, come teorizzarono Robert Blake e Jane Mouton nel 1964, sarebbe un mix tra il leader socio-affettivo più attento alla dimensione relazionale e quello più orientato all’obiettivo». Essere poco inclini al compromesso, per esempio, è servito all’imprenditore bolzanino Patrizio Podini a realizzare l’impossibile: 711 punti vendita in tutta Italia, più di due miliardi di fatturato nel 2015 e 5.900 dipendenti con MD Spa, terzo gruppo dell’hard discount in Italia. «Ho fondato l’azienda a Napoli nel 1994. Riesce a immaginare che cosa vuol dire esportare nel Mezzogiorno la cultura austroungarica precisa e rigorosa con la quale mi sono formato?». Podini non si considera antipatico nell’accezione caratteriale: «Sono simpaticissimo». Però ammette che le cose che chiede «non devono essere discusse», semmai «fatte». «Nel 1997 di fronte alla divergenza di punti di vista con i miei soci ho acquistato tutte le loro quote e sono diventato l’unico proprietario». E invece non ha nessuna difficoltà ad ammettere di essere proprio «rompiscatole» Angela Formaggia, titolare milanese della ormai trentenne Sartoria Angela Alta Moda, sei dipendenti a Milano oltre alle collaboratrici e a uno svariato numero di fornitori con i quali litiga senza problemi arrivando alle minacce: «Di non pagare, funziona sempre...». «Mi rendo conto di apparire molto antipatica in certi momenti, magari vicino a una consegna o a un evento. Lì non ammetto scuse, le parole “non è possibile” o “non ce la faccio” non esistono nel mio vocabolario, sono cancellate». Anche lei, come Lucy Kellaway, ha una figlia, Michela, che glielo ricorda piuttosto spesso. «Diciamo pure ogni giorno: “Mamma sei impossibile”. Però credo sia questo il segreto del passaparola che ci fa arrivare clienti da Londra, Zurigo, Sudafrica». «L’importante è che il rigore venga applicato in maniera funzionale, e non per creare un clima di terrore», avverte Caterina Gozzoli, docente di Psicologia del conflitto e della convivenza organizzativa alla Cattolica. «Essere “difficili” in contesti di lavoro che tendono all’omologazione è una buona cosa, consente di avere idee nuove. Poi ci sono i top manager, che possono permettersi di osare di più, di essere innovativi e così stimolare anche gli altri. L’importante è che il capo detti la linea e non detti legge. Perché in questo caso sarebbe “antipatico” e basta. Senza attenuanti».

 ITALIA. PAESE DI GIOCATORI D’AZZARDO.

Slot, l'Italia brucia 49 miliardi nelle macchinette. Gratta e vinci, lotterie, superenalotto, scommesse sportive, lotto, macchinette, gioco online, ippica, bingo: nel 2016 gli italiani hanno speso 95 miliardi nel gioco, oltre la metà solo in slot machine e videolottery. Pari a più di due manovre finanziarie. La Lombardia è la regione che spende di più, seguita da Lazio e Veneto. L'Abruzzo è la regione con la maggiore densità di apparecchi. Prato è la provincia italiana con la giocata pro capite più alta. Tutti i dati nell'inchiesta del Gruppo Gedi, scrive Annalisa D'Aprile il 9 dicembre 2017 su "La Repubblica". Novantacinque miliardi di euro. È la cifra spesa nel 2016 dagli italiani nel gioco: gratta e vinci, lotterie, lotto, superenalotto, scommesse sportive, totocalcio, totogol, macchinette, ippica, bingo, gioco online. Ben oltre la metà di questi 95 miliardi, più di 49 miliardi, sono stati giocati su Awp e Vlt (acronimi di slot machine e video lottery). Il numero degli apparecchi attivi sul territorio è di oltre 400mila, così divisi: 354.905 slot e 54.262 vlt. Quanto l'Italia sia invasa dalle slot machine e quale sia la spesa a testa degli italiani è oggetto delle analisi di questo lavoro d'inchiesta dei quotidiani locali Gedi e del Visual Lab in collaborazione con Dataninja. Incrociando i dati di popolazione (Istat), reddito (Mef) e raccolta gioco (Aams) è stato creato un database interrogabile in grado di mostrare dove e quanto si gioca in oltre 7mila comuni italiani.

Regioni, raccolta e slot: la classifica. È la Lombardia a guidare la classifica nazionale delle regioni italiane che nel 2016 hanno giocato di più in assoluto su Slot (dette anche New Slot e AWP) e video lottery (Vlt), seguita da Lazio, Veneto, Emilia Romagna, Campania, Piemonte, Toscana, Puglia, Sicilia, Liguria. In Lombardia, la raccolta dello scorso anno ha superato i 10 miliardi (10.383.102.030), a fronte di una popolazione di 10 milioni di persone (10.019.166). Più di 5 miliardi e 310 milioni sono stati ingoiati dalle slot, altri 5 miliardi e 72 milioni dalle Vlt. La Regione conta in totale 64.049 apparecchi (54.241 slot e 9.808 Vlt) ed è anche quella in cui la spesa pro capite è più alta: oltre 1000 euro a testa spesi in slot machine. Seconda in classifica la regione Lazio: 5 miliardi e quasi 125 milioni i soldi giocati tra slot e Vlt (ripartiti quasi equamente tra i due tipi di apparecchi) su una popolazione che sfiora i 6 milioni di abitanti (5.898.124) e che può giocare su 40.609 apparecchi (33.649 slot e 6.960 Vlt). In Veneto, terza in lista, nel 2016 sono stati giocati più di 4 miliardi e 662 milioni tra slot e video lottery. Quattro milioni e 900mila gli abitanti del Veneto che contano 35.088 apparecchi (29.860 slot e 5.288 Vlt). Segue l’Emilia Romagna con 4 miliardi e oltre 511 milioni spesi quasi equamente tra slot e Vlt che sono in totale 32.416 (27.098 slot e 5.318 Vlt) su una popolazione di circa 4 milioni 448mila persone. Quinta in classifica la Campania: 5 milioni 839mila abitanti e 3 miliardi 868 milioni spesi. Sesto il Piemonte che conta 4.392 milioni di persone e 3 miliardi e 699 milioni giocati. Chiudono la classifica delle prime dieci Toscana (3 milioni 742mila abitanti e 3 miliardi 363 milioni giocati), Puglia, Sicilia e Liguria. Spesa pro capite: chi gioca di più. Sul fronte della spesa più alta pro capite, la Lombardia è subito seguita dall’Emilia Romagna (1.014 euro a testa). Da notare che, insieme ad Abruzzo e Lazio, è la prima regione italiana per numero di Vlt per 1000 abitanti.

La classifica delle regioni in base alle giocate pro capite. Alta la spesa pro capite anche in Abruzzo (terza in lista) dove di spendono 954 euro a testa; quarto il Veneto con 950 euro pro capite, quinta la Toscana con 898 euro a testa spesi in slot machine. Mentre tra le regioni che hanno una spesa pro capite più bassa c’è la Sardegna: 662 euro di raccolta a testa a fronte di una presenza di macchinette pari a 8,5 a testa. Nella classifica delle regioni con il più aòto numero di apparecchi per 1000 abitanti la Sardegna è quarta. In testa il Molise seguito da Abruzzo e Calabria. Focus province. Quella di Prato è la provincia toscana con la più alta spesa pro capite per slot machine, 2377 euro, più del doppio di tutte le altre province toscane. Non solo, è la provincia italiana con la più alta spesa pro capite in assoluto. Non solo, il comune di Prato è infatti primo nella regione per Awp pro capite, Vlt pro capite, apparecchi totali pro capite, raccolta pro capite. Raccoglie più del doppio del capoluogo più vicino in graduatoria, Massa Carrara. Pavia ha ben quattro comuni nella top 20 dei centri urbani italiani con la più alta raccolta pro capite. In particolare Bosnasco è al quarto posto assoluto. L’Emilia Romagna, anche per quanto riguarda i dati a livello provinciale, si conferma ai primi posti. Soffermandosi sulle giocate totali, troviamo ben 4 province nella top 30 nazionale: Bologna, Modena, Reggio Emilia e Piacenza.

Il caso Caresanablot. C’è un piccolo paese in provincia di Vercelli (Piemonte), Caresanablot, che ha il dato di giocata pro capite più alto in assoluto in Italia: ben 24.228 euro spesi a testa a fronte di una popolazione che conta 1.133 abitanti e che ha un reddito pro capite annuo di 23.100 euro. La spiegazione sarebbe, come racconta il vicesindaco Angelo Santarella, dovuta ad una grande sala slot e giochi, che si chiama Las Vegas, aperta dalle 10 del mattino fino alle 4 di notte, con tanto di bar e dotata di grande parcheggio. "È la più grande sala di tutto il vercellese - sottolinea Santarella - e Caresanablot sista solo 500 metri dal confine con Vercelli". Il comune infatti, lungo appena un chilometro, è attraversato da una statale che collega ben tre province: Vercelli, Novara e Biella. La "Las Vegas" di Caresanablot dunque, sarebbe meta dei pendolari del gioco. Awp e Vlt: cosa sono. Acronimi rispettivamente di Amusement with Prizes e Video Lottery Terminal, più note come slot o new slot e video lottery, questi apparecchi si differenziano anche per tipo di gioco, puntata e vincita massima e regole di collocazione. In comune invece hanno solo il divieto di utilizzo per i minori di 18 anni.

La classifica delle regioni in base agli apparecchi per 1000 abitanti. Le Awp possono essere installate in tutti gli esercizi commerciali individuati dall'Agenzia delle Dogane e dei Monopoli e possono essere bar, edicole, tabacchi, sale bingo, agenzie di scommesse ippiche e sportive, stabilimenti balneari, alberghi, ricevitorie del lotto. Il costo minimo della giocata è 1 euro e le erogazioni delle vincite, fino a un massimo di 100 euro, devono essere solo in monete. Le videolotterie rappresentano una sorta di "evoluzione" delle slot da un punto di vista tecnologico. ll costo della partita varia da un minimo di 50 centesimi fino ad un massimo di 10 euro. Le Vlt accettano monete, banconote e ticket di gioco. È possibile vincere fino a 5mila euro e dove previsto si può vincere il jackpot nazionale (fino a 500mila euro) o un Jackpot locale (fino a 100mila euro). Le Vlt non erogano soldi, ma un ticket da riscuotere presso il gestore, fino a 2.999 euro, per cifre superiori entra in vigore la normativa antiriciclaggio e il pagamento al giocatore avviene tramite bonifico o assegno. Questi apparecchi possono essere installati esclusivamente nelle sale bingo, agenzie e negozi di scommesse sportive e ippiche, sale giochi ed infine nelle sale dedicate. Vincite: a chi vanno. Nel 2016 il 71,6 per cento delle vincite è tornato nelle tasche dei giocatori, che però continuano a giocare alimentando un circolo vizioso. Il resto degli incassi, pari a oltre il 28 per cento (28,3%) va allo Stato (17,5% contro il 13% del 2015), agli esercenti (6%), ai gestori (4,3%) e ai concessionari (0,5%). Nel 2016, il settore dei giochi ha garantito entrate erariali intorno ai 10,5 miliardi, di cui 5,8 miliardi dai soli apparecchi.

Il riordino del sistema gioco d'azzardo. Entro il 30 aprile 2018 verranno rottamati 142.649 apparecchi su un totale di oltre 400mila in circolazione in Italia. Un taglio pari al 35 per cento. Le rimanenti (oltre 264mila) verranno sostituite con delle nuove macchinette che saranno collegate in remoto con la rete telematica statale e questo comporterà l’obbligo per il giocatore di inserire la Carta nazionale dei servizi e la tessera sanitaria impendendo così ai minori di giocare. Le sale gioco, invece, verranno dimezzate nei prossimi 3 anni, passando dalle attuali 98.600 a circa 50mila. Al decreto, già in vigore, di riordino del gioco d'azzardo mancano solo i decreti attuativi e la parte normativa riguardante il contingentamento: più stretta la regolamentazione sui luoghi che potranno ospitare le macchinette, sui metri quadrati minimi necessari e sulle distanze minime tra le slot. Il sottosegretario al Mef, con delega ai giochi, Pier Paolo Baretta conferma che mai più potranno esserci apparecchi in luoghi come alberghi, stabilimenti balneari, ristoranti. Non solo, gli apparecchi di nuova generazione impediranno al giocatore di premere compulsivamente i tasti e avranno un tetto di giocata, inoltre sarà più difficile per la criminalità organizzata taroccarle.

Il sottosegretario Baretta: "Meno slot e a prova di criminalità organizzata" Via le slot che rendono meno, mai più macchinette in ristoranti e stabilimenti balneari, più controlli per impedire il gioco ai minori. In arrivo nuovi apparecchi che limitino il gioco e difficili da manomettere per la criminalità. A che punto è il decreto sul rioridno del gioco d'azzardo e cosa cambierà nei prossimi mesi: lo spiega il sottosegretario al Ministero dell'Economia con delega ai giochi, Pier Paolo Baretta (intervista di Annalisa D'Aprile, riprese e montaggio di Claudia Accogli).

Ad aver rallentato la fase finale del decreto è la "questione Piemonte", dove il presidente Sergio Chiamparino ha deciso di spegnere tutte quelle slot (oltre il 90 per cento) che violano le disposizioni sulle distanze: mai a meno di 500 metri da luoghi cosiddetti sensibili come scuole, ospedali, impianti sportivi, luoghi di culto, banche, istituti di credito o stazioni ferroviarie. La Regione inoltre, ha deciso di rendere retroattiva quest'ultima norma. In propostito, Baretta spiega che il Piemonte è "fuori legge" e dovrà "adeguarsi alla legge nazionale". Ad oggi tuttavia, il Piemonte sembra non avere nessuna intenzione di fare un passo indietro e nemmeno di avviare una nuova trattativa per rivedere numeri e distanze, come si augura invece il sottosegretario.

Ludopatia: il gioco sommerso è incalcolabile. Quanti siano gli italiani malati di gioco d'azzardo patologico è una delle stime più difficili da fare. I dati oscillano tra 1,5 e oltre il 3 per cento di giocatori problematici e circa il 2 per cento di giocatori patologici (pari a oltre un milione di persone). Ma potrebbero essere molti di più i ludopatici impigliati nelle maglie del sommerso. "Nessuno raccoglie questi dati" dice Simone Feder, psicologo (lavora da anni nella comunità Casa del Giovane di Pavia) e coordinatore del Movimento NoSlot. "Il sommerso è molto - continua - i ludopatici non accedono ai servizi per le dipendenze, non si sentono malati". L'aspetto sociale più significativo è che le richieste d'aiuto arrivano dai familiari, in particolare i figli chiamano per i genitori e i nipoti per i nonni. "È stata stravolta la cultura educativa. Riceviamo almeno due telefonate al giorno ti questo tipo: 'Aiuto, mia madre sta dilapidando tutto, cosa dobbiamo fare?'. Non era mai successo che fossero i figli a portare i genitori. Mai la droga - perché il gioco d'azzardo questo è - aveva toccato gli anziani. Le slot sono l'eroina del terzo millennio".

Slot, Feder: "Mai nessuna droga aveva toccato gli anziani. L'azzardo ce l'ha fatta". Figli che portano i genitori, nipoti che portano i nonni. Questo è il dato sociale sugli effetti del gioco d'azzardo che più colpisce nelle parole di Simone Feder, psicologo della Casa del giovane di Pavia, coordinatore del Movimento NoSlot: "Il gioco d'azzardo è l'eroina del terzo millennio" (intervista di Anna Ghezzi, riprese di Antonio Nasso, montaggio di Francesco Collina). A tratteggiare un profilo del giocatore e fornire qualche dato è Maurizio Fea, responsabile del servizio offerto dal sitoGioca.Responsabile.it che garantisce il totale anonimato e, attraverso un numero verde, mette a disposizione un team di esperti. Gioca Responsabile "è attivo dal novembre 2009 - spiega Fea - e da allora ad oggi ci sono stati 16mila casi problematici di gioco che si sono rivolti al servizio. Di costoro 9.700 sono giocatori e 6.800 sono quelli che la letteratura definisce altri significativi (familiari e amici) di cui un migliaio costituito da genitori, 1200 figli e 1.500 coniugi di giocatori".

Slot, Massimo e Mattia: "La giornata passava giocando sulle macchinette" "Ho iniziato a giocare nel bar sotto casa: avevo 15 anni" racconta Mattia che ora di anni ne ha 22 e che dal baratro della ludopatia sta venendo fuori. Così anche Massimo 43 anni, che racconta: "Una sera, in sei ore ho giocato 2.800 euro. Tutta la mia vita era concentrata sulle Vlt". Ecco le loro storie (interviste di Anna Ghezzi, riprese di Antonio Nasso, montaggio di Daniele Tempera).

Il profilo del giocatore che contatta il servizio è maschio in prevalenza (80%) mentre per gli altri significativi prevalgono le femmine. Gioca prevalentemente alle slot o a più giochi, da almeno 5 anni e più. Età media 42 anni e le fascie di età più rappresentate sono comprese tra 25 e 54 anni. Le province con il maggiore afflusso di contatti sono quelle di Milano e di Roma. "Dal 2013 - conclude Fea - anno in cui "abbiamo attivato anche la possibilità di terapia on line, 2600 persone si sono registrate per la terapia, ma solo un quarto di esse ha dato seguito al piano di cura che dura circa sei mesi".

Inchiesta dei Giornali locali del Gruppo Gedi in collaborazione con Dataninja e Effecinque. Elaborazioni dati e grafiche a cura di Visual Lab. Coordinamento editoriale Agl.

Gioco d'azzardo: scommettiamo 132 euro al mese e siamo il Paese che perde di più. In 18 anni puntate aumentate del 668%, la media è salita a 1.587 euro l’anno per ogni italiano. Un costo per la società fino a sei miliardi, scrive Gian Antonio Stella il 20 settembre 2017 su "Il Corriere della Sera". «Nonna slot», l’ha ribattezzata un giornale locale. E buttato lì così pare un allegro nomignolo alla Jacovitti come Cocco Bill o Gionni Galassia. La tragedia della vecchietta trevisana che ha perso 200mila euro alle macchinette, dove i premurosi «Lucignoli» delle sale-slot la portavano in auto andando a prenderla al ricovero, è solo l’ultima di un «Paese dei balocchi» infernale. Al quale è dedicato un dossier presentato oggi al Senato. Si intitola «Lose for life», cioè «perdi per la vita», un gioco di parole che stravolge il nome, «Win for Life!» («vinci per la vita») di uno dei «gratta e vinci» più noti ai giocatori incalliti. È stato curato da Claudio Forleo e Giulia Migneco, è promosso dall’associazione «Avviso pubblico» che rappresenta oggi 370 soci tra Comuni, Città metropolitane, Province e Regioni, e ha un sottotitolo che dice tutto: «Come salvare un Paese in overdose da gioco d’azzardo». Che sia in overdose è fuori discussione. Come spiegano i curatori, il nostro è un Paese che ha sempre giocato d’azzardo. Basti ricordare Charles Dickens che in Impressioni d’Italia racconta d’un invasato spettatore che urlava a un poveretto morente dopo una caduta da cavallo: «Se ancora ti rimane un soffio, dimmi quanti anni hai, fammeli giocare al lotto, per amore del Cielo!». Ma «l’indiscriminato aumento dell’offerta di gioco lecito, iniziato nel 1997 con l’introduzione di Superenalotto, sale bingo e scommesse, è piombata su una società impreparata a reggerne l’urto».

I numeri. Pochi numeri dicono tutto. Nel 1998 gli italiani giocarono 12,5 miliardi di euro attuali, nel 2016 ben 96,1. Con una impennata mostruosa del 668%. In pratica ogni italiano, dal neonato al centenario in coma, scommette oggi 1.587 euro l’anno. Vale a dire «132 euro al mese, all’incirca il costo di una spesa settimanale di generi essenziali per una famiglia media». Se «prendiamo in considerazione solo i contribuenti, però (meno di 41 milioni di persone) la media sale a 2.357 euro pro capite, pari a 196 euro al mese». Il che significa che, avendo gli italiani dichiarato in media nel 2016 un reddito di 1.724 euro al mese, ne buttano in scommesse varie l’11%. Dicono i sostenitori della «filiera dell’azzardo»: tanta parte dei soldi torna indietro con le vincite. Ovvio: se non capitasse mai nessuno giocherebbe più. L’ammontare delle perdite è comunque di 19,5 miliardi. Il 54% va allo Stato? Certo, ma qual è il rapporto costi-benefici? «Guardando solo ai costi monetari», rispondono Leonardo Becchetti e Gabriele Mandolesi, «è evidente che i soldi spesi in azzardo sono sottratti ad altre destinazioni». Quei circa 20 miliardi sarebbero spesi infatti «in consumi che hanno un prelievo, fatta la media, superiore». Per non dire dei costi sociali. Non solo quelli delle cure mediche per le ludopatie ma anche quelli del «crollo della capacità lavorativa» di chi finisce dentro la «spirale di sovra-indebitamento e usura». Insomma, «nell’insieme le voci dei costi dell’azzardo vengono stimati in 5-6 miliardi di euro».

Le casse dello Stato. Vale la pena, per ciò che resta poi nelle casse dello Stato, di detenere in proporzione al Pil il record del Paese che perde più soldi nell’azzardo davanti agli Stati Uniti, al Regno Unito, alla Spagna, alla Francia e alla Germania dove i tedeschi superano appena appena un terzo della quota di perdite italiane? Se uno studio del Cnr «ci ricorda che il 42% dei giovani tra i 15 e i 19 anni nel 2015 ha giocato d’azzardo» vale la pena di mettere a rischio i nostri ragazzi? C’è chi pensa che lo scioglilingua («Ilgiocoèvietatoaiminoriepuòcausaredipendenzapatologica») o l’invito al «gioco consapevole» possano servire davvero? Hanno già risposto non solo Maurizio Crozza (è come dire «annega con cautela, sparati con prudenza, buttati dalla finestra ma copriti per il freddo») ma pure, ricorda lo psicologo Mauro Croce, il prestigioso Institute National de Santé et de la Recherche Médical francese. Secondo il quale «il gioco responsabile è una ovvietà per tutte le persone che non giocano ma un paradosso per il giocatore, come dire “una baldoria ragionevole”, “una ubriacatura moderata”, “un eccesso calcolato”». Per non dire, prosegue il dossier, del rapporto con le mafie: «Nel corso degli anni gli interessi delle organizzazioni criminali sul gioco si sono evoluti e l’ampliamento del gioco d’azzardo legale si è trasformato in una risorsa per le mafie, anziché in un freno agli affari» come teorizzarono, puntando sullo Stato biscazziere, vari governi di sinistra e di destra. «L’elevato volume di danaro che ruota attorno a tale settore», accusa Giovanni Russo, Procuratore nazionale antimafia, «ha da sempre contribuito ad attirare le mire “imprenditoriali” delle organizzazioni mafiose, con pesanti ricadute non solo in termini di mancati incassi da parte dell’Erario dello Stato — sottratti dal gioco illegale — ma anche sul più ampio piano della sicurezza generale dell’ordinamento e dell’inquinamento del sistema economico nel suo complesso».

Le imprese del settore. Non mancano, nel dossier, le posizioni delle imprese del settore (Stefano Zapponini, presidente di Sistema Gioco Italia, giura che «i veri nemici del gioco sono gli operatori illegali» e che «nel Dna degli operatori del settore non c’è mai stato, né mai ci sarà, la volontà o il disegno perverso di procurare danni a chi decide di divertirsi attraverso i diversi prodotti presenti nel panorama italiano del gioco») o del governo. Che per bocca del sottosegretario Pier Paolo Baretta spiega che «il punto di partenza è stato il contrasto al gioco illegale», riconosce come alcuni calcoli iniziali fossero errati rispetto all’esplosione del fenomeno e che il freno agli spot televisivi «non è ancora sufficiente» ma rivendica anche gli sforzi per una mediazione e il tentativo di ridurre l’offerta «perché la parte patologica e compulsiva ha creato delle condizioni sociali che sono sbagliate in sé». Né mancano le posizioni dei Comuni, delle Regioni, delle associazioni, di esperti come Maurizio Fiasco. La più toccante però (insieme con la storia raccontata da Toni Mira di Domenico Martimucci, il giovane calciatore ammazzato da una bomba nella guerra per il mercato delle slot) è forse la testimonianza di un giocatore pentito: «Mi sono giocato la casa, ho dovuto cambiare più volte posizione lavorativa per colpa della mia dipendenza. I miei datori di lavoro, sapendo che avevo due figlie, non mi denunciavano per evitare che fosse la mia famiglia a pagarne le conseguenze. Io approfittavo di quella che ritenevo essere una debolezza e continuavo a succhiargli l’anima». Finché finalmente capì che l’azzardo stava succhiando l’anima a lui.

La prima ora di un neo milionario. Nella sede Sisal che «dà» i premi. Chi pensa ai viaggi, chi agli studi dei nipoti. «Ma attenti a non stravolgere la vita», scrive Alessandro Fulloni il 18 giugno 2017 su "Il Corriere della Sera". Una nonna vuole pagare gli studi universitari ai nipoti, un pensionato immagina un corso di paracadutismo a settant’anni. E poi c’è quella domanda che si pongono tutti, appena diventati milionari: «Perché proprio io?». La risposta non cambia mai: «In fondo, me lo sono anche un po’ meritato. Ho lavorato tutta la vita, sono sempre stato onesto».

L’attesa. Milano, via de Tocqueville, sede della Sisal, la storica concessionaria che opera nel gioco e nelle lotterie e che cominciò nel 1946 inventando il Totocalcio. Chi varca quest’ingresso con una schedina vincente (in genere custodita nel portafogli, ma ci fu chi arrivò con vigilantes e furgone blindato) si appresta a diventare milionario. Sono passati da qui sia quello che il 27 ottobre 2016 sbancò il Superenalotto aggiudicandosi il jackpot da 163,5 milioni (record nelle vincite uniche), sia i 70 che nel 2010 si suddivisero il jackpot più alto della storia italiana: 178,5 milioni. La pratica per ottenere la somma vinta dura circa un’ora: bastano schedina, codice fiscale, documento e coordinate bancarie.

Le domande. Cosa passi nella testa del neo Paperone in quei momenti lo sa bene Laura Casè, la funzionaria Sisal che, una volta sbrigato l’iter, intervista i vincitori. «Ma solo se ne hanno voglia e nell’assicurazione del più rigoroso anonimato». Accettano quasi tutti: e a fine anno sono circa una cinquantina le persone (in un caso uno dei fortunati ritornò a colloquio una seconda volta per un’altra vincita) che in questa chiacchierata confidenziale svelano progetti e sogni. «In fondo è l’unica occasione di poter davvero raccontare le proprie emozioni, perché poi scatteranno altre ansie». È il caso di quel sessantenne che «sulle prime pensava di acquistare una berlina: salvo cambiare repentinamente idea virando su un’utilitaria per non segnalare ai vicini il cambiamento del tenore di vita». In generale «la prima reazione resta sempre quella dello stupore. Si fatica a credere che una giocata da 2 euro — che tra l’altro è l’importo massimo nel 71,5% delle giocate, mentre nel 96,9% delle volte non si va oltre i 5 euro, ndr — abbia davvero procurato una cascata di denaro. Però è così: si giocano piccole cifre per divertimento, gli spiccioli in fondo al portafogli, e magari davvero ti cambia la vita».

Le differenze. Le differenze tra uomini e donne sono notevoli. «Le prime pensano al prossimo: l’aiuto ai figli, la casa da ristrutturare, mai a un gioiello. I secondi vogliono il Rolex...». Ma c’è anche quel marito che intestò tutto alla moglie, ignara della vincita: «Disse che l’amava e che voleva farle una sorpresa». Nessuno vuole lasciare il lavoro, «una certezza». Qualcuno immagina di donare soldi a canili, associazioni di volontariato e ricerca, ospedali. Una signora azzeccò un jackpot giocando gli stessi numeri di una schedina appartenuta al fratello defunto, conservata in una custodia plastificata. Quella della sua giocata vincente «era nel portafogli, con gli scontrini della spesa: era evidente che le importava di più del ricordo del suo caro». Poi ci sono quelli che vincono e non lo sanno. È il caso di due giocate del 15 aprile, rispettivamente da 3 euro e da 7 euro e 50 centesimi, realizzate a Sulmona e Sestri e valse un assegno da un milione. La scadenza per la riscossione è il 14 luglio «e ancora non si è presentato nessuno. Ma confidiamo nel lieto fine».

Gli italiani si rovinano mentre i privati lucrano: così siamo diventati il Paese delle slot machine. Anziani, adolescenti e perfino bambini. Poveri e ricchi. Tutti appassionati dall'azzardo. Viaggio in un affare da decine di miliardi che lo Stato continua a favorire. Incassando però sempre meno, scrive Fabrizio Gatti il 7 febbraio 2017 su "L'Espresso”. La mattina in classe. La sera a scommettere soldi fino a tardi. Noia e slot-machine. L’avvicinamento tra scuola e luoghi del gioco d’azzardo sembra rendere bene. Stasera, un mercoledì qualunque tra le undici e la mezzanotte, è strapieno di ragazzini e ragazzi da spennare. I minorenni si accalcano intorno alle “ticket redeption”, gli apparecchi mangiasoldi per bambini che in Italia hanno invaso i centri commerciali: macchine della fortuna che incassano monete e, quando si vince, sputano metri di cartoncini. I premi li hanno pensati proprio così: metri di scomoda carta in modo che siano ben visibili. Avvolti come piccoli Rambo nelle cartucciere, i vincitori si mettono poi in coda al “ticket eater”, il mangia biglietti che dopo molti secondi e qualche lampo di luce restituisce un voucher (accessorio sempre più diffuso nella nostra società). Ed ecco il punteggio totale della vincita da incassare: di solito un minuscolo, inutile oggetto di plastica made in China del valore di pochi centesimi, per il quale ogni baby giocatore ha però speso fino a 10 euro. Gli studenti maggiorenni appena usciti dal cinema multisala saltano invece i preliminari. E, sotto lo sguardo del buttafuori senegalese, si infilano direttamente nella porta a vetri del “Luckyville”, la sala del gioco per adulti. Domani mattina non hanno lezione? Siamo a Lissone, provincia di Monza e Brianza, lungo la superstrada che da Milano sale a Lecco. Qui la rivoluzione post industriale ha già demolito il mito del lavoro, della fatica, del risparmio: vent’anni fa nessun impiegato, nessun agricoltore, nessun meccanico brianzolo e nemmeno i loro figli avrebbero usato così i loro soldi. Adesso li vedi fino a notte fonda. Giovani e meno giovani, uomini e donne. Più uomini che donne. Da come sono vestiti, non se la passano al massimo. C’è un’asimmetria spaventosa tra il dominio delle macchine e la sottomissione solitaria dei giocatori. File di dita illuminate dagli schermi battono svogliate sul tasto play. Sono nuovi operai di una catena di montaggio retribuita al contrario: pagano per far andare la linea. Ma non si danno per vinti. E, nella monotonia ipnotica dei gesti, continuano a bussare alla stessa illusione.

Nel 2016 gli italiani hanno speso 95 miliardi di euro, il 4,7% del Pil. Vincite redistribuite €76,5 mld. Ricavo per gli operatori €8,5 mld. Imposte allo Stato €10 mld.

Sono loro e quelli come loro, dal Friuli alla Sicilia, ad aver buttato nel gioco d’azzardo novantacinque miliardi in un anno. Nel 2016 l’Italia ha battuto il record dei record, uno schiaffo alla crisi. Fanno la bellezza di 7,9 miliardi al mese, 260 milioni al giorno, quasi 11 milioni l’ora, 181 mila euro al minuto: cioè il 4,7 per cento del nostro Pil. È come se ogni persona, neonati compresi, avesse puntato e magari perso 1.583 euro. Ci siamo bevuti molto più del fatturato annuale di Mercedes auto (83,8 miliardi), o di Amazon (sempre in euro, 83,6 miliardi) e perfino della Boeing che costruisce e vende aerei nel mondo (90,2 miliardi). Lotto, scommesse ai cavalli, bingo, poker? Svaghi passati di moda. Più della metà delle puntate, com’era prevedibile, è stata bruciata nella solitudine degli apparecchi mangiasoldi. Secondo i risultati anticipati dall’agenzia specializzata “Agipronews”, 26,3 miliardi li hanno inghiottiti le famigerate slot-machine, che incassano monete e pagano vincite fino a cento euro. E 22,8 miliardi le videolotterie, che deglutiscono banconote e restituiscono fino a cinquemila euro ma, in caso di jackpot, anche oltre. Risultato: quasi 50 miliardi in contanti, il 2,7 per cento del Pil. Prendiamo l’Abruzzo, dove turisti e residenti muoiono sotto le valanghe perché nessuno riesce a pulire le strade di montagna quando nevica. Gli abruzzesi non hanno spazzaneve efficienti, ma hanno a disposizione 11.154 slot-machine: una ogni 119 abitanti. È il primato europeo, condiviso con il Friuli Venezia Giulia. Eppure sia il numero di spazzaneve, sia il numero di slot-machine con i relativi contratti di concessione dipendono sempre da enti dello Stato. C’è qualcosa che non funziona nella testa delle istituzioni, se siamo arrivati a questo punto.

Spesa media annua pro capite in Italia Gioco d’azzardo 1.583 euro. Acquisto di libri 58,8 euro.

È infatti lo Stato a permettere e sostenere l’overdose collettiva di giochi a pagamento. Perché da un lato favorisce la raccolta di incassi che finiscono puntualmente a società con sedi fiscali fuori confine: Londra, Lussemburgo, o Cipro. Ma allo stesso tempo preleva dalle giocate tasse ridicole. Giusto per ricordare: elettricità, gas, farmaci, ristoranti, teatro, uova, carne ci costano il dieci per cento di imposte, vestirci addirittura il ventidue per cento. Indovinate quanto versano al nostro fisco i concessionari che gestiscono le videolotterie? Una minitassa del 5,5 per cento, che fino al 2011 era addirittura del 2 per cento. E le slot-machine a moneta? Il 17,5 per cento nel 2016, il 13 nel 2015, l’11,8 nel 2012. Nel frattempo il “pay out”, cioè la percentuale minima da destinare alle vincite, è stato ridotto dal 74 al 70 per cento della somma raccolta. Un ulteriore regalo alle poche società autorizzate, tra le quali il gruppo “Atlantis-BPlus” della famiglia Corallo (vedi articolo a pagina 48). Dai novantacinque miliardi raccolti, vanno infatti sottratti i ricavi per gli operatori e le imposte: nel 2016 le società hanno incassato ricavi per otto miliardi e mezzo e versato imposte sulle giocate per dieci miliardi. Il resto viene distribuito come vincite. La somma di ricavi e imposte costituisce la spesa effettiva sostenuta per il gioco d’azzardo, cioè quanto gli italiani hanno sicuramente pagato nel 2016 per giocare: 18,5 miliardi, sette volte il fatturato della Ferrari e quasi il doppio del valore della casa di Maranello. Le vincite vengono invece considerate una ricchezza restituita al Paese. Ma è così soltanto per la statistica. Nella realtà, chi ha perso non riavrà mai più indietro i suoi soldi. E chi ha vinto, molto raramente si ritrova in attivo. E tutti e due continueranno a giocare. Lo dimostrano le vittime collaterali della ludocrazia, questa nuova forma di potere economico esercitato attraverso l’illusione del colpo di fortuna: 790 mila italiani malati di gioco, un milione 750 mila a rischio patologia. Sono i dati raccolti da “Sistema gioco Italia”, la federazione di Confindustria, e ripresi dalla Camera in una mozione approvata due anni fa che denuncia il prezzo sociale e sanitario dell’epidemia: per curare i malati, si sfiorano i sette miliardi l’anno. Anche perché, per ogni giocatore patologico grave, il costo annuale delle cure a carico dello Stato raggiunge i 38 mila euro. Sempre secondo i dati presentati alla Camera, gioca d’azzardo non solo chi se lo può permettere ma il 47 per cento degli italiani indigenti, il 56 per cento delle persone appartenenti al ceto medio basso. E il 47,1 per cento degli studenti tra i 15 e i 19 anni: oltre un milione e 200 mila ragazzi.

Identikit del giocatore. In Italia gioca il 47% degli indigenti; il 56% delle persone dal reddito medio basso; il 70% dei lavoratori a tempo indeterminato; l’80,2% dei lavoratori saltuari; l’86% dei cassintegrati; il 61% sono laureati; il 70,4% dei diplomati; l’80,3% ha la licenza media; il 47,1% ha tra i 15 e i 19 anni; gioca il 58,1% dei ragazzi; il 36,8% delle ragazze; il 4-8% degli adolescenti ha problemi di gioco; il 10-14% degli adolescenti è a rischio patologia; l’8% dei bambini tra i 7/11 anni usa denaro online.

Sono gioco-dipendenti. In Italia 790.000 persone sono gioco-dipendenti. Persone che presentano forme di ludopatia: 50% dei disoccupati; 17% dei pensionati; 25% delle casalinghe; 17% dei giovanissimi; 400.000 bambini italiani tra i 7 e i 9 anni. A rischio patologia 1.750.000.

Gli adolescenti sono i più esposti alla dipendenza: secondo una ricerca curata nel 2015 dall’Istituto di fisiologia clinica del Cnr, l’8 per cento dei giovani che giocano d’azzardo ha già comportamenti problematici. E l’11 per cento è a rischio: cioè, se lasciato solo, potrebbe superare la soglia della patologia. I ragazzi puntano ovunque: bar e tabaccherie (35 per cento), sale scommesse (28 per cento), il computer di casa (19 per cento).E, nonostante la legge lo vieti, il 38 per cento dei minorenni ha giocato d’azzardo durante l’ultimo anno. Molti di loro sono ancora bambini: l’8 per cento dei piccoli tra i 7 e gli 11 anni scommette soldi in Internet. È la vicinanza ad attirare gli adolescenti. Lo denuncia la relazione 2016 al Parlamento sullo stato delle tossicodipendenze in Italia: «Il 48 per cento di chi non ha giocato d’azzardo durante l’anno riferisce di non avere contesti di gioco nelle vicinanze della propria abitazione o della scuola che frequenta. Circa il 44 per cento degli studenti giocatori invece abita e/o frequenta una scuola a meno di cinque minuti da un luogo dove è possibile giocare d’azzardo». Per questo le Regioni per prime, tra le quali la Lombardia, hanno vietato l’installazione di slot-machine a meno di cinquecento metri da elementari, medie e superiori. A volte però sono le stesse scuole a portare i loro studenti proprio dove si scommette. Ecco cosa si legge sul sito governativo dell’Istituto comprensivo “Piazza Caduti di via Fani” di Lissone,sempre in Brianza : “Dopo le gare di selezione interne, il 14 aprile presso il Joyvillage di Lissone si è svolta la finale provinciale del torneo di bowling, che ha visto dominatrice la nostra scuola».

In Italia ci sono Slot-machine più videolottery 397.000; macchine da gioco: 1 apparecchio ogni 151 abitanti, 397000. In Germania: 1 apparecchio ogni 261 abitanti. In Spagna: 1 apparecchio ogni 245 abitanti.

Il bowling è certamente un passatempo sano, così come il “progetto bowling a scuola”. Il “Joyvillage” però è la stessa sala giochi lungo la superstrada Milano-Lecco in Lombardia con i “ticket redemption”, vere slot-machine per minorenni. Ed è anche l’anticamera, in tutti i sensi, di “Luckyville”: la sala per adulti volutamente allestita in mezzo agli spazi per famiglie con tavoli da biliardo, apparecchi mangiasoldi per bambini e, appunto, il bowling. Joyvillage, il villaggio della gioia, e Luckyville, la città della fortuna, appartengono a Maxbet, società partner di Lottomatica fondata in Ucraina, con sede legale a Cipro e sale giochi in Romania, Bielorussia e Italia. Da quanto racconta il sito “tuttobowling.it”, le scuole della provincia di Monza ospitate da Maxbet sono molte di più. Un istituto superiore, il Mosè Bianchi. E addirittura sei medie inferiori: Bagatti-Valsecchi, Aldo Moro, Caduti via Fani, Mariani e due istituti intitolati a Edmondo De Amicis. Forse non è un caso che Joyvillage e Luckyville siano così affollati di adolescenti perfino il mercoledì sera tardi. Un gruppo di studenti maggiorenni è appena entrato nella sala delle slot-machine e delle videolotterie. Sulle macchine lampeggia la scritta “Lottomatica”, accanto a messaggi rassicuranti dell’Agenzia dei monopoli. Lottomatica è il colosso economico che da Londra a Wall Street ritorna in Italia sotto il controllo del gruppo De Agostini, il glorioso modello di editoria per bambini e ragazzi. Tutto questo soltanto quattordici anni fa non era permesso. Fino al 2003, quando furono introdotte le lotterie istantanee e 350 mila slot, le giocate degli italiani oscillavano intorno ai quindici-diciassette miliardi l’anno. Ed era già un primato. Nel 2004 la tradizionale estrazione del lotto dominava ancora con il 47,2 per cento del mercato. Gli apparecchi mangiasoldi si prendevano solo il 18,1 per cento. Ma già quell’anno, in seguito ai nuovi giochi autorizzati, le puntate complessive salirono per la prima volta a ventiquattro miliardi. E da allora la crescita non si è più fermata. Un jackpot alla rovescia, guidato dalla lunga mano dello Stato.

Costo medio del gioco alla slot machine 4 secondi, 1 minuto, 1 ora: € 1, € 15, € 900.

Si è cominciato con il governo Berlusconi dall’idea di incrementare le entrate fiscali attraverso le concessioni per il gioco, per non aumentare la tassazione generale. E nel 2009 si è superato il punto di non ritorno: sempre grazie a un governo Berlusconi, con il decreto per l’Abruzzo che pretendeva di ricostruire L’Aquila e la provincia distrutta dal terremoto con le imposte sull’azzardo, è stata decisa l’invasione senza precedenti di slot-machine e l’introduzione delle nuove videolotterie. Sappiamo come è finita: invece della ricostruzione, l’Italia è diventata una disperata sala giochi. Le 397.000 macchine mangiasoldi oggi autorizzate garantiscono ai gestori una densità media nazionale di un apparecchio ogni 151 abitanti. Battuti perfino i medici, fermi a uno ogni 250 residenti. Siamo tra i primi sei nel mondo anche come spesa individuale: accanto ad Australia, Singapore, Finlandia, Nuova Zelanda e Stati Uniti. Con appena l’1 per cento della popolazione mondiale, occupiamo il 22 per cento del mercato globale. La mano soffice dei governi ha intanto premiato gli apparecchi più pericolosi e onerosi per le pesanti conseguenze sulla salute. Un vero paradosso. Lo ha denunciato otto mesi fa la Corte dei conti nella relazione sul rendiconto generale dello Stato: «Nell’ultimo quinquennio, nonostante un aumento delle giocate dell’ordine di 27 miliardi (+44 per cento), l’utile erariale ha segnato una caduta dell’ordine di 300 milioni (-4 per cento). E nel più ampio arco temporale 2004-2015, per ottenere un aumento di 1,1 miliardi del gettito da giochi (+15 per cento), il valore delle giocate è dovuto crescere di 63,5 miliardi (+256 per cento)». È nata così la nuova “casta ludens”: una generazione di investitori, manager, lobbisti, parlamentari amici, avvocati, burocrati, matematici, ingegneri, politici nazionali e locali che, dietro i paramenti del gioco pulito, perseguono i naturali interessi economici del settore. La ludocrazia dà lavoro in Italia 146 mila persone. Ha piantato radici in migliaia di famiglie. Perfino nel nome adesso è più gentile. Fin dal 2003 i ludocrati hanno fatto correggere gli articoli del Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, il Tulps: non si chiama più “gioco d’azzardo” ma “gioco lecito”. Il messaggio cambia. È scritto ovunque nei siti, sulle slot-machine, nelle sale giochi, accanto al logo rassicurante dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli: «Gioca senza esagerare». Se finisce male, è perché hai esagerato. Secondo lo Stato, lo sviluppo di patologie dipende insomma dall’individuo. Non dall’offerta di campagne commerciali invasive e potenzialmente pericolose.

Tassazione di alcuni beni indispensabili: Elettricità 10%, Gas 10%, Farmaci 10%, Ristoranti 10%, Teatro 10%, Uova 10%, Carne 10%, Affitto immobili 22%.

Tassazione di apparecchi per gioco d’azzardo Videolottery 5,5 Slot machine 17,5.

Eppure pubblicità, macchine, luci e suoni alludono alla possibilità di un riscatto dalla disoccupazione o dalla quotidiana disperazione. Se non fosse così, i grandi gruppi non piazzerebbero i loro marchi agli incroci delle periferie più povere. Quando poi mancano i soldi e arrivano le ingiunzioni della banca, è troppo tardi per tornare indietro. La finanziarizzazione della povertà comincia da qui: i pignoramenti, le minacce di sfratto, le rate da restituire. I debiti ci rendono più docili. Alla peggio, la violenza esplode in famiglia. «Oggi, quando si parla di azzardo», sostiene Marco Dotti, docente all’Università di Pavia, nell’introduzione del libro “Ludocrazia, un lessico dell’azzardo di massa” (O/O Edizioni) curato con Marcello Esposito, «si dovrebbe parlare nello specifico di azzardo di massa mediato dalla tecnologia e orientato al controllo integrale del soggetto, non solo delle sue pulsioni». Gli imprenditori ovviamente si dichiarano tutti testimonial del gioco responsabile. Ma un’impresa competitiva quotata in Borsa o finanziata da fondi di investimento può davvero ridurre il suo RevPAC (Revenue per available customer), cioè il fatturato per singolo cliente? La slot-machine qui di fronte non può rispondere. Fa soltanto il suo sporco lavoro. È un robot programmato per drenare ricchezza. Il suo cuore è un algoritmo impostato secondo quanto stabilisce il comma 6 dell’articolo 110 del Tulps: una vincita ogni 140 mila partite, durata della partita quattro secondi, costo massimo un euro a partita. Avete capito bene: un euro basta solo per quattro secondi di gioco. Sono quindici euro al minuto, novecento all’ora. È questa velocità frenetica l’anticamera della dipendenza. Proviamo allora una Vlt, le videolotterie che avrebbero dovuto ricostruire L’Aquila. Le loro vincite sono programmate su un ciclo più lungo: cinque milioni di partite. Infatti va addirittura peggio. Lei sembra conoscere tutto dei suoi giocatori. All’inizio ti fa vincere. Da dieci euro ti porta a tredici, semplicemente battendo a caso sul tasto. Poi si prende tutto. Finalmente i ragazzi delle scuole sono andati via. Restano gli incalliti. Qui accanto è seduta una pensionata oltre la settantina. Non stacca lo sguardo dallo schermo da almeno un’ora. E continua a perdere. All’improvviso il suo badante sudamericano, muscoloso e tatuato, risponde al telefonino: «È tua figlia», le dice. «Adesso non ho tempo», mormora lei, senza nemmeno voltarsi.

Italiani pazzi per il gioco d'azzardo. Non solo slot: ogni anno 2 miliardi di Gratta e vinci. La legge di Stabilità aumenta le tasse sulle macchinette, ma sana quelle irregolari e rinnova tutte le concessioni. E mentre le opposizioni preparano gli emendamenti, il Ministero fornisce i dati sui giochi da grattare, con cifre da capogiro, scrive Luca Sappino il 9 novembre 2015 su “L’Espresso”. Anche in questa legge di stabilità la voce “giochi” ha il segno più. Quelle di chi gioca d’azzardo sono tasche a cui non si smette di attingere, inventando nuovi giochi (sono 57 i diversi “gratta e vinci”, 11 le lotterie, cinque i giochi tipo Superenalotto), facendo pubblicità, tassando un po’ di più chi gestisce il mercato. Ed è questa, in particolare, la via scelta dal governo Renzi (che punta a raccogliere così 600 milioni di euro in più), che però ha anche scelto, come contropartita per gli operatori delle slot, di rinnovare tutte le concessioni in scadenza e di sanare circa 5mila negozi, centri scommesse, o corner irregolari. È in questo quadro che durante un recente question time alla Camera, il ministero dell’Economia e delle Finanze ha reso pubblico un dato abbastanza sconcertante che riguarda però i “gratta e vinci”, all’apparenza così meno voraci delle slot. Con un’interrogazione a risposta immediata il deputato di Sinistra italiana, Giovanni Paglia ha chiesto al governo: «Quanti sono i biglietti del tipo “Gratta e Vinci” venduti negli anni 2012, 2013 e 2014?». Il ministero ha così contato: gli italiani nel 2012 hanno 'grattato' 2 miliardi, 98 milioni e 187mila tagliandi, di ogni forma e colore; giusto poco meno nel 2013, quando la speranza ha preso la forma di un miliardo e 970 milioni cartoncini; scesi ancora nel 2014 a un miliardo e 904 milioni. Gli italiani, dice ancora il ministero, hanno speso quindi tra i 9 miliardi e 799 milioni di euro del 2012 e i 9 miliardi e 400 milioni del 2014, con una leggera contrazione ampiamente compensata dalle altre infinite possibilità, con una spesa procapite (denuncia ancora Paglia) passata dai 355 euro del 2001 ai 1400 euro nel 2012. Le tentazioni d’altronde si sono moltiplicate, così come i luoghi di vendita, che sono bar, autogrill, tabaccherie, edicole, e ormai anche le Poste. Per lo Stato, quello delle cosiddette “vincite istantanee” è dunque un buon business, che frutta ogni anno più o meno un miliardo e mezzo di euro, al netto di quanto destinato per legge nelle vincite. E prende così un’altra luce, un po’ meno divertente e goliardica, la recente storia subito rimbalzata sui social dei due sposini che hanno chiesto per regalo di nozze solo “gratta e vinci”, di quelli della serie “Turista per sempre”, grattandone 5mila e collezionando vincite per mezzo milione di euro. La legge di stabilità, però, non si pone il problema. Interviene solo sulle slot, alzando - come detto - la tassazione, con il prelievo erariale unico (il Preu) che passa per le Newslot dal 13 per cento al 15, e per le Vtl (le macchine di nuova generazione in cui, oltre alle monete, si possono inserire banconote) dal 5 per cento al 5,5. Molti emendamenti propongono di alzare ancora un po’ la tassazione, e si vedrà nelle prossime settimane come andrà a finire. C’è poi la legge presentata dai Cinque stelle, primo firmatario Luigi Di Maio, che punta a vietare la pubblicità, e un emendamento ancora alla legge di stabilità, firmato da Sel, che propone che sia la Rai, in attesa che il parlamento prenda in esame la proposta Di Maio, a rinunciare agli introiti pubblicitari di giochi e scommesse.

ITALIA. PAESE DI SANTI, NAVIGATORI E...POETI.

L'Italia, il Paese con tre milioni di poeti. Sembra che la poesia non ci sia. Poi la incontri in un film, in un centro sociale, tra i libri più venduti. Perché sono tantissimi gli italiani che scrivono, leggono e si finanziano. Con successo, scrive Fabio Chiusi l'1 gennaio 2017 su “L’Espresso”. C’è una “disperata vitalità” nel mondo della poesia in Italia. “Disperata” come in Pier Paolo Pasolini, perché la vita in versi prosegue, muta e si rinnova, eppure ciclicamente bisogna tornare a tastarne il polso, accertarsi che il cuore del paziente batta ancora. Colpa di un mercato inesistente o quasi, che vale oggi secondo i dati dell’Associazione Italiana Editori appena il 6% del totale dei libri pubblicati per, scrive Nielsen, un venduto complessivo di mezzo milione di copie. Se le stime parlano di circa tre milioni di poeti nel nostro paese, si comprende che i versi si scrivono più di quanto si leggono. Un problema culturale, certo, ma anche un dato che testimonia come la poesia sia e resti «una necessità profonda», dice all’Espresso uno dei massimi autori viventi, Milo De Angelis, «qualcosa che parla alla nostra sete». Un modo per capire quanti però davvero se ne abbeverino, e come, è misurare le sortite della cultura di massa in quella che, anche nell’era del “tutto connesso”, resta una nicchia. C’è una nuova sensibilità nel cinema, per esempio, che si accompagna a successo di pubblico e critica: «Dopo il cannibalismo da reality sulle vite “maledette” dei poeti”», commenta Alberto Pellegatta, classe 1978 e presto in libreria con “Ipotesi di felicità” per Mondadori, «film come “Paterson” e “Neruda” cercano di avvicinare la poesia con maggiore rispetto, e con la cura che si deve alle cose più fragili e preziose, ai dettagli minimi che fanno la differenza, e che quasi tutti trascurano». Ancora, c’è il rinnovato interesse per Giacomo Leopardi, riletto da Alessandro D’Avenia in un libro in vetta alle classifiche di narrativa, e già nel 2014 da Mario Martone nel film “Il giovane favoloso”. Non solo: ci sono i nuovi modi attraverso cui la poesia diventa “partecipata”. In rete, per esempio, il sito “Interno Poesia” sfrutta il “crowdfunding”, cioè il finanziamento tramite donazioni online dei lettori, per lanciare e sostenere le raccolte di autori conosciuti e non. È un modo per ovviare alla richiesta, di buona parte degli editori del settore, di un contributo monetario per pubblicare. E funziona. I progetti, spiega l’ideatore Andrea Cati, vengono sviluppati tramite vere e proprie campagne promozionali della durata di 30-50 giorni basate su presentazioni delle anteprime dei libri proposti, ma anche condividendoli sui social network, nelle newsletter, perfino in video su YouTube dell’autore alle prese con la sua opera. «Si fa una prevendita, come nella musica», dice Cati, parlando di centinaia di partecipanti, la maggior parte giovani, e di budget - duemila euro di norma - raggiunti e superati. Più partecipazione del lettore nell’ideazione stessa del libro, insomma, ma anche più cura per l’immagine, il marketing, il fare della poesia un prodotto di mercato. Idee da cui «gli addetti ai lavori rifuggono», secondo Cati, ma sbagliando: «Senza una buona promozione, le vendite non aumenteranno». Un’altra “innovazione” che fa storcere il naso a chi tradizionalmente detiene le chiavi della poesia sono i “poetry slam”. Lanciate in Italia da Lello Voce nel 2001, queste gare tra poeti con tanto di giuria - votante - selezionata casualmente tra il pubblico sono diventate rapidamente un luogo abituale di aggregazione per poeti e aspiranti tali, ibridando il mondo dei versi con quello dello spettacolo, le qualità del poeta con quelle del performer, ma anche aprendolo a fasce della popolazione che altrimenti non vi entrerebbero in contatto. I numeri sono impressionanti: 250 “slam” in tutto il paese per il solo campionato ufficiale, e presenze dalle poche decine di persone alle centinaia, a seconda della capienza dei luoghi - taverne, centri sociali, biblioteche. «Ma a Perugia ne ho fatto uno con seimila persone», dice Voce, che rivendica l’origine nell’oralità del componimento poetico, e disegna scenari internazionali anche più partecipati. Come in Sudamerica, dove un autore come Arnaldo Antunes, già musicista coi Tribalistas, vende 50 mila copie; ma anche nel resto d’Europa. A partire dalla Germania: «A Monaco 800 persone hanno pagato 15 euro l’una per partecipare», spiega Voce, le cui commistioni di poesia e musica sono reperibili su Spotify, e che non ha timore di parlare di cantautori come poeti a tutto tondo. Posizioni che dividono molto, e con asprezza. «I poetry slam sono creature senza solitudine e riguardano, più che la poesia, l’intrattenimento o il cabaret», attacca De Angelis. «L’intrattenimento è intrattenimento», conferma Maurizio Cucchi, curatore della prestigiosa collana “Lo Specchio” di Mondadori e autore tra i protagonisti del panorama poetico contemporaneo. Quanto alla musica, «ho sempre avuto simpatia per i cantanti, ma ognuno ha la propria arte». Insomma, «prima di darci qualsiasi risposta» sulla vitalità del mondo poetico è «necessario definire cos’è per ognuno poesia», sostiene Mary Barbara Tolusso, giornalista e poetessa pordenonese. «Per me mantiene il suo carattere di eccellenza nella forma scritta, in ciò che è stato l’imprinting di formazione», che deriva cioè dai manuali scolastici e dai libri. E invece, prosegue, «l’epoca impone che tutto è spettacolo, un fenomeno che mira a parlare ai più e di conseguenza deve semplificare i codici. È il motivo per cui si scambiano i cantanti per poeti, i blogger per scrittori e così via». Ma anche limitandosi alla sua forma tradizionale, la poesia è viva e vegeta. Guanda ha appena rilanciato in tascabile la sua storica collana. Elisa Donzelli, responsabile del catalogo di poesia dell’omonimo editore, dice che dal lancio nel 1994 «siamo cresciuti», dimostrando che «non è vero che con la poesia si va in debito». E non solo pubblicando giganti del calibro di Andrea Zanzotto e Charles Simic: il libro più venduto è “Notti di pace occidentale” di Antonella Anedda. L’interesse per la buona poesia, in altre parole, resiste anche limitandosi a quella scritta. Tolusso lo conferma come selezionatrice del premio Cetonaverde Poesia, affollato dai componimenti di «ragazzi giovanissimi che, nonostante i tam tam delle odierne ambizioni, si concentrano su qualcosa di cui sanno in anticipo non darà né soldi né fama e lo fanno concentrandosi sulla parola, senza apporto di musica o microfoni». La stessa divisione, e altrettanto netta, si impone rispetto al ruolo di Internet e dei social media nella produzione e diffusione di versi. L’impressione è che si sia a una frattura generazionale, ma anche concettuale e di potere, che riflette il dibattito in corso in altri settori dell’editoria e nel giornalismo. Da un lato, nuove voci che cercano spazio sfruttando la “disintermediazione” e la “disruption” fornite dalle tecnologie di comunicazione digitale, che consentono di evitare il passaggio da editori e riviste; dall’altro, i detentori delle forme e dei canali tradizionali di creazione e diffusione del sapere poetico, terrorizzati dalla marea montante di incompetenza. Nel mezzo, il problema di mantenere la complessità della poesia senza banalizzarla in “memi” su Instagram - come nel fenomeno di successo, degli “Instapoets” - e insieme il tentativo di non esiliare i versi da Facebook e Twitter, facendo in modo diventino luogo di confronto costruttivo e serio tra autori e appassionati. Per alcuni, una battaglia persa. Tra loro il poeta romano Jacopo Ricciardi, per cui i social «non permettono un reale confronto tra poeti». Anzi, «su Facebook si trova una socialità fatta di coloro che vogliono essere poeti e non lo sono, mentre i poeti che lo sono non vogliono pubblicarsi su Facebook», ma cercano luoghi autorevoli. Cucchi concorda: «Il problema è che con questi nuovi mezzi di comunicazione si pensa più alla propria presenza che alla ricerca poetica. Occorrerebbero mezzi più selettivi». Il rischio è che l’autore prevalga sul libro, il contenitore sul contenuto, e si finisca travolti da un mare di componimenti mediocri, che sembrano perfino adottare le forme comunicative e il linguaggio «delle conversazioni virtuali in rete». E tuttavia, spiega Donzelli, i “mi piace” sui social si traducono davvero in libri venduti. E il bisogno di ricambio, pur urlato spesso con eccessiva insofferenza proprio online, a sua volta è reale. «Per dire che ci sia una nuova vita della poesia c’è bisogno di cambiare facce, uscendo dall’autoreferenzialità dei soliti noti», dice Michelangelo Camelliti, che da trent’anni anima LietoColle, una piccola ma prestigiosa realtà editoriale con sede in provincia di Como. Non c’è soltanto il narcisismo iperconnesso, insomma: c’è anche un vizio antico, aggiunge, l’obbligo di appartenere a “clan” o sparire dal circuito dei premi e dei festival più prestigiosi. Che pure ci sono, e costituiscono un altro dei fattori di vitalità della poesia in Italia. Protagonista indiscusso, secondo tutti gli interpellati, è Pordenonelegge, che tramite la cura e l’organizzazione del poeta Gian Mario Villalta porta centinaia di spettatori a confronto con i massimi autori internazionali, ma anche con quelli emergenti e locali. Camelliti per esempio ne presenta quattro, giovani, alla manifestazione friulana, dopo attenta selezione. La poesia, a Pordenone, ha una propria “Casa”, sempre aperta per letture e confronti, e una libreria dedicata, dove - giura Camelliti - i libri si vendono. Ma gli eventi sono distribuiti durante tutto l’anno, con 100-150 partecipanti alla volta. La questione non è insomma meramente tecnologica. Del resto, alcune riviste cartacee, come Nuovi Argomenti, sembrano vivere più sul web che in edicola. Per Villalta, semmai, i problemi sono di natura più profonda. Il primo è il “settarismo” esasperato, dovuto alla mancanza di un centro culturale capace di riunire e mettere in dialogo gruppi e istanze di realtà territoriali e culturali diverse. Il secondo, conseguente, è che il mondo della poesia non è più capace di concentrarsi su uno stesso tema, e affrontarlo «con un discorso comune». È all’incirca quanto mostra con insofferenza Cucchi dicendo di rimpiangere quasi la pletora di manifesti di poetica che tanto detestava da giovane: oggi quella problematizzazione teoretica manca, così come manca un orizzonte ideologico di fondo. Difficile sia altrimenti, di fronte a uno scenario così composito, così atomizzato e allo stesso tempo conflittuale. Ma non mancano nemmeno i tentativi di cucire gli strappi. A La Spezia, per esempio, a fine febbraio si terrà un evento, “Mitilanza #1, Gli spazi mobili della poesia”, che si propone di riunire le diverse realtà che indagano il limite del versificare contemporaneo, con tavole rotonde su “street poetry” - chi scrive, ma sui muri e i volantini - ma anche nuove forme dell’editoria, incroci con teatro e musica, e soprattutto l’incontro tra la generazione delle avanguardie di Nanni Balestrini e del Gruppo 63 con i giovani sperimentatori di oggi, dagli animatori del sito GAMMM a chi prende parte agli “slam”. «L’intenzione è che ci sia baruffa», spiega Francesco Terzago, consulente di comunicazione per una società di robotica, ma anche poeta e organizzatore. Perché il confronto aperto, anche aspro, è salutare, vitale, e i tempi per il ricambio generazionale «sono maturi». Soprattutto, perché «oggi non è più possibile ignorare il pubblico, standosene chiusi nella propria cameretta». Resta da capire come conciliare l’era della condivisione con l’intimità indispensabile alla poesia - al farla, come al leggerla. È forse su questo che si giocherà il futuro di un’arte che resta «la più semplice e difficile che esista», come dice Cucchi. E che, tutto sommato, non ha bisogno di ritornare, perché - conclude De Angelis - «ogni volta che un poeta va nelle scuole o nelle carceri a parlare dei suoi versi, getta un seme che verrà raccolto».

Levigatori di parole. La poesia (la buona poesia) traduce, meglio di tutte le altre arti retoriche, le immagini in parole e quindi sollecita l’azione del nostro immaginario e ci permette di pensare all’immortalità, scrive Wlodek Goldkorn l'1 febbraio 2017 su "L'Espresso". In una recensione su una mostra di dipinti giapponesi, Walter Benjamin dice che nell’immagine c’è qualcosa di eterno. Simili sono le intuizioni dei teorici della fotografia: ciò che vediamo impresso sulla pellicola o in uno scatto digitale è il risultato di una congiunzione tra tempo, luogo e lo sguardo di chi fotografa; ogni immagine è come se abolisse la differenza tra il passato, il presente e il futuro. Ma la stessa regola vale per la parola, quando è usata dai poeti. E forse per questo, perché allude all’eternità e al tempo dopo il tempo, e non solo perché è una preghiera laica, la poesia, anche se vende poco, gode di ottima salute. La poesia è lentezza, perché ogni parola deve essere esatta (nel senso che all’esattezza dava Italo Calvino in “Lezioni americane” dove cita “L’anguilla” di Montale) e precisa. Si racconta di poeti che attendono mesi finché sulla pagina non appaia l’aggettivo o il verbo giusto. La poesia non sopporta il parlar sciatto, non tollera la mancanza di attenzione, richiede uno sforzo meditativo. Non esiste poesia sbrigativa. La poesia permette l’uso di figure retoriche come sineddoche (una parte per la totalità), metafora, metonimia (il trasferimento del significato da una parola all’altra), senza per questo rendere il discorso demagogico, come accade ai politici. La poesia (la buona poesia) traduce, meglio di tutte le altre arti retoriche, le immagini in parole e quindi sollecita l’azione del nostro immaginario e ci permette di pensare all’immortalità. Scrive Seamus Heaney, in “La spiaggia”: «Anche la linea punteggiata tracciata dal bastone di mio padre / sulla spiaggia di Sandymount / è qualcosa che la marea non porterà via». Ecco, la memoria vive più a lungo nella parola che nei monumenti di pietra. Il poeta sovverte l’ordine stabilito. Non solo Neruda o Éluard, direttamente impegnati in politica. Quest’ultimo scriveva nel 1942 in “Libertà”: «Sui miei rifugi distrutti / Sui miei fari crollati / Sui muri del mio tormento / Scrivo il tuo nome». È un classico ormai il dialogo tra Josif Brodskij e i giudici sovietici: «Giudice: Qual è la tua professione? Brodskij: Traduttore e poeta. Giudice: Chi ti ha riconosciuto come poeta? Chi ti ha arruolato nei ranghi dei poeti? Brodskij: Nessuno. Chi mi ha arruolato nei ranghi del genere umano?». In un saggio, il Nobel russo spiegava come la poesia aiuti a resistere alle pressioni del potere, a non piegarsi, a non scendere a compromessi. Tutto questo, perché Brodskij, come pochi altri - e sulla scia di un grande maestro Osip Mandelstam, morto di fame in un Lager sovietico - sapeva quanto l’estetica fosse inscindibile dall’etica. E anche a questo serve la poesia, a capire che una cosa brutta non può essere buona. La poesia trasforma i luoghi del quotidiano in entità mitiche e oniriche. Scriveva il polacco Zbigniew Herbert: «Rovigo non si distingueva per nulla di particolare / era un capolavoro di mediocrità strade diritte case non belle / (…) Eppure era una città in carne e pietra – come tante / una città dove qualcuno ieri è morto qualcuno è impazzito (...)». E infine, la lentezza della poesia ci riporta alla lentezza dell’amore, e quindi di nuovo a qualcosa di eterno. Lo sapeva Mahmud Darwish, poeta palestinese che in “Una lezione di Kamasutra” cantava: «Se arriva in ritardo / aspettala, / se arriva in anticipo / aspettala / e non spaventare gli uccelli sulle sue trecce, (…) e parlale come il flauto / alla coda spaventata del violino, / (…) e aspettala / e leviga la sua notte anello dopo anello». Levigare è un’azione da artigiano che tende alla perfezione. Ecco, amiamo la poesia perché mette insieme il sogno e il quotidiano lavoro delle mani (lo intuiva meglio di tutti Wislawa Szymborska): alla ricerca dell’assoluto.

EDITORIA A PAGAMENTO.

Pubblicano il mio libro! Ma quanto mi costa? Qualsiasi manoscritto può trasformarsi in libro di carta. Come? Facendo ricorso alla «vanity press». Un sistema (legale) fondato sulla lusinga degli aspiranti autori, scrive Luca Mastrantonio il 12 giugno 2017 su "Il Corriere della Sera”. In tanti scriviamo, in pochi leggiamo, in troppi pubblichiamo. Anche grazie agli editori a pagamento, abili a vendere il presunto valore di un’opera in cambio di un contributo economico, in genere l’acquisto preventivo di tot copie. Vale per romanzi, saggi e soprattutto per la poesia: mercato debole, velleità forti. Il contributo però può arrivare a dieci volte il costo materiale del libro che spesso finisce abbandonato a se stesso. Chiariamo: nulla di illegale, perché secondo la legge vigente (ferma al 1941) l’editore deve pubblicare a sue spese “salvo diversi accordi”: non sono previste sanzioni, ogni autore è libero di buttare i soldi come vuole facendo l’APS, l’Autore a proprie spese (definizione di Umberto Eco). Il termine inglese per l’Editoria a pagamento (EAP) va dritto al cuore della questione: vanity press. Più che editori sono stampatori che impastano il prezzo con il lievito della vanità. Da non confondersi con il self publishing, inteso come auto-pubblicazione tramite una tipografia o un sito (Amazon o Lulu) che trasforma un manoscritto o un file del computer in un libro cartaceo o elettronico, con tanto di codice Isbn: qui il costo è basso, meramente tecnico, non c’è promessa di visibilità o gloria; si resta inoltre titolari dei diritti d’autore, mentre le vanity press più ingorde bloccano i diritti per opere future. Da ragazzo pensavo fosse triste pubblicare poesie a proprie spese, ammiravo i contemporanei che, da vivi, finivano in collane prestigiose; poi ho letto contemporanei deludenti e scoperto che molti grandi autori si sono auto-pubblicati, da Walt Whitman, che fece anche il tipografo, a Italo Svevo, Alberto Moravia... Così il punto di vista s’è capovolto: trovavo affascinante che un autore affermato si fosse prima pubblicato da solo, magari a sue spese, un libro in poche copie, subito clandestino, già mitico. Un malinteso romantico, confermato da rarissime eccezioni. I fiaschi danno alla testa? Eccone una. Francesco Targhetta (Treviso, 1980), prima di pubblicare da ISBN il romanzo in versi Perciò veniamo bene nelle fotografie, bello e fortunato, s’era fatto notare con un libretto a pagamento: Fiaschi (ExCogita, 2009). «Spesi 2mila euro» racconta, «per comprare 250 delle mille copie di tiratura, tutte esaurite! Per la poesia è inevitabile il contributo dell’autore, i critici non orientano più, gli editori non scommettono, l’editoria non fa filtro». Da Mondadori, nel 2018, uscirà un suo romanzo in prosa. Si adatta bene l’aforisma di Flaiano: i fiaschi gli han dato alla testa. La lista è lunga, ma intanto… Proviamo anche noi. Ma con chi? La lista degli editori a pagamento è lunga. Ci sono siti che li censiscono e testano, come “writer’s dream” e “software paradiso”: riportano recenti proposte con richiesta di contributo ricevute da Altromondo, Carabba, Fermento, Caramella, Città del Sole, Caosfera, Croce, Dellisanti, Genesi, Gangemi, Sigismundus, Yorick. Alcuni editori già sul sito, o nei bandi, prospettano la necessità di un contributo economico dell’autore: il Gruppo Albatros il Filo, Aletti, Europa, Vertigo, Cicogna, Giovannelli, Joker, La Bancarella, Limina Mentis, Nicolò Caleri, Tracce, Urso... Scegliamo Limina Mentis, tra le più attive nella ricerca di esordienti.

Per farmi adescare, uso un’esca infallibile: Istanti ricorrenti, una raccolta di poesie studiatamente brutte, scritte da Errico Buonanno (autore per Einaudi del bellissimo saggio sui fake della storia dell’umanità: Sarà vero) che 10 anni fa fece un esperimento analogo. Ha scritto 30 versi in un’ora, ispirandosi ora all’Ikea, tra Verdi e Montale, per La donna è mobile, «Sognata basculante, / sotto il poggio del meriggio», ora ai classici antichi per Fantasia latina, dove ha infilato un motto che letto in romanesco suona goliardico (“olim orta accidisti fide nam ignota”, ovvero “oh! li mortacci…” continuate voi); una filastrocca per ipo-udenti (“La vispa Teresa.../ Ti ricordi, Marisa? / “La vispaaaaa” dicevi / “Teresaaaaaa”, cantavi”) e liriche-zombie: «Notte d’oblio / in cui l’onda s’infrange / marcescente / sul passato del domani» (Morte apparente).

Mando via mail Istanti ricorrenti a Limina mentis, calandomi con imbarazzante naturalezza nei panni di un poetastro nascente, con pseudonimo patetico. Rispondono dopo pochi minuti, specificano di non considerarsi una vanity press, ma una start up socialista in lotta contro il mercato e il narcisismo, per questo chiedono i soldi all’autore, è una specie di crowdfunding. Dopo lettura incrociata della silloge, entro 24 ore mi diranno se interessa; ma intanto arriva una proposta per un’antologia: forza, con tre copie a 50 euro posso entrare nell’antologia del loro decennale (ma non era una start up?). Conviene, no? A loro sì. Ci sono altri sessanta autori, quindi 60 per 50 euro a testa fanno 3mila euro: ecco il crowdfunding.

Perché mi hanno scelto? La donna è mobile ha palesato il mio talento, sono valentissimo artista. Il comitato promuove anche la silloge all’unanimità (hurrah!). Il costo? Minimo 550 euro, per 50 copie, pagamento anticipato e libri in mano, ma senza esagerare con gli ordini, dicono provando a frenare il mio entusiasmo, alle stelle. Sogno le mie copie in Feltrinelli, un canale che rivendicano. È possibile? Non rispondono. Forse perché non c’è un solo libro Limina Mentis nei punti vendita Feltrinelli.

Dieci anni prima, a Buonanno avevano proposto lo stesso prezzo solidale: 200 copie a 2.400 euro. Sono 10 euro a copia di un libretto di 20 pagine (di poesie assurde), che in una tipografia normale costerebbe 2 o 3 euro. Mille copie? Con una vanity press si aggiunge uno zero, sono 10mila euro! Ma allora non è cambiato nulla in dieci anni? In realtà sì, in meglio e in peggio, racconta Carolina Cutolo, scrittrice (Romanticidio, 2012, Fandango) e animatrice di scrittorincausa.blogspot.it che dal 2010 offre consulenza gratuita agli autori: «Oggi c’è più consapevolezza, ci si fa le domande prima di firmare un contratto, però con il web aumentano grafomania, vanità e canali di adescamento di editori che sono abili a cambiare il linguaggio, ma non la sostanza». La formula della vanity press resta la stessa: FLC. Fretta, più Lusinga, più Crisi.

Fretta. Gli editori a pagamento in genere rispondono subito, anche se gli arriva un romanzo di 500 pagine, lo leggono in un lampo e fanno proposte sempre di corsa, bisogna affrettarsi a firmare, telefonate (chiedono il telefono), come per le offerte televisive eternamente “valide solo per oggi”. Lusinga. Il giudizio è sempre positivo, a tratti superlativo, ma generico: lo “stile è innovativo”, “hai le carte in regola” per la “prestigiosa antologia che stiamo per chiudere” (capolavoro di Lusinga più Fretta). Crisi. I soldi all’autore vengono chiesti perché c’è Crisi, non perché il testo è scadente. Però se poi chiedete di non pagare, dalla Lusinga si passa al Rifiuto: «Chi ti credi di essere… Foscolo?». È la prova del nove che era una vanity press.

C’è anche il “doppio binario”: case editrici normali che per i settori più deboli a volte chiedono un contributo agli autori. Lo fa Manni, che in catalogo ha autori come Franco Fortini ed Edoardo Sanguineti (e rivendica il lavoro di selezione e cura editoriale), non lo fa più, da almeno cinque anni, LietoColle. Ma il fenomeno è in crescita per la crisi (che è vera), e non facilmente censibile. Un quadro d’insieme arriva dalle fiere, fondamentali anche per le vanity press che così si accreditano e intercettano aspiranti esordienti. Carolina Cutolo ha sommato la presenza di editori EAP e a “doppio binario” alle kermesse editoriali del 2017: alla fiera di Firenze sono l’8,7% degli editori presenti (13 su 148), a Torino il 7% (54 su 768), a Milano il 6% (33 su 550). A dicembre si vedrà la fiera di Roma, dove la percentuale può salire perché non ci sono grandi marchi; il fondatore poi, Enrico Iacometti, non è contrario alla EAP: pratica il “doppio binario” con la saggistica accademica della sua Armando editore e giustifica in termini di crisi sistemica le poesie a spese degli autori del marchio Sovera, della figlia.

E il web? Favorisce la circonvenzione dell’aspirante esordiente, ma anche la produzione di anticorpi, con la condivisione di informazioni utili e brutte esperienze. Come quella capitata a Edoardo De Martinis, classe ’93, che su Facebook ha raccontato il colloquio telefonico con un EAP: «Lei è bravo, ci piace, ma non siamo pronti ad assumerci rischi al buio». L’interruttore? 10mila euro. No grazie. Per ora pubblica su Facebook: “Inizio coi miei 50 giorni di blue whale / mi lancio dal terrazzo di casa di Megan Gale / ogni volta che esco con una è un epic fail / ogni volta che bevo troppo è sempre time for jail”. Molto, molto meglio della Donna è mobile.

Libri in tv, piantiamola con i vecchi schemi e troviamo un'idea.  I Fazio e i Marzullo cedono le armi e facce nuove non se ne vedono. E all'estero non va meglio. Se non per le serie tv ispirate ai romanzi, che fanno esplodere le vendite. Di cosa avremmo bisogno? Di un Alberto Angela della letteratura, scrive Paolo Di Paolo il 13 giugno 2017 su "L'Espresso". A bocce ferme - Saloni del Libro archiviati, libri di peso alle spalle, scuole chiuse - i forzati dell’editoria tirano il fiato. Forse è il momento buono per ripartire da un paio di domande ingenue. Tema: promozione della lettura. Stiamo andando nella direzione giusta? Svolgimento: no. Quattro milioni di non-lettori in più rispetto al 2010, sostiene implacabile l’Istat. Certo, si può obiettare che il non-lettore perfetto – maschio adulto, connesso a internet – non legge libri e però, magari, ha dimestichezza con altre tipologie di testi scritti. Anche fosse così, resta il fatto che il popolo dei lettori di libri non si allarga: sta fermo, anzi decresce. Eppure, abbiamo messo in piedi – senza alcuna logica – un secondo salone milanese, piazzato a Rho Fiera un mese prima di quello storico e trionfale a Torino Lingotto. In tutta Europa, i programmi tv non funzionano più come un tempo per far conoscere la letteratura e gli autori. Mentre è nato un vero e proprio circolo virtuoso tra serie tv e romanzi. Esempi? Da 13 a The Handmaid's Tale. E nel prossimo futuro, c'è da scommetterci, la serie tratta da L'amica geniale. Eppure, facciamo proselitismo accanito nelle scuole: mesi del libro, settimane del libro, anni del libro. Sull’esito delle campagne pubblicitarie, ha pronunciato parole definitive Annamaria Testa, pubblicitaria di lungo corso, in un’intervista sul nostro giornale. Non ce n’è una – almeno in Italia – che funzioni: retoriche, seriose, inutilmente solenni, sempre a metà fra kitsch e sopore. Gli ultimi spot, appena lanciati dal ministero, puntano sul romanticismo, ma non convincono. Per carità, nessuno intende liquidare come inutile la macchina sempre in moto del “leggere è bello”. Ma quali risultati sta dando? E soprattutto: li sta dando davvero? Qualcosa non torna. Gli editori tengono i prezzi di copertina alti, e fanno (quasi) finta di niente. Il mercato però è fermo: per andare in classifica basta muovere qualche centinaio di copie a settimana. Gli scrittori si trasformano, più ancora che in performer, in commessi viaggiatori: vendicchiano porta a porta, da globetrotter della provincia italiana. Tutto bene? Mica tanto. Nemmeno dieci anni fa, grandi premi e passaparola dettavano best seller da un milione di copie. Bastava andare da Fabio Fazio per guadagnarsi un posto al sole. Che tempo che faceva! Il longevo talk di Rai 3 (giunto al capolinea nei giorni scorsi con il probabile addio di Fazio alla Rai), era il sogno segreto – oltre che di tutti noi scriventi – di editori convinti di svoltare mezzo fatturato annuo con un passaggio in quel salotto. Frequentato – va detto – da intellettuali di prim’ordine. Si vedevano su quelle poltroncine figure che altrove sarebbe stato impensabile incrociare: dai nostri Eco e Magris a scrittori come Orhan Pamuk, Paul Auster, David Grossman. Se non sbaglio, perfino Nadine Gordimer, ma magari l’ho sognato. Capitava di vedere da quelle parti addirittura un antitelevisivo come Roberto Calasso, scrittore iper raffinato e patron Adelphi. Di recente, Fazio ha preso altre strade. Il tempio della cultura “di sinistra” si è auto-interpretato a lungo come baluardo contro la deriva degli anni berlusconiani. Alla merce libro, in fondo, tutto questo giovava. E poi? Il renzismo deve aver lasciato cadere pose, maschere, antiche preoccupazioni, e anche un po’ di senso del dovere. Fazio ha recuperato con disinvoltura le sue origini pop, promosso a ospiti fissi Fabio Volo e Orietta Berti, e per via di cazzeggio brillante ha rovesciato la vecchia aura snob nel suo esatto contrario. I libri? Sempre meno. Quasi mai. Chi se ne frega. Comunque, in assoluto, nemmeno il passaggio in tv riesce più a cambiare radicalmente le sorti di un volume. A presidiare con garbo il territorio è rimasto Corrado Augias (“Quante storie”, Rai 3), forse più perplesso del solito. Lo spazio di Michela Murgia - una recensione al giorno - desta più attenzione quando la scrittrice si dà alla stroncatura che quando elogia o caldeggia. I social digeriscono, di tanto in tanto rilanciano. Ma l’aggettivo “virale”, se si tratta di libri, è sempre un’iperbole. Per fortuna? Gli editori oggi sono innamorati dei blogger, li subissano di proposte come vent’anni fa facevano con azzimati, sapienti e magari insopportabili critici letterari. Ma serve a qualcosa? La “coolness” letteraria vive ormai di nicchie, di contagi modaioli, così imprevedibili che attivarli dall’alto è diventato pressoché impossibile. Fatto è che non ha funzionato nemmeno l’incursione, nel programma di Augias, della blogger ventenne Sofia Viscardi: a lei spettava, nelle intenzioni, il dialogo con i coetanei. Calcolate le folle che la attendono (o la attendevano) a ogni apparizione pubblica, pareva fosse la scelta più opportuna per “svecchiare”. Macché. Nessuno ha tenuto in conto che, a quell’ora - mezzogiorno e tre quarti - i coetanei di Sofia sono inchiodati al banco di scuola. E comunque, pure andasse in prima serata, difficilmente li si raggiunge per quella strada. La differenza può farla l’evento: un passaggio di Roberto Saviano ad “Amici”, per esempio. Si è visto con i versi di Wislawa Szymborska, con “Le notti bianche” raccontate alla platea di Maria De Filippi; e si era visto, sempre in quell’arena, con l’inarrivabile Aldo Busi, che alla bisogna si travestiva da Alice nel paese delle meraviglie. Però diciamolo chiaramente: da quando Alessandro Baricco ha chiuso l’avventura televisiva di “Pickwick” e “Totem” - ben vent’anni fa! - sui libri in televisione non c’è più un’idea forte, un progetto davvero nuovo. Certo, la capacità di Baricco di raccontare la letteratura faceva la differenza, e tuttavia sembra impossibile che non si sia trovato ancora un emulo, un surrogato, un erede. La divulgazione scientifica ha nella famiglia Angela straordinari numi tutelari. D’altra parte, Alberto - spostatosi nel campo della storia e dell’archeologia - pur non avendo rivali diretti, ha comunque fatto strada a storici accademici che, senza confessarlo, un po’ si ispirano a lui. Ecco: avremmo bisogno di un Alberto Angela della letteratura, di un narratore credibile ed empatico. Avremmo bisogno di uscire dalle strettoie del talk show promozionale, di liberarci definitivamente di scenografie ripetitive - le scrivanie, le pareti di libri, le brocche dell’acqua, i leggii, le scartoffie sul tavolo - e di azzardare strade davvero nuove. È un problema di linguaggio. Qualcosa c’è, ovviamente. Accanto agli storici “vampiri” Marzullo e Gallucci (Rai1 e Canale 5 a notte fondissima), a “Terza Pagina” su Tv 2000, i tentativi “on the road” di Edoardo Camurri sono interessanti, per esempio. “L’attimo fuggente” su Rai 5, prodotto da minimum fax, si confronta con intelligenza con la poesia, ma forse offre immagini (acqua che scorre, tramonti...) sempre troppo “ispirate”. Sky manda in onda documentari strepitosi, che però di rado toccano la letteratura. Laeffe ora ci prova con un reality dedicato ai lettori (“Un libro per due”, dal 19 giugno). Ma perché i direttori delle reti cosiddette generaliste - quelle che ancora raggiungono più pubblico - sembrano così fermi, distratti, apatici? Dov’è l’effetto di quel patto fra editoria e televisione annunciato dal ministro Franceschini? Perché nessuno ha più voglia di inventarsi niente? C’è di sicuro chi obietterà: ma la televisione è preistoria, che investimento sarebbe? Giusto, però fino a un certo punto. I contenuti più efficaci, più spiazzanti o anche solo trash, escono dal piccolo schermo e circolano altrove, moltiplicando il pubblico e raggiungendo i più pigri complici dell’Auditel. Se fosse quella la direzione più sensata verso cui mettersi al lavoro? Spazi brevi, pillole, lampi - la durata di un flash mob, di un post sulla app Candid. Alle armi andrebbero chiamati gli alfieri della comicità web - dai The Pills al Terzo Segreto di Satira, a Casa Surace (il video dei The Pills sulla lettura di Fabio Volo è geniale), per poi lasciarli lavorare su un piano anti-romantico, ruvido, del tutto smitizzante. In mancanza del narratore ipnotico, occorre spiazzare. Fiorello, Alessandro Cattelan, Diego Bianchi avete voglia di prestarvi? Franca Leosini, figura di culto del giornalismo “nero”, non sarebbe una ideale interlocutrice di scrittori finalmente trattati come criminali? Serena Dandini non sarebbe un perfetto e ironico “cicerone” nel circo dell’editoria, dalla stanza dello scrittore al buffet del Premio Strega, giù fino all’istante in cui le copie invendute vanno silenziosamente al macero? Sto esagerando, o forse no. La tradizione non funziona più. Libri sfogliati dal vento, spiagge, voci impostate, retorica nobilitante: basta! Ripetere fino alla nausea espressioni come “io leggo. E tu?”, “io leggo perché”, “leggere cambia la vita” non porta da nessuna parte. Non sposta di un millimetro il discorso. Leggere non fa bene - bisognerebbe provocare così: leggere fa male! Non si è mai visto, d’altronde, uno speciale televisivo con una squadra di macellai sul bello del mangiare carne, o una campagna di sensibilizzazione alla racchetta intitolata “io gioco a tennis perché”. Come mai lo si fa con i libri, trattandoli come medicinali? Dissacrata e trasgressiva il giusto, la compagnia del libro finirebbe per raccogliere qualche seguace in più. Perché non infiliamo i libri nella “Prova del cuoco” o durante i quiz serali? Perché non usciamo dall’angusta e controproducente logica del parlare della lettura come di un presunto “piacere”, rivolgendosi così solo a chi lo ha già sperimentato? Prima regola: mai parlare astrattamente del leggere; parlare sempre e solo di un’esperienza specifica. Raccontare una storia, un libro amato oppure odiato, la vita di uno scrittore come un supereroe o uno sfigato, purché sia una vita e non materia da imbalsamatori. Materia, anzi, da serie tv: a proposito, c’è qualcuno pronto a metter su un “Mozart in the jungle” sulle vitacce torride degli scrittori di ieri e di oggi? Il punto è questo: smetterla di fidarsi degli schemi. Piantarla di tenere inserito il pilota automatico. Vale per l’invecchiatissima televisione, vale per l’affollato spazio delle kermesse - i riti laici, i festival, tutto il resto. Corriamo il rischio di auto-alimentarci senza alimentare davvero più nessuno, senza sapere più - tipica situazione da condominio metropolitano - chi siano i nostri vicini di casa. Senza avere voglia di suonare a qualche campanello sconosciuto - e, fingendo di aver finito il sale, offrire in cambio qualche storia scritta. Niente occhialetti calati sul naso, meglio l’aria di chi contrabbanda, spaccia, regala. E poi sparisce senza lasciare il numero.

ITALIA PAESE DI SCRITTORI CHE NESSUNO LEGGE.

Editoria, siamo sommersi di libri che nessuno legge. Continuiamo a ripeterci da anni che il settore editoriale è in crisi perché gli italiani non sono un popolo di lettori, ma non è così vero, perché a vedere i numeri i lettori sono più o meno gli stessi da quarant'anni. Il problema è un altro e assomiglia a una obesità, scrive Andrea Coccia il 28 Gennaio 2017 su “L’Inkiesta”. Anche quest'anno, come da consolidata tradizione, ci troviamo a commentare i dati aggregati dall'Associazioni Italiana Editori, dalla percentuale dei lettori forti sul totale dei lettori, fino al numero delle copie vendute e al giro di affari. Un sacco di cifre cifrette, cifrone, alcune assolute, altre relative, qualcuna fortemente in positivo, qualcuna fortemente in negativo, altre invece sostanzialmente stabili. La fotografia dell'Italia che legge, insomma, è più o meno sempre la stessa: i lettori forti sono stabili sui 3 milioni, come sempre; quelli deboli oscillano in dipendenza del successo o meno del best sellerone, come sempre; le fasce forti sono i vecchi e i givanissimi, come sempre, e via dicendo. Ma la popolazione, in fondo, sembra sempre più o meno la stessa, stabile da quasi quarant'anni: tra i 22 e i 24 milioni di persone. Tra le cifre pubblicate dall'AIE quest'anno, però, un dato interessante sul serio c'è. E curiosamente è uno dei pochi per il quale la statistica non c'entra nulla, perché è un fatto misurabile e riguarda la produzione di libri nel nostro paese, non il consumo. Eh sì, a guardare i dati dalla giusta distanza lo si nota: di fronte a un pubblico dal corpo sostanzialmente stabile nella sua magrezza rachitica, il mercato editoriale è diventato letteralmente obeso. Il fenomeno è macroscopico: nel 2016 il mercato ha visto entrare in libreria più di 66mila nuovi titoli, di cui 18mila di sola narrativa. Nel 1980, sempre secondo l'AIE, quegli stessi numeri parlavano di un mercato totalmente diverso, fatto di sole 13mila novità, di cui soltanto 1000 erano di narrativa. Se andiamo a vedere le stime del numero di lettori fatte dall'ISTAT in quegli anni, il numero assoluto che troviamo è, indovinate un po', sempre lo stesso, circa 24milioni. All'epoca erano il 46 per cento del Paese, ora sono il 41, ma il numero assoluto è sempre più o meno stabile. Quindi, ricapitolando: in quarant'anni circa, a lettori grosso modo stabili, abbiamo assistito a un aumento della produzione di circa il 600 per cento, un aumento che, nel solo campo della narrativa, è di circa il 1800 per cento. Ovvero, se fino agli anni Ottanta per ogni lettore uscivano circa 3 libri all'anno, ora ne escono 10. Una vera e propria marea di carta che viene rovesciata nel mercato, un mercato che però non si è allargato, è rimasto più o meno della stessa grandezza. Le conseguenza sono molteplici: più libri vuol dire meno tempo per sceglierli, lavorarli e promuoverli. Ma anche meno tempo a disposizione di ogni libro per trovare i propri lettori. Il risultato? Abbassamento della qualità, crollo del tempo di permanenza sullo scaffale, ridotto a volte a poche settimane, vendite medie sempre più basse. Negli ultimi dieci anni l'industria editoriale ha chiamato tutto ciò “Crisi dell'editoria”, dando la responsabilità ai lettori. Già, perché l'industria editoriale è parecchio brava a scaricare le colpe sui propri clienti: “in Italia stanno sparendo i lettori”, si dice sempre, tanto che ormai è diventato un ritornello, un mantra che ci siamo ripetuti di continuo negli ultimi anni. Eppure, a vedere i numeri, non è esattamente così. O meglio, è vero che la maggior parte degli italiani non leggono, ma non è una novità. Era così anche quando l'industria editoriale era sana, negli anni Ottanta, per esempio, quando non c'era la Crisi. Ma se il crollo dei lettori non c'è, allora qual è l'anello che non tiene? La domanda non è di quelle semplici da risolvere. La sensazione però è che una parte della risposta sia proprio in questa dieta all'ingrasso, iniziata proprio nel pieno degli anni Ottanta, esattamente quando l'editoria italiana è diventata una vera e propria industria, quando sono cominciate le concentrazioni editoriali, quando ha iniziato a svilupparsi la grande distribuzione organizzata (la modalità di distribuzione più in crisi negli ultimi anni). È questa industrializzazione che ha trasformato il campo di gioco dell'editoria italiana in una giungla affollata, in cui ogni anno vengono fatti piovere 66mila libri — sei volte la quantità che si pubblicava quarant'anni fa — libri che però, più che arrivare ai propri lettori elettivi, assomigliano a una moneta di scambio. Una moneta in forte svalutazione che alimenta il circolo vizioso delle rese, che permetterà anche alle case editrici più grandi di tenere in piedi i propri fatturati, ma che, non essendo prodotta per soddisfare nessuna esigenza particolare dei lettori, sta soffocando l'intero settore.

Il circolo vizioso dell’editoria libraria, scrive il 2/02/2017 Antonio Tombolini. Di tanto in tanto qualcuno prova a spiegare come mai in Italia, paese in cui tutti si lamentano del fatto che si leggono pochi libri e che ci sono pochi lettori, poi si pubblichino ogni anno così tanti libri nuovi. Ci ha provato di recente Andrea Coccia, con questo articolo su Linkiesta, ma sbaglia anche lui: è vero il contrario di quello che scrive l’autore dell’articolo, non è la sovrapproduzione ad alimentare il vortice delle rese, è invece il meccanismo delle rese ad alimentare la proliferazione dei nuovi titoli. E il digitale non c’entra niente (se aumento l’offerta digitale non faccio del male a nessuno: non distruggo carta, non inquino, non butto via soldi inutilmente eccetera). E non c’entrano niente neanche “l’industrializzazione” né “le grandi concentrazioni editoriali” (ridicolo, su scala mondiale Mondazzoli è un microbo). C’entrano invece, e molto, gli usi consolidati della filiera tradizionale del libro, che gli operatori dominanti (grandi editori e distributori, che in Italia sono poi la stessa cosa) non solo faticano a superare, ma tentano disperatamente (e dissennatamente) di difendere, con una distribuzione fatta di una miriade di librerie sparse ovunque, e ora in crisi profonda, abituate come sono a un mercato drogato dal “tanto se non lo vendo lo rendo”. Ecco come funziona.

Io sono un piccolo editore. Pubblico un libro perché ci credo, mi piace, lo ritengo bello e utile. Lo pubblico di carta, perché sono un “vero” editore “tradizionale”. Bene. Vado in tipografia, dove mi dicono che ne devo stampare almeno mille copie, ché farne di meno tanto costa uguale. Parlo col distributore (lì sì c’è non la concentrazione, ma il monopolio ormai: Messaggerie), che mi dice che “Ehi, se non mi dai almeno duemila copie per coprire significativamente le librerie io non posso impegnarmi a distribuire il tuo titolo”. Diciamo che ne stampo duemila. Diciamo che stamparle mi costa 5.000€, 2,50€ a copia. A quanto lo vendo? Vediamo… il 60% del prezzo lo vuole il distributore, che poi se lo divide con la libreria che vende il libro al privato. Io devo pagare il costo di stampa, l’impaginazione, l’illustratore, i diritti d’autore. E ovviamente anche l’affitto dell’ufficio, le utenze, il mio stipendio, il commercialista ecc… Se lo vendo a 10€ me ne tornano 4, e 2,50 sono già spesi per la stampa, mi bastano 1,50€ per coprire tutte le altre spese? Mi sa proprio di no. Vendiamolo a 15€, e speriamo bene.

Il distributore a questo punto mi compra (si fa per dire, c’è sempre il diritto di reso!) le 2000 copie, e io, tutto felice, stacco la mia prima fattura, ho venduto 2000 copie, per un importo totale di ben (30.000 – 60%) = 12.000€, wow! Ovviamente il distributore non mi paga subito (figuriamoci, paga a 120-210gg). Sono un editore per bene, e voglio pagare chi ha lavorato per me. L’autore no, perché prenderà le royalties sul venduto, ma gli altri li devo pagare subito: al tipografo devo dare i suoi 2.000€, all’impaginatore (che con la crisi mi fa un buon prezzo) i suoi 300€, il grafico altrettanti, il correttore di bozze. Ah, ci sono anche i 600€ di affitto, altrettanti di bollette, e… URKA! Dove li prendo i soldi? Aspetta, lo so: ho fatto proprio adesso una fattura di ben 12.000€, vado in banca e mi faccio anticipare l’importo, poi quando il distributore mi paga la fattura li restituisco alla banca. “OK, non c’è problema, metti una firma qua, mi dice il direttore della banca, sì, è la fideiussione, una formalità obbligatoria, ovviamente”. Mi ritrovo 12.000 Euro nel conto. Pago chi devo pagare, mi prendo uno stipendiuccio anch’io, e mi fermo, non pubblico più niente, aspetto che mi paghino la prima fattura. Ho pagato tutti, e dopo quattro mesi mi trovo con poco o niente nel conto. Ho dovuto pagare i mensili dell’affitto e le bollette, e un po’ di stipendio per me. Sono passati 120 giorni, chiamo il distributore: “Allora, mi puoi pagare questa fattura?”.

In Italia la media delle rese (libri invenduti) è superiore al 60%: ogni 100 copie stampate, almeno 60 restano invendute. Ed è una media: fatta di alcuni libri, pochissimi, che vendono tutte le copie, e molti libri, moltissimi, che vendono niente o quasi niente. Ma facciamo finta che il mio libro si comporti come il “libro medio”. Dunque ho appena chiamato il distributore per farmi pagare la fattura, e mi fa “ehi, guarda che di quelle duemila copie ne abbiamo vendute ottocento, che facciamo con le altre milleduecento?”. L’editore gli dice “beh, che ne so io”, e il distributore gli dice “beh, lo so io: io non ti pago duemila, ma ottocento copie, quindi intanto fammi una nota di credito per le copie invendute così ti pago i 4.800€ che ti devo”. Già, la mia bella fattura di 12mila euro si è ridotta a 4.800€. Ma c’è dell’altro, mi dice il distributore: “Le altre milleduecento copie devo andarle a prendere dalle librerie dove le ho portate, perché devono liberare i loro spazi per altri libri, e questo ha un costo, che ovviamente ti addebiterò. Poi se vorrai le tengo io nel mio magazzino, e ti costerà un tot a metro cubo per ogni giorno di giacenza, oppure te le porto a casa tua, e ci sarà un altro costo che ti addebiterò.” E io dove le metto? Forse mi tocca affittare un piccolo magazzino per metterci le copie invendute!

A quel punto chiama il direttore di banca “Ciao Piccolo Editore, sono passati i 120 giorni, quell’anticipo sulla fattura è scaduto, devi restituirmi l’importo che ti ho anticipato!”. Il dramma: devo restituire, e subito, alla banca i 12mila Euro che mi ha prestato. Ma il distributore me ne ha dati solo 4.800, come faccio? Già, come faccio a “tappare” il buco senza che venga a pignorarmi la casa che mi ha toccato dargli in garanzia per il fido? Facile: pubblico un altro titolo, stacco un’altra fattura da 12mila euro, e con quelli attappo il buco, e faccio un altro giro di giostra! WOW!

Ecco spiegato come mai ci sono così tanti titoli nuovi in un mercato in cui tutti si lamentano che nessuno legge. Questo è il vero cancro che minaccia di distruggere l’editoria libraria. L’editore si infognerà sempre di più in una gigantesca bolla che prima o poi esploderà, per esempio quando qualcuno gli dirà che valorizzare le scorte di invenduto a bilancio a valori artificialmente gonfiatinon serve a niente, perché il valore del suo invenduto è zero, anzi, è negativo, visto che gli genera costi di magazzino e che per smaltirlo deve pagare). Cui prodest?

Chi prospera in un sistema come questo? Il distributore, e in maniera perversa e vampiresca: il suo guadagno infatti non dipende tanto dalle copie vendute, ma dipende in misura crescente dalla vendita di servizi correlati alla gestione delle rese! Meno libri si vendono e più il distributore guadagna! Come ha fatto Messaggerie a diventare il secondo gruppo editoriale italiano, con marchi come Longanesi, Garzanti, Salani, ecc… acquisiti uno dopo l’altro? Facile: prima o poi il direttore di banca dice all’editore che non può più anticipargli la fattura, l’editore quindi si indebita in misura crescente col distributore, fino a che il distributore se lo compra con quattro soldi. Certo che la cosa regge finché c’è chi alimenta il progressivo indebitamento degli editori. Appena i rubinetti del credito si chiudono, la bolla esplode.

A che punto siamo? Che sta esplodendo. RCS Libri è tecnicamente fallita (sì, ok, acquisita da Mondadori Libri, figuriamoci, una finzione, peraltro finanziata al 100% con, indovina un po’, prestiti bancari!) e tutti sono indebitatissimi. Ma anche Messaggerie ormai ha spremuto lo spremibile, gli editori non hanno più soldi da dargli, e chiudono, così come le librerie, e Messaggerie è costretta a svalutare e azzerare i suoi crediti. Una curiosità. Hai per caso letto la parola “ebook” in tutto questo? No. Il cancro dell’editoria libraria non c’entra niente con un presunto ruolo killer dell’ebook rispetto al libro di carta.

Del libro, del predominante ruolo del caso nella sua fortuna, dei barbari che lo stanno salvando, scrive il 16/05/2016 Antonio Tombolini. [Riporto fissandolo qui un mio sfogo originato da questo post di Zio Josu Facebook, ché lì Zuckerberg continua dolosamente a inghiottire tutto per tutto divorare e tutto condurre al luogo in cui non c’è più memoria.] Il successo di un libro, come il successo di una canzone, di un quadro, di un tiro in porta, è sempre il risultato di una misteriosa alchimia fatta di dedizione e fortuna, fatica e casualità, talento e relazioni. Thomas Alva Edison e/o Albert Einstein (la citazione è di volta in volta attribuita all’uno o all’altro, e non manca chi, in ambiente letterario, la attribuisce devotamente e disinvoltamente a Umberto Eco) se la cavavano riducendo a due le variabili: “perspiration”, il sudore della fronte, e “inspiration”, l’ispirazione del genio. Col cavolo. Non mancheranno mai successi inspiegabili. Non mancheranno mai libri che nessuno mai avrà letto (erano belli o brutti? Nessuno lo saprà mai). Non mancheranno mai successi travolgenti post-mortem, magari a distanza di anni, decenni, o secoli addirittura, come in musica accadde a un intonatore di organi tedesco del ‘600, tale Johann Sebastian Bach. Il Caso. Il caso è il maggior protagonista delle nostre vite, in ogni loro aspetto. Tanto più lo è in relazione ai destini di cose effimere come le “opere dell’ingegno”. Gli esempi sono sotto gli occhi di tutti, si tratta di una verità lampante. Eppure l’uomo, nella sua illusoria ansia di dimostrare a se stesso di saper governare la vita e il mondo, da sempre ne sottovaluta, fino a cancellarlo, il peso. Prendi questa: il libro di Fabio Volo vende un sacco. Magari tra cinquant’anni non se ne ricorderà nessuno. O magari tra cent’anni sarà il solo libro rimasto sulla faccia della terra. A molti piace. A molti altri fa schifo. Per alcuni è scritto male. Per altri è scritto benissimo. Per alcuni è una lettura insopportabile. Per altri dedicarsi a leggerlo è il momento più bello della giornata. Ma pensaci bene, torna qui sopra, sostituisci a “Fabio Volo” l’autore che vuoi voi: tutto quello che viene dopo resta vero, incontestabilmente vero.

E allora, che ne è della “qualità” dei libri? A cosa è possibile ancorarla? A cosa ancorare la “qualità” di un libro? 

A un atto arbitrario, e in quanto tale non-sindacabile da chicchessia. L’atto arbitrario di un lettore, di un editore che sceglie di pubblicare quel libro invece di un altro, di un critico che decide di osannarlo. E alla stessa “libera-arbitrarietà” sarà possibile ancorare un giudizio di “non qualità” di un libro: l’atto arbitrario del lettore che ne legge una pagina per poi metterlo da parte, quello di un editore che lo cestina, quello di un critico (sia esso, sempre meno, un professionista, o, sempre più, un recensore) che decide di stroncarlo. Così come la qualità di un libro non può prescindere dalla arbitrarietà del caso (che poi vuol dire “del tempo”) che decide addirittura se far accorgere qualcuno dell’esistenza di quel libro, oppure no. Per questo continuo a ritenere sbagliate e di retroguardia le raffinate intellettualistiche analisi dei tanti che, a fronte del fenomeno del self-publishing (dove self-publishing = fenomeno per cui più libri e più autori riescono a raggiungere gli scaffali di una libreria, concedendosi una chance di visibilità) si concentrano sul falso problema della “sovrabbondanza”: oddio, i libri adesso sono troppi, come farà il lettore a scegliere e a orientarsi? Con tutta questa roba, esclamano, c’è un sacco di robaccia, chi ci salverà?

Si tratta di uno spettacolare effetto di illusione ottica: tutti questi libri, che oggi affollano sempre più gli scaffali di vetrine virtuali e non grazie al self-publishing, tutti questi libri c’erano già, c’erano anche prima, perché l’uomo ha voglia di scrivere, e ha voglia di farsi leggere. Punto. Indipendentemente dalle concrete chance di successo, indipendentemente dall’evidenza dei fatti per cui nella stragrande maggioranza dei casi del mio libro non gliene fregherà niente a nessuno, indipendentemente dal fatto che qualcuno possa parlarne bene o male. L’uomo vuole esprimersi. Di più: l’uomo è espressione. Di più: l’uomo è tale nella misura in cui può liberamente esprimersi. E scrivere un libro è uno dei modi della libera espressione, e dunque dell’essere, dell’uomo. Cosa cambia per il lettore ai tempi dei barbari digitali e delle orde del self-publishing? Come potranno orientarsi dentro la giungla della miriade di titoli da cui sono sempre più assediati? Come aiutare il lettore a orientarsi nella scelta dei libri cui dedicare il proprio tempo?

Alt. Un passo indietro: ho definito “falso problema” quello che risulta dalle analisi dominanti sul fenomeno del self-publishing, quello che afferma che i libri ora sono troppi, troppissimi. Non è vero. Quei libri che grazie alle tecnologie digitali e alla rete oggi si possono concedere una chance di incontro con un lettore c’erano già, erano già tutti lì: erano già tutti lì dentro i cassetti degli autori. Erano già tutti lì nei cestini degli editori. O erano già tutti lì rimasti dentro la testa del loro autore, perché se c’è un deterrente alla scrittura del libro ebbene questo consiste nel non intravvedere neanche una chance che possa avere un lettore. Erano già tutti lì, libri “buoni” e libri “cattivi”. “Buoni” per alcuni, “cattivi”, gli stessi libri, per altri. Oggi arrivano tutti, alla pari, sugli scaffali delle librerie online, e la casta di quelli che pensavano di detenere le chiavi del Regno dei Libri (i Guardiani della Distribuzione) si ritrae inorridita a fronte di tanto spettacolo. Tutto ciò non è affatto male. Non è male che tutti possano esprimersi scrivendo libri, così come non è male che tutti possano suonare uno strumento, o prendere un pennello e imbrattare una tela o un foglio, o ritrovarsi con gli amici per dare calci a un pallone nel tentativo di emulare i pallonetti di Maradona o i tiri nel sette di Cristiano Ronaldo. Non è un male, anzi, è un bene! OK, precisato questo il problema resta: ma per i lettori? Come fanno a orientarsi? 

Ci sono diversi livelli di risposta. Il primo: a caso. Dal punto di vista del lettore non c’è niente di male nell’usare il caso (i più raffinati, quando gli fa comodo, parlano in questi casi di serendipity, ma riguardo ai “nuovi libri” no, evocano solo drammi lancinanti) per cercare a destra e a manca il prossimo libro da leggere. Che comincerò a leggere e poi butterò via se mi fa schifo, e ne parlerò malissimo se ne avrò voglia. O che viceversa obbligherò tutti gli amici a leggere tanto mi è piaciuto. O che mi lascerà indifferente spingendomi a tentare il prossimo.

C’è poi il livello degli strumenti di “discoverability”, di cui usa dire oggi. Alcuni esistono già, altri se ne stanno inventando, chi investe sugli algoritmi, chi scommette sul fattore umano. Autori che se ne fregano di promuovere il proprio libro, e autori che gli dedicano la vita e ogni energia.

Io ho il mio parere: gli Editori. I nuovi editori, in grado di dire “questi sono i libri che io pubblico, in base a questi criteri, facendolo fare a queste persone, con questa storia”. Editori che hanno il compito di traslare in un catalogo la loro visione del mondo, non perché quel che c’è dentro è il meglio, è “la qualità”, contro il resto che è fuori. Ma per proporre a chi legge con onestà una faccia, condivisibile o meno, piacevole o meno, attraverso cui orientarsi nelle scelte. E anche questo, badate bene, non è la cosa che conta di più, perché quando si tratta del libro, della esperienza di lettura di un libro, la cosa che conta più di tutte è solo una. Che si leggano i libri. Che l’esperienza della lettura di un libro sopravviva, si salvi, e prosperi per sempre. Che si scrivano, per salvaguardare la libera espressione che è l’uomo, e che si leggano, per salvaguardare l’esperienza peculiare che è il libro. Sembrerà sacrilego affermarlo, ma ne sono convinto: da lettore, da editore, da uomo libero. Quello che mi interessa è che l’esperienza di lettura di un libro (così vitale perché qualcuno sia motivato a scrivere, e quindi a esprimere così la sua libertà e il suo essere) sopravviva e prosperi ai tempi del digitale. Parliamo quindi di perché ci piace questo libro e del percome quell’altro non ci piaccia affatto. Ma rallegriamoci per ogni libro che vede la luce, per ogni libro che viene scritto. E per ogni libro che viene letto. E rallegriamoci del fatto che – grazie al digitale – ogni libro ha ormai almeno una chance di essere letto da qualcuno, in qualsiasi parte del mondo, e in un momento qualsiasi del tempo, perché grazie al digitale, e alle barriere abbattute da questi “barbari” (di cui mi onoro di essere parte) ogni libro oggi è subito disponibile ovunque e per sempre. Amen.

LA SCUOLA AL FRONTE.

Scuola, la nevrosi delle riforme. Negli ultimi 25 anni il mondo della formazione è stato investito da cambiamenti continui. Con una progressiva erosione della cultura, scrive Raoul Kirchmayr l'1 febbraio 2017 su “L’Espresso”. Dagli anni Ottanta una delle parole centrali nel discorso delle istituzioni è stata senza dubbio “riforma”, il cui significato primo, che per molto tempo ha evocato un orizzonte di progresso civile e di emancipazione, è stato sostituito da un altro. La nuova accezione rimanda all’operazione tecnica di accomodamento di una macchina al fine di incrementarne l’efficienza. Con questo significato il significante “riforma” ha preso a circolare a ritmi sempre più spediti, fino a quando è diventato dominante nell’attuale lessico dell’opinione pubblica. La parola “riforma” si è così accompagnata a un ventaglio di attributi (“urgente”, “necessaria”, “ineludibile”, “d’emergenza” ecc.) che affermano tanto l’esigenza di rapidità quanto un rigido determinismo che non potrebbe né dovrebbe essere disconosciuto, pena l’avverarsi di previsioni immancabilmente fosche e dunque da scongiurare. La parola “riforma” comporta sempre, di conseguenza, una previsione (solitamente presentata come scientificamente calcolata) e, in senso più ampio, un’ipoteca sul futuro. In questo senso, la “riforma” non può che essere “responsabile”: il suo carattere di destino astratto si traduce ipso facto in un’assenza di alternative che si vuole perfino etica (del resto, si è compreso da tempo che l’istanza etica è l’ingrediente sempre strutturalmente mancante del mondo tardo-capitalistico, mentre ne rivela, di converso, gli intenti ortopedici e disciplinari). Nell’ultimo quarto di secolo, oltre al mondo del lavoro, un altro ambito è stato parallelamente investito - e non solo nel nostro paese - da ripetuti impulsi alla “riforma”. Si tratta del mondo della formazione e della ricerca, dell’università e della scuola, coinvolto in una vera e propria spirale che ha conosciuto delle tappe importanti nella legge sull’autonomia universitaria del 1990 (la “riforma Ruberti”), nel “processo di Bologna” con cui l’Unione europea ha raccordato i sistemi educativi dei paesi membri, fino alla recente legge 107 del 2015 (la “buona scuola” del governo Renzi). Ciascuna tappa ha introdotto sempre nuovi fattori di cambiamento che, presentati sotto le bandiere della modernizzazione e del miglioramento, non hanno modificato il sistema verso un nuovo equilibrio più avanzato, ma sono stati la spinta per un’ulteriore giro di “riforme”. In questi ultimi anni l’università e la scuola sono state oggetto di una vera e propria “coazione a riformare”. Oltre che con tagli di spesa pubblica, la coazione si è manifestata soprattutto nei sintomatici mutamenti del linguaggio che hanno avuto come scopo la trasformazione irreversibile degli ambienti della ricerca e dell’apprendimento, e con essi l’insieme dei soggetti coinvolti: docenti, ricercatori, studenti, famiglie e, non da ultimi, amministrativi e ausiliari. Il cambiamento è avvenuto con una progressiva erosione della lingua della cultura, quella lingua che sarebbe compito delle istituzioni tramandare come eredità condivisa e memoria collettiva. In altre parole come quell’ethos o “religione civile” di cui il nostro paese sembrerebbe storicamente difettare. Il tentativo di sterilizzare la capacità della cultura a produrre ethos e a figurare mondi (anche utopici, immaginari e impossibili) è progredito con l’iniezione di un vocabolario che, incarnando la visione del mondo neoliberale, ne è l’espressione funzionale. Si pensi solo al lessico, ormai acquisito, dei crediti e dei debiti, all’introduzione seriale di sigle e acronimi, all’equivalenza tra studio e lavoro (fino all’alternanza studio-lavoro), per non citare l’enigmatica nozione di “competenza”, scientificamente farraginosa ma ideologicamente efficace. Non si tratta più del tecnicismo freddo e ingegneristico cui era improntata la lingua dell’ormai lontano boom economico. Quella che da tempo viene inoculata nella scuola e nell’università, diventando forma di vita e di relazione, è una lingua povera che si intreccia con la gergalità di uno pseudo-inglese, mediante la quale si affermano nuovi rapporti di potere e si stabiliscono nuove linee di faglia sociali. Il progetto di “valorizzazione delle risorse” (di cui la meritocrazia è figlia) fa tutt’uno con questa lingua spuria, attuandosi per mezzo di procedure che, mentre si appellano alla libera scelta di ciascuno, spingono invece gli individui a operazioni di accomodamento al discorso dominante. L’adattamento linguistico alla logica dell’efficienza e della performance, cui ognuno è sottoposto, tende a diventare stile cognitivo (in accordo con la recente enfasi pedagogica sui soft skills), quando non preveda addirittura tra i suoi obiettivi espliciti la produzione di nuove forme di soggettività. Il rilievo della lingua non è dunque marginale. A una lettura rapida potrebbe sembrare uno dei tanti esempi di provincialismo nostrano. Visto più da vicino, appare come un sintomo diffuso del modo in cui le forme della riproduzione culturale vengono modellate in senso neoliberale. La parola “riforma” in senso neoliberale non fa che mimare la riforma nel senso democratico dell’estensione dei diritti e dell’eguaglianza dei cittadini, mentre la svuota progressivamente di contenuto, con il risultato di generare nuove forme di diseguaglianza. Perciò l’accanimento riformatore su scuola e università è un tassello strategico nel progetto con cui le forze dominanti cercano di consolidare la loro attuale egemonia economica e culturale. Si capisce allora che il significato della parola “riforma” non può essere dissociato dalla tendenza del tardo-capitalismo a una ristrutturazione perenne che non investe più soltanto il campo dell’economia ma impatta risolutamente sulla vita individuale e collettiva. La conseguenza è che le istituzioni dello Stato, nel caso in cui sia esso democratico e preveda la tutela del “sociale”, sono considerate come dei limiti o degli impedimenti all’estrazione di plusvalore. È per permettere una più massiccia, rapida ed efficace estrazione che le istituzioni, nel loro complesso, vengono dunque riformate. Per il nostro paese questo obiettivo non sarebbe perseguibile senza la cornice più ampia in cui si colloca il modellamento della scuola e dell’università, cioè la “sincronizzazione” delle istituzioni nazionali con quelle europee, in nome dell’efficienza dei sistemi educativi. Se volessimo comprendere il senso della “coazione a riformare” che sta disegnando l’avvenire delle nostre scuole e delle nostre università, è certo nella direzione di questa “sincronizzazione” in corso che dovremmo guardare. In generale, la retorica della “riforma” è un dispositivo discorsivo che intacca il discorso democratico e lo riscrive. A ogni giro cancella il senso “progressivo” precedente e lo sostituisce con un altro che, all’apparenza identico, in sostanza lo nega. Tra i saperi disponibili, la psicoanalisi ci fornisce degli strumenti per riconoscere questo meccanismo di ripetizione che genera spirali regressive. In Al di là del principio di piacere, saggio controverso che impresse una svolta alla sua metapsicologia, Sigmund Freud descrisse una particolare dinamica psichica, consistente nella reiterazione nevrotica di un evento traumatico. Studiando i casi clinici forniti dai vissuti dei reduci dal fronte, che mostravano questa forma di disturbo, Freud si trovò a riflettere sull’esistenza di una forza opposta alle pulsioni di vita: la chiamò, com’è noto, pulsione di morte. La specificità di questa pulsione è di agire vicariamente, legando la pulsione di vita alla ripetizione dell’evento traumatico, di modo che le energie psichiche risultano drenate e incanalate verso formazioni gravemente nevrotiche che, purtuttavia, garantiscono un godimento inconscio. Se si volesse prendere sul serio l’ipotesi di Freud, ci si potrebbe chiedere in quali ambiti della vita sociale contemporanea la coazione a ripetere produce nuove forme di nevrosi e con quali eventi traumatici essa possa continuare ad alimentarsi, sottraendo così energie alla vita e alla trasformazione effettiva, a tutto vantaggio di un godimento mortifero. La psicoanalisi della società è in grado di riconoscere la pervasività delle dinamiche coattive, le quali permettono sì la conservazione di un precario equilibrio individuale e collettivo, ma a un costo psichico crescente. Si potrebbe dunque introdurre il punto di vista dell’economia pulsionale per saggiare le conseguenze concrete del discorso “riformatore” sul piano della psicologia collettiva. Da una parte, il costo psichico potrebbe spiegare il malessere perdurante delle nostre società, dovuto all’attesa di riforme che, invece, si converte presto in un’amara consapevolezza del peggioramento della nostra condizione. Dall’altra, una riflessione sull’economia pulsionale permetterebbe di comprendere la capacità performativa di penetrazione che la parola “riforma” conserva nei nostri discorsi e nelle nostre convinzioni, con una forza di seduzione che pare urgente sottoporre a un lavoro critico, allo scopo di indebolirne quanto meno gli effetti depressivi. Un lavoro che, prima ancora di metterne in discussione i meccanismi coattivi, ci permetta di liberare delle energie collettive che diano forma alla nostra attesa di cambiamento.

Così la scuola resiste alle riforme. Organici, merito, alternanza: la Buona scuola ha provocato mille conflitti. Su assegni, potenziamento e stage ogni istituto decide come può, fra entusiasmi e malcontento. Ecco dove le promesse di cambiamento sono rimaste incagliate. E come prof e studenti, nonostante tutto, cercano di opporsi al caos, scrive Francesca Sironi l'1 febbraio 2017 su "L'Espresso". Sono le 7.55, suona la campanella. Al pianterreno un gruppo di supplenti s’affretta a finire il caffè. «Sono precario da 13 anni», dice l’unico maschio. «Altro che scomparsi, assunti da veterani. Siamo qui. Ora devo andare», e segue una fila di studenti. È lunedì, indossano il piumino: «È un prefabbricato, il problema del freddo dopo il week end è ovvio». Primo piano, terza media. La prof d’italiano, Alessandra Ibba, fa entrare la collega di tedesco. Illustrano insieme una ballata di Goethe. «Wer reitet so spät...». L’insegnante di sostegno passa fra i banchi. «La differenza è che il romanticismo era rassegnato alla sofferenza, l’illuminismo invece era convinto della felicità», dice Matteo. Primo banco, felpa blu, è il più bravo della classe. Ed è romeno. O meglio un nuovo italiano. Uno dei sei alunni “stranieri” su 10 che frequentano l’istituto Scialoia, quasi-periferia Nord di Milano. Un pezzo di futuro e di Stato. Dove filtra, come altrove, la riforma alla prova di realtà. Come nelle altre 41.152 scuole statali, infatti, anche qui diventa dimostrazione l’ipotesi della “Buona Scuola”. Tutto compreso: compresi il caos sugli organici e i festeggiamenti per le assunzioni, le crisi fra insegnanti dal Sud e provveditorati del Nord, gli assegni di merito di cui nessuno fa vanto, i dubbi e gli entusiasmi sull’alternanza scuola-lavoro, la matematica a cui mancano pedagogie e la solitudine dei bimbi con “bisogni speciali”, restati senza professionisti a supporto. Se è sulle lezioni alla lavagna che si è infranta infatti tanta parte della popolarità di Matteo Renzi, se è contro il Miur che si abbattono ricorsi e sentenze, è dentro il testo della riforma, oltre che nei cavilli, nei provvedimenti, post-accordi e burocrazie che si è stemperato presto il colore del cambiamento promesso. Troppe girandole diventano stallo. E se questa è la grande debolezza della scuola, resta però una forza: la sua resilienza. Perché l’antologia del caos continua a fermarsi alla porta di classe. «In aula, ragazzi, silenzio». La preside dell’Istituto Scialoja - infanzia, elementari e medie, un impegno sulla lingua tedesca “per dare un futuro ai nostri giovani” - mostra uno schema. «Il primo settembre ero felice», dice: «la sala riunioni era piena. L’organico completo». Durante l’estate Ida Morello s’era applicata, come i suoi pari, a oneri e onori della “chiamata diretta”, uno dei super-poteri dati dalla riforma ai dirigenti, apprezzati da loro, osteggiati dalla base: aveva elencato le necessità, letto i curriculum dei candidati, organizzato colloqui via Skype per scegliere. «Certo, avrei voluto potenziare la matematica, ma in questa zona c’erano solo cinque nomi. Già richiesti altrove». A fine agosto era riuscita a coprire, per la prima volta, tutti i posti di sostegno alla primaria, con persone titolate. «Ma le maestre arruolate hanno poi chiesto e ottenuto l’assegnazione provvisoria al Sud». Sono tornate cioè vicine a casa. Il 90 per cento delle insegnanti allo Scialoja arriva da Sicilia, Calabria, Puglia, Campania. Non è una novità né un caso: è così ovunque, come ricordano i dossier ripresi da Gian Antonio Stella sul Corriere. Nel paese rimasto diviso, la questione è diventata polemica nei primi mesi dell’anno, con sedi remote assegnate a chi aveva figli e famiglia, da una parte, e il contro-esodo al sole dall’altra. Risultato: disagi per gli studenti, buchi nei programmi e supplenze tardive. «Siamo noi del Sud a istruire i figli del Nord!», dice affranta dalla disputa Salvina, maestra chiamate allo Scialoja, che ha deciso di restare: «Io però sono single, e per me è un’occasione». A 48 anni vive con due colleghe in un appartamento vicino alla stazione. Una nuova vita da coinquiline, a 40 anni, a Milano. «Certo qui ci sono cultura e formazione. L’anno scorso ero finita in un piccolo borgo in Emilia. Uno shock», racconta la sua roomate, Daniela, della provincia di Ragusa. Sono sedute sui banchi mignon nella scuola d’infanzia, per una riunione pomeridiana, che sollevando la questione diventa più riunione carbonara: «Conosco colleghe devastate dal piano assunzioni della riforma», racconta un’insegnante campana: «Per 1.300 euro in una valle comasca, la vita distrutta». «Io invece sono felice del posto che mi ha dato Renzi», dice un’altra, di Lecce, da settembre di ruolo: «Sapevamo le regole. Mio marito non era d’accordo. Ma io ho insistito». Con loro c’è un maestro, siciliano. È supplente, moglie e figlia a carico. In primavera ha tentato il concorso ma è stato bocciato, come il 50 per cento dei candidati. «Per il ministero non andiamo bene. Eppure in provveditorato ci continuano a chiamare perché hanno bisogno di noi». Dopo le prove dello scorso anno dovranno entrare in ruolo 63.712 nuovi docenti. In alcuni settori sono stati scartati fino a otto aspiranti su 10. Lucrezia è una dei cinquemila ricorrenti che hanno ottenuto di fare una prova ad aprile, perché erano sbagliati i criteri con cui si stabiliva chi potesse partecipare al test e chi no. «Ho superato corsi universitari selettivi per l’abilitazione. Speso oltre cinquemila euro in formazione. Insegno da anni. Sono stanca. Vogliamo certezze. Mentre aumenta il caos». Anche Maria Cristina Pulli è finita in un incaglio. Era stata messa di fronte al perdere tutto o prendere un ruolo alle medie, nonostante i suoi 162 punti in graduatoria di greco e latino al liceo. Sotto scacco, aveva accettato. Poi hanno cambiato le regole, ma intanto: «Mi dicevano: “che ti lamenti, ora hai un posto fisso”. Ma non era solo per il contratto che ho studiato e investito per anni», racconta lei: «Mi sono rimessa in gioco. I ragazzi, la scuola, do il massimo. È stata dura. Quando entro in crisi mi ripeto “sta come torre ferma, che non crolla già mai la cima per soffiar di venti”». Dante. «Vedi la bestia per cu’ io mi volsi; aiutami da lei, famoso saggio, ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi». Isabella ha le unghie laccate d’azzurro. Sta al secondo banco, terzo piano, classe 3DL del linguistico Artemisia Gentileschi di Milano. Lezione di ripasso, parafrasi e commento ai canti. «Qual è il significato allegorico della lupa? Quello di un potere che aspira sempre a crescere. Ricordate? Di una ricchezza che non si pone limite, che diventa fine a sé». Il professore, Davide Bondì, collabora con l’università di Milano, Storia della filosofia contemporanea. È qui da un po’. «I nuovi docenti hanno curriculum impressionanti», dice Gabriella De Filippi, la vicepreside. Secondo gli analisti della Fondazione Agnelli è il contrario, a mediare statistiche: «L’assunzione in blocco di chi era nelle graduatorie ha avuto effetti negativi, abbassando la qualità e ostacolando il rinnovamento», spiegano. «Oltre al mismatch di competenze: sono entrati troppi docenti di materie giuridiche, ad esempio, mentre continuano a mancare in matematica e scienze». Il Gentileschi ha 1.536 alunni, 30 classi di Liceo e 36 di Tecnico economico turistico. Cinzia Celino è la prof di Chimica più amata dell’istituto. Nella sua classe ha scelto per prima le “flipped classroom”: i ragazzi seguono le lezioni a casa, su video registrati, mentre in aula svolgono insieme esercizi e prove. «Dà risultati eccezionali, soprattutto con gli studenti meno bravi». Lei è una degli insegnanti che quest’anno hanno ricevuto “l’assegno al merito”, il bonus ai migliori previsto dalla riforma. «Sì, bene. Però... Il nostro preside è stato serio, ha seguito la griglia di valutazione data dai docenti. Ma a mio avviso i beneficiari sono stati troppi. Tutto questo rumore, per 300 euro. E non si può neanche sapere chi fosse in graduatoria, a che posto. Tanto valeva...». Al Gentileschi l’assegno è stato dato al 33 per cento dei prof. Ogni scuola ha fatto a modo suo: chi l’ha distribuito al 10, chi all’80. E ad ascoltare o leggere reazioni ne sono rimasti scontenti più di quanti non gioiscano di fronte a quest’altro mosaico della legge: chi l’ha ricevuto tace o lamenta criteri e pesi. Chi ne è rimasto escluso borbotta, o asseconda veleni. L’assegno è così diventato presto uno dei tasselli di riforma da riformare, per il nuovo ministro Valeria Fedeli. Fatica alleggerita su altro, però. Pochi giorni dopo l’incarico veniva pubblicato infatti dal Miur un dossier sul risultato più sbandierato della Buona Scuola: l’alternanza scuola-lavoro obbligatoria per gli studenti delle superiori - 200 ore ai licei, 400 a tecnici e professionali. Lo stage (anche in “imprese simulate” in aula, se serve) è diventato obbligatorio per poter accedere all’esame. Devono, insomma. Ma lo stesso è presentato come un successo l’oltre «95 per cento» di alunni partecipanti al piano. «Da noi non ci sono stati problemi, sono percorsi che abbiamo avviato anni fa», racconta Agostino Miele, il dirigente del Gentileschi: «Grazie a un accordo con Valtour, ad esempio, i nostri ragazzi sono in villaggi in tutta Italia». Dal Volta di Reggio Calabria alcuni adolescenti sono volati al Cern. In altre province sono invece i “campioni dell’Alternanza”, battezzati tali dall’ex ministro Stefania Giannini, a garantire formazione sul campo: come commessi di Zara o Mac Donald’s, ad esempio. È il “modello tedesco”? «Mai manderei uno studente da Zara solo per esaurire le ore. Queste esperienze devono avere attinenza a ciò che studiano», risponde Alessandro Parola. E sì che il liceo che dirige, Classico e Scientifico a Cuneo, è in una delle province più povere di aziende registrate all’albo nazionale per gli stage. «Stiamo costruendo rapporti con musei, biblioteche o centri studi come l’Istituto Candiolo sulle malattie tumorali». Percorrendo il registro delle sue preoccupazioni più gravi, Parola insiste però su altro. «La sicurezza degli edifici è responsabilità di noi dirigenti. Ma non ho soldi in cassa per la manutenzione ordinaria. Così mi invento “fund raiser”, trovo bandi da fondazioni bancarie o dalla Ue. Di notte mi sveglio con gli incubi. A fine novembre il prefetto ha consigliato di chiudere le scuole per il maltempo. Al Darwin di Rivoli proprio in quei giorni è caduto un controsoffitto per le infiltrazioni d’acqua». L’ex governo ha previsto fino a sette miliardi e 800 milioni di euro per rendere sicure le scuole. Alla presidenza del Consiglio una squadra coordina le spese. «Aiutiamo a focalizzare gli obiettivi. Come quello fondamentale dell’adeguamento, e non solo del “miglioramento”, sismico. O l’opportunità di costruire nuovi impianti piuttosto che ristrutturare prefabbricati», spiega Laura Galimberti, l’architetto che guida la squadra: «Sono le regioni però a stabilire priorità e lavori. Noi non possiamo intervenire sulle loro scelte». Così non sempre la mappa dei 3.500 edifici scolastici in zona sismica coincide con la mappa dei cantieri aperti, ad esempio. Un’urgenza improrogabile, come mostrano le foto di Rocco Rorandelli, nate per un progetto con Cittadinanzattiva. È finita l’ora. Nell’ultimo tema la professoressa Ibba chiedeva ai ragazzi di immaginare un colloquio con un 50enne cresciuto senza smartphone. «Io che insegno da 25 anni e ho un gruppo di WhatsApp con gli studenti...». Resiliente, la scuola resiste.

Buona scuola? Solo per gli avvocati: è record di ricorsi. Ventotto cause al giorno: il ministero dell’Istruzione non è mai stato così sommerso dalle battaglie giudiziarie. Più di 7mila nel corso del 2016. La maggior parte riguardano concorsi e graduatorie, scrive Francesca Sironi il 2 febbraio 2017 su "L'Espresso". Ventotto cause al giorno. I ricorsi presentati contro il ministero dell’Istruzione e i suoi rami scolastici sono stati settemila e duecentosei nel 2016, di cui 1.340 solo contro la Buona Scuola. Sono i dati dell’Avvocatura generale dello Stato, l’organo legale dell’istituzione, che l’Espresso può pubblicare in queste pagine. I dati mostrano ancora un’altra scenografia dell’impasse in cui versano cattedre e strutture per la formazione: il contenzioso in tribunale. Dal 2012 le battaglie giudiziarie non hanno fatto che aumentare, passando dalle 3.485 di allora alle oltre settemila dell’anno scorso, un ritmo rimasto inalterato nelle prime settimane del 2017. Le associazioni di categoria, le sigle che rappresentano gli interessi di docenti e personale, pubblicano comunicati quotidiani per festeggiare vittorie collettive, sentenze, risarcimenti. Gli avvocati che difendono il Miur da questo sciame di cause spiegano invece come il boom di processi sia una sorta di “fenomeno ciclico”, un’onda puntuale quanto la marea a ogni nuovo bando o concorso per l’ingresso in ruolo; ricordano poi che i massicci numeri di vertenze contro le scuole siano dovuti anche alla mole titanica di docenti e famiglie coinvolte in un’istituzione “in prima linea” come quella educativa. Di certo però il peso delle liti si avverte e aumenta, al centro come in periferia. Michele Gramazio è il presidente dell’associazione dei presidi pugliesi e dice di «essere diventato una sorta di esperto legale, per forza». Ingegnere elettronico, dirigente scolastico dal 2010, negli ultimi tempi si è difeso da solo – difendendo l’istituzione – per tre volte, perché nelle cause di lavoro più semplici, in primo grado, l’avvocatura generale chiede spesso, ormai, agli uffici scolastici regionali di occuparsi direttamente della pratica. È un modo per lasciare che la struttura centrale di Stato si occupi soprattutto dei macro-ricorsi dalle conseguenze più rilevanti per il ministero. Ma sul territorio restano così i presidi a improvvisarsi avvocati. «Io ce l’ho fatta, però di solito l’amministrazione soccombe. E molti miei colleghi sono in difficoltà», racconta Gramazio. Alcune regioni, come l’Emilia Romagna, hanno costituito un piccolo pool regionale, specializzato in codici e leggi. Altre invece lasciano che siano i dirigenti a presentarsi dal giudice. «L’unico supporto che ho ricevuto», ricorda il preside: «È stata una mail con alcuni suggerimenti. «Si consiglia di precisare quanto segue...». Almeno per impostare la difesa». Le vertenze rilevate nel database dell’avvocatura si dividono in quattro blocchi. Quelle che hanno come oggetto “Concorsi e graduatorie che riguardano gli insegnanti” e sono state 4.043 nel 2016, tre volte tanto tre anni fa; poi ci sono le cause intentate dalle famiglie per la “promozione di alunni” - solo 308 l’anno scorso, un numero stabile da tempo; quindi i processi per la responsabilità civile di infortuni accaduti agli studenti, diminuiti dai 1.715 del 2012 ai 1.515 di oggi. E infine, negli ultimi due anni, sono state conteggiate le oltre 1.300 cause contro la Buona Scuola. La riforma macina vertenze anche perché, spiegano gli esperti, quanto più aumentano le variabili, quanto più complessi si fanno i fattori necessari a stabilire per quale ambito, aggregazione, titolo o categoria, ad esempio, qualcuno viene assunto e altri no, quanto più si moltiplicano gli ami a cui si appiglia il contenzioso, e la difficoltà a districarsi per difendere i migliori. E la Buona Scuola ha vinto forse il record in termini di labirinticità burocratica. Servirà la lezione? 

ITALIANI: POPOLO DI IGNORANTI LAUREATI.

Gli antichi popoli citati nella Bibbia inventarono gli alfabeti europei. Egizi, Assiri, Aramei, Caldei, Cananei, Filistei: civiltà bene organizzate. Le iscrizioni e le cronache ci narrano con immediatezza le loro vicende, scrive Livia Capponi il 15 gennaio 2017 su “Il Corriere della Sera”. Assiri, Aramei, Caldei, Cananei, Popoli del Mare, Filistei: i loro nomi affiorano da qualche enigmatico passo della Bibbia: ma chi erano costoro? Non appena ci si avvicina al Vicino Oriente antico, si scopre una varietà di regni, lingue, scritture di impressionante ricchezza, spesso però trascurata a causa di quel complesso di superiorità nei confronti dell’Oriente, definito dallo studioso palestinese Edward Saïd «orientalismo», che caratterizzava molti studiosi europei del secolo scorso, e che abbiamo ereditato dalla nostra beneamata tradizione classica. Il volume della serie La Storia in edicola domani con il «Corriere della Sera» s’intitola Imperi e Stati nazionali dell’età del Ferro e copre il periodo dal 1200 al 539 avanti Cristo. L’oggetto trattato dagli autori nei loro saggi potrebbe sembrare qualcosa di immobile, impenetrabile e perduto. Nulla di più sbagliato. Si tratta di civiltà fortemente burocratizzate, dove iscrizioni, cronache, annali, documenti d’archivio ci restituiscono con immediatezza le parole dei protagonisti a tutti i livelli sociali, dalla propaganda dei re ai registri con le paghe dei lavoratori. A dispetto di quanto si potrebbe pensare, è una storia molto viva, in cui l’economia e il commercio sono il motore di migrazioni e di contaminazioni linguistiche e culturali, e i grandi imperi territoriali si reggono non solo sugli eserciti, ma anche su paci armate raggiunte tramite complessi accordi diplomatici. In più, questo campo di studi è continuamente arricchito da scoperte e progressi interpretativi, che spesso portano a ribaltare le ortodossie di pochi decenni prima. Per la massa di lettere e circolari (fino a 15 mila l’anno) fra i re e la loro burocrazia, l’impero neo-assiro (IX-VII sec. a.C.) è stato soprannominato «impero della comunicazione». Le iscrizioni ufficiali dei re di Ninive contengono dettagliate res gestae rivolte ai posteri, il cui tono insieme tecnico e ieratico ha lasciato un’eco persino in quelle di Augusto. L’ideologia, espressa in modo martellante dall’edilizia e dai testi scritti, afferma che l’attività del re è guidata e favorita dall’ausilio divino. Il sovrano è il vicario in terra del dio nazionale Assur, che rende ogni sua guerra «giusta» per definizione. Il centro del mondo è l’Assiria, buona e santa; la periferia, cattiva e peccaminosa; l’uomo assiro è civile, lo straniero barbaro. In qualche caso le guerre assire sono favorite persino dagli dei del nemico, che, adirati per i suoi peccati, lo abbandonano alla punizione che merita. E la dea venerata in tutta la cultura mesopotamica è Ishtar, contraddittoria come i cicli della natura, capace di essere al tempo stesso vergine e madre, pura e impura, protettrice amorevole e, all’occorrenza, guerriera sanguinosa. Se si confrontano le storie di Israele scritte in Italia nel XX secolo si noterà un cambiamento radicale ed un progressivo distacco dal racconto biblico, a favore delle fonti archeologiche e documentarie. A partire dalla stele del faraone Merenptah (1230 a.C.), il primo documento che cita il nome di Israele fra i popoli sconfitti dall’Egitto, l’archeologia smentisce la notizia dell’Esodo biblico, cioè di una migrazione ebraica dall’Egitto alla terra di Canaan, seguita da una conquista per infiltrazione o aggressione. Pare invece che gli Ebrei, tribù dedite alla pastorizia e poi alla coltivazione di vino e olio, siano sempre stati lì, riconducibili ad uno sviluppo interno. Un’altra stele egiziana poco più antica menziona una tribù di Raham, rivelando il significato di «Abraham» come il «padre dei Raham», e identificando Israele/Giacobbe in un suo discendente che diede il nome al popolo. La storia di re David, così come la racconta la Bibbia, è oggi ritenuta leggendaria. Il rapporto di amore esclusivo che lega il popolo di Israele a Yahweh si può confrontare con il legame fra il re e il popolo nei giuramenti di fedeltà assiri: «Non cercheremo alcun altro re o alcun altro signore per noi». Molti precetti biblici sono stati confrontati con altri codici legali, come quello babilonese di Hammurabi (1750 a.C.), gettando luce sulla koiné giuridica vicino-orientale. La dichiarazione sulle offerte pronunciata durante la liturgia del pranzo pasquale, che costituisce la professione di fede ebraica, inizia con la frase «mio padre era un Arameo errante». Gli Aramei, regno formatosi intorno a casate di origine tribale, lasciano un segno duraturo con la loro lingua, che nell’impero neoassiro diventa un mezzo di comunicazione internazionale, dalla Persia all’Egitto, dalla Siria alla Battriana. Con essa si sviluppa un sistema alfabetico di 22 segni, che prende piede anche nei porti della Fenicia, seguendo le rotte commerciali. Grazie alla sua praticità e adattabilità espressiva, questo alfabeto è adottato da tutte le lingue semitiche dette «cananaiche», incluso l’ebraico, e servirà poi anche per costituire gli alfabeti greci, precursori di ogni sistema di scrittura in Europa.

Impreparati, incompetenti, immaturi: il ceto politico non è mai stato così ignorante. Non si è mai visto un ceto politico così ignorante. Laureati compresi. Colpa della scuola? O di una selezione al contrario? La democrazia rischia di non funzionare se conferisce responsabilità di comando a persone palesemente impreparate, scrive Raffaele Simone il 27 settembre 2017 su "L'Espresso". Anche se la legge elettorale ancora non c’è, le elezioni si avvicinano e gli aspiranti riscaldano i muscoli. Tra i più tenaci candidati a capo del governo ce n’è uno giovanissimo (31 anni appena compiuti), facondo, con cipiglio, determinato e ubiquo, ma non ugualmente solido in quel che un tempo si chiamava “bagaglio culturale”. Dalla sua bocca escono senza freno riferimenti storici e geografici sballati, congiuntivi strampalati, marchiani errori di fatto, slogan e progetti cervellotici (recentissimi l’Italia come smart nation e la citazione dell’inefficiente governo Rajoy come suo modello), anche quando si muove in quella che dovrebb’essere la sua specialità, cioè quel mix indistinto di nozioni e fatterelli politico-storico-economici che forma la cultura del politico di fila. Inoltre, Luigi Di Maio (è di lui che parlo) non è laureato. Si è avvicinato al fatale diploma, ma per qualche motivo non lo ha raggiunto. Nulla di male, intendiamoci: pare che in quel mondo la laurea non sia più necessaria, neanche per le cariche importanti. Nel governo Gentiloni più di un ministero è presidiato da non laureati e non laureate: istruzione e salute, lavoro e giustizia. Se questa non è forse la “prevalenza del cretino” preconizzata da Fruttero e Lucentini, è di certo la prevalenza dell’ignorante. Infatti la legislatura attuale ha una percentuale di laureati tra le più basse della storia: di poco sopra il 68 per cento, un dato che mette tristezza a confronto col 91 per cento del primo Parlamento repubblicano… Qualche settimana fa la Repubblica ha offerto lo sfondo a questo spettacolo, mostrando con tanto di tabelle che la riforma universitaria detta “del 3+2”, testardamente voluta nel 2000 dai non rimpianti ministri Berlinguer e Zecchino al grido di “l’Europa ce lo chiede!”, è stata un fiasco. I laureati sono pochi, non solo nel ceto politico ma nel paese, in calo perfino rispetto a quelli del 2000, ultimo anno prima della riforma. L’età media del laureato italiano è superiore ai 27 anni e la laurea triennale non serve (salvo che per gli infermieri) a nulla. I giovani che concludono il ciclo di 5 anni (il “3 + 2”) sono addirittura meno del totale di quelli che vent’anni fa si laureavano coi vecchi ordinamenti (durata degli studi 4, 5 o 6 anni). Per giunta, per completare la laurea triennale ci vogliono 4,9 anni, per quella quinquennale più di 7,4! Quindi, l’obiettivo principale della riforma, che era quello di aumentare il tasso di laureati, è mancato. Le cause? Certamente non sono quelle che ha suggerito, nel suo intervento a Cernobbio agli inizi di settembre, la non laureata ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli: la colpa dei pochi laureati, ha suggerito (lei ex sindacalista!), è delle «famiglie a basso reddito», che non trovano più buoni motivi per spingere i figli a laurearsi. Non ha pensato, non avendolo frequentato, che invece è tutto il sistema universitario che andrebbe, come le case abusive, abbattuto e riprogettato. Quindi, se il paese è conciato così, come possiamo pretendere che il personale politico sia meglio? Ma non è finita. Un altro guaio, più serio, sta nel fatto che il ceto politico attuale, e ancor più (si suppone) quello che gli subentrerà al prossimo turno, ha un record unico nella storia d’Italia, di quelli che fanno venire i brividi: i suoi componenti, avendo un’età media di 45,8 anni (nati dunque attorno al 1970), sono il primo campione in grandezza naturale di una fase speciale della nostra scuola, che solo ora comincia a mostrare davvero di cosa è capace. Perché dico che la scuola che hanno frequentato è speciale? Perché è quella in cui, per la prima volta, hanno convissuto due generazioni di persone preparate male o per niente: da una parte, gli insegnanti nati attorno al 1950, formati nella scassatissima scuola post-1968; dall’altra, quella degli alunni a cui dagli anni Ottanta i device digitali prima e poi gli smartphone hanno cotto il cervello sin dall’infanzia. I primi sono cresciuti in una scuola costruita attorno al cadavere dell’autorità (culturale e di ogni altro tipo) e della disciplina e all’insofferenza verso gli studi seri e al fastidio verso il passato; i secondi sono nati in un mondo in cui lo studio e la cultura in genere (vocabolario italiano incluso) contano meno di un viaggio a Santorini o di una notte in discoteca. Prodotta da una scuola come questa, era forse inevitabile che la classe politica che governa oggi il paese fosse non solo una delle più ignoranti e incompetenti della storia della Repubblica, ma anche delle più sorde a temi come la preparazione specifica, la lungimiranza, la ricerca e il pensiero astratto, per non parlare della mentalità scientifica. La loro ignoranza è diventata ormai un tema da spot e da imitazioni alla Crozza. I due fattori (scarsità di studi, provenienza da una scuola deteriorata), mescolati tra loro, producono la seguente sintesi: non si è mai visto un ceto politico così incompetente, ignorante e immaturo. I risultati sono sotto gli occhi di tutti, nelle parole, le opere e le omissioni. Si dirà, come al solito, che il grande Max Weber lo aveva profetizzato già nel famoso saggio sulla Politica come professione (1919): «lo Stato moderno, creato dalla Rivoluzione» spiega «mette il potere nelle mani di dilettanti assoluti […] e vorrebbe utilizzare i funzionari dotati di preparazione specialistica solo come braccia operative per compiti esecutivi». Ma il povero Max non poteva prevedere le novità cool dei nostri tempi: per dirne una, la rabbiosa spinta che il movimento di Beppe Grillo avrebbe dato alla prevalenza dell’incompetente.

Il caso di Virginia Raggi, per esempio, è da trattato di sociologia politica. Pronuncia carinamente l’inglese, ma è un’icona fulgente dell’incompetenza e dell’improvvisazione. Lo mostra, tra le mille cose, il suo incessante fare e disfare alla ricerca di assessori, alti funzionari e dirigenti per le partecipate: li raccatta dalle più varie parti d’Italia, senza distinguere tra accademici e gestori di night, li licenzia di punto in bianco, non vede che la città affonda nella monnezza e nell’incuria e intanto, svagata e placida, esibisce al popolo sfinito la più granitica certezza del radioso futuro della Capitale. Max Weber non avrebbe mai immaginato neppure che i destini della Capitale potessero esser telegovernati da un paio di signori che nessuno ha eletto, o che una deputata, che nella vita faceva la ragioniera, sarebbe arrivata a spiegare col forte caldo la lieve ripresa estiva del Pil. Gli incompetenti si sono procurati ulteriore spazio sfruttando senza ritegno il tormentone del rinnovamento di generazione, che, partito dall’Italia, ha contagiato quasi tutt’Europa. Esser giovane in politica è ormai un titolo di merito di per sé, indipendentemente dal modo in cui la giovinezza è stata spesa, anche se i vecchi sanno bene che la giovinezza garantisce con sicurezza assoluta solo una cosa: l’inesperienza, una delle facce dell’incompetenza.

La cosa è talmente ovvia che nel 2008 la ministra Marianna Madia, eletta in parlamento ventiseienne, non ancora laureata, dichiarò che la sola cosa che portava in dote era la sua “inesperienza” (sic). La lista che ho appena fatto non contiene solo piccoli fatti di cronaca. Se si guarda bene, è una lista di problemi, perché suscita due domande gravi e serie. La prima è: a cosa dobbiamo, specialmente in Italia, quest’avanzata di persone che, oltre che giovanissime, sono anche I-I-I (“incompetenti, ignoranti e immaturi”)? È la massa dei somari che prende il potere, per una sorta di tardivo sanculottismo culturale? Sono le “famiglie di basso reddito” della Fedeli, ormai convinte che i figli, invece che farli studiare e lavorare, è meglio spingerli in politica? Oppure è l’avanzata di un ceto del tutto nuovo, quello dell’uomo-massa, di cui José Ortega y Gasset (in La ribellione delle masse) descriveva preoccupato l’emergere?

«L’uomo-massa si sente perfetto» diceva Ortega y Gasset, aggiungendo che «oggi è la volgarità intellettuale che esercita il suo imperio sulla vita pubblica». «La massa, quando agisce da sola, lo fa soltanto in una maniera, perché non ne conosce altre: lincia». È una battutaccia da conservatore? Oppure la dura metafora distillata da un’intelligenza preveggente? Comunque la pensiate, queste parole non sono state scritte oggi, ma nel 1930. Forse l’avanzata della «volgarità intellettuale» era in corso da tempo e, per qualche motivo, non ce ne siamo accorti.

La seconda domanda seria è la seguente: la democrazia può funzionare ancora se conferisce responsabilità di comando a persone dichiaratamente I-I-I? Forse in astratto sì, se è vero che (come pensava Hans Kelsen) la democrazia è «il regime che non ha capi», nel senso che chiunque può diventare capo. In un regime del genere, quindi, chiunque, anche se del tutto I-I-I e appena pubere, può dare un contributo al paese. Napoleone salì al vertice della Francia a 29 anni e Emmanuel Macron (suo remoto emulo, dileggiato dagli oppositori col nomignolo di Giove o, appunto, di Napoleone) è presidente della Repubblica a 39. Nessuno di loro aveva mai comandato le armate francesi o governato la Repubblica. Ma ammetterete senza difficoltà che tra loro e Luigi Di Maio (e tanti suoi colleghi e colleghe con le stesse proprietà, del suo e di altri partiti) qualche differenza c’è.

Ocse: pochi laureati e bistrattati. Studenti del Sud indietro di un anno. Pochi laureati, poco preparati e bistrattati. Il divario della performance tra gli studenti della provincia autonoma di Bolzano e quelli della Campania equivale a più di un anno scolastico. Così l’Ocse nel rapporto sulla "Strategia per le competenze" 2017. “L’Italia, negli ultimi anni, ha fatto notevoli passi in avanti nel miglioramento della qualità dell’istruzione”, ma forti sono le differenze nelle performance degli studenti all’interno del Paese, “con le regioni del Sud che restano molto indietro rispetto alle altre”, tanto che “il divario della performance in Pisa (gli standard internazionali di valutazione) tra gli studenti della provincia autonoma di Bolzano e quelli della Campania equivale a più di un anno scolastico”. “Solo il 20% degli italiani tra i 25 e i 34 anni è laureato rispetto alla media Ocse del 30%”. Inoltre “gli italiani laureati hanno, in media, un più basso tasso di competenze” in lettura e matematica (26esimo posto su 29 paesi Ocse). Non solo. L’Italia è “l’unico Paese del G7” in cui la quota di lavoratori laureati in posti con mansioni di routine è più alta di quella che fa capo ad attività non di routine. In inglese il fenomeno è noto come "skills mismatch", in italiano si potrebbe tradurre con "dialogo tra sordi", dove i due potenziali interlocutori sono il lavoratore e il posto di lavoro. Insomma le competenze non risultano in linea con la mansione. Cosa da noi “molto diffusa”, spiega l’Ocse in un dossier specifico sulla materia. “Il livello dei salari in Italia è spesso correlato all’età e all’esperienza del lavoratore piuttosto che alla performance individuale, caratteristica che disincentiva nei dipendenti un uso intensivo delle competenze sul posto di lavoro”. “Attualmente l’Italia è intrappolata in un "low-skills equilibrium", un basso livello di competenze generalizzato: una situazione in cui la scarsa offerta di competenze è accompagnata da una debole domanda da parte delle imprese”. Insomma da una parte la forza lavoro non si presenta sul mercato preparata, attrezzata a svolgere le diverse mansioni possibili, dall’altra le aziende non pretendono.

La scuola superiore? È ancora un fatto di classe (sociale). Meno di un diplomato al liceo classico su 10 è figlio di operai e impiegati. Perché il fattore socio-economico è determinante nelle scelte dei ragazzi dopo le medie. Un gap di partenza che non abbiamo superato. E che incide nelle scelte universitarie, scrive Cristina Da Rold il 31 marzo 2017 su "L'Espresso". Il fatto che 7 diplomati su 10 abbiano intenzione di iscriversi all'università non è sufficiente per poter dire di essere sempre più vicini a rendere davvero equo l'accesso all'università. Il gradiente sociale che emerge se si considera la classe socio-economica di appartenenza dei giovani diplomati a seconda del tipo di diploma è infatti drammaticamente evidente. Anche se frequentare un liceo pubblico costa allo stesso modo di un istituto tecnico o di uno professionale, un terzo di chi si diploma al liceo proviene da famiglie di classe sociale considerata “elevata”, mentre solo il 17 per cento da famiglie che lavorano nell'esecutivo. Lo mostrano i dati raccolti da AlmaDiploma , la “sorella” di Almalaurea che ogni anno cerca di fare il punto sulle condizioni dei ragazzi prima che essi arrivino all'università. Per capire meglio di cosa stiamo parlando vale la pensa sciogliere un po' questa nomenclatura. Secondo le categorie di AlmaDiploma la classe sociale considerata “elevata” è rappresentata da liberi professionisti (medici, avvocati), dirigenti, docenti universitari e imprenditori con almeno 15 dipendenti. La classe “media impiegatizia” comprende impiegati con mansioni di coordinamento, direttivi o quadri intermedi e insegnanti, mentre la “classe media autonoma” coadiuvanti familiari, soci di cooperative e imprenditori con meno di 15 dipendenti. Infine, la classe del lavoro esecutivo è composta da operai, da qualsiasi forma di lavoratore subalterno e assimilato e da tutti coloro che sono considerati “impiegati esecutivi”, con contratti di varie forme e colore. Una specifica che rende ancora più rilevante il fatto che solo un liceale su 6 provenga da una famiglia che lavora nell'esecutivo. Si tratta in realtà di una stima al rialzo. Se consideriamo solo le due “roccaforti”, cioè il liceo classico e il liceo scientifico, il gradiente è ancora più evidente: il 45% dei diplomati nel 2016 nei licei classici è figlio di professionisti, dirigenti, docenti universitari, imprenditori, contro un 8,7% rappresentato da figli di operai e di impiegati. Simile la situazione per i licei scientifici, dove quest'ultima categoria rappresenta il 13,1%, tendendo a preferire, come formazione liceale, i licei delle scienze umane e i licei artistici. Certo, si tratta di un sondaggio, non di una raccolta svolta a tappeto, scuola per scuola. Leggendo il rapporto di AlmaDiploma si apprende infatti che questi dati rappresentano 261 istituti per un totale 43.171 studenti esaminati: 61 nel Lazio, 45 in Lombardia, 40 in Emilia Romagna, 26 in Liguria, 22 in Puglia, 20 in Toscana, 12 in Trentino-Alto Adige, 11 in Sicilia, 9 in Veneto e 15 in altre 7 regioni italiane. Perfettamente omogenea invece la proporzione di studenti esaminata per classe sociale. È ampiamente sottorappresentato il sud, ma anche per questo si tratta di dati interessanti perché ci tolgono dall'imbarazzo di pensare che forse questo gap così marcato rifletta in qualche modo un gradiente geografico, dal momento che solo una piccola parte di questi dati proviene dalle scuole del Meridione. Colpisce molto anche ciò che emerge dalle domande che AlmaDiploma pone ai giovani riguardo al loro prossimo futuro. Se filtriamo i risultati per i liceali italiani, coloro cioè che si presuppone più di tutti proseguiranno gli studi, fra coloro che non intendono iscriversi all'università, quasi il 30% appartiene alla classe dell'esecutivo, che ricordiamo costituisce solo il 15% del totale dei diplomati liceali. Inoltre, sempre solo considerando i liceali, il 30% di chi viene bocciato 2 o più volte appartiene alla classe sociale più bassa, contro il 17% della classe elevata. E di nuovo, ricordiamo che i primi rappresentano solo il 17% del totale degli iscritti ai licei. Un dato che ci fa riflettere ancora una volta sul substrato sociale che stiamo costruendo, e su quanto le condizioni di partenza possano incidere sulle attuali possibilità di un giovane nato in una famiglia con meno possibilità di altre di partenza, di seguire il medesimo percorso di un suo coetaneo e di usufruire delle migliori possibilità formative, curriculari e non. Vale la pena per esempio soffermarsi sulle percentuali di diplomati che hanno effettuato un soggiorno di studio all'estero, a seconda del tipo di scuola superiore considerata. Ancora una volta il gradiente si fa sentire: anche escludendo il liceo linguistico, che per ovvie ragioni propone molte attività di questo tipo, i giovani che fanno questo tipo di esperienza sono il doppio nei licei rispetto agli istituti tecnici o professionali. In media 4 ragazzi su 10 del classico e dello scientifico hanno usufruito di periodi di studio all'estero contro il 15% degli istituti professionali. Il divario aumenta se si considerano solo i soggiorni lunghi, superiori alle 2 settimane, prerogativa scelta da un liceale su 10 e da un diplomato professionale su 100. Si possono guardare questi dati da diversi punti di vista, per esempio notando il fatto che il 33% di chi ha intenzione di iscriversi all'università e contemporaneamente cercare un lavoro, proviene dalle classi sociali elevate. Tuttavia, in termini di disuguaglianze sociali il punto di osservazione – dicono gli esperti – deve essere quello dell'elemento più vulnerabile. Il punto di vista più interessante non è infatti che i figli delle classi sociali più elevate non scelgano le scuole professionali, come è facilmente prevedibile, o che tendano a proseguire gli studi dopo il diploma: l'elemento cruciale per valutare gli estremi di una società disuguale è capire perché ancora oggi meno di un diplomato al liceo classico su 10 sia figlio di operai e impiegati. Un possibile risultato di questo trend lo raccontava un anno fa AlmaLaurea, mostrando come chi proviene da famiglie più istruite sia più propenso a intraprendere percorsi di studio più lunghi, le famose “lauree a ciclo unico”, come medicina e giurisprudenza. Un dato su tutti: il 43% dei laureati in medicina proviene da classi sociali elevate (cioè con entrambi i genitori laureati), e in generale il 34% degli iscritti a corsi di laurea magistrale a ciclo unico. I figli di operai e impiegati rappresentano solo il 15% dei laureati magistrali a ciclo unico, cioè del neo-medici e dei neo-avvocati, contro un 34% costituito dai figli della classe sociale più elevata. Viene da chiedersi dunque se si tratta solo di una condizione economica, specie alla luce del recente dibattito sul Reddito di Inclusione per le famiglie meno abbienti, o se dietro ci sia dell'altro, barriere culturali e sociali. Quello che è certo è che in ballo vi è anche la composizione stessa della classe dirigente del domani.

L'italiano degli studenti? Ci lascia senza parole. Uno studio rivela: i ragazzi (dalle medie inferiori all'università) hanno seri problemi con la lingua. Impera un minimalismo pop. E ogni pensiero poco più che elementare è ignorato, scrive Massimo Arcangeli, Giovedì 1/06/2017, su "Il Giornale". Lo Zanichelli Junior è un dizionario molto ben strutturato, di 36.000 voci, 64.000 significati, 55.000 esempi, 43.000 sinonimi, contrari e analoghi, 450 note grammaticali e d'uso. Redatto da nove diversi autori, si apre con la dichiarazione di voler aiutare «gli studenti della scuola secondaria ad ampliare il lessico, approfondire la conoscenze e scrivere meglio» (Presentazione, pag.3). Studenti che ringrazieranno. Il mondo sarà anche barocco come pensava Carlo Emilio Gadda, che scrisse una volta di sé di essere ingordo di voci doppie, triple o quadruple per dire la stessa cosa («I doppioni li voglio, tutti, per mania di possesso e per cupidigia di ricchezze: e voglio anche i triploni, e i quadruploni, sebbene il Re Cattolico non li abbia ancora monetati: e tutti i sinonimi, usati nelle loro variegate accezioni e sfumature, d'uso corrente, o d'uso raro rarissimo», Lingua letteraria e lingua dell'uso, 1942), ma su tanti giovani e giovanissimi, con la complicità di molti (scuola, università, editoria in testa), impera ormai un minimalismo pop in nome del quale si vorrebbe abbattere tutto ciò che appaia di ostacolo alle esigenze di una comunicazione tanto pervasiva quanto refrattaria ad accogliere anche solo un minuzzolo di pensiero complesso. È l'inganno dell'accessibilità, o l'illusione della semplicità. Farebbe rivoltare nella tomba perfino il Manzoni, con il suo «potatorio» provincialismo di bottega. Parlano chiaro gli esiti di un test nazionale, realizzato dal sottoscritto e da Claudia Colafrancesco per l'associazione «La parola che non muore», che ha visto coinvolti quasi 900 studenti della scuola secondaria di primo e secondo grado, in maggioranza liceali (più dell'80% del campione delle superiori) e, per il rimanente, iscritti ad alcuni istituti tecnici e professionali; tre quarti di loro, provenienti da una buona metà delle regioni italiane, frequentano la media superiore, i restanti la media inferiore. Agli studenti testati si è chiesto di contestualizzare - dopo averne indicato uno o più sinonimi - trenta parole più o meno «difficili», e la bassissima percentuale delle risposte corrette ottenute induce a riflettere. Più del 70% degli esaminati non ha la più pallida idea di cosa significhino desumere, futile, morigerato, ponderare, redimere, tenacia, tergiversare; sono appena meno numerosi quelli che non conoscono arguire, dirimere, indolenza, redarguire; non raggiunge il 70% la quota di chi comprende aroma, la parola - insieme a menzionare - meno impegnativa della serie. Per ponderare è stato scritto di tutto: c'è chi ha pensato a sedersi («Prego, ponderati sulla sedia») o a riposare, chi a scendere o a rinfilare («Angelo ha ponderato la sua spada»), chi a pungere, puntellare o stuzzicare, chi a ricoprire («Il divano è ponderato di polvere»), chi a svelare («Luca ha ponderato tutti i suoi segreti alla classe»). Ma gli studenti medi non sono i soli ad avere problemi con il lessico colto dell'italiano, o con le parole che si attestano su un gradino immediatamente sopra l'uso comune, su un registro appena sostenuto, o con i termini di una formalità discreta o in ogni caso poco pronunciata. «Lui è l'adepto alla manutenzione». «L'afflizione dei nuovi manifesti». «Collimare un vuoto». «Son desueto nel dormire nel dopopranzo». «Io esimo spiegazioni». «Si è assentato da lavoro senza giustificazione. È un indigente». «Ti redimo dal tuo incarico». Sono solo alcuni degli esempi partoriti dalle 196 matricole di un corso universitario cagliaritano (141 femmine e 55 maschi) alle quali ho sottoposto, nell'autunno del 2012, un test identico a quello somministrato al precedente campione: le prime quattro confondono adepto, afflizione, collimare e desueto con addetto, affissione, colmare, solito; le restanti tre scrivono esimere, indigente e redimere, ma intendono pretendere, inadempiente, sollevare. Abbietto, accibia, diatrima, emonumento (o emulumento), igniquo, ligore, otenebrare, perspicacie, procastinare, sorbido invece di abietto, accidia, diatriba, emolumento, iniquo, livore, ottenebrare, perspicace, procrastinare, sordido. Perle prodotte da più di un terzo di 13 studenti italiani (madrelingua) di secondo anno, di un ateneo privato padovano, interpellati con le stesse modalità su esposte. Le parole interessate, dettate in modo nitido e molto lentamente (quasi a sillabarle, nemmeno fossero vocaboli stranieri), erano qui parte di un insieme di 35 parole comprendenti algido, auspicare, caparbio, cattività, congettura, defezione, duttile, emendare, greve, indefesso, monile, nemesi, orpello, peculiare, perentorio, pernicioso, pleonastico, progenitore, relegare, strabiliante, svellere, tracotante, turpe, vacante, zelo. Significativo, di quei 13 studenti, il numero di chi ha lasciato in bianco il rigo relativo all'una o all'altra voce, non sapendone indicare né sinonimi né esempi d'uso: 11 per ottenebrare e svellere, 10 per orpello, pleonastico, sordido, 10 per livore, nemesi, indefesso, 9 per abietto. Per alcuni di loro l'accidia è desiderio, acidità o cattiveria; la congettura è una regola, e un orpello è un rumore; un emolumento è un bonifico, e la defezione un difetto o un'imprecisione («Era presente una piccola defezione nel contratto»); la nemesi è un nemico o un antagonista, o addirittura un prologo. Per altri una persona caparbia è saggia o intelligente, una abietta è povera, inetta, incapace; dire algido è significare gelatinoso, dire greve è intendere goffo («i suoi movimenti sono difficili e grevi»); una cosa iniqua è scarsa («I fondi rimasti sono iniqui»), ingenua, indifferente o inconsapevole, una peculiare è molto similare («la descrizione è peculiare all'artefatto»). Per altri ancora vacante significa instabile; relegare vuol dire unire o assegnare; procrastinare ed emendare esprimono il valore di tramandare e stabilire. Di svellere si danno, come sinonimi, rivelare e spogliare («L'uomo non voleva svellere la donna»); progenitore viene spiegato ora con trascendenza, ora con inventore, ora con genitore non naturale; i bizzarri coprente, selvaggio e trasferente rendono zelo, cattività e duttile, ma lo zelo può anche rivelarsi un'espansione o un'apprensione. Un tracotante è un pedante, ma può essere tracotante (leggi: traboccante) anche un vaso. Ciò che è pleonastico è una pietra miliare («quello di domani sarà un evento pleonastico»), relegare è come dire affidare a qualcun altro («ha relegato i suoi doveri al fratello»; qui il galeotto è delegare), sordido è il rumore generato da una scrosciante massa d'acqua o rilevato in un ambiente («Sentii un rumore sordido provenire dalla cucina»). Sarebbe sordo, ovviamente. Ma pensiamo alla possibilità di sonorità soffocate o smorzate per le cascate del Niagara, o dell'Iguazú, e ci passa subito la voglia di andarle a vedere. Se oggi il numero di chi scrive in modalità digitale, confrontato con quello degli scriventi dell'era predigitale (anche solo di una ventina di anni fa), è molto più elevato, va registrata, per molti giovani, l'insufficienza di una lingua (e di una logica) che abbia almeno un pizzico di riguardo per la varietà lessicale e lo spessore semantico e, più in generale, si ancori a una qualunque terra o attecchisca in un qualunque terreno. Se ne sono accorti anche gli oltre 600 accademici firmatari della lettera con cui, non è molto, si sono appellati al governo per un sollecito intervento in materia cui non è seguita, però, alcuna risposta. La settimana scorsa, in una conferenza stampa convocata in uno storico liceo romano, i 600 e più sono tornati alla carica e stavolta qualcuno, al Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca, si è almeno preso la briga di prendere il telefono e di chiamare, manifestando interesse per l'iniziativa, gli organizzatori della raccolta di firme. In fondo i sottoscrittori non chiedono troppo, e il loro appello è tutt'altro che vano. E comunque, riprendendo ancora Gadda: «Non esistono il troppo né il vano per una lingua».

Se l’analfabetismo viene dalla testa…

Polizia, errori nei test d’ingresso «Sardegna e Campania? Confinano». Il primo concorso dopo 19 anni: 180mila candidati per 1.148 posti. L’Ufficio concorsi: 10 errori su seimila quesiti per l’esame di cultura generale. Fra gli altri svarioni: le Langhe in Toscana e il ministero degli Esteri a Montecitorio, scrive Rinaldo Frignani il 11 luglio 2017 su "Il Corriere della Sera". «Con chi confina la Sardegna?». Per chi ha preparato i quiz per il concorso da allievo agente di polizia (dopo ben 19 anni dall’ultima prova) la risposta è «la Campania». Ma di soluzioni sbagliate fra i seimila quesiti ce ne sono altre: le Langhe in Toscana, il ministero degli Esteri a Montecitorio, l’entrata in guerra dell’Italia il 24 maggio 1942. Errori grossolani, ma anche fisiologici, in un supertest di cultura generale che a settembre sarà affrontato alla Fiera di Roma da circa 180 mila candidati per 1.148 posti da poliziotto. «Ci appelliamo al capo della polizia affinché si possa affidare una rilettura professionale di tutti i quesiti ai funzionari di polizia. È paradossale - spiega il segretario nazionale della Consap, Stefano Spagnoli - che si spendano soldi pubblici per acquistare da privati test impresentabili». Scorrendo l’elenco dei quesiti, da pochi giorni sul sito della polizia, si scoprono anche cose curiose. Ai futuri agenti verrà chiesto: «Chi è il preside della scuola di Harry Potter?». Il sindacato dei poliziotti sollecita «una circolare per salvaguardare i candidati sulla valutazione che sarà data a risposte di fantasia», alle domande incriminate, stigmatizzando «il danno d’immagine per la polizia che potrebbe essere contestato alla società che ha fornito i quiz». L’Ufficio concorsi ha già avviato una procedura in tal senso: «Le risposte sbagliate sono meno di dieci su 6mila quesiti, entro pochi giorni saranno tutte corrette», assicurano. 

Traccie con la «i» sul sito del Miur Sfottò in Rete per il ministero. Errore blu di ortografia sul sito del ministero dell’Istruzione proprio alla vigilia della Maturità. La «svista» ha fatto subito il giro dei social network. Le scuse del ministero, scrive Gianna Fregonara 19 giugno 2017 su "Il Corriere della Sera". Errore blu di ortografia sul sito del ministero dell’Istruzione proprio alla vigilia della Maturità. Gli studenti ansiosi in vista della prova di Italiano di domani che hanno cercato lumi sul sito dedicato agli Esami di Stato non hanno trovato nulla di utile ma hanno avuto modo di farsi una bella risata: campeggiava infatti un bel «traccie», con la «i» in mezzo tra la c e la e, proprio sulla pagina dedicata alla prima prova. La foto dell’errore ha fatto subito il giro dei social network, il ministero ha corretto e si è ufficialmente scusato: colpa della società di informatica che gestisce in queste ore gli aggiornamenti della pagina web dedicata agli esami di maturità. «Abbiamo visto il refuso sul sito degli esami di Stato e siamo subito intervenuti — si legge nella nota diffusa dal Miur —. Si tratta di un errore di battitura, che naturalmente non doveva esserci». Già perché la regola, sfuggita al tecnico che è intervenuto sul sito, è una questione puramente ortografica che si impara tra la prima e la seconda elementare: al plurale i sostantivi femminili che terminano con -cia e -gia, perdono la «i» se la sillaba è preceduta da una consonante: chi non si ricorda la spiegazione della maestra? L’errore ha scatenato ironia e commenti poco incoraggianti, che hanno portato all’indagine interna al ministero. Adesso tutto è corretto, ma ragazzi domani mattina state attenti, un errore così a voi potrebbe costare molto più caro.

Errore d'ortografia sul sito della Maturità. Critiche sui social. E il ministero si scusa. Apparsa la scritta "traccie" con la 'i'. Poi una nota da viale Trastevere: "Un errore di battitura generato dal fornitore tecnico che inserisce i contenuti", scrive il 20 giugno 2017 "La Repubblica". Un errore d'ortografia non poteva passare inosservato, specie sul portale del ministero dell'Istruzione. Ancora di più alla vigilia dell'esame di Maturità. E così molti sono sobbalzati vedendo che il richiamo alla pagine delle tracce degli anni passati veniva annunciato, sulla home page del nuovo sito dedicato all'esame di Stato, con un'improbabile scritta "traccie" nella quale campeggiava una "i" di troppo. L'immagine è stata fotografata e rilanciata sui social network scatenando commenti ironici e inserendosi nel flusso di studenti e familiari che condividevano in rete ansie e curiosità preliminari alle prove scritte. E alla fine è dovuto intervenire il dicastero di viale Trastevere, che nella tarda serata di lunedì ha diffuso una nota spiegando di aver visto "il refuso sul sito degli esami di Stato" e di essere "subito intervenuti per farlo correggere": "Si tratta di un errore di battitura, di un errore materiale che, naturalmente, non doveva esserci, tanto più su una pagina che riguarda gli esami", aggiunge il ministero. E in effetti il cortocircuito dell'errore elementare nella pagina del supremo organo destinato a gestire l'istruzione nazionale è stato sottolineato senza pietà anche dopo la correzione. Secondo il Miur la responsabilità sarebbe però da attribuire all'esterno: "Il fornitore tecnico che gestisce l'inserimento dei contenuti sul sito del Ministero - precisa la nota - ci ha fatto pervenire una lettera di scuse per l'episodio accaduto che arreca un danno d'immagine alla nostra istituzione".

Il trionfo degli analfabeti: non si è mai scritto tanto e tanto male. Dagli strafalcioni grammaticali dei politici alla dealfabetizzazione resa evidente dai social network, oggi siamo circondati dalla brutta scrittura. E non si tratta di un fenomeno solo italiano, scrive Raffaele Simone il 13 aprile 2017 su "L'Espresso". L’italiano è in declino? I giovani lo stanno perdendo? Nelle settimane scorse queste domande hanno rifatto capolino per via di un fait-divers: 600 professori universitari, tra i quali alcuni nomi noti, hanno scritto una lettera al capo del governo, al ministro dell’istruzione e alla stampa, per denunciare che «alla fine del percorso scolastico troppi ragazzi scrivono male in italiano, leggono poco e faticano a esprimersi oralmente» e commettono «errori appena tollerabili in terza elementare». Forti di questa diagnosi, i Seicento hanno stabilito che la colpa è della scuola, troppo disinvolta e liberale: ne chiedono quindi una «davvero esigente nel controllo degli apprendimenti oltre che più efficace nella didattica». Dopo questo rullo di tamburi, che sembrava annunciare chissà quale carica, i Seicento si sono limitati però a proporre qualche ritocchino qua e là all’organizzazione della scuola, di portata così modesta da sembrare, più che un manifesto di riscossa, un post-it passato da un preside ai suoi docenti. Del resto, qualche giorno dopo, quasi a farlo apposta, l’appello ha trovato una brutale conferma nei fatti: in un concorsone per maestri, la metà dei candidati si sono lasciati andare a plateali svarioni e castronerie. Comunque sia, benché il documento fosse scritto in una prosa malferma e burocratica e non tutti i Seicento siano noti come campioni di bello stile, non c’è dubbio che il dominio dell’italiano da parte dei giovani sia in grave declino. Nei miei decenni all’università ho incontrato non meno di dieci coorti di ragazzi, e posso confermare per esperienza diretta che uno smottamento linguistico e culturale presso i giovani era evidente almeno dagli anni Ottanta.

La questione si può affrontare a diversi livelli. Se vogliamo solo farci quattro risate, potremo fare collezioni di un po’ e fà, di un'elemento e i zoccoli ecc. Ci sorprenderà che solo pochi padroneggino l’apostrofo e gli accenti, distinguano sì (segno di assenso e avverbio multiuso) da si, sappiano come si scrivono soqquadro, acquitrino e intravvedere, e coi congiuntivi se la cavino meglio di Di Maio. Va detto però che strafalcioni non si trovano solo nel linguaggio dei giovani, ma affiorano anche in prose premium. Le scemenze pullulano sui maggiori media del paese, nei quali la punteggiatura è ormai traballante, il passato remoto è scomparso (Giulio Cesare è nato…) e la virgola dopo il vocativo è solo dei cruscanti. A un livello un po’ più complesso, ci sorprenderà vedere (esperienza personale) che neanche uno degli studenti di un corso specialistico conosca il senso di imbelle, imberbe, inerme, empio, beffardo e tanti altri aggettivi di questo tono. La sorpresa sarà ancora maggiore scoprendo che nessuno o quasi è in grado di completare un proverbio che a voi pare ovvio (tanto va la gatta al lardo…, bandiera vecchia…). Ma se vogliamo andare un po’ a fondo, bisognerà dire (e ricordare ai Seicento) che a indebolirsi non è la “lingua italiana” come materia scolastica. È molto di più: non stanno andando in fumo solo l’ortografia, la grammatica, la sintassi e il lessico, ma tutta quella formidabile macchina mentale (un tesoro dell’Occidente) con cui si acquista, conserva, elabora la conoscenza. Parlo insomma dell’intera attrezzatura che si usa per acquisire conoscenze e elaborarle, esporle, farle valere, ricordarle, usarle nella pratica.

Qualcuno cercherà di consolarci ricordandoci che il declino, se c’è, colpisce tutti i paesi avanzati. Il saggio The Closing of the American Mind di Allen Bloom, che descriveva con allarme cose esattamente di quel genere che accadevano negli USA, è del 1987. A un livello più basso, in Francia nel 2016 si sono visti costretti a sopprimere per legge alcune trappole ortografiche, tanti erano gli errori (anche dei colti) nella scrittura. Sono state modificate una quantità di grafie ingannevoli (oignon “cipolla” si potrà scrivere anche ognon); poi, arrendendosi al fatto che per i giovani il circonflesso è ormai solo un dettaglio delle faccine, lo si è abolito su i e su u (chissà perché, non su a)! Quindi, per dire, la maîtresse sarà d’ora in poi una maitresse… Questo tentativo di consolazione si può leggere però anche come un allarme da horror: l’attacco ai meccanismi del conoscere (ortografia inclusa) non è locale, ma planetario, e questa non è fantascienza. Ma chi sono i nemici? Non sappiamo dove sono, ma sappiamo chi sono. Da almeno trent’anni i giovani si trovano nella tenaglia di un mondo che è insieme descolarizzante e dealfabetizzante. Quanto al primo punto, è un mondo pieno di attrazioni, tentazioni, trappole seducenti, inviti, richiami a esperienze facilmente accessibili (droga inclusa). Insomma, nel complesso, un mondo così terribilmente attraente che al confronto la scuola, con tutto quel che comporta (pazienza, attenzione, ripetizione, silenzio), ha perduto mordente e appare piuttosto come una gran noia. La vita fuori è mille volte più libera e ricca di quella che si svolge entre les murs (“tra le mura” della scuola, secondo il titolo del bel film francese, in Italia La classe).

A dealfabetizzare queste generazioni già descolarizzate ci pensa il digitale di massa usato senza criterio. Una frase del genere è sicuramente impopolare, ma bisogna ben ammettere che i primi dieci anni dello smart phone, celebrati qualche settimana fa, sono anche i primi dieci anni del crollo della cultura condivisa. Su smartphone e tablet ubiqui, tutti scrivono o leggono qualcosa in ogni momento e luogo, perfino al cinema, in sala operatoria e alla guida di autobus. Ma come scrivono? Cosa scrivono? Cosa e come leggono? Molte di queste cose sono puro trash, junk, monnezza. Per giunta, la loro vita mentale è sottoposta a una perturbazione perpetua, dominata dall’interruzione continua, dallo zapping compulsivo, dalla mezza cultura che circola in rete, dal copia e incolla come pratica standard. Faccine piazzate dappertutto, fusioni di parole (tecnicamente, univerbazioni: massì, mannò, maddai, evvai, eddai, ecc.), contrazioni coatte (dal celebre xché in poi), appunti presi coi pollici e whatsapp per descrivere (fotografandoli) anche i momenti più irrilevanti e triti della vita. Insomma, se è vero che non si è mai scritto tanto nella storia, mai lo scrivere è stato a tal punto privo di ogni potere alfabetizzante.

Il guasto linguistico che ha tanto scandalizzato i Seicento è quindi solo una delle facce della e-cultura ormai prevalente, e neanche la più importante. La scuola, poveretta, non è colpevole che in parte. Nata per caso, la e-cultura è salita dalle aule e dalle discoteche alle professioni e alla vita comune, a partire dai media, e si è propagata viralmente. Basta sentire gli spropositi di pronuncia dei giornalisti televisivi, le intonazioni sballate, le pause viziose, i discorsi letti senza evidentemente capirci niente, per rendersi conto che il virus si è scatenato. I maestri elementari che scrivono svarioni sono i primi frutti maturi e adulti di questa semina.

Basteranno le quattro propostine di riorganizzazione didattica frettolosamente sottoscritte dai Seicento per compensare gli effetti di un bradisismo catastrofico? Cosa può la scuola? Chi può contrastare il blocco computazionale-educativo dominato da corporations come Apple, Google, Facebook e Pearson?

Come sempre, però, nella catastrofe c’è chi corre ai ripari. Mentre la scuola si dequalifica (e la lingua si liquefa), i giovani più svegli continuano a prepararsi seriamente, imparano a scrivere e leggere come si deve e usano i device solo quando gli servono. Ne conosco non pochi. L’esplosione internazionale dello house-schooling (ora si chiama così: far scuola a casa) è un indizio minuscolo, ma eloquente, di questo “si salvi chi può”.

Analfabeti funzionali, il dramma italiano: chi sono e perché il nostro Paese è tra i peggiori. Sono capaci di leggere e scrivere, ma hanno difficoltà a comprendere testi semplici e sono privi di molte competenze utili nella vita quotidiana. Nessuna nazione in Europa, a parte la Turchia, ne conta così tanti. Tutti i numeri per capire la dimensione di un fenomeno spesso sottovalutato, scrive Elisa Murgese il 21 marzo 2017 su "L'Espresso". Hanno più di 55 anni, sono poco istruiti e svolgono professioni non qualificate. Oppure sono giovanissimi che stanno a casa dei genitori senza lavorare né studiare. O, ancora, provengono da famiglie dove sono presenti meno di 25 libri. Sono gli analfabeti funzionali, quegli italiani che non sono in grado di capire il libretto di istruzioni di un cellulare o che non sanno risalire a un numero di telefono contenuto in una pagina web se esso si trova in corrispondenza del link “Contattaci”. È “low skilled” più di un italiano su quattro e l'Italia ricopre una tra le posizioni peggiori nell' indagine Piaac, penultima in Europa per livello di competenze (preceduta solo dalla Turchia) e quartultima su scala mondiale rispetto ai 33 paesi analizzati dall'Ocse (con performance migliori solo di Cile e Indonesia). Non si parla in questo caso di persone incapaci di leggere o fare di conto, piuttosto di persone prive «delle competenze richieste in varie situazioni della vita quotidiana», sia essa «lavorativa, relativa al tempo libero», oppure «legata ai linguaggi delle nuove tecnologie», precisa Simona Mineo, ricercatore Inapp, l'Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche (ex Isfol). «Chi è analfabeta funzionale non è incapace di leggere - continua Mineo, che è stata anche National data manager per l’indagine OCSE-PIAAC condotta in Italia - ma, pur essendo in grado di capire testi molto semplici, non riesce a elaborarne e utilizzarne le informazioni». Un monito che riguarda gli italiani tutti perché, come conferma all'Espresso Friedrich Huebler, massimo esperto di alfabetizzazione per l'Istituto di statistica dell'Unesco: «Senza pratica, le capacità legate all'alfabetizzazione possono essere perse anno dopo anno». Come a dire che analfabeti non si nasce ma si diventa. Secondo l'Unesco, nel 2015 gli analfabeti in Italia erano pari all'1 per cento, percentuale che si riduce allo 0,1 se si considera solo la popolazione dai 15 ai 24 anni. «In molte regioni industrializzate, come l'Europa, la maggior parte della popolazione è capace di leggere e scrivere - continua Huebler - L'enfasi, infatti, è da porre sull'analfabetismo funzionale e sui livelli di alfabetizzazione piuttosto che sulle basiche capacità di lettura e scrittura». Al centro dell'analisi dell'esperto dell'Unesco ci sono proprio i dati dell'analisi Piaac, che mostrano come, nonostante l'Italia abbia un tasso di alfabetizzazione che sfiora il 100 per cento, la percentuale di analfabeti funzionali è la più alta dell'Unione europea. D'altronde, «anche se la maggior parte degli abitanti dei paesi ricchi è capace di leggere e scrivere - chiude Huebler - non si deve dimenticare come i livelli di alfabetizzazione non sono gli stessi per tutta la popolazione».

L'identikit dei nuovi analfabeti in Italia. Solo il 10 percento è disoccupato, fanno lavori manuali e routinari, poco più della metà sono uomini e uno su tre degli analfabeti funzionali italiani è over 55. Tra i soggetti più colpiti le fasce culturalmente più deboli come i pensionati e le persone che svolgono un lavoro domestico non retribuito mentre, per quanto riguarda la distribuzione geografica, il sud e il nord ovest del Paese sono le regioni con le percentuali più alte, visto che da sole ospitano più del 60 percento dei low skilled italiani. A tracciare l'identikit dell'analfabeta funzionale italiano sono le elaborazioni dell'Osservatorio Isfol raccolte nell'articolo “I low skilled in Italia”, studio nato per indagare su quella nutrita parte della popolazione italiana che nell'indagine dell'Ocse ha mostrato di possedere bassissime competenze. Tra i risultati più interessanti, l'aumento della percentuale di low skilled al crescere dell’età, passando dal 20 percento della fascia 16-24 anni all'oltre 41 percento degli over 55. «Questo perché chi è nato prima del 1953 non ha usufruito della scolarità obbligatoria - continua la ricercatrice Mineo - ma anche perché nelle fasce più adulte si soffre maggiormente dell’analfabetismo di ritorno». Ovvero, «se non sono coltivate, vengono perse anche quelle competenze minime acquisite durante le fasi di formazione e di inserimento nel mondo del lavoro». Andamento inverso per gli high skilled: in altre parole, mano a mano che i mesi passano sul calendario, aumentano le possibilità di diventare analfabeti funzionali. Balsamo contro la perdita delle nostre capacità può essere tornare tra i banchi di scuola da adulti o partecipare attivamente al mondo del lavoro. Eppure, non ogni occupazione può “salvarci” dall'essere potenziali analfabeti funzionali visto che solo alcune attività garantiscono il mantenimento se non addirittura lo sviluppo di capacità e conoscenze. «Sono le skilled occupations, ovvero professioni intellettuali, scientifiche e tecniche» precisa Simona Mineo. Quale quindi la causa delle cattive performance degli over 50? Colpa dei loro brevi percorsi scolastici e di un precoce ingresso nel mercato del lavoro, ma «ciò che conta più di tutto è la mancanza di una costante 'manutenzione' e 'coltivazione' delle competenze». È l'assenza di allenamento mentale, quindi, la causa che la ricercatrice individua per il declino della popolazione più anziana. «Si dovrebbe garantire un invecchiamento attivo», e sostenere attività di apprendimento in età adulta. «Iniziative che purtroppo, in Italia, continuano ad essere estremamente ridotte». Contraltare degli over 50 sono i Neet (i giovani tra i 16 e i 24 anni che non stanno né lavorando né studiando), visto che secondo lo studio di Inapp coloro che appartengono a questa categoria hanno una probabilità cinque volte maggiore di avere bassi livelli di competenza.

I libri che abbiamo in casa fanno la differenza. Quanti volumi erano riporti sulla libreria di casa tua quando avevi 16 anni? Ecco una delle domande del questione Piaac che può fare la differenza visto che spesso gli analfabeti funzionali sono cresciuti in famiglie in cui erano presenti un numero limitato di libri. «Questo dato è particolarmente accentuato nel nostro Paese -si legge nel report - dove il 73 percento dei low skilled è cresciuto in famiglie in cui erano presenti meno di 25 libri». Una mancanza che può portare i giovani a cadere in un crudele circolo vizioso. «L'assenza di un livello base di competenze - racconta Simona Mineo - rende difficili ulteriori attività di apprendimento», tanto da portare le competenze dei giovani con background fragili a «invecchiare e deteriorarsi nel tempo», rendendo per loro sempre un miraggio «l’accesso a qualsiasi forma di apprendimento». Le nostre competenze, quindi, non sono statiche. La famiglia, l’età, l’istruzione e il lavoro possono determinarne nell’arco della vita lo sviluppo ma anche la loro perdita. E il tessuto italiano potrebbe addirittura aiutare la diffusione dell'analfabetismo funzionale. Tra i punti deboli del nostro Paese, infatti, «l’abbandono scolastico precoce, i giovani che non lavorano o vivono condizioni di lavoro nero e precario, la mancanza di formazione sul lavoro» continua la ricercatrice, puntando il dito anche contro «la disaffezione alla cultura e all'istruzione, che caratterizza tutta la popolazione». D'altronde, come ricordava Tullio De Mauro, «la regressione rispetto ai livelli acquisiti nel percorso scolastico colpisce dappertutto gli adulti». «Occorre -, quindi, secondo lo studioso che più di tutti in questi ultimi anni ha continuato ad avvertire dei pericoli dell’analfabetismo, - riflettere su stili di vita e assetti sociali che producono questi dislivelli di competenze e queste masse di deprivati tra gli adulti». 

«Gli studenti non sanno l’italiano». La denuncia di 600 prof universitari. Appello accorato dei docenti che chiedono un intervento urgente al governo e al Parlamento. «Nelle tesi di laurea, errori da terza elementare. Bisogna ripartire dai fondamentali: grammatica, ortografia, comprensione del testo», scrive Orsola Riva il 4 febbraio 2017 su “Il Corriere della Sera”. Possibile ritrovarsi a correggere una tesi di laurea dovendo usare la matita rossa e blu come in un temino della scuola elementare? Purtroppo sì. Basta leggere alcune delle testimonianze drammatiche dei 600 professori universitari che in pochi giorni hanno sottoscritto un accorato appello al governo e al Parlamento per mettere in campo un piano di emergenza che rilanci lo studio della lingua italiana nelle scuole elementari e medie. Ripartendo dai fondamentali: «dettato ortografico, riassunto, comprensione del testo, conoscenza del lessico, analisi grammaticale e scrittura corsiva a mano». Può sembrare un ritorno indietro ma, come spiega Giorgio Ragazzini, uno dei quattro docenti di scuola media e superiore del Gruppo di Firenze che hanno promosso la lettera, «forse stiamo risentendo anche di una svalutazione della grammatica e dell’ortografia che risale agli anni 70». E invece, come già si diceva in un film diventato di culto dopo gli anni del riflusso, «chi parla male pensa male». O, come preferisce ricordare il professor Ragazzini citando Sciascia, «l’italiano non è l’italiano, è il ragionare». «E’ chiaro ormai da molti anni che alla fine del percorso scolastico troppi ragazzi scrivono male in italiano, leggono poco e faticano a esprimersi oralmente - si legge nella lettera -. Da tempo i docenti universitari denunciano le carenze linguistiche dei loro studenti (grammatica, sintassi, lessico), con errori appena tollerabili in terza elementare. Nel tentativo di porvi rimedio, alcune facoltà hanno persino attivato corsi di recupero di lingua italiana». La notizia non è nuova, ma non per questo è meno drammatica. Anche dall’ultimo rapporto Ocse-Pisa che misura le competenze dei quindicenni di mezzo mondo i nostri ragazzi sono usciti con le ossa rotte. E a sorpresa è soprattutto in italiano che andiamo male. Con buona pace della stanca retorica anti-crociana. Dal 2000 a oggi non abbiamo recuperato mezza posizione, mentre in matematica, dove pure eravamo molto più indietro, abbiamo fatto enormi passi avanti. Tra i firmatari della lettera si contano (al momento) 8 accademici della Crusca, quattro rettori, il pedagogista Benedetto Vertecchi, gli storici Ernesto Galli della Loggia, Luciano Canfora e Mario Isnenghi, e poi filosofi (Massimo Cacciari), sociologi (Ilvo Diamanti), la scrittrice e insegnante Paola Mastrocola, da sempre in prima linea per una scuola severa e giusta (giusta anche perché severa), matematici e docenti di diritto, storici dell’arte e neuropsichiatri. Tutti uniti nel denunciare la condizione di semi-analfabetismo di una parte degli studenti universitari. Come racconta bene questa testimonianza di uno dei firmatari: «Mi è capitato di incontrare in treno una studentessa che non sapeva quale fosse la “penultima” lettera del codice di prenotazione del suo biglietto».

La lettera dei 600 docenti universitari al governo: "Molti studenti scrivono male, intervenite". Il documento firmato da accademici della Crusca, linguisti, storici e filosofi. Nella lista Ilvo Diamanti, Massimo Cacciari e Carlo Fusaro: "Alcune facoltà hanno persino attivato corsi di recupero di italiano", scrive Gerardo Adinolfi su "La Repubblica” il 4 febbraio 2017. "Molti studenti scrivono male in italiano, servono interventi urgenti".  E' il contenuto della lettera che oltre 600 docenti universitari, accademici della Crusca, storici, filosofi, sociologi e economisti hanno inviato al governo e al parlamento per chiedere "interventi urgenti" per rimediare alle carenze dei loro studenti: "È chiaro ormai da molti anni che alla fine del percorso scolastico troppi ragazzi scrivono male in italiano, leggono poco e faticano a esprimersi oralmente", si legge nel documento partito dal gruppo di Firenze per la scuola del merito e della responsabilità e firmato, tra gli altri, da Ilvo Diamanti, Massimo Cacciari, Carlo Fusaro e Paola Mastrocola. "Da tempo - continua la lettera - i docenti universitari denunciano le carenze linguistiche dei loro studenti (grammatica, sintassi, lessico), con errori appena tollerabili in terza elementare. Nel tentativo di porvi rimedio, alcune facoltà hanno persino attivato corsi di recupero di lingua italiana". Secondo i docenti, il sistema scolastico non reagisce in modo appropriato, "anche perché il tema della correttezza ortografica e grammaticale è stato a lungo svalutato sul piano didattico". "Ci sono alcune importanti iniziative rivolte all'aggiornamento degli insegnanti, ma - si fa notare -  non si vede una volontà politica adeguata alla gravità del problema. Abbiamo invece bisogno di una scuola davvero esigente nel controllo degli apprendimenti, oltre che più efficace nella didattica, altrimenti né l'impegno degli insegnanti, né l'acquisizione di nuove metodologie saranno sufficienti". Nella lettera si indica quindi una serie di dettagliate linee d'intervento per arrivare, "al termine del primo ciclo" di studi, ad un "sufficiente possesso degli strumenti linguistici di base da parte della grande maggioranza degli studenti". Nella lunga lista dei firmatari ci sono molti nomi illustri: gli Accademici della Crusca Rita Librandi, Annalisa Nesi e Piero Beltrami, i linguisti Stefania Stefanelli e Edoardo Lombardi Vallauri, quatto rettori universitari, i docenti di letteratura italiana Giuseppe Nicoletti e Biancamaria Frabotta, gli storici Luciano Canfora e Mario Isnenghi, il matematico Lucio Russo e i costituzionalisti Paolo Caretti e Fulco Lanchester e ancora l'economista Marcello Messori e i docenti di diritto pubblico comparato e romano Ginevra Cerrina Feroni e Giuseppe Valditara. "Circa i tre quarti degli studenti delle triennali sono di fatto semianalfabeti - si legge tra i commenti dei docenti alla lettera -  È una tragedia nazionale non percepita dall’ opinione pubblica, dalla stampa e naturalmente dalla classe politica. Apprezzo che finalmente si ponga il problema. Ahimè, ho potuto constatare anch'io i guasti che segnalate, dal momento che il mio esame è scritto e ne vengono fuori delle belle... È francamente avvilente trovarsi di fronte ragazzi che vogliono intraprendere la professione di giornalista e presentano povertà di vocabolario, scrivono come se stessero redigendo un sms, con conseguenti contrazioni di vocaboli, o inciampano sui congiuntivi". Un altro docente invece spiega: "Fortunatamente si incontrano anche ragazzi in gamba e preparati. Dedico ormai una buona parte della mia attività di docente a correggere l'italiano delle tesi di laurea. Purtroppo l'insegnamento di base, invece di concentrarsi su poche ed essenziali competenze, tende ad ampliarsi e a complessificarsi a dismisura, coi risultati che constatiamo. Le maestre elementari - spesso bravissime e motivatissime - devono obbedire a un sacco di circolari che le inducono a fare le assistenti sociali. La situazione, poi, è resa oggettivamente problematica dalla latitanza di troppe famiglie, che mandano a scuola bimbi incapaci di una normale convivenza".

«Si, nò, un’altro strafalcione» L’italiano incerto dei miei studenti. Il racconto del docente di linguistica. Più degli errori, preoccupa la difficoltà di decodificare i testi scritti. La grammatica va rispettata, ma sfidi la lingua in cui viviamo, scrive Giuseppe Antonelli il 6 febbraio 2017 su “Il Corriere della Sera”. La situazione è grammatica, si potrebbe dire riprendendo l’arguto titolo di un libro recente. Anche nel senso che improvvisamente la grammatica si è ritrovata al centro di un’attenzione che di solito non le viene riservata. E questa è un’ottima cosa, se è vero che - come scriveva Pessoa - «la fortuna di un popolo dipende dallo stato della sua grammatica». Va detto, d’altra parte, che la situazione era già ampiamente nota. «Le lamentele sull’italiano approssimativo degli studenti costituiscono un topos abituale», si legge nella prima pagina di un libro del 1991 intitolato La lingua degli studenti universitari. Negli studi degli ultimi anni sull’italiano degli universitari vengono segnalati errori di tanti tipi. Mancanza di capoversi, punteggiatura assente o errata («un centro urbano, gode di maggiore prestigio»), usi impropri dell’apostrofo («un’altro»), dell’accento («si, nò») e delle maiuscole («alcuni Tratti»), fraintendimenti lessicali («tutte le mie speranze si sono assolte»). Ma la questione più urgente riguarda la scarsa capacità di organizzare, o anche solo decodificare, adeguatamente un testo. Ovvero di argomentare il proprio pensiero e di interpretare - comprendendone il senso e lo scopo - quello degli altri. Vale a dire quegli aspetti che fanno della grammatica un elemento determinante non solo per la comunicazione e la socializzazione, ma anche per una cittadinanza consapevole. Ecco perché diventa sempre più importante insegnare la grammatica finalizzandola alla produzione di testi. Solo che per far questo bisogna liberarsi di alcuni riflessi condizionati. Nessuno insegna più la geografia o le scienze come si faceva cinquant’anni fa: il mondo è cambiato, ci sono state nuove scoperte. Bene: è cambiato anche l’italiano, oltre a quello che sappiamo sul funzionamento delle lingue. La grammatica non è granitica, ma dinamica. Che senso ha - ad esempio - demonizzare la tecnologia, quando è grazie alle nuove tecnologie che la scrittura è entrata davvero a far parte delle nostre vite? Tutto acquista un’altra concretezza se lo si mette in relazione con i testi reali. Resta grave, ovviamente, sbagliare l’uso di una acca o di un accento (anche se nel segreto della tua tastiera, la prof non ti vede: il correttore automatico sì). Ma ancora più grave è che la scrittura dei messaggini stia abituando i ragazzi a una testualità spezzettata, incompleta, insufficiente. E allora si potrebbe partire dal confronto tra questi testi e quelli tradizionali, per far capire come si costruisce un testo compiuto ed efficace: che abbia un inizio, uno svolgimento e una fine. Si potrebbe insistere un po’ di meno sulla differenza tra complemento di compagnia e di unione e un po’ di più su quei connettivi che servono a stabilire i rapporti logici tra le varie frasi. Smettere di dire che lui e lei non possono essere usati come soggetto e spiegare bene i casi in cui il soggetto di una frase deve essere esplicitato. Ogni livello della grammatica - dalla punteggiatura al lessico, dalla coniugazione dei verbi alla costruzione della frase - può essere orientato verso questo obiettivo. Anche per evitare la sensazione di un eccessivo scollamento tra l’essere e il dover essere, tra la norma e l’uso, tra la scrittura scolastica e quella di tutti i giorni. La sensazione di una doppia verità, infatti, rischia di alimentare atteggiamenti di lassismo e rinuncia: «tanto la grammatica che insegnano a scuola nella vita vera non serve ...». Per mostrarsi vitale (in ogni senso) la grammatica deve accettare la sfida con la lingua in cui viviamo. Se la situazione è grammatica, la grammatica dev’essere all’altezza della situazione. 

Colpa di noi prof se i ragazzi non sanno più l'italiano, scrive Spartaco Pupo, Ricercatore e docente di storia delle dottrine politiche, Università della Calabria, Lunedì 6/02/2017 su "Il Giornale". È davvero singolare che oltre 600 docenti universitari, alcuni anche prestigiosi, abbiano firmato un appello dai toni così semplicistici o, per usare un termine di gran moda, «populistici», per chiedere al governo e al parlamento «interventi urgenti» contro il «semianalfabetismo» dei loro studenti, accusati di scrivere malissimo in italiano e di commettere gravi errori di sintassi, grammatica e lessico. Il problema, in realtà, è più complesso di quanto vorrebbero fare apparire questi colleghi, e investe, oltre alla scuola, anche e soprattutto l'università italiana, che fino a prova contraria laurea i professori delle scuole che formano i ragazzi somari oggi denunciati, i quali esistono per davvero, aumentano ogni anno di più, e di cui è giusto dibattere. Tuttavia, non ci sarebbe nulla di scandaloso se dei genitori italiani firmassero anch'essi un appello per prendersela con l'università che regala lauree ai docenti dei propri figli. Sarebbe, certo, un circolo vizioso, un cane che si morde la coda, ma una cosa è certa: gran parte delle responsabilità di questo fenomeno è ascrivibile proprio alla crisi dell'intero sistema formativo, che è il prodotto non solo di scelte politiche, teorie pedagogiche e psicologiche e convinzioni ideologiche di origine sessantottina tendenti a un generale livellamento delle competenze, sempre più tecnicistiche e sempre meno umanistiche, a dispetto della valorizzazione del talento e del merito, ma anche dell'indisturbata «selezione» di un corpo accademico che lancia solo oggi l'allarme, piangendo lacrime di coccodrillo. È vero che nella scuola dell'obbligo il buonismo con cui gli insegnanti tendono a promuovere tutti, anche gli analfabeti, è dilagante, ma è altrettanto vero che i nostri ragazzi fanno oggi i conti con un disprezzo generalizzato della lingua italiana diffuso sia nei romanzi di certi autori contemporanei, pieni zeppi di parolacce, sia nei giornali e nella televisione, che fanno largo uso di un linguaggio sempre più sciatto, pieno di scorciatoie e strafalcioni. E che dire del predominio incontrastato dell'inglese oggi peraltro imposto a cominciare proprio dall'università, a tutto svantaggio dell'uso dell'italiano? Gran parte della classe accademica che oggi si lamenta dell'ingresso all'università di gente che non usa bene il congiuntivo, fino all'altro ieri si è abbeverata agli insegnamenti di professori come Tullio De Mauro, che dopo averci per una vita invitato a privilegiare e conservare i nostri dialetti, solo poco prima di morire si è messo a denunciare l'ignoranza della lingua italiana tra i giovani. Ma la nostra è anche una università figlia di intellettuali devoti alla «oicofobia» (letteralmente vuol dire «paura della propria casa»), fenomeno che colpisce soprattutto la classe intellettuale italiana ed europea e che porta al disprezzo della propria cultura e di tutto ciò che ha a che fare con il retaggio identitario della nazione, a iniziare dalla lingua. Sin dal 1965, l'anno del suo Scrittori e popolo, Alberto Asor Rosa non ha mai smesso di prendersela con gli intellettuali nazional-popolari, bollandoli di provincialismo e conservatorismo e accusati di essere l'incarnazione di una cultura paesana e piccolo borghese. Si ricorderà il suo feroce attacco a Francesco De Sanctis, reo, a suo dire, di avere scritto una storia della letteratura che celebrava la civiltà italiana moderna, e ai «ridicoli soprassalti nazionalistici» in cui la cultura letteraria italiana è stata coinvolta. Ancora nel 2009 Asor Rosa pensava di convertire una «normale» storia della letteratura italiana in una storia «europea» della letteratura italiana, come recita il titolo della sua ultima opera. Tutto ciò ha sin qui fatto parte dell'«impegno» del buon accademico e della sua missione «salvifica» del mondo, con risultati assai deludenti e che sono sotto gli occhi di tutti.  

"Se potrei" e altri orrori: come si usano i verbi. Nei giorni in cui infuria la polemica sugli studenti universitari che non sarebbero in grado di scrivere in italiano corretto, abbiamo pensato di elargire qualche consiglio di base. Pillole di grammatica per salvare la nostra lingua maltrattata. Segnalateci nei commenti gli svarioni che più vi infastidiscono o sui social con l'hashtag #italianoEspresso, scrive Mariangela Galatea Vaglio il 6 febbraio 2017 su "L'Espresso". Oh davvero, il verbo è tutto. Volete fare una frase? Ci vuole un verbo. Voi mi direte: “No, guarda, ci stanno pure le frasi senza verbo." Il che è vero, ma poi vedremo che magari un verbo, in qualche modo, ce l'hanno pure loro. Quindi, il verbo, dicevamo.

Il verbo, nelle frase, fa tutto. Senza, è come fare un aperitivo senza le patatine: si può ma non è granché.

Il verbo è fondamentale perché dice tutto: racconta infatti l'azione. Se non c'è una azione, reale, immaginata, sperata, attesa, pensata, auspicata non succede niente, e non se non succede niente non si racconta, né si fanno frasi. Quindi il verbo è il nostro caposaldo.

I verbi, lo sappiamo tutti, hanno i tempi e i modi e le persone. A scuola, quando ce li fanno coniugare pensiamo tutti: “Eccheppalle!". In effetti coniugare i verbi è operazione noiosissima. Il problema è che per spiegare come succedono le cose è necessario usare i verbi in maniera corretta.

Il modo del verbo, per esempio, ci spiega l'azione: è una cosa reale? E' una cosa immaginaria? La differenza è notevole. Io, per esempio, se adesso ho fame mangio una mela. Perché ce l'ho. Se non ce l'avessi, al massimo potrei dire che mangerei volentieri una mela, ma resto a bocca asciutta. Quindi, capite bene, comprendere il modo del verbo è importante, se non altro per capire se digiunerò e no.

Quando una cosa accade nella realtà il modo da usare è l'indicativo. Io mangio una mela, io incontrai Elena al mercato, io vedrò domani la partita allo stadio. Sul serio, queste cose le faccio, le ho fatte o le farò davvero.

Se invece io non sono certa che una cosa sia accaduta davvero, ma lo penso o me lo auguro, si usa il congiuntivo. Io penso che tu sia buono (lo penso, e magari pure lo spero, ma non ne sono certo, potresti essere una carogna). Magari piovesse! (Ma non è detto che piova). Credo che fosse Luigi quello che ho visto ieri sera per strada (ma magari no, era Carlo, o un tizio qualsiasi, perché non l'ho visto bene e sono pure cecata di mio).

Se l'azione invece può accadere solo a patto che si verifichi una qualche altra condizione, si usa il condizionale (i grammatici hanno una fantasia limitata nello scegliere i nomi, come si nota). Se avessi una mela (condizione)-> me la mangerei (azione). Se invece do un ordine, allora si usa l'imperativo (ve l'ho detto, non hanno una gran fantasia con i nomi), e per essere sicuro che si capisca che è un ordine, l'imperativo di solito viene usato con un bel punto esclamativo dopo: Portami una mela!

Il verbo, in analisi logica, si chiama "predicato" perché racconta quello che succede. È predicato verbale se racconta una azione, è predicato nominale se invece descrive una qualità del soggetto, ed in quel caso è formato dal verbo essere più una parte nominale, che può essere un aggettivo o un nome. Luca mangia - > predicato verbale (racconta una azione). Luca è alto / è un professore - > predicato nominale, racconta una caratteristica o una qualità di Luca.

Ora, se scrivete una frase, mettetecelo, il verbo. Le frasi senza verbo un po' sono zoppicanti e si sentono molto sole. Non fatele bullizzare dai periodi pieni di verbi e di subordinate, che si sentono superiori.

I verbi raccontano il mondo. Del resto anche il Vangelo di Giovanni comincia dicendo che in principio era il Verbo. Il che dimostra che Giovanni forse aveva anche le visioni, ma comunque sapeva bene come si raccontano le storie e aveva capito tutto della grammatica.

E poi c’è il risvolto della medaglia.

Da analfabeti a laureati, la rivoluzione culturale dei nuovi padrini. Da Dostoevskij a Pennac, ma anche Dickens, l’Eneide e le suore mistiche. Ecco le opere sui comodini dei capi di Cosa Nostra, scrive Attilio Bolzoni il 7 febbraio 2017 su "La Repubblica". È LA generazione di mafia più colta. Per forza: sono rinchiusi da anni nella dannazione del 41 bis e tutti soli con Dostoevskij e i fratelli Karamazov, con Tolstoj, Svevo, Pasternak, Pirandello, con i filosofi tedeschi, i teologi protestanti, Virgilio e Kant. In Italia si legge sempre di meno ma "dentro" sempre di più. A parte quello zoticone di Totò Riina che è rimasto come dice lui stesso, "un seconda elementare", gli uomini della Cupola si sono allitterati, hanno studiato, da seminalfabeti che erano molti hanno preso una e anche due lauree, si sono immersi nella storia e nei misteri della religione, avidi di discipline umanistiche e anche scientifiche. È un altro mito che cade nella Cosa Nostra che non c'è più perché ce n'è una nuova dentro e fuori il carcere. Una volta nei loro covi c'era sempre una Bibbia sul comodino e in qualche cassetto Il Padrino di Mario Puzo, non mancavano mai i Beati Paoli e Coriolano della Floresta di Wiliam Galt, romanzi cult di un'aristocrazia criminale che è sottoterra. La mafia del 41 bis ha imparato a proprie spese e si è emancipata intellettualmente, in compagnia de Il Dottor Zivago o di Todo modo. I divieti del regime speciale carcerario non hanno offerto un'altra scelta. Come ricorda Giuseppe Grassonelli a Carmelo Sardo - nel libro "Malerba" - quando è appena entrato nella fortezza dell'Asinara subito dopo le stragi del '92. Grassonelli era uno dei boss della "Stidda", si ritrovò nell'isola del Diavolo in un loculo di cemento dove trovò una brandina di ferro e sopra un'edizione di Guerra e Pace. Provò a leggere qualche pagina e non ci riuscì, al tempo sapeva a malapena mettere la sua firma. Riprovò una, due, tre, quattro volte. E quando finalmente finì il libro scoppiò a piangere. Oggi Giuseppe Grassonelli si addentra con sofisticato piacere nel labirinto del periodo rivoluzionario napoletano del 1799, in particolare sulle "insorgenze" che coinvolsero tutte le province del Regno. E che dire allora di Gaspare Spatuzza, quello della strage di Paolo Borsellino e sempre quello - che a sentire un altro pentito - lo descriveva mentre "con una mano manciava e con un'altra arriminava", con una mano teneva stretto un panino con il prosciutto e con l'altra un mestolo di legno con il quale pestava un cadavere sciolto nell'acido. Spatuzza ha incontrato la sociologa Alessandra Dino in una struttura penitenziaria (lei ne ha poi scritto un formidabile saggio) e l'ha invitata nella sua piccola biblioteca. C'era Delitto e Castigo, c'era La coscienza di Zeno, c'erano tre volumi di filosofia di Reale e Antiseri. Poi le ha regalato una sintesi di un libro di Joe Dispensa, Cambia l'abitudine di essere te stesso, con dedica: "Chi avrebbe mai potuto immaginare che un giorno Gaspare, un seminalfabeta, fosse in grado di spiegare, anche se con le parole del Dott. Joe Dispensa, qualcosa sulla fisica quantistica?". Ma non sono soltanto i boss del 41 bis che si sono raffinati fra trattati storici e testi ancora più impegnativi che sconfinano nell'aldilà. Anche i latitanti passavano o passano le loro giornate sui libri. Pietro Aglieri per esempio, dietro l'altare dove l'andava a trovare un fratacchione della Kalsa, aveva tutte le opere di Edith Stein, la monaca filosofa tedesca dell'Ordine delle Carmelitane Scalze che morì ad Auschwitz - era di origine ebraica - nel 1942. L'imprendibile Matteo Messina Denaro qualche anno fa dialogava per lettera sotto il falso nome di "Alessio" con l'ex sindaco di Castelvetrano Tonino Vaccarino (che si firmava "Svetonio") confessandogli, suo malgrado, "di essere diventato il Malaussène di tutti e di tutto", immedesimandosi nel personaggio inventato dallo scrittore francese Daniel Pennac. Nelle sue corrispondenze con "Svetonio", Matteo ricordava anche l'Eneide, ragionava su Toni Negri, citava Jorge Amado: "Non c'è cosa più infima della giustizia quando va a braccetto con la politica". Una rivoluzione culturale. E forse a iniziarla è stato il capostipite dei Corleonesi, Luciano Liggio, uno che nonostante le "leggende" create intorno a lui sembrava più un gangster che un mafioso. Disse una volta ai commissari della prima Antimafia: "Ho letto di tutto, storia, filosofia, pedagogia. I classici. Ho letto Dickens e Croce". E sfottendoli, ha concluso: "Ma quello che ammiro di più è Socrate, uno che come me non ha mai scritto niente ".

"Parole in cammino": errori, web, neologismi. Tutto rende viva la lingua italiana. È datato 2016 l'appello che un nutrito gruppo di accademici ha rivolto al ministero dell'Istruzione, lamentando la poca padronanza dell'italiano scritto da parte degli studenti universitari, scrive Pier Francesco Borgia, Venerdì 07/04/2017, su "Il Giornale". Alla domanda sulla salute della lingua italiana vengono subito alla mente gli svarioni dei giornalisti, i lapsus calami dei politici e le ingenuità linguistiche del popolo della Rete. Eppure non è così nero il presente (e il futuro) della lingua trasmessoci, giù «per li rami», dallo stesso Dante. Per capire insomma e per conoscere tutti gli aspetti del nostro comune patrimonio linguistico ora c'è anche un festival: «Parole in cammino». Ideato e curato da Massimo Arcangeli, ordinario di Linguistica italiana a Cagliari, insieme con l'università di Siena che vuole così degnamente festeggiare il centenario (1917-2017) della Scuola di lingua italiana per stranieri. E che avrà come cornice appunto (da oggi a domenica) la città toscana. Linguisti, ovviamente, giornalisti, docenti e insegnanti si confronteranno su un grande e appassionante tema come la lingua italiana. Dimostrando, tra l'altro, che lo studio e la pratica virtuosa di questa lingua è meno isolato di quello che sembri. È vero che i problemi ci sono e sono molti. È di pochi giorni fa, ad esempio, la notizia che a un concorso per diventare maestri di ruolo nel Lazio, l'80% degli aspiranti maestri ha commesso grossolani errori di ortografia. Mentre, ormai, è datato 2016 l'appello che un nutrito gruppo di accademici ha rivolto al ministero dell'Istruzione, lamentando la poca padronanza dell'italiano scritto da parte degli studenti universitari. Eppure trasmissioni e siti web come La lingua batte registrano un ampio consenso. E fenomeni come quello di Fiorella Atzori (la prima youtuber a difesa dell'uso corretto del nostro idioma) sono tutt'altro che trascurabili. La Atzori è giovanissima. E - come racconta lei stessa - non è nemmeno una linguista. Dopo aver usato come «cliente» i più vari tutorial (alla cucina al make up), ha deciso di buttarsi. Scegliendo come argomento la grammatica italiana. «Fin da piccola ero appassionata di grammatica, merito di mia nonna maestra - racconta la Atzori che l'8 aprile presenterà al festival il suo libro Sgrammaticando (salviamo l'italiano dalla Rete) -. E da cinque anni sono a tempo pieno una youtuber». Con un risultato davvero impressionante. Dal primo video trasmesso su Youtube (finora sono quasi 400) ha ottenuto oltre 2,7 milioni di visualizzazioni, con 26 mila persone iscritte al canale di «Sgrammaticando». E dal tutorial (anglicismo che però viene dritto dritto dal latino) ai neologismi che arricchiscono la nostra lingua il passo è breve. E al festival gli «inventori» di parole nuove sono tra i protagonisti più attesi. Come il piccolo Matteo T. ed Enrico Mentana che verranno premiati per il loro supporto nel rendere il nostro lessico sempre più ampio ed efficace. Il primo è arrivato agli onori della cronaca per la parola «petaloso», accettata e registrata dalla Crusca. Il direttore del tg de La 7 per la parola «webete» (decisamente efficace per descrivere i creduloni che abboccano alle notizie fasulle in Rete). La nostra lingua però non è mai stata avara di neologismi. In fondo ogni epoca ha i suoi. Non è quindi la vivacità o debolezza dell'invenzione lessicale a impensierire un linguistica di rango come Francesco Sabatini (presidente onorario dell'Accademia della Crusca). Semmai l'approccio poco scientifico nell'insegnamento dell'italiano fin dalla scuola primaria. «All'inizio del Novecento il 50% degli italiani era analfabeta, contro solo l'1% dei tedeschi - racconta Sabatini -. Da allora di strada ne abbiamo fatta, ovviamente. Però c'è ancora molto da fare». «Soprattutto ora - aggiunge - che la tecnologia ha innalzato le competenze necessarie per vivere e lavorare». D'altronde riflette Sabatini - il cui ultimo libro Lezioni d'italiano (Mondadori) sta avendo un ampio successo di pubblico - non dobbiamo demonizzare la tecnologia. I tablet e gli smartphone, dice, sono necessari. «L'agilità manuale è una cosa - spiega - il contenuto linguistico delle operazioni su tablet o device elettronici è un'altra. Mica demonizziamo le scarpe perché per camminare servono solo i piedi!»

Neologismi a ritmo di tweet. Un dizionario dell'italiano creativo. Dal 7 al 9 aprile si svolge a Siena la prima edizione della kermesse "Parole in cammino", un viaggio tra l'italiano del passato e del futuro: incontri con intellettuali e giornalisti e laboratori per le scuole sulla lingua italiana che cambia. Qui un'anticipazione dell'intervento dell'ideatore del festival, scrive Massimo Arcangeli il 5 aprile 2017 su "L'Espresso". Direttamente dal web: “Io lollo sempre un devasto quando i cazzoni ci lasciano o quasi le penne a fare i lollers con gli animali spaccaculi”, scrive Randolk. “Io me la rido sempre di gusto quando gli stolti rischiano la pelle a trattare con leggerezza certi animali selvaggi”, traduce NickZip a beneficio dei navigatori virtuali digiuni di slang. Prove di neologia giovanile. Un possente onomaturgo è stato Dante. Nel 2015, per celebrare il 750° anno dalla sua nascita, ideai, per la Festa di Scienza e Filosofia di Foligno, un dizionario goliardico di vocaboli o significati inventati cui diedi il nome diTwittabolario. L’iniziativa, ispirata a una analoga di due anni prima e svolta in collaborazione con Scritture brevi, una comunità di affiliati a Twitter, avrebbe visto una grande partecipazione. Fra gli utenti più attivi Anna Petrazzuolo, autrice di una raccolta di parole e definizioni inventate d’autore (Di sana pianta); vi brillavano esempi come questi:

bugivéra s. f. [comp. di bugi(a) e vera]. Né bugia né verità, una bugia che è anche verità o una verità che anche una bugia. Ve ne sono di due tipi: la bugìvera detta a fin di bene (propria delle monache) e la bugìvera detta a fin di male (propria di giornalisti, medici e dietologi). Nella religione cattolica è considerata peccato veniale; in politica è una virtù. La madre superiora disse una bugìvera grande quanto una cassapanca (dalla “Monaca triste” di Alessandro Vermicelli) (FERDINANDO GAETA).

cremlìno s. m. [dal lat. tardo cremum "la parte butirrosa, spessa e opaca che affiora sul latte", sul modello di cremino]. Grande dolce natalizio alla crema, tradizionale della Moscovia: Ivan Alexandrovic tornò a casa con una fame tale che si sarebbe mangiato un intero cremlino (MARCO FULVIO BAROZZI).

enrigolètto s. m. [dal personaggio protagonista dell’opera verdiana Rigoletto, sul modello di Enrico Letta]. Chi ricorda la tragica vicenda di Rigoletto, il buffone vittima del destino e dei capricci dei potenti: Quell’enrigoletto illuso credeva di riuscire a tenere a bada il rottamatore (MARCO FULVIO BAROZZI).

whatsappatóre s. m. [incrocio dell'ingl. whatsapp e del nap. zappatore]. 1 Chi fa uso delle applicazioni di un terminale telefonico in modo rudimentale o approssimativo: Sei proprio uno whatsappatore! 2. (fig.) Chi, nonostante ami la tecnologia, conserva sentimenti filiali: Whatsappatore nun s''a scorda 'a mamma (MAURIZIO DE ANGELIS).

Fra gli esempi prodotti nel 2015:

Acetone. Condimento per insalatone.

Aculeo. Spillone costruito appositamente per punzecchiare i glutei.

Allucinazione. Patria degli alluci.

Arazzo. Dipinto velocissimo.

Astigmatico. Privo di fori nelle mani.

L'ITALIANO: LINGUA MORTA, ANZI, NO!

Italiani che odiano l’italiano, scrive il 13 settembre 2017 Maurizio Acerbi su “Il Giornale”. Qualche tempo fa, avevo pubblicato un commento sull’uso, ormai, pervasivo e, spesso, inutile dei termini stranieri nel nostro vocabolario. La risposta di voi lettori è stata significativa, sia in termini di visualizzazioni, sia, ed è ciò che più conta, di apprezzamenti. Qualcuno mi aveva suggerito di allargare il discorso, di non limitarmi a quello scritto, di farci, magari, un libretto che denunciasse un fatto ormai sotto gli occhi, pardon, in bocca a tutti. Da tutto questo, è nato Italiani che odiano l’italiano, un volumetto che potrete trovare, da domani, in tutte le edicole, al prezzo di 2,50 euro. Sono partito dal famoso Tu vuo’ fa’ ll’americano di Carosone, canzone che puntava simpaticamente il dito sul processo di americanizzazione che si stava diffondendo in Italia, per dimostrare come quella che sembrava una provocazione cantata, è diventata triste realtà. Ormai abbiamo autocolonizzato la nostra lingua, trasformandoci in improvvisati Nando Mericoni. Una lingua plagiata anche da chi è convinto che scrivere “x” al posto di “per” sia la stessa cosa. Di chi ha trasformato le regole grammaticali, adattandole al linguaggio dei telefonini. Ormai non si comunica più con le parole, ma con le sigle e le storpiature: tx, grz, tvtb, okkio, asap sono esempi del linguaggio primitivo con il quale comunichiamo i nostri sentimenti. Ecco, il libretto racconterà tutto questo, con ironia, sperando di strappare qualche sorriso e, soprattutto, di invogliare a riflettere su un problema, a mio parere, importante. Non è un testo contro l’inglese, ma sull’uso provinciale che ne facciamo. I capitoletti che compongono il volumetto sono: Introduzione; Quel primo numero de il Giornale; Dal Jobs Act allo Shish renziano; La macchinetta “Outside Service” e il “pay smecker”; Pubblicità regresso e Save the Date; Ferboten, like e x, ovvero chi ci capisce è bravo; Dal qui si beve al puttanambolo; un po’ di storia della lingua italiana; Già, ma cosa combinano i nostri vicini?; Una provocazione finale che è anche una sfida (e un impegno). Spero di aver raccolto il vostro pensiero, cari lettori. Grazie a chi vorrà acquistarlo e, magari, poi, deciderà di condividere, in questa piazza virtuale, le proprie osservazioni. Viva l’italiano.

Le parole straniere che usiamo (e come sostituirle con l’equivalente italiano). Da «Bond» (che non è James) a «Endorsement» (quello che non si fa con un retweet), i 200 lemmi di cui potremmo fare a meno nel nuovo dizionario Devoto-Oli, scrive Elvira Serra il 17 settembre 2017 su “Il Corriere della Sera”. I 200 anglicismi (di cui potremmo fare a meno). Non ce ne rendiamo nemmeno conto. Ma quante volte utilizziamo una parola inglese quando potremmo benissimo farne a meno? Weekend al posto del fine settimana, trendy anziché alla moda, strong anziché forte. Questa volta a farci le pulci è il nuovo Dizionario di italiano Devoto -Oli, che per i suoi 50 anni (firmati anche da Luca Serianni e Maurizio Trifone) ha introdotto una sezione con 200 schede dedicate agli anglicismi e ai modi pratici per farne a meno.

All inclusive. «Tutto compreso». Lo troviamo spesso quando scegliamo i nostri viaggi. Spiega che nel prezzo sono inclusi spostamenti, pasti, bibite, alloggio e ogni altro servizio.

Anti-age. «Antietà». O anche: «Contro l’invecchiamento». Lo troviamo spessissimo utilizzato in ambito cosmetico, ma nessuno ormai utilizza i termini italiani: tutte le creme o i trattamenti che lo riguardano sono rigorosamente «anti-age» (la parola «vecchio» è bandita dalla pubblicità!).

Background. «Retroterra», «sfondo», sostrato». Il Devoto-Oli spiega che l’anglicismo «background» è entrato in italiano intorno alla metà del Novecento e sta a indicare sia «l’insieme delle circostanze che fanno da sfondo a un avvenimento o a un movimento (il background di una corrente letteraria) sia il complesso delle esperienze e delle conoscenze che concorrono alla formazione di una persona (il background di un artista)».

Backstage. «Dietro le quinte», «retropalco». Ormai la parola inglese ha sostituito il corrispettivo italiano. Nessuno mai direbbe, per esempio a un concerto: «Andiamo dietro le quinte a cercare di salutare il cantante».

Badge. Tutti al lavoro ne abbiamo uno. Serve per entrare in piscina o in palestra. Lo usiamo anche per salire sugli autobus o entrare in metropolitana. Talvolta pure per aprire cancelli o porte. È il «badge» (ma potremmo tranquillamente chiamarlo «tesserino», «distintivo», «cartellino o targhetta di riconoscimento»).

Band. Certo che a Ivano Fossati non sarebbe mai passato per la testa di cantare: «La mia band suona il rock!». Eppure l’anglicismo band è radicatissimo già dalla metà del Novecento. e indica una piccola formazione musicale, soprattutto in ambito jazz, pop e rock. Insomma, una banda.

Bipartisan. Scrive il Devoto-Oli: «L’anglicismo bipartisan è entrato in Italia negli anni Novanta del secolo scorso, quando è stata introdotta la modifica del sistema elettorale con il passaggio dal modello proporzionale a quello maggioritario sulla falsariga del sistema politico angloamericano, basato sull’alternanza al governo di due formazioni politiche maggiori. Il nuovo sistema elettorale mirava a una semplificazione del quadro politico, ma l’auspicata riduzione del numero dei partiti non ha avuto luogo. Per questo motivo l’aggettivo italiano bipartitico non sembra appropriato come possibile sostituto del termine inglese. Più calzante appare “trasversale”, che rende meglio l’idea di qualcosa condiviso da maggioranza e opposizione o comunque da persone di opposto orientamento politico». Insomma: «Trasversale».

Bond. Troppo facile chiamarla «obbligazione»? Confonderebbe meno le idee a molti risparmiatori.

Cash. Come vuole pagare? Cash o carta? Insomma, basterebbe dire: in contanti, con denaro contante, o, alla peggio, «sull’unghia».

Catering. Il sostantivo inglese catering significa «approvvigionamento» e deriva dal verbo «to cater», rifornire di cibo. In italiano si potrebbe sostituire con «servizio di ristorazione».

Derby. In effetti a nessuno verrebbe da chiamare la partita Milan-Inter come «stracittadina». Ormai il «derby» fa parte del nostro vocabolario quotidiano. Di più: è entrato in italiano nel secondo Ottocento (ai tempi, però, indicava una corsa al galoppo riservata ai puledri di tre anni; da lord Derby, che nel 1780 istituì un premio per una corsa di cavalli).

Evergreen. L’anglicismo si riferisce a ciò che non passa mai di moda. In genere un cantante, un attore, una canzone. Si può sostituire facilmente con l’aggettivo: intramontabile (come Paul Newman, per esempio).

Fan. Dall’inglese, è l’abbreviazione di «fanatic», cioè fanatico. È entrato in italiano nel 1933 per indicare un ammiratore entusiasta di un divo del cinema. Negli anni si è allargato a «ammiratori», «appassionati», «fedelissimi» e tifosi» di cantanti, calciatori, personaggi pubblici.

Gloss. Chiamarlo lucidalabbra pare brutto, eh?

Happy end. Chi non lo sogna, al cinema e nella vita? È semplicemente il «lieto fine», quando tutti vissero felici e contenti.

Jat lag. Ne soffriamo dopo un lungo volo, quando troviamo un fuso orario diverso. Indica quel malessere psicofisico generalizzato che si prova all’arrivo. L’anglicismo è entrato in italiano negli anni Ottanta, in seguito all’incremento dei viaggi intercontinentali. Si potrebbe dire, in italiano, «mal di fuso» e «sindrome da fuso orario».

Killer. In Italia il termine inglese comincia a diffondersi negli anni Trenta, grazie ai film e ai libri polizieschi americani. All’inizio sostituiva la parola «sicario». Oggi si usa al posto di «assassino», «omicida». È usato come sostantivo, ma anche come aggettivo (in accostamenti non troppo felici come eroina killer, sasso killer, zanzara killer).

Light. È la parola che fa sentire meno in colpa chi cerca di dimagrire: significa «leggero» e una moltitudine di alimenti è contrassegnata dall’astuta dicitura che garantisce una quota di calorie inferiore al corrispondente «normale». (Esistono anche le sigarette «light», ma difficilmente nuocciono poco alla salute).

Make up. Ci sono i «make up artist» (i truccatori) e i «make up tutorial» (lezioni di trucco). Fanno molta scena, ma tutto ruota attorno al «trucco», semplicemente.

News. Il termine si può pacificamente sostituire con «notizie» o «ultime notizie». L’anglicismo non ha risparmiato neppure la televisione di Stato...

Okay. Siamo d’accordo, «va bene».

Party. Altro non è che una festa! Il sostantivo inglese party, però, è a sua volta di origine francese, ed è entrato in italiano nel primo Novecento.

Premier. Scrive il Devoto-Oli: «L’anglicismo si è diffuso in Italia nel linguaggio politico e giornalistico soprattutto all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso per analogia con il sistema britannico del premierato, ma il primo ministro inglese e quello italiano, pur rappresentando entrambi il vertice del potere esecutivo, sono due figure diverse per origine e funzioni. Oltre a primo ministro, le denominazioni italiane equivalenti sono presidente del consiglio (dei ministri) e capo del governo; nel linguaggio giornalistico e` usata anche l’espressione l’inquilino di Palazzo Chigi, con riferimento all’edificio storico situato nel centro di Roma, sede del governo e residenza del presidente del consiglio».

Red Carpet. È il «tappeto rosso» su cui sfilano le star e i personaggi famosi del mondo dello spettacolo, in occasione di premiazioni, inaugurazioni, cerimonie o altri eventi importanti. Di per sé anche il passaggio delle star sul «red carpet» è un evento nell’evento.

Selfie. Il sostantivo inglese «selfie» inizia a circolare agli inizi del Duemila e si sviluppa in modo esponenziale man mano che si diffondono i telefonini con la telecamera frontale. Potrebbe essere sostituito dall’italiano autoscatto.

Trend. Così lo racconta il Devoto-Oli: «Nel film Palombella rossa del 1989 l’attore e regista Nanni Moretti inveisce contro un’intervistatrice perché infarcisce le proprie domande di anglicismi e in particolare usa la parola trend: “Chi parla male, pensa male e vive male. Le parole sono importanti: trend negativo. Io non parlo così, io non penso così”. Il termine inglese trend è entrato in italiano a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso con riferimento a fenomeni di carattere economico e poi si è diffuso nella lingua comune in relazione a fatti della vita sociale e culturale. Il sostantivo deriva dal verbo to trend ‘essere inclinato in una direzione’ (da un precedente significato di ‘rotolare’) e infatti indica una tendenza, un andamento, un orientamento: i primi dati sulle esportazioni mostrano un trend positivo (= un andamento positivo); arriva dagli Stati Uniti l’ultimo trend della moda (= l’ultima tendenza)».

User friendly. Significa: amichevole per chi lo usa. Indica la semplicità d’uso di un programma o di un sistema.

Vintage. Dal Devoto-Oli: «Il termine inglese vintage deriva dal francese antico vendenge vendemmia e significa propriamente ‘d’annata’, con riferimento al vino pregiato (vintage wine ‘vino d’annata’). L’anglicismo è attestato in italiano a partire dal 1992 e si è diffuso in particolare nel linguaggio della moda per indicare abiti e accessori del passato il cui stile ha segnato una determinata epoca. Ma la parola non si applica soltanto ai capi di vestiario; può essere definito vintage qualsiasi oggetto (mobili, strumenti musicali, biciclette, motorini, manifesti, fotografie, ecc.) che appartenga al passato e riveli il gusto di un certo periodo storico. Nel suo uso aggettivale l’anglicismo ha come equivalente in italiano la locuzione d’epoca (abbigliamento vintage / abbigliamento d’epoca; arredamento vintage / arredamento d’epoca)».

Abstract. Lo utilizziamo spesso in ambito scientifico, ai convegni, durante i seminari. Il Devoto-Oli spiega che è entrato nell’uso corrente da oltre mezzo secolo. Ma al posto di abstract si potrebbe dire benissimo anche «sommario», «sintesi», «riassunto». Tutto in italiano.

Gb, questionario a scuola: "Di che lingua sei: italiano, napoletano o siciliano?". Scuse dal Foreign Office. L'iniziativa per stabilire l'area linguistica di provenienza aveva lo scopo di fornire una migliore assistenza nell'apprendimento dell'inglese. Ma è stata interpretata, alla fine, come una "schedatura" in base all'origine regionale. "Rammarico" del governo britannico per un "errore storico", scrive Enrico Franceschini il 12 ottobre 2016 su "La Repubblica". Parlate italiano, napoletano o siciliano? La domanda fa parte di un questionario che alcune scuole della Gran Bretagna hanno inviato alle famiglie dei nuovi alunni per l'anno scolastico iniziato da circa un mese. L'iniziativa aveva, in teoria, uno scopo non discriminatorio: stabilire l'area linguistica di appartenenza dei figli di immigrati per poter fornire sia ai bambini, sia eventualmente ai genitori, la necessaria assistenza nell'apprendimento dell'inglese. Analizzando il modulo, si notano suddivisioni anche per i vari tipi di lingua punjabi, cinese, arabo. E l'elenco contiene una categoria anche per il sardo (sardinian), considerato una lingua a parte. Ma quale che fosse l'intento, il risultato è stato comunque di far sentire i nostri connazionali come se venissero "schedati" in base all'origine regionale. Come se esistessero almeno tre tipi di cittadino italiano: l'italiano-italiano, l'italiano-napoletano e l'italiano-siciliano. Qualche famiglia italiana ha segnalato la cosa alla nostra ambasciata di Londra e la protesta è stata immediata. "L'Ambasciata d'Italia nel Regno Unito è intervenuta per richiedere la modifica di talune categorizzazioni regionali riferite all'Italia comparse sui moduli online per l'iscrizione scolastica in alcune circoscrizioni in Inghilterra e nel Galles", afferma una nota dell'ufficio stampa della nostra sede diplomatica. "I codici presentati per la selezione dell'appartenenza etnica, utilizzati sui siti di alcune circoscrizioni scolastiche, indicavano infatti una scelta fra italiano, italiano - napoletano e italiano-siciliano. L'Ambasciata ha protestato con le autorità britanniche, richiedendo la rimozione immediata di tali categorizzazioni". Nella nota verbale di protesta si ricorda che "l'Italia è dal 17 marzo 1861 un Paese unificato": un commento all'insegna dell'understatement inglese, cioè senza bisogno di gridare, da parte della nostra ambasciata, che in parole semplici suonerebbe come una tirata d'orecchi al ministero d'Istruzione britannico, non lo sapete che l'Italia non è più un'espressione geografica? A caricare ulteriormente la polemica deve aver contribuito anche la decisione, solo pochi giorni fa, di escludere i ricercatori non britannici da un progetto sulla Brexit alla London School of Economics. Con la differenza che questa volta il Foreign Office britannico non ha esitato a chiedere scusa all'Italia "deplorando l'accaduto" e assicurando "un intervento perché vengano subito rimosse queste categorizzazioni non giustificate e non giustificabili". Il Foreign Office, tra l'altro, ha fatto sapere che "verificherà per quale motivo, in pochi e isolati distretti scolastici, siano state introdotte queste categorizzazioni, che peraltro non avevano alcuna volontà discriminatoria, ma semplicemente miravano all'accertamento di qualche ulteriore difficoltà linguistica per i bambini da inserire nel sistema scolastico inglese e gallese". Alle scuse del Foreign Office segue la dichiarazione di un portavoce per esprimere il "rammarico" causato a Downing Street dall'errore "storico". "Il governo britannico - spiega anche il portavoce - acquisisce informazioni linguistiche come parte del censimento scolastico per assicurarsi che gli studenti di madrelingua diversa dall'inglese possano ricevere la migliore istruzione possibile nel Regno Unito. Ci è stata segnalata la presenza di uno storico errore amministrativo nei codici linguistici in uso fin dal 2006. Anche se tale errore non ha avuto alcun impatto sull'istruzione ricevuta dagli alunni italiani nel Regno Unito, il governo britannico esprime il proprio rammarico per l'accaduto e per le offese da questo eventualmente arrecate. Il ministero dell'Istruzione britannico ha modificato i codici in questione e da oggi tutti gli allievi di madrelingua italiana saranno classificati sotto un unico codice". Soddisfatto l'ambasciatore Pasquale Terracciano: "Si evita così il montare di una polemica su quello che è stato un errore dovuto a ignoranza e superficialità da parte di qualche isolato distretto scolastico più che a una reale volontà discriminatoria. E' importante evitare l'insorgere di equivoci nella fase delicata del post-Brexit". Prima delle scuse del Foreign Office, l'ambasciatore era stato molto duro nel denunciare "iniziative locali motivate probabilmente dall'intenzione d'identificare inesistenti esigenze linguistiche particolari e garantire un ipotetico sostegno. Ma di buone intenzioni è lastricata la strada dell'inferno, specie quando diventano involontariamente discriminatorie, oltre che offensive per i meridionali". Mentre il sottosegretario al ministero dell'Istruzione italiano, David Faraone, si era detto incredulo per il fatto che "ancora oggi siamo costretti ad affrontare pregiudizi di questo tipo. La scuola italiana ha superato da tempo questi stereotipi e in Italia, come nel Regno Unito, si deve lavorare per l'integrazione e la formazione delle generazioni future".

Il questionario inglese che scheda gli studenti napoletani e siciliani. La protesta del nostro ambasciatore a Londra, Pasquale Terracciano, che ha spedito al Foreign Office una «nota verbale» per sollevare il caso, scrive il 12 ottobre 2016 Fabio Cavalera, corrispondente a Londra per "Il Corriere della Sera". Una pagina di un documento del «Dipartimento dell’educazione» del governo del Galles che raccoglie dati su etnia e prima lingua degli studenti, richiesti ai genitori al momento dell’ammissione. Sono quattro sigle. «Ita», ovvero italiano. «Itaa», ovvero altri italiani («any other»). Poi «Itan», per dire «Italian Neapoletan», e «Itas» che sta per «Italian Sicilian». C’è poco da ridere e da scherzare. A essere buoni siamo di fronte a una manifestazione di stupidità e ignoranza. A essere cattivi, invece, c’è da pensare di molto peggio. Fatto sta che in alcune scuole del Regno Unito, all’atto dell’iscrizione, occorre passare dalle forche caudine della classificazione etnica. E per queste scuole pubbliche esistono quattro tipologie di italiani. L’italiano doc. L’italiano meno doc, che sarebbe l’«altro». L’italiano di Napoli. E l’italiano della Sicilia. Insomma, hanno diviso i bambini e gli adolescenti d’Italia figli di emigrati. Non poteva stare zitta la nostra rappresentanza diplomatica dinanzi a uno scempio tale e difatti l’ambasciatore Pasquale Terracciano ha spedito alForeign Office una «nota verbale» per sollevare il caso che è stato documentato in un certo numero di scuole dell’Inghilterra e del Galles: al momento della richiesta di ammissione on line richiedono ai genitori «di specificare l’etnia e la prima lingua» del figlio. Una sorta di marchio che «deve essere rimosso con effetto immediato». I primi a inorridire sono stati i nostri connazionali del distretto metropolitano di Bradford i cui consigli scolastici hanno messo in rete la «classificazione». Ma, chissà come, quello che poteva essere un errore isolato è diventato un modulo adottato anche, per esempio, nel Galles. Non in qualche istituto isolato di qualche isolato villaggio. Ma niente meno che dal «Dipartimento dell’educazione» del governo del Galles. Seguiti successivamente, Bradford e Galles, da altri consigli territoriali. I connazionali, dunque, hanno informato l’ambasciata che si è mossa sul ministero degli esteri di sua maestà. Dabbenaggine? Ignoranza? L’ambasciatore Terracciano esclude che si tratti «di una forma di discriminazione attiva». E ha ragione. Nessuna violenza. Ma ritiene che in un momento caratterizzato da una sensibilità particolare sui temi dell’immigrazione e in piena tensione Brexit, sia fastidioso e pericoloso «introdurre una distinzione artificiale» del genere. Un capitombolo di pessimo gusto. La spiegazione non va ricercata in volontà persecutorie contro gli italiani che sono trattati benissimo e apprezzati moltissimo. Più semplicemente, forse, è solo scarsa o nulla conoscenza della storia da parte di chi rivendica il suo glorioso passato imperiale. E visto che siamo nella patria della ironia sottile e cattiva, l’ambasciata ha preferito ricorrere all’arma che piace tanto ai britannici. Nella nota a verbale inviata al Foreign Office, sempre maestri e professori, la nostra Ambasciata coglie l’occasione per ricordare «che l’Italia è diventata un paese unificato il 17 marzo 1861». Insomma, discriminazione per ignoranza. Qualcuno qui a Londra e dintorni è rimasto fermo all’Ottocento.

Poi c'è la spiegazione di chi dà per scontato che nel 2016 i bambini di famiglie meridionali all'estero ancora non sappiano parlare l'italiano, come se non esistesse la tv o internet per divulgare la madre lingua.

Italiano, napoletano o siciliano? L'autore del post del 12 ottobre 2016 su "Butan" si firma Maicol Engel. In queste ora (ma erano già alcuni giorni che circolava) mi state segnalando in tantissimi la notizia del questionario inglese per le famiglie degli studenti, questionario che secondo tanti sarebbe “scandaloso” visto che prevede quattro caselle diverse per gli italiani, una per i napoletani, una per i siciliani, una per gli “altri” e una generica Italians. Un questionario per «schedare» gli studenti napoletani in Inghilterra. Sono quattro sigle. «Ita», ovvero italiano. «Itaa», ovvero altri italiani («any other»). Poi «Itan», per dire «Italian Neapoletan», e «Itas» che sta per «Italian Sicilian». C’è poco da ridere e da scherzare. A essere buoni siamo di fronte a una manifestazione di stupidità e ignoranza. … per queste scuole pubbliche esistono quattro tipologie di italiani. L’italiano doc. L’italiano meno doc, che sarebbe l’«altro». L’italiano di Napoli. E l’italiano della Sicilia. Insomma, hanno diviso i bambini e gli adolescenti d’Italia figli di emigrati. è solo scarsa o nulla conoscenza della storia da parte di chi rivendica il suo glorioso passato imperiale. E visto che siamo nella patria della ironia sottile e cattiva, l’ambasciata ha preferito ricorrere all’arma che piace tanto ai britannici. Nella nota a verbale inviata al Foreign Office, sempre maestri e professori, la nostra Ambasciata coglie l’occasione per ricordare «che l’Italia è diventata un paese unificato il 17 marzo 1861». Insomma, discriminazione per ignoranza. Qualcuno qui a Londra e dintorni è rimasto fermo all’Ottocento. Queste le parole del Corriere della Sera, che evidentemente, come tutte le testate italiane, si è fermato solo a guardare le notizie circolate in Italia e le lamentele degli italiani residenti in UK, senza cercare il documento da cui si partiva. Non si sta parlando di nazionalità o provenienza diversa, ma di lingua. L’elenco che viene fatto compilare per l’ammissione a scuola spiega chiaramente che viene richiesta la prima lingua (che si parla a casa) e difatti basta guardare con attenzione per accorgersi che l’Italia non è l’unico paese ad avere più caselle possibili. Scelte diverse per lingue diverse. I berberi hanno 4 scelte, gli arabi 7, chi viene dal Bengali 3, i cinesi 6 e così via. Si tratta di dialetti o variazioni della lingua base, dialetti che sono così diffusi da necessitare una casella a parte. Qui potete trovare uno degli elenchi che prevedono questo sistema di codificazione della prima lingua. Noterete che subito prima di Italian c’è Informazione non ottenuta, ovvero chi compila può tranquillamente omettere la lingua. Come potrete vedere ci sono 4 scelte (più una dedicata alla lingua sarda). Chi vuole può tranquillamente scegliere che parla come prima lingua italiano. Il fatto che ci siano altre scelte non condiziona questa possibilità, non è una schedatura etnica, solo un tentativo di capire quale sia la prima lingua dell’alunno. Alcuni di voi storceranno il naso, lo capisco, ma io stesso ho un amica nata in UK da genitori italiani che oggi conosce l’italiano perché l’ha imparato con corsi appositi, a casa sua si parlava solo dialetto (lei viene dalla Basilicata). Ci sono tantissimi nostri connazionali che a casa parlano solo e unicamente i dialetti delle loro zone di provenienza, e così i figli, magari nati in terra straniera, non sono in grado di parlare l’italiano, ma solo il dialetto di mamma e papà. Non c’è davvero nulla di così scandaloso, non se la stanno prendendo con i nostri emigranti, non c’è nessuna intenzione di schedare gli alunni, ma solo l’interesse a sapere quale sia la lingua principale parlata a casa. Sia chiaro, i nuovi quesiti per le ammissioni a scuola hanno infastidito anche alcuni britannici d’altra nazionalità, le lamentele sul web si sprecano. Ma è importante accettare che il nostro paese esporta anche italiani che all’estero, per non perdere le radici di casa, parlano solo nel loro dialetto regionale. Probabilmente il napoletano e un generico dialetto siciliano sono quelli più diffusi. Non ci trovo nulla di così scandaloso, non fosse che gli stessi britannici nello scrivere napoletan hanno commesso un errore, visto che la grafia corretta è neapolitan. Lo so che sembra incredibile, ma dobbiamo accettare che non tutti in Italia parlino l’italiano come prima lingua anche a casa, anche nel 2016. Non ci sarebbe nulla di male, difendere l’identità regionale è qualcosa a cui noi italiani teniamo molto, da sempre, non fosse che alcuni di questi genitori l’italiano se lo sono scordato da anni (se mai l’hanno saputo). Io però con gli inglesi a questo punto sono un po’ arrabbiato. Perché non hanno evidenziato anche il bolognese? Dopo le lamentele del nostro ambasciatore sembra che il governo inglese si sia scusato, alcuni usano la cosa come dimostrazione che fosse una schedatura e che l’articolo qui sopra non abbia senso. Se arrivati fin qua siete ancora di quell’opinione evidentemente non mi so spiegare bene. Resto fermamente convinto che la polemica nata su questa storia sia equivalente alla denuncia fatta dal sindaco di Amatrice contro Charlie Hebdo, un ulteriore via per farci prendere per i fondelli all’estero. La cosa che mi fa sorridere di più è che in altro contesto, pur di difendere l’ufficialità di questo o quel dialetto certi soggetti si sarebbero strappati le vesti.

Supera francese e tedesco: l'italiano è la quarta lingua più studiata al mondo. Dopo l'inglese, lo spagnolo e il cinese, l'italiano è la quarta lingua più studiata del pianeta. Il dato è stato comunicato durante gli Stati Generali della lingua italiana che si sono tenuti a Firenze, a Palazzo Medici Riccardi, organizzati dal Ministero degli Affari Esteri e dal Ministero dell'Istruzione. Arte, cultura e musica lirica sono parte fondamentale dell'interesse suscitato all'estero dall'italiano. Ma non manca l'appeal esercitato dal buon cibo e il made in Italy.

Tutti pazzi per l'italiano, è la quarta lingua più studiata, scrive Massimo Maugeri il 18 ottobre su "Agi". Quarta lingua più studiata nel mondo dopo l'inglese, lo spagnolo e il cinese. E in crescita esponenziale. L'italiano è sempre più amato e diffuso, e i numeri lo dimostrano: nel biennio 2015/16, oltre 400 mila studenti in più rispetto al biennio precedente, hanno iniziato a studiare la nostra lingua il cui appeal continua a essere legato alla passione per l'arte e la cultura. Negli ultimi anni tuttavia, una forte attrazione è esercitata anche dal Made in Italy in tutte le sue forme, dalla moda al design, fino al cibo e al vino. E lo studio della lingua di Dante è considerata da molti giovani stranieri anche un modo per trovare lavoro nei settori in cui l'Italia è ai primi posti, dal lusso all'enogastronomia. Un impulso "decisivo" alla diffusione della lingua sarà dato in futuro dai nuovi media. In base ai dati diffusi durante gli Stati generali della lingua italiana nel mondo, nell'anno scolastico 2014/2015 sono stati 2 milioni 233 mila 373 gli studenti stranieri di lingua italiana nel mondo. Un numero che gli esperti considerano "estremamente imponente" e che segna "un incremento notevole" rispetto al milione e 700 mila studenti del 2013/14 e al milione 522 mila dell'anno scolastico 2012/13. Secondo le statistiche, la maggioranza assoluta degli studenti di italiano nel mondo (il 55%) studia la nostra lingua a scuola, mentre 324.386 persone lo fanno contesti diversi da quelli scolastici. Circa 42 mila studenti stranieri hanno seguito corsi di italiano presso enti come la società Dante Alighieri o altre associazioni culturali. In crescita anche l'albo degli italofoni, il registro di tutti coloro che parlano la lingua italiana e si sono distinti in vari ambiti professionali, che ha registrato un incremento del 70% nell'ultimo biennio, raggiungendo quota 1.100 nominativi. Resta ferma invece la voce borse di studio: la direzione generale per la promozione del sistema Paese, nel biennio considerato, ha offerto borse di studio solo a 571 cittadini stranieri, pari a complessive 3.836 mensilità. Arte, cultura, letteratura, storia. Ma anche moda e design. Cambiano i fattori che secondo il rapporto stanno alimentando l'appeal della lingua italiana nel mondo da parte degli stranieri. Il nostro patrimonio artistico, architettonico, musicale e letterario resta la prima ragione per cui gli stranieri si avvicinano alla lingua italiana, ma ultimamente, rileva il documento degli Stati generali della lingua, nell'immaginario collettivo vengono associati all'Italia anche le eccellenze dal Made in Italy, come la moda, il cibo e il design. Si tratta, secondo gli esperti, di uno dei principali veicoli attraverso cui attrarre le nuove generazioni verso lo studio dell'italiano, anche con prospettive di lavoro e di business. In ambito europeo i Paesi che registrano una maggiore presenza di studenti di italiano sono la Francia e la Germania. Quest'ultima, in particolare, è il primo Paese al mondo per numero assoluto di studenti della nostra lingua. La maggior parte dei corsi di italiano in Germania si tiene soprattutto nelle Università popolari in cui si concentra l'88% degli studenti, grazie a tasse di iscrizione più basse e offerta di corsi e materiale in settori molto diversi. Anche in Francia il numero di studenti di italiano è in crescita costante, nell'anno 2014/15 sono stati oltre 270 mila. Stati Uniti e Australia sono i paesi anglofoni con il maggior numero di studenti di italiano. In Australia, in particolare, dove l'italiano è parte del patrimonio culturale ereditato dalla forte immigrazione di nostri connazionali, sono stati conclusi una serie di accordi per l'inserimento sistematico di corsi di italiano nei sistemi scolastici locali. L'italiano resta la seconda lingua più studiata e resiste all’assalto delle lingue asiatiche, soprattutto il cinese, che si sta espandendo in maniera molto forte. Negli Usa, l'italiano è la quarta lingua straniera più studiata, e gli Stati Uniti hanno il primato del Paese che ha il più alto numero di cattedre e di italiano e dipartimenti di italianistica nel mondo. Ad oggi negli Usa ci sono circa 50 dipartimenti di italianistica e circa 400 corsi di italiano a livello universitario. Crescono inoltre gli studenti americani che sono venuti a studiare in Italia: nell'ultimo biennio sono aumentati del 4,4% rispetto al biennio precedente. Negli Usa, in circa 800 scuole di ogni ordine e grado, l'italiano costituisce una parte dell'offerta curricolare. Il 60% di queste scuole si concentra sulla costa est, nella fascia Boston, New York, Philadelphia, Washington. Dopo l'inglese, lo spagnolo e il francese, l'italiano si contende con il giapponese, il coreano e il tedesco, il quarto posto tra le lingue più studiate in Cina. Il numero degli studenti di italiano è in crescita, emerge dai numeri diffusi dagli Stati generali, ma la presenza dell'italiano nel sistema scolastico cinese è praticamente nulla e in quello universitario è molto limitata: si registrano infatti solo 2.900 studenti circa, distribuiti nei 30 atenei cinesi che offrono corsi di italiano. Malgrado il forte legame culturale e l'immenso flusso migratorio che nel secolo scorso hanno caratterizzato il rapporto tra i due paesi, l'Argentina è solo il sesto paese al mondo per numero assoluto di studenti d'italiano, che rimane la terza lingua più studiata dopo inglese e francese. L'Argentina resta il paese in cui si registra la più significativa incidenza demografica e sociale di italiani, con oltre 900 mila italiani residenti, ma la popolazione più giovane, secondo il rapporto, sta perdendo interesse per la lingua degli avi emigrati e rinuncia a studiare l'italiano per la mancanza di eventuali sbocchi professionali che invece sono più facilitati dall'apprendimento di altre lingue. Migliora la situazione in Brasile invece: l'anno scorso, è stato concluso un memorandum d'intesa con il ministero dell'Istruzione brasiliano per aumentare i corsi di italiano a livello universitario. L'Albania è oggi il Paese più italianofono del mondo, dopo l'Italia. Grazie alla televisione. Il segnale terrestre che arrivava sugli apparecchi dei cittadini albanesi durante uno dei regimi socialisti più chiusi e isolati dell'ex blocco dell'Est, ha fatto sì che l'Italia si trasformasse in un modello culturale e linguistico di riferimento per gli albanesi. Ma paradossalmente la tecnologia ha bloccato questo fenomeno: il passaggio al digitale terrestre infatti ha interrotto questo canale e la conoscenza della lingua italiana da parte delle giovani generazioni di albanesi è molto meno diffusa che in passato. L'Albania rimane comunque il Paese con una maggiore presenza di studenti di italiano, in particolare nelle scuole locali. Tra i Paesi del Mediterraneo, Tunisia e Egitto sono quelli dove l'italiano si sta diffondendo di più. L'Egitto in particolare è il Paese col più alto numero assoluto di studenti italiani e dove la domanda di insegnamento dell'italiano come seconda lingua, dopo l'inglese, sta crescendo in maniera più veloce. In Tunisia, dal 1989, la lingua italiana è inserita come terza lingua opzionale, (dopo francese, considerata lingua madre, e inglese) in tutti i licei del Paese. I giovani si avvicinano ai prodotti 'lingua-cultura-economia-società italiana', sempre di più attraverso i nuovi media. Moltissime aree del mondo un tempo non raggiunte dall'offerta culturale italiana e dal suo 'fascino', oggi sono invece a portata di mano. Dunque, secondo la gran parte degli esperti, la nuova sfida è quella di riuscire a veicolare il prodotto Italia e la sua lingua attraverso canali di comunicazione del tutto nuovi, a cominciare dai social media. Ma per fare questo servono due cose: "Una strategia politica e istituzionale che promuova i contenuti in italiano sul web" e "un più pieno e consapevole coinvolgimento del sistema imprenditoriale". L'invito è a creare piattaforme condivise tra le imprese italiane impegnate nei processi di internazionalizzazione e i soggetti che operano per diffondere la lingua e la cultura italiana nel mondo. Il futuro della lingua italiana e dello stesso sistema Paese, passa per una linea rossa che unisce economia, cultura e diffusione digitale. (AGI) 

Bellezze dell’italiano. La quarta lingua più studiata al mondo, scrive Simona Maggiorelli il 19 ottobre 2016 su "Left". Mentre la Lega pretende che si insegni il dialetto “lombardo” a scuola, l’italiano si prende una bella rivincita. Oggi è al quarto posto fra le lingue più studiate al mondo dopo l’inglese, lo spagnolo e il cinese.  Nella Giornata ProGrammatica di Radio3 il 19 ottobre tutto il palinsesto è dedicato all’italiano, con decine di ospiti e il coinvolgimento di Istituti di cultura italiana.  Ecco cosa ha detto il linguista Antonelli a Left: La lingua lombarda rischia di estinguersi. Armata di questa convinzione la Lega Nord torna a voler imporre l’insegnamento della lingua lombarda nelle scuole. «Non ha proprio senso insegnare i dialetti», dice però il linguista Giuseppe Antonelli. «Il dialetto è sempre stato la lingua degli affetti, della vita quotidiana», spiega il docente dell’università di Cassino e autore de La lingua batte ogni domenica su Radio 3. «E poi non è vero che i dialetti vadano scomparendo. Una ricerca Istat dice che sono molto vivi. Mentre sono scesi al 2 % gli italiani che parlano solo il dialetto». Una conquista importante. «La grammatica italiana è un diritto», scriveva Gramsci. E gli italiani lo hanno conquistato a fatica, come si evince dalle prove di italiano per l’iscrizione alle liste elettorali che Antonelli cita nel suo nuovo Un italiano vero. La lingua in cui viviamo (Rizzoli). «In tempi di email e social network è più che mai importante studiare l’italiano scritto» aggiunge il conduttore della IV edizione della Giornata pro-grammatica in onda su Radio3. «Per gran parte degli italiani il diletto rappresenta la dimensione familiare, giocosa, colorita. Pasolini, che preconizzava un italiano tecnocratico e freddo, aveva paura che la perdessimo». È accaduto invece che l’italiano è andato incontro a nuove sfide. «Non basta parlarlo, bisogna saperlo scrivere, in modo diverso, dagli sms. Per questo servono più ore di italiano a scuola, invitando alla lettura di romanzi e poesia». Anche il linguista e critico letterario Gian Luigi Beccaria dice, da sempre, che non avrebbe senso studiare i dialetti in classe. «E poi quali? Il lombardo non esiste. Dovremo insegnare il bergamasco, il piacentino, il milanese? Il torinese o il biellese o il langarolo? I dialetti sono moltissimi ed è la nostra grande ricchezza. In dialetto si possono scrivere poesie, c’è un’ampia tradizione da Raffaello Baldini a Zanzotto, ma non per questo possiamo fare a meno dell’italiano», commenta il professore emerito dell’università di Torino, autore di molti saggi, di un dizionario di linguistica e filologia e ora dell’italiano che resta (Einaudi), un appassionato viaggio nella lingua come organismo vivo, in continuo cambiamento. Un libro di ricerca, ricchissimo di informazioni, che trasmette l’emozione della scoperta di parole nuove ma anche di perle ormai desuete. Si scopre così che tantissime espressioni dialettali innervano già l’italiano, che nel corso dei secoli ha mutuato termini da una pluralità di lingue antiche. Non solo dal latino. I prestiti dal latino liturgico vanno scomparendo in una società che oggi è sempre più secolarizzata, come ha documentato Beccaria in libri come Sicuterat, il latino di chi non lo sa e dedicati a santi, demoni e folletti. Molti sono i termini venuti dal greco antico e di uso quotidiano. «L’italiano attuale deve molto al greco» sostiene Antonelli. «Secondo il dizionario di Tullio De Mauro più del 2 % delle parole italiane hanno un etimo greco, non solo termini specialistici, ma anche parole di uso comune come atmosfera, entusiasmo, fase, sintomo ecc.». Ancor più interessante è scoprire la quantità di termini arabi che l’italiano ha assorbito, passando attraverso il dialetto veneziano e quello siciliano. A questo tema Beccaria dedica una parte del suo nuovo libro. Solo per citare un esempio: zecchino nasce dalla Zecca veneziana dal 1540. E zecca è un arabismo. «L’importanza dell’arabo è stata enorme nella nostra storia. Anche se oggi, purtroppo, il mondo musulmano ci offre parole legate ai conflitti, alla guerra, al Jihad ma non è sempre stato così», dice Beccaria a Left. «L’arabo nel medioevo, e anche in seguito, ci ha dato una quantità enorme di parole. Trasformarono la Sicilia in un giardino d’Europa. Lo stesso fecero in Andalusia. Parole come arancio, zucchero carciofo, albicocca, limone sono arabe. E tante vengono dall’ambito della scienza, dell’astronomia, all’algebra ecc. I latini e i greci non avevano una parola e un concetto per indicare lo zero, il nulla, il vuoto. L’uso dello zero nell’espressione dei numeri viene dagli arabi. Ci hanno veramente arricchito di parole e di cultura». «C’è una originaria vicinanza fra la cultura araba e la nostra lingua continua a recarne traccia», aggiunge Antonelli. Prima di parlare di scontro fra culture, dovremmo avere consapevolezza di quanto noi gli dobbiamo anche in termini linguistici». Basta camminare nella parte più antica di Palermo per notare nomi di strade scritti in arabo ed ebraico. Ma si possono vedere anche interni di palazzi, come la misteriosa sala blu, decorati con calligrafie arabe. Per il linguista rivelatori sono gli antichi nomi delle strade che spesso indicano nomi o lavori scomparsi. Anche i graffiti, le scritte sui muri, di cui Pompei era piena, sono tracce preziose, al pari dei testi letterari. Come insegna Beccaria che ne fa uno strumento affascinante di ricerca, insieme a canti anarchici e della resistenza, filastrocche trasmesse di generazione in generazione. La tradizione orale permette di capire molto di come è mutato l’italiano soprattutto in anni più vicini a noi. Più rare e fortunose sono le scoperte di documenti antichi. Ma a volte sono straordinarie come quella avvenuta qualche anno fa nell’archivio di Stato di Roma grazie al linguista Pietro Trifone. Nel borgo di Collevecchio, Bellezze Ursini si manteneva facendo la domestica e la guaritrice, un’attività “mal vista” dalla Chiesa. Nel 1527 fu accusata di stregoneria e torturata. Stremata, scrisse una confessione autografa. Che non servì a niente. Prima di finire sul rogo, preferì suicidarsi. Quelle sue otto paginette ci dicono molto di un italiano popolare allora ancora in fieri, racconta Giuseppe Antonelli. «Ci dicono che nella campagna romana ci poteva essere, agli inizi del ‘500, una donna, una popolana, che sapeva scrivere». Colpisce anche la trascrizione ufficiale che ne fece il notaio Luca Antonio, normalizzando il linguaggio della donna per farle dire ciò che ci si sarebbe aspettati da una “strega”. «Quel modo di tradurre la grammatica di Bellezze in quella del potere mette bene in luce il confronto/scontro tra due mondi sociali e culturali di cui la lingua è al tempo stesso spia e strumento. Emerge la lotta, poi durata secoli, con la lingua ufficiale da parte di persone che invece venivano da situazioni socioculturali meno avvantaggiate», approfondisce Antonelli. Quel 1527, l’anno del sacco di Roma «fu anche un momento di svolta per l’italiano». Nonostante il dominio della Chiesa e il latino liturgico, il volgare si presentava come una lingua fluida, duttile, rivendicata da artisti come Leonardo che si definiva con orgoglio «omo sanza lettere», snobbando i latinisti tromboni. Ma proprio mentre si diffondeva un volgare vivo e popolare (fra romanzi, leggende e grammatiche) nel 1525 Pietro Bembo pubblicò Le prose della volgar lingua. «L’umanista veneziano fu rigidissimo nel prescrivere forme riconducibili al modello di Petrarca e di Boccaccio». Così se Dante e il fiorino, ovvero la potenza economica dei mercanti toscani, «avevano contribuito alla diffusione del fiorentino come lingua di prestigio, tutto questo fu formalizzato dall’umanista veneziano», risponde Antonelli alla nostra domanda sulla discussa egemonia del fiorentino. «Nel 1525 Bembo indicò come modello per la lingua letteraria che oggi chiamiamo italiano quello usato da Boccaccio per la prosa e da Petrarca per la poesia». Quanto a Dante, «Bembo lo teneva un po’ fuori, giudicava il suo fiorentino troppo plebeo e concreto. Da studioso che amava le lingue morte come il latino, Bembo scelse una lingua che all’epoca era già estinta da due secoli». Dando origine così a una lingua letteraria, «basata sugli eccellenti scrittori» protetta dai puristi, anche quelli di fede giacobina, e deprecata da Mazzini che non sopportava di rivestire il pensiero «della lingua de’ morti e d’uno stile pedantesco». Del tutto nuova fu la posizione di Leopardi, al quale – seppur da differenti punti di vista- entrambi gli studiosi che abbiamo interpellato dedicano uno spazio di rilievo nei loro libri. «Leopardi era un amante della tradizione letteraria italiana, era un grande conoscitore della letteratura delle origini, ma non era un purista», spiega Antonelli. «Aveva un’idea della lingua come qualcosa di vivo, ne ammetteva la libertà. Mentre in tanti lottavano contro i francesismi lui li chiamava europeismi. E li considerava, come i grecismi, un patrimonio comune alle varie lingue d’Europa». Anche per liberare il poeta di Recanati da una mitizzazione che lo allontana dai lettori, Giuseppe Antonelli ha scritto il saggio Comunque anche Leopardi diceva le parolacce (Mondadori, 2014). «L’autore delle Operette morali era un raffinato, un fine conoscitore della nostra lingua, sapeva usare registri e toni diversi, passando dalla poesia ai saggi, alle lettere. Quando scriveva agli amici per sfogarsi di un amore non corrisposto o di un insuccesso letterario si lasciava andare. Era capace di passare dal sublime a uno stile concreto, a seconda dell’interlocutore. Tutto questo – ribadisce Antonelli – può avvenire solo si conosce profondamente la lingua, le sfumature le differenze di registro, di costrutto». Ad incipit di Un italiano vero cita, non a caso, un passo dello Zibaldone: «La libertà nella lingua- scriveva Giacomo Leopardi – dee venire dalla perfetta scienza e non dall’ignoranza». Come poeta Leopardi sceglieva le parole per il suo no, ma usando la parola scienza sembrava alludere anche di una scelta legata a una ricerca di conoscenza. «Interessante è ciò che emerge studiando le minute di Leopardi e osservando le varianti» commenta Beccaria con sguardo da filologo. «Nel libro parlo di Giorgio Caproni e di altri autori ma Leopardi è il principe dei poeti. Studiando le “sudate carte”, gli scartafacci, emerge il suo lavorio continuo, e ci permette di vedere la direzione che voleva prendere», commenta Gian Luigi Beccaria, che nel libro, per esempio, pone l’accento su cambiamenti come il passaggio da «infinito spazio», quasi una citazione galileiana, a «infiniti spazi». «Al singolare Leopardi preferisce un plurale, perché è più “astratto”. È un poeta che cerca il vago e il concreto insieme, riuscendo a conciliare le due cose. Ha un dono particolare: saper orchestrare la sua partitura, i suoni delle vocali, i rimandi, le assonanze interne, le consonanze, c’è una musica interna. È come un musicista che cerca l’intonazione».

Italiano lingua morta. In partenza per l’America, Renzi fa tappa a Firenze per difendere e rilanciare la lingua italiana. In dieci minuti di discorso riesce ad elogiare contemporaneamente la lingua di Dante e la globalizzazione, sua mortale nemica, scrive Alessio Sani il 19 ottobre 2016 su "L'Intellettuale Dissidente". Ci sono cose che è difficile credere di poter vedere nell’arco di una vita, eppure una di queste è davanti agli occhi di tutti noi: il Pd è riuscito a partorire un premier nazional-popolare. Matteo Renzi infatti, prima di imbarcarsi per l’ultima cena di Stato obamiana, ha fatto tappa nella sua Firenze per inaugurare il convegno “Gli Stati Generali della Lingua Italiana nel mondo”, due giorni di incontri e studi sullo stato di salute della nostra lingua. Dietro al buon Matteo, nella splendida cornice di Palazzo Vecchio, campeggiava il titolo del convegno: “Italiano lingua viva”. Solitamente, quando si sente il bisogno di riaffermare ciò che fino a ieri si considerava un’ovvietà è bene porsi qualche domanda. In questo caso se l’italiano non sia piuttosto, nonostante gli sforzi retorici del premier e degli altri relatori, una lingua ormai morta o, perlomeno, prossima alla dipartita. L’ultra-fiorentinismo del governo si scorda che l’italiano nasce in Sicilia. Lo stesso Renzi, fiorentino doc, uno che col volgare ci sa fare, è probabilmente uno dei sintomi del grave stato di debilitazione di cui soffre la lingua di Dante. Nei dieci minuti in cui ha tenuto il palco, scherzandoci sopra, il premier ha infilato un paio di anglicismi. Il più grottesco è stato prontamente ripreso da un quotidiano sempre in prima linea in queste cose, Repubblica, che ha titolato: - Lingua italiana, Renzi: “Serve una gigantesca scommessa sul made in Italy”-. Qualcosa, onestamente, laggiù da qualche parte, non ha retto alla forza dell’ossimoro ed ha cominciato a rotolare. Queste sono tuttavia piccolezze. Si può scusare un quotidiano d’impronta estremista (chiaramente liberal), un po’ meno chi ha la faccia tosta di parlare di difesa dell’italiano e poi chiama un documento ufficiale dello Stato “Jobs Act”, quando fino a ieri era il parlamento inglese ad arrogarsi il diritto di scrivere leggi nella propria lingua madre. Miracoli della globalizzazione. Proprio il grande nemico di questi tempi, l’omogeneizzazione economia e dunque culturale del pianeta per interposto libero mercato, rende subito evidente il paradosso del Renzi-pensiero versione Palazzo Vecchio. In politica, perlomeno se si vuol provare a farla seriamente, sarebbe opportuno dotarsi di una ferrea coerenza logica, se non di prassi almeno di pensiero. Quando vengono partorite dal medesimo cervello, le varie idee ed opinioni che riguardano gli innumerevoli argomenti che sfiorano la categoria del politico dovrebbero potersi concatenare l’una all’altra, logicamente, fino a chiudere il cerchio. Avere un pensiero organico purtroppo però è molto difficile e spesso non paga. Generalmente è più facile inseguire consensi colpendo a casaccio, sparando fotogrammi di presunta attività neuronale qua e là in un balenar di telecamere. Così Renzi ha deciso di dar prova della buona formazione liceale di chi gli scrive i testi, scherzando su Dante e referendum, facendo sua una battaglia che potrebbe impressionare positivamente le casalinghe di Voghera superstiti. Eppure quei dieci minuti di palco sono stati un concentrato di anacronismi. Affastellando luoghi comuni in un processo di contaminazione materialista di un discorso prevalentemente culturale, il Premier si è doluto dell’incapacità italiana di sfruttare il fascino, anche linguistico, dei nostri stereotipi positivi artistico-estetici per esportare di più. Questo il succo: l’italiano e l’Italia hanno ancora appeal, siamo la patria del bello, non facciamoci fregare da chi chiama parmesan il parmigiano tarocco e rilanciamo, attraverso la nostra immagine all’estero, i nostri settori di punta. Tutto questo, chiaramente, all’interno del campo di gioco predefinito: la globalizzazione neoliberista. Eppure alcune riflessioni sorgono spontanee. Da un punto di vista strettamente linguistico “parmesan” è un successo: abbiamo esportato un nuovo termine dopo “pizza”, anche se gli incassi non vengono in Italia. O dovremmo forse incazzarci con qualunque non italiano che chiami “pizzeria” il suo ristorante di Nuova Delhi? Nell’ottica di fondo del Premier, l’Italiano diventerebbe la lingua globale della moda e dell’agro-alimentare, anglicizzato e storpiato, ma non sarebbe certo più vivo. La contraddizione profonda infatti è nell’ambivalenza intima del convegno e del premier: difendere l’Italiano e la globalizzazione contemporaneamente è impossibile. Ad un certo punto Renzi dà la sua personalissima definizione di globalizzazione, unita ad una dichiarazione d’intenti: “cornice culturale internazionale in cui l’Italia sia nelle condizioni di essere elemento di attrazione, […] di richiamo, […] di bellezza”. Ecco, forse qualcuno dovrebbe far notare al premier che la globalizzazione non è inter-nazionale, quello era il mondo pre-seconda guerra mondiale, in parte anche post fino alla caduta del muro di Berlino. La globalizzazione è sovra-nazionale, dunque non prevede le nazioni. Vediamo di fare un paragone semplice. Qualcuno disse che la storia si ripete sempre due volte, la seconda in farsa. Non è così semplice, ma è vero che spesso sono esistiti micro-cosmi in grado di anticipare dinamiche e fenomeni che si sarebbero poi ripetuti simili su scala più ampia. Uno ce l’abbiamo in casa. Quando i nostri avi fecero l’Italia erano alquanto stufi della precedente “cornice culturale internazionale”, quella sì tale, cioè la difficile convivenza tra staterelli di piccola dimensione e ancor minore potenza. Così, al di là delle belle speranze federaliste di Cattaneo o del Gioberti, fecero una micro-globalizzazione intramoenia e la chiamarono Italia. Le piccole realtà territoriali e dunque culturali precedenti piano piano scomparvero. I dialetti rimasero fino all’avvento della scolarizzazione di massa e della televisione. Oggi sopravvivono nelle nostre riserve indiane, nello Strapaese dei borghi di montagna, al Sud, in qualche nicchia ben protetta, ma per quanto ancora? Il declino è innegabile, da lingue vivissime sono ormai diventati fantasmi di un passato lontano. Qualcosa di simile, si può prevedere, avverrà all’italiano perché non di ordine tra nazioni si tratta, ma dell’uccisione delle medesime e dunque della loro espressione massima, la lingua.  Una seconda contraddizione evidente nel discorso del premier è quella giustamente esposta da Bartezzaghi sul Tirreno: “Una lingua è tanto più forte quante più sono le cose che si possono dire solo in quella lingua, e che in quella lingua sono nate: vestiti, brevetti industriali, libri, musiche, canzoni, film, pietanze. Più cose nascono in italiano, più l’italiano verrà adottato come lingua d’affezione all’estero.” Il secondo numero del Bestiario intitolato “Italianity” (illustrazione di Mario Damiano) raccontava ai lettori come il governo ha trasformato l’identità italiana in un brand, snaturandola completamente. In soldoni: una lingua è viva quando è espressione di una società curiosa, attiva, intraprendente, insomma vitale. Quando ha il proprio baricentro all’interno di sé stessa e può guardare al mondo, quando inventa e crea, invece di assorbire solamente. Dal momento in cui decreti una battaglia di retroguardia, stai difendendo chi è prossimo al trapasso. E l’Italia di oggi è sull’orlo del baratro. Forse un’altra Italia, o più propriamente qualcosa d’altro, di più o meno simile, rinasceranno in questo lembo di terra che si inabissa nel Mediterraneo, ma non sarà più ciò che oggi conosciamo con tale nome. Per tornare al parmigiano, ha senso fare gli schizzinosi quando ormai i casari sono tutti immigrati indiani perché gli autoctoni o non sono nati o hanno preferito andare a far kebab a Londra? Se non altro il lascito della tradizione, il nome, si è trasmesso, visto che perfino i tarocchi cinesi lo utilizzano storpiato. Ma quella tradizione da cui è nato è morente e, soprattutto, non è stata sostituita da una qualche innovazione. Non possiamo fermarci ad un formaggio lodato già da Plinio e lamentarci per una questione di brevetti tardo-imperiali. Non sarà il parmigiano a salvare l’italiano quando praticamente la totalità della produzione letteraria accademica è in lingua inglese. Non lo salveranno neanche le cinquantaquattro app per insegnarlo ai cinesi, così che possano scrivere parmigiano giusto, se nelle nostre università teniamo interi corsi in inglese. Abbiamo donato al mondo il lascito di praticamente tutta la terminologia musicale classica. Quanta musica di qualità produciamo oggi? Quante serie televisive? Quanti film di spessore, quanti romanzi? Se guardiamo alla sfida del presente invece, all’informatica, lo scenario è ancora più tetro. Possiamo discutere su quanto abbia senso la battaglia, ugualmente di retroguardia, giocata da spagnoli e francesi tra un ratòn ed un ordinateur, ma almeno loro ci hanno provato ad appropriarsi di quei concetti, noi no. Figuriamoci proporne uno nuovo, quando migliaia di giovani ben formati scappano ogni anno verso la Silicon Valley. Qualcuno dovrebbe dire a Renzi che là non si parla la lingua di Dante. Non produciamo più concetti originali e non potrebbe essere altrimenti. Già tentennanti nell’identità (perché quando si parla di lingua fondamentalmente si entra anche nel campo delle identità collettive) non abbiamo retto l’urto proprio con “la grande opportunità” (citazione dello stesso discorso del premier) della globalizzazione. Assaltati da telefilm e soap-opera, rigorosamente tradotte per carità, ma certamente non nostre; invasi da prodotti, più o meno tecnologici, la cui origine non si trova certo tra il Resegone e il lago di Como; seguaci di volta in volta della moda orientale od americana di turno, dallo yoga al pilates, abbiamo perduto noi stessi prima ancora della nostra lingua. Non è con le battaglie di retroguardia, difendendo il passato, che i nostri nipoti saranno ancora in grado di leggere la Divina Commedia. Per essere lingua viva, l’Italiano ha bisogno dell’Italia. Peccato che sia scomparsa, un pezzetto a Londra, uno a New York, uno chissà dove. Quando Amerigo Vespucci nomò l’America, per interposto cartografo tedesco, l’Italia politica era lungi da farsi, ma la società italiana era ancora ben vitale, era ancora il centro di sé stessa. Oggi è una nave alla deriva, in gran tempesta, con Renzi come nocchiere.

No, la lingua italiana non è sessista: ci sono il maschile e il femminile. Cominciate a usarli. Le petizioni (a scopi promozionali) lanciate per modificare regole grammaticali non hanno senso. Piuttosto utilizziamo parole come assessora o sindaca. Anche se ci sembrano "brutte". Segnalateci nei commenti gli usi impropri della lingua con l'hashtag #italianoEspresso, scrive Mariangela Galatea Vaglio il 20 febbraio 2017 su "L'Espresso".

In italiano, le parole sono maschili o femminili. Non è sessismo, è che la nostra lingua è strutturata così. Il nostro “papà” latino aveva anche il genere neutro, che indicava solitamente gli oggetti e talvolta i concetti astratti. In effetti, se ci pensate, è illogico che gli oggetti in italiano siano considerati maschi o femmine. Non c'è alcun reale motivo per cui il pane sia maschio ma la pagnotta sia femmina, e lo stesso si può dire per il tavolo e la scrivania. Fatto sta che, nel gran bailamme dei secoli bui e delle invasioni barbariche, il genere neutro si è perso, come la toga e il latino, e la lingua parlata in seguito, cioè quello che poi è diventato il nostro italiano, non ha conservato il genere neutro. Mai, in nessun caso. Il fatto che non esista un genere neutro non trasforma automaticamente l'italiano in una lingua sessista, o poco adatta alla modernità. Se alcune parole erano un tempo solo maschili, perché, per esempio, indicavano mestieri svolti unicamente da uomini, la nostra lingua ha in sé già anche le regole per creare dei femminili. Nei giorni in cui infuria la polemica sugli studenti universitari che non sarebbero in grado di scrivere in italiano corretto, abbiamo pensato di elargire qualche consiglio di base. Pillole di grammatica per salvare la nostra lingua maltrattata. Segnalateci nei commenti gli svarioni che più vi infastidiscono o sui social con l'hashtag #italianoEspresso. Per esempio tutti i nomi che finiscono per -o al maschile, al femminile fanno regolarmente la desinenza femminile in -a. Quindi, per tornare su un argomento che negli ultimi mesi ha infervorato le folle, il femminile di sindaco è regolarmente sindaca, di avvocato è avvocata, di ministro è ministra, esattamente come il femminile di maestro è maestra e di segretario è segretaria. Anche i nomi che fanno il singolare maschile in -e fanno il singolare femminile in -a. Nessuno si è mai scandalizzato perché da infermiere è venuto fuori infermiera, quindi mi sfugge il dramma di chi non ammette assessora. Alcuni lamentano che assessora, ministra e sindaca sarebbero “brutti”. Ma la lingua non ragiona per criteri estetici, ed è anche piuttosto curioso che poi chi non vuole usare sindaca magari usi normalmente ottimizzare, randomizzare, input e altri termini che proprio meravigliosamente musicali non sono. In realtà ministra, sindaca o altri nomi femminili non sono nemmeno particolarmente brutti, solo che non siamo abituati a sentirli usare e ci sembrano strani. Ma la lingua delle nostre fisime, per fortuna, se ne frega. Se allora si dice sindaca obbiettano alcuni, dovrei dire anche piloto? No. Pilota è già maschile. Esistono infatti in italiano (come esistevano in latino e in greco e in talune lingue germaniche) anche dei nomi maschili che hanno la desinenza in -a. Poeta e pilota non sono e non sono mai stati femminili, ma dei maschili regolarissimi. Quindi non ha senso pretendere di dire piloto per indicare un pilota maschio. È già maschio di suo. Essendo termini in -a semmai è più facile volgerli al femminile, perché restano invariati. Si dice il pilota (maschio) e la pilota (femmina) quando chi conduce un mezzo è una gentile signora. La sentinella e la guardia vanno bene per entrambi, ed indicano qualcuno che, maschio o femmina, sta di vedetta (che copre maschio e femmina). Entrambi probabilmente fanno la guerra, altro termine femminile anche se per secoli è stata fatta quasi sempre da soli maschi. Per lo stesso motivo Andrea in italiano è un nome maschile anche se termina in -a (come Enea, Elia, Luca). Negli ultimi anni ci sono anche fanciulle che vengono chiamate Andrea, ma per influsso del tedesco, dove Andrea è un nome femminile (e il maschile è Andreas). Il problema del maschile e del femminile che rischiano di essere sessisti (è infatti antipatico che una donna debba fare il “sindaco” solo al maschile, come se non fosse concepibile che questa carica sia affidata ad una signora) si riscontra però solo nei nomi di cariche e professioni. Non ha senso dire che chiamare la scrivania così è sessismo perché è un femminile. Il genere degli oggetti è stato infatti attribuito loro in maniera arbitraria. La padella è femminile, ma il paiolo è maschile, la penna è femminile ma il pennarello e l'evidenziatore sono maschili. Stesso ragionamento vale per i termini astratti: amore è maschile ma bellezza è femminile, come virtù e scienza.

La campagna commerciale per introdurre il neutro. Non è discriminatorio usare amore come termine al maschile, anche perché amore copre tutta una serie di possibilità: può essere amore fra un uomo e una donna, fra due donne, fra due uomini, fra madre e figlio, padre e figlia, genitori e figli, e chi più ne ha più ne metta. Non c'è quindi nulla di discriminante, così come la bellezza copre bellezza femminile e maschile, la scienza è fatta da scienziati e scienziate, la virtù può essere praticata da chiunque. In nessun caso si può proporre, per legge o con una petizione, di inventare in italiano un fantomatico “genere neutro”. Non esiste. Non sapremmo nemmeno come inventarlo. La nostra lingua non lo prevede e di certo non si può imporre per decreto. Per altro, non si capisce nemmeno chi dovrebbe imporre questo uso: il Governo? Il Parlamento? I generi e nemmeno le parole si possono imporre per decreto. Nascono e poi si diffondono, la gente li usa o non li usa e non c'è nulla che possa cambiare questo fatto. Gli istituti come l'Accademia della Crusca, al massimo, dopo un po', possono certificare la diffusione e l'uso di determinate parole o frasi o espressioni idiomatiche, ma non certo costringere la gente a servirsene. Quindi sì, l'italiano è una lingua strutturata con parole che sono o maschili o femminili. Questo non ci obbliga però a costruire una società italiana sessista, in cui maschi e femmine abbiano dei ruoli predeterminati. Quando ci servono parole nuove per indicare professioni svolte da maschi e femmine, semplicemente si inventano o si volgono quelle che già abbiamo al femminile o al maschile. Non è neppure necessario costruire a tavolino un genere, il neutro, che è stato eliminato dall'evoluzione naturale della nostra lingua, e riesumarlo artificialmente non avrebbe gran senso. Usiamo la grammatica che abbiamo già. Funziona benissimo anche per affrontare le sfide del mondo moderno.

Per piacere, impariamo a usare la virgola. La punteggiatura non è un gesto casuale che si sparpaglia come petali di rosa: serve eccome. E se usata male può addirittura cambiare il senso delle frasi. Con risultati imprevedibili. Seconda pillola di grammatica per salvare la nostra lingua maltrattata. Segnalateci nei commenti gli svarioni che più vi infastidiscono o sui social con l'hashtag #italianoEspresso, scrive Mariangela Galatea Vaglio il 13 febbraio 2017 su "L'Espresso". Fra i misteri italiani, la punteggiatura se la gioca alla pari con i grandi enigmi della Storia repubblicana, e qualche volta li batte. Per la maggioranza delle persone risulta più semplice cercare di risolvere il problema degli intrecci Stato-Mafia che capire dove diavolo vada messa la virgola in una frase. I più optano per una soluzione casuale, cioè seminano i segni di punteggiatura come petali di rose: dove cascano, cascano e amen. In realtà la punteggiatura è in parte così difficile da capire perché entro certi limiti è soggettiva. Il suo compito è infatti rendere il flusso dei pensieri dell'autore e spiegare a chi li vede scritti con che ritmo vadano letti. Siccome il ritmo che voglio dare alle mie frasi è personale, anche la punteggiatura in parte lo è. Alcune regole però ci sono, e vanno il più possibile rispettate. La prima è che la punteggiatura ci vuole. I flussi di coscienza che si spandono per pagine e pagine è meglio lasciarli a Joyce, o limitarli alle pagine di narrativa, e anche lì vanno usati con maestria e moderazione. Se non siete Joyce e non state scrivendo l’Ulisse, ma una semplice lettera di reclamo al Sindaco perché vi spostino da davanti casa un cassonetto della spazzatura, per piacere, usate i punti e le virgole. Lo scrivente vi sarà grato e magari sposterà il cassonetto davvero. La virgola serve ad indicare che leggendo si deve fare una piccola pausa fra un pezzo della frase e l'altro. Dice al lettore dove prendere fiato, quindi ogni tanto mettetene una, se non volete sulla coscienza un lettore morto di apnea. La virgola si usa di regola quando faccio una lista: Sono andato al mercato e ho comprato pane, latte, zucchero. Se la lista la state facendo su un post it da lasciare attaccato alla porta del frigo, lì è concesso saltare le virgole. Se mettere le virgole anche nei post it attaccati al frigo, siete probabilmente un Accademico della Crusca. Altro caso in cui è obbligatorio usare la virgola è dopo il nome di qualcuno che viene chiamato o evocato: Mario, passami il sale! Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? In questo caso Mario e Dio non sono il soggetto della frase, ma un complemento di vocazione, che indica il nome della persona chiamata (vocare in latino significa chiamare, appunto), e siccome dopo il nome viene fatta una pausa (Mario || passami il sale!) la virgola la segnala. Non si deve mai, mai, mai (ho già detto mai? Lo ripeto: mai!) usare la virgola per separare invece il soggetto dal suo verbo o il verbo dal suo complemento oggetto. Se scrivete frasi come: Mario, va a scuola o Dio ha creato, il mondo l'Accademico della Crusca di cui parlavamo sopra (quello che mette le virgole anche nei post it) viene a casa vostra di persona per bacchettarvi le dita. Le virgole sono anche usate per separare le frasi all'interno del periodo. Di regola andrebbero messe prima di una coordinata avversativa (quelle frasi che iniziano con ma, tuttavia, però): Ti ho cercato a casa, ma non c'eri. Non ho finito ancora il libro, tuttavia le pagine lette mi piacciono. Sono molto stanco, però voglio andare al cinema lo stesso. Le virgole possono anche essere usate in coppia, come le parentesi, per indicare una frase che in teoria può essere tolta dal testo senza che questo soffra particolarmente. Queste frasi si chiamano incisi: Questo, come vedi, è lo stato dei fatti. Questa casa, se proprio lo vuoi sapere, sarà messa in vendita presto. Non è questo, a mio modesto avviso, il modo di parlare a tua madre. Le virgole, anche se non sembra, sono piccole ma sensibili. Non abbandonatele in mezzo ai periodi e non lasciatele da sole a vagare per le vostre frasi. Si possono vendicare in maniere terribili e impreviste. La frase: Vengo a mangiare, nonna! vi dipinge come premuroso nipote che va a visitare una parente anziana. La stessa frase senza virgola: Vengo a mangiare nonna! vi indica invece come un pericoloso cannibale epigono di Hannibal Lecter. Quindi occhio alle virgole, se non volete passare per sterminatori di vecchiette.

No, non possiamo mandare in pensione il punto e virgola. È spesso simile ad uno di quegli strani aggeggi che ti ritrovi in casa e non sai bene a cosa servano: quando lo hai visto reclamizzato in una televendita in tv hai pensato che dovevi assolutamente averlo, ma poi non sai mai cosa fartene di preciso, scrive Mariangela Galatea Vaglio il 13 marzo 2017 su "L'Espresso". Uno spettro si aggira per l'Europa. Ok, magari per l'Europa no, ma per le pagine della letteratura europea e mondiale sì. È il punto e virgola. Il punto e virgola è spesso simile ad uno di quegli strani aggeggi che ti ritrovi in casa e non sai bene a cosa servano: quando lo hai visto reclamizzato in una televendita in tv hai pensato che dovevi assolutamente averlo, ma poi non sai mai cosa fartene di preciso. Molti pensano che la punteggiatura sia un segno grafico, invece va pensata più come una notazione musicale. Come sullo spartito ci sono note e pause, perché nella musica è necessario che i ci siano dei momenti di silenzio, anche quando si scrive i punti, le virgole e gli altri segni di punteggiatura servono a segnalare le pause. Ora, mettiamola così: il punto è una pausa lunga. Se è un punto-e-basta, quello che mettiamo alla fine di un paragrafo o di un capitolo, diciamo che dopo di lui contiamo fino a quattro prima di ricominciare a leggere. Il punto che invece separa le frasi nel mezzo di un paragrafo dovrebbe essere giusto giusto un pochino più breve, quindi diciamo che dopo di lui contiamo fino a tre. La virgola vale uno, perché è solo una piccola pausa fra due parole o frasi. Il nostro punto e virgola sta in mezzo. In pratica è più lungo di una virgola ma più breve di un punto. Al contrario di molti altri segni di punteggiatura, l'uso del punto e virgola è abbastanza personale. In realtà si può scrivere una intera vita senza sentire il bisogno di usarlo mai. Un gran “puntevirgolista” era Alessandro Manzoni: nei Promessi Sposi si incappa in punti e virgola come se piovessero, tutti messi ovviamente in maniera meravigliosa. Agli amanti della punteggiatura, diciamolo, i Promessi Sposi regalano vere e proprie estasi di goduria. Nell'italiano più recente i periodi lunghi non godono di grandi fortune, e quindi il povero punto e virgola non ha più il successo di un tempo, tanto che molti ne pronosticano l'estinzione. Restano due casi in cui è obbligatorio usarlo. Il primo caso è quello in cui scrivo un elenco puntato di cose da fare. In quel caso, alla fine di ogni voce dell'elenco devo mettere un punto e virgola, e solo all'ultima voce, quando concludo l'elenco, devo mettere il punto.

Esempio: Domani devo:

comprare il latte;

ritirare le camicie in lavanderia;

scrivere il pezzo per l'Espresso.

L'altro caso in cui il punto e virgola è assolutamente necessario è quando voglio fare l'emoticon che fa l'occhiolino, ovvero questa qua: ;) Ora capite bene che, almeno per preservare l'emoticon, il punto e virgola non può e non deve essere mandato in pensione.

... a cosa servono i puntini di sospensione. Sono solo tre. Non due, non cento. E hanno una funzione ben precisa: quella di sospendere il racconto. Ma in troppi li usano a sproposito, scrive Mariangela Galatea Vaglio il 27 febbraio 2017 su "L'Espresso". Sono una specie di epidemia. Un morbo che si diffonde e attacca anche chi pensavi ne fosse immune. Diplomati, laureati, gente che ha passato anni e anni nelle aule scolastiche e quindi dovrebbe avere ben chiari i fondamentali per scrivere un testo. Invece no: riempiono i loro scritti di puntini di sospensione al posto di punti o virgole. I puntini di sospensione, in italiano, si usano quando si vuole lasciare intendere che una lista o un discorso continuano, o meglio potrebbero ancora continuare a lungo, ma l'autore prova un moto di pietà nei confronti dell'uditorio, e mette quindi i puntini per indicare che lascia il resto all'immaginazione del lettore. Ho comprato ieri pane, latte, verdure, carne, yogurt... e qua pietosamente si tace sulle altre decine di cose che sono finite nel nostro carrello dopo la consueta gita al supermercato. Altra funzione dei puntini di sospensione è appunto sospendere il racconto tenendo il lettore sul filo. Sono una specie di cartello “to be continued” che viene lasciato alla fine di una frase, di un periodo, o magari anche di un racconto o di un capitolo di romanzo per far intendere al lettore che si tratta di un finale aperto, che qualcosa potrebbe ancora succedere se voltasse la pagina, o che comunque la faccenda non è finita e può riservare ancora sorprese. “Eh, se ne potrebbero ancora dire di cose...” Ecco, questi sono i casi in cui si è autorizzati a usare i puntini di sospensione. Invece l'Italia è invasa da una marea di puntini di sospensione incomprensibili. Anzi, ci sono proprio delle tipologie specifiche di seminatori di puntini:

Il puntinatore avaro. I puntini di sospensione sono rigorosamente tre. Ma lui ne mette due. Non si è mai capito se il terzo lo abbia perso in giro o lo nasconda in casa per affrontare momenti di emergenza in cui si trovi senza un punto-a-capo;

Il puntinatore prodigo. Ne mette quattro, o anche cinque, o sei, o una fila intera, tanto che quando leggi non capisci se abbia messo volontariamente i puntini o il tasto gli si sia bloccato mentre scriveva, e lui sia rimasto lì ad urlare in preda al panico, chiamando in soccorso qualche tipo di polizia grammaticale;

Il puntinatore compulsivo. I suoi testi sono semplicemente una scusa per seminare puntini. Li usa per tutto, tanto che abolisce qualsiasi altro segno di punteggiatura. Non esistono per lui più virgole, punti, due punti. Esiste solo un mare di puntini in cui lui naufraga, ma soprattutto fa naufragare il lettore. Senza salvagente.

Se vi riconoscete in qualcuna di queste tre tipologie, tranquilli. Si può smettere. Basta pronunciare a voce alta per un ragionevole numero di giorni: “I puntini sono tre e non si usano al posto del resto della punteggiatura”. È una specie di mantra. Attenzione: perché funzioni va ripetuto ancora, ancora e ancora...

L’avventurosa storia del piuttosto (e del piuttosto che). Pensateci: dovendo dare una alternativa secca, dite: “O la va o la spacca!” oppure “O la va piuttosto che la spacca!”? La prima, vero? Ecco, vi siete risposti da soli, scrive Mariangela Galateo Vaglio il 3 aprile 2017 su "L'Espresso". La storia del piuttosto in italiano è una di quelle curiose vicende che ricordano le biografie di certi fanciulli nati bene che con il tempo cambiano strada, forse si fanno traviare dalle compagnie e finiscono in brutti giri. Infatti il nobile piuttosto, oggi, si trova ficcato in frasi bislacche e viene totalmente travisato nel suo significato preciso. "Piuttosto" in italiano è un avverbio di antica tradizione. È figlio di “più”, di cui rappresenta un rafforzativo, e di “tosto” - cioè presto, veloce - e nel senso originale significava quindi “più velocemente”, “più presto”. Nel corso di qualche secolo si è allargato nell’uso, fino ad indicare “più facilmente”, “più spesso”, “più volentieri” e anche genericamente “molto/molto di più”, come nei casi delle frasi: è piuttosto tardi; viene piuttosto spesso. Siccome è un tipo socievole, piuttosto ha stretto negli anni una fruttuosa amicizia con il che, e i due hanno formato un duo, il piuttosto che. Il piuttosto che serve ad indicare una preferenza fra due cose: piuttosto che uscire, preferisco rimanere sdraiato sul divano; piuttosto che mangiare quella roba, salto il pasto. Il piuttosto ha anche una lunga storia di frequentazione con la o disgiuntiva e specie nelle frasi interrogative i due stanno spesso assieme: Vuoi questo o piuttosto quello? Il pasticcio succede quando nel linguaggio comune si mettono assieme e si frullano le due cose. Ormai da qualche anno c’è gente convinta, soprattutto nel Nord Italia, che il piuttosto che sia una variante della semplice o disgiuntiva o di oppure. Nascono allora frasi assolutamente bislacche, come per esempio: vuoi parlare con la mamma piuttosto che con il papà? Perché discriminare i neri piuttosto che gli zingari? Ecco, ragioniamoci su queste due frasi: scritte così sembra che introducano in qualche modo un criterio di preferenza: nella prima il povero papà sembra considerato inferiore alla mamma (e sì, vabbè, siamo in un paese di mammoni, ma via, non è carino!); la seconda pare quasi una levata di scudi razzista che invita a discriminare tutti allo stesso modo, che diamine!

Quindi ricapitoliamo: il piuttosto che non va usato come sostitutivo di o e di oppure. Ha un significato diverso: indica una preferenza fra due scelte, non una semplice alternativa. Del resto, pensateci: dovendo dare una alternativa secca, dite: “O la va o la spacca!” oppure “O la va piuttosto che la spacca!”? La prima, vero? Ecco, vi siete risposti da soli.

Qual è il problema con il qual è? A "qual" non manca nessuna vocale: è proprio una parola autonoma che si scrive con la consonante finale. Quindi non ci va aggiunto nessun apostrofo: risparmiamo inchiostro, e anche una brutta figura, scrive Mariangela Galatea Vaglio il 17 aprile 2017 su "L'Espresso". Qual è il problema? Be’, il problema alle volte è proprio il qual è. Che in Italiano si scrive così, cioè senza apostrofo, e non Qual’è come spesso ormai si vede. State sbuffando? Non fate finta di niente, vi ho sentito. E vi capisco pure. Ma come, direte voi, prima ci fanno una capa tanta che bisogna mettere gli apostrofi e adesso su qual è se ce lo mettiamo ci facciamo la figura degli zotici? Ma che è, un complotto, una congiura? Nessun complotto, e nemmeno la prova che le regole grammaticali sono pensate da una manica di sadici schizzati. Se vi ricordate quello che abbiamo spiegato quando si è parlato degli apostrofi, l’apostrofo si mette quando la vocale, davanti a un’altra vocale, si va a fare un giro ma poi ritorna. Ecco, non è il caso di qual è. Qui il qual è proprio una parola a sè, che si scrive senza la vocale alla fine. Qual viene usato anche davanti a parole che non iniziano per vocale. Si può dire infatti sia qual è sia qual buon vento, e questa è la prova che a qual non manca nessuna vocale: è proprio una parola autonoma che si scrive con la consonante finale. Quindi non ci va aggiunto nessun apostrofo. In italiano esiste qual come esiste anche tal, alcun, nessun, un. Queste parole nascono per un fenomeno che si chiama troncamento, e come per l’elisione, il fenomeno accade per facilitare la lettura. Ma diversamente dall’elisione, il troncamento accade anche davanti a parole che cominciano per consonante. Noi usiamo tantissimi troncamenti quando parliamo. Diciamo un buon uomo, un bel tipo, o cantiamo a squarciagola Nessun dorma. Qual è un troncamento, esattamente come buon, bel e nessun. Quindi, con buona pace di Saviano (che in un articolo scatenò un vespaio perché scrisse qual’è) e persino di Pirandello (anche lui qualche qual’è lo ha disseminato in giro) qual è si scrive senza apostrofo. Una volta tanto, risparmiamo inchiostro evitando l’apostrofo. E anche una brutta figura.

L'apostrofo, un promemoria per il lettore. Se quando scrivete ve lo dimenticate, chi vi legge resta perplesso: non sa se deve restare lì ad aspettare o se la vocale se n’è andata per sempre e ciao, scrive Mariangela Galatea Vaglio il 24 aprile 2017 su "L'Espresso". Avete presente quando andate in un negozio, trovate la porta chiusa e sulla vetrina il post con su scritto: “Torno subito”? Bene, l’apostrofo in italiano funziona nello stesso modo. Quando una lettera, o meglio, una vocale, se ne va a prendere un caffè, siccome è una lettera educata, lascia un piccolo promemoria al lettore: “Guarda, sono uscita un attimo, ma non ti preoccupare, appena posso mi ritrovi qui.” Se quando scrivete vi dimenticate gli apostrofi il vostro povero lettore resta perplesso. È smarrito: non sa se deve restare lì ad aspettare o la vocale se n’è andata per sempre e ciao. Peggio di una puntata di Chi l’ha visto, insomma. Quando la vocale se ne va per un po’ ma poi ritorna, il fenomeno si chiama elisione. Di solito le vocali spariscono temporaneamente per motivi ben precisi e in casi ben determinati: non è che vi piantano in asso senza un perché. Tanto per cominciare, le vocali se ne vanno solo quando sono alla fine della parola e dopo di loro c’è una parola che comincia anch’essa per vocale. Si può dire sull’altalena ma non nell’giardino, l’insalata ma non l’bistecca. Questo perché l’elisione è un fenomeno nato per facilitare la pronuncia e la lettura delle parole. Si può anche dire sulla altalena, per carità, ma il nostro orecchio un po' si schifa, e quindi mettiamo l’apostrofo per chiarire che quelle due lettere “a” non vanno in realtà pronunciate e ne resta una sola, quella di altalena. La "a" di sulla si prende una pausa e va a fare un giretto per i fatti suoi, ché ogni tanto un po’ di libertà è una mano santa pure per le lettere dell’alfabeto. I casi in cui le vocali si possono concedere una boccata d’aria sono:

Con gli articoli determinativi lo e la: l’albero e l’agenda, e anche in tutti i casi in cui lo e la formano preposizione articolata dell’albero, nell’agenda, all’artista. Attenzione, però: l’articolo la perde la sua a solo al singolare. Posso dire l’agenzia, ma non l’agenzie. Lì devo scrivere le agenzie, le industrie. Per il lo il problema del plurale nemmeno si pone, perché al plurale lo fa gli, perciò in ogni caso non si elide;

L’aggettivo bello ci tiene a essere pronunciato bene, quindi di fronte a vocale vuole suonare al meglio e perde la o. Si scrive infatti bell’affare, bell’uomo;

Anche con santo e santa c’è elisione. Si scrive infatti Sant’Agostino e Sant’Agnese. Con l’apostrofo, mi raccomando, oppure i santi che cominciano per vocale si arrabbiano come se gli aveste tolto l’aureola;

Con l’avverbio di luogo ci davanti alle voci del verbo essere: c’è, c’erano, c’era.  Attenzione, anche qua lo potete fare solo quando il ci è un avverbio di luogo (ci era equivale a era qui). Quando invece si tratta del pronome personale complemento ci (come in ci ama, ci ha invitato), che quindi vuol dire a noi, non potete elidere mai. Del resto c’ama non si può sentire: vi fareste odiare subito. Inoltre il ci non può essere eliso davanti alla acca. C’ho non si può scrivere. La regola infatti dice che il ci si elide solo con le vocali. La acca è una vocale? No. Quindi c’ho, c’hanno non si scrive, o l’Accademico della Crusca vi mena con l’apostrofo stesso a mo’ di scudiscio. In alcuni modi di dire e frasi fatte come tutt’al più, quant’altro, senz’altro, nient’affatto, d’ora in poi, quand’anche, d’altra parte e d’altronde. Sì, d’altronde si scrive con l’apostrofo e non dal tronde, non esistendo la parola “tronde” in italiano. Voi resterete magari stupiti che esista invece la parola altronde. Eh, invece esiste, anche se viene usata esclusivamente, in pratica, in questa locuzione. Alle volte la lingua sembra bizzarra assai.

Non si possono elidere invece le vocali finali quando li e le sono pronomi personali: le aspetto, li interpello. E se mai vi venisse in mente, no, non si possono elidere mai le vocali finali degli avverbi di luogo lì e là, perché si possono togliere, elidere e far sparire solo le vocali non accentate. Quelle accentate devono restare dove sono, perché l’accento segna il punto dove la voce si appoggia, se glielo togliete la voce sbarella e casca tutto. In tutti gli altri casi in cui avete una parola che finisce per vocale e una che inizia per vocale sta a voi decidere. Potete scrivere anch’egli o anche egli, lo ascoltò o l’ascoltò, un’arancia o una arancia.  È una questione di scelta stilistica, o anche di come vi gira al momento. L’importante è che non dimentichiate di mettere l’apostrofo nei casi in cui è obbligatorio, o il vostro povero lettore è destinato a restare lì chiedendosi se la vocale tornerà, se si è persa, se mai la rivedremo. Il che, per carità, può generare una certa suspense, ma non è il caso di scatenare il panico a vuoto, nemmeno se state scrivendo un thriller.

Ci vuole un po' di attenzione a scrivere “po'”. I troncamenti non dovrebbero avere apostrofi, ma po’ ce l’ha. È un modo per segnalare che un’intera sillaba se n’è andata via. E sarebbe meglio, davvero, non scriverlo con l'accento. Anche quando è l'opzione imposta dal cellulare, scrive Mariangela Galatea Vaglio il 2 maggio 2017 su "L'Espresso". In Italiano ci sono due po. Uno è il fiume, e quando vi riferite a lui siete pregati di ricordavi due cose: si scrive con la maiuscola, perché è nome proprio (il Po) e non vi va messo sopra accento, perché è una parola monosillaba. Gli accenti in italiano segnalano la vocale su cui la voce si appoggia, ma Po di vocale ne ha una sola, per cui segnarci sopra l’accento è inutile. Il nome Po deriva dal latino Padus, antico nome del fiume, e per questo la pianura che attraversa si chiama Padana. L’altro po italiano è po’, scritto con l’apostrofo, che significa poco. Deriva dal latino paucus, che in italiano si è trasformato in poco e poi in po’. Se quando scrivete ve lo dimenticate, chi vi legge resta perplesso: non sa se deve restare lì ad aspettare o se la vocale se n’è andata per sempre e ciao. Tecnicamente po’ è un troncamento, per giunta di una intera sillaba, cioè il -co finale. I troncamenti non dovrebbero avere apostrofi, ma po’ ce l’ha. È un modo per segnalare che un’intera sillaba se n’è andata via. Se nei casi comuni l’apostrofo è un cartellino con su scritto “torno subito” e segnala una vocale solo temporaneamente sparita, nel caso del po’ l’apostrofo è più una lapide alla memoria. C’era un tempo una sillaba, ma non c’è più: una prece. Si può scrivere pò, con l’accento? Negli ultimi tempi lo si vede spesso, soprattutto perché il correttore ortografico di cellulari e computer sembra essersi convinto che quella è la grafia corretta. Per farlo rinsavire bisogna andare a smanettare nelle impostazioni del vocabolario interno al telefonino, operazione che richiede un minimo di competenze tecniche che non tutti hanno. Per questo capita di riceve messaggini da coltissimi amici con dentro scritto pò con l’accento, e immaginare la loro disperazione per questo errore imposto loro da un programma di scrittura automatico. Si può, non si può scrivere pò con l’accento? No. sarebbe proprio meglio di no. Magari fra qualche anno ci arrenderemo e accetteremo pò con l’accento, che comunque è un controsenso. Po’ inteso come “poco” è un troncamento: l’apostrofo non gli serve ma nemmeno l’accento, perché è anche un monosillabo, quindi la voce non ha bisogno di sapere dove appoggiarsi, dato che può stare solo sulla vocale o. Per ora quindi resistiamo, sia al T9 che al pò accentato. Resistiamo e intanto impariamo come smanettare le impostazioni del cellulare. Con un piccolo sforzo, si può costringere il maledetto a scrivere po’ con l’apostrofo, credetemi.

Che rebus quel "ci", l'avverbio bistrattato. E' un avverbio di luogo e serve ad indicare dove si svolge l'azione. Ma spesso lo confondiamo con il "ci" che significa noi/a noi. Tutti i trucchi per vederci più chiaro, scrive Mariangela Galateo l'8 maggio 2017 “L’Espresso”. Pochi lo riconoscono, anche se le frasi che facciamo con lui ogni giorno sono centinaia. Ma 'ci', ovvero l’avverbio di luogo che indica “qui, in questo posto”, è una delle parole più bistrattate del vocabolario. La maggioranza delle persone, quando analizza una frase come “C’è posto a tavola?” o “C’è qualcosa che manca?” tende a considerare il povero ci come se facesse parte del verbo, oppure a confonderlo con il suo omografo 'ci' pronome personale atono, quello che vuol dire “a noi”. C’è/ci sono sono invece due frasi con un avverbio di luogo: c’è significa “è in questo posto”, “sta qui”. Il suo compito accanto al verbo essere è molto preciso: indica il luogo dove l’azione si svolge. Tra l’altro segnala in modo inequivocabile che in questo caso il verbo essere svolge la funzione di predicato verbale e non nominale, come invece gli capita quasi sempre. C’è significa infatti “si trova”, e pertanto in questo caso il verbo essere descrive una azione, ovvero è sostituibile con il verbo “stare”. Il ci deriva probabilmente da un latino alto medievale hicce, a sua volta derivato dall’avverbio di stato in luogo latino hic. Il ci avverbio di luogo si usa con i verbi che indicano il rimanere o il raggiungere un determinato luogo, come stare (ci sta), andare (ci andiamo), venire (ci vieni?). Non va invece confuso con il ci che significa “noi/ a noi”. Ci guardiamo negli occhi significa infatti che io e te /noi ci guardiamo reciprocamente negli occhi, e non indica nessun luogo; allo stesso modo Ci spostiamo da casa al lavoro indica che spostiamo noi stessi, ci portano da mangiare significa che portano da mangiare a noi. Nella frase Noi ci siamo, invece, è chiaro che sostituire il ci con un ulteriore “noi” non avrebbe senso. Il segreto per riconoscere i due ci è quindi provare a sostituire il ci con un noi/a noi. Se la frase ha ancora senso, è pronome, se invece risulta incomprensibile si tratta di un avverbio. Il povero ci ve ne sarà molto grato. Passare l’esistenza ad essere confuso con qualcos’altro è difficile persino per un avverbio: c’è di che perdere l’autostima.

Quel dove in ogni dove. Viene usato spesso indebitamente, e alcuni sono convinti che possa sostituire qualsiasi “in cui”, scrive Mariangela Galatea Vaglio il 15 maggio 2017 su "L'Espresso". Lo si usa ormai in ogni dove. E non sempre nel posto giusto dove metterlo. Stiamo parlando del dove, che in italiano a volte può sostituire il relativo “in cui”. Quando, appunto, questo “in cui” indica un luogo. Se dico per esempio “il luogo in cui mi trovo ora è bello” posso tranquillamente trasformare la frase in “il luogo dove mi trovo ora è bello”. Il problema è che il dove viene usato spesso indebitamente, e alcuni sono convinti che possa sostituire qualsiasi “in cui”. Abbiamo così frasi bislacche come “il giorno dove ti ho incontrato” o “il momento dove parli”. Ragioniamo un attimo prima di scrivere. Dove indica sempre un luogo. E un momento, un giorno non sono luoghi, nemmeno figurati. Sono determinazioni di tempo, non di spazio. Sono una cosa diversa, indicano il quando, non il dove. Se dico "La borsa dove tengo la cipria" ha un senso, perché indico un luogo dove la cipria viene messa, cioè la borsa. Ma non posso dire “il momento dove mi inciprio il naso”. Non ha senso, e il povero interlocutore resterebbe perplesso non capendo dove vogliate usare il piumino per ritoccare il trucco. Peggio ancora se invece di un “in cui” il dove sostituisce un che. Ha senso dire “il bar che frequento ogni mattina”, non “il bar dove frequento ogni mattina”. Il bar è un luogo, per carità, ma voi frequentate lui, cioè il bar, perché frequentare è un verbo transitivo che vuole dopo di sè un complemento oggetto. Ci vuole quindi un che relativo. Se invece dite “il posto dove bevo il caffè alla mattina è questo bar”, o "il bar dove vado ogni mattina è questo" allora va bene. Anzi, se il caffè è buono, passate l’indirizzo. 

Andateci piano con "dunque" e "cioè". Oggi sono sorpassati. Se li usate venite subito datati cronologicamente come relitto di un’era che fu, scrive Mariangela Galatea Vaglio il 22 maggio 2017 su "L'Espresso". Non si comincia mai una frase con il dunque. Dunque, in italiano, è una congiunzione conclusiva. Vuol dire che va usata per concludere un discorso e tirare le fila di qualcosa che è stato detto in precedenza. Sono stata tutto il giorno in piedi dunque sono stanca. Molti invece usano il dunque come un incipit, un modo per iniziare la conversazione quando non si sa che dire: Dunque, mi dicevi? Ma immaginate che, prima, la persona a cui vi rivolgete non abbia detto assolutamente nulla. Vi guarderebbe come un pazzo. Ci sono casi in cui il dunque può essere usato all’inizio della frase. Per esempio quando uno ha parlato per mezz’ora in maniera complicatissima, noi non abbiamo capito un accidenti o molto poco di tutto lo sproloquio e allora, per dispetto, ironicamente sibiliamo: Dunque? In questo caso è un modo per invitarlo in qualche modo a tirare una conclusione e dare un senso comprensibile a quando ha detto. Ma in queste situazioni, appunto, si tratta di un uso ironico, quindi è corretto. Cominciare una frase con il dunque senza che prima ci sia nulla non ha invece alcuna logica. Dunque cosa?

Attenzione va fatta anche all’uso del cioè. Cioè serve a spiegare qualcosa che si è detto in precedenza: faccio il social media manager, cioè curo gli account social dell’azienda. In anni passati, soprattutto negli anni ‘70 e ‘80, cioè era invece una specie di riempitivo valido per tutto. Quando non si sapeva cosa dire, ci si ficcava un cioè. Oggi è sorpassato. Se lo usate venite subito datati cronologicamente come relitto di un’era che fu. La versione più colta del cioè è stato negli anni ‘90 il diciamo. Veniva schiaffato all’interno di ogni conversazione quando non si sapeva bene come proseguire. Lo usava spessissimo D’Alema. Nella variante diciamocelo era invece il marchio di Ignazio la Russa. Oggi va quindi usato con parsimonia e cautela. Non solo vi data, ma sapete anche a chi vi fa assomigliare. Pensateci e decidete di conseguenza.

"Ci hanno" e "C'hanno": attenti a quei due. Queste frasi con ci infatti sono tipiche del linguaggio colloquiale. Insomma, si usano quando si parla, specie fra amici e in situazioni molto familiari. E quando si scrive, allora, sono corrette? Scrive Mariangela Galatea Vaglio il 29 maggio 2017 su "L'Espresso". “Ci ho un caldo oggi che brucio!” È corretta questa frase? E, ampliando il discorso, sono corrette tutte le frasi che usano il verbo averci? In realtà il ci in questo caso è un avverbio di luogo che ormai ha perso il suo significato, e viene usato solo come sottolineatura emotiva. Tutte queste frasi con ci infatti sono tipiche del linguaggio colloquiale. Insomma, si usano quando si parla, specie fra amici e in situazioni molto familiari. E quando si scrive, allora, sono corrette? Qui bisogna rispondere con un diplomatico “dipende”. Dipende infatti, e davvero, dal tipo di testo che stiamo scrivendo. Se è un testo serio e formale, no, non è il caso di usarle. Se invece è un testo che in qualche modo si ispira alla lingua parlata o in cui, per esempio, dobbiamo descrivere il modo di parlare di un personaggio non molto colto, allora possono andare bene. Tantissimi sono gli scrittori che hanno usato questo tipo di frase, da Boccaccio a Manzoni, proprio per scrivere dei dialoghi più realistici e meno ingessati. Bisogna comunque fare attenzione a come si scrivono, questi ci, oltre che a quando. Infatti la frase Oggi ci ho proprio caldo è accettabile, mentre oggi c’ho proprio caldo è un pugno su un occhio. Il problema sorge per colpa dell’h che c’è in mezzo. La h in italiano non si pronuncia, ma nello scritto si vede. Se si elide la i finale, la c e la h si trovano a contatto, e il nostro occhio è abituato a leggere le due lettere vicine come un ch che si pronuncia quindi k. Per questo motivo vedere un testo dove sia scritto c’ho per molti è una vera tortura. I linguisti hanno proposto di usare una grafia particolare, cioè cj ho. Ma per ora è un uso limitato solo ad alcuni articoli specialistici e non ha preso piede presso il grande pubblico. Che spesso c’ha altro da fare, e usa l’apostrofo senza curarsi dell’acca. Vinceranno loro? Probabilmente. Per ora conserviamo la i finale e aspettiamo l’evolversi della lingua.

I tranelli dell'acca, quella lettera che c'è e non c'è. E' l'unica muta del nostro alfabeto, e si vendica comparendo nelle forme del verbo avere, praticamente a caso. Ecco come non farsi ingannare, scrive Mariangela Galateo Vaglio il 14 giugno 2017 su "L'Espresso". Voi pensate la frustrazione. In una lingua come l’italiano, in cui le lettere si pronunciano tutte come sono scritte, lei no, è l’unica che non si sente. Muta. Non stupisce che debba trovare il modo di vendicarsi. E infatti la h in italiano si vendica comparendo nelle forme del verbo avere apparentemente a caso: ho, hai, ha, hanno. Il motivo per cui la h c’è in queste forme è legato alla storia della nostra lingua. Il verbo avere in italiano deriva dal latino habere, che cominciava con l’h. Nel corso dei secoli la h, che appunto non veniva pronunciata, si è persa anche nella forma scritta. È rimasta solo in alcuni casi, perché altrimenti, togliendola, sarebbe difficile capire esattamente cosa viene detto. Se io scrivo a ragione è diverso da ha ragione. È necessario dunque che a preposizione semplice e ha voce del verbo avere si scrivano in maniera differente. La stessa cosa avviene con anno/hanno: una cosa è dire l’anno passato altra dire l’hanno passato. Un vecchio trucco per riconoscere quando ci troviamo di fronte al verbo avere e si deve mettere la h è quello di sostituire nella frase il presente (ho, hai, ha, hanno) con l’imperfetto. Se la frase continua ad avere senso anche all’imperfetto, allora al presente il verbo va scritto con l’acca:

Io ho due calzini -> io avevo due calzini

Io vado a casa-> io andavo avevo a casa

La h è sempre stata fonte di moltissimi errori, proprio perché non si pronuncia e dunque non si sente. All’inizio del secolo fu fatta una proposta per toglierla del tutto, ma siccome restava il problema di distinguere la a preposizione dal verbo avere, si suggerì di scrivere la voce del verbo con un à accentata. Quindi invece di ha/ho/hanno/hai si sarebbe dovuto scrivere à/ò/ànno/ài. Ci si rese però presto conto che così non si risolveva niente, anzi si generava una confusione ancora maggiore. Quindi alla fine si decise di tenere la acca. Continua a rimanere al suo posto e non molla. Tiè.

"Vadi pure", anzi no "facci lei": basta fantozzismi, diamo una mano al congiuntivo. È un modo che nell’italiano moderno gode di alterne fortune. Come certe anziane signore dalla salute malferma sembra che sia sempre lì lì per schiattare, ma poi si ripiglia e continua a vivere beato, scrive Mariangela Galateo Vaglio il 5 giugno 2017 su "L'Espresso". Lo danno per spacciato da anni, ma come l’araba fenice lui prima o dopo risorge dalle sue ceneri. Il congiuntivo è un modo che nell’italiano moderno gode di alterne fortune. Come certe anziane signore dalla salute malferma sembra che sia sempre lì lì per schiattare, ma poi si ripiglia e continua a vivere beato. Il congiuntivo è il modo che indica una idea, una opinione. Credo che tu sia simpatico (ma mi riservo di verificarlo), ritengo che questa sia una stupidaggine (ma non si sa mai, magari mi sbaglio io ed è una genialata). È un modo educato che non si prende sul serio, lascia aperto uno spiraglio, accetta la possibilità che gli altri abbiano ragione e torto noi. Per questo nel mondo moderno, fatto di grintose certezze, il congiuntivo non ha vita facile. Complice il fatto che in inglese, per esempio, non viene usato spesso, anche in italiano i manager lo usano poco e mal volentieri: «Credo che è così!» tuona il capetto con i suoi sottoposti, e non si discute. Ci sono anche altri usi del congiuntivo che non tutti conoscono. È un modo gentile, ma è capace di sostituirsi all’imperativo nei casi in cui questo modo non ha forme proprie: Andiamo a casa! Prenda ancora una tazza di tè o il berlusconiano Mi consenta! sono in origine forme di congiuntivo. In latino veniva definito congiuntivo esortativo, cioè quello che esprime un invito educato, ma pressante quanto un ordine. Da solo, nelle frasi principali, il congiuntivo viene usato per esprimere un augurio o una speranza: Fosse la volta buona! Magari vincessi alla lotteria! In questo caso si può anche chiamarlo congiuntivo ottativo o desiderativo, in quanto esprime una cosa che si vorrebbe ardentemente. È un modo pieno di sfumature, quindi, che va trattato con i guanti. Ci mette un attimo a farvi fare una pessima figura quando non lo sapete coniugare bene. Vadi, facci sono infatti una forma di congiuntivo non nota alla grammatica ma diffusissima nel mondo reale: il congiuntivo fantozziano.

Tutti i misteri del "che", parolina bifronte. Il "che" in italiano ha due usi principali: congiunzione e pronome relativo. Ecco come distinguerne l'uso, per non attorcigliare i nostri testi in frasi incomprensibili, scrive Mariangela Galatea Vaglio il 19 giugno 2017 su "L'Espresso". In italiano gli usi principali del che sono due: congiunzione e pronome relativo.

Quando è congiunzione, il che unisce due frasi: Penso che tu sia stanco di tutto questo; Ritieni che sia possibile? Credo che domani pioverà.

Quando è pronome relativo unisce sempre due frasi, ma il che è agganciato ad un nome che si trova nella prima frase e svolge la funzione di soggetto o complemento oggetto nella seconda: tu [che sei alto] mi prendi quel libro dallo scaffale?

Riconoscere i due tipi di che è importante. Aiuta molto ad evitare di fare errori nel dividere le frasi e anche nel comprenderle. Come si riconosce un pronome relativo? Il pronome relativo che si individua perché può sempre essere sostituito con il quale/la quale/i quali/ le quali. Quindi, quando abbiamo un dubbio, basta vedere se nella nostra frase il che può essere sostituito da una di quelle parole.

La donna che hai visto è mia sorella ->la donna la quale hai visto è mia sorella;

I bambini che giocano nel cortile sono sudati ->i bambini i quali giocano nel cortile sono sudati.

Se invece è una congiunzione non può mai essere sostituito con altro. Infatti se scrivo: Penso che tu sia strano non posso formulare la frase dicendo penso il quale sia strano. Non ha senso. Distinguere congiunzioni e pronomi relativi è fondamentale quando faccio l’analisi del periodo e quella logica della frase. Il che pronome relativo che può fare da soggetto e da complemento oggetto nella frase in cui è, mentre la congiunzione non può fare mai da soggetto o da complemento oggetto. Inoltre se la frase è introdotta da un pronome relativo, in analisi del periodo sarà una subordinata relativa, mentre se è introdotta dal che congiunzione potrà essere una subordinata di altro genere (soggettiva, oggettiva, dichiarativa…). Voi direte: ok, si può sopravvivere nella vita anche senza saper distinguere il tipo di subordinate. Sì, è vero. Ma non sempre è detto che si sopravviva bene.

In italiano il che, pronome relativo, ha una particolarità. Si riferisce quasi sempre al nome che gli sta accanto. Una delle cose che spesso rende incomprensibili le frasi è non tenere conto di questo fatto. Se piazzo il che vicino al nome sbagliato, il significato dell’intera frase cambia. Se scrivo per esempio il libro che è sul tavolo è verde a essere verde è la copertina del libro. Se scrivo le stesse parole ma in ordine diverso, cioè il libro è sul tavolo che è verde è la superficie del tavolo ad essere colorata di verde. Quando si scrivono periodi lunghi, è facile commettere errori. Nella nostra testa la frase è chiarissima, ma poi ci impicciamo a scriverla, e il che finisce accanto a qualcosa di diverso da quello che vorremmo. Il consiglio migliore che si può dare in questo caso è: lasciate perdere i periodi lunghi. Se non siete abituati a scrivere (ma alle volte, anche se lo siete) usate frasi brevi e separate dal punto. Meglio ripetere due volte la stessa parola che scrivere una frase incomprensibile. Non è detto che “chi sa scrivere” usi periodi lunghi. Grandi scrittori e giornalisti, come Hemingway o il nostro Enzo Biagi erano famosi per le loro frasi brevissime. Spesso anzi scrivere una frase breve denota maggiore bravura nella sintesi di chi sbrodola per pagine e pagine. Quindi se non siete certi che il pronome relativo si riferisca al termine giusto, spezzate la frase o spiegatevi usando una e: Il libro è sul tavolo ed è un libro verde. Meglio risultare un po’ meno eleganti ma chiari piuttosto che dare al vostro lettore una informazione sbagliata.

"A volte" e non "avvolte", non fatevi sviare dal participio. La locuzione non va confusa con il verbo. E lo stesso accade con "a fianco" e "affianco", scrive Mariangela Galatea Vaglio il 3 luglio 2017 su "L'Espresso". A volte vuol dire ogni tanto, talvolta. È una locuzione, cioè una frase fatta che serve a descrivere una situazione. È formata da due parole staccate: a, preposizione semplice, e volte, plurale di volta, parola che indica il tempo o il momento in cui avviene un fatto. Chiariamolo una volta per tutte: non lo potete scrivere tutto attaccato. Se infatti scrivete avvolte state usando il participio passato plurale femminile del verbo avvolgere. Avvolte significa arrotolate, coperte con un panno. Le coperte possono essere avvolte attorno a voi, i regali sono avvolti quando li ricoprite con la carta per fare un pacco dono, le cotolette sono avvolte nel pan grattato e fritte. A volte le coperte vengono riposte avvolte: vuol dire che ogni tanto le coperte vengono messe nell’armadio ripiegate.

Stesso problema c’è con a fianco. Che vuol dire “di fianco, di lato”. Anche questa è una locuzione, una frase fatta. Va scritta staccata. Se scrivete affianco tutto attaccato, state usando la prima persona singolare del verbo affiancare. Quando ho un giovane collega che viene in ufficio per la prima volta io affianco a lui qualcuno di più esperto, nel senso che gli metto vicino un tutor perché lo istruisca. Mentre se vivo a fianco di una fabbrica non sto usando un verbo, ma uso la locuzione a fianco per spiegare il posto in cui mi trovo/vivo, cioè attaccato ad una fabbrica. Se scrivete io vivo affianco alla fabbrica non si capisce nulla di quello che volete dire: affiancate alla fabbrica che cosa? O le volete tenere la manina? Non vi preoccupate, la fabbrica non ha bisogno che le facciate da baby sitter o le rimaniate vicino per confortarla. Scrivete a fianco e finita là.

Quando la traccia fa rima con figuraccia. ll Miur ha messo una I di troppo nel titolo della pagina che avrebbe dovuto riportare le tracce dei temi di maturità. Una svista che avrà sollevato i maturandi: se anche all’esame avessero combinato disastri in ortografia, questo non potrà certo pregiudicare una loro futura carriera ministeriale, scrive Mariangela Vaglio il 26 giugno 2017 su “L’Espresso”. Per carità, una svista capita a tutti. Ma quest’anno il Miur ha veramente battuto ogni record, scrivendo nel titolo della pagina che avrebbe dovuto riportare le tracce dei temi di maturità “TRACCIE”. Le scuse prontamente porte sul sito non hanno cancellato l’imbarazzo. Si tratta di un errore fastidioso, soprattutto per il “luogo” in cui è apparso, e per le circostanze, anche se forse i maturandi si saranno sentiti sollevati. Se anche all’esame combinassero disastri in ortografia, questo non potrà certo pregiudicare una loro futura carriera ministeriale. Tracce, tuttavia, come frecce, al plurale non vuole nessuna i. In effetti però i plurali in -cie e -gie sono particolarmente rognosi da ricordare. In alcune parole italiane, che hanno una i dopo la c, come cielo e cieco, la i si mantiene anche se in realtà non viene più pronunciata da secoli. Per altre che terminano in ci e gi la i rimane solo al singolare ma al plurale scompare. La regola prevede che la i rimanga quando la ci e la gi sono precedute da una vocale, come in ciliegia>ciliegie e camicia>camicie. Il camice, senza la i, non è un plurale, ma un singolare, ed indica il grembiule bianco indossato da medici e farmacisti. Quando ci e gi sono precedute da una consonante, come appunto in traccia, freccia, bertuccia, arancia, treccia, torcia e spiaggia, al plurale la i sparisce. Anche le parole costruite con i suffissi -acce, -ucce fanno il plurale senza la i. Gli utenti che hanno letto lo svarione sul sito ministeriale, infatti, molto probabilmente si sono lasciati scappare parecchie parolacce. Ah, anche figuracce si scrive al plurale senza la i. I tecnici del Ministero sono pregati di segnarselo, semmai servisse in futuro…

Ma qualcuno sa cosa vuol dire "affatto"'? La maggioranza delle persone oggi è convinta che abbia un significato negativo. In realtà "affatto" vuol dire proprio così, "del tutto". Brevi istruzioni per l'uso corretto di questa parolina così equivocata, scrive Mariangela Galatea Vaglio il 10 luglio 2017 su "L'Espresso". Affatto è una parola che come certi ragazzini si è fatta traviare dalle cattive compagnie. La maggioranza delle persone oggi è convinta che abbia un significato negativo. “Ti è piaciuto il film?” “Affatto!” viene detto con aria schifata da chi si rammarica di aver speso i soldi del biglietto. In realtà affatto vuol dire proprio così, del tutto. Ciò che ha favorito lo scivolamento nell’uso comune è che di solito veniva usato nella locuzione nient’affatto, che voleva dire appunto per nulla. A furia di sentirlo dire, molti hanno cominciato a pensare che si potesse risparmiare il niente iniziale, perché affatto avesse da solo un senso di negazione. Ma attenzione: nel dialogo di prima, se rispondere convinti “Affatto!” state in realtà dicendo che a voi il film è piaciuto tantissimo, anzi, comprereste pure il biglietto per andarlo a rivedere. Affatto! È una recensione entusiasta. Quindi, per carità, stateci attenti. Se non altro per evitare che il coniuge, che conosce meglio di voi la grammatica, sentendovi dire affatto in maniera così convinta la prossima volta vi trascini al cinema a vedere di nuovo una pellicola simile a quella che voi invece avete schifato. Ci sono matrimoni che finiscono per molto meno.

Eremi, pellegrini, eremiti: piccolo vocabolario di una vacanza dello spirito. Il turismo religioso è, per così dire, il più antico di tutti. Ecco da dove vengono le parole che oggi per noi simboleggiano una vera pausa di pace e silenzio, scrive Mariangela Galatea Vaglio il 13 luglio 2017 su "L'Espresso". Crescono di anno in anno gli amanti delle vacanze spirituali lontano dal caos della città. Il primo turismo del resto fu quello religioso, e infatti il pellegrino è stato il primo turista internazionale. Deriva dal latino peregrinus, che significa straniero, a sua volta legato a peregri, avverbio latino che indicava chi vagava “fuori dalla città” ovvero attraverso gli agri, i campi. Chi cerca la pace può ritirarsi in un eremo, dal greco eremos, luogo isolato e solitario, di solito frequentato solo dagli eremiti. Chi invece cerca un luogo silenzioso ma un po’ più grande, può andare in un'abbazia, nome che deriva da quello di abate a sua volta derivato all’ebraico abba, ovvero “padre”, in quanto l’abate era il padre spirituale dei suoi monaci. Le abbazie possono anche essere chiamate badie, che è un derivato dalla stessa radice, mentre nei monasteri femminili la madre delle suore è la badessa. Monaco è una parola greca, derivata da monos, che significa solo, solitario, unico, perché originariamente i monaci si ritiravano nel deserto senza nessuno attorno, e solo in seguito, per motivi di difesa e di aiuto, formarono delle piccole comunità attorno a un abate. In genere le abbazie sono di monaci e monache benedettine, mentre altri conventi (dal latino convenio, mi riunisco assieme/convivo) possono essere di frati e suore, nomi derivati dal latino frater, fratello, e soror, sorella. Durante queste vacanze spirituali si possono fare delle gite per visitare qualche santa reliquia (dal latino relinquo, lascio: si intende tutte quelle cose che i santi hanno lasciato dopo la morte, cioè le ossa dei santi stessi ma anche dei manufatti o degli oggetti che hanno toccato in vita). I conventi erano anche famosi per i loro orti dove venivano coltivate le erbe officinali o medicamentose, ovvero quelle da cui si ricavano le medicine. Oggi vengono spesso usate dai pii fraticelli per ricavare amari e liquori, spesso anche abbastanza alcolici. Che possono essere un gran conforto per i pellegrini e dare una sfumatura diversa al titolo “vacanze spirituali” con cui abbiamo iniziato.

LE PAROLE DELL’ESTATE. Da spiaggia a ombrellone l'origine a sorpresa delle parole estive. Sono i termini che popolano i nostri sogni fin quando restiamo in città, e di nuovo quando torniamo a casa dopo le vacanze. Ma da dove vengono? Un viaggio nel vocabolario della stagione più bella, scrive Mariangela Galatea Vaglio il 17 luglio 2017 su "L'Espresso". L’italiano è una lingua bellissima perché le sue parole hanno spesso una storia complicata ed affascinante. Oggi dunque lasciamo stare gli errori, e dedichiamoci a una carrellata sulle origini delle parole estive. Spiaggia: è la regina delle vacanze, ed in genere è considerata un luogo ameno ma decisamente inadatto a pesanti sforzi culturali. Eppure spiaggia è una parola con una storia di tutto rispetto. Viene dal latino plaga, forse intersecatasi con il greco plaghia che significava costa, pendenza, fianco. Nel medioevo era meglio conosciuta come piaggia, ma esistevano anche le varianti plaia al femminile e persino un plaiu al maschile. Il termine piaggia è usato spesso da Dante, la s iniziale odierna è invece un rafforzativo. Un derivato è il verbo spiaggiare/spiaggiarsi, che dovrebbe indicare le balene arenate, ma spesso è utilissimo per indicare alcuni umani distesi come enormi cetacei sulla sabbia, in caccia di abbronzatura. Il solleone invece è una crasi, cioè una parola nata dalla fusione di due parole preesistenti. In antico era scritto sollione, perché nasceva dall’unione di sole con Leone, nel senso della costellazione. Infatti in agosto, periodo di massima calura, il sole si diceva “entrasse” nel Leone. Il segno del leone era considerato quello dei grandi di imperatori. Agosto infatti deve il suo nome ad Ottaviano Augusto, il primo imperatore, che era nato proprio in questo mese, mentre lo zio Giulio Cesare dà il nome a Luglio, derivato da Iulius. La sedia sdraio invece deriva da sdraiarsi, a sua volta derivato dal verbo latino exderadiare. In realtà l’etimologia è incerta perché questo verbo non era noto al latino classico, ma solo forse a quello medioevale. Indicava molto probabilmente l’atto di allungarsi con mani e piedi su di una sedia, facendo con braccia e gambe delle specie di raggi, atto che i Romani classici non avevano bisogno di fare perché le loro case erano arredate con i triclini, comodi divanetti su cui ci si stendeva anche per mangiare. Ombrellone invece è un accrescitivo di ombrello, a sua volta derivato da ombra. In origine l’ombrello non era usato per ripararsi dalla pioggia, ma dal sole, perché l’abbronzatura era considerata una cosa volgare, che avevano solo i contadini perché lavoravano nei campi all’aperto. Oggi invece viene esibita come status symbol spesso da ricchi cafoni, quindi, sotto sotto, sempre un po’ volgarotta rimane, soprattutto quando è color cuoio e viene usata per farsi selfie a ripetizione su Instagram. 

Scarpinata e cocuzzoli: ma come parla chi ama le vette? Lo sapevate che la cima della montagna deriva dal latino cocutia, ovvero zucchina? E che Alpi è un nome già citato da Erodoto? La stagione estiva ve la raccontiamo attraverso l'etimologia dei termini delle vacanze, scrive Mariangela Galatea Vaglio il 24 luglio 2017 su "L'Espresso". D’estate ci si divide fra chi ama la montagna e chi il mare. Ma l’etimologia è una scienza imparziale, e cerca l’origine delle parole sia che esse riguardino i mari, sia che si riferiscano ai monti. La montagna, tanto per cominciare, è una parola derivata dal latino mons, che significava monte. È una parola medievale, quindi abbastanza recente, e deriva dal latino popolare montania, cosa relativa ad un monte. In montagna si usano non le scarpe normali, ma gli scarponi, perché le strade montane richiedono suole rinforzate e cuoio di spessore maggiore rispetto alle calzature normali che si possono fare in città. Infatti devono essere adatte a fare delle scarpinate, ovvero lunghe passeggiate su sentieri scoscesi. Le camminate fra le montagne possono comprende itinerari in ferrata, cioè un sentiero dove siano stati inseriti dei ganci o delle corde di ferro per facilitare il percorso. Tutto ciò per raggiungere il cocuzzolo, ovvero la vetta, il “cappuccio” della montagna. Cocuzzolo deriva dal latino cocutia, cioè zucca o zucchina. Le montagne per eccellenza sono da noi le Alpi. È un nome antichissimo, attestato già ai tempi del greco Erodoto, che ricorda Alpis e Kalpis come due fiumi, affluenti del Danubio. Potrebbe derivare da alp, una radice indoeuropea (l’indoeuropeo era un insieme di dialetti parlati dalle tribù provenienti dall’area siberiana, che colonizzarono sia l’Europa sia la valle dell’Indo), che forse indicava le vette o i pascoli in alta quota. Gli alpeggi infatti sono pascoli, mentre gli Alpini sono un corpo militare del nostro esercito specializzato nelle operazioni in montagna. Pratica invece l’alpinismo chi scala le vette più alte delle montagne, anche se queste sono diverse dalle nostre Alpi. Questo perché alpinismo come disciplina sportiva fu inventata nel 1800 da parte di ricchi borghesi che cominciavano a frequentare i paesini montani delle Alpi e sfruttarono la conoscenza degli abitanti di quei luoghi per codificare poi delle tecniche di arrampicata. Oggi oltre all’alpinismo classico abbiamo anche il free climbing, ovvero l’arrampicata fatta a mani nude, fruttando le sporgenze naturali delle rocce. La vacanza in montagna, quindi, può essere anche poco rilassante, e anzi richiedere una forte preparazione atletica. Anche se poi per la maggior parte delle persone, lo sport più praticato nelle baite (le case di montagna) è il sollevamento della forchetta a tavola per mangiare canederli (gnocchi di pane) e altre delizie montane.

L’ITALIA DEI SACCENTI. TUTTI PARLANO. NESSUNO ASCOLTA.

Gli ignoranti hanno sempre la bocca aperta per inondarci con pillole di idiozie, mai pronti ad ascoltare i saggi ed i sapienti, condannati al colto silenzio.

Frasi, citazioni e aforismi sull’ascolto e l’ascoltare. Presento una raccolta di frasi, citazioni e aforismi sull’ascolto e l’ascoltare di Aforisticamente.

La gente non ascolta, aspetta solo il suo turno per parlare. (Chuck Palahniuk)

Non è mai facile ascoltare. A volte è più comodo comportarsi da sordi, accendere il walkman e isolarsi da tutti. È così semplice sostituire l’ascolto con le e-mail, i messaggi e le chat, e in questo modo priviamo noi stessi di volti, sguardi e abbracci. (Papa Francesco)

La comunicazione parte non dalla bocca che parla ma dall’orecchio che ascolta. (Anonimo)

Amo ascoltare. Ho imparato un gran numero di cose ascoltando attentamente. Molte persone non ascoltano mai. (Ernest Hemingway)

Ascoltare senza pregiudizi o distrazioni è il più grande dono che puoi fare a un’altra persona. (Denis Waitley)

Il coraggio è quello che ci vuole per alzarsi e parlare; il coraggio è anche quello che ci vuole per sedersi ed ascoltare. (Sir Winston Churchill)

Parlare è un bisogno. Ascoltare è un’arte. (Goethe)

Saper ascoltare significa possedere, oltre al proprio, il cervello degli altri. (Leonardo da Vinci)

I muscoli più piccoli del corpo umano, sono nelle orecchie. Per questo dobbiamo allenarci molto per imparare ad ascoltare. (guidofruscoloni, Twitter)

Sentire è facile perché esercizio dell’udito, ma ascoltare è un arte perché si ascolta. Anche con lo sguardo, con il cuore, con l’intelligenza. (Enzo Bianchi)

Come c’è un’arte di raccontare, solidamente codificata attraverso mille prove ed errori, così c’è pure un’arte dell’ascoltare, altrettanto antica e nobile, a cui tuttavia, che io sappia, non è stata mai data norma. (Primo Levi)

Non c’è prestito più grande che quello di un orecchio comprensivo. (Frank Tyger)

Un buon ascoltatore aiuta ad ascoltare noi stessi. (Yahia Lababidi)

Le parole nascono quando le si pronunciano. Ma le parole muoiono quando non le si ascoltano. Campagna pubblicitaria a favore dell’ascolto. (Nickbiussy, Twitter)

Vuoi sapere che cosa penso? Avvicina il tuo orecchio al mio. Copri l’altro con la tua mano. Pensa a me come se fossi una conchiglia. Ecco, adesso lì senti i miei pensieri? Hanno il suono di ciò che non hai mai ascoltato. (Fabrizio Caramagna)

Ascolta o la tua lingua ti renderà sordo. (Proverbio Cherokee)

Parlare è il modo di esprimere se stesso agli altri. Ascoltare è il modo di accogliere gli altri in se stesso. (Wen Tzu)

Avere qualcuno che ascolta è importante. Un essere umano non può tenersi dentro tutto. Quel che è accaduto va consegnato ad altri. Il passato, se rivelato, toglie peso, alleggerisce. (Mauro Corona)

La chiave per un buon ascolto non è la tecnica, è il desiderio. Fino a quando non vogliamo davvero capire l’altra persona, non potremo mai ascoltare bene. (Steve Goodier)

Il modo più vero per sentire è ascoltare. (Yves Congar)

Leggi qualcosa di positivo ogni sera ed ascolta qualcosa di utile ogni mattina. (Tom Hopkins)

Un bambino ha bisogno più di un buon ascolto che di una buona parola. (Anonimo)

Amare vuol dire soprattutto ascoltare in silenzio. (Antoine de Saint-Exupery)

Gli amici sono quelle rare persone che chiedono come stiamo, e poi aspettano di sentire la risposta. (Ed Cunningham)

Chi sa ascoltare la verità non è da meno di colui che la sa esprimere. (Kahlil Gibran)

Uno degli strumenti migliori per persuadere gli altri è costituito dalle nostre orecchie: ascoltandoli. (Dean Rusk)

“Come fai a ricordare tutto?” “Ascolto”. (Mesmeri, Twitter)

Talvolta ascolto le voci senza lasciarmi distrarre dalle parole che contengono. In quei momenti sono le anime che sento. Ciascuna ha la vibrazione che le è propria. (Christian Bobin)

Sii avido di ascoltare e non di parlare. (Cleobulo)

Non si può giudicare il Lohengrin di Wagner dopo un primo ascolto, ed io non intendo certo ascoltarlo una seconda volta. (Gioacchino Rossini)

L’uomo che sa ben parlare non vale quello che sa ascoltare con attenzione. (Anonimo)

Ci vogliono due persone per dire la verità: una per parlare e l’altra per ascoltare. (Henry David Thoreau)

L’incapacità dell’uomo di comunicare è il risultato della sua incapacità di ascoltare davvero ciò che viene detto. (Carl Ransom Rogers)

Abbiamo sempre tanto da dire a chi ha poca voglia di ascoltare. (Sonopazzaio, Twitter)

Nessun uomo ti ascolterebbe parlare se non sapesse che dopo tocca a lui. (Edgar Watson Howe)

La maggior parte della gente non ascolta con l’intento di capire; ascolta con l’intento di rispondere. (Stephen R. Covey)

Noi siamo soliti considerare come buoni ascoltatori solo quelli che condividono le nostre opinioni. (François de La Rochefoucauld)

Una buona conversazione è un compromesso tra parlare e ascoltare. (Ernst Jùnger)

Moltissima gente ha il furioso prurito di parlare di se stessa, e viene frenata solo dalla scarsa inclinazione degli altri ad ascoltare. (William Somerset Maugham)

La natura, si dice, ha dato a ciascuno di noi due orecchie ma una lingua sola, perché siamo tenuti ad ascoltare più che a parlare. (Diogene Laerzio)

Abbiamo due orecchie e una bocca per poter ascoltare il doppio di quanto diciamo. (Epitteto)

I medici sanno parlare, però non sanno ascoltare. (Dal film Caro Diario)

La parola si soddisfa nell’ascolto dell’Altro. La mia parola è riconosciuta solo quando viene ascoltata. (Massimo Recalcati)

Ascoltare, saper ascoltare, è difficile per il fatto che nella mente di chi compila e trasmette una comunicazione c’è sempre la presunzione che la sua comunicazione debba coincidere necessariamente e alla perfezione con l’interesse, l’intelligenza e la ricettività di colui a cui essa è destinata. (Carlo Majello)

Ascoltare è diventare chi si ascolta. Il resto è aspettare, più o meno in silenzio, di dire la propria. (Serafinobandini, Twitter)

Il solo modo per intrattenere certe persone è ascoltarle. (Kin Hubbard)

Ci sono persone che, invece che ascoltare ciò che viene detto loro, stanno già ascoltando ciò che stanno per dire. (Albert Guinon)

Tanti a questo mondo apprendono soltanto ascoltando se stessi o almeno non sanno apprendere ascoltando gli altri. (Italo Svevo)

Se durante una riunione, qualcuno non dice una parola mentre gli altri stanno parlando, probabilmente quella persona è l’unica che stia ascoltando.” (Richard DeVos)

La conoscenza parla, ma la saggezza ascolta. (Anonimo)

La maggior parte delle persone parla senza ascoltare. Ben pochi ascoltano senza parlare. È assai raro trovare qualcuno che sappia parlare e ascoltare. (Bruce Lee)

Ascoltare è davvero pericoloso, significa sapere, significa essere informato ed essere al corrente, le orecchie sono prive di palpebre che possano chiudersi istintivamente di fronte a ciò che viene pronunciato, non si possono proteggere da ciò che si presume stia per essere ascoltato, è sempre troppo tardi. (Javier Marias)

Non è la voce che comanda la Storia: sono le orecchie. (Italo Calvino)

Scegli una moglie con il tuo orecchio piuttosto che con il tuo occhio. (Thomas Fuller)

L’uomo moderno sazio di discorsi si mostra spesso stanco di ascoltare e, peggio ancora, immunizzato contro la parola.) (Papa Paolo VI)

Ascoltare bene è quasi rispondere. (Pierre Marivaux)

Vi sono risposte che non avrei la forza di ascoltare e perciò evito di porre le domande. (Simone de Beauvoir)

La notte è calda, la notte è lunga, la notte è magnifica per ascoltare storie. (Antonio Tabucchi)

Se ci si fermasse ad ascoltare il lavoro delle radici, chi riuscirebbe a dormire? (Fabrizio Caramagna)

In una classe, l’insegnante si aspetta di essere ascoltato. Lo studente pure. (Ernest Abbé)

Alle donne piacciono gli uomini taciturni. Credono che ascoltino. (Marcel Achard)

Le donne non si conquistano con le parole, ma con l’ascolto. (Anonimo)

Ok forse le donne sanno fingere l’orgasmo ma niente in confronto a come certi uomini sanno fingere di ascoltare. (Nickbiussy, Twitter)

Mia moglie dice che non l’ascolto. Almeno questo è quello che penso che abbia detto. (Anonimo)

Niente è più bello dell’ascoltare un cretino che tace. (Helmut Qualtinger)

Il giovane prima parla e poi ascolta, l’anziano prima ascolta e poi parla. (Anonimo)

Non essere più ascoltati: questa è la cosa terribile quando si diventa vecchi. (Albert Camus)

Capita di dover tacere per poter essere ascoltati. (Stanislaw Jerzy Lec)

Nessuno è in ascolto fino a quando qualcuno scoreggia. (Anonimo)

Se gli animali potessero parlare, il mondo perderebbe i suoi migliori ascoltatori. (Robert Brault)

Se ti è caro ascoltare, imparerai; se porgerai l’orecchio, sarai saggio. (Siracide)

Parlare è da stupidi, tacere è da codardi, ascoltare è da saggi. (Carlos Ruiz Zafón)

Il giudizio è la parte meno interessante dell’ascolto. (Anonimo)

La saggezza è la ricompensa che ottieni per una vita passata ad ascoltare quando avresti preferito parlare. (Doug Larson)

La cosa più importante nella comunicazione è ascoltare ciò che non viene detto. (Peter F. Drucker)

Credo di aver passato la vita ad ascoltare ciò che la gente non voleva dire. (Anonimo)

Si scrive perché nessuno ascolta. (Georges Perros)

Tutte le cose sono state già dette, ma dato che le persone non ascoltano, occorre sempre ricominciare. (André Gide)

Chi non ascolta, comunica male. Le persone abituate ad ascoltare poco gli altri finiscono col non riuscire a farsi capire, un problema che si ripercuote sulla qualità della vita: come uscirne, scrive Raffaele Morelli, psichiatra, psicoterapeuta e scrittore. Può sembrare paradossale, ma proprio nell’epoca della comunicazione globale e della connessione continua, le persone non hanno mai fatto così fatica a capirsi fra loro. Tra i tanti errori comunicativi che si compiono ce n’è uno che sta spopolando. È la marcata tendenza di molte persone a dialogare pensando di avere già la risposta a tutto. Un fenomeno ben visibile in molti dibattiti televisivi. Non c’è mai qualcuno che dica: sì, la tua argomentazione mi ha convinto, cambio idea, oppure ne prendo atto. Ognuno ha la sua verità e da lì non si sposterà di una virgola. Se in TV è comprensibile, visto che quei dibattiti sono governati dall’audience, più grave è che lo stesso accada fuori dai riflettori, nella vita di ogni giorno: spesso parliamo soltanto per vedere se la risposta che ci viene data coincide con quello che già abbiamo in mente. Alla fine, restiamo convinti di quello che pensiamo noi, della nostra posizione preventiva, del nostro pregiudizio, come se quello che l’altro ci dice non contasse nulla. Se anche l’interlocutore fa la stessa cosa, l’incomunicabilità è il risultato certo di questo dialogo, composto in realtà da due monologhi che viaggiano paralleli, ignorandosi l’un l’altro. Un simile atteggiamento è frutto di una sempre più diffusa cultura della prestazione e della sfida, per la quale ogni scambio dialogico è una sorta di occasione per mostrare i propri “muscoli mentali”. Purtroppo a volte accade anche in famiglia. Quanti danni può fare, ad esempio, un genitore che chiede a un figlio quali siano i suoi problemi, e poi agisce sulla base di ciò che pensava già prima di chiederglielo, ignorando la preziosa risposta? Tanti. Per questo è necessario correggere il tiro e ridare all’ascolto e al dialogo il loro ruolo naturale, che non è quello di affermare i propri pregiudizi, ma di conoscere, capire e integrare la realtà che ci circonda. I danni del mancato ascolto:

- Difficoltà a prendere atto e ad adattarsi a situazioni inattese: vai sempre per la tua strada e non ti accorgi di quello che accade di nuovo.

- Frustrazione e rabbia negli interlocutori, soprattutto quelli abituali: pensano che tanto con te è inutile parlare. Questo porta difficoltà in coppia, famiglia e lavoro.

Due azioni da fare:

- Il vero ascolto è un’azione concreta, sia passiva che attiva. La parte passiva è quella di tirarsi indietro con i propri pregiudizi e lasciare che le parole dell’altro entrino in noi in modo “pulito”. Quella attiva è produrre un’elaborazione critica e, quanto possibile, obiettiva, di quel che viene detto. È un atto di “attenta umiltà”.

- Non andiamo in giro come proiettori di “verità standard”, preformate, da applicare a ciò che ci viene risposto. Non interpretiamo tutto sulla base di questi pochi e grezzi parametri. Nelle risposte dell’altro c’è un intero mondo da scoprire e delle novità da integrare. Non coglierle significa smettere di evolvere.

La società che non sa più ascoltare. In famiglia, al lavoro o in tv la vita quotidiana è un labirinto fatto di monologhi. Ma possiamo uscirne. Grazie alla filosofia, scrive Pier Aldo Rovatti il 20 aprile 2017 su "Espresso”. Siamo una società di persone che parlano molto, troppo, e ascoltano poco o quasi mai. Questo accade in modo sempre più evidente, tanto sulla scena della comunicazione pubblica quanto nell’ambito delle relazioni quotidiane tra gli individui. Non sappiamo e non vogliamo ascoltare gli altri: non rispondiamo alle domande, li interrompiamo solo per prendere noi la parola e tenerla il più possibile. Si direbbe che ci limitiamo ad ascoltare noi stessi mentre stiamo parlando, ma non accade neppure questo perché, se davvero ci ascoltassimo, avremmo ogni volta ragionevoli perplessità o soltanto qualche dubbio. Ecco dunque una sequela di monologhi, fuori controllo, tra interlocutori che non sono quasi mai tali, insomma tra sordi. Spiegare una simile paradossale situazione non è così difficile se consideriamo il desiderio prevalente di esercitare con le nostre parole quel potere che oggi è la merce più ricercata e che diventa abitualmente una forma di prepotenza e di prevaricazione. Basta aprire la televisione che attualmente è disseminata di talk show (altro che crisi!): anche il conduttore più avvertito non ce la fa, sempre che voglia, ad arginare i cosiddetti ospiti, per cui abbiamo ogni volta uno spaccato esemplare della società della prevaricazione discorsiva in cui viviamo. E se, per caso, ci toccasse di essere lì a testimoniare di qualcosa, dovremmo allenarci preliminarmente per infilare qualche piccola prova della nostra presenza nel turbinare e accavallarsi delle voci. E se, poi, con il soprassalto del dormiente, riflettessimo a quanto sta accadendo al di qua dello schermo, ecco una massa di telespettatori passivi e inerti, cioè noi, in barba ai televoti, alle varie tecniche per individuare gli indici di ascolto e a ogni nuovo espediente di interattività.

Indici di ascolto? Ma quale ascolto! Nessuno sta davvero “ascoltando” quei falsi dialoganti che non si ascoltano affatto tra loro e si limitano a parlarsi addosso: se già loro non si ascoltano, quello che fa il teleutente potremmo definirlo in tanti modi, ma non ha nulla a che vedere con un ascolto vero. La difficoltà consiste, allora, proprio nel capire cosa potrebbe significare “ascolto”, cosa richiede questo gesto, quali condizioni deve soddisfare per essere vero. Nel suo “Zarathustra” Nietzsche presentava i suoi contemporanei come esseri dotati di un enorme orecchio, uomini deformi trasformatisi in questo unico organo di senso, ma che infine non sentono più nulla. Oggi, la nostra deformità non è tanto quella di essere diventati tutto udito, semmai ci stiamo trasformando in un occhio mostruoso dotato di cuffie.

Successivamente un altro filosofo, Heidegger, ci ha invitati ad “ascoltare il linguaggio” quasi dovessimo percepire in esso, e soprattutto nella poesia, la lontananza di voci nascoste, solo sussurrate. Questa doppia esortazione filosofica - non lasciare che tutto entri nelle nostre orecchie, non permettere che la nostra vista pretenda di vedere il fondo delle cose - ci può servire da monito: possiamo tradurla in un paradossale “guardare ascoltando”, cioè in un inusuale esercizio che ci permetterebbe di allentare la “metafisica del vedere” (chiamiamola così), introducendo in essa, con grande fatica e scarsa voglia, qualcosa di simile a un correttivo o a un disturbo: non un ascolto di ineffabili origini ormai contraffatte, quanto una possibile lacerazione dello schermo cui sembriamo incatenati, e il tentativo conseguente di sottrarci per un momento, o attraverso una piccola distorsione, allo sguardo che ormai ci osserva di continuo e ovunque. L’ascolto che abbiamo perduto resterebbe così, forse, una potenzialità residua, una possibilità non ancora completamente estinta. Ma non basta. Essenziale è invece capire, restando alla pratica quotidiana di ciascuno di noi, che cosa implica un ascolto, quali trasformazioni di noi stessi richiede. Il campo di prova è il rapporto con l’altro. Questo “altro” può essere chiunque, quello che incontriamo fuori di casa nelle normali relazioni di vita o per caso, o solo chi sentiamo al telefono: può essere un amico, qualcuno che vive accanto a noi, una presenza costante, ma anche uno che non conosciamo affatto, uno sconosciuto in cui ci imbattiamo. Comunque lui non è noi, non diventa mai un alter ego, risulta sempre diverso, è un diverso, ha qualcosa di estraneo. Ascoltare non significa togliere di mezzo questa estraneità, al contrario c’è ascolto solo quando partiamo da essa e ne teniamo conto, solo se riusciamo a far nostra in qualche modo la sua estraneità, il suo essere “straniero”. Solo se attiviamo in noi stessi una zona di estraneità, per così dire parallela e congruente con la sua.

La filosofia contemporanea, almeno una parte significativa di essa, ha insistito sulla importanza e sulla difficoltà dell’incontro con l’altro, da Lévinas a Derrida (e alla sua scuola, in particolare Nancy) per fare solo due nomi. Forse è proprio Derrida quello che ha più scavato nella questione, indagando, in alcuni dei suoi ultimi scritti, su come può avvenire l’ascolto. Se le condizioni di questo “evento” così poco automatico sono che l’altro “sopravviene” nella nostra vita ordinaria e in certo modo deve produrre uno spaesamento e uno scompiglio, per riuscire ad ascoltarlo veramente - dice Derrida - dobbiamo inventare un gesto di intesa, cercare di sintonizzarci su una tonalità comune. E ci vuole poco perché l’incontro fallisca se pretendiamo di possedere già da prima questa specie di “orecchio”: è sufficiente una nuance, una sfumatura, un tono sbagliato perché si vanifichi quell’ascolto che sembrerebbe invece ovvio. Derrida ci ricorda l’antico “shibboleth” ebraico, il modo stesso con cui pronunciamo una parola, l’inflessione che adoperiamo, il piccolo gesto del volto o della mano con cui la accompagniamo. Non c’è neppure bisogno della parola perché una sintonia si realizzi, è sufficiente un atteggiamento di apertura, e spesso il silenzio è più adatto di tante parole a produrlo, come sa bene per esempio chi esercita il mestiere dell’insegnante. Ciò accade in tutte le pratiche in cui l’incontro con gli altri è la posta in gioco della riuscita o dell’insuccesso. Puoi gridare “ascoltatemi!”. O credere che il mantenere la disciplina della classe, in maniera più o meno autoritaria, sia la precondizione perché avvenga l’ascolto. Ma così, spesso, non si dà nessun ascolto e le parole dell’insegnante scivolano sulla testa degli studenti o, alla meglio, vengono travasate, già “morte”, nei loro appunti. Perché si realizzi un ascolto, occorre dunque mettere in atto una pratica di sé che è molto poco abituale nella società di oggi: bisogna riuscire a scavare una specie di vuoto dentro di noi, procurarsi uno spazio mentale (e anche fisico) attraverso il quale la cosiddetta ospitalità - a propria volta tema molto battuto e altrettanto disatteso nel pensiero attuale - cessi di essere un semplice flatus vocis e diventi la possibilità concreta dell’ascolto dell’altro. Già, ma chi oggi si assume una simile fatica? I ritmi e i modi di una convulsa quotidianità, la costante accelerazione alla quale siamo indotti, ci sospingono nella direzione opposta. Se l’ascolto è tanto complicato, perché mai affaticarci? E così seguitiamo a parlare e parlare a piccole o grandi platee di sordi, e alla fine diventiamo sordi pure noi. Almeno facessimo lo sforzo di ascoltare quello che andiamo dicendo.

Cari padri tromboni (e ipocriti): smettetela di farci la morale. Predicano bene e razzolano male. Detengono il potere e per questo credono di avere il diritto di dire agli altri cosa fare e come. Sono ovunque: politici, magistrati, giornalisti, imprenditori. Per loro un solo messaggio: state zitti, scrive Paolo Di Paolo il 20 aprile 2017 su "L'Espresso". Cari Papà Tromboni, tutto bene? Vi trovate in quella strana fase della vita - fra i cinquanta e i sessanta, o poco più - che pare dia un po’ alla testa. A distanza di sicurezza della terza età, se non cadete nella classica regressione (Peter Pan-insegue-Lolita), il potere è la vostra droga. Piccolo o grande che sia, vi tiene comunque su di giri: dal lunedì al venerdì siete nella bolla dei workaholic, non fate che bearvi della vostra agenda stracarica. Sabato e domenica siete come palloni sgonfi. Per il resto, nient’altro che cravatte, smartphone, pance che crescono: non è un bello spettacolo! Ma non è per questo che vi giunge la nostra lettera. Non siamo preoccupati per il vostro stress, e nemmeno per il fatto che il cosiddetto senso della realtà vi sta abbandonando. A preoccuparci è la vostra inarginabile inclinazione alla retorica. Chi fra voi è sulla scena politica non può farne a meno: è così da sempre, fa parte del gioco e del mestiere.

Il “conservatore” moralista François Fillon, classe 1954, in corsa per l’Eliseo, preferendo - così diceva - “le parole che salvano a quelle che seducono”, assegnava intanto falsi impieghi ai parenti per oltre un milione di euro. Il cinquantaduenne premier russo Dmitrij Medvedev, uso a richiamare “con pieno senso di responsabilità il nostro bene e il bene generale della società”, è ambiguo titolare di conti offshore, piste da sci private, ville con piscina ed eliporti, aziende vinicole in Toscana. Niente di nuovo, per carità. Nessuno è nato ieri. Ma il punto è che questi babbi non si limitano a razzolare male, si impegnano con eccessivo (e sospetto) slancio a predicare benissimo.

Anche dalle nostre parti, la sera a tavola - così come nei corsivi di prima pagina - fanno un uso smodato di retorica, oltre il livello di guardia. Come il sale per gli ipertesi, non è buona norma. Guardate cosa è successo all’ex direttore del “Sole 24 Ore”: tutte le domeniche pronto a infliggerci la sua omelia laica, è finito indagato per falso in bilancio. Fosse pure innocente su un piano giuridico, non lo sarebbe comunque al tribunale delle false coscienze. Dante gli farebbe indossare - come minimo! - il mantello degli ipocriti: dorato fuori, di piombo dentro. In uno dei suoi ultimi editoriali, Roberto Napoletano puntava il dito, nell’ordine, contro «furbetti del cartellino», «corruttele varie e sistemiche», «distribuzione di seggiole e poltrone», «vecchie e nuove clientele». Cito alla lettera: «Tornano le ombre dei soliti maestri dell’eterno galleggiamento italiano in un Paese sospeso che fugge dalle sue responsabilità. Promana da tutto ciò una sensazione mista di nausea e di disorientamento» (“Il Sole 24 Ore”, 26 febbraio 2017, a undici giorni dall’avviso di garanzia). Impressionante: come il protagonista di un racconto di Savinio che sentiva odore di morte dappertutto, senza capire che a emanarlo era lui. La chiusa dell’articolo? Canonica: sull’Italia che «brucia il futuro dei nostri giovani». Non che il faraonico stipendio di Napoletano - 93mila euro lordi mensili, pare - contribuisse a spegnere le fiamme, ma l’ipocrisia è perfino più colpevole. L’aspetto psicologico della questione è avventuroso: che cosa spinge stimati e solitamente spietati professionisti (del giornalismo, della politica, della finanza, dell’industria) ad ammannirci quintali di retorica moraleggiante? Qual è il vantaggio interiore del trombonismo, per chi lo pratica?

Storia vecchia: di “doppia morale” si parlava già sui giornali di sessant’anni fa. Erano i giorni del torbido caso Montesi (1953), e un politico che si era scagliato contro la turpitudine altrui venne subito fotografato all’uscita di un bordello (con l’auto blu!). Non basta: Franco Moretti, nel recente Il borghese (Einaudi), torna parecchio più indietro; esplora, attraverso Ibsen, una «zona grigia» fatta di slealtà, reticenza, mezze verità, costitutiva di una classe sociale e del suo modo di stare al mondo. La menzogna – scrive – diventa “vita”: una contraddizione tra due moralità «impossibile da conciliare», il trionfo dell’ambiguità, l’onestà di facciata, a parole. Bisogna rassegnarsi? Al peggio della natura umana forse sì; ai falsi maestri, no.

Esiste un antidoto? È possibile una moratoria della retorica a buon mercato? Più ancora che proseguire in una (ormai indiscriminata) lotta alle oligarchie (vedi in proposito l’illuminante saggio di Giulio Azzolini Dopo le classi dirigenti, Laterza), occorre intanto inchiodarle a una responsabilità verbale. O, almeno, ridimensionare le loro tribune. Dà il voltastomaco sentir parlare, con falsa partecipazione, di “futuro rubato” ai giovani, proprio da chi ha collaborato al furto. Non è più accettabile vedere una selva di indici puntati nel vuoto, contro responsabili sempre troppo generici. I colpevoli sono sempre gli altri. Ma di preciso che faccia hanno? Ai Tartufi di turno, gli ipocriti in servizio permanente, farebbe gioco la rilettura di certa disinvolta trattatistica tra Cinque e Settecento: se il “sommo bene” è un ideale, tanto vale sembrare onesti senza esserlo davvero. “Dissimulazione” è la parola chiave - e più che il solito Machiavelli, meglio scomodare il rassegnato Mandeville: “Solo i pazzi si affaticano per creare un grande e onesto alveare” (1705). I “sani”, allora, restano a guardare, ma non tacciono: tengono viva l’onestade a parole. In una palude di parole facili e comode, alligna un’etica falsa e tanto più irresponsabile, che inquina, confonde, e in sostanza mette al sicuro.

A mo’ di antibiotico, o meglio, di avviso di garanzia preventivo, sarebbe utile recapitare a parecchi notabili odierni non un saggio rinascimentale, ma un recente - e ovviamente troppo poco letto - romanzo. L’ha scritto Aldo Busi, si intitola Vacche amiche (Marsilio). Busi si fa beffe, o peggio, di “gente chiaramente puzzona a libro-paga di questo e di quello”, di gente che predica anche bene - appunto - “ma razzola che peggio non si può”. Si può considerare l’ipocrisia già una forma di corruzione? Sì. “Non capirò mai - scrive Busi - perché una merda vuole spacciarsi per pan di zucchero: sei una merda, e allora? L’unico modo per esserlo di meno è andarne fiero, no? Certo, a una vera merda interessa esserlo di più, non di meno, negherà anche con le spalle alla ceramica di un water e è senza speranza di riscatto fino a che non gli danno quindici anni di galera o il manicomio criminale a vita, cosa praticamente impossibile, perché le merde si proteggono e sostengono tra di loro, essendo della stessa pasta fanno comunella anche a distanza di chilometri l’una dall’altra, una sul marciapiede è sorella di una in un Ministero o al Riesame o in Cassazione, sono a piede libero per definizione: le pesti per sbadataggine, le diffondi e le espandi, fai il loro gioco per il solo fatto di camminare e, contrariamente al detto, porti tu fortuna a loro, e è scontato infine chi schiaccia chi”.

Nell’attesa di esserne sicuri, cari Papà Tromboni, ci basterebbe un piccolo gesto generoso e tuttavia gratuito (altro è difficile chiedervi): il vostro silenzio. Firmato: i vostri figli delusi.

Non siamo più capaci di ascoltare. Ed è un problema che ci fa perdere un sacco di soldi. Se solo ci interessasse sapere cosa hanno da dire gli altri, avremmo molte opportunità in più. Invece siamo programmati per parlare. Alcuni trucchi per imparare ad ascoltare meglio gli altri, scrive Alessandra Colonna su "L’Inkiesta" il 10 Ottobre 2016. "A" poteva essere Autorevolezza, Assertività, Audacia. Tutte doti certamente di un buon manager. Ho scelto invece di parlare dell’Ascolto, qualità a mio avviso irrinunciabile, perché è forse la sola che permette di connetterci veramente con gli altri. É l’unico strumento che abbiamo per entrare in profondo contatto con il prossimo, per attivare una relazione “umana”, per scandire il passaggio del tempo dal passato al futuro. Per essere qui e ora, immersi in quanto accade intorno a noi anche in termini di spazio e tempo. Per quanto da tutti riconosciuto come indispensabile, ascoltare risulta davvero molto difficile. Noi in aula, come pure nel nostro assessment negoziale, proponiamo degli esercizi sull’ascolto: statisticamente ne esce bene solo il 2% delle persone, nonostante tutte siano avvisate della finalità del test e si trovino quindi in una situazione più facilitante rispetto alla normalità. Non c’è niente da fare: di ascoltare non ne abbiamo voglia, siamo sinceri! Siamo presi da noi stessi, dai nostri pensieri, da quante cose belle e interessanti avremmo noi da dire, dai nostri pregiudizi, dall’IO imperante, e il TU e gli ALTRI… forse e magari anche no.

Politically uncorrect. Di certo mi sento di fare una constatazione: chi non ascolta perde moltissime opportunità. Usciamo dal politically correct, chi non ascolta rischia di perdere soldi. Forse su questo alcuni sono più sensibili, chissà.

F.R.E.P.: gli ostacoli all'ascolto. Quali e quanti sono gli ostacoli all’ascolto? Tantissimi. Alcuni esterni, altri interni. Alcuni facili da rimuovere, altri meno, ma tant’è, quando li si incontra li si deve riconoscere prima, e rimuovere poi, a patto che lo si voglia. Analizziamo come superarne alcuni, che ho chiamato F.R.E.P.: fretta, rumore, egoismo, pregiudizio.

La fretta: come combatterla? Prendendoci il giusto tempo, apparentemente banale come consiglio, ma non credo lo sia. In assenza del giusto tempo se va bene, forse, possiamo appena appena sentire. Ma ascoltare, lo sappiamo, è ben altra cosa rispetto all'udire, mera funzione fisiologica. Dunque quando decidiamo di ascoltare fermiamoci, anche fisicamente, smettiamo di fare altro, e prendiamoci il tempo per dedicare l'attenzione totale al prossimo e ascoltare, esercitando noi il controllo sul tempo e non viceversa.

Il rumore: ostacolo fortissimo all’ascolto. É disturbante, distraente e faticante. Per ascoltare bene è necessario "isolarsi". Non a caso le esperienze monastiche, volte alla ricerca della voce interna e di quella del Divino, si consumano in luoghi appartati e per definizione silenziosi. L’assenza di rumore aiuta la concentrazione e il distacco, presupposti essenziali per l'esercizio dell'ascolto.

L’egoismo: le persone mediamente non ascoltano perché degli altri importa loro poco o nulla. Siamo tutti vittime e carnefici. Ognuno di noi dopo un po’ che gli altri parlano non ascolta più, specie, ma non solo, se nutre del dissenso.

Il pregiudizio: emblematico l’aneddoto del pagliaccio di Kierkegard, ricordato da Torralba nel suo libro, utile per comprendere fino a che punto diventiamo sordi, quando ci costruiamo un’idea, poi così radicata da non ammettere dubbi. L’aneddoto recita così: «In un circo scoppia un incendio, un pagliaccio esce precipitosamente per chiedere aiuto al villaggio vicino. Nell’udire il pagliaccio raccontare dell’incendio e invocare aiuto, i vicini pensano si tratti di uno scherzo e si convincono che il pagliaccio si stia sforzando di rendere veritiero il suo racconto. Non gli credono, e il circo viene completamente distrutto dalle fiamme». Per potere ascoltare correttamente, attività chiave per la reciproca comprensione, bisogna superare il pregiudizio che ci siamo costruiti di qualcuno e di noi stessi. O perlomeno aprirsi e dare spazio al valore del dubbio, non per paralizzarci, ma come momentaneo distacco verso nuove certezze.

Per cosa siamo programmati? Per dire la nostra. Noi esistiamo perbacco, e il modo migliore per palesarci è parlare! Dalla nascita chi ci circonda si complimenta con noi perché riusciamo a mettere insieme due parole, mai nessuno ci ha fatto i complimenti per come ascoltiamo. Dunque siamo programmati e educati per parlare.

A scuola non si insegna l’ascolto e in famiglia non è incentivato. Come ha scritto Francesco Torralba ne L’arte di ascoltare “L’azione educativa è stata imperniata sull’atto della parola; infatti siamo soliti definire colta o dotta una persona in base a quello che dice; l’azione educativa ha sottovalutato il valore dell’ascolto […] La pratica dell’ascolto richiede uno strenuo combattimento contro il proprio ego…”. Rimuovere l’Ego o anche solo farlo tacere per qualche minuto è cosa dura, ma tant’è: ascoltare significa mettere al centro dell’attenzione il prossimo. Che ci piaccia o no.

Ecco perché nessuno ascolta più nessuno, scrive Stefano Bartezzaghi il 2 agosto 2014 su “La Repubblica”. Recenti studi cercano di quantificare quello che una sensazione, netta quanto difficile da catturare precisamente, ci suggerisce: che abbiamo qualche problema con l'ascolto. O almeno col farci ascoltare. È una fortuna avere qualcuno che sa ascoltare, e che pratichi i quattro parametri del RASA enunciati dalla comunicatrice texana Barbara Miller ("Receive": ricevere; "Appreciate": dare segni di apprezzamento mentre l'altro parla; "Summarizing": riassumere quello che ci ha detto; "Asking": rivolgere domande per andare più a fondo). Ma sappiamo fare fortunati i nostri interlocutori, praticando, noi, gli stessi parametri?

In inglese, ascoltare, listen, è anagramma di silente, silent. Ma tutti, magari, inconsapevolmente sanno quanto la qualità dell'ascolto cosiddetto passivo influisca sulle proprie prestazioni oratorie. Ci sono amiche e amici con cui parliamo meglio. Se parliamo in pubblico conosciamo la differenze fra le platee paganti (sia pure poco) e motivate del Festivaletteratura di Mantova e del Festival della Mente di Sarzana e pubblici annoiati e distratti. Non è un problema di educazione, è contributo — sia pure passivo — all'efficacia della comunicazione. Il difficile è ricordarselo quando ad ascoltare siamo noi. La realtà è che mentre qualcuno parla pensiamo a cosa dire noi; oppure lo interrompiamo per rispondere al problema che ci sta ponendo prima di averlo capito bene, o ascoltiamo «dall'interno di una sorta di solido bunker che abbiamo messo anni a costruire e di cui però non siamo ancora consapevoli», come dice Julian Treasure, che si occupa di "ascolto consapevole". Laura Janusik insegna invece comunicazione a Kansas City e ha comparato uno studio sull'ascolto degli studenti con uno analogo condotto nel 1980: si sarebbe passati dal 53 per cento al 24 del tempo dedicato all'ascolto. Con il sospetto che non ascoltiamo perché pensiamo di recuperare su Google quello che abbiamo perduto. E se un altro studio del 1987 diceva che in media ci ricordiamo il 10 per cento di quanto detto in una conversazione, il dato ora pare peggiorato di molto. Il problema, però, potrebbe essere ancora più generale. Ha a che fare con il primato dato nelle nostre mitologie sociali all'attività, alla performatività, e dunque alla parola detta. In Italia, poi, le logomachie dei talk-show e più recentemente degli streaming (quello fra Grillo e Renzi resta un culmine) dimostrano con un'evidenza sconsolante come la comunicazione sia vissuta in termini di quantità — occupazione di spazio e tempo, annichilimento dell'agibilità locutoria altrui — piuttosto che di qualità. Ed è paradossale che in un discorso pubblico dominato da concetti come "audience" (uditorio, da "udire") e "share" (condivisione), la vittoria non si consegua con i gol davvero realizzati. Basta il possesso palla.

Cosa viene rimproverato, dagli oppositori interni e dagli esterni a chi è arrivato in posizione apicale e ai suoi cerchi magici? La cantilena è sempre quella: «Non ascolta più, se mai l'ha fatto». Ora si tratta di Matteo Renzi ma gli archivi rigurgitano di lamentele, più o meno caute, verso chiunque in Italia abbia raggiunto il potere. Bisognerebbe allora riprendere quel testo che Italo Calvino scrisse per Luciano Berio, e che ricopriva la parte dedicata all'udito di un progetto che Calvino voleva dedicare ai cinque sensi: «Un re in ascolto». Un re, in realtà, non può che ascoltare. Per non parlare del Dio hollywoodiano di Una giornata da Dio, ossessionato dal brusio incessante delle preghiere. Ci siamo forse abituati a comunicazioni unilaterali? A giudicare dalle famose intemperanze che si manifestano nel web si ha la sensazione che chi scrive commenti ingiuriosi non abbia proprio l'esatta percezione di essere letto, almeno finché non gli arriva una sacrosanta querela. Basta reagire con calma a certi commenti molesti per sentirsi dire: «Non ce l'avevo con te». Non pensavano di essere dentro a un'interlocuzione. È che la gente si è abituata a parlare da sola al televisore e dire «quanto sei cretino» a quello che si pensa sia un ectoplasma privo di orecchie: lo aveva intuito già negli anni Ottanta il Woody Allen che faceva intervenire Marshall McLuhan in persona in una conversazione privata che lo concerneva (Io e Annie), o che faceva interagire gli attori sullo schermo con la spettatrice Mia Farrow fino a farla entrare nella storia (La Rosa purpurea del Cairo). Oggi a teatro gli spettatori parlano, commentano, anticipano, rispondono al telefono e non sembrano assolutamente consapevoli che lì a loro è richiesto di mantenere una posizione di puro ascolto, e ascolto di quello per cui hanno pagato il biglietto (se l'hanno pagato). Ma non solo pensano di essere invisibili e inaudibili quando rompono le palle a una platea intera, e agli attori stessi: non hanno nemmeno la percezione di quanto l'ascolto attento che negano contribuirebbe invece alla riuscita dello spettacolo, della conferenza, della lezione.

In una conversazione è facile capirlo: l'interlocutore che guarda l'orologio, che riceve un sms e lo legge e risponde dicendoci «parla, parla, ti ascolto», che ci domanda qualcosa che avrebbe dovuto aver ascoltato due minuti fa non solo non ci piace. Ci frustra nel desiderio, o nella necessità, di una conversazione che ci porti qualcosa, anche la mera sensazione di aver fatto passi avanti nel discorso. E quando invece ricordiamo a qualcuno qualcosa che ci ha detto mesi prima, è sempre più frequente registrarne uno stupore quasi commosso: «Ma allora quando parlo mi ascolti!». A contrasto si staglia la figura dello spiritoso sessantenne, tartassato dalla moglie brontolona, la quale a un certo punto sbottò: «Ma almeno mi ascolti?». E lui: «Già ti lascio parlare. Devo anche ascoltarti? ». Nel suo sfregiante estremismo, la battuta sembra però riassumere l'atteggiamento comune a molti uditori nazionali, oggi: parla, parla pure, pensala così. Un'ecologia della comunicazione vorrebbe piuttosto che l'ascolto si spartisse la qualità di principale virtù ex aequo con la responsabilità. Da genitori, partner, professori, colleghi, amici, governanti assumere il dovere di ascoltare e, assieme, quello di rispondere. Esercitare la pazienza, altra dote che ha nell'etimo del suo nome un ricordo della "passività", apparentemente inerte, ma anche della passione. La passione dell'ascolto? Sì, belle parole, ma ad ascoltare l'ecologia dovremmo anche farci scrupolo di spegnere i led del televisore e chiudere l'acqua mentre ci insaponiamo nella doccia. Ciao. «Te sento e nun te sento», dice il dio Aniene di Corrado Guzzanti al suo super-divino padre. E la verità è che siamo governati dall'attivismo, dall'impazienza, dalla frenesia: e anche dalla sordità. La verità è che siamo governati dall'attivismo, dall'impazienza, dalla frenesia: e anche dalla sordità. Quando ci ricordiamo, registriamo uno stupore quasi commosso: "Ma allora mi hai sentito!".

Non guardare mentre si parla, scrive il 4 marzo 2015 "La mente è meravigliosa. Guardare una persona in faccia quando sta parlando o essere guardati mentre lo facciamo viene generalmente considerata una manifestazione di interesse verso la persona e il contenuto del suo discorso. Molti genitori insegnano questa pratica ai figli sin da piccoli, visto che non farlo può essere considerato un gesto maleducato. In questo stesso contesto educativo, è stato anche osservato che alcuni genitori utilizzano il contatto visivo prolungato per esprimere disaccordo nei confronti dell’azione che sta realizzando il figlio. Altre connotazioni che di solito si associano all’assenza di scambio visivo sono la timidezza, la colpa o la menzogna. Ci sono addirittura dei film che hanno come protagonisti leader politici e mostrano come gli esperti nel linguaggio del corpo consiglino al candidato alle elezioni di pronunciare il suo discorso dirigendo sempre lo sguardo verso la telecamera, come se stesse guardando l’elettore direttamente negli occhi. Il lasso di tempo in cui due persone mantengono il contatto visivo è anche associato al grado di intimità che esiste tra loro oppure alla confidenzialità dell’argomento che stanno trattando. Quindi manterremo un contatto visivo molto più lungo con persone che conosciamo bene, rispetto a degli sconosciuti. Di fatto, se una persona che non conosciamo ci guarda fisso troppo a lungo, spesso ci sentiamo a disagio.

Uno studio recente, pubblicato sulla rivista Psychological Science da F. Che, nell’Università di Freiburg, propone una riflessione su questo argomento, basandosi su alcuni dati raccolti. Immaginiamo una conversazione in cui una persona cerca di convincere un’altra della verità di una certa opinione su un argomento, e che questa persona fosse già in parte convinta di questa opinione. Il contatto visivo renderà il lavoro di chi argomenta molto più facile. Perché? Perché anche se uno dei due partecipanti è più convinto dell’altro, partono entrambi da una certa affinità che il contatto visivo rafforza. Ora immaginiamo invece che chi sta ascoltando l’argomentazione abbia un’opinione nettamente contraria a quella di chi parla. Lo sguardo di intesa diventa probabilmente uno sguardo che acquisisce connotazioni di dominio e intimidazione. I due interlocutori sono agli angoli opposti del campo, fuori dallo stesso cerchio, e si contraddicono continuamente. In questo caso, uno sguardo distratto e meno fisso può calmare la tensione e persino rendere più amichevole la conversazione. Inoltre, può essere un segno di umiltà, che dimostra che non abbiamo intenzione di mantenerci fissi sulla nostra posizione ad ogni costo o che utilizzeremo stratagemmi poco nobili per vincere il dibattito. Insomma, lo studio pubblicato su Psychological Science sostiene che, in un contesto di persuasione, la connessione tra gli sguardi ci aiuta quando parliamo con qualcuno che ha idee affini alle nostre, ma ci mette in difficoltà quando il nostro interlocutore la pensa diversamente. Come dice lo stesso Chen: “Il contatto visivo è un meccanismo così primitivo che è in grado di generare una grande quantità di cambiamenti fisiologici incoscienti, che possono ripercuotersi fortemente sul nostro atteggiamento”.

L’ITALIA DEI GENI.

Uno dei tanti libri che parla dell’ostracismo degli scienziati mediocri rispetto ai geni è “Geni incompresi. Eccentrici, perseguitati, plagiati, sfortunati, derisi, vilipesi...” di Ermanno Gallo.

Il medico Gaspare Tagliacozzo fu il geniale precursore della chirurgia ricostruttiva. Nel 1597 realizzò il primo impianto di pelle su un paziente dal naso sfregiato, utilizzando una striscia di epidermide dall’avambraccio. La Chiesa, però, gridò all’eresia, e solo tre secoli dopo la "tecnica maledetta" venne riscoperta. Si racconta che nel Seicento Cartesio abbia costruito uno dei primi androidi, una figlia artificiale in grado di pronunciare poche parole. Ma l’invenzione "puzzava di zolfo", e fu distrutta. E l’indispensabile penna a sfera? Venne brevettata dall’ungherese Laszlo Biro nel 1943, ma fu il barone francese Bich a produrla con il proprio nome divenendo ricchissimo. Biro, invece, morì in miseria. La storia delle invenzioni è un testo misterioso in cui figurano personaggi eccentrici e brevetti rubati, studiosi sfortunati e scienziati perseguitati. Non tutti hanno lasciato nella storia l’impronta di un gigante, ma come ignorare la preveggenza di Joseph Gavetey, che, nel 1857, perfezionò il rotolo di carta igienica? La gente comune, però, ritenne uno spreco utilizzare la preziosa carta per funzioni innominabili, e il suo genio anticipatore non venne compreso. Chissà se si consolò pensando a Galileo, che per aver capito come andava il mondo aveva rischiato addirittura il rogo.

Quella di Giampaolo Giuliani, il tecnico che, avendo previsto il terremoto in Abruzzo del 6 aprile 2009, non è stato creduto, è la solita storia dell'incapacità della scienza ufficiale di dare credito a progetti o intuizioni, che non provengono esclusivamente dalle ricerche effettuate nel baronale mondo accademico. Lo strumento da lui creato aveva rilevato la presenza massiccia di precursori dei terremoti nella zona, attraverso i livelli di radon liberati dalla terra.

La storia del mondo è stata segnata da innumerevoli Geni Incompresi, le cui scoperte non sempre sono state accettate dalla comunità scientifica. Personaggi ritenuti "eretici" molto spesso hanno dato contributi significativi al progresso dell'umanità.

Keplero ad esempio era ritenuto dalla maggior parte degli scienziati del suo tempo un mistico pazzo, eppure con le sue tre leggi, permise a Newton di descrivere la legge di gravitazione universale.

Sulla tipologia di tali personaggi vi è anche il famoso libro di Federico Di Trocchio intitolato "IL GENIO INCOMPRESO" dove viene svelato con estremo rigore come "la scienza ufficiale, spesso ottusamente conformista, non riesca a pensare in maniera diversa, disapprovando e condannando chi lo fa e, non di rado, sbagliando nei suoi giudizi". Nel libro si mette inoltre in chiara evidenza che "molte scoperte richiedono soprattutto spregiudicatezza, creatività e apertura mentale, qualità che non appartengono solo agli scienziati più originali e anticonformisti, ma anche ai dilettanti e agli outsider "semicompetenti", che hanno il coraggio di andare contro corrente e pensare quello che altri ritengono impossibile".

Un altro genio incompreso è Raffaele Bendandi. Nato nel 1893 a Faenza e ivi morto nel 1979, sismologo autodidatta, nel 1920 fu accolto fra le fila della “Società sismologica italiana”. Probabilmente una voce fuori dal coro dell’Accademia, Bendandi iniziò a propugnare teorie molto originali sui terremoti e a formulare previsioni. Di questa storia è facile leggere il punto di vista dei sostenitori di Bendandi: i più influenti sismologi lo tacciarono di dilettantismo e iniziarono ad attaccarlo duramente. Convinto che i terremoti fossero causati dalle azioni di marea degli altri corpi celesti sulla Terra, ipotizzò negli anni ‘30 la presenza di 4 pianeti trans-nettuniani. In base a calcoli laboriosi (il cui schema non fu mai svelato) Bendandi calcolava gli influssi gravitazionali di tutti i corpi del sistema solare sulla Terra e calcolava le date dei terremoti a venire. Si racconta di terremoti previsti, di previsioni ignorate, di come all’estero Bendandi fosse apprezzato e di come invece fosse misconosciuto in patria. Non del tutto, visto che la stampa riporta la notizia che nel 1976, dopo il tragico terremoto del Friuli, l’allora Ministro dell’Interno Francesco Cossiga lo contattò perché rendesse note con anticipo le sue previsioni – richiesta alla quale Bendandi non ottemperò. L’effetto mareale fu anche invocato per spiegare il ciclo di 11 anni dell’attività solare.

Ma perchè in Italia tutti si sono dimenticati di lui e del suo lavoro?

Nel 1927 il regime fascista vietò a Bendandi di divulgare le sue previsioni, come si può leggere ad esempio sul quotidiano "LA NAZIONE" del 30 maggio di quell'anno, probabilmente sotto la pressione di molti accademici del tempo, desiderosi di togliere di mezzo lo scomodo personaggio, che li metteva nella grande difficoltà di spiegare perchè loro non riuscivano a prevedere i terremoti. Bendandi non si diede per vinto e scrisse un primo libro che pubblicò completamente a sue spese nel luglio 1931. Tale libro intitolato "UN PRINCIPIO FONDAMENTALE DELL'UNIVERSO" era dedicato all'attività solare e conteneva il primo caposaldo, su cui egli basava le sue ricerche. Il ciclo undecennale venne interpretato come un battimento delle sollecitazioni mareali prodotte dai pianeti che ruotavano attorno al Sole. La variabilità delle altre stelle venne spiegata attraverso lo stesso principio e descritta in un secondo volume ancora inedito. Essendo anche il fenomeno sismico inquadrabile sotto lo stesso ragionamento, nella situazione di non poter divulgare le previsioni dei terremoti, Raffaele Bendandi volle probabilmente fissare un primo principio, che, se apprezzato, gli avrebbe permesso di far riconsiderare le sue previsioni.

Bendandi, il 22 novembre 1923, davanti al notaio Savini di Faenza dichiarò che il 2 gennaio successivo si sarebbe verificato un fenomeno sismico nelle Marche. Fu così che il 4 gennaio in terza pagina del Corriere della Sera uscì l'articolo: «L' uomo che prevede i terremoti». Tal Agamennone capo dell'osservatorio sismico di Roma aveva già ammesso il nostro nella società sismologica italiana. Ma dopo quell' articolo la scienza accademica non poté che detestarlo, ferita nella vanità da un autodidatta.  Nemmeno i preti gliela rimediarono. Il cardinal Maffi dell'osservatorio di Pisa non lo ricevette. «Ma domani sarete voi a chiamarmi» ... puntuale arrivò una scossa di terremoto, il giorno dopo nel Pisano. Più pratici gli americani e il libero mercato: nel 1925 Thomas Morgan della United Press stipulò regolare contratto in cambio della sua collaborazione. E Bendandi poté smettere il mestiere d'artigiano, con cui aveva campato fino ad allora. Nel 1927 Mussolini lo fece nominare cavaliere dell’Ordine della Corona d' Italia, ma era innervosito dalle previsioni e gli intimò di non darne notizia. Con Gronchi arrivò pure il titolo di Cavaliere della Repubblica e lettere grate di governanti da quasi ogni nazione della terra. Il suo sindaco comunista, giudicatolo scienziato proletario, gli fece intestare un milione e mezzo di lire per le ricerche.

Majorana il genio che scomparendo ci dimostrò che la realtà non esiste, scrive Corrado Ocone il 23 Aprile 2017 su "Il Dubbio". Dalla fisica alla filosofia, il saggio di Giorgio Agamben racconta l’enigma del giovane studioso di cui parlò anche Leonardo Sciascia. Il “caso Majorana”, cioè quello relativo alle circostanze mai chiarite della scomparsa nel 1938, a poco più di trentuno anni, del precoce e geniale fisico italiano, è stato con buona evidenza creato ad arte da lui stesso. Che si sia suicidato o meno, quello che è sicuro è che egli ha non solo voluto far perdere le sue tracce ma anche voluto depistare coloro che si sarebbero messi a cercarle. I quali, alla fine, hanno potuto escogitare solo interpretazioni, tutte ugualmente improbabili, nel senso etimologico del termine, cioè non corroborabili da “prove”. Rispetto a questa loro improbabilità metafisica, diciamo così, che esse siano più o meno plausibili poco importa. Anche perché la plausibilità richiama a un ordine di discorso, quello del senso comune o del “buon senso”, di cui, per detta di Enrico Fermi (che pure lo aveva paragonato a Galilei e a Newton per acutezza di ingegno), il nostro era sostanzialmente sprovvisto. Le interpretazioni del “caso Majorana” vanno perciò giudicate non per quello che ci dicono su di esso ma per quello che dicono di loro stesse. E, attraverso di loro, della realtà a cui inevitabilmente richiamano. Letta in quest’ottica, la tesi che ora avanza Giorgio Agamben è suggestiva e ha un valore intrinseco, come già quella precedente che Leonardo Sciascia aveva affidato, nel 1976, al suo bel libro intitolato proprio La scomparsa di Majorana, (1975). Un valore indipendente da un riscontro “fattuale” e “oggettivo” che è ora veramente difficile anche solo immaginare. Essa, al pari di quella di Sciascia, di cui in qualche senso può essere considerata una estensione e precisazione, muove da un tratto della personalità di Majorana, ma ha il pregio di porci di fronte non alle sue inquietudini esistenziali ma al senso ontologico della sua ricerca scientifica: privilegia, in sostanza, non gli aspetti psicologici dell’uomo ma l’oggetto della sua ricerca e della sua dedizione di vita. Un’interpretazione tanto più suggestiva, in quanto è evidente che essa presuppone, attraverso l’architettata scomparsa, una messa in gioco ancora più radicale della sua vita da parte dello scienziato. Rispetto ad altre prove più convenzionali e prevedibili di Agamben, questa ultima, un vero esercizio o saggio di “ontologia pura”, mi sembra perciò più interessante e da consigliare vivamente al lettore: Che cos’è il reale? La scomparsa di Majorana (Neri Pozza, pp. 78, euro 12,50). È un volume fra l’altro che ha il pregio di riproporre, in appendice, il significativo e poco conosciuto saggio postumo di Majorana intitolato: Il valore delle leggi statistiche nella Fisica e nelle Scienze sociali. Il saggio, che è in effetti come vedremo al centro dell’interpretazione di Agamben, fu scritto nel periodo più tormentato della breve esistenza del fisico siciliano, quello in cui, chiuso in una sorta di “esaurimento nervoso”, si abbandonò per lo più in solitudine ai suoi studi e alla stesura di testi mai pubblicati: l’arco di tempo compreso fra il ritorno dal viaggio di studio in Germania e Danimarca l’inizio dell’insegnamento di Fisica teorica all’Università di Napoli, nel gennaio 1938. Prima di concentrarci sulla scomparsa, conviene forse dire qualcosa su di lui.

Era nato a Catania il 5 agosto 1906, ma aveva studiato a Roma al “Massimo”, cioè presso i Gesuiti. Diplomatosi al “Tasso”, frequentò prima Ingegneria e passò poi a Fisica dopo un incontro con Enrico Fermi. Frequentò per quasi due anni l’Istituto di via Panisperna diretto da quest’ultimo, fino a laurearsi, il 6 luglio 1929, con una tesi su “La teoria quantistica dei nuclei radioattivi”. Anche se i suoi interessi scientifici combaciavano con quelli del gruppo di via Panisperna, Majorana non si integrò mai pienamente: sia per il suo carattere scontroso e solitario, sia per il rapporto paritario che subito stabilì con Fermi. Sicuramente, era nel gruppo quello con una marcia in più. Tanto che Fermi, che comunque giudicava straordinarie le sue qualità scientifiche, gli fece vincere una borsa di studio del Cnr per recarsi per sei mesi, all’inizio del 1933, a Lipsia da Werner Heisenberg e a Copenaghen da Niels Bohr. Con Heisenberg soprattutto instaurò un ottimo rapporto umano e soprattutto scientifico, tanto che il fisico tedesco manifestò pubblicamente la sua grande stima per il giovane italiano. Ritornato in agosto in Italia, egli si rinchiuse in casa a studiare in maniera ossessiva e a scrivere appunti che non ci sono giunti e che probabilmente distrusse. Frequentò sempre meno l’Istitito di via Panisperna e gli fu diagnosticato persino un “esaurimento nervoso”. La sorella gli senti dire più volte che la fisica si era incamminata su una strada sbagliata. All’inizio del 1938, dopo aver rifiutato prestigiose cattedre all’estero, accetta quella “per chiara fama” che gli viene offerta a Napoli (Majorana si era presentato per dispetto ad un concorso di fisica ove avrebbe scombussolato con la sua presenza i giochi accademici “orchestrati” da Fermi eliminando di fatto il figlio di Gentile dalla terna dei vincitori: da qui l’escamotage ministeriale della “chiara fama”). Trasferitosi nella città partenopea, egli visse in un albergo, pur rassicurando i genitori che avrebbe cercato un appartamento (ma in verità avrebbe pure potuto restare a Roma essendo impegnato all’Università solo due giorni a settimana). Si legò in amicizia a Antonio Carelli, professore di Fisica sperimentale e direttore del dipartimento. Decisosi a prendersi una breve vacanza, dopo aver ritirato una somma considerevole in banca e il passaporto, decide di andare a Palermo.

Prende il traghetto delle 22,30 la sera del 27 marzo 1938 e da quel momento scompare, non senza avere scritto a Carelli e ai familiari due lettere di addio lo stesso giorno della sua partenza e averne spedita da Palermo una terza che sconfessava le prime due e preannunciava il suo ritorno il giorno dopo (quest’ultima l’aveva fatta precedere da un telegramma “rassicurante”). Da allora nessuno più ha visto o ritrovato il corpo del fisico siciliano. E da allora si sono via via intensificate le tesi sulla sua misteriosa scomparsa. Perché non fermarsi alla tesi del suicidio, che soprattutto nella lettera alla famiglia sembra molto chiara, mentre nella prima a Carelli si parla genericamente di “scomparsa”? È vero che la seconda lettera a Carelli, spedita da Palermo, palesa un ripensamento, ma potrebbe ben darsi che, combattuto fino all’ultimo, sia di nuovo ritornato alla decisione iniziale. Il fatto è che, non solo il corpo non si è trovato, ma le due lettere a Carelli sono davvero di un’ambiguità e criticità notevole, con una scelta di parole che sicuramente non può essere stata casuale. Un dire e un non dire ove è impossibile capire ove è la “verità”, ammesso e non concesso che in esse ne esiste una e solo una.

Come sempre in questi casi, si è fatto così riferimento, fino ai giorni nostri, a tesi plausibili o meno, complottistiche e persino bizzarre, che in questa sede non vale nemmeno la pena di ricordare. Tranne, ovviamente, quella avanzata Sciascia: l’ipotesi che alla base della sua scomparsa potessero esserci motivazioni di ordine morale legate alla intuizione dei catastrofici sviluppi che gli studi della fisica contemporanea, e anche i suoi, avrebbero potuto avere ( e che in effetti ebbero poco dopo), mercé la scissione dell’atomo e la realizzazione dell’arma nucleare. Comunque lo si giudichi, compresa l’ipotesi “metafisica” finale di un ritiro di Majorana in un convento di certosini in Calabria, il libro di Sciascia è un’opera non solo di interpretazione di documenti ma anche di alta letteratura e di empatia psicologica col personaggio. Rispetto ad essa, e rispetto a tutto quello che già prima si sapeva, Agamben non apporta nuovi documenti: semplicemente ci pone davanti a una diversa interpretazione degli stessi e delle motivazioni del gesto finale, spostandole su un terreno di profondità e raffinatezza concettuale che possono ben dirsi all’altezza dello scienziato scomparso. A ben vedere, sul terreno, che ben possiamo dire filosofico e ontologico su cui Agamben pone il suo discorso, ciò che conta è la scomparsa e non certo la modalità empirica in cui si è realizzata e che, se conosciuta, avrebbe in sostanza eliminato quel nucleo essenziale. Ecco perché la sparizione è stata così bene architettata: è la scomparsa stessa, il non essere, che qui è in gioco. Non si mettono qui in dubbio le capacità intuitive e predittive che Sciascia attribuisce a Majorana, è che in effetti sono provate storicamente, ma si punta l’occhio sul presente dei suoi e altrui studi, non sui loro possibili sviluppi. Per capire la tesi di Agamben, bisogna tenere presenti alcuni elementi: Majorana non era solo uno studioso precoce e geniale, ma era, a detta di Fermi stesso, il più geniale di tutti; in più, si era trovato al centro di studi e ricerche che stavano cambiando non solo la faccia della fisica ma lo stesso suo statuto ontologico e metodologico. Era stato proprio il suo amico Heisenberg a trarre le conseguenze dalla teoria dei quanti e a formulare, nel 1927, quel rivoluzionario “principio di indeterminazione” che, ponendo su basi casuali la realtà e probabilistiche la scienza, superava la concezione del mondo e della conoscenza su cui la fisica newtoniana aveva poggiato le proprie basi e dato inizio alla radicale trasformazione attraverso la tecnica del nostro mondo. Come Heisenberg, Majorana era poi anche un po’ filosofo, come riconosce Sciascia: era cioè portato a porsi questioni metadisciplinari e, in questo caso, proprio meta- fisiche. Era un uomo di vasta cultura e non di astratti specialismi (amava Dante, Shakespeare, Pirandello, fra l’altro). D’altronde, egli nelle lettere a Carelli insiste, addirittura con un richiamo a Ibsen, sul carattere non psicologico e non individualistico della sua scelta di scomparire. È può poi essere un caso che, fra i vari appunti degli anni dell’esaurimento, solo uno scritto molto particolare, epistemologico e non di fisica pura, la cui lettura può contenere molte “chiavi”, sia stato lasciato nella piena disponibilità dei posteri? In verità anche Sciascia era stato colpito dal citato saggio sulla statistica nelle scienze fisiche e sociali, in particolare dall’analogia finale fra l’agire dello scienziato moderno e l’arte del governare. Ma, come Agamben, ci mostra è tutto il saggio che è interessante e la stessa analogia su cui Sciascia si era soffermato più che a un uso del potere a fini di distruzione richiama allo statuto ontologico della nuova scienza che è un modo di operare e non certo di conoscere. Quel che rimane pregiudicato è, più in generale, lo stesso concetto e statuto ontologico di realtà. Ed è esso che Majorana, secondo Agamben, intende riproporre o porre all’attenzione facendo della sua stessa esistenza, in senso radicale, una parte in gioco. È forse però giunto il momento, a conclusione di questo articolo- recensione, di enunciarla bene e per intero tutta la tesi di Agamben, con le stesse sue parole. Eccole: «L’ipotesi che intendiamo suggerire è che, se la convenzione che regge la meccanica quantistica è che la realtà deve eclissarsi nella probabilità, allora la scomparsa è l’unico modo in cui il reale può affermarsi perentoriamente come tale, sottraendosi alla presa di calcolo. Majorana ha fatto della sua stessa persona la cifra esemplare dello statuto del reale nell’universo probabilistico della fisica contemporanea e ha prodotto in questo modo un evento insieme assolutamente reale e assolutamente improbabile. Decidendo, quella sera di marzo del 1938, di sparire nel nulla e di confondere ogni traccia sperimentalmente rilevabile della sua scomparsa, egli ha posto alla scienza la domanda che aspetta ancora la sua inesigibile e, tuttavia, ineludibili risposta: che cos’è reale?».

"Majorana visse in un convento del Sud Italia. Ecco le prove". Foto mai viste e lettere inedite del genio della fisica scomparso nel 1938 aprono nuovi e clamorosi scenari Rolando Pelizza, che fu suo allievo: "Si nascose grazie al Vaticano", scrive Rino Di Stefano su “Il Giornale”. Sciascia aveva ragione: Ettore Majorana non sarebbe morto suicida, né tanto meno sarebbe fuggito in Venezuela. Lo scienziato scomparso nel nulla il 27 marzo del 1938 a poco più di 31 anni, mentre era docente di Fisica teorica presso l'università di Napoli, non si sarebbe mai mosso dall'Italia. Per essere più precisi, avrebbe chiesto e ottenuto di essere ospitato in un convento del Sud Italia, dove sarebbe rimasto fino alla fine dei suoi giorni. A rivelare questa nuova verità su uno dei più grandi geni che l'Italia abbia mai avuto, è Rolando Pelizza, 77 anni, l'uomo che da sempre sostiene di essere stato l'allievo di Majorana e di averlo aiutato a costruire una macchina in grado di annichilire la materia, producendo quantità infinite di energia a costo zero. Pelizza, però, non si limita a raccontare la sua storia. Questa volta tira fuori delle prove concrete, e cioè lettere e foto, che dimostrerebbero, al di là di ogni ragionevole dubbio, che in effetti avrebbe realmente conosciuto e frequentato colui che, ancora oggi, chiama il «suo maestro». Le foto sono due: la prima risale ai primi anni Cinquanta, la seconda agli anni Sessanta. La somiglianza con il giovane Majorana è impressionante. La più importante delle lettere risale al 26 febbraio del 1964, quando in una missiva di sette facciate, lo scienziato scomparso riconosce al suo allievo il merito di aver terminato cum laude il ciclo delle lezioni che egli gli ha impartito. La lettera ha un riscontro concreto. In data 28 gennaio 2015 è stata affidata alla dottoressa Sala Chantal, grafologa specializzata in ambito peritale/giudiziario, con ufficio a Pavia, la quale, paragonando la calligrafia degli scritti lasciati a suo tempo da Majorana con il testo della lettera stessa, ha effettuato una completa perizia calligrafica di 23 pagine, conclusa con le seguenti parole: «Detta lettera è sicuramente stata vergata dalla mano del sig. Majorana Ettore». «Dal 1° maggio 1958 al 26 febbraio 1964 sono stato allievo di Ettore Majorana - racconta Rolando Pelizza - e negli anni successivi sono stato suo collaboratore nella realizzazione del progetto di costruzione della macchina produttrice di antiparticelle. Posso affermare senza tema di smentita che Ettore Majorana non è morto nel 1938: l'ho conosciuto e frequentato e mi ha insegnato la "sua matematica" e la "sua fisica" e poi mi ha accompagnato con i suoi insegnamenti per molti anni. Per onestà intellettuale, voglio affermare che la paternità dello studio che sta alla base della macchina è opera esclusiva di Majorana». Prendendo dunque per buona e corretta la perizia della dottoressa Chantal, esaminiamo che cosa c'è scritto in quella lettera del 1964. Tanto per cominciare, il testo inizia con una dichiarazione che non lascia dubbi circa il ruolo di allievo che avrebbe avuto Pelizza. Singolare che, per evitare di dire dove si trovi, la lettera si apra con l'intestazione «Italia, 26-2-1964». Questo espediente verrà usato anche nelle altre lettere. «Caro Rolando - scrive il presunto Majorana - Ti ricordi il nostro primo incontro, avvenuto il 1° maggio 1958? Ne è passato di tempo. Oggi si può dire terminato il periodo delle mie lezioni. Ti promuovo a pieni voti, sia in fisica sia in matematica. Come ben sai, quanto hai appreso va molto oltre le attuali conoscenze; per tanto non misurarti con nessuno, perché potresti scoprirti. Anche se qualcuno conoscendoti, ti provocherà, tu ascolta e fingi di non capire; so bene che questo sarà molto difficile, ma credimi: se, dopo aver sentito quello che ti dirò, accetterai di realizzare la macchina, dovrai fare questo e molto di più. Ora sei sicuramente pronto per affrontare il compito di realizzare la macchina; conosci perfettamente ogni particolare, hai appreso dettagliatamente la formula necessaria per il funzionamento della stessa; ora ti consegno disegni e dati per il montaggio. Solo una cosa ti chiedo: devi essere molto prudente. Disegni e dati non sono tanto importanti; la formula, invece, va ben custodita. Per nessun motivo deve cadere in mano di altre persone: sarebbe la fine, di sicuro». A rendere ancora più verosimile il tono della lettera, sono le raccomandazioni che il professore rivolge al suo studente, in vista della realizzazione della macchina. Il mondo è quello che è, per cui lo invita alla prudenza: «Prima di decidere se accettare o meno il compito di realizzarla, devi sapere bene a cosa andrai incontro - avverte -. Almeno questo è il mio parere, ricordalo bene. Nonostante il mio desiderio di vedere questa macchina realizzata sia immenso (per il bene dell'umanità, che purtroppo sta andando incontro ad un terribile disastro a causa del nefasto impiego delle varie scoperte), voglio che tu rifletta prima di decidere: da questo dipenderà la tua esistenza. Se, ultimata la macchina, sarai scoperto prima della sua presentazione, secondo i dettagli che più oltre ti fornirò, sarai sicuramente in pericolo di vita; potrai essere vittima di un sequestro, come minimo, ma ci potranno essere molte altre gravi ripercussioni. Se dopo tutto questo, deciderai di realizzarla comunque, te ne sarò eternamente grato e sono contento di aver intuito subito che tu eri la persona giusta». Passati gli avvertimenti, il professore elenca nel dettaglio le precauzioni da prendere. Ed è molto scrupoloso nel farlo: «Dopo la riuscita del primo esperimento - spiega - dovrai predisporre vari dossier da depositare in luoghi ed a persone varie di piena fiducia. Dovrai costituire una fondazione alla memoria dei tuoi cari (in questo modo non solleverai sospetti). Di questa fondazione, tu sarai il fondatore e il presidente, mentre nel consiglio dovrai cercare di inserire nomi conosciuti e di fiducia; dovranno essere persone di varie categorie, ad esempio: un avvocato, un medico, uno psicologo, un professore di storia dell'arte, ed altre professioni; io ti farò avere il nome di uno o più fisici. Dovrai organizzare almeno due o tre convegni differenti. Poi, un convegno di Fisica sull'argomento che io proporrò al fisico, o forse più fisici, del consiglio. Nel frattempo, dovrai presentare la macchina che hai realizzato, adducendo di aver effettuato il lavoro con la collaborazione dei sopra citati fisici (o fisico?). Penserò io ad informare questi ultimi su come comportarsi al momento opportuno. Poi presenterai il piano d'azione da intraprendere successivamente. La macchina sarà presentata solo dopo la realizzazione della seconda fase, che consiste nel riscaldamento della materia, una fonte inesauribile di energia sotto forma di calore». A leggere la lettera si evince che il Majorana che si nasconde in convento non è poi così lontano dal mondo come sembrerebbe. A quanto pare, continua a tenere contatti con l'esterno e comunica con altri fisici che lo conoscono bene. Il professore continua ricordando all'allievo il giuramento fatto e gli ricorda che, al momento, la macchina è ancora in fase sperimentale. «Tieni sempre presente il giuramento che abbiamo fatto - ammonisce - per nessun motivo, anche a costo della vita, sarà ceduta come strumento bellico, ma dovrà essere usata esclusivamente al fine di migliorare la nostra esistenza». Il professore non manca di mettere in guardia l'allievo dalle conseguenze che potrebbero aspettarlo: «Non pensare che siano manie mie - mette le mani avanti -. Se verrai scoperto prima del tempo, cosa che spero tanto non succeda, tutto quanto detto finora, che ora può sembrare paranoico, è solo la minima parte del reale pericolo a cui andrai incontro. Investimento: so benissimo che provieni da una famiglia benestante, però pensaci bene. Sai quanto materiale pregiato serve per una sola macchina. Inoltre, prevedi che certamente ne andranno distrutte parecchie e dalla loro distruzione non ricaverai nulla, perché nulla rimane se non circa il quattro per mille, del materiale, ecc. Verificherai bene di quanto puoi disporre: è preferibile non iniziare che rimanere senza nulla e di conseguenza non poter terminare, per te e soprattutto per la tua famiglia, che andrebbe incontro a problemi molto seri. Avrei ancora molte altre cose da aggiungere per sconsigliarti di accettare, ma credo che bastino quelle dette, PENSACI BENE. In attesa della tua decisione. Tuo amico e maestro, Ettore». C'è da dire che, con un alto grado di preveggenza, il professore ha anticipato tutto ciò che è realmente accaduto a Pelizza nel corso degli anni. Infatti, dal 1976, anno in cui egli fece gli esperimenti che il professor Ezio Clementel, presidente del Cnen e ordinario di Fisica presso l'università di Bologna, gli commissionò per incarico del governo italiano, i guai di Pelizza non hanno avuto fine. A quel tempo era presidente del Consiglio Giulio Andreotti, al suo terzo mandato governativo. Anche se l'esperimento andò bene, e la macchina dimostrò tutta la sua efficacia, Andreotti decise di rompere ogni rapporto con Pelizza quando seppe che il governo americano, allora presieduto da Gerald Ford, si stava interessando al caso. Il presidente Ford inviò in Italia il suo rappresentante personale, l'ingegner Mattew Tutino, per prendere contatti con Pelizza. Da notare che nella società di quest'ultimo, la Transpraesa, i servizi segreti italiani (per la precisione il Sid, Servizio informazioni difesa) avevano infiltrato due colonnelli dei carabinieri: Massimo Pugliese e Guido Giuliani. Nonostante il governo degli Stati Uniti avesse offerto un miliardo di dollari per entrare a far parte della società, Pelizza si rifiutò di collaborare con gli americani quando questi gli chiesero, a titolo di prova, di abbattere alcuni loro satelliti geostazionari. In altre parole, utilizzare la macchina come un'arma. Subito dopo fu la volta del governo belga. Venne chiamata Operazione Rematon e prevedeva che Pelizza, il cui interlocutore era il primo ministro Leo Tindemans, brevettasse e depositasse il brevetto della sua macchina in Belgio. L'accordo fallì quando nell'aeroporto militare di Braschaat, nei pressi di Bruxelles, i belgi chiesero a Pelizza di distruggere un carro armato. Ancora una volta, dunque, la macchina veniva interpretata come un'arma. Il risultato fu che Pelizza fece intenzionalmente implodere la sua macchina e pretese di essere riaccompagnato in Italia. Da allora la vita di Rolando Pelizza è trascorsa in modo molto movimentato, con l'emissione di tre mandati di cattura internazionali, tutti ritirati nel corso del tempo. Fece molto parlare l'accusa che nel 1984 gli rivolse il giudice Palermo per aver costruito illegalmente «un'arma da guerra chiamata il raggio della morte». Ma al processo Pelizza venne assolto con formula piena. Di lui parlarono spesso anche i giornali. Ecco, per esempio, un brano tratto da un articolo della rivista OP del 15 luglio 1981: «Come non definire "l'operazione Pelizza" un best seller della letteratura gialla internazionale? Purtroppo si tratta di una vicenda vissuta, di una storia tutta italiana iniziata nel 1976 e non ancora conclusa. Siamo in possesso di informazioni dettagliate, con tanto di nomi e date, che ci inducono a ritenere che quella che può essere catalogata come "l'operazione Pelizza" non è il parto di Le Carré o di Fleming e che la sua scoperta non è "la macchina per fare l'acqua calda" come qualcuno ha voluto dire». Ma ci fu anche chi lo attaccò duramente. Nel 1984, in una serie di articoli, La Repubblica definì Pelizza «fantasioso traffichino di provincia», paventando che dietro la presunta invenzione di quello che veniva definito «raggio della morte» ci fosse una colossale truffa. Ovviamente nessuno spiegava che, in presenza di un'eventuale truffa, ci dovesse essere anche un eventuale truffato. Ma il messaggio era comunque lanciato. Stanco di questa continua battaglia, adesso Pelizza ha deciso di vuotare il sacco. Ed ecco quindi le lettere e le foto di Majorana in convento: «Già nel 2001 il mio maestro mi aveva autorizzato a rendere pubblico il mio contatto con lui. Non l'ho fatto perché speravo di far conoscere questa verità in modo molto più morbido e graduale. Ma purtroppo non è stato possibile: troppe maldicenze e calunnie sono state messe in giro contro di me in questi anni. Adesso, dunque, ho deciso di dire tutto e di far conoscere la verità sulla sorte di Ettore Majorana». Una lettera illuminante, a questo proposito, è quella che Pelizza mostra con data 7 dicembre 2001. Gliela inviò, sostiene, il suo maestro proprio per autorizzarlo. «Da ora - si legge - se lo riterrai opportuno, sei libero di usare il mio nome, di divulgare i nostri rapporti, gli scritti e fotografie; se lo farai ti prego di rivelare i veri motivi che mi hanno spinto nel 1938 ad allontanarmi da tutti, per dedicarmi allo studio, nella speranza di arrivare in tempo e poter dimostrare al mondo scientifico che esistevano alternative importanti e senza pericoli. Purtroppo tu ben sai che non sono arrivato in tempo, pur avendo alternative migliori, che a tuttora non sono servite a nulla. Riservati l'ultimo segreto, dove e come mi hai conosciuto, il luogo e i fratelli che da sempre mi hanno segretamente ospitato». Pelizza, infatti, si rifiuta categoricamente di dire in quale convento Majorana sia stato ospitato per oltre mezzo secolo e dove, ancora oggi, sarebbe sepolto. «Il mio maestro non ha mai preso i voti - sostiene Pelizza -. Egli è stato ospitato in convento e lì, grazie alla protezione del Vaticano, è riuscito a vivere e a studiare per tanti anni, senza essere disturbato. Conoscevano la sua situazione e sapevano del suo dramma interiore, che rispettavano. Comunque, so che anche durante la sua vita conventuale, si è messo in contatto con personalità scientifiche che si sono occupate di lui. Non so quanti abbiano realizzato che il loro interlocutore fosse proprio lo scomparso Ettore Majorana, ma così è stato». A dimostrazione di questa corrispondenza tenuta con il mondo accademico, c'è la copia di una lettera che Majorana avrebbe scritto al professore Erasmo Recami, ordinario di Fisica presso l'università di Bergamo e conosciuto per essere il maggior biografo di Majorana. La data della lettera è del 20 dicembre del 2000: «Egregio Professor Erasmo Recami (...) mi permetto di rivolgermi a lei come un collega, chiederle un parere ed eventualmente un aiuto, nel caso lei ritenga valido il consiglio che ho dato al mio collaboratore e che leggerà nello scritto a lui indirizzato. Conoscendo molto bene il mio allievo, sono sicuro che dei miei consigli inerenti all'abbandono del progetto, non si curerà; quindi la pregherei di provare a convincerlo, per il suo bene. Se proprio non sentisse ragioni e volesse continuare, veda se, una volta letti tutti i documenti inerenti ai rapporti tra me e lui fino ad ora, ritiene opportuno pubblicarli, per il bene futuro del nostro mondo. Quando parlo del futuro del nostro mondo, mi riferisco al surriscaldamento del pianeta, cosa che io avevo previsto già nel 1976, quando diedi a Rolando una relazione dettagliata sul tema, e le sue conseguenze: dai primi sintomi, all'inizio del 2000, all'incremento del problema a partire dal 2010, in seguito al quale è lecito aspettarsi delle vere e proprie catastrofi ambientali. Relazione che Rolando, a sua volta, consegnò al Dott. Mancini, il quale, in quel momento, era stato incaricato dal governo di occuparsi dello sviluppo della macchina. «La macchina in oggetto, oggi è in grado di rigenerare l'ozono distrutto, semplicemente tramutando l'anidride carbonica in ozono nella quantità mancante, e l'eccesso in qualsiasi altro elemento da noi voluto. Ma le sue possibilità sono infinite: ad esempio, essa è in grado di produrre calore illimitato senza distruggere la materia, quindi senza lasciare residui di nessun genere. Con la pubblicazione di questi studi, l'umanità verrà a conoscenza che, per la volontà di poche persone (comportamento che a tutt'oggi non riesco ancora a comprendere) sta perdendo l'opportunità di un futuro migliore. «Solo per il fatto di aver letto quanto da me scritto, le sono infinitamente grato. I miei più cordiali saluti, Suo Ettore Majorana». Inutile dire che il professor Recami restò molto impressionato da questa lettera, ma come ci ha poi dichiarato, non basta una lettera a dimostrare che sia stata scritta proprio da lui. Insomma, mancando una precisa evidenza scientifica, non riusciva ad accettare l'idea di essere in contatto con colui che per anni è stato l'oggetto dei suoi studi. Pelizza mostra un dossier di una dozzina di lettere inviate dal suo maestro tra il 1964 e il 2001, anno in cui smise di avere contatti. A quel tempo Majorana aveva 95 anni. Stanco e malato, si preparava a rendere la sua anima a Dio e non volle mai più ricevere il suo allievo in convento. Su sua precisa disposizione, le sue spoglie sarebbero state seppellite in terra consacrata, sotto una croce anonima, come si usa per i frati di clausura. Il Vaticano ha sempre mantenuto il segreto e non ha mai reso pubblico nulla sulla sua vita in convento. Pare invece che tutte le carte appartenenti a Majorana siano state spedite in Vaticano, dove ancora oggi sarebbero in corso di archiviazione.

Lo scienziato e la cittadina vaticana. La Procura chiude i gialli storici. L’archiviazione sulla scomparsa del fisico catanese precede la conclusione di un’altra indagine pluridecennale, quella sulla «ragazza con la fascetta». Analogie e retroscena, scrive Fabrizio Peronaci su “Il Corriere della Sera”. Le analogie - dando per scontate le ovvie specificità dei due casi - sono numerose: le scomparse di Ettore lo scienziato catanese e di Emanuela la figlia del messo pontificio hanno segnato periodi importanti del Novecento italiano; su entrambe ha aleggiato lo spettro di deviazioni e di oscure ragioni di Stato; sia per l’uno sia per l’altra si è fatta l’ipotesi di una segregazione in ambiente religioso, fosse esso un monastero in Calabria o un convento di clausura sperduto tra l’Alto Adige, il Lussemburgo e il Liechtenstein; in ambi i casi sono state offerte consistenti somme di danaro (30 mila lire da Mussolini, un miliardo dagli Orlandi) a chi fosse stato in grado di fornire notizie utili e decisive; le relative inchieste sono andate avanti per decenni. Ora, per un bizzarra coincidenza che forse proprio casuale non è, il caso Majorana e il caso Orlandi arrivano nello stesso periodo al loro esito giudiziario presso la stessa Procura, quella di Roma. Per il giallo del fisico svanito nel nulla dopo aver lasciato Napoli nel 1938 a bordo di un piroscafo diretto a Palermo i magistrati, dopo averne accertato la presenza in Venezuela negli anni Cinquanta, hanno optato per la richiesta di archiviazione, sentendosi certi di poter escludere «condotte delittuose o autolesive», vale a dire l’omicidio o il suicidio. Appurato che il genio degli studi sull’atomo era in vita molti anni dopo, e non essendo emersi elementi sospetti, il giallo è stato insomma considerato chiuso, anche se la fine non è nota. Diverso, almeno nel paradigma conclusivo, appare il quadro investigativo legato alla scomparsa della «ragazza con la fascetta», avvenuta nel giugno 1983. L’inchiesta per sequestro aggravato dalla morte dell’ostaggio (che sta per concludersi con la richiesta di rinvio a giudizio davanti a una Corte d’assise o, al contrario, con un’archiviazione) ha infatti portato nel corso degli ultimi sette anni all’iscrizione di sei persone sul registro degli indagati. Lo scenario di un’azione violenta ai danni della vittima, nell’ambito di un presunto ricatto attuato contro il Vaticano di Giovanni Paolo II e del capo dello Ior Marcinkus, con la partecipazione «operativa» di elementi della banda della Magliana, è stato ritenuto concreto, sulla base di precisi indizi. Tre dei sei indagati erano infatti agli ordini del boss «Renatino» De Pedis: uno avrebbe guidato la macchina in cui c’era Emanuela, al Gianicolo, prima della consegna a un non meglio specificato prelato, mentre gli altri due «sgherri» avrebbero pedinato la ragazza nei giorni precedenti il rapimento. Oltre a monsignor Pietro Vergari, discusso rettore della basilica di Sant’Apollinare dove fu poi inspiegabilmente sepolto il boss, e Sabrina Minardi, l’ex amante di «Renatino» che ha confusamente ricordato di aver visto gettare due sacchi (con dentro, forse, il corpo di Emanuela), in una betoniera, la conta degli indagati chiama in causa l’ultimo arrivato (nel 2013), il più sorprendente, reo confesso: quel Marco Fassoni Accetti che si è autoaccusato di aver avuto un ruolo come organizzatore e telefonista nel sequestro Orlandi (e in quello collegato di un’altra quindicenne, Mirella Gregori), per conto di un gruppo di laici ed ecclesiastici favorevoli alla Ostpolitik del cardinale Casaroli, all’epoca impegnati in una guerra di potere contro il fermo anticomunismo di papa Wojtyla e la (mala) gestione dello Ior da parte dello spregiudicato Marcinkus. Erano i tempi – giova ricordarlo, per inquadrare il duplice fronte di tensioni all’ombra del Vaticano – delle indagini sull’attentato al Papa polacco avvenuto due anni prima (maggio 1981) per mano del turco Alì Agca e del crack dell’Ambrosiano dal quale era derivata la morte del banchiere Calvi sotto il ponte londinese dei Frati Neri, l’anno precedente (giugno 1982). Il duplice sequestro Orlandi-Gregori, secondo il supertestimone più recente, che ha detto di aver atteso le dimissioni di papa Ratzinger per farsi avanti, sarebbe dovuto durare pochi giorni con un primo obiettivo concreto: indurre Agca a ritrattare l’accusa ai bulgari di essere stati i mandanti dell’attentato, in cambio della falsa promessa di una sua scarcerazione in tempi brevi attraverso la grazia, ottenibile proprio in seguito al ricatto operato su Santa Sede e Stato italiano con il rapimento delle quindicenni. Sta di fatto che, sei giorni dopo la scomparsa di Emanuela, il 28 giugno 1983, effettivamente il Lupo grigio cambiò versione, «scagionando» la Bulgaria (e quindi la Russia) da uno degli eventi più drammatici del periodo della Guerra Fredda. Ma questo è solo uno dei tanti passaggi al vaglio dei magistrati, in questa inchiesta-monstre anch’essa degna della penna di Leonardo Sciascia. Per sciogliere l’enigma Orlandi, adesso, la Procura di Roma è chiamata a valutare uno ad uno centinaia di indizi, riscontri, prove; dovrà essere definito il ruolo avuto dagli indagati o, in caso di archiviazione, andrà motivata la loro uscita di scena dalla cerchia dei sospettati. Procedere per sottrazione, come nel caso Majorana, non è possibile. Anche perché, purtroppo, quella ragazzina dal viso simpatico e i lunghi capelli scuri nessuno l’ha mai più rivista.

Il nipote e la verità su Majorana: non si uccise, io credo a Sciascia. «Lui in Venezuela? Non escludiamo nulla, aveva capacità enormi». «Giocava a calcolare chi avrebbe vinto una guerra: un umorismo para-matematico», scrive Massimo Sideri su “Il Corriere della Sera”. «Non credo che il mio prozio Ettore Majorana si sia ucciso, nessuno di noi lo ha mai pensato. Ha voluto fare una scelta precisa - è questa l’opinione in famiglia - più in linea con le sue capacità intellettuali, i fatti che conosciamo e anche l’opinione delle persone che gli erano più vicine al tempo, cioè la zia Maria, sua sorella». Salvatore Majorana, 43 anni nato a Catania dove quel cognome ancora oggi rappresenta una dinastia (Salvatore Majorana Calatabiano, nonno di Ettore, era stato ministro dell’Agricoltura e dell’Industria ai tempi di Giolitti) è il pronipote del famoso fisico scomparso nel ‘38 e lavora all’Iit di Genova dove guida l’ufficio di Technology Transfer. Rassomiglia a Ettore in maniera impressionante.

Come avete reagito alla notizia che secondo la Procura di Roma Ettore Majorana fosse vivo tra il ‘55 e il ‘59 in Venezuela?

«Era noto che ci fosse un’indagine sulla scomparsa di Ettore ma non pensavo che fosse ancora aperta e che fosse in mano alla Procura. Comunque l’ipotesi della scomparsa di Ettore era già circolata da anni e anche la fotografia non è nuova. Ciò che è nuovo è il collegamento della fotografia all’amico meccanico, Francesco Fasani, tant’è che sarei curioso di vedere il fascicolo».

Veniamo agli elementi probatori. La fotografia: lei rassomiglia moltissimo al suo prozio. Ritrova i tratti della sua famiglia in questa foto scattata in Venezuela?

«Non mi ci ritrovo neanche un po’. Ettore era del 1906 dunque nella fotografia avrebbe 49 anni. Anche ipotizzando che possa avere avuto una vita difficile non trovo in quel volto un legame con la foto diffusa che se non ricordo male era quella del libretto universitario. La sensazione è che ci sia la voglia di attribuire una soluzione al confronto».

Però le conclusioni della Procura sono compatibili con la vostra convinzione, cioè che Ettore Majorana quel giorno non si sia ucciso.

«Non discuto il risultato finale ma siamo perplessi sul metodo».

Il cognome Bini, usato secondo Fasani dal suo prozio, vi dice qualcosa in famiglia?

«Su due piedi no».

Altro elemento usato dalla Procura è una cartolina del 1920 di Quirino, zio di Ettore, altro famoso fisico.

«Non trovo plausibile che avesse quella cartolina in automobile 35 anni dopo».

In famiglia avete cercato delle prove su cosa possa avere fatto dopo la scomparsa nel ‘38 Ettore Majorana?

«Tutti noi in famiglia siamo sempre stati persuasi delle sue grandissime capacità di collegare i suoi studi agli eventi bellici. Ricordiamoci che stiamo parlando degli anni poco prima della Seconda guerra mondiale. I cargo che portavano le persone in America erano diffusi. In quell’epoca se volevi sparire ci riuscivi anche senza essere un genio».

L’ipotesi di Sciascia era che potesse essersi ritirato in un convento della Calabria. Cosa ne pensa?

«Dopo il libro qualcuno andò anche a controllare. Dai registri non risultava nulla. Ma questo, evidentemente, non significa che non ci sia stato. Di certo Sciascia fece un lavoro di inchiesta».

Un testimone ha raccontato di averlo incontrato a Roma, nell’81, insieme al fondatore della Caritas romana, monsignor Luigi Di Liegro.

«Sono tutte ipotesi che hanno del verosimile. Mi sembra strano però che la famiglia non abbia avuto traccia di una sua permanenza in Italia».

Un aneddoto che vi tramandate in famiglia?

«Faceva giochi matematici per calcolare come sarebbe andata a finire una guerra sulla base di cannoni e navi: aveva un suo umorismo para-matematico».

Giallo Majorana: testimone, era clochard a Roma, scrive “L’Ansa”. Visto nel 1981 con il fondatore della Caritas romana. Poi in convento. Si infittisce il giallo su Ettore Majorana. Dopo la conferma da parte della Procura di Roma che il fisico catanese scomparso nel 1938 era vivo nel periodo 1955-1959 e si trovava nella città venezuelana di Valencia, oggi è il turno di un testimone oculare che, in un'intervista all'ANSA, assicura di aver incontrato lo scienziato all'inizio degli anni '80 a Roma. "Majorana era sicuramente vivo nel 1981 ed era a Roma. Io l'ho visto", riferisce il testimone spiegando di averlo incontrato nel centro della Capitale insieme a monsignor Luigi Di Liegro, fondatore della Caritas romana. Era un senzatetto, che poi è stato riportato nel convento dove era ospitato, afferma il testimone. "Sono stato tra i collaboratori più vicini di monsignor Di Liegro e con lui abbiamo incontrato Majorana probabilmente il 17 marzo 1981. E non è stata l'unica volta, l'ho incontrato in tre-quattro occasioni", prosegue l'uomo - un programmista regista originario della Calabria, ma trasferitosi a Roma da giovane - che chiede di mantenere l'anonimato. "Majorana stava in piazza della Pilotta, sugli scalini dell'Università Gregoriana, a due passi da Fontana di Trevi. Aveva un'età apparente di oltre 70 anni", racconta ancora il testimone. L'uomo, che all'epoca faceva parte di un gruppo che assisteva i senzatetto, rimase colpito dal fatto che uno dei clochard disse, inserendosi in una conversazione, che quel clochard aveva la soluzione del "Teorema di Fermat", l'enigma del '600 che per secoli è stato un rompicapo per i più grandi matematici e che all'epoca non era stato ancora risolto. La soluzione, infatti, risale solo al 2000. "A quel punto gli dissi di farsi trovare la sera seguente perchè volevo farlo incontrare con Di Liegro". L'incontro avvenne e il sacerdote portò via il senzatetto con la sua auto. "Dopo un'ora e mezza tornò e mi disse: 'sai chi è quell'uomo? E' il fisico Ettore Majorana, quello scomparso. Ho telefonato al convento dove lui era ospite e mi hanno detto che si era allontanato. Ora ce l'ho riportato'". Il testimone racconta di aver saputo da don Di Liegro, che a sua volta lo aveva appreso dal responsabile del convento, "che Majorana aveva intuito che gli studi che stava facendo avrebbero portato alla bomba atomica e ha avuto una crisi di coscienza e voleva essere dimenticato. Sempre il responsabile del monastero gli disse che prima Majorana era ospite di un convento di Napoli e poi andò a finire in questo nei pressi di Roma. Erano certi che fosse lui anche per una cicatrice su una mano, la destra. Chiesi a don Luigi di riferirlo ai parenti di Majorana, ma lui disse che non potevamo. Io per tanti anni ho provato a tornare sull'argomento, ma don Di Liegro, che non lo riferì a nessuno, nemmeno ai suoi più stretti collaboratori, non voleva saperne e mi raccomandò di tacere. Mi disse di non dire niente a nessuno almeno per 15 anni dopo la sua morte, avvenuta il 12 ottobre 1997. Ormai il tempo è passato".

IL CALENDARIO CIVILE VISTO DALLA SINISTRA.

Il Calendario Civile di Portelli. Da Wikipedia: Alessandro Portelli (Roma, 21 marzo 1942) è uno storico, critico musicale ed anglista italiano. Attualmente è professore ordinario di letteratura anglo-americana all'Università La Sapienza di Roma. È uno dei principali teorici della storia orale, ha pubblicato testi tradotti in varie lingue (il più importante è The Death of Luigi Trastulli and other stories) e ha pubblicato un saggio di storia orale sull'eccidio delle Fosse Ardeatine che ha ottenuto il premio Viareggio nel 1999. Ha raccolto poesie e canzoni popolari statunitensi e diversi saggi sulla letteratura afroamericana. Ha collaborato con l'Istituto Ernesto De Martino, per il quale ha effettuato ricerche sulla musica popolare, curando diverse registrazioni per I dischi del sole. Alessandro Portelli negli anni Ottanta inizia ad insegnare a La Sapienza di Roma; dirada poi il suo impegno nel campo musicale, dedicandosi alla politica attiva e, in seguito, al teatro: ha infatti collaborato anche alla scrittura di spettacoli teatrali (negli ultimi anni in maniera particolare con Ascanio Celestini). Tra il 2006 e il 2007 è stato Consigliere comunale di Roma per il Partito della Rifondazione Comunista e, sino al 2008, delegato del Sindaco Walter Veltroni per la "memoria storica"; in tale veste ha contribuito ad implementare particolarmente le attività della Casa della memoria e della storia, inaugurata il 24 marzo 2006.

Calendario Civile, in 22 date la nostra storia viva e democratica. Da Piazza Fontana al legge sul divorzio, da Dario Fo al G8 le pietre d'inciampo della nostra memoria, scrive Mauretta Capuano su "L'Ansa" il 24 gennaio 2017. I passaggi cruciali della nostra storia democratica e della nostra tradizione repubblicana in 22 date che mettono storia e memoria a confronto. E' in libreria il 26 gennaio per Donzelli 'Calendario Civile', un libro nato da un progetto collettivo, a cura di Alessandro Portelli, in cui non "c'è una presa di posizione definita e definitiva. Un'opera che per sua definizione è mobile" come ha spiegato alla presentazione l'editore Carmine Donzelli. Calendario Civile si apre con il 'Giorno della memoria-27 gennaio', introdotto da Adachiara Zevi e si chiude con la 'Strage dei Piazza Fontana-12 dicembre' di Gad Lerner. Ogni voce è accompagnata, oltre che dalle introduzioni di storici, intellettuali fra i quali Guido Crainz, Benedetta Tobagi e Salvatore Lupo, da un documento di memoria e da poesie e canzoni. Così per il 12 dicembre, oltre all'intervento di Lerner, troviamo 'Morte accidentale di un anarchico' di Dario Fo ed 'E' finito il Sessantotto' di Paolo Pietrangeli. Ogni voce si sviluppa poi a grappolo, così le pagine sul referendum sul divorzio rimandano anche alla celebrazione di quello sull'aborto e alla storia della riforma del diritto di famiglia.  "La memoria collettiva di questo Paese risente delle difficoltà identitarie di una storia complicata. Altrove fare un calendario civile è più facile. Da noi è qualcosa di contradditorio, più difficile da mettere insieme" ha aggiunto Donzelli per il quale questo calendario ha senso "se c'è un passaggio di testimone alle nuove generazioni". "La memoria divisa - sostiene Portelli - non è un male. La democrazia non è un posto dove tutti sono d'accordo. Ci sono delle regole che ci permettono di contrapporci senza spararci addosso". In questo calendario in divenire ci sono date istituzionali come la Giornata internazionale della donna-8 marzo, l'Eccidio delle Fosse Ardeatine ma anche date che non lo sono come i Fatti del G8 di Genova-21 luglio. C'è anche l'Occupazione delle fabbriche -1 settembre e la Giornata delle vittime dell'immigrazione-3 ottobre. Tra le date che sono rimaste fuori "quelle internazionali, come l'11 settembre, data che per anni è stata associata al Golpe in Cina". E non c'è neppure il 14 luglio, Giorno della presa della Bastiglia. "Il valore di questo libro è di essere una pietra d'inciampo nella nostra memoria. Calendario Civile potrebbe diventare un piccolo corso di formazione per i docenti" ha fatto notare Alessandro Triulzi, autore dell'introduzione alla "Giornata in memoria delle vittime dell'immigrazione". Il progetto "va avanti. Avevamo pensato anche a un vero e proprio calendario da attaccare al muro. C'è qualcosa ogni giorno. Sicuramente faremo un cd con le canzoni del libro" ha annunciato Portelli.

Le date che "avrebbero" fatto l'Italia. Un saggio a più voci per fissare i punti fermi della nostra storia. Ma sbilanciato, scrive Matteo Sacchi, Mercoledì 25/01/2017 su "Il Giornale". Il calendario conta. Lo capirono da subito anche i rivoluzionari francesi che ci misero le mani per creare un calendario nuovo, nazionale e laico. L'idea non attecchì: settembre è settembre, non fruttidoro o vendemmiaio. Però è importante per una nazione avere ricorrenze proprie, staccate da quelle religiose. Quello che potremmo chiamare un Calendario civile insomma. Esattamente così si intitola, Calendario civile (pagg. 316, 20 euro), il libro appena edito da Donzelli e presentato ieri a Roma. Il volume curato da Alessandro Portelli e contenente interventi di molti storici e intellettuali palesa la sua ratio sin dal sottotitolo: «Per una memoria laica, popolare e democratica degli italiani». Sin dall'introduzione Portelli, uno degli storici più attenti alla narrazione orale, sottolinea come certi anniversari tengano viva la storia e non debbano essere feste ma momenti di rottura: «L'intenzione del progetto Calendario civile è piuttosto quella di intensificare il tempo e ribadire il senso delle regole condivise che rendono possibile la convivenza di diversità che costituisce la democrazia, non solo in quel giorno ma - come ricordano le donne a proposito dell'8 marzo - tutto l'anno». E Portelli è anche solerte nel sottolineare che le date possono essere anche date di rottura: «Il calendario civile non ricostruisce la comunità come entità mistica e indifferenziata ma come luogo di differenze». Tutti propositi interessanti, portati avanti in un progetto sempre argomentato. Però si tratta di un progetto complicato e sul risultato è giusto discutere. Esistono delle date, che compaiono in questo libro - che copre un lasso temporale che va dal risorgimento ai giorni nostri- che sono difficilmente opinabili. In se stesse e anche per il riverbero che hanno avuto nella Storia a seguire. Per citarne qualcuna: Il 25 aprile, l'8 settembre o il 4 novembre data della vittoria della Prima guerra mondiale. Ce ne sono altre che sono ricorrenze codificate come la Giornata della memoria e il Giorno del ricordo. Oppure più banalmente il Primo maggio (la data è legata ad una rivolta di Chicago del 1886). Sono iscritte nel calendario e hanno ovviamente un senso civile molto forte. Troppo recente per avercelo la Giornata in memoria delle vittime dell'immigrazione. Ma fa capolino lo stesso, forse come auspicio... Altre date sono decisamente più discutibili. E anche alcune mancanze possono far pensare. Innanzi tutto le date ottocentesche sono solo due. La proclamazione della Repubblica Romana del 9 febbraio 1849 e la Breccia di Porta Pia il 20 settembre 1870. Nessuno nega l'importanza dei due fatti, soprattutto del secondo. Ma le giornate civili importanti dell'Ottocento italiano sono tutte qui? E per forza anticlericali e romanocentriche? Le spontanee Cinque giornate di Milano? Niente. O almeno non avrebbe almeno pari senso segnalare il 4 marzo 1848, data in cui fu promulgato lo Statuto albertino? Piaccia o non piaccia il modello costituzionale italiano è stato segnato da quello Statuto e non dalla effimera esperienza mazziniana di Roma. E anche a voler essere, e in buona parte il volume lo è, sbilanciati a sinistra: ha davvero senso segnalare come data civile il 1° settembre 1920 e l'occupazione delle fabbriche da parte degli operai metallurgici? Non hanno più peso i quattro giorni di rivolta operaia del 6-9 maggio 1898 sempre a Milano? Bava Beccaris sparò con i cannoni contro i manifestanti...Poi se si parla di date che contano bisogna anche avere il coraggio di descriverle per quello che sono. Nel libro il 4 novembre (voce a cura di Quinto Antonelli) è solo la fine della Prima guerra mondiale. No, all'origine era la giornata della Vittoria in quella guerra. E anche col senno del poi che ha portato a smorzare i toni resta «Giorno dell'Unità Nazionale, Giornata delle Forze Armate». Piaccia o non piaccia la Guerra mondiale è stata anche la nostra quarta guerra d'indipendenza. Che il curatore della voce lo racconti tutto in un controcanto anti-militarista è una scelta. Ma che sia la scelta adatta a un calendario della Nazione... Questo per tacere del fatto che si possa inserire in un calendario civile, con voce tutta di parte, il 21 luglio come data dei Fatti del G8 di Genova o affidare la voce su Piazza Fontana a Gad Lerner... Insomma segnarsi sul calendario le date fondamentali della storia italiana (e non solo) è una bella cosa ma non è così facile da fare e non si può fare solo con la penna rossa. Ne può bastare a fare equilibrio la voce sul Giorno del ricordo a cura di Raoul Pupo.

IL GIORNO DEL RICORDO…DIMENTICATO.

Legittimo perdonare ma è criminale dimenticare.

"Le foibe non esistono". Nell'Emilia che da 70 anni odia gli esuli istriani. Volantini negazionisti dove nel '47 i partigiani buttarono il latte pur di non darlo ai profughi, scrive Stefano Zurlo, Mercoledì 15/02/2017, su "Il Giornale". Sembrano pezzi da museo. Fossili di un'altra epoca. Zavorra delle ideologie. E invece no: quei fogli in vista sulla bacheca del Comune sono cronaca. Non un frammento di storia, ma materia incandescente di polemiche ancora attualissime. Sarà che a San Cesario sul Panaro, nella pianura piatta che corre da Modena a Bologna, la macchina del tempo è andata in tilt. Chissà. Certo, fa impressione leggere quel che i compagni di Rifondazione comunista hanno attaccato al muro. «Le foibe - è l'incipit - sono una menzogna fascista». Cosi, bastano poche parole per oltraggiare dopo settanta anni i profughi sopravvissuti alle carneficine lungo il confine orientale e costretti poi a lasciare le loro terre. Altro che giornata del ricordo: il 10 febbraio diventa l'occasione per ribaltare la storia, anzi per seppellirla di nuovo sotto i dogmi del negazionismo più sfrenato. «Nella foiba di Basovizza - si legge in questo stupefacente documento - quando si è scavato alla ricerca di corpi sono stati trovati i resti di alcuni soldati tedeschi e alcune carcasse di animali». Nessuna concessione alle tesi del revisionismo. No, nemmeno una fessura. E proprio nelle terre che giusto settant' anni fa trattarono i profughi come appestati. I vagoni con il loro carico di umanità dolente, si fermarono alla stazione di Bologna il 18 febbraio '47 e i militanti comunisti sabotarono in tutti i modi quei poveracci, che avevano perso parenti e amici nelle cavità dell'Istria. Addirittura versarono il latte per terra, pur di non darlo ai bambini. Un odio inestinguibile. Che ritorna nel febbraio 2017, due o tre generazioni dopo. No, il muro di San Cesario deve ancora venire giù e a puntellarlo ci pensa gente come Tommaso Riccò, una roccia di 84 anni. «Sono stato sindaco dal 71 al 75 - racconta - quando il Pci era ancora il Pci e l'Unità vendeva qui in paese 1.200 copie. Poi sono passato a Rifondazione e sono tornato in Consiglio comunale fra il 2004 e il 2009 con più di duecento voti. Infine, nel 2009 ho mancato l'elezione per 17 voti». E sul suo volto ancora fresco si disegna una smorfia di disappunto. Certo, oggi le posizioni di Riccò sono quelle di una minoranza che si assottiglia sempre di più, ma c'è chi resiste e crede in quella divisione manichea fra buoni e cattivi. «Dalle nostre parti - sintetizza Dante Mazzi, ex consigliere provinciale di Forza Italia - tutto è possibile. Il comunismo è caduto, ma i comunisti non sono cambiati». Qualcuno è ancora lì, come se aspettasse il treno della vergogna. Così basta sfogliare le pagine locali del Resto del Carlino per scoprire che a Reggio Emilia ci sono stati due cortei: quelli che celebravano i martiri spariti nelle grotte del Carso e i negazionisti che inseguono complotti. E non si arrendono. Se da San Cesario ci si sposta a Spilamberto, la capitale dell'aceto balsamico, ecco che la maledizione ritorna: la sede di Rifondazione, sotto i portici a due passi dal Torrione, è tappezzata di volantini. Gli stessi che a San Cesario accolgono con modalità vintage il visitatore. Loro, i compagni imbalsamati nella teca dello stalinismo, capovolgono l'indignazione: ce l'hanno con l'Italia, con il generale Roatta, con Graziani, se la prendono per i massacri in Libia, in Etiopia, in Jugoslavia. Pare di leggere i saggi di uno storico documentato come Angelo Del Boca, ma senza alcun contrappeso. Le foibe sono di nuovo «sedicenti» e il sangue evapora in una selva di condizionali, dubbi, però. Parole che non suscitano la minima reazione. Al massimo lo sbadiglio indifferente di chi non vuole mischiarsi alle beghe della politica, come se la storia avesse un colore. Il sindaco di San Cesario, Gianfranco Gozzoli, renziano ecumenico e smussato, ultimo esponente di una serie ininterrotta di borgomastri targati Pci-Pds-Ds-Pd, galleggia su questa stratificazione antropologica vivente e si dà alla fuga: «Ho molto da fare e niente da dire», tronca, brusco come un paio di forbici, ogni tentativo di colloquio. «Da quando critico il conformismo che regna fra i 6 mila abitanti di questo posto strano - replica idealmente Francesco Sola, consigliere di opposizione - ricevo minacce di morte». Il muro oggi sembra ancora più alto.

La denuncia di Salvini: "La Camera ospita chi nega le foibe! Boldrini, vergognati!". A Montecitorio una storica negazionista, per la quale commemorare i morti infoibati significa "commemorare rastrellatori fascisti e collaborazionisti", scrive l'8 Febbraio 2017 "Il Populista". Foibe, gli esuli: "Bene la presenza di Salvini. Lo Stato invece ci ha dimenticati". La denuncia è arrivata direttamente dal segretario leghista Matteo Salvini, dopo che è venuto a conoscenza di una presenza decisamente poco opportuna presso la Camera dei Deputati, che suona come un vergognoso insulto alla memoria delle migliaia di italiani sterminati nelle foibe, proprio il giorno prima di quella "Giornata del Ricordo" a loro dedicata, nel totale silenzio o meglio nella complicità di quelle "istituzioni" che hanno a quanto pare deciso di ignorare tutte le più importanti commemorazioni, preferendo invece dare spazio a chi sostiene che tali eccidi non siano mai avvenuti. "Scandalo: domani in conferenza stampa a Montecitorio, ospite - spiega Salvini su Facebook - dell'onorevole Serena Pellegrino di Sinistra Italiana, interverrà anche Alessandra Kersevan che ha sostenuto pubblicamente che 'commemorare i morti nelle foibe significa sostanzialmente commemorare rastrellatori fascisti e collaborazionisti del nazismo'. Dov'è la Boldrini - si chiede il segretario della Lega - sempre pronta a difendere i diritti di tutti? Se n'è accorta che ospiterà alla Camera una negazionista? Noi venerdì, Giorno del Ricordo, saremo a Trieste, in piazza con le persone per bene". La conferenza stampa, convocata per giovedì dalla deputata di Sinistra Italiana, ha come titolo: "Il giorno del ricordo, l'insufficienza storica e culturale delle parole che lo istituiscono e lo celebrano" e vede come ospite principale proprio la contestata Alessandra Kersevan, storica negazionista, mentre come annunciato Salvini sarà venerdì al monumento nazionale di Basovizza, in Friuli, per non dimenticare "350.000 esuli italiani in fuga dal regime comunista slavo, migliaia di innocenti ammazzati e infoibati dai comunisti: una strage infame che qualcuno in Italia, vergognosamente, nega sia stata compiuta".

La Boldrini contro le bufale. Peccato che domani ospiterà alla Camera una revisionista sulle foibe, scrive Mauro Bottarelli l'8 febbraio 2017. Non so se avete visto il Tg3 stasera: vertici simili nemmeno nei giorni dell’assedio di Aleppo Est erano stati toccati, quasi una perfezione da Minculpop. Perla assoluta è stata la combo di circa 10 minuti cominciata con il nuovo appello di Laura Boldrini contro le bufale, unita a un’intervista in studio con il direttore dell’AGI (il quale era poco collaborativo con la tesi del tg, quindi è stato più volte invitato a maggior collaborazionismo indignato) e terminata con una corrispondenza della Botteri. Ho sentito dall’al di là Goebbels applaudire commosso. In questo video realizzato da Repubblica.tv, la presidente della Camera spiega la nuova iniziativa ma per chi non ha voglia di vederlo, riassumo brevemente. La Boldrini ha lanciato un appello per combattere le false notizie e l’odio sul web e ha invitato tutti a firmare sul sito bastabufale.it appena aperto: nel presentare il progetto, si è fatto notare come, oltre a Marc Augé e Lucio Caracciolo, abbiano già dato il loro assenso all’iniziativa Francesco Totti, Fiorello, Gianni Morandi, Carlo Verdone, Claudio Amendola e Ferzan Ozpetek. Me cojoni, manco aveste detto Noam Chomsky e Francis Fukuyama! Nientemeno che Totti, tipico caso di una persona che una notizia non la capisce a prescindere e Gianni Morandi, uno così teleguidato dai social da aver smesso di far la spesa la domenica, dopo che era stato ripreso per questo sul suo profilo Facebook. Davvero motivo di vanto, attendiamo come ansia la adesioni di Alvaro Vitali, Gegia e Luca Laurenti. Ecco le parole della Boldrini: “Non penso ancora a una legge ma a un dibattito nel nome della democrazia, a un’operazione culturale. Scuole e istituzioni devono lavorare per formare giovani più critici. Gli imprenditori potrebbero togliere la pubblicità a siti che pubblicano bufale. I giornali non devono riprenderle e i social network smettano di fare proclami e lavorino seriamente sul campo per vigilare e cancellare contenuti falsi e offensivi”. Per finire: “Essere informati è un diritto, essere disinformati un pericolo. Le bufale creano confusione, seminano paure e odio e inquinano irrimediabilmente il dibattito. Le bufale non sono innocue goliardate. Le bufale possono provocare danni reali alle persone, come si è visto anche nel caso dei vaccini pediatrici, delle terapie mediche improvvisate o delle truffe online”. Io sto con la Boldrini, occorre dire la verità. Basta bufale. Quindi, cara presidente della Camera, come mai domani mattina alle 11.30 proprio presso la Camera dei Deputati che lei presiede si terra una conferenza stampa dal titolo “IL GIORNO DEL RICORDO, L’INSUFFICIENZA STORICA E CULTURALE DELLE PAROLE CHE LO ISTITUISCONO E LO CELEBRANO”, cui sarà presente tra i relatori – ospite dalla deputata Serena Pellegrino di Sinistra Italiana – la storica negazionista sulle foibe, Alessandra Kersevan? La signora, studiosa e coordinatrice del Gruppo di lavoro Resistenza Storica, è nota per aver definito “un falso storico divenuto monumento nazionale” la foiba di Basovizza e per aver parlato in questi termini della ricorrenza del 10 febbraio, quando appunto si ricordano le vittime delle foibe: “Commemorare i morti nelle foibe significa sostanzialmente commemorare rastrellatori fascisti e collaborazionisti del nazismo”. Complimenti presidente Boldrini, bel modo di combattere la sua battaglia contro la post-verità e le bufale, permettere alla vigilia del 10 febbraio che si tenga una bella conferenza stampa revisionista sulle foibe in un luogo istituzionale come la Camera dei Deputati. L’anno prossimo, così ci attende, un dibattito con Robert Faurisson e David Irving il 26 di gennaio, alla vigilia della “Giornata della memoria”? No, quello non succederebbe mai, ne sono certo. Davvero un bel colpo, qualcosa di andare fieri e, soprattutto, un gran esempio di stile: tanto vale dire che le foibe altro non erano che gare di tuffi tipiche del Carso, in cui ci si lanciava stile Acapulco per vedere chi arrivava prima a terra. Il senso di manifesto oltraggio alla memoria sarebbe lo stesso. Presidente Boldrini, mi dia retta, resti con Verdone e Fiorello a firmare appelli, diffonda comunicati stampa indignati e interviste piene di sdegno. Poi, se le avanza un istante, si vergogni.

Foibe, la sinistra continua ad infangare i martiri. Pisapia diserta la cerimonia, la Boldrini organizza la commemorazione mentre i deputati sono impegnati in Aula e c'è chi si dissocia dal ricordo, scrive Giovanni Masini, Martedì 10/02/2015, su "Il Giornale". La sinistra perde il pelo ma non il vizio. Quando si tratta delle foibe, la recidiva è una costante. Reticenze e silenzi imbarazzati quando va bene, negazionismo aperto e insulti nei casi più clamorosi. Da quando, nel 2004, è stato istituito il giorno del Ricordo, con cui si celebra la memoria dei martiri delle foibe e delle vittime dell'esodo forzato da Istria, Venezia Giulia e Dalmazia, il revisionismo ha una data fissa: il 10 febbraio. Ogni anno la stessa storia: nelle foibe sono stati buttati i fascisti e i tedeschi e "comunque prima della fine della guerra sono stati uccisi anche un sacco di jugoslavi". Quando si fa notare che a venire ammazzati furono anche migliaia di civili, obiettivi di una barbara operazione di pulizia etnica, la risposta è un'alzata di spalle. Non solo perché i responsabili dell'eccidio furono i partigiani comunisti del maresciallo Tito; ma anche e soprattutto per coprire le colpe e le menzogne, protrattesi per anni, della sinistra italiana. Quella ufficiale, rappresentata dal defunto Pci, e quella extraparlamentare, che ancora oggi ne porta avanti le istanze più radicali. Una responsabilità, quella del silenzio e della mistificazione, tanto pesante da provocare persino l'intervento del presidente della Camera Laura Boldrini, che oggi ha ricordato come "con il giorno del Ricordo si colmi il debito verso la memoria degli italiani rimasti vittime della violenza jugoslava". La Boldrini ha poi richiamato le parole di Napolitano del 2007, quando l'ex Presidente della Repubblica fece mea culpa, parlando della responsabilità della sinistra per "aver negato, o teso ad ignorare, la verità per pregiudiziali ideologiche e cecità politica, e dell'averla rimossa per calcoli diplomatici e convenienze internazionali". Concetti accolti a parole con un plauso unanime, ma nei fatti ben poco recepite. A Montecitorio, ha fatto discutere la decisione di fissare le celebrazioni con il Presidente della Repubblica Mattarella e la Boldrini alle 16.30, quando l'Aula sarà occupata da altri lavori. FDI, in particolare, denuncia come ai deputati venga così impedito di assistere alla commemorazione. Particolare scalpore hanno suscitato le dichiarazioni del consigliere comunale di Sel ad Orvieto Tiziano Rosati che, come scrive la Nazione, avrebbe pubblicato su Facebook un lungo post in cui definisce le foibe "mitologia di una popolazione italiana cacciata dalla sua terra, quando in realtà i territori dell’Istria e della Dalmazia, che con la Prima Guerra Mondiale l’Italia aveva occupato militarmente, non erano mai stati abitati da popolazioni italiane, se non in minima parte". Il giorno del Ricordo, scrive Rosati, sarebbe inoltre parte di una "campagna denigratoria della Resistenza." In Lombardia, il consigliere Pd Onorio Rosati si è dissociato pubblicamente dalle celebrazioni del giorno del Ricordo, anticipando con ostentazione, sul proprio profilo Facebook, la sua diserzione alla cerimonia ufficiale. Inevitabili le contestazioni, da Giorgia Meloni a Viviana Beccalossi. Il diretto interessato, però, ha risposto alle critiche con sfrontatezza, parlando del giorno del Ricordo come di una ricorrenza "storicamente controversa" e "politicamente divisiva", "istituita dal governo Berlusconi e fortemente strumentalizzata dalla destra italiana neofascista". Il mantra insomma è sempre quello: ricordare le foibe è roba da fascisti e peccato se nelle profondità del Carso sparirono tanti italiani innocenti, che con la politica non avevano niente a che fare. A Milano ha fatto discutere l'assenza alle celebrazioni del sindaco Giuliano Pisapia. Che, attaccato dall'opposizione in consiglio comunale, ha risposto alle critiche affermando che "Milano ha sempre ricordato la tragedia delle foibe" e ricordando di essere andato personalmente "negli anni scorsi", alla cerimonia. Quest'anno, evidentemente, non c'era modo. L'ex vicesindaco Riccardo De Corato, inoltre, ha ricordato come lo stesso Pisapia, quando era deputato, votò contro il giorno del Ricordo. In qualche occasione, però, dalle parole si è passati ai fatti. A Trento, anarchici ed esponenti dei centri sociali hanno aggredito i partecipanti a una manifestazione in memoria dei martiri giuliani, istriani e dalmati, con tanto di lancio di bombe carta. Solo l'intervento delle forze dell'ordine ha impedito il contatto con i manifestanti. Insomma, una vasta gamma di opzioni che rappresentano un insulto al dolore e alla memoria dei martiri. Martiri che - nelle parole di Silvio Berlusconi, che nel 2004 volle fortemente l'istituzione del giorno del Ricordo - "furono condannati ad una morte atroce per la sola colpa di essere italiani e di non volersi assoggettare alla tirannide comunista."

La memoria sfregiata: su foibe ed esodo avanza il negazionismo. Disinteresse delle istituzioni e convegni schierati. E queste sarebbero celebrazioni? Scrive Fausto Biloslavo, Venerdì 10/02/2017, su "Il Giornale". I martiri delle foibe si rivoltano nelle tombe senza nome, dove in tanti non sono mai stati riesumati. Il Quirinale, dopo la seconda assenza consecutiva per il 10 febbraio, ha annunciato che il presidente Sergio Mattarella incontrerà gli esuli, ma senza dire quando. Il 10 febbraio, giorno del ricordo degli infoibati e dei 350mila che furono costretti alla fuga dalle violenze e dal sistema comunista di Tito, è sfregiato da un rivolo di contro-manifestazioni che negano o puntano a minimizzare questa tragedia a guerra finita. Da Padova a Roma, da Pavia a Orvieto non sono pochi gli eventi «riduzionisti», se non peggio, che quasi sempre hanno il cappello dell'Associazione nazionale partigiani e vengono ospitati da amministrazioni comunali oppure da università con soldi pubblici. Come è pubblico il canone della Rai, che sta in piedi grazie alla tasche dei contribuenti. Diversi canali, da Raitre a Raiuno, mandano in onda film e testimonianze che ricordano degnamente gli esuli e gli infoibati. Peccato che proprio Rai Storia faccia il contrario annunciando, in maniera meschina, che il 10 febbraio alle 16 trasmetterà Mille papaveri rossi in ricordo delle vittime delle Foibe. Poi se uno va a vedere il documentario in quattro puntate Meja. Guerra di confine non può non stupirsi, o peggio. Le prime tre puntate infatti sono totalmente dedicate alle nefandezze nazi-fasciste ai confini orientali e nei Balcani partendo addirittura dall'impresa di Fiume di Gabriele d'Annunzio. Nessuno smentisce che abbiamo fatto carne di porco, ma forse ci sono altri momenti per trasmettere l'opera omnia sulle nefandezze italiane al posto del 10 febbraio. L'ultima parte dedicata alle foibe inizia con Alessandra Kersevan intervenuta fra mille proteste anche ieri alla Camera per sminuire le foibe e bollare la stragrande maggioranza delle vittime come fascisti, spie, collaborazionisti e chissà cos'altro. La pasionaria riduzionista sugli schermi di Rai Storia ci illustrerà in maniera dotta la brutta pagina del campo di concentramento per sloveni di Gonars durante il fascismo. Fra una denuncia e l'altra dei crimini di guerra italiani si arriva finalmente alle prime foibe del 1943 in Istria. Lo scrittore Giacomo Scotti, che aveva scelto il paradiso di Tito, glissa sul segnale di allarme. Alla fine della guerra l'occupazione jugoslava di Trieste e il dramma delle foibe e dell'esodo vengono liquidati in pochi minuti per passare al dopo e al crollo dei confini con la Slovenia europea... Se non fosse da piangere verrebbe da ridere che una roba del genere venga trasmessa per ricordare l'esodo e le foibe. In questo mese sono ben dieci le iniziative filo negazioniste. A Modena interverrà la solita Kersevan nella sala Ulivi nell'archivio storico della Resistenza per parlare di Foibe e confini orientali: le amnesie della Repubblica. A Genzano, nella municipalità di Roma, l'Anpi promuove per l'11 febbraio la presentazione del libro di Davide Conti Criminali di guerra italiani e lo spettacolo teatrale Drug Goiko, su un militare italiano passato con i partigiani di Tito. A Orvieto la solita Kersevan è ospite nella sala del Consiglio comunale. Paolo Sardos Albertini, presidente del Comitato martiri delle foibe ha scritto al sindaco spiegando che sarebbe come «se per parlare dell'Olocausto degli ebrei si chiamasse qualche nostalgico di Hitler». Ieri a Pavia era previsto nell'aula magna dell'università l'intervento di Piero Purini, noto riduzionista, sul Giorno del ricordo: genesi di una ricorrenza e usi politici della storia. Anche alla sala storica della biblioteca delle Oblate a Firenze i relatori sono stati decisi dall'Istituto storico della Resistenza toscana e gli esuli si sentono esclusi. Tragicomico il fatto che la Regione Friuli-Venezia Giulia guidata dalla stellina Pd, Debora Serracchiani, che domani sarà in prima fila alla foiba di Basovizza, continui a finanziare con 24.300 euro la società editoriale della pasionaria «per la promozione del friulano». Peccato che con la mano sinistra Kersevan sforni discutibili tomi per smontare «il mito delle foibe». La lista degli sfregi al 10 febbraio è lunga, ma l'offensiva del «non ricordo» dei nostalgici del Sol dell'avvenire è indirettamente alimentata dalle alte cariche dello Stato che quest'anno snobbano la foiba di Basovizza, unico monumento nazionale del genere a un passo da Trieste. Giovanni Grasso, direttore dell'ufficio stampa del Quirinale, ha annunciato ieri che Mattarella «ha da tempo deciso di ricevere al Quirinale i rappresentanti delle associazioni dei familiari delle vittime e degli esuli». Quando non si sa, nonostante il capo dello Stato abbia trovato il tempo per presenziare domenica scorsa alla partita di rugby Italia-Galles e ieri fosse atteso a Torino per i 150 anni del quotidiano La Stampa. Renzo Codarin, presidente dell'Associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia ricorda con amarezza che «70 anni dopo la firma del trattato di pace al termine della Seconda guerra mondiale una presenza più significativa alla foiba di Basovizza sarebbe stata certamente utile tenuto conto che ci sono ancora persone che hanno vissuto direttamente quelle vicende e difficilmente potranno dare una testimonianza diretta alla ricorrenza dell'80° anniversario» perché non ci saranno più.

Alla Camera si minimizzano le foibe. Ma lo storico Oliva: "Fu pulizia etnica". La ricercatrice Alessandra Kersevan: "Uccisi soltanto criminali di guerra". Chi ha studiato le relazioni inglesi e americane: "Tito voleva slavizzare Trieste", scrive Francesca Angeli, Venerdì 10/02/2017 su "Il Giornale". Nelle foibe sono stati gettati «soltanto criminali di guerra». Non è mai stata messa in atto un'operazione di pulizia etnica nei confronti della popolazione italiana da parte dell'esercito di Tito. Le vittime sono state al massimo qualche centinaio e in gran parte erano criminali nazisti. Queste in sintesi le tesi di Alessandra Kersevan, ricercatrice e coordinatrice del gruppo «Resistenza Storica», invitata da Serena Pellegrino di Sinistra Italiana a tenere una conferenza a Montecitorio ieri, ovvero proprio alla vigilia della Celebrazione del Giorno del ricordo in memoria delle vittime delle foibe e degli esuli istriani istituita per il 10 febbraio con una legge del 2004. Una legge che per la Kersevan è ovviamente un errore perché, dice, premia il ricordo di «collaborazionisti, filo nazisti e criminali di guerra che operarono sul confine orientale in Friuli Venezia Giulia, Istria e Dalmazia». Ricordare le vittime delle foibe è un errore perché non si trattava di civili innocenti. «Il gruppo Resistenza Storica non è negazionista», sostiene la Kersevan, sostenuta dalla Pellegrino che annuncia pure querele per chiunque accusi di negazionismo la Kersevan, come hanno fatto molti esponenti del centrodestra, da Matteo Salvini e Giorgia Meloni, che hanno duramente contestato l'iniziativa. Forse per le tesi della Kersevan non si può parlare di negazionismo, ma di «giustificazionismo» assolutamente sì, secondo lo storico Gianni Oliva, autore di numerosi saggi sul Novecento e in particolare di un'opera sulla tragedia dell'esodo degli italiani d'Istria, Fiume e Dalmazia. «Certamente - attacca Oliva - ogni evento storico ha un prima e un dopo e anche il dramma delle foibe va contestualizzato. Ma ciò che accade prima non giustifica mai quanto si verifica dopo. Le foibe sono stato il prezzo pagato dall'Italia per aver perso la guerra». Oliva smonta pezzo per pezzo le tesi della Kersevan, come quella che minimizza il numero delle vittime: migliaia e non centinaia. «Quando i fatti avvengono - spiega lo storico - nessuno tiene i conti, ma non c'è dubbio che i numeri siano stati minimizzati dalla sinistra ed amplificati dalla destra. Ho studiato documenti conservati a Washington e Londra. Le relazioni inviate dalle truppe americane ed inglesi giunte a Trieste subito dopo il passaggio di Tito. I militari non avevano interesse a deformare la verità e le vittime accertate in quei documenti sono tra le 8mila e le 10mila. E comunque non vedo che cosa cambi. Che cosa cambia se gli ebrei sterminati sono stati 4 milioni invece di 6? Non vedo la differenza». L'operazione compiuta dall'Esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia è stata senza dubbio, per Oliva, una operazione di pulizia etnico politica. «Tito - aggiunge - per tenere insieme sloveni, serbi e croati, popolazioni che di recente sono tornate a scontrarsi, aveva bisogno di esaltare l'ideale di una nazionalità slava. Ecco perché la sua strategia prevedeva la slavizzazione di Trieste. E per farlo era necessario eliminare del tutto anche una classe dirigente che identificava quell'area come italiana. Dunque sì, ci fu pulizia etnica per un preciso scopo. E tra le vittime finirono pure gli appartenenti al Comitato di liberazione nazionale, anche gli antifascisti». Oliva poi sottolinea che oltre alla tragedia delle vittime trucidate nelle foibe non si deve dimenticare quella dei profughi. «La tragedia degli esuli, circa 300mila persone private di tutto - ricorda -. Voglio rimarcare la differenza con i migranti che partono nella speranza di un futuro migliore e con la prospettiva di tornare. Speranza negata all'esule. Migliaia di persone sparpagliate in 109 campi profughi e visti dagli italiani, nel difficile momento del dopoguerra, soltanto come altre bocche da sfamare».

"Io non ricordo". E il liceo catanese non autorizza la mostra sulle foibe. La preside di un liceo classico catanese nega agli studenti la possibilità di allestire una mostra dedicata ai temi delle foibe e dell’esodo, scrive Elena Barlozzari, Venerdì 10/02/2017, su "Il Giornale". Non c’è spazio per la mostra dedicata ai martiri delle foibe e all’esodo. Il caso – l’ennesimo – che lascia l’amaro in bocca, in una giornata come quella di oggi che, per legge, dovrebbe servire a “diffondere la conoscenza dei tragici eventi presso i giovani delle scuole di ogni ordine e grado”, arriva proprio da un liceo classico: il Mario Cutelli di Catania. Qui era stata chiesta la possibilità di allestire una mostra temporanea dal titolo «10 febbraio: io ricordo!». L’iniziativa, promossa da un gruppo di studenti, sarebbe stata a costo zero, di tutti gli oneri, infatti, si sarebbero fatti carico i promotori. “Sarebbe ideale – si legge nella domanda presentata dai ragazzi di “Assalto Studentesco” in data 3 febbraio (che segue quella già inoltrata il 31 gennaio) – compatibilmente con le iniziative della nostra scuola, poter allestire la mostra nella settimana del 10 febbraio”. Ma la preside Elisa Colella – come denunciano i ragazzi – ha liquidato la proposta con “scuse inaccettabili”. E gli studenti attaccano: “Non possiamo accettare la censura nei nostri confronti, ma soprattutto nei confronti di iniziative che vogliono ridare il giusto onore a quanti hanno patito sofferenze fino all’estremo sacrificio, come nel caso dei martiri delle foibe”. Alla loro voce si unisce quella di Emanuele Merlino, vice presidente nazionale del “Comitato 10 Febbraio”, realtà nata proprio dall’istituzione del “Giorno del Ricordo” e coinvolta dagli alunni del Cutelli nella realizzazione dell’evento, che ha parlato di “episodio di una gravità sconvolgente”. Le ragioni del diniego? I ragazzi di Assalto Studentesco hanno segnalato la partecipazione di uno dei professori dell’istituto Cutelli, membro della commissione informata del progetto, al convegno negazionista dal titolo “Foibe, smontare una narrazione tossica” promosso, in quel di Catania, dalla sinistra antagonista. Ma, secondo la preside sentita da Il Giornale, “sono solo strumentalizzazioni”, la verità è che mancherebbero i “tempi tecnici” per allestire la mostra. Eppure, più che di “tempi tecnici”, sembra si tratti di mancanza di spazi e di volontà. “L’aula magna – racconta infatti la Colella – è presidiata da tecnici e fonici perché domani si terrà il primo seminario nazionale dei licei classici ed è impossibile organizzare la mostra”. La possibilità di individuare spazi alternativi, oppure di “unire i due eventi” così come ha suggerito Simone Granata, ex allievo del Cutelli ed organizzatore della mostra, è stata prontamente scartata. Così, oggi, nel liceo etneo si osserverà solo un minuto di silenzio. La comunicazione è apparsa sul sito della scuola nel tardo pomeriggio di ieri e, tra i corridoi dell’istituto, qualcuno già parla di “maldestro tentativo di correre ai ripari dopo che è scoppiato il caso”. Nel frattempo, i ragazzi del Cutelli fanno sapere: “di minuti di silenzio gli esuli istriani, fiumani e dalmati ne hanno avuti fin troppi, e guarda come andata a finire, persino il presidente Mattarella ha disertato la cerimonia di Basovìzza, ci vuole qualcuno che urli la verità”. Ed è per questo che, stamattina, si sono dati appuntamento davanti all’edificio scolastico per esibire uno striscione che – a caratteri cubitali, strillati – avverte: “le vostre menzogne non fermeranno il nostro ricordo”.

Foibe: pretendiamo di integrare i migranti e le altre culture quando ancora schifiamo e ripudiamo la nostra? Di Emanuele Ricucci su “Il Giornale” il 10 febbraio 2017. Siamo tutti italiani. Coinquilini nella seconda casa al mare dell’Europa, ma pur sempre italiani, oltre la denominazione geografica. Non saremo certo italiani docg, ma almeno, e per adesso ancora, lo siamo. Dato che ormai la misurazione della nazionalità, da queste parti, si fa in nome del made in Italy, più che di un certo numero di valori e abitudini, di insegnamenti e memorie. Memorie. Il mezzo con cui si eterna la vita, uno dei 10 misuratori fondamentali del grado di civiltà di un Paese. Alzheimer. Siamo tutti italiani, anche oggi, 10 febbraio, Giorno del Ricordo, istituzione per legge, caposaldo della memoria. Ma noi, non ce lo ricordiamo. Non per distrazione, né per la fretta siderale di quest’epoca che ti punge il sedere e provoca un dolore fitto, acuto, che arriva al palato e fa tremare i denti.  Ma per una precisa volontà di abdicazione dalle proprie responsabilità di cittadini di una Nazione. Per una precisa volontà di eliminare dei fardelli, di rispondere solo a dei precisi richiami, come i cani addestrati, per la precisa volontà di prendere parte solo all’essenziale, a quell’essenziale che l’egemonia culturale imperante dichiara come tale. Ed è spaventoso, abominevole. Ma non mi spaventa il deputato, il senatore, neanche, forse, il Presidente delle Repubblica Italiana, Sergio Mattarella, che oggi è a Madrid a colloquiare con il Re di Spagna (olè!) anziché partecipare commosso al ricordo del genocidio di una parte del popolo che rappresenta. Mi spaventano le targhe distrutte, i monumenti per ricordare il dramma imbrattati, mi spaventa l’abitudine alla circostanza, letta velocemente su Google, la superficialità di certi italiani, che dovrebbero essere miei fratelli, nel dire: “dopo la Shoah, anche voi (ma voi chi?) volevate la vostra ricorrenza, vero?”. Mi terrorizza chi organizza convegni dallo spirito negazionista, e chi glieli autorizza, e perfettamente anti-italiano di ieri, di oggi e di domani, come quello tenutosi alla Camera dei Deputati, da SEL e da Alessandra Kersevan, o in altre scuole (leggete qua), in altri luoghi, di una Repubblica che dovrebbe essere sacra per tutti, che dovrebbe, nel 2017, condividersi con tutti, dedicarsi a tutti. E che, sfacciata e adolescente, non lo fa. E che se la tengano, allora, la loro cara Repubblichetta senza spina dorsale! Cadaveri, scheletri, donne, uomini, resti. Foto, video, vigili del fuoco, scale, sacchi di ossa tirati su da un buco. Testimonianze, pianti. Latte buttato sui binari, altri cadaveri. Testimonianze italiane, testimonianze slave. Convegni, dibattiti, ammissioni. Non bastò, allora, non basta oggi. Oggi che dovrebbe essere l’era della libertà, della maturità. Ad ogni 10 febbraio mi fermo a riflettere. E mi interrogo, come a scuola. Da solo. Mi fermo a pensare, assorto, attraversato da un profondo e nauseante senso d’ansia, a tutte quelle voci che ti battono in testa, da fuori però, come gli uccelli impazziti di Hitchcock, in una marea fuori controllo, che recitano un mantra: siamo il tempo del benessere, siamo il tempo della libertà. Siamo noi la gente del Progresso, siamo la più ampia forma di civiltà. Altro che redenzione, altro che élite contro i popoli. Il nostro tempo gioca sulle antitesi, sulle perversioni dicotomiche, sulle anticipazioni sbagliate, sui lanci di agenzia intellettuali. Sugli slogan, sullo show, sull’improvvisazione all’esame di storia.  È il tempo della contraddizione, della vana sapienza da bar, ancor più che quello delle ostilità, presuntuosamente pretenzioso. Pretendiamo, pretendiamo medaglie per nasconderci dietro l’insicurezza dei nostri costrutti mentali. Mi chiedo sempre perchè si parli di Progresso e poi bisogna rompere un silenzio, ancora oggi, nel 2017, quando internet ha portato a chiunque il dramma delle Foibe; perché si parli di modernità e di una società al massimo grado di Civiltà che si sbraccia, si ammazza, mette da parte i suoi poveri per accogliere altre culture che migrano ma che ancora schifa, ripudia, dimentica la sua.

Le Foibe e il falso coraggio della borghesia titoista, di Alessandro Catto su "Il Giornale” il 9 febbraio 2017. Non appartengo alla destra anticomunista, perché anticomunista non lo sono mai stato. Ho sempre apprezzato, al contrario l’epopea della rivoluzione bolscevica, il suo ideale di emancipazione umana e di riscatto dei lavoratori, dei dannati della terra. Conosco a memoria i testi dei CCCP, ho divorato le biografie di Lenin, Stalin, Fidel Castro, Che Guevara, i libri di Costanzo Preve, apprezzo certa storiografia marxista e su di essa mi sono formato. Proprio in ragione di quanto detto, ho in estrema antipatia la sinistra liberal e radical chic figlia dei sottoprodotti culturali dell’Occidente odierno, un corpo alieno innestatosi a suon di post-sessantottismi, ribellismi anarcoidi e fantomatiche “spese proletarie” nel seno del socialismo italiano, finendo oggi con l’essere una delle principali promotrici del pensiero unico politicamente corretto, spalla culturale della globalizzazione economica e sociale che oggi l’Europa e il mondo vivono. Da sempre vivo la giornata in memoria delle Foibe con sentimenti contrastanti. Da una parte vi sono esasperazioni anticomuniste sempre latenti, capaci ancor oggi di rinfocolare buffe e fantomatiche lotte al nemico “rosso”, quando oggi il nemico è di tutt’altro colore e non sta certo in qualche nazione comunista sopravvissuta al crollo del Muro di Berlino. Un sentimento spesso cieco e capace di fare il paio con l’antifascismo, accomunandosi ad egli nella sostanziale inutilità e nell’incapacità di comprendere che oggi non viviamo né in un sistema fascista né in un sistema comunista, bensì in un sistema capitalista globalizzato, le cui storture sono figlie della sua stessa storia e della sua impalcatura. La giornata delle Foibe è tradizionalmente la giornata dell’antifascismo e dell’anticomunismo, una giornata della memoria piena di ottusità, di incomprensioni, spesso di stupidaggini. Abbiamo accennato all’anticomunismo sovente insopportabile e fuori luogo, ma è giusto pure soffermarci sull’idiozia di un antifascismo di contorno, che fa della negazione della memoria verso vittime civili un proprio cavallo di battaglia, della selezione della memoria la propria forza. A suo supporto vi è un sistema di istruzione e cultura tarato quasi esclusivamente sulle sue necessità, con una storiografia accademica che da circa settant’anni ci presenta il fatto che “anche gli italiani hanno commesso dei crimini in Jugoslavia” come chissà quale novità dell’anno, chissà quale straordinaria anticipazione, quando in realtà è da decenni e decenni che gli opifici della sapienza istituzionalizzata ci rilanciano questo mantra. Il problema è che la violenza non è mai giustificabile e nulla vieta di ricordare i lutti di entrambe le fazioni, senza per questo scendere in pericolose e partigiane selezioni, per altro inutili dopo diversi anni dalla fine del conflitto, sintomo per altro di un infantilismo che mai ha abbandonato certi lidi politici de sinistra, spesso autoproclamati detentori del meglio della cultura italica ed europea, del sapere giusto, democratico e altre belle panzane. C’è anche un’altra questione, eminentemente politica. L’alimentazione di questo facile dibattito, che fa spesso della rimozione del dramma delle foibe il proprio punto cardine, è rafforzata da quello che fu il ruolo di Tito seguente allo strappo con Stalin e con i paesi gravitanti attorno all’Unione Sovietica dopo il 1948. Da quell’anno l’Occidente cominciò a valutare l’ipotesi di vedere Tito non più come un dittatore nemico, bensì come un potenziale alleato nella lotta all’URSS, con patti più o meno espliciti e finanziamenti al paese jugoslavo, in ottica antisovietica. Solo la propaganda anticomunista ha continuato a dipingere l’ex partigiano slavo come un fiero nemico dell’Occidente, ma la realtà era ben diversa. Nei piani d’invasione da est e nelle politiche di prevenzione di uno scontro armato con l’Oriente, infatti, sovente la Jugoslavia era considerata come un paese potenzialmente amico, e nei fatti essa era tra le guide del novero delle nazioni non allineate. Conoscendo il sostanziale allineamento di moltissima storiografia istituzionale alle necessità diplomatiche, politiche e geopolitiche contingenti, emerge chiaramente quanto in nome della conservazione di una alleanza sia stato possibile rimuovere qualsiasi tentativo di indagine storiografica seria, non più sospinto dalle necessità della delegittimazione di un avversario. Al contrario invece i miti neri sul comunismo e sulle politiche sovietiche continuavano senza problemi, tra anticomunismi espliciti e tentativi maldestri di “superamento del socialismo”, promozioni di socialdemocraticismi, socialismi dal volto umano, ombrelli Nato, comunismi americani e via discorrendo, anche “grazie” all’opera di revisionismo ed europeizzazione promossa proprio dalla cultura dipanata dal mondo degli ex sessantottini, ora tromboni in qualche trasmissione di divulgazione, in qualche redazione di giornale o in qualche dipartimento universitario. Insomma, lo sterile antifascismo italiano ci ha spacciato la ricerca della “verità” sui crimini italiani come un’opera di chissà quale coraggio, levatura e novità, quando a ben vedere di processi e controprocessi ai danni dei vinti sono pieni gli scaffali e le cronache, pure da molto tempo e con florilegio di autoincensamenti. Vogliono proporci il loro lottare al fianco del partigiano jugoslavo come una sorta di nostalgica e giusta fedeltà all’ex causa comunista, quando la geopolitica e i rapporti diplomatici dell’epoca ci raccontano altro. Sia mai che forse stiamo parlando della solita battagliuccia comoda ed immodificante dell’antifascismo nostrano per intrattenere qualche ribellino liberal d’archivio storico e che continuare questa sterile contrapposizione è quantomeno inutile e dannoso? Se proviamo ad andare oltre alle pretese di incarnare chissà quale “spirito rivoluzionario” di questo o quel centro sociale, ci accorgiamo che di rivoluzionario in certi atteggiamenti c’è davvero ben poco. Consegniamo i morti alla storia e alla memoria dei loro cari con rispetto e lasciamoci una volta per tutta alle spalle questi fastidiosi giochini tra giusti e meno giusti. Ne va pure della nostra capacità di sopportazione della noia.

Stragi e persecuzioni: la fuga dall'Istria raccontata da un esule. Il volume di Tito Delton ricostruisce passo per passo il dramma di migliaia di fuggitivi, scrive Matteo Sacchi, Venerdì 10/02/2017, su "Il Giornale". Durante la conferenza di Jalta, 4-11 febbraio 1945, Stalin chiarì molto bene a Churchill e Roosevelt come intendeva gestire la vittoria sul suo ex alleato nazista. Aveva tutta l'intenzione di attenersi al principio che "il possesso equivale ai nove decimi del diritto". Insomma per i sovietici e i loro sodali la corsa all'occupazione era iniziata. E questo segnò, nelle lontanissime Istria e Dalmazia, il destino di migliaia e migliaia di italiani. Il maresciallo Tito, come da programma, accelerò il passo verso Trieste. La città era il porto fondamentale di tutta la Mitteleuropa. Solo su insistenza di Churchill il generale Alexander spedì - in ritardo - il suo sottoposto, il generale Freyberg, a prendere il controllo della città. Ma per gli italiani d'Istria e Dalmazia, abbandonati a se stessi, iniziò un lungo incubo. È una storia difficile da narrare. Una storia che per molti versi avrebbe dovuto mettere tutti sull'avviso di cosa poteva accadere nella Ex Jugoslavia quando negli anni '90 è divampata la guerra civile. La pulizia etnica tornata tragicamente sulla scena in Bosnia era già stata praticata sugli italiani dal 1945 (con prodromi nel '43). Solo che per convenienza politica è stata messa sistematicamente sotto il tappeto, nascosta per non turbare equilibri da Guerra fredda e per le pressioni del partito comunista più forte dei Paesi occidentali. Ma qual è il modo migliore per scoprire davvero cosa hanno passato quegli italiani prima terrorizzati - a colpi di rapimenti, uccisioni e campi di concentramento - e poi costretti a un esodo senza ritorno? Uno dei modi migliori può essere quello di seguire la tragedia attraverso l'ottica del singolo. Di una famiglia incolpevole che finisce travolta dalle onde della Storia. È quello che consente di fare 10 febbraio 1947. Fuga dall'Istria di Tito Delton (da oggi in allegato con il Giornale a 7,50 euro oltre al prezzo del quotidiano). La prima cosa che traspare dal libro di Delton (esule che ha trovato in Torino una seconda casa) è il senso di straniamento prodotto all'inizio dal collasso delle autorità italiane. Poi all'improvviso sciama l'armata rossa jugoslava, arriva da Pola e occupa Dignano d'Istria. Mal vestiti, ma armati sino ai denti, i partigiani hanno, a differenza degli italiani, idee chiarissime. Mettono fuori corso la lira, bloccano le poste, le banche. La slavificazione è rapida e brutale, non guarda in faccia a nessuno. Anche a scuola spuntano «maestre» che parlano soltanto in serbo-croato. Chi sotto il fascismo ha indossato una camicia nera è automaticamente un bersaglio politico. Ma nel Ventennio quanti italiani la camicia nera l'hanno indossata per forza? Non sono domande che i drusi si facciano. Tanto che scambiano per fascista anche il vecchio dandy del paese che la camicia nera la metteva solo per far contrasto con la giacca bianca. Poi c'è chi viene portato via solo perché è troppo ricco, ha troppe terre. Fascista? Poco importa, capitalista. Ma come spiega Delton, allora solo un bimbo terrorizzato che vede portar via suo padre, e come confermano quasi tutti gli esuli, quello che contava era portare avanti l'atroce principio che massacrandone uno se ne potevano terrorizzare cento. Il padre di Delton riesce però, miracolosamente, a fuggire dal luogo dell'interrogatorio e a riparare a Trieste, altri sono meno fortunati. Ma anche chi si salva, chi non finisce in una foiba ha una sola possibilità, darsi alla fuga verso un'Italia distrutta e attraversata da grandi tensioni politiche. E che degli esuli ha tutt'altro che voglia di occuparsi. La fuga è un macigno tremendo per gli adulti, ma è ancora più orribile per i bambini. Si deve andar via senza dare nell'occhio, senza portare quasi nulla, nemmeno un giocattolo. La famiglia di Delton fuggi e portando solo delle piccole borse (finite poi sequestrate). Riescono a salvare solo l'oro di famiglia, nascosto nei vestiti, usandolo poi per avere qualcosa di cui campare. Questo fu il destino di centinaia di migliaia di esuli. Il dettaglio può cambiare, ma il senso di sradicamento fu uguale per tutti. Ed è incancellabile, anche quando le famiglie sono riuscite a ricostruirsi una vita. Delton nell'ultima parte del volume è poi molto bravo a riconnettere la sua vicenda a quella di tutti gli altri esuli e alle tensioni su Trieste che proseguirono per tutti gli anni '50 e oltre. È un pezzo di storia che non deve più essere rimosso, anche se è scomodo. È il minimo che si deve a tutti quegli istriani che tanto hanno lottato e tanto hanno sacrificato per restare italiani.

“I comunisti titini mi strapparono dalla mia casa”. Intervista del 10/02/2017 di Giusy Federici su "Il Giornale". “La mia è stata un’infanzia felice. Poi abbiamo dovuto lasciare Isola. C’è stato l’esodo. Ma ho imparato a non odiare”. Poche parole, di grande dignità, che riassumono una vita. Nino Benvenuti è un grande italiano e una leggenda dello sport, un pugile che i colpi li ha assestati solo all’interno del ring, equilibrato come pochi nella sua disciplina. Ed è un esule, uno di quei350mila fiumani, istriani, giuliano dalmati che dal 1947 hanno dovuto lasciare la terra, le case e i beni ai partigiani comunisti del maresciallo Josip Broz Tito. Quel dolore, di quando sei costretto ad andartene dalla terra che ti ha partorito e che ami visceralmente, noi che esuli non siamo, dovremmo almeno cercare di immaginarlo, di fare mente locale a quando, in qualche modo, siamo stati cacciati, rifiutati, umiliati. E moltiplicarlo all’infinito, perché il tentativo di genocidio e quell’esodo dal confine orientale tutto, è ancora oggi una storia dolorosa e una vergogna aperta per l’Italia, che non ha saputo né voluto occuparsi di connazionali che avevano la sola colpa di scappare dal comunismo jugoslavo, che evidentemente tanto paradisiaco non era. Sappiamo quel che è successo, però ci manca il momento prima, le ore felici dei bambini che giocano in strada, gli schiamazzi e le risate, i rimproveri dei genitori, le coccole dei nonni. E poi gli odori, i sapori, quel mare dolce che segue le curve delle sue rive, due amanti complementari che si corteggiano e si amano. Si appartiene alla terra in cui si nasce. Dal cordone ombelicale, dalle radici più profonde questi italiani fieri e generosi sono stati strappati via, in un attimo che è stato subito di orrore, quello dell’annegamento con una pietra al collo, dell’essere gettati nelle foibe spesso vivi, le violenze gratuite. E nessuno a curarla, quella ferita, piuttosto è come se ci avessero aggiunto il sale, per farla bruciare di più. Accade da settant’anni. È importante, invece, conoscere quell’attimo prima, per capire meglio la tragedia del subito dopo. Giovanni detto Nino, Benvenuti, classe 1938, è nato a Isola d’Istria. Qualche anno fa ha scritto un libro con Mauro Grimaldi, L’Isola che non c’è. Il mio esodo dall’Istria, che è una memoria ma anche un inno d’amore per la sua terra, probabilmente la pacificazione completa con il passato, sicuramente il monito a non dimenticare, ma senza odiare. Stare seduti con Nino Benvenuti al tavolo di una bar del quartiere giuliano dalmata di Roma, chiacchierare come due vecchi amici quando invece si ha di fronte uno dei più illustri campioni di tutti i tempi, è un grande onore. Non parla subito dell’esodo, ma della sua prima medaglia d’oro, vinta durante il servizio militare con i vigili del fuoco, 27esimo corso a Capannelle, lo stesso dell’attore Giuliano Gemma. “Era il 1960, avevo ventidue anni ed era un periodo importante della mia vita perché a Roma si sarebbero svolte le Olimpiadi. Essere un vigile del fuoco che vince la medaglia d’oro mi ha onorato due volte”. E poi campione mondiale, prima come Pesi superwelter e poi Pesi medi, capace di battere sul ring due leggende come Emile Griffith e Carlos Monzon. È diventato loro amico, come con Muhammad Alì, quando era ancora Cassius Clay. Nel 1947 giocava felice al porto della sua Isola.

Nato a Isola d’Istria. Com’erano l’infanzia, i giochi, i sapori di bambino?

“Eravamo una famiglia stupenda: papà Fernando, mamma Dora e cinque figli: Eliano il più grande di diciassette anni, Alfio, io in mezzo, Dario e poi Mariella, che significava tanto per noi, perché la mamma voleva una bambina, che non arrivava mai. Avrebbe potuto farne a meno, anche per salvaguardare la sua salute visto che soffriva di cuore, una stenosi all’aorta che le ha creato difficoltà nelle gravidanze. Quello era stato l’ultimo tentativo ed era nata una bambina, festeggiata non solo in famiglia ma da tutto il paese perché tutti ci conoscevano.  Economicamente non stavamo male, papà lavorava nella pescheria centrale di Trieste, tutta la famiglia era di pescatori, mio nonno e il mio bisnonno, poi padre e mio zio. E quello con il mare, per me, è stato sempre un grande rapporto. Avevamo anche una barca da pesca, che usavamo più per diletto che per bisogno. A casa, si mangiava pesce in abbondanza. Ancora oggi, nei miei ricordi di bambino, se penso a un odore di cibo prevale quello del pesce, cucinato in ogni modo”.

Poi sono arrivati i partigiani di Tito.

“Sì, i comunisti slavi, che da noi hanno voluto la casa dove abitavamo. La polizia politica dell’Ozna l’ha praticamente assediata e siamo dovuti partire, caricando quel che si poteva, quel che ti permettevano di mettere su un camion e portare tutto a Trieste. E’ stato un grande dolore, i nonni piangevano disperati, erano vecchi e sapevano che non sarebbero più tornati. La fortuna per noi è stata che con la città avevamo rapporti diretti perché papà lavorava lì e avevamo anche un appartamento a Trieste, in via della Madonna del Mare, dove siamo andati ad abitare.  È stato un obbligo, a Isola non si poteva più stare. Anche per quello che era successo a Eliano, un’esperienza terrificante. È stato sei mesi in carcere, per tre mesi non abbiamo saputo dove fosse, temevamo che fosse finito in una foiba”.

L’accusa qual era?

“L’accusa? Nessuna. Eliano era un giovane che, tra l’altro, aveva contratto la poliomielite a 10 anni, per cui era innocuo, oltre ad essere l’esempio per noi fratelli. Era bravo a scuola, nel lavoro, era un ragazzo solare. La mamma è morta a 46 anni, di crepacuore, anche in conseguenza di questi fatti. Stava male ma non dava molto a vederlo. Era anche una donna intelligente, di cultura, aveva frequentato il liceo classico a Capodistria e all’epoca studiare così a lungo era raro”.

Le donne di una volta, forti, capaci di fare mille cose insieme senza lamentarsi…

“La famiglia era al primo posto. In casa avevo nonni e bisnonni, il nostro era un nucleo patriarcale e tutti abitavamo nella casa di via Contesini, una villa di tre piani nel centro del paese, ci stavamo in tredici. Solo in seguito, anche perché la mamma aveva bisogno della sua privacy e, per via del cuore, di non avere tanto da fare, siamo andati ad abitare in quella bella casetta di Isola che, dipinta, chiamavamo la villa rosa”.

Fino all’arrivo dei comunisti, italiani e slavi eravate due popoli che convivevano. Che rapporto avevate?

“Ognuno a sé stante ma tranquilli. Poi, quando nel ’47 hanno portato via Eliano, è cambiato tutto, si può immaginare. È certo che non si poteva voler bene a quelli lì (ai titini, ndr). Ma ci è stato insegnato a perdonare. L’educazione che abbiamo avuto, i miei fratelli ed io, è stata straordinaria, abbiamo imparato a esser tolleranti. Nonostante l’arresto di Eliano e il dolore, la preoccupazione di non sapere cosa sarebbe successo. Perché c’erano stati molti casi in cui gli arrestati non erano più tornati”.

Forse hanno voluto farvi uno sfregio in quanto italiani e benestanti?

“Non si sa. Abbiamo pensato, tra le ipotesi, che magari avesse avuto qualche amico con rapporti compromettenti per le forze slave. Ma è stata una nostra supposizione. Noi volevamo sapere perché l’avessero preso, di cosa lo accusavano. Ma non c’era niente e ancora oggi non capiamo il motivo, visto che non si occupava di politica.  Avessero arrestato un altro dei fratelli, come Alfio ad esempio, che era più vivace, si poteva dire qualcosa, ma di Eliano no, lui era il buono della famiglia. Dopo tre mesi abbiamo saputo che era in carcere a Capodistria, a sei chilometri da Isola. Ogni due giorni io gli portavo da mangiare, così ha potuto sostenersi. Dopo sei mesi è stato liberato, l’avevano anche torturato, per tanto tempo non ha voluto parlare. Però, quando ci penso, dico che sono stato fortunato perché, anche se ho vissuto momenti terribili, non sono finito in uno dei campi profughi riservati agli esuli e sono riuscito a non provare odio, come invece è accaduto ad altri. Perché l’odio ti corrode e a lungo andare diventi il carnefice di te stesso”.

L’odio no. Ma la rabbia?

“Quella sì, tanta, ma solo fra te e te potevi dire “maledetti slavi” (lo dice in dialetto istriano, ndr), guai a farsi sentire in casa. E, devo aggiungere, la nostra famiglia ha lasciato un gran bel ricordo a Isola”.

Tempo fa ha scritto un libro, L’Isola che non c’è, il racconto della vita di esule. Ci torna, ogni tanto, nella piccola patria?

“Ogni tanto un salto lo faccio. Ma non sono felice di starci. Perché non è più il mio paese. È l’Isola che non c’è più, è un’altra cosa. È cambiato tutto, non è quello che io ho vissuto e che sento dentro di me quando penso alla mia terra, non si parla più italiano, sono cambiati usi e costumi”.

E anche il clima intellettuale raffinato, che era una costante di voi italiani del confine orientale, tra l’estensione della cultura veneta e l’italianità della Mitteleuropa…

“Noi avevamo il contatto costante con Trieste, quindi vivevamo una realtà diversa. È giusto parlare di cultura veneta in senso ampio e di Mitteleuropa, ma in quel che siamo c’è anche una reminiscenza che viene dall’impero asburgico e da un apporto culturale di alto livello, dall’Austria come anche dall’Ungheria. Per me l’essere cresciuto in quella zona e in quel periodo è una ricchezza non da poco perché, aldilà di una tragedia che mi ha colpito, ho capito quali sono le cose importanti di cui farsi portavoce. Ho girato il mondo ma essere nato a Isola, l’avere avuto una famiglia come la mia, è stato il mio valore principale. Ho goduto di così tanti vantaggi che mi chiedo spesso perché a me tanto e ad altri così poco”.

Chi si impegna a fondo merita il successo…

“È vero, l’ho voluto e l’ho rispettato, più che meritato. Ho preso il seme e l’ho coltivato. Ho attinto a tutto quello che erano i pensieri, la cultura, la saggezza, le cose belle di quel periodo, di quel posto. Sono argomenti di cui non si vuole parlare ed è un peccato, mentre quelle località, di quell’epoca, dovrebbero essere studiate. Perché è importante capire anche come hanno vissuto gli abitanti del luogo, come hanno interagito con gli austroungarici prima e con gli slavi dopo. Perché gli slavi erano i “gregari”, non erano di grande cultura e a noi italiani ci odiavano, perché notavano che eravamo diversi, che avevamo qualcosa che, culturalmente, loro sapevano di non possedere. E ne soffrivano, odiandoci ancora di più”.

Col senno di poi, nell’impegno per emergere nello sport e in una disciplina come la boxe, c’era anche la rabbia per quello che è successo, per la condizione di esule?

“Ho riflettuto se ci sia stata e se c’è ancora questa rabbia. Devo dire di no e sempre per l’insegnamento di mia madre. Di un compagno di scuola che rubava una matita, ad esempio, o che faceva un dispetto, a casa mamma Dora dava una spiegazione per il suo gesto, magari perché era povero. Queste piccole cose, che ricordo, per me sono di un’importanza infinita, perché insegnano a gestire i grandi dolori che possono capitare nella vita. È così che si impara a non odiare. Perché l’odio non arriva solo in conseguenza di grandi dolori, ma anche per piccoli fatti. Noi abbiamo imparato dalla base, ci siamo comportati bene anche con chi non lo meritava. E, tornando alla domanda, oggi dico che l’odio non ha avuto niente a che fare con quella che era la mia educazione, né con il mio impegno sportivo, la mia voglia di farcela. E neanche la rabbia. Avrei potuto prendere qualche slavo e picchiarlo, invece niente, era talmente pulita e chiara l’educazione che abbiamo ricevuto, i miei fratelli ed io, che non potevo sentire non solo odio, ma nemmeno astio. Anche quello, pur se veniale, era un peccato. Ora ne sto parlando, in genere non lo faccio, ma questi pensieri sono dentro di me. E insisto, sono nato molto fortunato”.

Possiamo dire che è pace fatta con il passato?

“Assolutamente sì. Anche perché mi è stato insegnato che si deve perdonare, perché il perdono crea beneficio, ti fa star bene. Se tu odi, stai male tu, non la persona a cui vuoi male, che non sente niente. Evidentemente tutto questo mi ha aiutato anche a diventare un campione del pugilato. Che non è uno sport facile, è una disciplina dove bisogna stringere i pugni e picchiare. Ma senza avere il minimo astio”.

Anche quest’anno il 10 febbraio, ormai è legge istitutiva, commemora l’esodo forzato e le vittime. E come sempre ci sono polemiche politiche. Quanto è importante, invece, il ricordo?

“Si può non odiare ma non si può dimenticare. Non ci si deve alzare ogni mattina maledicendo chi ti ha portato via tutto. Si deve ignorarlo, non pensarci con astio, ma è impossibile dimenticare, perché mia madre è morta a 46 anni anche in conseguenza di quello che abbiamo vissuto, prima con Eliano e poi cacciati da casa nostra da quei “maledetti slavi”, che però sono altra cosa rispetto agli slavi di oggi. È importante tramandare, raccontare la propria storia soprattutto se altri chiedono di farlo”.

Nino Benvenuti con il suo vissuto è un esempio. Certe cose, dette da chi è rispettato perché è credibile, in questo caso un esule ma anche un grande campione, hanno uno spessore diverso, arrivano prima a destinazione. Qual è il messaggio?

“Il mio messaggio, che spero faccia bene, è quello di non odiare, anche se non si riesce a essere indifferenti verso chi ci fa del male. Si può ricordare e, anzi, si deve fare, ma senza necessariamente rodersi dall’interno. Perché odiare fa male a chi odia. E importante è non dimenticare, dobbiamo continuare a parlarne, perché non succeda più. E perché non accada ancora, bisogna conoscere i fatti”.

Le foibe, 72 anni fa. È il Giorno del Ricordo. Nel 1945 oltre 10 mila persone furono gettate vive nelle foibe, le cavità carsiche ai confini orientali, o uccise dopo processi sommari dai comunisti di Tito. Di Leda Balzarotti e Barbara il 9 febbraio 2017 su "Il Corriere della Sera". 

1. La pulizia etnica. Il 10 febbraio è il giorno del ricordo di una pagina tra le più cupe della storia contemporanea, avvolta a lungo nel silenzio e nel buio, come le tante vittime, inghiottite nelle cavità carsiche, le cosiddette foibe, per volere del maresciallo Tito e dei suoi partigiani, in nome di una pulizia etnica che doveva annientare la presenza italiana in Istria e Dalmazia. Fra il 1943 e il 1947 oltre 10 mila persone furono gettate vive o morte in queste gole, un genocidio che non teneva conto di età, sesso e religione, riconosciuto ufficialmente nel 2004, con la legge numero 94 che istituì la «Giornata del Ricordo», in memoria dei martiri delle foibe e dell’esodo giuliano dalmata.

2. La violenza dopo la firma dell’armistizio. La spirale di violenza esplode dopo la firma dell’armistizio, l’8 settembre del 1943: mentre le truppe tedesche assumono il controllo di Trieste, Pola e Fiume, il resto della Venezia Giulia passa nelle mani dei partigiani slavi, che si vendicano contro i fascisti e gli italiani, considerati possibili oppositori del regime comunista e dell’annessionismo jugoslavo. Il 13 settembre 1943, nel comune di Pisino, viene proclamata unilateralmente l’annessione dell’Istria alla Croazia e i partigiani dei Comitati di liberazione improvvisano tribunali che emettono centinaia di condanne a morte.

3. Gli elenchi dei condannati a morte. Le persone presenti in questi elenchi di morte vengono arrestate e condotte a Pisino, quindi giustiziate insieme ad altre, di etnia croata: moriranno scaraventati nelle foibe o nelle miniere di bauxite. Secondo le stime più attendibili, le vittime del periodo settembre-ottobre 1943 nella Venezia Giulia sarebbero tra 400 e 600 persone.

4. Norma, la ragazza che disse «no». Torturata e uccisa. Alcune delle uccisioni sono rimaste impresse nella memoria per la loro efferatezza: valga per tutti il nome di Norma Cossetto, una studentessa istriana che non volle aderire al movimento partigiano e, per questo, venne arrestata e condotta all’ex caserma della Finanza di Parenzo, quindi sottoposta a sevizie di ogni genere. La notte tra il 4 e 5 ottobre del 1943, insieme ad altri prigionieri, fu portata a piedi a Villa Surani e lì gettata, probabilmente ancora viva, in una foiba.

5. Le ispezioni e i macabri ritrovamenti. Le prime ispezioni delle foibe istriane, disposte dopo il ripiegamento dei partigiani e dopo l’invasione nazista della zona, portano al rinvenimento di centinaia di corpi. La propaganda fascista darà molto risalto ai ritrovamenti e sarà proprio allora che il termine «foibe» inizierà a essere associato agli eccidi, fino a diventarne sinonimo. Nella foto: alcuni parenti assistono alle operazioni di recupero delle vittime.

6. Il massacro ripetuto. Il massacro si ripete nella primavera del 1945, quando Trieste, Gorizia e l’Istria vengono occupate dall’esercito di Tito: questa volta le vittime sono soprattutto gli italiani, non solo i fascisti, ma tutte le personalità che avrebbero potuto minare il nuovo ordine comunista, compresi i partigiani, i membri del comitato di liberazione nazionale e tutti i sostenitori della comunità italiana nella Venezia Giulia. Agli occhi di Tito, l’annientamento della presenza italiana nell’area sarebbe stata determinante ai fini delle future trattative sulla delimitazione dei confini fra Italia e Jugoslavia.

7. Arresti, sparizioni e uccisioni. Dopo la liberazione dall’occupazione tedesca, a partire dal maggio del 1945, nelle province di Gorizia, Trieste, Pola e Fiume il potere passa nelle mani delle forze partigiane jugoslave: ne conseguono arresti, sparizioni e uccisioni di centinaia di persone, alcune delle quali gettate nelle foibe. Le violenze cesseranno solamente dopo la sostituzione dell’amministrazione jugoslava con quella degli alleati, il 12 giugno 1945 a Gorizia e Trieste, e il 20 giugno a Pola.

8. Il disegno dell’orrore. In quest’orrenda pagina della storia recente, le foibe hanno avuto come principale obiettivo quello di occultare gli eccidi di oppositori politici e cittadini italiani, ostacolo all’annessione jugoslava delle zone, come sarà poi confermato dallo stesso Tito, quando il governo di De Gasperi, in possesso di informazioni in merito alla vicenda, chiederà ragione delle migliaia di morti di nazionalità italiana.

9. La relazione. Nel 2001 verrà pubblicata la relazione della «Commissione storico-culturale italo-slovena», incaricata dal governo italiano e da quello sloveno di mettere a punto una versione condivisa dei rapporti tra i due Paesi fra il 1880 e il 1956. Il rapporto concluderà che «tali avvenimenti si verificarono in un clima di resa dei conti per la violenza fascista e di guerra, e appaiono in larga misura il frutto di un progetto politico preordinato». In tale progetto, «confluivano diverse spinte: l’impegno a eliminare soggetti e strutture ricollegabili al fascismo, alla dominazione nazista, al collaborazionismo e allo Stato italiano e, inoltre, anche un disegno di epurazione preventiva di oppositori reali, potenziali o presunti tali, in funzione dell’avvento del regime comunista e dell’annessione della Venezia Giulia al nuovo Stato jugoslavo. L’impulso primo della repressione partì da un movimento rivoluzionario che si stava trasformando in regime, convertendo quindi in violenza di Stato l’animosità nazionale e ideologica diffusa nei quadri partigiani».

10. L’occupazione e l’esodo degli italiani. Il movente dell’annessione jugoslava è stato particolarmente importante a Gorizia e Trieste, e alla fine della Seconda guerra mondiale Tito farà il possibile per occupare le due città prima di ogni altra forza alleata, per assicurarsi una posizione di forza nelle trattative. E proprio in questi due luoghi, durante l’occupazione slava, diverse migliaia di italiani saranno arrestati, uccisi o deportati nei lager jugoslavi, soprattutto a Borovnica e Lubiana, nell’intento di far credere che gli jugoslavi fossero la maggioranza assoluta della popolazione.

11. Il dopoguerra, tra imbarazzi e colpe. Trascorso il dopoguerra, la vicenda delle foibe è stata a lungo trascurata dai governi italiani. Secondo lo storico Gianni Oliva questo silenzio italiano e internazionale ha avuto più ragioni: prima di tutto la rottura tra Stalin e Tito avvenuta nel 1948, che spinge tutto il blocco occidentale a stabilire rapporti meno tesi con la Jugoslavia in funzione antisovietica e in secondo luogo l’atteggiamento di un certo Pci, non intenzionato a evidenziare le proprie colpe e contraddizioni in merito alla vicenda.

12. Napolitano spezza la «congiura del silenzio». L’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in occasione del Giorno del Ricordo nel 2007, userà queste parole: «Va ricordato l’imperdonabile orrore contro l’umanità costituito dalle foibe e va ricordata la “congiura del silenzio”, la fase meno drammatica ma ancor più amara e demoralizzante dell’oblio. Anche di quella non dobbiamo tacere, assumendoci la responsabilità dell’aver negato, o teso a ignorare, la verità per pregiudiziali ideologiche e cecità politica, e dell’averla rimossa per calcoli diplomatici e convenienze internazionali».

"L'orrore è lavare la tuta di chi si calava nella foiba piena di corpi". La testimonianza inedita di un militare. Nel '43 collaborò con le squadre di recupero, scrive Fausto Biloslavo, Giovedì 9/02/2017, su "Il Giornale". «L'orrore ricordo l'orrore nei racconti dei miei compagni, che si infilavano nella foiba per recuperare i poveri corpi. Spesso per metterli nelle casse si smembravano. Le vittime italiane dei partigiani di Tito, in gran parte civili, avevano i polsi stretti dal filo di ferro. Ed erano stati legati uno all'altro per gettarli nel buco ancora vivi sparando solo al primo, che faceva precipitare gli altri». Sembra che sia accaduto ieri nel lucido racconto di Giuseppe Comand, 97 anni. Nel 1943 ne aveva poco più di venti quando gli fu ordinato di aiutare i vigili del fuoco di Pola, che recuperavano gli infoibati nella prima ondata di rappresaglia titina grazie al vuoto di potere provocato dall'8 settembre e dallo sbandamento dell'esercito italiano. Comand, friulano doc, tira fuori il suo diario di quelle giornate terribili, che non ha mai pubblicato. Probabilmente è l'ultimo testimone vivente della riesumazione dei primi infoibati italiani dell'Istria, che poi sarebbero diventati migliaia alla fine della Seconda guerra mondiale in tutta la Venezia Giulia compresa Trieste. Soldato dell'11° reggimento genio di Udine, durante la guerra, ha contattato il Giornale per raccontare come «tiravano fuori i morti». E l'epopea dell'8 settembre con il rischio di finire nelle mani dei partigiani di Tito o deportato in Germania dai tedeschi. Una testimonianza per non dimenticare la tragedia delle foibe, ma pure di una guerra senza pietà alla vigilia del Giorno del Ricordo degli istriani, fiumani e dalmati cacciati dalle loro terre da Tito.

Nel 1943 come venne a sapere delle prime foibe?

«Dopo l'8 settembre la mia unità fu disarmata dai tedeschi a Pola. Il comandante riuscì a fare aggregare una squadra, compreso il sottoscritto, come prigionieri di guerra, ai vigili del fuoco locali, che dovevano recuperare i corpi. Non sapevo neppure cosa fosse una foiba. Quando a Pisino mi dissero che si trattava di profonde cavità piene di morti italiani scaraventati dentro dai partigiani, mi sembrò di impazzire. Io non mi calo nella foiba, piuttosto sparatemi. Non me la sento di fare il becchino di questi poveri disgraziati».

E cosa accadde?

«Ero il più giovane a soli 23 anni e mi esentarono dall'infilarmi nella foiba, ma i miei compagni dovettero farlo e mi raccontarono l'orrore. Oggi, purtroppo, non ci sono più. Il primo a calarsi dentro la foiba di Vines, vicino ad Albona, fu Arnaldo Harzarich, maresciallo dei vigili del fuoco di Pola. All'imbocco venne costruita una struttura in legno per la carrucola e lo calarono con una specie di seggiolino da giostra».

Cosa trovarono nella foiba?

«I primi morti, sette se non ricordo male, si erano fermati ad uno sbalzo di roccia a circa 70 metri di profondità. Le altre decine precipitarono fino sul fondo per circa 120 metri (72 italiani comprese 6 donne e 12 militari tedeschi, nda). Il maresciallo raccontava che era terrificante e sembrava di calarsi all'inferno. L'odore della putrefazione era così forte che si sentiva a chilometri di distanza. Il problema era recuperare i corpi straziati tenendoli il più possibile intatti. Nella foiba calavano le casse da morto in legno, ma i cadaveri si frantumavano e non era facile riportarli in superficie».

Una riesumazione fu più terribile delle altre.

«Il fatto più raccapricciante capitò ad Harzarich (nella cavità di villa Surani, nda). Con il raggio della pila illuminò il corpo di una ragazza seminuda, che sembrava seduta sul fondo della foiba con la schiena appoggiata alla parete e la testa rivolta verso l'alto, come se sorridesse. Si trattava di Norma Cossetto, la studentessa istriana, torturata e violentata dai partigiani prima di venire infoibata».

Le vittime come venivano scaraventate nell'abisso?

«La gente del posto e soprattutto le due ragazze che ci facevano da mangiare mi raccontarono i dettagli del calvario degli italiani, compresi due loro fratelli infoibati. Nel caos dell'8 settembre il castello di Pisino, nel centro dell'Istria fu usato come prigione, dove le vittime italiane venivano sommariamente processate dai partigiani comunisti e condannate a morte. A molti disgraziati, prima di venire infoibati, legavano gli avambracci con del filo di ferro ruggine stretto fino all'osso grazie a pinze e tenaglie. Poi li costringevano a salire su una corriera rossa che li portava davanti alla foiba. Sembra che sparassero solo al primo per far precipitare gli altri ancora vivi. Il macabro rito si chiudeva con il lancio di un cane sopra i corpi per una superstizione slava sui morti».

Chi erano gli infoibati?

«Italiani soprattutto civili e militari (anche tedeschi, nda) fatti prigionieri. Nella foiba di Vines venne trovata pure l'ostetrica di Albona. Sembra che molti anni prima fosse morto un nascituro ed il padre si è vendicato».

Come furono riconosciuti i cadaveri?

«L'odore terribile attirò dopo pochi giorni i familiari, che trovarono la famosa foiba di Vines. I miei compagni si calarono con delle tute in gomma di Marina, guanti fino al gomito e autorespiratori con le bombole sulla schiena. Si poteva resistere appena 30 minuti. Prima di iniziare l'operazione li costringevano a bere diversi sorsi di cognac per sopportare l'orrore. I corpi riesumati venivano allineati sul prato ed i parenti turandosi naso e bocca con i fazzoletti, per l'odore terribile della putrefazione, cercavano di riconoscere il congiunto fra scene strazianti di dolore e pianto. I volti erano quasi sempre consumati, ma il riconoscimento avveniva grazie ai denti, i resti dei vestiti o un pettinino».

Lei cosa faceva?

«Recuperavo altri cadaveri sotto le macerie soprattutto a Pisino e alla sera lavavo le tute di chi si calava nelle foibe. Non me lo dimenticherò mai».

L'odissea è iniziata l'8 settembre 1943?

«Sinceramente non me ne importava nulla della guerra. Come perito agrario mi avevano assegnato a mansioni d'ufficio alla base del genio vicino a Fiume, oggi la croata Rijeka. L' 8 settembre uno dei commilitoni si mise a gridare: Una grande notizia, la guerra è finita. Subito dopo andai al comando e dietro la scrivania del colonnello era seduto il capo dei partigiani, il figlio di Marco, l'oste del paese. Mi offrì di scappare con abiti borghesi, ma gli dissi che non potevo tradire i miei compagni».

Il reparto cosa fece?

«Armi in pugno ci dirigemmo verso Pola cercando di evitare i tedeschi. Ad un certo punto il mio camion si guastò ed i partigiani ci circondarono. Uno mi puntò il fucile a distanza ravvicinata ed io la pistola alla pancia dicendogli: Se spari lo faccio pure io. Alla fine riuscimmo a proseguire».

Per poi finire nelle mani dei tedeschi...

«A Pola ci intimarono di consegnare le armi e di levare le stellette. Al momento della resa un capitano impugnò la pistola. Gli gridai no, non lo faccia. Lui rispose: Non posso assistere a quello che accadrà. E si sparò. Tanti soldati furono deportati in Germania, ma la mia squadra finì a riesumare le vittime dei partigiani. Nel novembre 1943, grazie a documenti falsi, tornai a casa, ma non ho mai dimenticato le prime foibe».

Le umiliazioni infinite di noi italiani d'Istria. Da 70 anni siamo dimenticati e vessati perfino se dobbiamo rifare il codice fiscale, scrive Tito Delton, Mercoledì 8/02/2017 su "Il Giornale". Gentile direttore, chi vi scrive è un esule istriano, nato a Dignano d'Istria (Pola) nel 1941, la cui famiglia... meglio... che, con la mamma e la sorella (mio papà, purtroppo...), è scappato dall'Istria ed è giunto a Torino nel novembre del 1945 per non muoversi più. Per sommi capi mi sono presentato, ma perché, vi direte, vi sto scrivendo? Perché sono esausto, quasi stremato, comunque tanto arrabbiato dentro nel dover sempre «raccogliere», dal 1947 ininterrottamente fino al 2017, notizie, fatti, offese che hanno investito noi giuliani, gli «italiani dimenticati», esuli cui non è mai venuta meno la voglia di controbattere a vigliaccate sovente effettuate con volontà effettiva o, comunque, dettate da una ignoranza che sa di cattiveria anche maggiore. Mi spiego meglio. Mi spiego ancora meglio e vado nel particolare. Credo possano bastare alcuni episodi che sono accaduti nelle quattro annate indicate più sotto, per far comprendere la mia, nostra amarezza, nonostante ci siano altri casi che stridono enormemente, ma questi sono esemplari per come accaduti.

2014-2016. Nel mese di aprile del 2014 leggo un titolo a grandi caratteri, sul giornale La Stampa: «Mai case popolari ai fascisti Gli esuli istriani senza pace». Il tutto si riferisce al fatto che da quasi sessant'anni gli esuli istriani alloggiati nelle case popolari di Lucento a Torino non possono ancora acquistare, a prezzi di favore come una apposita legge del 1955 prevede, gli alloggi in cui abitano e che chi si oppone sono diverse associazioni politiche, tra cui l'Anpi (i partigiani italiani), gli stessi che nella ricorrenza del 10 febbraio 2016, nostro Giorno del Ricordo, si sono adombrati perché era stata organizzata una piccola cerimonia al Camposanto Monumentale di Torino davanti al significativo monumento che ricorda i nostri Morti (lo riferisce sempre il quotidiano La Stampa). Assurdo: c'è ancora qualcuno che continua a vedere rosso, al solo nominare gli istriani: ma, insisto nel chiedermi, cosa abbiamo fatto di tanto grave?

2015-2016. Il sottoscritto, come succede, credo, a tutti i pensionati, nel mese di gennaio riceve il Cud dell'Inps con, quell'anno, un ulteriore foglio allegato. Sul foglio, in calce, è scritto che «Il suo codice fiscale non è validato», quindi viene indicato l'ufficio dell'Inps ove rivolgersi. Vado in Corso Turati, a Torino, faccio quasi un'ora di coda e subito dopo mi viene detto che per quelle cose devo uscire, girare a destra e salire al nono piano. Qui incontro un impiegato, molto cortese, che mi chiarisce il problema. Il sistema informatico dell'Inps non recepisce che io sia nato a Dignano d'Istria, in Italia, nel 1941 e pertanto se voglio continuare a prendere la pensione (meno di 800 euro!) devo inserire un altro dato. Mi viene suggerito, da quel signore che, evidentemente, è un burocrate alla massima potenza, di inserire Slovenia o Croazia ed io quasi svengo dall'affronto. Gli faccio notare e gli sottopongo il testo di una legge apposita (che mi porto sempre in tasca o in una agenda) che il nostro governo ha predisposto, la legge 54 del 15 Febbraio 1989, in cui è specificato molto bene che «Tutte le amministrazioni dello Stato, del parastato, degli enti locali e qualsiasi altro ufficio o ente, nel rilasciare attestazioni, dichiarazioni, documenti in genere, a cittadini italiani nati in comuni già sotto la sovranità italiana ed oggi compresi nei territori ceduti ad altri Stati, ai sensi del trattato di pace con le potenze alleate ed associate, quando deve essere indicato il luogo di nascita dell'interessato, hanno l'obbligo di riportare unicamente il nome italiano del comune, senza alcun riferimento allo Stato cui attualmente appartiene». Al mio rifiuto e per ovviare all'errore mi propone, Slovacchia... Moldavia... Ungheria, persino Turchia! Ovvio che rifiuto e l'impiegato, forse disperato in quel momento, mi propone una «cosetta» che sa di alieno, di sovrannaturale: devo accettare, sempre per poter continuare a riscuotere la pensione, di essere nato a «EE». Ma vi rendete conto? Ricordate le targhe automobilistiche degli stranieri che venivano in Italia e degli italiani che andavano all'estero i quali, anni addietro, dovevano appiccicare quella targa che significava Escursionista Estero? Pazzesco, ma ho dovuto cedere e se non bastasse vi informo che verso la fine del 2016, al ricevimento di una pratica Inps è scritto, ancora, che sono nato in «EE». Demoralizzante.

2017. Una signora istriana, nata a Pola nel 1938, poche settimane addietro si reca in un ufficio della Regione Piemonte, in Piazza Castello, in quanto deve rifare le pratiche per riavere un tesserino di libera circolazione che le era stato rubato con la borsetta mesi fa. Ad un certo punto l'impiegato (che già l'aveva fatta girare da un ufficio all'altro, senza comprendere cosa volesse!) le chiede le generalità e quando si tratta di indicare sul documento la nazione dove la signora è nata, lei risponde Italia: nel 1938 l'Istria faceva parte (come da circa due millenni: vedere Roma e Venezia!) della nostra nazione. «No - le risponde l'impiegato - Italia non viene accettata». Gli fa notare che c'è una legge apposita, gliela mostra tirando fuori dalla borsetta dei fogli in A4, lui duro dice che può solo scrivere «Stato estero». Ma come, stato estero, se era Italia, se c'è una legge specifica! Niente da fare. Deve accettare. Poco prima di uscire, però, la signora si volta e quasi piangendo, gli dice: «Ma lei sa che sono morti quasi 600mila nostri connazionali, di tutte le regioni della penisola, per riportare Trieste, l'Istria, Fiume e la Dalmazia nei nostri confini?». Quello muto e quasi le ride in faccia. Quanto narrato è solo la punta dell'iceberg che riguarda le storture che noi «italiani dimenticati» dobbiamo subire.

La scuola dà un premio a chi disimpara le foibe. Crediti formativi per gli alunni che partecipano a un convegno dove si minimizza la tragedia..., scrive Fausto Biloslavo, Martedì 7/02/2017, su "Il Giornale". Una giovane partigiana con la stella rossa, la stessa dei boia di Tito che hanno scaraventato nelle foibe migliaia di italiani. Uno storico che spiegherà agli studenti come «gli infoibati» fossero «una minoranza di poche decine di persone». E gli esuli che attendono ancora un cenno dal capo dello Stato, Sergio Mattarella, per un incontro al Quirinale, dopo la sua seconda assenza alle commemorazioni il 10 febbraio. Non un giorno qualunque, ma il ricordo degli istriani, fiumani e dalmati costretti alla fuga dalle violenze di Tito alla fine della seconda guerra mondiale. Nel nostro bizzarro Paese il 10 febbraio, che commemora per legge questo dramma, spuntano incontri e manifestazioni patrocinati con soldi pubblici, che negano o riducono i crimini delle foibe. Domenica prossima, non a caso ad Arcore, residenza di Silvio Berlusconi, il Comune e l'Associazione partigiani organizzano un incontro che non lascia dubbi: «Io ricordo...tutto - Operazione foibe fra storia e mito». Il «tutto» riguarda ovviamente le nefandezze contro gli slavi compiute dal regime fascista e dall'esercito italiano prima e durante la seconda guerra mondiale. La relatrice, presentata dall'assessore alla Cultura di Arcore, è Claudia Cernigoi nota «eroina» di chi tende a ridurre, se non a negare il dramma delle foibe. «Si tratta di soggetti idonei più a celebrare gli infoibatori che a rendere omaggio agli infoibati» scrive Paolo Sardos Albertini, presidente del Comitato martiri delle foibe, al sindaco di Arcore. La deputata locale di Forza Italia, Elena Centemero, bolla come «sconcertante l'iniziativa patrocinata dal Comune di Arcore». Non è l'unico caso. A Firenze gli esuli sono in subbuglio per un evento legato al 10 febbraio gestito dall'Associazione partigiani e rivolto ad un pubblico di studenti. I senatori Maurizio Gasparri e Carlo Giovanardi hanno presentato un'interrogazione parlamentare al ministro dell'Istruzione, Valeria Fedeli per un altro evento. I politici da sempre vicini agli esuli «hanno appreso che l'11 febbraio le associazioni Resistenza e Antifascismo militante» organizzano «a Costa Volpino, frazione di Corti, (l'evento) dal titolo Foibe e che ha, come sottotitolo, ... approfondimento critico...». Come ha raccontato ieri il Tempo, il protagonista del dotto convegno è lo storico Piero Purini altro riduzionista. Purini si era scagliato contro lo spettacolo teatrale Magazzino 18 di Simone Cristicchi, che ha portato con grande successo sul palcoscenico il dramma delle foibe e dell'esodo. Secondo lo storico «gli infoibati furono una minoranza di poche decine di persone». E «sull'esodo, ha giocato molto di più la paura di un sistema economico e politico demonizzato dal fascismo, dalla Chiesa e dall'influente DC che di là dal confine spingeva per la partenza del maggior numero di persone». I senatori chiedono al ministro dell'Istruzione «se non ritenga scandalosa, in occasione delle giornate di commemorazione di un episodio ormai riconosciuto, dopo anni di oblio, dalla storia ufficiale, che associazioni nostalgiche del comunismo organizzino una conferenza che offende la memoria delle tante vittime italiane». Ed ancora «se non ritenga incompatibile con le commemorazioni l'assegnazione di crediti formativi per gli studenti partecipanti a questo evento». Una tragica beffa per il 10 febbraio, che ha spinto Gasparri e Giovanardi a scrivere una seconda lettera al presidente della Repubblica invitandolo ad incontrare gli esuli al Quirinale. Mattarella, al contrario di Napolitano e Ciampi, non l'ha mai fatto e per la seconda volta il 10 febbraio sarà all'estero. Domenica ha trovato tempo per assistere alla partita dell'Italia di rugby nel torneo delle 6 nazioni ed il 9 febbraio sarà a Torino per i 150 anni del quotidiano la Stampa. I senatori sottolineano, che gli esuli «le hanno chiesto di essere ricevuti in occasione della Giornata del Ricordo del 10 febbraio, che nel 70° anniversario della perdita di quel pezzo d'Italia ricopre una particolare solennità». A Mattarella si fa presente che «le Associazioni, come le abbiamo più volte segnalato, sono disponibilissime ad incontrarLa anche nei giorni antecedenti o successivi al 10 di febbraio, perché l'Italia nella sua massima espressione istituzionale riconfermi la solidarietà e l'affetto nei confronti di quei concittadini che più di tutti hanno pagato i disastri della Seconda guerra mondiale».

Resistenza, la ferita dell'eccidio di Porzus si rimargina 72 anni dopo. Per la prima volta una delegazione ufficiale dell'Anpi alla cerimonia. Nel centro friulano i Gap vicini a Tito trucidarono 17 partigiani della brigata Osoppo, scrive il 5 febbraio 2017 "La Repubblica". Una ferita che si rimargina dopo 72 anni: è quella dell'eccidio di malga Porzus - al confine orientale del Paese - dove tra il 7 e il 18 febbraio del 1945 i Gruppi di azione patriottica (Gap) di Mario Toffanin (1912-1999), detto "Giacca", organici al IX Corpus di Tito, arrestarono e trucidarono senza processo 17 partigiani della Brigata Osoppo, i cosiddetti "fazzoletti verdi", guidati da Francesco De Gregori (Bolla), zio del cantautore, e dei quali faceva parte anche Guido Pasolini (Ermes), fratello del poeta e regista Pier Paolo. A chiudere quella ferita è stata una cerimonia alla quale ha partecipato, in maniera ufficiale per la prima volta, una delegazione dell'Anpi (Associazione Nazionale Partigiani d'Italia), guidata dal presidente regionale, Dino Spanghero. A sottolineare la portata storica dell'evento c'erano il sottosegretario alla Difesa Domenico Rossi, la presidente del Friuli Venezia Giulia, Debora Serracchiani, e il presidente del Consiglio regionale, Franco Iacop. "La Resistenza al confine orientale è stata ancora più dura - ha ricordato Spanghero - poiché all'aspetto della liberazione dal nazifascismo si erano aggiunti i temi legati all'italianità di queste terre". Lo stesso Giorgio Napolitano, quando era Presidente della Repubblica, parlò di Porzus come di "una zona d'ombra del movimento di liberazione". Parole richiamate oggi da Rossi che ha sottolineato che, "senza nascondere una realtà storica che esiste, tutta la Resistenza racchiude in sé i valori fondamentali della nostra Costituzione, gli stessi valori che sono di riferimento al Paese". "Valori - ha aggiunto Iacop - che sono oggi ancora attuali e dei quali la cerimonia di Porzus rappresenta un momento di sintesi". "Una giornata storica", ha detto Serracchiani per "un gesto che assume - ha sottolineato - un significato di pace e di riconciliazione". Erano stati don Redento Bello (Candido), padre spirituale dei partigiani "osovani", e Giovanni Padoan (Vanni), già comandante della divisione Garibaldi-Natisone, nel 2001-2003, ad aprire la strada della riappacificazione o, per lo meno, della condivisione dell'immane tragedia che condizionò non poco la vita politica di queste terre fino a qualche decennio fa. Ma il loro abbraccio e la loro "preghiera comune" a Porzus non venne raccolta dai dirigenti dei due sodalizi - l'Associazione Partigiani Osoppo e l'Associazione nazionale partigiani d'Italia - che rimasero abbastanza freddi e sulle rispettive posizioni quanto alle responsabilità dell'eccidio. Oggi la presenza dell'Anpi ha messo la parola "fine" a una delle pagine più buie e tristi della Guerra di liberazione nazionale. "La democrazia non è un dono, ma una conquista", ha detto il sindaco di Faedis, Claudio Zani, nella cerimonia durante la quale Rossi ha consegnato medaglie della Resistenza a quattro partigiani: Fioravate Bucco, di Forni di Sopra; Alessandro Dorigo, di Roveredo di Varmo (alla memoria); Bruno Moretti e Guido Ravenna, di Treviso. 

La rivolta degli istriani: "L'Italia dimentica le foibe". Il Quirinale giustifica le assenze di Mattarella e Grasso. Gli esuli protestano: "Da anni nessuna visita di Stato", scrive Fausto Biloslavo, Sabato 4/02/2017, su "Il Giornale". «Dopo 70 anni continuiamo a venire considerati figli di un Dio minore. Quando il Quirinale ci ha risposto in modo gentile, ma fermo, che il presidente sarebbe stato all'estero per il giorno del ricordo come esuli abbiamo chiesto almeno un incontro con una delegazione al Colle attorno al 10 febbraio. Non ci è arrivata ancora risposta». Parole amare pronunciate da Antonio Ballerin, il presidente della Federazione che raggruppa 5 delle 6 associazioni del mondo degli esuli istriani, fiumani e dalmati. Dopo l'articolo del Giornale di ieri sul presidente Sergio Mattarella, assente al ricordo delle foibe e l'esodo, il Quirinale ha inviato una nota. «Il presidente del Senato, Pietro Grasso, rappresenterà il Capo dello Stato alla cerimonia solenne del Giorno del Ricordo (che commemora le vittime delle foibe), che avrà luogo il 10 febbraio a Roma alla Camera dei deputati» scrivono dal Colle. Peccato che fino al 30 gennaio Grasso doveva recarsi alla foiba di Basovizza, simbolo della tragedia. Il vice presidente del Senato, Maurizio Gasparri, di centro destra, conferma al Giornale: «Il segretario generale del Quirinale, Ugo Zampetti, mi aveva confermato due volte che il Capo dello Stato aveva delegato il presidente del Senato a recarsi alla foiba di Basovizza. Sinceramente non ci sarebbero stati problemi con un volo di Stato a presenziare sia a Trieste che alla Camera a Roma. Oppure si potevano ritoccare gli orari, ma la presenza sul luogo fisico dove sono stati infoibati gli italiani è importante». La nota del Quirinale prosegue confermando che il 10 febbraio «il Presidente Mattarella sarà impegnato a Madrid, su invito del Re di Spagna, per l'annuale incontro trilaterale tra i Capi di Stato di Italia-Spagna-Portogallo». In realtà sul sito del Colle il mini vertice è catalogato come «XI Simposio COTEC Europa», un forum sull'innovazione dell'economia circolare. Non solo: i due presidenti e il re prenderanno la parola nel primo pomeriggio alla fine del simposio, che non sembra così importante. Se Mattarella, come avrebbe dovuto fare Grasso, si fosse recato alla foiba di Basovizza alle 10 e subito dopo avesse deposto la corona e consegnato le medaglie ai parenti degli infoibati, sarebbe arrivato tranquillamente in tempo con un volo di tre ore a Madrid. «Prendiamo atto con molto rammarico e dispiacere che le massime cariche dello stato non siano presenti a Basovizza - dichiara al Giornale, Massimiliano Lacota, presidente dell'Unione degli istriani - Capisco tutto, ma sono passati 24 anni dall'ultimo presidente che si è recato sulla foiba». La nota del Quirinale sottolinea che «il 26 ottobre scorso, in occasione della sua visita a Gorizia, il Presidente Mattarella ha reso omaggio al Lapidario che ricorda i morti delle Foibe nel Parco della Rimembranza dove ha anche incontrato i familiari della vittime». La Regione Friuli-Venezia Giulia, fin da settembre, il Comune di Trieste e gli esuli avevano insistito per la presenza di Mattarella il 10 febbraio. Prima di fissare impegni internazionali possibile che il Quirinale non sapesse che questo 10 febbraio non solo era il settantennale dalla firma del trattato di pace che ha mutilato l'Italia dell'Istria e della Dalmazia, ma sono pure passati 10 anni da quando la foiba è stata dichiarata unico monumento nazionale del genere? Dal Colle confermano, come abbiamo scritto ieri, che anche il precedente 10 febbraio «il Presidente Mattarella era a Washington per una visita di Stato su invito degli Stati Uniti». Ballarin non ha dubbi: «I nostri diritti negati sono evidentemente meno importanti di diritti negati di altre comunità, che hanno sofferto. Noi abbiamo nelle nostre fila molti ebrei. I loro rappresentanti sono stati accolti, giustamente, al Quirinale il Giorno della Memoria dell'olocausto la scorsa settimana. Di noi esuli il presidente si è dimenticato». 

PADRI DELLA PATRIA: LA NOSTRA ROVINA.

 «Onorevoli colleghi, l'opinione pubblica non ha in questo momento molta simpatia e fiducia per i deputati. Vi è un'atmosfera di sospetto e discredito, la convinzione diffusa che molte volte l'esercizio del mandato parlamentare possa servire a mascherare il soddisfacimento di interessi personali e diventi un affare, una professione, un mestiere». La solita tirata contro la casta di qualche parlamentare del Movimento cinque stelle? Macché. Frasi di Piero Calamandrei, giurista, antifascista, partigiano e deputato eletto col Partito d'azione all'Assemblea costituente. Parole pronunciate nel lontano 1947, mentre a Montecitorio era in discussione l'articolo 69 della Costituzione, relativo allo stipendio dei parlamentari. Il paradosso è che all'epoca i costituenti guadagnavano quanto un precario di oggi: 25 mila lire al mese, circa 800 euro. Più un gettone di presenza da 1.000 lire al giorno (30 euro), ma solo quando le commissioni si riunivano in giorni differenti rispetto all'Aula. Insomma, per quanto diligenti, i 556 rappresentanti che scrissero la Costituzione non riuscivano a portare a casa più di 1.300 euro al mese. Roba da far apparire i grillini - che, al netto dei rimborsi, trattengono circa 3 mila euro - degli sfacciati crapuloni.

«"La politica è una brutta cosa", "che me ne importa della politica": quando sento fare questo discorso, mi viene sempre in mente quella vecchia storiellina, che qualcheduno di voi conoscerà, di quei due emigranti, due contadini, che traversavano l'oceano su un piroscafo traballante. Uno di questi contadini dormiva nella stiva e l'altro stava sul ponte e si accorgeva che c'era una gran burrasca con delle onde altissime e il piroscafo oscillava: E allora questo contadino impaurito domanda a un marinaio: "Ma siamo in pericolo? ", e questo dice: "Se continua questo mare, il bastimento fra mezz'ora affonda". Allora lui corre nella stiva a svegliare il compagno e dice: "Beppe, Beppe, Beppe, se continua questo mare, il bastimento fra mezz'ora affonda! ". Quello dice: " Che me ne importa, non è mica mio! ". La politica non è una piacevole cosa. Però la libertà è come l'aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare, quando si sente quel senso di asfissia…» La sintesi del discorso pronunciato da Piero Calamandrei il 26 gennaio 1955 a un gruppo di studenti liceali e universitari a Firenze.

L'impero romano? Cadde per i pochi nati e i troppi stranieri. Arriva da noi il libro che ha diviso la Francia per il polemico parallelo tra il passato e oggi, scrive Rino Cammilleri, Venerdì 30/09/2016, su “Il Giornale”. Già esaurito e in ristampa, il libro dello storico Michel De Jaeghere Gli ultimi giorni dell'Impero Romano che arriva ora in Italia (Leg, pagg. 624, euro 34), è uscito due anni fa in Francia e, là, ha sollevato un putiferio. Perché? Perché l'autore dimostra che quella civiltà collassò per le seguenti cause: a) crollo demografico, per far fronte al quale si inaugurò b) una persecuzione fiscale che c) distrusse l'economia; allora si cercò vanamente di ovviare tramite d) l'immigrazione massiccia. Che però si trascurò di governare. Se tutto questo ci ricorda qualcosa, abbiamo azzeccato anche il motivo per cui gli intellò politicamente corretti d'oltralpe sono insorti. La vecchia tesi di Edward Gibbon, che è settecentesca e perciò più vecchia del cucco, forse poteva andar bene a Marx, ma non ha mai retto: non fu il cristianesimo a erodere l'Impero Romano, per la semplice ragione che la nuova religione era minoritaria e tale rimase a lungo anche dopo Costantino. L'Impero cessò ufficialmente nel V secolo, quando i cristiani erano neanche il dieci per cento della popolazione. Solo nella pars Orientis erano maggioranza. Infatti, Bisanzio resse altri mille anni: quelli che combattevano per difenderla erano tutti cristiani. E pure a Occidente erano cristiani soldati (inutilmente) vittoriosi come Ezio e Stilicone. Michel De Jaeghere, direttore del Figaro Histoire, fa capire che tutto cominciò col declino demografico. I legionari, tornati a casa dopo anni di leva, mal si adattavano a una condizione di lavoratori che, quanto a profitto, li metteva a livelli quasi servili. Così andavano a ingrossare la plebe urbana, cui panem et circenses gratuiti non mancavano. Le virtù stoiche della pietas e della fidelitas alla res publica vennero meno, e il contagio, al solito, partì dalle élites. Nelle classi alte si diffuse l'edonismo, per cui i figli sono una palla al piede. Coi costumi ellenistici dilagarono contraccezione, concubinaggio e divorzio, tant'è che Augusto dovette emanare leggi contro il celibato. Inutili. Anche perché, secondo i medesimi costumi, l'omosessualità era aumentata in modo esponenziale. Roma al tempo di Cesare aveva un milione di abitanti: sotto Romolo Augustolo, l'ultimo imperatore d'Occidente, solo ventimila. Già nel II secolo dopo Cristo l'aborto aveva raggiunto livelli parossistici e, da misura estrema per nascondere relazioni illecite, era diventato l'estremo contraccettivo. Solo i cristiani vi si opponevano, ma erano pochi e pure periodicamente decimati dalle persecuzioni. Così, ogni volta i censori dovevano constatare che di gente da tassare e/o da mandare a difendere il limes ce n'era sempre meno. Le regioni di confine divennero lande semivuote, tentazione fortissima per i barbari dell'altra parte. Si pensò allora di arruolarli: ammessi ai benefici della civiltà romana, ci avrebbero pensato loro a difendere le frontiere. E ci si ritrovò con intere legioni composte da barbari che non tardarono a chiedersi perché dovevano obbedire a generali romani e non ai loro capi naturali. Metà di loro erano germanici, e si sentivano più affini a quelli che dovevano combattere. La spinta all'espansione era cessata quando i romani si erano resi conto che, schiavi a parte, in Europa c'era poco da depredare. I barbari, invece, vedevano i mercanti precedere le legioni portando robe che li sbalordivano (e ingolosivano). Si sa come è andata a finire. Intanto, che fa il fisco per far fronte al mancato introito (dovuto alla denatalità)? La cosa più facile (e stupida) del mondo: aumenta le tasse. Solo che gli schiavi non le pagano, e sono il 35% della popolazione. Gli schiavi non fanno nemmeno il soldato. I piccoli proprietari, rovinati, abbandonano le colture, molti diventano latrones (cosa che aumenta il bisogno di soldati). Il romano medio cessa di amare una res publica che lo opprime e lo affama, e non vede perché debba difenderla. Nel IV secolo gli imperatori cristiani cercarono di tamponare la falla principale con leggi contro il lassismo morale, intervenendo sui divorzi, gli adulteri, perfino multando chi rompeva le promesse matrimoniali. Ma ormai era troppo tardi, la mentalità incistata e diffusa vi si opponeva. Già al tempo di Costantino le antiche casate aristocratiche erano praticamente estinte. L'unica rimasta era la gens Acilia, non a caso cristiana. Solo una cosa può estinguere una civiltà, diceva Arnold Toynbee: il suicidio. Quando nessuno crede più all'idea che l'aveva edificata. Troppo sinistro è il paragone con l'oggi, sul quale, anzi, il sociologo delle religioni Massimo Introvigne in un suo commento al libro di De Jaeghere ha infierito affondando il coltello nella piaga: i barbari che presero l'Impero non avevano una «cultura forte» e riconoscevano la superiorità di quella romana. Infatti, ne conservarono la nostalgia e, alla prima occasione, ripristinarono l'Impero (Sacro e) Romano. Si può dire lo stesso degli odierni immigrati islamici? I quali pensano che la «cultura superiore» sia la loro?

Da Poitiers a Lepanto. Non dimentichiamo chi ci salvò dall'islam. Occidente senza memoria, scrive Magdi Cristiano Allam, Domenica 09/10/2016, su "Il Giornale”. Domani, 10 ottobre, nessuno Stato europeo e nessuna Chiesa cristiana commemorerà l'anniversario della battaglia di Poitiers del 732, in cui Carlo Martello sconfiggendo l'esercito di al-Andalus condotto dall'emiro Abd-al Rahman ibn Abdallah al Ghafiqi, arginò l'avanzata islamica per la conquista dell'Europa, dopo aver sottomesso all'islam le altre due sponde del Mediterraneo le cui popolazioni erano al 98% cristiane, la Spagna e la Sicilia che resteranno dominate dagli islamici rispettivamente per circa otto e quattro secoli. Venerdì scorso, il 7 ottobre, è passato in silenzio l'anniversario della battaglia di Lepanto del 1571, in cui su iniziativa di Papa Pio V la flotta della cristiana Lega Santa guidata da Don Giovanni d'Austria, sconfisse la flotta islamica dell'impero ottomano guidata da Mehmet Alì Pascià. Lo scorso 11 settembre, come di consueto si è ricordato l'attentato alle Due Torri Gemelle del 2001 ma non la battaglia di Vienna del 1683, quando gli eserciti della cristiana Lega Santa, comandata dal re polacco Jan III Sobieski, riuscirono a sconfiggere l'esercito islamico dell'Impero ottomano comandato dal gran visir Merzifonlu Kara Mustafa Pascià, per volontà del Papa Innocenzo XI e grazie all'opera del frate cappuccino Marco d'Aviano. Così come il prossimo 2 gennaio ci dimenticheremo della Reconquista, quando nel 1492 i re cattolici Ferdinando e Isabella liberarono la Penisola Iberica dall'islam espellendo l'ultimo dei governanti moreschi Boabdil Granada, ponendo fine a una dominazione iniziata nel 711. Addirittura la Chiesa cattolica, iniziando da Giovanni Paolo II e con Francesco, si vergogna e ha condannato le Crociate, nonostante che dalla morte di Maometto nel 632 fino a quando i cristiani organizzarono le Crociate a partire dal 1095, ovvero 463 anni dopo, gli islamici avessero già occupato con le guerre e sottomesso con la violenza i cristiani sulla sponda orientale e meridionale del Mediterraneo, in Spagna e in Sicilia, a Bari dove fondarono un Emirato islamico durato 25 anni a partire dall'847, a Roma invasa due volte saccheggiando le Basiliche di San Pietro e di San Paolo nell'830 e nell'846. La Storia ci insegna che l'unico appunto che casomai potremmo muovere alle Crociate è che furono fatte troppo tardi, che bisognava intervenire prima per salvare i cristiani nel Mediterraneo e in Europa, e non soltanto per riscattare il Santo Sepolcro. Ma soprattutto la Storia attesta che se non ci fossero stati Poitiers, le Crociate, La Reconquista, Lepanto e Vienna, tutti noi in Europa non beneficeremmo dell'unica civiltà che esalta la sacralità della vita, la dignità della persona e la libertà di scelta, all'opposto saremmo costretti a prostrarci al loro dio Allah che è violento e vendicativo con i non musulmani e a emulare Maometto che per aver personalmente sgozzato e decapitato centinaia di «miscredenti» oggi verrebbe arrestato e condannato per crimini contro l'umanità. Ebbene non solo rinneghiamo la memoria delle guerre che hanno preservato la cristianità e consentito lo sviluppo della democrazia in Europa, ma odiamo a tal punto noi stessi da voler abolire persino le due principali festività cristiane, il Natale e la Pasqua, spogliandole del loro contenuto religioso e ride nominandole «vacanze d'Inverno» e «vacanze di Primavera». Quest'Europa che vergognandosi della propria storia si è ridotta ad una terra di nessuno che viene concepita dagli islamici come una terra di conquista. Svegliamoci! Liberiamoci della deleteria vocazione al suicidio e della malattia infantile dell'auto-colpevolizzazione per liberare l'Europa dalla sudditanza all'islam.

Massoneria e Comunismo. Il socialista Mussolini come vedeva nel 1919 il socialismo-comunismo: «Sulla Rivoluzione russa mi domando se non è stata la vendetta dell'ebraismo contro il Cristianesimo, visto che l'ottanta per cento dei dirigenti dei Soviet sono ebrei... La finanza dei popoli è in mano agli ebrei, e chi possiede le casseforti dei popoli dirige la loro politica.» Il giornalista Mussolini e la finanza internazionale. Articolo pubblicato su "Il Popolo d'Italia" del 4 giugno 1919. "I COMPLICI. I proletari evoluti e coscienti che gridano “Viva Lenin!” credendo di gridare “Viva il socialismo “, non sanno certamente ch'essi gridano “Abbasso il socialismo! “I falsi pastori che “mangiano e bevono” alle spalle delle masse sempre pronte a giurare, se non a morire, per gli ideali nuovi e lontani, danno ad intendere che quel che si è instaurato in Russia è socialismo. Colossale menzogna! In Russia si è stabilito il governo di una frazione del Partito socialista. In Russia i proletari lavorano come prima; sono sfruttati come prima perché devono mantenere una burocrazia innumerevole e succhiona, secondo la testimonianza non sospetta del capitano Sadoul; sono mitragliati come prima non appena osino insorgere contro il regime che li condanna alla schiavitù e alla fame; invece di uno czar ce ne sono, oggi, due, ma le forme e i metodi dell'autocrazia non sono affatto cambiati. Si capisce perfettamente che alcuni scrittori venuti dagli ambienti borghesi, abbiano delle simpatie per il bolscevismo. C'è in Russia uno Stato, un Governo, un ordine, una burocrazia, una polizia, un militarismo, delle gerarchie. Ma il socialismo non c'è. Non c'è nemmeno il cominciamento del socialismo, non c'è niente che somigli ad un regime socialista. Il leninismo è la negazione perfetta del socialismo. E' il governo di una nuova casta di politicanti. Gli è per questo che è assai difficile trovare degli apologisti del leninismo fra le teste pensanti del socialismo russo e del socialismo occidentale. Le più stroncanti requisitorie contro il leninismo non sono venute dai borghesi, ma da uomini che avevano lottato e sofferto per la redenzione della massa operaia. Questi uomini si chiamano Piekanoff, il maestro dei marxisti russi; si chiamano Kropotkin, l'apostolo dell'anarchia. La demolizione dei metodi di governo leninista non è opera del "Times", ma di un Axelrod, chiamato il decano dei socialisti russi; di un Souckhomline, collaboratore per lungo tempo dell' "Avanti". Il manifesto del Partito operaio russo e dei socialisti menscevichi, non sono stati stampati dal "Corriere della Sera", ma da "Critica Sociale". Non sono state inventate da noi "rinnegati" - che in questo caso (è strano ma vero!) difendiamo il socialismo!.- le pagine di Bernstein, di Kautsky, di Eisner, di Troelstra, di Branting e di infiniti altri socialisti, che si sono schierati contro la “caricatura del socialismo realizzatasi tra Pietrogrado e Mosca”. Non siamo noi, ma un dott. Totomianz, veterano della cooperazione russa che nell'ultimo numero della “Critica Sociale” di FilippoTurati, stampa queste parole eloquentissime: "I bolscevichi hanno creato, in fin dei conti, non già una vera democrazia bensì la denominazione della plebaglia, una oclocrazia che non si arresta davanti a nessun mezzo terroristico in una guerra di sterminio contro la borghesia e gli intellettuali." Infinite volte, e specialmente dopo il congresso di Berna, noi abbiamo prodotto documenti inconfutabili della vera natura del regime russo. Chi non ricorda la lettera di Alexeyev e quella della vedova di Plekanoff ? Noi riaffermiamo che il leninismo non ha niente di comune col socialismo, eppure i socialisti ufficiali italiani, con clamori minacciosi, chiamano al soccorso per salvare la Russia. Ma la Russia non ha bisogno di essere salvata, perché non corre pericolo alcuno. Chi sostiene il bolscevismo - ficcatevelo bene in testa, miei cari proletari! - non è la forza del popolo russo che subisce, dopo aver cercato di spezzarlo, quel regime di barbarie contro il quale sono più volte insorti e anarchici e socialisti rivoluzionari, con tentativi soffocati spietatamente nel sangue; chi sostiene il bolscevismo non è il famoso esercito rosso che esiste nelle carte di Trotzky, non nella realtà. Il giornale 'Humanité' del 30 maggio, reca la testimonianza imparziale del signor Paolo Birukoff, il quale, a proposito dell'esercito rosso, in cotal nonché significativa guisa si esprime: "Il popolo russo, così pacifico, detesta la guerra oggi, come ieri, come sempre. Oppone una resistenza accanita al reclutamento." Altro che entusiastica risposta agli ordini di mobilitazione, secondo ci narravano gli imbonitori dei crani proletari d'Italia. Il signor Birukoff dice qualche cosa di ancora più interessante: "Ci sono tanti disertori nell'armata rossa, quanti ce ne erano nell'esercito dello zar. Accade che un reggimento non arriva alla tappa designata perché tutti gli uomini si sono sbandati strada facendo..." Ed è questo esercito di sbandati che ferma Mannerheim e Kolcak? Mai più. Se Pietrogrado non cade, se Denikin segna il passo, gli che è così vogliono i grandi banchieri ebraici di Londra e di New York, legati da vincoli di razza cogli ebrei che a Mosca come a Budapest, si prendono una rivincita contro la razza ariana che li ha condannati alla dispersione per tanti secoli, In Russia l'80 per cento dei dirigenti dei "Soviets" sono ebrei, a Budapest su 22 commissari del popolo ben 17 sono ebrei. Il bolscevismo non sarebbe, per avventura, la vendetta dell'ebraismo contro il cristianesimo? L'argomento si presta alla meditazione. E' possibile che il bolscevismo affoghi nel sangue di un "progrom" di proporzioni catastrofiche. La finanza mondiale è in mano degli ebrei. Chi possiede le casseforti dei popoli, dirige la loro politica. Dietro ai fantocci di Parigi, sono i Rotschild, i Warnberg, gli Schyff, i Guggheim, i quali hanno lo stesso sangue dei dominatori di Pietrogrado e di Budapest. La razza non tradisce la razza. Cristo ha tradito l'ebraismo, ma, opinava Nietzsche in una pagina meravigliosa di previsioni, per meglio servire l'ebraismo rovesciando la tavole dei valori tradizionali della civiltà elleno-latina. Il bolscevismo é difeso dalla plutocrazia internazionale. Questa é la verità sostanziale. La plutocrazia internazionale dominata e controllata dagli ebrei, ha un interesse supremo a che tutta la vita russa acceleri sino al parossismo il suo processo di disintegrazione molecolare. Una Russia paralizzata, disorganizzata, affamata, sarà domani il campo dove la borghesia, si, la borghesia o signori proletari, celebrerà la sua spettacolosa cuccagna. I re dell'oro pensano che il bolscevismo deve vivere ancora, per meglio preparare il terreno alla nuova attività del capitalismo. Il capitalismo americano ha già ottenuto in Russia una concessione grandiosa. Ma ci sono ancora miniere, sorgenti, terre, officine che attendono di essere sfruttate dal capitalismo internazionale. Non si salta, specialmente in Russia, questa tappa fatale nella storia umana. E' inutile, assolutamente inutile, che i proletari evoluti ed anche coscienti, si scaldino la testa per difendere la Russia dei Soviets. Il destino del leninismo non dipende dai proletari di Russia o di Francia e meno ancora da quelli d'Italia. Il leninismo vivrà finché lo vorranno i re della finanza; morirà quando decideranno di farlo morire i medesimi re della finanza. Gli eserciti antibolscevichi che di quando in quando sono colpiti da misteriose paralisi, saranno semplicemente travolgenti ad un momento dato che sarà scelto dai re della finanza. Gli ebrei dei Soviets precedono gli ebrei delle banche. La sorte di Pietrogrado non si gioca nelle steppe gelide della Finlandia; ma nelle banche di Londra, di New York e di Tokio. Dire che la borghesia internazionale vuole oggi assassinare il regime dei Soviets è dire una grossa menzogna. Se, domani, la borghesia plutocratica si decidesse a questo assassinio, non incontrerebbe difficoltà di sorta poiché i suoi “complici”, i leninisti, siedono già e lavorano per lei al Kremlino. MUSSOLINI".

"La Storia senza tabù. Il fascismo si comprende solo giorno per giorno". Hachette, dopo quelli di guerra, porta in edicola i giornali del Ventennio. Per tornare alle fonti, scrive Gianfranco de Turris, Sabato 8/10/2016, su "Il Giornale".  La Storia, passata e recente, si scrive basandosi su testimonianze e documenti, anche se entrambi possono essere analizzati in modo diverso, giungendo a interpretazioni e conclusioni anche opposte a seconda dello storico che se ne occupa. Però sono fondamentali. Ma i documenti pubblici e privati in genere sono custoditi in archivi di difficile o impossibile accesso per la gente comune, per il lettore qualsiasi. Ora però una iniziativa editoriale da edicola porta a disposizione del pubblico una serie di documenti quasi banali, ma fondamentali per capire il nostro recente passato, anche se è ornai di ottanta anni fa. La case editrice Hachette Fascicoli ha pubblicato per un intero anno una serie settimanale intitolata Giornali di guerra 1940-1945 che alla cifra di soli 4,90 euro offriva ogni volta la riproduzione integrale e in formato reale di tre o quattro quotidiani italiani o anche di una intera rivista illustrata dell'epoca, assieme a un manifesto dello stesso periodo, accompagnati da un fascicolo che esamina il momento del conflitto, con articoli, ricostruzioni, foto e cartine geografiche. Ora, giunti alla fine di questa serie di 52 fascicoli, e visto il suo successo, si è pensato di effettuare la stessa operazione con il periodo precedente, vale a dire pubblicare i Giornali del fascismo 1919-1939 (si è partiti infatti dal «biennio rosso»), dal Popolo d'Italia a l'Avanti!, da L'Ambrosiano a La Stampa, o periodici come L'asino. Per sapere di più su questa ulteriore iniziativa di Hachette, ci siano rivolti direttamente a uno dei due autori di tutti gli 87 fascicoli: il professor Marco Cimmino, storico militare, specialista della prima guerra mondiale (alla quale ha dedicato una storia in tre volumi che uscirà l'anno prossimo per Gaspari) e membro del comitato scientifico del festival «èStoria» di Gorizia.

Professore, in cosa consisterà, esattamente, questa ulteriore serie di fascicoli di Hachette?

«I nuovi trentacinque fascicoli copriranno, in pratica, tutto l'arco del Ventennio, terminando là dove erano cominciati i 52 dedicati al conflitto, soffermandosi sui momenti fondamentali della storia del fascismo, dai prodromi fino all'affermazione del Regime, all'epoca del consenso, all'alleanza con la Germania nazista. L'impostazione del prequel è la stessa dei Giornali di guerra: alla copia anastatica di giornali dell'epoca si accompagneranno dei fascicoli di analisi e commento, parte scritti da me e parte da un collega. I giornali vengono selezionati in base a due criteri fondamentali: la varietà, allo scopo di mostrare il più possibile tutte le voci che formavano il coro della stampa di regime, e l'importanza delle notizie oggetto di editoriali e corsivi».

Come è stato impostato il taglio di quest'opera, visto il suo carattere decisamente divulgativo e le sue esigenze, diciamo così, commerciali?

«Il taglio storiografico di tutta l'opera è, come si è detto, divulgativo, ma non per questo il livello va considerato popolare in senso negativo. Ogni fascicolo, infatti, contiene tanto elementi di ricostruzione storica ambientale, allo scopo di descrivere il complesso di avvenimenti che caratterizzarono questo o quel momento della storia del fascismo, quanto analisi, anche abbastanza articolate, sul valore attribuito dalla propaganda fascista ai singoli eventi, cercando, nei limiti del possibile e compatibilmente con lo spirito di un'opera di questo genere, di informare in maniera esatta e di condurre il lettore attraverso un percorso interpretativo del fenomeno fascismo, che ne riproduca l'enorme varietà e complessità. Naturalmente, la quadratura del cerchio sarebbe poter spiegare con parole semplici cose molto complicate, ma qualunque storico sa che è utopistico mirare a simile obbiettivo: tuttavia, gli autori e gli editori hanno creduto nella scommessa di rendere semplice, almeno in parte, un periodo lungo ed articolato delle nostra storia».

Come si è posto nei confronti degli inevitabili pregiudizi ideologici che hanno quasi sempre accompagnato l'analisi storica del fascismo?

«Uno storico, se è un buon professionista, non deve tener conto dei pregiudizi, ma solo della propria scienza, tanta o poca che sia, e delle fonti: l'ideologia e il pregiudizio politico hanno fatto danni enormi alla storiografia contemporanea, oltre che, ovviamente, allo studio scolastico della storia. Io credo sia ormai giunto il tempo di parlare, anche in un'opera ad ampia diffusione e a carattere divulgativo, di questa storia controversa e spesso fatta oggetto di vulgate e manipolazioni storiche di diversa tendenza, in maniera piana e senza tabù ideologici particolari».

All'atto pratico, come avviene, dunque, questo rapporto tra fonti e scienza di cui parla?

«La stretta corrispondenza tra i fascicoli e le copie di giornali e riviste rende molto più comprensibile al pubblico la lettura degli uni e degli altri e, quindi, possiamo dire che, spesso, le fonti parlano da sole: si tratta, in un certo senso, di un'operazione filologica, oltre che storica, in cui si restituisce al documento la funzione di parlare alla gente. E proprio i giornali hanno questa funzione.... Naturalmente ogni documento deve essere, in varia misura, adattato alla divulgazione: essere reso comprensibile e, in un certo senso, tradotto. Proprio qui si manifesta la professionalità degli storici: nella capacità di trasmettere il senso genuino della fonte, rendendola, contemporaneamente, decifrabile da parte del profano».

Il boccaccesco matrimonio di Giuseppe Garibaldi con una minorenne un po’ vivace…, scrive Ignazio Coppola su "I nuovi Vespri" il 4 febbraio 2017. La storiografia ufficiale non parla di questo strano matrimonio mai consumato dall’ ‘Eroe dei due mondi’. E’ una storia di corna che, in effetti, a scuola, i professori avrebbero qualche difficoltà a illustrare ai ragazzi. Visto che non siamo a scuola – e visto che a noi della storia italiana scritta dagli ‘storici’ per conto dei potenti non ce ne può fregare di meno – ve la raccontiamo noi. Buon divertimento… Se Giovanni Boccaccio anziché nel 1300 fosse vissuto qualche secolo più avanti avrebbe certamente scritto una versione aggiornata del suo Decamerone con protagonista principale l’Eroe dei due Mondi, alias Giuseppe Garibaldi, narrando con dovizia di particolari il matrimonio della stagionata camicia rossa con una giovanissima rampolla della nobiltà lombarda di allora, la marchesina Giuseppina Raimondi. Chi meglio di Giovanni Boccaccio avrebbe potuto infatti narrare, aggiornando la sua celebre opera narrativa, il matrimonio celebrato esattamente 157 anni fa, nel gennaio del 1860, a Fino Di Mornasco, in provincia di Como in riva all’omonimo lago, tra il biondo condottiero del risorgimento e la già citata marchesina, di cui pochi, per il complice silenzio della storiografia ufficiale, conoscono l’esistenza. Ma andiamo alla cronaca rosa-nera di quell’evento che, da lieta, nel breve giro di poche ore (infatti durò il breve spazio di un mattino) si trasformò in tragi-comico. Una vicenda che, in conclusione, finì per coprire di ridicolo il nostro Eroe dei due mondi. Correva l’anno 1860 e Garibaldi, da 12 anni vedovo di Anita, a 52 anni suonati si innamora, ai limiti della pedofilia, della appena diciassettenne marchesina Giuseppina Raimondi, alla quale, nonostante i 36 anni di differenza, dichiara in ginocchio tutto il proprio amore, per convincerla al grande passo del matrimonio. La marchesina, prima esitante, alla fine stranamente acconsente. Il 24 gennaio, da don Filippo Gatti, prevosto vicario, vengono celebrate le nozze nella cappella privata della tenuta della famiglia Raimondi, alla presenza del governatore di Como, Lorenzo Valerio, e del conte Giulio Porro Lambertenghi in qualità di testimoni, nonché di numerosi invitati. Garibaldi, per nulla presago di quanto sarebbe accaduto di lì a poco, raggiante stringe il braccio della sposina. Ma al momento in cui, dopo il fatidico sì, gli sposi escono dalla chiesa, avviene il colpo di scena. Uno sconosciuto si avvicina a Garibaldi e gli consegna una lettera. Il novello sposo trasecola alla lettura del suo contenuto e chiede spiegazioni a Giuseppina, la quale farfuglia, cercando inutili giustificazioni. La lettera contiene prove palesi che la marchesina Raimondi, sua moglie da qualche minuto, ha due amanti. Uno di loro è un ufficiale dello stesso Garibaldi, il tenente Luigi Caroli, l’altro è il marchese Rovelli, cugino della ragazza. Tra l’altro, la vigilia delle nozze, la marchesina ha avuto rapporti intimi con Caroli ed è incinta dello stesso Caroli e quella con lui è una tresca nota a tutti tranne che a Garibaldi. Un bel ginepraio. Ce n’è abbastanza perché il nostro “eroe”, cercando di colpire con un ceffone la fedifraga, dopo averle lanciato contro una sedia, la apostrofasse con un duro: “Siete una puttana”. “Credevo di essermi sacrificata sposando un eroe, ma siete solamente un brutale soldato”, fu la risposta di lei. La sera stessa, Garibaldi partì per Caprera e cercando, nei mesi successivi, di dimenticare la brutta avventura, si tuffò anima e corpo nell’impresa dei Mille, che iniziò appena quattro mesi dopo ai primi di maggio del 1860. In definitiva l’Unità d’Italia deve qualcosa alla marchesina Raimondi e, soprattutto, i meridionali e i siciliani devono eterna “riconoscenza” alla giovanissima rampolla della famiglia Raimondi per essere stati “liberati” da un marito tradito che, toltosi dalla testa il “peso” (e che peso) di quel matrimonio si dedicò esclusivamente, in nome di Vittorio Emanuele II, alla conquista del Sud. Sullo scandalo la stampa dell’epoca stese un pietoso velo. Chi rise a crepapelle, a quanto si racconta, fu lo stesso Vittorio Emanuele II, futuro re d’Italia e alle prese con la “bela Rosin”, molto esperto nell’arte amatoria. L’ ‘Eroe dei due mondi’, incassata questa ridicola e pessima figuraccia, con una ragazzina di primo pelo, dovette attendere ben 20 anni prima che il matrimonio con la marchesina Raimondi, rato e mai consumato, venisse con un cavillo giuridico annullato per sposare Francesca Armosino, sua terza moglie, e così legittimare i due figli, Clelia e Manlio, avuti da lei nel frattempo. Per ottenere l’annullamento, che fu sentenziato il 14 gennaio 1880, due anni prime della sua morte, Garibaldi tentò le umane e divine cose facendo leva sul proprio prestigio e sulla propria autorevolezza dispiegando, nei processi che ne seguirono, a più non posso avvocati e testimoni , ma soprattutto chiedendo, lui di fede più marcatamente repubblicana che monarchica, con una supplica l’autorevole intervento del re Umberto I, nel frattempo succeduto al padre Vittorio Emanuele II, morto il 9 gennaio 1878, affinché risolvesse con un decreto in suo favore l’angoscioso problema. A tal proposito, tra l’altro, così ebbe a scrivere al re nel settembre del 1879: “Ed ora l’accordare lo scioglimento di questi matrimoni, per la mutata condizione di cose, e per il nostro diritto pubblico interno, è una delle prerogative della Maestà Vostra (con ciò Garibaldi in buona sostanza chiedeva ad Umberto I sovrano costituzionale di sostituirsi al magistrato,) il matrimonio contratto dal sottoscritto, essendo appunto ratto e non consumato, egli supplica perciò la Maestà Vostra volerne con un suo sovrano decreto accordarne lo scioglimento a datare dal 24 gennaio del 1860. Della Maestà Vostra devotissimo, Caprera 4 settembre 1879 firmato Giuseppe Garibaldi”. Il processo, malgrado la supplica ad Umberto I, andò avanti anche per l’ostinazione della Marchesa Raimondi a non voler concedere l’annullamento e che suscitò l’inviperita reazione di Garibaldi che certo non si comportò come vedremo da gentiluomo degno di un padre della Patria. Stizzito dal comportamento della moglie di un giorno, invia, per informare l’opinione pubblica, delle lettere infamanti e denigratorie nei confronti di lei ad alcuni giornali, La Capitale di Roma e Il Telegrafo di Livorno e i cui direttori Dobelli e Bandi (ex garibaldino) per decenza non le pubblicano. Le lettere contengono della accuse infamanti nei confronti della Raimondi, ossia quelle di continuare ad avere numerosi amanti antichi e nuovi, una vera e propria ninfomane, aggiungendo la ciliegina sulla torta, ovvero quella che la marchesina sua moglie aveva avuto anche rapporti incestuosi con il padre e per allontanarsi dall’orco paterno aveva chiesto, a suo tempo, al generale di sposarla. “Questa serie di infamie – conclude nelle lettere Garibaldi – mi obbligarono il 24 gennaio del 1860 naturalmente a fuggire da quella casa maledetta”. Uno sfogo meschino che, per fortuna e decenza, i giornali non pubblicarono. Un atteggiamento non certo consono e degno del decoro di un eroe come Garibaldi che la storiografia risorgimentale ci ha consegnato senza macchia e senza peccato. A buon fine e per buona pace di Garibaldi il 14 gennaio del 1880 verrà sentenziato dalla seconda sezione promiscua della Corte d’Appello di Roma l’annullamento del matrimonio con la marchesina Raimondi, accogliendo la tesi del matrimonio rato e non consumato prevista dalla legislazione austriaca allora vigente in Lombardia all’epoca delle nozze. Libera dal vincolo con Garibaldi Giuseppina Riamondi, un anno dopo, sposerà il nobile Lodovico Mancini che la lascerà vedova nel 1913. Giuseppina morirà 5 anni dopo anni il 27 aprile 1918 all’età di settantasette anni. Seppellita nel cimitero di Como, nella sua tomba verrà scritta questa breve epigrafe: “Amò l’Italia più di se stessa”. Potremmo a buon diritto aggiungere: “E sicuramente più di Garibaldi”.

FRATELLI D’ITALIA? MASSONI ITALIANI.

L’inno di Mameli? Non è l’inno della Repubblica italiana, ma quello dei massoni!, scrive Ignazio Coppola su "I Nuovi Vespri". Questo inno massonico ha anticipato e accompagnato la ‘conquista’ del Sud da parte di quei ‘briganti’ dei Savoia. I massoni si schierarono con i piemontesi per massacrare le popolazioni del Mezzogiorno che si ribellavano alle angherie e alle prepotenze di Vittorio Emanuele e dei suoi sgherri. Una ribellione contro un invasore volgare e ignorante che gli storici prezzolati hanno definito “lotta al brigantaggio”. In realtà, i “briganti”, come già detto, erano i Savoia e i massoni che li spalleggiavano! Vi siete mai chiesti perché il nostro inno nazionale inizia con la parola “fratelli”? E, su questo vi siete mai data una risposta? A tal proposito vale bene ricordare che l’inno di Mameli non è mai stato l’inno ufficiale della Repubblica italiana, bensì un inno ufficioso o, per meglio dire “precario” come, del resto, lo è la maggior parte di tutto ciò che avviene in questo nostro Paese. A ben vedere, per quanto infatti diremo, il “precario” e ufficioso inno di Mameli si può definire a buon diritto l’inno che la massoneria impose alle nascente Repubblica italiana nel lontano 1946 in sostituzione della “marcia reale” che aveva caratterizzato il precedente periodo monarco-fascista. “Fratelli d’Italia, l’Italia s’è desta”: queste infatti sono le prime parole dell’inno di Mameli. Un inno, come si intuisce, di chiara connotazione massonica, musicato da Michele Novaro e scritto nell’autunno del 1847 dal “fratello” Goffredo Mameli (al quale, a riprova della sua appartenenza e devozione ai liberi muratori, sarà poi dedicata a futura memoria una loggia) che, non a caso e da buon “framassone”, lo fa iniziare con la sintomatica e significativa parola “Fratelli”. Un inno scritto dal “fratello” Goffredo Mameli nel 1848 e riproposto un secolo dopo, il 12 ottobre 1946, da un altro “fratello”, il ministro delle guerra dell’allora governo De Gasperi, il repubblicano Cipriano Facchinetti, da sempre ai vertice della massoneria, con la carica di Primo sorvegliante nel Consiglio dell’Ordine del Grande Oriente d’Italia e affiliato alla loggia “Eugenio Chiesa”. Fu in quella data dell’ottobre del 1946 che Facchinetti, quale ministro della guerra, impose che l’inno fosse suonato in occasione del giuramento delle Forze Armate. E da quel momento “Fratelli d’Italia” divenne, come lo è tuttora, l’inno ufficioso della Repubblica italiana. Ufficioso e provvisorio, perché mai istituzionalizzato con alcun decreto e ancor di più, perché non contemplato dalla nostra Carta costituzionale come lo è sancita, dall’articolo 12 della stessa Costituzione, l’istituzione del tricolore come bandiera nazionale. Un inno che rimane, pertanto, per le cose dette, ancora ad oggi, privo di ogni ruolo e di ogni qualsivoglia definizione istituzionale. Da quanto argomentato si può altresì facilmente desumere che l’inno degli italiani fu un inno, nella sua lunga gestazione, fortemente voluto dai massoni che tanta parte, come abbiamo visto, ebbero e continuano, ancora oggi, ad avere nelle vicende che portarono alla mal digerita unità d’Italia. Fu immediatamente dopo l’unità d’Italia che il Sud si “destò” e si accorse, sulla propria pelle e a proprie spese, di che pasta erano fatti i “fratelli” che erano venuti a “liberarlo”. Non passò molto tempo, infatti, che siciliani e meridionali si resero conto che i garibaldo-italo-piemontesi non erano affatto i liberatori sperati, ma spietati conquistatori. E che di conquista e di colonizzazione, e non di liberazione del Sud e della Sicilia si trattò, ne è testimonianza quanto avvenne nella seduta parlamentare del 29 maggio 1861, a Palazzo Carignano, quando, ai deputati e ai giornali del Nord, che si ostinavano, avendone la piena convinzione, a sostenere di avere conquistato la Sicilia e il Mezzogiorno, si opponeva il siciliano on. Giuseppe Bruno deputato di Nicosia, il quale, in pieno Parlamento così si ergeva a protestare: “Si è detto, in alcuni giornali e qui si è ripetuta l’espressione di province meridionali ‘conquistate’ e siccome questa è un’espressione offensiva, non solo, ma ingiusta, permettetemi che come testimonio oculare la respinga risolutamente. Ciò posto, prego gli onorevoli colleghi a non volere ripetere la frase di ‘conquista’ riguardo nostro e conto che dopo queste parole e le spiegazioni da me date sui fatti di Sicilia accetteranno essi senza offesa la mia protesta”. I piemontesi della protesta dell’on Bruno non ne tennero alcun conto se, negli anni successivi, essendo ben convinti di essere conquistatori e non liberatori, perpetreranno nei confronti delle genti del Sud eccidi e massacri inenarrabili. Del resto, che di conquista, a tutti gli effetti, si trattò ce ne dà ampia e documentata testimonianza anche Antonio Gramsci nel suo autorevole saggio sul Risorgimento. Con la spedizione dei Mille, infatti, ebbe inizio il lungo processo di conquista e di scientifica colonizzazione del Sud e della Sicilia e la “radunata rivoluzionaria”, come ebbe a definirla lo stesso Gramsci, fu resa possibile dal fatto che Garibaldi s’innestava nella forze statali piemontesi e che la flotta inglese protesse di fatto lo sbarco di Marsala e la presa di Palermo e sterilizzò la flotta borbonica. Gramsci, di fatto, nella sua lucida analisi non faceva altro che evidenziare come la “gloriosa “spedizione non fu altro che una grande mistificazione storica. E fu con questa radunata rivoluzionaria, che Gramsci chiama “rivoluzione passiva” o, meglio ancora, “rivoluzione-restaurazione”, che trionfò la logica gattopardiana che tutto avvenne perché nulla cambiasse. Anzi, per cambiare in peggio. Una rivoluzione-restaurazione che fa dire allo scrittore e uomo politico sardo che, nel suo contesto, il popolo ebbe un ruolo molto marginale, anzi subalterno, così che il risorgimento si caratterizzò, con tutte le sue ineluttabili e deleterie conseguenze, come “conquista regia” e non come movimento popolare, perché appunto mancava al popolo una coscienza nazionale. E in questo vuoto di coscienza nazionale e nella estraneità del popolo al moto unitario fu così possibile ai moderati cavouriani dirigere il processo di unificazione, regolarlo ai propri fini e ai propri interessi, in chiave antimeridionale e a tutela degli interessi del Nord con la creazione di un nuovo Stato che di questi fini e di questi interessi ne fu portatore. Con la “rivoluzione-restaurazione”, il Piemonte assume una funzione di “dominio” e non di dirigenza reale e democratica di un processo di rinnovamento che in effetti non ci fu. Si passò, nelle regioni meridionali, dall’assolutismo paternalistico borbonico al costituzionalismo repressivo piemontese. “Dittatura senza egemonia”, opportunamente la definisce ancora Gramsci, che fece pagare al Sud – e alla Sicilia in particolare – sotto tutti i punti di vista, soprattutto in termini economici e repressivi, il prezzo più alto. Del resto, di recente anche di “risorgimento senza popolo”, sulla stessa lunghezza d’onda di Gramsci, parla nel suo interessante saggio Storia e politica Risorgimento- Fascismo e Comunismo il giornalista, scrittore e saggista Paolo Mieli, il quale nel capitolo dedicato al risorgimento, frutto di approfondite ricerche storiche (Ernesto Ragionieri, Gabriele Turi, Fulvio Camarrano, Giorgio Candeloro e altri) perviene alla conclusione di un risorgimento realizzato da una “ èlite”, in cui il popolo non fu per niente protagonista e, proprio perché èlite, riuscì a creare un’area di consenso popolare assai ristretta o quasi nulla. “Dal 1861 – sostiene Mieli – dunque, il popolo, anziché essere una riserva di consenso, costituì un problema per le èlite che fecero l’Italia, con conseguenze drammatiche nella definizione dei modi di fare e di intendere la politica”. Mieli, in premessa, prende in esame in particolare l’arco di tempo che va dalla fine del Settecento, all’inizio dell’Ottocento e dai movimenti popolari che li caratterizzarono (sanfedismo e insorgenze) sino all’Unità d’Italia. Arco di tempo in cui vennero poste le basi del risorgimento. Ebbene, saltano fuori alcuni “temi scomodi” delle nostra storia patria che la agiografia ufficiale e i testi scolastici hanno sempre occultato. Ossia, a differenza di quanto avvenne nelle rivolte Sanfediste e delle Insorgenze, in cui il popolo fu protagonista attivo di quelle lotte e di quelle rivolte, nel risorgimento, al contrario, registriamo la quasi totale assenza di un consenso popolare e di partecipazione attiva alla sua realizzazione. Insomma che il popolo non fu mai un soggetto protagonista, ma in alcuni casi avverso alle lotte e agli ideali del risorgimento è acclarato da avvenimenti incontrovertibili e documentati per quanto diremo, in questo contesto, riferibili a Carlo Pisacane e a Ippolito Nievo. Carlo Pisacane fortemente impregnato da una ideologia socialisteggiante e libertaria in cui collega l’idea d’indipendenza nazionale alle aspirazioni di riscatto sociale e politico delle masse contadine e per questo propugnatore di un “socialismo utopistico” e libertario, alla fine si troverà, nel giugno del 1857, appena sbarcato a Sapri, assalito e massacrato da quegli stessi contadini e popolani per cui voleva fare la sua personale rivoluzione. E proprio nel suo Saggio sulla rivoluzione, distinguendosi e prendendo le distanze da Garibaldi e dagli altri nei giudizi su casa Savoia, tra l’altro così scriveva: “La dominazione della Casa Savoia e la dominazione della Casa d’Austria sono precisamente la stessa cosa” e poi ancora “che il regime costituzionale del Piemonte è più nocivo all’Italia di quello che lo sia la tirannia del Borbone”. In seguito i fatti gli daranno ampiamente ragione. Un uomo giusto e di grandi ideali che si trovò a operare nel posto e in un contesto sbagliato. Appena sbarcato a Sapri, Pisacane e i suoi 300 compagni, buona parte ex detenuti fatti evadere dall’isola di Ponza, furono affrontati, circondati e massacrati, con circa un centinaio di morti, compreso Pisacane, non come era prevedibile dalle guardie regie, ma dai contadini e dalla stessa popolazione locale. Dell’assenza del popolo nelle lotte risorgimentali e nella stessa spedizione dei Mille, dopo lo sbarco di Marsala avvenuto tra l’indifferenza generale della popolazione, ce ne dà altrettanta buona testimonianza quanto Ippolito Nievo scrive, il 24 giugno del 1860, alla cugina Bice con la quale intrattiene una intensa corrispondenza, a proposito della conquista di Palermo: “Ti giuro Bice… dentro pareva una città di morti, non altra rivoluzione che, sul tardi, qualche scampanio. E noi soli, ottocento al più sparsi in uno spazio grande quanto Milano, occupati, senz’ordine e senza direzione, alla conquista di una città. Noi correvamo per vicoli e piazze in cerca dei napoletani per farli sloggiare e dei palermitani per far fare loro la rivoluzione. Riuscimmo mediocremente più nell’una che nell’altra cosa. In fin dei conti Palermo rimase nostra di noi soli come si direbbe a Milano”. Anche qui, secondo quanto riportato da Nievo nella lettera alla cugina, il popolo, come in tanti altri avvenimenti e circostanze, brillò per la sua assenza. Ma ancor di più, immediatamente dopo l’unità d’Italia, un consenso e una partecipazione popolare attiva si ebbero addirittura, soprattutto, nel Mezzogiorno dalla parte opposta a quella del risorgimento che culminò in una sanguinosa guerra civile con le lotte contadine e di liberazione dall’invasione italo-piemontese, contrabbandata, da sempre dalla storiografia ufficiale, come lotta al brigantaggio. Partigiani e contadini poveri che si batterono per la loro libertà, per le loro terre e per il loro diritto all’esistenza che fece dire, come poi scrisse testualmente Antonio Gramsci su Ordine Nuovo: “Lo Stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e a fuoco l’Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando e seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono di infamare con il marchio di briganti”. Questi dunque, anche a parere di Gramsci e di tanti altri scrittori e saggisti che di recente – come Mieli – si pongono l’obiettivo di una serena e imparziale revisione storica, in buona sostanza, i vizi d’origine e le cause di debolezza del nuovo stato italiano e di una mal digerita e mai metabolizzata Unità. Vizi d’origine e debolezze che meritano oggi, più che costose retoriche e trionfalistiche celebrazioni – come spesso è avvenuto nel passato – opportuni e doverosi, per rispetto della verità storica, momenti di riflessione. Con la conquista del Sud inizia infatti il processo di scientifica rapina e di saccheggio dei beni e delle ricchezze del Mezzogiorno e della Sicilia e degli inenarrabili massacri a cui furono sottoposte le popolazioni dei territori “conquistati”.

Quando il massone Garibaldi si mise a disposizione della Chiesa di Roma. E gli storici? Tacciono…, scrive Ignazio Coppola il 10 febbraio 2016 su "I Nuovi Vespri". Solo in Italia, per oltre 150 anni, verità storiche con tanto di testimonianze scritte possono essere nascoste dagli storici di regime. Così, ancora oggi, i libri di storia continuano a negare i fatti. Pensate: il ‘condottiero’ protagonista della breccia di Porta Pia, anni prima, aveva mosso la sua spada a disposizione della Chiesa di Pio IX che gli disse no. In cambio di denaro era pronto, sono parole sua, “servire il Papa, il Duca, il demonio, basta che fosse italiano e ci desse del pane”. E l’hanno fatto ‘padre della patria’ intestandogli viene scuole…Forse non tutti sanno che Giuseppe Garibaldi il massone dei due mondi e primo massone d’Italia si mise per fame, per bisogno e necessità a disposizione del Papa e della Chiesa. A tal proposito vi raccontiamo la storia dell’eroe dei due mondi e il suo lungo e travagliato excursus di adesione alla massoneria e la sua contraddittoria disponibilità, lui massone impenitente, di mettere la sua spada al servizio di Pio IX e della Chiesa romana. Ma cominciamo dall’inizio. Appunto dalla sua iniziazione alla “Fratellanza Universale” che avvenne nelle lontana America del Sud, a 37 anni, nel 1844 per poi concludersi con la sua consacrazione a Gran Maestro nel 1864. Il primo approccio di Giuseppe Garibaldi alla Massoneria avviene nel 1835, ai tempi della sua permanenza in Brasile, in seguito alla frequentazione dell’amico e compatriota Livio Zambeccari, a sua volta affiliato alla loggia massonica di Porto Alegre, ai tempi della Repubblica del Rio Grande do Sul. In seguito, prenderà maggiore dimestichezza con “cappucci, grembiuli, mattoni e cazzuole”, iscrivendosi, nel 1844, a Montevideo alla loggia L’asil de la virtude (loggia irregolare). Sempre nello stesso anno e nella stessa città, aderisce alla loggia Les amis de la patrie sotto il Grande Oriente di Francia. Nel 1850, frequenta le logge massoniche di New York, per poi ritrovarsi negli anni 1853/54 “alloggiato” alla Philadelphes di Londra. Ma è nel 1859 che in Italia è autorevole protagonista della ricostituita loggia del Grande Oriente d’Italia insieme, tra gli altri, a Cavour, a Filippo Cordova, a Massimo D’Azeglio e al gran maestro Costantino Nigra. Siamo nella immediata vigilia della spedizione in Sicilia e, come abbiamo visto, le massonerie di Londra e Torino, preparandola a puntino, avranno un ruolo determinante e incisivo per la buona riuscita dell’impresa. A Garibaldi, entrato da “conquistatore” nella capitale dell’Isola, nel giugno del 1860 verranno conferiti, dal Grande Oriente di Palermo, tutti i gradi della gerarchia massonica (dal 4° al 33°) e la nomina a Gran Maestro. Officianti della cerimonia, che si svolse a Palazzo Federico, in via dei Biscottari, Francesco Crispi e altri cinque fratelli massoni. Alcuni giorni dopo, sempre a Palermo, il neo Gran Maestro, in virtù del massimo grado appena attribuitogli dalla gerarchia massonica, firma le proposte di affiliazione del figlio Menotti (1 luglio 1860) e di alcuni autorevoli componenti il suo stato maggiore: Giuseppe Guerzoni, Francesco Nullo, Enrico Guastella e Pietro Ripari (3 luglio 1860). Il nostro eroe, da buon stakanovista della Massoneria, come vediamo, ha il suo bel da fare. In una lettera inviata ai “fratelli” di Palermo, il 20 marzo 1862 scriveva di “avere (…) assunto di gran cuore il supremo ufficio conferitogli e ringraziava i liberi fratelli per l’appoggio che essi avevano dato da Marsala al Volturno nelle grande opera di affrancamento delle province meridionali. La nomina a Gran Maestro rappresentava, come scrisse, la più solenne delle interpretazioni delle sue tendenze, del suo animo, dei suoi voti, lo scopo per cui aveva mirato tutta la sua vita. Ma il culmine della sua carriera massonica Garibaldi lo raggiungerà a Firenze, nel maggio del 1864. I settantadue delegati della prima costituente massonica, riunitisi nella città in riva all’Arno, lo elessero, a stragrande maggioranza, Gran Maestro dei Liberi Muratori comprendente i due riti, scozzese e italiano. Ma, a causa di divergenze e divisioni tra le varie anime del massimo organo della Massoneria, non durerà che pochi mesi nella suprema carica. Gli succederà Ludovico Frappolli. Nel maggio del 1867, in una successiva assemblea tenutasi a Napoli, a sua parziale consolazione, verrà eletto Gran Maestro Onorario. Nel 1881, infine, a poco meno di undici anni dalla sua morte, ottenne la suprema carica del Gran Hierofante del rito egiziano del Menphís Misrain. Come dicevamo all’inizio, da quanto abbiamo visto, Garibaldi più che eroe dei due mondi può definirsi a pieno titolo il “massone dei due Mondi”. V’è da credere che nella storia della Massoneria nessuno quanto lui abbia avuto più affiliazioni nelle varie logge sparse nel mondo. Roba da guiness dei primati. Eppure, i libri di testo delle nostre scuole, ipocritamente e in mala fede, continuano a ignorare questa sua appartenenza, come protagonista e figura di primo piano delle consorterie massoniche di mezzo mondo, e il ruolo pregnante che la Massoneria ha avuto e ha continuato ad avere sino ai nostri giorni nella storia del nostro Paese. Come altrettanto ipocritamente e in mala fede, nel mancato rispetto della verità storica, tutto questo è stato sempre sottaciuto in occasione delle celebrazioni del bicentenario della sua nascita e delle celebrazioni di qualche anno fa dell’Unità d’Italia. In dispregio alle verità ed alla trasparenza della storia, abbiamo bisogno di eroi a ogni costo sotto le mentite spoglie di massoni, mercenari, avventurieri e predoni. Tra le mancate virtù di Garibaldi a questo punto, ci piace infine sottolineare e ricordare quella della sua incoerenza: come dire, era suo solito, del predicare bene e razzolare male. Siamo a Montevideo nel 1847 mentre, con poca gloria, si sta esaurendo la sua esperienza uruguaiana. Avendo nostalgia dell’Italia e alla ricerca, da buon mercenario ed avventuriero, di un nuovo padrone cui mettere a disposizione la propria spada e i propri compagni d’arme, non trova di meglio che proporsi, egli massone, anticlericale e mangiapreti impenitente, al servizio della Chiesa e di Pio IX. Nell’agosto di quell’anno così scrive a un suo amico: “Io più che mai, siccome i compagni non aneliamo ad altro che al ritorno in patria comunque sia. Dunque, mio amico, se vedeste fosse possibile servire il Papa, il Duca, il demonio, basta che fosse italiano e ci desse del pane. Siamo pronti a qualsiasi condizione purché non indecorosa”. E con questa propensione all’asservimento alla Chiesa ed a Pio IX cosi scrive il 12 ottobre 1847 a monsignor Gaetano Bedini, nunzio apostolico a Rio de Janiero con giurisdizione sui paesi platensi: “Offro a Pio IX la mia spada e la legione italiana per la patria e per la Chiesa. Ricordando (egli sempre massone, ateo e anticlericale) i precetti della nostra augusta religione sempre nuovi e sempre immortali, pur sapendo che il trono di Pietro riposa sopra tali fondamenti che non abbisognano di aiuto, perché le forze umane non possono scuoterli”. Monsignor Bedini, a nome di Pio IX, rispose con molti ringraziamenti e gentilezza, declinando l’offerta di Garibaldi e della legione Italiana. Più avanti, Garibaldi, come era nella sua indole, non dimostrando altrettanta cortesia, definirà Pio IX e i preti un mucchio di letame. Salvo poi, dopo la conquista della capitale della Sicilia, il 15 luglio del 1860, in occasione della festa di santa Rosalia, non aver alcun pregiudizio, egli mangiapreti e impertinente massone, a sedere sul più alto trono della Cattedrale di Palermo per ricevere l’incenso dall’arcivescovo di quella città, secondo la tradizionale cerimonia della così detta “cappella reale” simboleggiante i poteri della Legazia Apostolica. E lo ritroviamo, poco meno di un mese dopo, a Napoli, con altrettanto fervore religioso, rendere omaggio, se pur Gran Maestro Venerabile della Massoneria, alla Madonna Venerabile nella chiesa di Piedigrotta ed a un breve discorso del sacerdote officiante rispose con parole di devoto amore alla religione cristiana e alle sue grandi e sublimi verità. Il 10 giugno, infine, rispettando le consuetudini religiose di questa città, dispose la celebrazione della ricorrenza del patrono San Gennaro, presenziando autorevolmente assieme agli alti prelati della chiesa napoletana al miracoloso scioglimento del sangue del santo. Misteri della fede massonica o cattolica dell’eroe dei due mondi. Fate voi. Ai lettori l’ardua sentenza.

Ma quale gloriosa battaglia di Calatafimi! Solo imbrogli e tradimenti. In stile Garibaldi, scrive "Ignazio Coppola" il 5 gennaio 2016 su "I Nuovi Vespri". In un reportage La Repubblica edizione di Palermo, per la firma di Gianni Bonina, ripropone Garibaldi e la battaglia di Calatafimi. Presentata come una vicenda ‘eroica’. Ragazzi, ormai lo sanno pure le pietre che Garibaldi ‘vinse’ sta battaglia-farsa grazie al tradimento del generale Landi. Altro che gloria! E’ di questi giorni sulla pagina culturale de La Repubblica edizione di Palermo un reportage a puntate dal titolo “Sulle orme dei garibaldini – l’isola in camicia rossa”a firma di Gianni Bonina che va dallo sbarco di Marsala l’11 maggio 1860 e via via descrivendo ad usum delphini tutta l’impresa dei Mille di Garibaldi in Sicilia, con particolare riferimento alla battaglia di Calatafimi pubblicata domenica 31 Luglio. Ebbene, anziché ripetere falsità storiche, come ormai da 156 anni a questa parte ci propinano gli storiografi di regime, il nostro poco attendibile “storico” autore del reportage sui Mille avrebbe fatto meglio a documentarsi e trarre le debite conclusioni su come realmente si svolse la battaglia farsa di Calatafimi. E su come questa battaglia farsa, come tante altre, rientra appunto nell’alveo di quelle verità storiche sottaciute o, peggio ancora, mistificate e contrabbandate come epiche gesta da tramandare ai posteri con frasi ad effetto come quella: “Qui si fa l’Italia o si muore” che a quanto pare Garibaldi non ha mai pronunciato. Una battaglia farsa, quella di Calatafimi, decisa, dal tradimento e dalla corruzione del generale Landi e non dal valore dei garibaldini. Decisiva e galeotta, infatti, fu una “fede di credito” di 14.000 ducati (poi addirittura risultata taroccata e falsa all’atto della riscossione), pagata a Landi dallo stesso Garibaldi. Vicenda in seguito confermata dallo stesso Landi, per cui 3000 borbonici ben addestrati e ben armati s’arresero a circa 1000 garibaldini poco avvezzi all’uso delle armi e animati solamente da spirito d’avventura. Per cui l’episodio della corruzione del generale Landi fu l’unico decisivo e squallido elemento delle sorti della battaglia di Calatafimi. Del resto basta rileggere, a conferma di questo, quanto scritto dagli storiografi al seguito dello stesso Garibaldi per rendersi bene conto di quello che inaspettatamente e scandalosamente avvenne a Calatafimi. Scrive Cesare Abba nel suo diario Da Quarto al Volturno: “E proprio quando pensavamo di avere perso, alla fine ci parve un miracolo avere vinto” (il miracolo della fede di credito frutto della corruzione). E ancora Francesco Grandi nel suo diario I garibaldini testualmente riporta: “Ci meravigliammo non credendo ai nostri occhi e alle nostre orecchie, quando ci accorgemmo che il segnale di abbandonare la contesa, come avevamo temuto, non era lanciato dalla nostra tromba, ma da quella borbonica”. Sulla stessa lunghezza d’onda anche l’amministratore della spedizione dei Mille, lo scrittore Ippolito Nievo, il quale nelle sue memorie ebbe a meravigliarsi di una vittoria, giunta, quanto mai inattesa. L’inusuale ritirata di 3000 borbonici al cospetto di 1000 garibaldini male in arnese, trova dunque la sua logica giustificazione nel prezzo della corruzione che Garibaldi pagò a Landi, e dallo stesso successivamente confermato, perché inopinatamente e inaspettatamente desse alle sue truppe l’ordine di ritirasi. E di tutto questo il buon Gianni Bonina avrebbe fatto meglio a documentarsi, magari rileggendosi un articolo scritto proprio su La Repubblica di Palermo qualche anno fa dallo storico Salvatore Falzone dal titolo: “La battaglia di Calatafimi - Eroismo o tradimento? - Battaglia o pagliacciata?” prima di riproporci nel suo reportage lo scontro - farsa di Calatafimi come una epica battaglia da tramandare ai posteri. E proprio ora di finirla.

Quando casa Savoia, 155 anni fa, fece fucilare Angela Romano, una bambina di 9 anni, scrive "Ignazio Coppola" l'1 gennaio 2017 su "I Nuovi Vespri". Parliamo della rivolta dei Cutrara, andata in scena nei primi giorni di gennaio di 155 anni fa a Castellammare del Golfo. Fu la rivolta dei poveri Siciliani, che non volevano passare cinque anni della loro vita al servizio dell’esercito piemontese. I giovani delle famiglie ricche pagavano e venivano esentati dalla leva. I poveri dovevano piegarsi alla prepotenza di casa Savoia. Da qui la ribellione repressa nel sangue dai ‘galantuomini’ di Torino. Che passarono per le armi vecchi, donne e persino una bambina. Una storia di violenza e di crudeltà che i libri di storia del nostro Paese ignorano. Ricorre in questi primi giorni di gennaio il 155° anniversario della rivolta dei “Cutrara”. Una rivolta che, per parecchi giorni, agli albori dell’unità d’Italia, insanguinò Castellammare del Golfo. Avvenimenti dei quali, come è spesso successo nella storia del nostro Paese, s’è persa la memoria e ogni traccia. Una vicenda che gli abitanti di questa cittadina siciliana del Trapanese, attraverso associazioni culturali e le istituzioni locali, con varie iniziative, meritoriamente stanno cercando di riportare alla luce squarciando così un pietoso velo che sinora ha condannato all’oblio quei tragici avvenimenti che, proprio perché facenti parte della nostra storia, ci sembra opportuno ricordare. Il primo gennaio del 1862, a poco meno di un anno dalla proclamazione del regno d’Italia, buona parte degli abitanti di Castellammare del Golfo, stanchi delle sopraffazioni e dei soprusi subiti in così breve tempo, sopratutto per le esose tassazioni e l’imposizione del servizio militare obbligatorio, scese in piazza al grido di “Abbasso la leva e morte ai Cutrara”. La causa scatenante della rivolta fu data, appunto, dall’introduzione della lunga leva militare obbligatoria (alla quale sotto il Borbone i siciliani erano esenti) la cui legge istitutiva, pubblicata dalla Gazzetta Ufficiale del 30 giugno 1861, prevedeva  discriminatamene che i figli dei poveri, non potendosi comprare l’esenzione, prevista dalla legge, erano costretti ad una lunga leva di ben 5 anni, mentre al contrario ai figli dei ricchi – appunto i Cutrara (cappeddi o galantuomini) – potendoselo permettere e pagando profumatamente venivano esentati. Il primo gennaio 1862, esattamente 155 anni addietro, gran parte della popolazione capeggiata da due popolani Francesco Frazzitta e Vincenzo Chiofalo insorse contro questo stato di cose e contro queste ingiustizie. Dopo avere piantato una bandiera rossa al centro del paese si pose alla caccia dei notabili locali – per l’appunto i Cutrara – i nobili e i borghesi, simbolo di queste discriminazioni e di questi privilegi. Furono assaltate la abitazioni del commissario alla leva, Bartolomeo Asaro, e del comandante della guardia nazionale, Francesco Borruso, che vennero catturati catturati ed uccisi e le loro case bruciate. Eccessi esecrabili di una popolazione esasperata da vessazioni ed ingiustizie. Fatti che non possono certo giustificare le rappresaglie e gli eccidi da parte dei piemontesi sbarcati su due navi da guerra con centinaia di bersaglieri nel porto di Castellammare. Militari inviati dal generale Govone al comando dal generale Pietro Quintino, un ex garibaldino che, anziché porsi alla caccia dei colpevoli, non trovò di meglio che passare per le armi, in dispregio ad ogni elementare norma di umanità e legalità, uomini, vecchi, donne e persino un’innocente bambina di appena 9 anni, Angela Romano. Innocenti, rastrellati dalle truppe piemontesi in contrada Villa Falconeria, alla periferia del paese, e massacrati. Vigliaccheria allo stato puro. Gli altri cittadini fucilati alle ore tredici di quel maledetto venerdì 3 gennaio 1862 furono Mariano Cruciata, di 30 anni, Marco Randisi di 45 anni, il sacerdote Benedetto Palermo, di 46 anni, la contadina Anna Catalano, di 50 anni, e i vecchi Angelo Calamia e Antonino Corona, entrambi di 70 anni. A distanza di poco meno di due anni si ripetevano a Castellammare, ad opera dei piemontesi, con pedissequa ferocia e con una sconcertante crudeltà, gli eccidi andati in scena a Bronte perpetrati da Nino Bixio contro ogni aspettativa di libertà, di giustizia e di affrancamento dalla miseria: richieste che i siciliani avevano all’arrivo dei garibaldini prima e dei piemontesi dopo. Di recente, in memoria degli atti di crudeltà perpetrati dai piemontesi le Amministrazioni comunali di Castellammare del Golfo e di Gaeta hanno deciso di intitolare una via cittadina ad Angelina Romano, la più giovane delle incolpevoli e inconsapevoli vittime di quell’esecrabile eccidio. La rivolta di Castellammare del gennaio del 1862 fu poi, quattro anni dopo, propedeutica della grande rivolta palermitana del settembre del 1866 così detta del “Sette e Mezzo” che costò miglia e migliaia di vittime a causa della repressione piemontese (qui potete leggere l’articolo sulla rivolta del “Sette e mezzo” scritto, sempre da Ignazio Coppola, nel settembre dello scorso anno). Rivolte puntualmente ed ipocritamente secretate e ignorate dai testi scolastici e dalla storiografia ufficiale. Questo, ancora una volta, fu il contributo di sangue innocente dato dai meridionali e dai siciliani alla causa dell’unità nazionale. E proprio per questo sarebbe giusto, oltre che festeggiare e celebrare enfaticamente – come spesso avviene -episodici retorici dell’unità d’Italia, ricordare quei morti e quelle vittime innocenti che furono immolate, loro malgrado, al processo unitario. Ed è quello che, con molto merito per rimuovere una damnatio memoriae che per lungo tempo li ha condannati all’oblio, hanno fatto in questi ultimi tempi i cittadini di Castellammare del Golfo, commemorando e ricordando le vittime della rivolta dei cutrara del gennaio del 1862. In piena sintonia con quanto sosteneva Leonardo Sciascia: “Questo è un Paese senza memoria e io non voglio dimenticare”. Ed è per non dimenticare che i Siciliani sono impegnati alla costante ricerca della loro perduta memoria storica.

ABOLIAMO LA MASSONERIA?

I massoni tifano per Bergoglio. Ma lui li vede come la peste, scrive Sandro Magister il 3 maggio 2017 su "L'Espresso". Due sole volte papa Francesco ha parlato in pubblico dei massoni e della massoneria. E sempre contro. La prima volta sull'aereo di ritorno dal viaggio in Brasile, il 28 luglio 2013. Interpellato sul caso di monsignor Battista Ricca e sulla "lobby gay", ha detto: "Se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà, ma chi sono io per giudicarla? Il problema non è avere questa tendenza, no. Il problema è fare lobby di questa tendenza: lobby di avari, lobby di politici, lobby dei massoni, tante lobby. Questo è il problema più grave per me". La seconda volta a Torino il 21 giugno 2015. Incontrando dei giovani e rispondendo a braccio ad alcune loro domande a un certo punto ha detto: "In questa terra alla fine dell’Ottocento c’era la massoneria in pieno, anche la Chiesa non poteva fare nulla, c’erano i mangiapreti, c’erano anche i satanisti… Era uno dei momenti più brutti e dei posti più brutti della storia d’Italia. Ma andate a cercare quanti santi e quante sante sono nati in quel tempo! Perché? Perché si sono accorti che dovevano andare controcorrente rispetto a quella cultura, a quel modo di vivere". In privato, però, Francesco è tornato molto più spesso sull'argomento. La massoneria è la sua bestia nera, già da quando viveva in Argentina. Non tollera che si infiltri nella Chiesa ed è arciconvinto che essa sia presente nell'Ordine dei Cavalieri di Malta e che da lì vada estirpata.

Nella lettera del 1 dicembre scorso del papa al cardinale Raymond L. Burke, patrono dell'Ordine, c'è un passaggio che a un occhio esperto chiaramente allude alla massoneria. Ed è il primo dei punti sui quali Francesco esige una riforma dell'Ordine: "In particolare, si dovrà evitare che nell'Ordine si introducano manifestazioni di spirito mondano, come pure appartenenze ad associazioni, movimenti e organizzazioni contrari alla fede cattolica o di stampo relativista. Qualora ciò dovesse verificarsi, si inviteranno i Cavalieri che eventualmente fossero membri di tali associazioni, movimenti ed organizzazioni a ritirare la loro adesione, essendo essa incompatibile con al fede cattolica e l'appartenenza all'Ordine".

Ma già il 9 settembre del 2014, nell'udienza in cui il papa rimosse il cardinale Burke da prefetto del supremo tribunale della segnatura apostolica per nominarlo patrono dell'Ordine, gli assegnò come compito prioritario proprio "la necessaria eliminazione di uno spirito secolare e specificamente della massoneria dall'Ordine di Malta". È quanto ha riferito lo stesso cardinale Burke in un rapporto sulle recenti traversie dell'Ordine, da lui autorizzato a circolare riservatamente tra i Cavalieri di Germania, ma in seguito trapelato a un più largo pubblico. In quella stessa udienza, il papa disse che non aveva una "esatta informazione" sulla presenza di massoni tra i Cavalieri, ma che "era certo della loro esistenza".

E anche in seguito Francesco è tornato a picchiare forte su questo chiodo. Nell'udienza data a Burke lo scorso 10 novembre, al cardinale che gli diceva di non essere riuscito a individuare nessun massone tra i Cavalieri il papa ordinò di continuare a cercare quelle "liste di massoni, che devono per forza esistere", e aggiunse che avrebbe incluso questo mandato in una lettera ufficiale, che in effetti fu quella del 1 dicembre sopra citata. Papa Francesco ha insistito su questo punto non solo con il cardinale patrono, ma anche con i massimi dirigenti dell'Ordine.

Il 23 giugno del 2016, vigilia della festa di san Giovanni che è il patrono dei Cavalieri di Malta, ricevendo in udienza l'allora Gran Maestro Fra' Matthew Festing e il Gran Cancelliere Albrecht Freiherr von Boeselager – cioè proprio i due avversari nel conflitto che stava per scoppiare dentro l'Ordine – Francesco domandò loro a bruciapelo che cosa sapessero "dei progressi fatti dal cardinale Burke nel ripulire l'Ordine dai massoni". Al che entrambi si resero conto che questa era davvero la "principale preoccupazione" del papa.

Nella lettera con cui il papa si è rivolto ai grandi elettori che si apprestavano lo scorso 29 aprile ad eleggere il Luogotenente del Gran Maestro nella persona di Fra' Giacomo Dalla Torre del Tempio di Sanguinetto, manca un nuovo esplicito comando a "ripulire l'Ordine dai massoni". Ma c'è più di un motivo per credere che anche a questo il papa continui a pensare, quando raccomanda di provvedere alle "riforme necessarie" per il "rinnovamento spirituale" dell'Ordine. Nessun dubbio, insomma, che Jorge Mario Bergoglio sia profondamente ostile alla massoneria e tema come la peste una sua infiltrazione nella Chiesa, al punto da vedere massoni anche là dove forse non ce ne sono. Ciò che è strano è invece l'entusiasmo che la massoneria manifesta verso questo papa. È un tifo che mai c'è stato per nessuno dei papi suoi predecessori. Una sterminata antologia delle lodi che massoni di tutto il mondo elevano a Bergoglio da quando è stato eletto papa è in corso di pubblicazione on line. Ne sono uscite finora due puntate su tre.

Aboliamo la Massoneria. Un’inchiesta politica e giudiziaria senza precedenti dai tempi della P2 mette sotto scacco il mondo degli incappucciati. E la commissione Antimafia vuole i nomi degli affiliati. Era ora. Ma non basta, scrive Gianfranco Turano il 10 febbraio 2017 su “L’Espresso. Abolire la massoneria? Nessun esponente delle istituzioni può rispondere sì in modo formale. Non le procure, né la commissione parlamentare antimafia. Ma le loro indagini hanno stretto i liberi muratori in una morsa politico-giudiziaria senza precedenti dai tempi della P2 (marzo 1981) quando Licio Gelli, il Venerabile per eccellenza, gestiva un potere occulto, alternativo allo Stato democratico, raccogliendo un’oligarchia di deputati, ministri, generali, imprenditori e criminali che si erano sottratti alle leggi della Repubblica. Oggi i parlamentari sono spariti, almeno così dicono i Maestri. Ma i guai giudiziari rimangono. Forse perché in 35 anni la legge 17 del 1982 sulle associazioni segrete, firmata da Tina Anselmi e da Giovanni Spadolini, non certo un massonofobo, è rimasta inapplicata. I due tentativi fatti nel 1992 dal procuratore di Palmi, Agostino Cordova, e negli anni Duemila dall’allora pm di Catanzaro Luigi De Magistris (inchieste Why not e Poseidone), non hanno raggiunto risultati significativi. Tre decenni e mezzo dopo Tina Anselmi, la presidente dell’Antimafia Rosy Bindi ha chiesto, come fece Cordova nel 1992, l’esibizione degli elenchi ai Gran Maestri con scadenza 8 febbraio. Le resistenze opposte dalle due obbedienze più frequentate, il Grande Oriente d’Italia e la Gran Loggia degli Alam (antichi liberi accettati muratori), hanno seri appigli giuridici nella libertà di associazione prevista dalla Costituzione, più che dalla legge sulla privacy ed è prevedibile che lo scontro durerà a lungo. Di certo Gelli, a poco più di un anno dalla sua morte, sembra avere seminato anche troppo bene. Come alla fine dell’Ottocento, è tornato di moda il motto del garibaldino e deputato Felice Cavallotti: «Non tutti i massoni sono delinquenti, ma tutti i delinquenti sono massoni». La cronaca sembra confermare il teorema. In Calabria le inchieste Meta, Lybra, Decollo Money, Purgatorio, Fata Morgana, solo per citarne alcune, rivelano una compenetrazione fra ’ndrangheta e massoneria dove la seconda avrebbe inglobato la prima, come ha sintetizzato in una celebre intercettazione il boss di Limbadi Pantaleone Mancuso “Vetrinetta”. In Sicilia, nel trapanese in particolare, il binomio fra grembiuli e Cosa nostra sembra solido quanto lo è in Calabria. A Roma Giulio Occhionero, ingegnere informatico e hacker con server negli Stati Uniti, arrestato a gennaio, spiava politici, manager ed esponenti dell’intelligence, senza dimenticare circa 300 suoi fratelli del Grande Oriente d’Italia (Goi). Siena, la città del Gran Maestro del Goi Stefano Bisi, è stata scossa da uno scandalo ad alta densità massonica come quello del Monte dei Paschi, che ha coinvolto lo stesso Bisi (intervista a pagina 12). E l’aeroporto della città del Palio, un’avventura chiusa con un buco da 9 milioni di euro, ha travolto la società di gestione presieduta da Enzo Viani, l’uomo che amministra l’immobiliare del Goi (Urbs). Anche il crac della Bf dei costruttori Roberto Bartolomei e Riccardo Fusi, molto vicino a Denis Verdini, ha coinvolto alcuni iniziati fra le colonne di Jachin e Boaz. Perfino il tormentato caso Cucchi ha visto la fallita ricusazione da parte della famiglia del perito e medico legale Francesco Introna, massone in sonno. Vietato generalizzare, certo. I massoni si sono difesi attaccando le magagne dei partiti o dei preti pedofili. Ma i partiti non si sono mai più ripresi sul serio dallo choc di Tangentopoli e la Chiesa, quanto meno, si è dissanguata in cause di risarcimento. La massoneria, invece, prospera a dispetto degli scandali. In alcune zone, forse proprio grazie alla sua aura di impunità e riservatezza, oltre alla capacità di fornire una rete relazionale a livello nazionale e internazionale. Anche ai vertici della libera muratoria qualcuno teme che le logge abbiano accolto un tasso di criminali superiore alla media e che le tegolature, come i massoni chiamano i controlli di ingresso sui candidati o “bussanti”, siano state poco conformi alle norme edilizie del Gadu, il grande architetto dell’universo sul quale l’iniziato deve giurare. Tutti i Gran Maestri negano in modo risoluto che esistano logge segrete e che sia ancora in voga l’iniziazione all’orecchio (o “sulla spada”) nota soltanto al Venerabile che guida la loggia. Sono anche concordi nel riferire la grande crescita di iscrizioni all’aumento delle vocazioni esoteriche, in una fase di crisi dei valori. Qualunque sia il motivo, i dati raccontano una storia di successo. Nel 1992, in piena tempesta Cordova, quando il gran maestro cosentino Ettore Loizzo denunciava all’allora numero uno del Goi Giuliano Di Bernardo che 28 logge calabresi su 32 erano in mano alla ’ndrangheta, i fratelli in Calabria erano circa 800 su circa 9 mila affiliati in Italia. Dopo il boom di iscrizioni a livello nazionale durante i 15 anni di granmaestranza di Gustavo Raffi (21 mila in 802 logge), l’attuale Gran Maestro Stefano Bisi ha dichiarato che su 23 mila iscritti al Goi in 805 logge (dati al 31 dicembre 2015) ce ne sono 2634 in Calabria e 2208 in Sicilia. Il 21 per cento degli affiliati è nelle due regioni più a sud dell’Italia. Le logge calabresi sono passate dalle 32 dei tempi di Loizzo alle attuali 80. La stessa proporzione (21 per cento) vale per la Gran loggia regolare d’Italia, obbedienza fondata da Di Bernardo e retta da Fabio Venzi con 2400 iscritti in Italia. La Gran Loggia degli Alam di Antonio Binni, seconda obbedienza in Italia con 8114 iscritti, ha la proporzione più bassa con complessivi 1357 fratelli calabro-siculi (16,7 per cento). In compenso 104 logge degli Alam su 510 totali sono in Calabria o in Sicilia (20,3 per cento). La piccola Serenissima Gran Loggia di Massimo Criscuoli Tortora (197 membri) ha la percentuale più alta con circa 60 fratelli affiliati alle tre logge calabresi (30 per cento) oltre agli iscritti alla loggia di Messina-Catania. Per ovvi motivi non si hanno cifre sulle obbedienze irregolari o spurie che sovrastano in numero le circa dieci obbedienze regolari. Le massonerie fai da te sono 124 secondo Criscuoli Tortora e 192 secondo Binni, di cui 97 nella sola Arezzo, patria di Gelli. La sproporzione è evidente, considerato che i residenti di Calabria e Sicilia sono 7 milioni, cioè l’11 per cento della popolazione nazionale. Inoltre, non è dato sapere quanti calabresi e siciliani siano affiliati a logge che non sono in Calabria o in Sicilia, per non parlare delle logge estere facenti capo a obbedienze italiane in vari paesi: Malta, Libano, Romania, Ucraina e in Canada a Toronto, città strategica nello scacchiere internazionale del crimine italo-americano. Nelle varie obbedienze si nota una prevalenza di iscritti a livello provinciale di Reggio, per la Calabria, e di Trapani, per la Sicilia, con una particolare vivacità esoterica a Campobello di Mazara e a Castelvetrano. È il regno di Matteo Messina Denaro, il capo latitante di Cosa nostra. Già nel 1986 a Trapani è emerso il radicamento della massoneria più oscura quando la polizia scoprì che il centro studi Scontrino era la copertura di sette logge inaugurate da Gelli sei anni prima e frequentate da politici, imprenditori e mafiosi. Le spiegazioni date dai responsabili a questo surplus di spirito iniziatico in Calabria e a Trapani sono le più varie. Sostiene Bisi che la prima Loggia italiana sarebbe stata fondata a Girifalco (Catanzaro) nel Settecento e si sa che i calabresi amano le loro tradizioni. Binni invece ha preso le distanze e dice: «Io non sono amato dai fratelli di Calabria e Sicilia. Hanno moltiplicato il numero di logge per contrastare la mia elezione». Più articolato il discorso di Venzi. In commissione antimafia il Gran Maestro con maggiore anzianità in circolazione (è stato eletto nel 2001 a 39 anni) ha dichiarato: «Bisogna verificare gli ambienti di Rotary, Lions e Kiwanis, dove massoni regolari e irregolari si incontrano. La ’ndrangheta sceglie le obbedienze spurie piuttosto che sopportare le nostre riunioni a carattere filosofico-culturale». Il presidente Bindi ha colto l’assist e ha replicato: «Questa è gente che si fa anni di galera. Si figuri se si spaventano per una conferenza». Ma il tema della cinghia di trasmissione fra massoneria ufficiale, non ufficiale e associazioni paramassoniche non è da trascurare. Nel tempio, come sostiene Venzi, «un fratello non mi deve sbagliare una deambulazione». Vietatissimo parlare d’affari. In una cena al Rotary è diverso. Non si portano guanti e grembiule. L’ambiente è più informale. E il Venerabile o gli Ispettori Magistrali non sorvegliano. Più problematico è il ragionamento sulle massonerie irregolari. Che ci sia una proliferazione è indiscutibile. Basta navigare mezz’ora sul web per essere sommersi da sigle mistiche rette da Gran Commendatori e Supremi Sovrani, in un’orgia di abbreviazioni che ricorda le targhe sulla porta dei direttori galattici nei film di Fantozzi. È vero che per creare un’associazione massonica bastano cinque minuti, sette persone un notaio. Ma poi? Aldo Alessandro Mola, storico di riferimento della massoneria in Italia, risponde: «Non vedo quale interesse potrebbe avere la ’ndrangheta a inserirsi in logge massoniche spurie che non hanno contatti su base nazionale o internazionale con le obbedienze regolari. Anche quando si parla di P2, se ne parla in modo inesatto. La P2 non era affatto una loggia coperta. Era una loggia speciale affiliata al Goi con tre caratteristiche. Primo: l’iniziazione non avveniva in loggia. Secondo: non c’era diritto di visita ossia altri fratelli non potevano visitare la loggia. Terzo: non c’era obbligo di riunioni. Infatti la P2 non si è mai riunita. La loggia di Gelli era una replica della Propaganda massonica, costituita nel 1877 come vetrina e fiore all’occhiello del Goi tanto che i fratelli erano dispensati dal pagare le quote. Anche la P2 aveva capitazioni ridicole. Il cantante Claudio Villa versava 2 mila lire all’anno e lo scrittore Roberto Gervaso 60 mila. Erano somme piccole anche negli anni Settanta».

La giustizia interna alla massoneria, esercitata in parallelo con quella dello Stato o “profana”, è un tema chiave dello scontro. Per quanto i giuramenti sulle costituzioni dei liberi muratori siano abbinati alla dichiarazione di fedeltà alla Costituzione della Repubblica e alla presentazione di certificati giudiziari e di carichi pendenti, l’indulgenza della giustizia massonica è un dato di fatto. Il timore è che questa inclinazione al perdonismo si estenda alle aule dei tribunali ordinari quando un fratello giudica un fratello o alle commissioni parlamentari quando un fratello scrive una legge che può favorire altri fratelli. Anche su questo i Gran Maestri, alle domande di Rosy Bindi, hanno dato una risposta compatta: nelle logge non ci sono magistrati, che non possono starci pena censura del Csm, e non ci sono parlamentari. Dipendenti pubblici sì, militari sì, professionisti in abbondanza e persino qualche sacerdote, ma nessuna traccia degli oltre 100 deputati e senatori che furono trovati negli elenchi della P2.

E i santisti? Mai sentiti nominare, hanno risposto compatti i Gran maestri a proposito degli esponenti riservati del crimine organizzato. Nemmeno del progetto separatista al Sud, durante la transizione fra Prima e Seconda Repubblica, si è parlato direttamente nell’aula della Commissione a palazzo San Macuto. Se ne stanno occupando i magistrati fra Sicilia e Calabria tirando le fila di una tradizione che inizia con il massone Andrea Finocchiaro Aprile, antifascista e leader indipendentista, figlio di Camillo, carbonaro, massone e ministro del Regno. Anche sui picciotti ordinari di Cosa nostra e ’ndrangheta la giustizia massonica è stata piuttosto pigra. A fronte dell’emergenza mafiosa, Raffi e Binni hanno demolito in 17 anni tre logge nel reggino (Caulonia, Brancaleone, Gerace) e una nel Lazio, per insufficienza di iscritti. Un altro caso è significativo. Nel 1992, mentre reggeva il Goi, Di Bernardo ha abbattuto la Rispettabile Loggia Colosseum di Roma, creata nell’immediato dopoguerra per accogliere gli agenti della Cia operativi in Italia. Il più noto era Frank Gigliotti, calabrese emigrato negli States. Anche Binni ha chiuso alcune logge degli Alam in Sicilia, per questioni amministrative: non pagavano le quote in polemica con il Gran Maestro. È un bilancio striminzito e, in materia di giustizia massonica, Di Bernardo ha confermato all’Antimafia che la condanna è un caso straordinario. In genere, si censura, magari si sospende. «Alla fine, tutti assolti». Le due eccezioni note sono quelle di Gelli, cacciato dopo lo scandalo P2 con un processo giudicato sommario e scorretto dallo stesso Di Bernardo, e Amerigo Minnicelli da Rossano (Cosenza), promotore di una lettera a Raffi nell’ottobre 2011 dopo l’inchiesta penale Decollo Money (riciclaggio e narcotraffico fra Italia e San Marino), che coinvolgeva l’imprenditore massone calabrese residente in Umbria Domenico Macrì. A fine gennaio Minnicelli ha consegnato all’Antimafia la lettera, firmata da altri trenta fratelli dissidenti rispetto alla gestione del numero uno regionale Marcello Colloca. L’Espresso ha potuto leggerla. Nella lista delle richieste a Raffi, che includono la consegna delle liste alla Direzione distrettuale antimafia, risalta il punto 3: «Non accada che i fratelli vengano “risvegliati” in Orienti diversi da quelli di loro provenienza». Tradotto in linguaggio profano, si sottolinea la fluidità eccessiva nei passaggi da una loggia all’altra di iniziati che hanno avuto problemi con la giustizia ordinaria o massonica. Né è pensabile che gli agenti segreti della Colosseum si siano iscritti alla bocciofila di quartiere dopo l’abbattimento della loggia da parte di Di Bernardo. L’ex Gran maestro del Goi e della Gran loggia regolare d’Italia, unica riconosciuta dalla Gran Loggia Madre di Inghilterra fondata tre secoli fa (1717), è uno dei quattro testimoni-chiave della Procura di Reggio Calabria, guidata da Federico Cafiero de Raho, nella sua inchiesta per associazione segreta ribattezzata Gotha dopo l’unificazione di cinque procedimenti (Fata Morgana, Araba Fenice, Sistema Reggio, Rhegion e Mammasantissima). Gli altri quattro sono tre collaboratori di giustizia siciliani: Tullio Cannella, Gioacchino Pennino e Antonio Calvaruso, che ha indicato il boss Leoluca Bagarella come uno dei pochissimi in Cosa nostra a conoscere la componente apicale segreta, e unificata, del crimine calabro-siculo infiltrato nei templi dei liberi muratori. Di Bernardo, 76 anni, è stato pubblicamente criticato dal successore Venzi per non avere tentato di ripulire il Goi dall’interno. Di sicuro ha molto da rievocare dei suoi 55 anni di militanza frammassonica. Ne ha dato prova all’antimafia parlando di un fallito traffico d’armi con il presidente del Togo, che al tempo era Gnassingbé Eyadéma, massone come molti leader della cosiddetta Françafrique. Il business sarebbe stato gestito dal suo predecessore alla guida del Goi. In audizione Di Bernardo non lo ha mai nominato ma è Armando Corona, il professionista cagliaritano chiamato a guidare il Grande Oriente dopo lo scandalo P2. Corona è scomparso nel 2009, quattro anni dopo Eyadéma. Ma i Fratelli d’Italia sono spesso coltelli, da vivi e da morti.

Nudo accanto allo scheletro: i riti della massoneria "hard". Un pentito racconta l'iniziazione da affrontare per entrare nella superloggia, scrive Gianfranco Turano il 21 settembre 2016 su "L'Espresso". Finora l'ammissione in loggia era stata svelata ai profani dal film “Un borghese piccolo piccolo” di Mario Monicelli con il Venerabile Romolo Valli che accoglie fra le colonne di Jachin e Boaz un Alberto Sordi voglioso di carriera. Ma il personaggio di Sordi è un semplice apprendista. Il superpentito Cosimo Virgiglio ha raccontato ai magistrati reggini un rito “molto duro”, chiamato “penta” perché riservato a cinque persone e dedicato a un grado iniziatico superiore. Nel verbale del 29 aprile 2015, ancora in larga parte riservato, Virgiglio parla di un personaggio, il cui nome è coperto da omissis, che ha il compito di sovrintendere al cerimoniale segreto e occupa le cariche di Gran maestro del Grande Oriente di San Marino e di Venerabile della loggia Montecarlo, madre di tutte le logge coperte. I cinque candidati pensano a una semplice formalità. È l’inizio di un’ordalia. «Vengono arrestati», racconta il pentito, «all’ingresso della dogana, si chiama così. Tutti belli pimpanti, ridono. Di colpo, pum, vengono bloccati e messi nel furgone al buio». Il Venerabile «si permetteva il lusso di farli morire al mondo profano perché il rito di iniziazione è molto duro. Lui si permetteva di farli morire al mondo profano nella Rocca di San Leo, la Rocca di San Marino». Virgiglio si riferisce alla Rocca o Forte di San Leo, antica capitale del ducato di Montefeltro che si trova circa 5 chilometri a ovest del territorio del Titano ma ancora in provincia di Rimini. La Rocca ha un particolare significato per il rito massonico perché le sue segrete hanno ospitato Giuseppe Balsamo conte di Cagliostro, frammassone e avventuriero settecentesco di fama internazionale. «Io l’ho vissuto», continua Virgiglio parlando del penta, «Non lì. Io l’ho vissuto a Vibo e ho fatto sette ore, seminudo con lo scheletro a fianco e una luce. Lì fai testamento». Il pubblico ministero che interroga, Giuseppe Lombardo della direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria, chiede se si tratti di uno scheletro vero. La risposta è affermativa. Come nel Borghese piccolo piccolo, la commedia all’italiana lascia presto il posto al dramma. Nel racconto di Virgiglio emergono i motivi che impongono ai livelli più riservati dell’associazione segreta tali durezze con chi deve “morire al mondo profano”. Virgiglio spiega al magistrato: «Per farle capire come materialmente è avvenuta l’interrelazione tra la componente massonica e quella tipicamente criminale, il varco, che nel gergo massonico è riferito alla breccia di Porta Pia, è costituito da quella nuova figura criminale che è identificata con la Santa. Attraverso quel varco, costituito dai santisti che sono rappresentati da soggetti insospettabili, il mondo massonico entra nella ’ndrangheta e non viceversa. Il ruolo di santista all’interno della ’ndrangheta non consente in automatico il contatto con la massoneria. È necessario che si individuino ulteriori soggetti-cerniera, in giacca, cravatta e laurea». Virgiglio delinea il doppio scopo strategico della nuova formazione. «Il sistema allargato aveva come obiettivo finale quello di garantire alla componente massonica, fortemente politicizzata, la gestione dei flussi elettorali. La componente di ’ndrangheta mirava al consolidamento dei capitali sporchi che andavano ricollocati sul mercato anche estero mediante strumenti finanziari evoluti». Virgiglio descrive per diretta conoscenza la struttura massonica calabrese grazie al «mio ruolo qualificato all’interno della Loggia dei due mondi di Reggio di cui detenevo il “maglietto pulito”; esiste il cosiddetto “maglietto sporco o occulto” che costituisce quell’ambito riservato o invisibile della stessa componente massonica; di tale contesto facevano parte numerosi soggetti collegati all’ambiente criminale di tipo mafioso che per evidenti ragioni non potevano essere inseriti nelle logge regolari ovvero nella parte visibile». Questi nomi sono ancora segreti, tranne uno che non è più perseguibile. Appartiene all’inventore della massoneria segreta italiana, morto a 96 anni nel suo letto alla fine del 2015. Licio Gelli, chi altri?

DA DE GASPERI A RENZI. COME L'ITALIA SI E' VENDUTA AGLI AMERICANI.

Da De Gasperi a Renzi. Come l’Italia si è venduta agli americani. Dalla Democrazia Cristiana ai Comunisti filo sovietici. La sottomissione dell’Italia ed il rispetto del patto con il diavolo, gli USA. 18 Ottobre 2016.  Obama riceve Renzi parlando in italiano: ''Patti chiari, amicizia lunga''. "Chiedo scusa per il mio accento, ma in italiano c'è un'espressione: patti chiari, amicizia lunga''. Così il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha voluto omaggiare l'ospite Matteo Renzi, giunto alla Casa Bianca con la moglie Agnese.

Dal film di Roberto Faenza "Forza Italia" del 1978, musiche di Ennio Morricone e montaggio di Silvano Agosti. De Gasperi nel 1947 si reca negli U.S.A. per firmare il patto col diavolo che ancora oggi ci vede sottomessi al paese più bellicoso del mondo.

Forza Italia di Roberto Faenza (1977). Forza Italia! è un film documentario sulla situazione politica d’Italia nel dopoguerra e negli anni del Miracolo economico italiano. Il film è stato montato nel 1977, utilizzando spezzoni di documentari filmati relativi alla storia italiana dal secondo dopoguerra fino alla metà degli anni settanta. Al regista Roberto Faenza si affiancarono nella realizzazione, in qualità di sceneggiatori, Marco Tullio Giordana e i giornalisti Antonio Padellaro e Carlo Rossella. Il titolo coincide solo fortuitamente con il nome dell’omonimo partito politico – la cui fondazione risale a diciassette anni dopo l’uscita del film – ma si rivelerà profetico: nel 2011 Faenza dirigerà con Filippo Macelloni il docufilm Silvio Forever. I documentari impiegati con la tecnica del collage nella realizzazione del film si riferiscono ai seguenti episodi della storia della Repubblica italiana:

Il viaggio di Alcide De Gasperi negli Stati Uniti nel 1947.

L’estromissione del Partito Comunista Italiano dai governi di unità nazionale.

L’istituzione del piano Marshall di aiuti economici americani per la ricostruzione dell’Europa, con particolare riferimento alla situazione italiana.

Le elezioni politiche del 1948, mettendo in evidenza l’utilizzo da parte dei partiti di frasi come: «Dio ti vede, Stalin no» e le prediche di padre Lombardi.

Il festival canoro di Sanremo.

Nunzio Filogamo che presenta in televisione “La rassegna del dilettante”.

La “Mostra dell’aldilà”, che presentava in modo atroce la situazione economica e sociale dell’Europa di oltrecortina.

La sconfitta della Democrazia Cristiana, guidata da De Gasperi nelle elezioni del 1953, a causa della quale ebbe termine l’esperienza dei monocolore DC” e prese l’avvio il periodo dei governi di coalizione prima con i partiti laici e poi con il PSI.

La sciagura della diga del Vajont, nel Veneto, nel 1963.

L’elezione di Giuseppe Saragat alla presidenza della Repubblica, nel 1964.

La strage di Piazza Fontana, a Milano, nel 1969.

La contestatissima visita del presidente statunitense Richard Nixon in Italia, all’epoca della guerra del Vietnam.

Papa Paolo VI che assiste a un comizio televisivo di Amintore Fanfani osteggiando il referendum a favore del divorzio.

Il presidente della Repubblica Giovanni Leone, mentre pubblicamente esegue il gesto scaramantico di «fare le corna».

Il congresso della Democrazia Cristiana del 1976, e la constatazione che non vi è seguito alla promessa di rinnovare la DC, rendendola più «trasparente» nelle sue decisioni, e più flessibile nell’elezione di nuovi volti dirigenziali, tra questi Aldo Moro.

Il film, uscito nelle sale nell’inverno 1977-1978, fu ritirato dalle sale pochi mesi dopo, in occasione del sequestro del presidente democristiano Aldo Moro, su richiesta del Ministero dell’Interno. Il 7 novembre 1993 venne proiettato su Raitre nell’ambito del programma Italiani brava gente di Giancarlo Santalmassi; il giorno dopo, la procura di Palermo si recò nella sede RAI di Saxa Rubra per sequestrare una copia del film, in quanto era parso che in alcuni fotogrammi Giulio Andreotti comparisse a fianco di persone sospette per Mafia. Nel 2006 il film è stato distribuito insieme a un libro di testimonianze (con interventi di: Roberto Faenza, Marco Tullio Giordana, Antonio Padellaro, Carlo Rossella, Gian Antonio Stella, Paolo Mereghetti, Manuel Gandin) con il titolo: Forza Italia! Il ritratto più divertente, spietato, censurato della Prima Repubblica. L’anno successivo, in occasione del trentennale dell’uscita, è stato presentato in apertura del Bellaria Film Festival Anteprima Doc a Bellaria Igea Marina.

Forza Italia, il film: le avventure di un nome, scrive Mario Sesti il 09/09/2014 su "L'Huffingtonpost.it". "Dopo aver fatto Forza Italia, non ho lavorato più per quasi venti anni": potrebbe essere un quesito della sfinge, un rebus. Chi è che può pronunciare una frase del genere? Per 98 persone su 100 solo una persona può dire di aver fatto Forza Italia. E non risulta sia mai stato disoccupato da allora. La soluzione è semplice: non è quella persona. Roberto Faenza è un regista che ha un robusto credito presso l'industria come presso la critica ed ha al suo attivo una importante filmografia che ha raggiunto una larga popolarità con film spesso tratti da importanti opere letterarie (tra cui Jona che visse nella balena, Sostiene Pereira, Marriana Ucria, L'amante perduto, Alla luce del sole, Prendimi l'anima, tra quasi venti titoli al suo attivo). Nel 1977, con la collaborazione di Antonio Padellaro, Marco Tullio Giordana e Carlo Rossella (sì, Carlo Rossella) lavora ad un documentario di montaggio che dal Piano Marshall al disastro del Vajont, da De Gasperi a Moro, da Paolo VI che plaude ai comizi di Fanfani al Presidente Leone che fa le corna, compone un affresco di alta tossicità satirica della Democrazia Cristiana: il film dà corpo su uno schermo ad una immagine di quel partito profondamente condivisa dalla pubblica opinione (non necessariamente antagonista). Il titolo di questo film era Forza Italia. Successo pazzesco. Solo che a qualche settimana dalla programmazione viene rapito Moro: che figurava tra i protagonisti, anzi "Lo intervistammo senza fargli capire quale sarebbe stato il contesto nel quale la sua testimonianza sarebbe apparsa". "Moro ebbe il tempo di vedere il film e ne fu così colpito che telefonò a Scalfari chiedendo se era possibile togliere dai tamburini della pagina dei cinema di Repubblica il suo titolo", ha raccontato qualche giorno fa lo stesso Faenza allo Sciacca Film Festival, una piccola ma incantevole manifestazione che ha dedicato a Faenza un omaggio. Al rapimento di Moro, il film venne ritirato dalle sale. "Andava così bene che sarebbe diventato uno dei più grandi incassi del cinema italiano. La cosa che più mi ha sorpreso, tuttavia, è stato scoprire che nelle carte di Moro di Via Monte Nevoso il film viene ad un certo punto citato dallo stesso statista come esempio per chi vuole capire cosa è diventato il suo Partito". La fantasia della Storia è più irresponsabile di quella del cinema. Non è finita qui. Nel 1993 il film viene ripescato dall'oblio e viene trasmesso da Rai Tre. Alla Digos sembrò di scorgere nei filmati di repertorio alcune immagini nelle quali Andreotti si incontrava con mafiosi che aveva sempre negato di aver mai conosciuto. Di nuovo, il film, viene sequestrato in quanto possibile prova in un processo. Quando Berlusconi fonda il suo partito, il film viene finalmente distribuito in DVD. "Ricevetti una telefonata di Dell'Utri, piuttosto preoccupato, che mi chiedeva di cambiare il titolo del film visto che loro stavano lanciando un partito con lo stesso nome". Faenza non ci pensa un attimo. "Cambiatelo voi. Io sono arrivato prima".

"Forza Italia!": Intervista a Roberto Faenza, scrive Sabato 20/06/2009 Sebastiano Davoli. Roberto Faenza, regista e sceneggiatore, ha pubblicato nel 1977 il film-documentario Forza Italia!, definito nella quarta di copertina del libro allegato al dvd (edito da Rizzoli) "antesignano del cinema di satira italiano, un ritratto comico ma allo stesso tempo crudele della lunga egemonia democristiana sulla politica nazionale: dal massimo fulgore alla degenerazione e crisi. Nello stile reso popolare anni dopo da Blob e da Michael Moore, Faenza propone un racconto esilarante a partire dal montaggio di filmati tagliati a spezzoni ripescati negli archivi dell'Istituto Luce e delle principali televisioni europee. Uscì nel gennaio del 1978, suscitando violente polemiche, ma venne ritirato dalle sale il giorno del rapimento di Aldo Moro. Da allora sparì dalla circolazione. Dopo molti anni di visibilità, arriva in libreria la versione integrale in DVD, con un libro che ne traccia la lunga ed appassionante vicenda, con una introduzione di Gian Antonio Stella, i saggi di Roberto Faenza e Paolo Mereghetti, le preziose testimonianze di Marco Tullio Giordana, Antonio Padellaro e Carlo Rossella". 

Che cosa ricorda del clima sociale e politico che la spinsero a realizzare il documentario Forza Italia!?

«L’idea del film arrivò a metà degli anni ’70. Alle elezioni del 1975 la sinistra aveva fatto un forte balzo in avanti e si respirava un’aria da fine “regime”, così allora veniva sentito il periodo del dominio democristiano. Insieme a un gruppetto di cineasti e giornalisti (Marco Tullio Giordana, Marco Bocca, Antonio Padellaro e Carlo Rossella, coordinati da una donna di rara forza e intelligenza, la produttrice Elda Ferri) concepimmo l’idea di costruire un affresco sui trent’anni del potere Dc, dalle storiche elezioni del 1948 sino ai giorni nostri (di allora). Cominciammo a scrivere una sceneggiatura, che era una cavalcata irriverente sul paese Italia, i suoi tic, le sue deformazioni e, soprattutto, il suo malessere politico. Dopodichè, ci mettemmo alla ricerca dei materiali, filmati, interviste, brani di repertorio, spezzoni televisivi… che potessero imbastire cinematograficamente quanto avevamo scritto nel copione. Fummo fortunati perché non solo trovammo quasi tutto ciò che avevamo immaginato, ma anche molto di più: ad esempio la famosa telefonata (talmente grottesca che ancora oggi molti credono sia stata “doppiata”) in diretta tra un ministro e il presidente del consiglio, piena di scurrilità e cinismo».

Quale fu la sua reazione e quella dei suoi colleghi alla censura? 

«Non avevamo calcolato che l’Italia di allora era ancora un paese fortemente illiberale, né potevamo sapere che l’alleanza in nuce tra Pci e Dc, l’avverarsi cioè dell’abbraccio ipotizzato da Berlinguer con la teoria del compromesso storico, avrebbe reso ancora più strette le maglie della libertà di espressione. Un primo avviso di quello che sarebbe successo, fu l’invito di Maurizio Costanzo a parlare del film nella sua trasmissione Bontà Loro. Poche ore prima della messa in onda arrivò lo stop dall’alto della dirigenza Rai e l’invito fu cancellato. Sulle incredibili censure che vennero dopo, sino al ritiro del film dalle sale cinematografiche il giorno del sequestro Moro, racconta tutto un libretto pubblicato dalla RCS nel 2007 accompagnato alla prima edizione in dvd del film, con una introduzione di Gian Antonio Stella».

Nel suo libro, allegato al dvd, afferma che i media principali (stampa e televisione) contribuirono all’esclusione del film dalle sale, non parlandone più, tantoché lei venne anche “bandito” dalla Rai per 15 anni. Cosa ricorda di quei fatti?

«Molto semplice, a parte che a ogni tentativo di intervista seguiva prima o poi un diniego, specie in Rai. Ricorda un redattore che sulla sua proposta di intervistarmi il capostruttura aveva scritto in rosso “Faenza no!”. Ma questo è il meno. Il peggio era che poiché i film si possono realizzare (in Italia è così) per lo più solo se esiste una prevendita televisiva, ogni mio progetto veniva cassato per mancanza di partecipazione televisiva. Ho avuto la fortuna di potermi avventurare verso progetti stranieri e grazie alle coproduzioni ho potuto ricominciare a lavorare. Devo anche lamentare una totale assenza di solidarietà, non soltanto da parte delle associazioni cinematografiche, ma anche da parte di quei giornalisti di settore e critici che erano stati ferventi paladini (giustamente) contro le censure cinematografiche ad alcuni film bollati per pretestuosi motivi “erotici”. Evidentemente le censure di tipo politico li ispiravano di meno».

Cosa pensa della censura al film Shooting Silvio? Quali sono le cose in comune con il suo film?

«Non l’ho visto e dunque non saprei che dire. Quale sia stato il tipo di censura non può che essere esecrata. Non dimentichiamo però che oggi in Italia c’è uno strumento ancora peggiore, quello dell’autocensura, praticata quasi ogni giorno da autori e produttori, i quali temendo che certi progetti non vengano finanziati (né dalla televisione, né dallo stato), neppure li propongono. E’ la ragione per cui il cinema italiano, fatte le solite eccezioni, è così poco coraggioso».

Leggendo le recensioni negative nel suo libro sembra di sfogliare alcuni giornali di oggi, se non gli stessi, su questioni che riguardano i poteri forti. Dato che la stampa sembra non cambiare, il cinema politico o “impegnato”, è cambiato? Se sì, in meglio o in peggio?

«Nulla è uguale al passato. Oggi grazie a internet possiamo leggere e scrivere di tutto. Ma solo perché non costa. Se però parliamo di film, i cui costi di produzione sono nella maggior parte dei casi non poco elevati, allora le cose cambiano e le possibilità di esprimersi liberamente si restringono. Ripeto: la stragrande maggioranza delle pellicole prodotte in Italia sono finanziate o dalle televisioni o dallo stato. Non occorre aggiungere altro».

Lei, sulle orme di Jean Vigo, con Forza Italia! ha ideato in Italia un genere, quello dei documentari politici in chiave satirica, ripreso in parte anche da Michael Moore. Che differenze ci sono al giorno d’oggi, secondo lei, tra il cinema politico (o impegnato) negli Stati Uniti e quello italiano?

«In America conta solo il mercato: se quello che fai produce soldi, nessuno ti può fermare. In Italia prima del mercato, c’è il potere. E il potere, come diceva un allievo di Freud, Cremerius, “non ha ali candide”».

Il nostro cinema sembra trattare più che la politica, la “malapolitica”. Si pensi a Il Divo, Il Caimano e lo stesso Vincere. Perché?

«Qualcuno in Italia ricorda un periodo di “buona politica”? Dai tempi dei Vicerè nessuno scrittore e tantomeno un regista ha potuto raccontare ciò che non esiste. A meno di realizzare un’opera di pura fantasia o fantascienza. Nessuno ancora ci ha pensato. Chissà…»

Perché, ad esempio, non si fanno film “positivi” sulla politica italiana? Un esempio potrebbe essere il fatto che in Italia vi è sempre la maggiore partecipazione di elettori alle urne rispetto al resto d’Europa.

«Mi sembra un po’ pochino. Il male poi interessa sempre più del bene. E’ vero però che ci sono esempi che andrebbero seguiti con più attenzione, ad esempio le associazioni del volontarismo, certi preti antimafia, i medici senza frontiere, Gino Strada…»

Cosa pensa del successo di Gomorra e de Il Divo? Possono davvero aiutare a cambiare qualcosa dei temi che trattano?

«Soprattutto Il Divo mi sembra un film di notevole interesse e coraggio, forse più per il linguaggio usato che per la tematica, alla fine un po’ troppo assolutoria del personaggio Andreotti (non condivido le critiche di chi lo accusa di essere addirittura apologetico). Tuttavia non mi sembra che questi due meritati successi abbiano aperto un nuovo solco, né fatto breccia sul sistema produttivo tutto sommato “ingessato” cui accennavo prima».

Che cosa pensa delle fiction italiane che trattano temi importanti romanzandoli, come le storie di Enrico Mattei e Bernardo Provenzano o le vite di Giovanni Falcone e Giuseppe Borsellino?

«Giancarlo De Cataldo in un incontro che ha avuto con gli studenti del mio corso, presso la Facoltà di Scienze della Comunicazione della Sapienza di Roma, ebbe a dire che la fiction italiana è ferma agli anni Cinquanta. Nel senso che ritrae un paese inesistente, edulcorato, conformista e cloroformizzato. Condivido in pieno questa osservazione. Messa a confronto con la fiction di oggi made in USA, la nostra appartiene a un mondo irreale, fatto per lo più di santi, papi, carabinieri e poliziotti indomiti, eccetera eccetera. I dirigenti televisivi si sono così appiattiti su questo genere che neppure qualche prodotto difforme riesce a lasciare il segno. Dal canto suo Sky sta praticando formule più coraggiose. Speriamo che ne derivi qualche scossone alla fiction generalista».

Il cinema può diventare il cane da guardia della politica come dovrebbe esserlo il giornalismo?

«Finchè il sistema di finanziamento al cinema è quello che è, il cinema italiano sarà sempre un cinema poco coraggioso, intimista, generico e commediolo. I produttori non rischiano perché non trovano finanziamenti fuori dalla televisione e dai sussidi di stato. Di conseguenza sceneggiatori e registi sanno di non poter presentare progetti di rottura».

Qual è il futuro del cinema politico italiano?

«Le considerazioni di cui sopra non sono tra le più ottimiste. Tuttavia poiché nulla è immobile e tantomeno certo, vale sempre la pena sperare in un cambiamento. Di Sebastiano Davoli

Roberto Faenza. Regista e sceneggiatore, è professore associato di "Teorie e Tecniche del Linguaggio Cinematografico" e "Teorie e Tecniche della Regia Cinematografica" nella Facoltà di Scienze della Comunicazione alla "Sapienza" Università di Roma».

Commedia degli equivoci per «Forza Italia!». Alla presentazione del cofanetto di Faenza sulla Dc si aspettavano una satira anti-berlusconiana, scrive Antonio Armano, Sabato 18/03/2006, su "Il Giornale". Alle 18.30 le poche sedie della libreria Feltrinelli di piazza Piemonte a Milano sono occupate e c'è qualcuno in piedi appoggiato agli scaffali. Quasi puntuali arrivano Enrico Deaglio e Paolo Mereghetti che presenteranno il cofanetto che contiene un libro e il docufilm satirico Forza Italia! col regista Roberto Faenza. Il pubblico è composto in gran parte da pensionati, visti gli orari assurdi delle presentazioni. Il titolo causa confusione e basta chiedere in giro: «Parla di Berlusconi?», per rendersene conto. Una donna sui sessanta e un uomo sui trenta hanno opinioni contrastanti. Ha ragione la donna. Ma il trentenne persiste a credere che il film, riproposto in dvd dalla Rizzoli a 28 anni dall'uscita, abbia come tema il presente. Il soggetto dunque non è Berlusconi. Però tutti si aspettano che se ne parli. E i riferimenti antiberlusconiani non mancano, ma Faenza è piuttosto critico nei confronti della sinistra: «Il film mancava di protezioni politiche ed era destinato a essere fatto a pezzi. Dai democristiani presi di mira nei trent'anni del loro governo. Dal Pci perché contrastava il clima da compromesso storico. L’Unità fece una recensione in cui venivamo accusati di fascismo, qualunquismo e diede il la al sequestro. Il rapimento di Moro fece il resto». Mereghetti rincara la dose: «Forza Italia è un film molto in anticipo sulla satira politica alla Michael Moore, fatto con materiale televisivo edito e inedito. Cerano stati film militanti ma erano robacce di propaganda marxista come quelle di Bernardo Bertolucci e Marco Bellocchio». Deaglio, che ai tempi era al quotidiano Lc, può rivendicare una recensione elogiativa. E rivela che, dopo avere rivisto il film, nella redazione di Diario, circolava una nostalgia scatenata dai cappottoni, dalle montature degli occhiali, dallo stile politico di De Gasperi e soci. Arriva il momento delle domande del pubblico e il livello di confusione appare alto se un attore, tale Emanuele Carlo Ostuni, si rivolge a Faenza così: «Dottor Ferrara». Poi si scusa («Ferrara, Faenza sempre nomi di città sono») e riempie di auguri pelosi il regista proponendosi come interprete dei suoi prossimi film. Il discorso si sposta sulla Rai. Faenza la indica come Male Assoluto, paradigma dello sfacelo di un Paese «che spende miliardi di vecchie lire per educare i ragazzi alla mattina a scuola e altrettanti la sera per diseducarli con la tv. La situazione non è destinata a cambiare se vincerà Prodi». Una signora del pubblico si fa portare il microfono e dissente. Faenza ribatte dicendo che vuole proprio vedere se dopo la vittoria dell'Unione si potrà fare satira sui politici del centrosinistra: «Io di certo non mi proverò a farla perché dopo il sequestro di Forza Italia ho dovuto lavorare all'estero per vent'anni e non ci tengo a mettermi di nuovo nei guai». Ci si trasferisce al piano superiore per vedere qualche spezzone del dvd. Faenza chiede che si veda la scena della telefonata tra Carlo Donat Cattin e Mariano Rumor dove si sentono molte parolacce. Finalmente viene trovata ma la telefonata si snocciola senza improperi. La gente ride lo stesso perché a Rumor, nomen omen, scappa una scoreggia. Resta un dubbio sospeso, da dove viene il titolo? «Da un'esortazione di De Gasperi. Qualcuno del partito di Berlusconi m'ha chiesto di cambiarlo. Cambiatelo voi, ho risposto». Ma vedendo il dvd, l'esortazione è di un inviato di Truman in Italia per il Piano Marshall. Insomma una presentazione commedia degli equivoci per un film di satira politica.

Quando Forza Italia era il film della sinistra. Il film di Faenza. (Gian Antonio Stella dal Corriere della Sera, 8 marzo 2006). ANNI SETTANTA. Un libro e un dvd ripropongono la vicenda della pellicola di Roberto Faenza e dei suoi protagonisti. Quando Forza Italia era il film della sinistra. Denunciò il potere democristiano. E al tempo del rapimento di Moro fu sequestrato. In un'Italia come quella, un Paese dove la Settimana Incom faceva titoli a tutta pagina che dicevano Le mondi ne sognano la polenta e dove ancora nel 1951 la Commissione parlamentare sulla miseria accertava che quattro milioni di persone non consumavano mai (mai!) nell`arco di un anno zucchero, vino e carne, bastava poco per sognare. Immaginatevi certi manifesti con un ponte che solcava l'intero Atlantico, carico di doni! O la foto di un container pieno di zucchero e farina e medicine fasciato dalla bandiera americana! O ancora la foto dello stesso segretario di Stato George Marshall carico di pacchetti regalo! Un manifesto era spaccato in due diagonalmente: di là c'erano dei poveretti ai lavori forzati dietro il filo spinato di un «centro colonico collettivo», di qua un contadino che fumava riposato davanti alla sua bella cascina stile Mulino Bianco. La propaganda comunista fu durissima contro questa pubblicità elettorale che agganciava gli italiani anche coi divi del cinema come Spencer Tracy, Rita Hayworth, Clark Gable, Gary Cooper o Tyrone Power: «Anche gli attori di Hollywood sono in linea nella lotta contro il comunismo!». E i muri di tutta l`Italia erano tappezzati di manifesti della sinistra altrettanto persuasivi, con un Gesù Cristo benedicente con tanto di aureola e una citazione dal Vangelo di Matteo: «Vi dico la verità. Difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli». Conclusione: «Votate per il socialismo, che redime i poveri dallo sfruttamento dei ricchi». E se la Dc affiggeva manifesti con un lupo travestito da agnello o un bambino che punta il dito accusatore dicendo: «Accuso mio padre e mia madre» (titolo di ripresa: «Potrebbe essere tuo figlio, se vincessero i comunisti») o ancora una bimbetta che fugge disperata («Salva i tuoi figli!») mentre un carro armato russo cerca di schiacciarla, non meno aggressiva era la risposta comunista. Come un manifesto che mostrava un ladro, col volto coperto da un fazzoletto con lo scudo crociato, che scappava nella notte con un sacco che portava la scritta «Premio di maggioranza». Era l`imitazione di un manifesto cinematografico che giocava sui nomi degli avversari: «La Forchettoni Associated Fá­lms presenta: L`ultima truffa. Con Gamella, Saramat, Spaccardi, Pigliabruna. Regia di Aspide de Capperi. Distribuito dalla Premiocrazia Grattiana. Vietato a tutte le persone oneste». Era durissimo lo scontro sui muri. Piú pesante ancora, peró, era lo scontro nelle piazze. Dove i democristiani, per dirla con le parole di Arminio Savioli su «l`Unità», usarono «Madonne lacrimanti, madonne sanguinanti, madonne sfavillanti». Indimenticabile una cronaca de «Il Messaggero» a proposito della statua della Vergine sulla facciata di Santa Maria degli Angeli ad Assisi: «Mentre l`aureola fissata alla statua e formata da molte e potenti lampadine rimane immobile, il volto della Madonna accenna a muoversi da destra a sinistra, nel mentre che il torace si solleva con un respiro affannoso». Al che i comunisti rispondevano tuonando baldanzosi contro De Gasperi: «Vattene, vattene, schifoso cancelliere, / se non ti squagli subito / son calci nel sedere». Guardi il film di Faenza e vedi il primo esempio della tivù del dolore o della tivù dei sentimenti con Aldo Fabrizi che fa irrompere in studio il marito di una donna da lei creduto in galera: «Martaaa! Martaaa! Moglie mia! Figli mii!». Senti il fuori-onda che ancora oggi sarebbe strepitoso a «Striscia la notizia» in cui Giorgio La Pira tira le orecchie («Devi smetterla col turpiloquio») a Ettore Bernabei che da toscano dice troppe volte ‘azzo. Ascolti lo stralunato entusiasmo del simpaticissimo presentatore Rudy Roma che al concorso Miss Italia strilla: «Che gambe! Che gambe! Cento di seno! Cento! Che numeri!». E ridi, ridi, ridi e poi ti scopri a dire: ma non è cambiato nulla! Certo, Forza Italia! è un film di parte. Dichiaratamente di parte. Costruito per demolire con il devastante accavallarsi di filmati originali e pezzi inediti, sepolti nei magazzini della Rai, la classe politica dell`epoca che mai era stata messa alla berlina dai giornali e dalla Rai di allora (indimenticabili i lunghissimi minuti della demolizione a un congresso Dc del fino ad allora potentissimo Amintore Fanfani), era così schierato che, uscito da quaranta giorni e accolto da violentissime polemiche ma anche da un clamoroso successo, fu ritirato dalle sale la stessa sera del sequestro di Aldo Moro. Vittima culturale dell`idiozia assassina delle Brigate rosse. Ma è un film imperdibile per tutti coloro che, siano schierati da una parte o dall`altra, vogliono capire come siamo diventati quelli di oggi. 

"Patti chiari, amicizia lunga": Renzi, Obama e il senso delle parole. La visita del premier a Washington: quando si parla una lingua che non è la propria, occorre usare frasi idiomatiche che spesso vanno intese non in maniera letterale ma estensiva. Un po' come "stai sereno", scrive Stefano Bartezzaghi il 18 ottobre 2016 su “La Repubblica”. Incontrando Matteo Renzi, Barack Obama gli ha rivolto un saluto e una frase gentile in italiano. Con questo sforzo ospitale ha così contribuito alla settimana della lingua italiana nel mondo. L'aveva inaugurata il giorno prima proprio Renzi, a Firenze, con un discorso sulla necessità di diffondere di più la conoscenza della nostra lingua e anche dei nostri prodotti. "Non dobbiamo fermarci alla letteratura", ha concluso: ma è quel che ha fatto lui stesso, il giorno dopo, quando ha risposto a Obama con un excursus culminante nell'Ulisse dantesco, che sta bene su tutto: "Fatti non foste a viver come bruti / ma per seguir virtute e canoscenza". Si poteva temere che scegliesse in funzione referendaria: "Le genti / del bel paese là dove 'l sì suona". Ma si è trattenuto in tempo, meglio così.          

Il problema è stato invece un altro. Quando si parla una lingua che non è la propria occorre usare frasi idiomatiche che spesso vanno intese in senso non letterale ma estensivo. Va così per quella scelta da Obama: "Patti chiari, amicizia lunga". Non poteva sapere che non è l'affettuosa constatazione che potrebbe sembrare: in Italia la usiamo in senso minaccioso. Un po' come "stai sereno", insomma. 

Referendum costituzionale: Mr America ha detto Sì, scrive Rossella Guadagnini il 14 settembre 2016. L'ambasciatore statunitense in Italia, John Phillips, appoggia il Sì nel referendum costituzionale proposto da Renzi. La notizia circola immediata, suscita reazioni, accende le polemiche, meraviglia. Il No al referendum costituzionale "sarebbe un passo indietro per gli investimenti stranieri in Italia" ha sostenuto, intervenendo a un incontro sulle relazioni transatlantiche, organizzato a Roma all'Istituto di Studi Americani. E aggiunge: "è una decisione italiana", ma il Paese "deve garantire stabilità politica: 63 governi in 63 anni non danno garanzia. Il voto sulle riforme costituzionali offre una speranza sulla stabilità di governo per attrarre gli investitori". E se i tuoni politici riportati dall'Ansa non bastassero arrivano i fulmini di cui parla la Reuters in materia economico finanziaria. L'allarme di Fitch sulle vicissitudini che potrebbero seguire a una eventuale vittoria del No. "Ogni turbolenza politica o problemi nel settore bancario, che si possano ripercuotere sull'economia reale o sul debito pubblico, potrebbe portare a un intervento negativo sul rating dell'Italia". Lo ha affermato il responsabile rating sovrani per Europa e Medio Oriente di Fitch, Edward Parker, a una conferenza a Londra, secondo quanto riferisce Bloomberg. "Se ci fosse un voto 'no', lo vedremmo come uno shock negativo per l'economia e il merito del credito italiano", ha dichiarato, come si legge sul sito online di Reuters. Fin qui la cronaca. Dunque vassalli degli americani (e, in subordine, degli inglesi) da allora e forever. Uno Stato a sovranità limitata, il nostro, un confine non dichiarato con cui occorre fare i conti. Sudditi non alleati: pare proprio sia questo il destino ultimo del nostro Paese da operetta, una penisola dalle coste frastagliate che si allunga in un mare strategico: il Mare Lorum. Perché presidiato da basi americane sulle sponde, solcato da sommergibili americani nelle acque, sorvolato da pattuglie aeree americane nei cieli. Ce ne eravamo mai accorti? Sììì, direte voi, o chi tra voi è più avveduto o sveglio o semplicemente vecchio. Quando si sussurra di poteri forti, quando si accenna a superiori ragioni, quando si fanno spallucce, quando ci si scambia un'occhiata significativa o quando un dito medio sfiora la palma della vostra mano mentre salutate qualcuno con una stretta efficace, allora proprio allora entrano in campo loro. La prima potenza mondiale, il primo motore, come avrebbe detto Dante: praticamente Dio, anzi God! God Bless America. Quanto li abbiamo ammirati, invidiati, ossequiati, imitati: nelle mode e nei tic; nelle indicazioni di mercato e nelle previsioni di spesa; nell'acquisto di armamenti; nella politica economica, in quella estera, in quella del lavoro, in quella energetica e culturale, dove le nostre idee erano le loro di prima, di dieci, venti anni prima. Quando nei film avevano la cucina economica o il telecomando, quando in tv avevano il benessere e il boom; e perfino sui libri di storia, li abbiamo amati e detestati, quando facevano la rivoluzione americana e scrivevano la dichiarazione di indipendenza. Quando parlavano di diritto alla felicità. E la nostra di indipendenza? La nostra di felicità? Quando Alcide De Gasperi andò a far visita negli Stati Uniti, a rendere omaggio o - detto più elegantemente - a stringere alleanze, non si piegò: non del tutto, almeno. Eravamo grati, molto grati, ma non volle che i "comunisti", gli acerrimi nemici, che erano pure i suoi antagonisti, venissero messi fuori, come loro chiedevano. Questo non piacque, impegnati com'erano con la caccia alle streghe e tutto il resto. Ma toccò fare buon viso a cattivo gioco. Salvo ritorsioni, ripicche, manovre, affaires di vario genere e natura, e depistaggi e inciuci e servizi deviati (da chi, per chi?) e assassini eccellenti e stragi di Stato e... Loro, sempre loro. L'oro. Per questo anche se cambiamo i presidenti, del Consiglio o della Repubblica, anche se cambiamo le alleanze interne, in questo Paese non cambia molto. Per questo i momenti critici della nostra storia sono stati risolti misteriosamente. Per questo l'origine degli eventi che hanno dato un svolta, anche drammatica, sono avvolti nella nebbia più fitta, alcune indagini fermate, le risultanze sparite, i passaggi resi invisibili, le traiettorie scomparse. Quello che ha permesso agli inglesi la Brexit senza troppi sconquassi? I cugini d'oltre Oceano. Ma c'è un'arma. E quest'arma pacifica si chiama Europa, se ancora qualcuno ci credesse, almeno un po'. E' quello che ci distingue, che ci ricorda con orgoglio che venivamo prima, una sfida che dimostri che siamo in grado di autogovernarci, senza dipendere, senza berci tutto, senza far finta di nulla. Senza restare in silenzio quando la sovranità che ci siamo conquistati a fatica, attraverso due guerre mondiali condotte disastrosamente, viene calpestata da potenze straniere che più che altro -a ben vedere- sembrano prepotenze. Rossella Guadagnini

Il vero volto degli aiuti, scrive Claudio Messora su "BioBlu" il 15 novembre 2012. Venerdì scorso, a L’Ultima Parola, vi ho mostrato come in maniera evidente e incontrovertibile si possa affermare che dietro al “grande sogno degli Stati Uniti d’Europa” ci siano in realtà le lobby statunitensi, delle quali Mario Monti ha rappresentato a lungo – e ancora rappresenta? – gli interessi. Gli Stati Uniti sono diventati il centro economico e politico del mondo occidentale dopo la devastazione prodotta dalla prima guerra mondiale. Mentre le fabbriche e le infrastrutture europee, fino ad allora invincibile locomotore del progresso e della produzione planetaria, venivano rase al suolo, l’America poteva coltivare indisturbata i suoi interessi e, con la scusa di erogare prestiti ai paesi del vecchio continente in guerra, indebitarli, acquisendo peso politico determinante nelle successive trattative di pace, con tutta la riorganizzazione che ne conseguì. Era cento anni fa. Con la seconda guerra mondiale le cose sarebbero peggiorate: l’influenza degli Stati Uniti d’America in Europa sarebbe diventata totale. L’Italia, uscendo dalla guerra come Paese sconfitto, subì una invasione in pieno stile. In Sicilia, grazie agli accordi storicamente acclarati tra la mafia locale e quella italo-americana per facilitare lo sbarco, la mafia prese il potere. De Gasperi fu chiamato in America e ricevette istruzioni per estromettere dal Governo le forze di sinistra (i socialisti e i comunisti, che fino ad allora avevano giocato un ruolo centrale). La campagna elettorale della Democrazia Cristiana venne finanziata massicciamente dalla Casa Bianca: vinsero con il 48,5%. Cambiammo per sempre. Oggi Monia Benini aggiunge un tassello, mostrando come anche dietro al Piano Marshall, il pacchetto di aiuti per la ripartenza dell’Europa dopo la seconda guerra mondiale, ci fosse in realtà un grande, immenso regalo alle lobby internazionali.

LA MENZOGNA DEGLI AIUTI. Di Monia Benini. Recentemente in Grecia è stato imposto un nuovo pacchetto di misure, drammaticamente pesanti, per poter ottenere in cambio una tranche di 31,5 miliardi di aiuti dalla troika, ovvero Fondo Monetario Internazionale, Commissione Europea e Banca Centrale Europea. Si tratta di tagli, di licenziamenti, di provvedimenti retroattivi su salari, stipendi e pensioni, oltre all’innalzamento a 67 anni dell’età pensionabile.

Nel marzo di quest’anno, la Grecia aveva già ricevuto aiuti della troika per un importo di 130 miliardi di euro. Ma c’è qualcosa che non va, anzi direi che è proprio tutto sbagliato, tutto folle. A partire dal termine. Si ostinano a chiamarli aiuti, ma sono tutt’altra cosa. Si tratta di prestiti, da dover restituire con relativi interessi. Ad esempio, rispetto ai 130 miliardi ottenuti in aiuto, la Grecia dovrà restituire nell’arco di 20 anni ben 274 miliardi di euro, ovvero oltre il doppio! Ma non solo, di questi 130 miliardi, il 52% è andato alle banche internazionali, il 23% è tornato alla BCE, il 20% è andato alle banche private greche e solamente il 5% è andato nelle casse dello Stato greco che dovrà rifondere tutti i 274 miliardi. E questo sarebbe l’aiuto? E’ un atto di killeraggio verso i cittadini greci! Ma attenzione, si tratta degli stessi aiuti ai quali dovrebbe far ricorso la Spagna; degli stessi aiuti, nascosti sotto la sigla del MES (il Meccanismo Europeo di Stabilità), o di qualche altra diavoleria che ci spacceranno come salva-Stati, ma che in realtà altro non è se non un salva banche. La storia dei cosiddetti aiuti alle nazioni europee è di lunga data, ma dal punto di vista storico, il salvataggio più noto risale al 1948 con il Piano Marshall. Vediamo dunque di capire se ci sono meccanismi simili alla base degli aiuti di allora e di adesso. Il piano Marshall deve il nome all’allora segretario di Stato degli Stati Uniti, George Marshall, ed era un piano di aiuti concepito ufficialmente non solo per contrastare il blocco sovietico, ma anche per ricostruire un’area – l’Europa – devastata dalla guerra, rendere nuovamente prospero il Vecchio Continente, ammodernare l’industria e rimuovere le barriere al commercio. “I bisogni dell’Europa per i prossimi 3 o 4 anni (cibo, materie prime, carburanti) sono molto più grandi rispetto alla capacità di acquisto e importazione da parte di questa zona, specie dagli Stati Uniti, e serve quindi un grande sforzo affinché non ci sia un totale deterioramento economico, sociale e politico. Il rimedio sta nel rompere il circolo vizioso e nel ripristinare la fiducia degli europei nella ripresa economica futura”. Non è un discorso di oggi, bensì un estratto dal discorso tenuto da Marshall ad Harvard nel 1947. Da lì a poche settimane, gli Stati Uniti crearono le agenzie nazionali e le strutture internazionali necessarie per i negoziati per la concessione degli aiuti all’Europa. Il piano Marshall ha fornito una piccola percentuale di aiuti a fondo perduto, ma principalmente un cospicuo ammontare di prestiti (con relativi interessi) a lungo termine che consentirono agli stati europei di finanziare gli acquisti negli USA. La portata di questi prestiti è tracciabile, come nel caso dell’Irlanda, che ottenne circa 146 milioni di dollari in prestito attraverso il piano Marshall, ma solamente 18 milioni a fondo perduto. Nel 1969, a oltre 20 anni dall’inizio del salvataggio, l’Irlanda aveva un debito dovuto al piano Marshall di ben 31 milioni di sterline, su 50 milioni totali del debito estero irlandese. Dopo la seconda guerra mondiale, le nazioni europee avevano quasi completamente esaurito le proprie riserve di valuta estera, necessarie per importare le merci di cui vi era bisogno. Fra l’altro l’Italia era già stata invasa con lo sbarco alleato dalle Amlire, una moneta fatta negli Stati Uniti, che ci aveva già resi dipendenti dall’America. Ma per tornare al piano Marshall (attivo dal 1948 al 1951), questo rappresentò l’unico modo per poter ottenere in prestito quanto bastava per acquistare i beni di cui c’era bisogno dagli Stati Uniti, che poterono affermare una posizione di predominio in larga parte dell’Europa. Il piano Marshall divenne quindi un utilissimo cavallo di Troia degli Stati Uniti per soggiogare l’economia e gli apparati produttivi europei. Fu lo stesso sottosegretario statunitense per gli affari economici Will Clayton a dichiarare i motivi profondi che si nascondevano dietro al piano Marshall: “Ammettiamolo apertamente,” disse in difesa dell’idea degli aiuti esteri “che abbiamo bisogno di mercati – grandi mercati – nei quali comprare e vendere.” In sostanza dunque l’intenzione non è di aiutare i paesi stranieri; è di ricompensare le multinazionali di casa che effettivamente ottengono i contanti mentre il governo acquista influenza politica all’estero. Will Clayton pubblicizzò il Piano Marshall come il trionfo della “libera impresa” e un’altra sua dichiarazione, nell’ipotesi che il comunismo fosse arrivato in Europa, fu: “la situazione che affronteremmo in questo paese sarebbe molto grave, dovremmo riordinare e riadattare la nostra intera economia in questo paese se perdessimo il mercato europeo”. Successivamente il presidente Truman organizzò un nuovo ufficio – l’Amministrazione per la Cooperazione Economica (ECA) – per distribuire gli aiuti, composto dai vertici dei maggiori interessi industrial-corporativi che beneficiarono ampiamente del Piano. Il piano Marshall giocò un ruolo fondamentale per la fondazione della Comunità Economica Europea, la CEE. Ben 13 miliardi di dollari furono concessi, in larghissima parte sotto forma di prestiti con interessi da restituire, ai paesi europei che si riunirono nell’organizzazione per la cooperazione economica europea, la OCEE, che divenne immediatamente il terreno per la creazione delle strutture che nel giro di pochi anni sarebbero state utilizzate dalla Comunità Economica Europea. La OCEE aveva il ruolo di allocare i prestiti statunitensi, mentre l’ECA – l’agenzia USA, composta dai rappresentanti dei maggiori interessi industriali corporativi a stelle e strisce – si occupò della vendita delle merci, che vennero quindi pagate in dollari. Più chiaramente, nel 1950 la OCEE fornì la cornice per le negoziazioni delle condizioni per l’area di libero commercio europeo e per istituire la CEE. Ora, seguendo I vari passaggi di questi presunti aiuti – in realtà prestiti – del piano Marshall, risulta ancora più evidente il peccato originale di questa Europa, nata non solo sul pilastro essenziale degli scambi economici, ma anche per soddisfare le esigenze del mercato e degli interessi delle corporation statunitensi. A partire dal piano Marshall dunque, appare evidente come gli aiuti siano stati concessi non certo con intento di salvataggio dei paesi in difficoltà, bensì per soddisfare gli appetiti delle lobby a stelle e strisce. E ancora oggi il meccanismo è lo stesso. La Grecia ce lo dimostra apertamente, con ciò che la Troika spaccia per aiuti: sono debiti pesantissimi da ripagare per finanziamenti concessi prevalentemente ai grandi gruppi bancari. E per ottenere questi aiuti ha dovuto cedere di tutto, e proprio alle grandi lobby internazionali: dalla gestione del sistema idrico, all’industria mineraria, a quella petrolifera, per non parlare di porti, aeroporti, infrastrutture, persino il sistema di difesa ellenico. Sarebbe dunque il momento di imparare la lezione dalla storia, creando nuove relazioni con gli altri paesi europei e con i paesi al di fuori dell’Europa e degli Stati Uniti che possono creare una nuova rete di rapporti commerciali e geopolitici. E soprattutto, quando sentiamo parlare di aiuti dalla Banca Centrale Europea o dal Fondo Monetario Internazionale, non rincorriamo le sirene che ci spingono ad impiccarci con nuovi debiti. Si abbia il coraggio di guardare cosa c’è nella pancia del cavallo di Troia e di gridare: “No grazie! Non vogliamo essere aiutati!”.

La dipendenza italiana dal dopoguerra a oggi. Le radici della dipendenza italiana vanno ricercate nell’ultima fase della Seconda Guerra Mondiale, quando con lo sbarco alleato in Sicilia vennero poste le premesse per la futura collocazione geopolitica del nostro paese, nell’ambito dello scenario determinato dalla Guerra Fredda, scrive Dario Romeo. Negli anni che seguirono la fine del conflitto gli Stati Uniti si assicurarono il controllo sul campo occidentale sia attraverso l’adesione dei paesi “alleati” (in realtà subalterni) alla NATO e al Piano Marshall –la cui necessità, contrariamente a quanto sostenuto dalla vulgata comune, fu indotta dagli stessi USA–, sia attraverso la pesante ingerenza sulle vicende politiche interne dei singoli stati, perseguita grazie all’opera della CIA e dei servizi segreti locali.

Il Piano Marshall. L’interpretazione ormai consolidata propagandata dagli ambienti filo-atlantici descrive il Piano Marshall come frutto della generosità dell’alleato americano e come lo strumento indispensabile per dare il via al boom economico che i paesi dell’Europa Occidentale conobbero nel dopoguerra. La realtà si rivela però assai diversa, a cominciare dalla genesi. Diversi studiosi hanno mostrato come tra il 1945 e il 1947 paesi quali Francia, Gran Bretagna, Belgio e la stessa Italia diedero avvio a un intenso programma di ripresa industriale. A tale programma si affiancò una politica di sicurezza fondata su trattati difensivi classici, come il Trattato franco-britannico di Dunkerque (1947), mirante al controllo di una eventuale rinascita di una politica aggressiva da parte della Germania Ovest. La ripresa della produzione fu talmente soddisfacente che diversi paesi europei prevedevano addirittura di riuscire a rimborsare i propri debiti di guerra contratti con gli Stati Uniti. Nel 1947 una crisi finanziaria li mise però in ginocchio: gli USA manovrarono per alzare drammaticamente i prezzi dei propri prodotti, facendo in modo che i paesi europei si trovassero improvvisamente alle prese con una grave mancanza di dollari, per poi proporre loro la soluzione. Il 5 giugno 1947 il Segretario di Stato americano George Marshall annunciò dall’Università di Harvard la decisione degli USA di elaborare e varare quello che sarebbe passato alla storia come il Piano Marshall. Molteplici le finalità del piano, a cominciare da quella di permettere la ricostruzione del capitalismo occidentale, favorendo al contempo l’integrazione politica ed economica dell’Europa occidentale (ovviamente in funzione degli interessi statunitensi), e sancendo così la fine della cooperazione antifascista con i partiti di ispirazione comunista. Non è azzardato affermare che fu proprio il Piano Marshall a costituire un momento fondamentale dell’avvio della Guerra Fredda, dal momento che analoghe iniziative nel campo sovietico furono di natura strettamente reattiva rispetto a quanto accadeva nel blocco occidentale. Nel settembre dello stesso anno, nella cittadina polacca di Szklarska Poręba venne costituito il Cominform. Nei documenti preparatori alla Conferenza di Costituzione del nuovo organismo (datati agosto 1947), il Segretario del Comitato Centrale del PCUS Andrej Zdanov illustrò le linee ispiratrici del Cominform, ovvero la necessità di transnazionalizzare la difesa dell’URSS e quella di mobilitare le organizzazioni democratiche contro il Piano Marshall. Non è azzardato quindi affermare che il Cominform costituì una risposta tutto sommato debole ai più ambiziosi programmi occidentali: non offriva aiuti economici, ma si incentrava sulla pura e semplice contrapposizione ideologica e politica. Tale debolezza trova un riscontro nell’atteggiamento del PCI in seguito alla svolta di Salerno: già nell’agosto 1945 Togliatti si dichiarò scettico sulla pianificazione economica, ovvero sulla possibilità di dare vita a una forma di socialismo, in un paese occidentale. Si trattava più realisticamente di puntare a un compromesso col modello capitalistico, una sorta di democrazia progressiva. Non sfugge la natura squisitamente tattica di queste affermazioni, ma allo stesso tempo è evidente che questa sostanziale accettazione del quadro capitalista non può non aver giocato un ruolo determinante nel favorire l’involuzione politica del PCI nei decenni successivi, i cui nefasti effetti sono quanto mai di attualità. A caratterizzare la condizione di tutti i paesi satelliti nel sistema bipolare che andava delineandosi vi era pertanto il problema della doppia lealtà, che investiva tutti i partiti. Non si trattava di ambiguità o di sotterfugi, bensì del fatto che l’interesse nazionale non era più da considerarsi come un assoluto, ma doveva essere perseguito (da un democristiano così come da un comunista) in relazione all’interesse del campo di appartenenza. Nel caso specifico italiano, per la DC la doppia lealtà significava mediare tra le aspirazioni italiane e quelle dell’area capitalistica, ovvero gli interessi geo-strategici degli Stati Uniti. In questo senso vanno lette le misure, alcune delle quali anche socialmente avanzate, che caratterizzarono l’azione politica democristiana nel dopoguerra e che avevano come scopo la nazionalizzazione della classe operaia e dei braccianti attraverso “l’integrazione negativa”, ovvero isolando politicamente i partiti e movimenti che li rappresentavano ed erodendone in questo modo il consenso. In linea quindi con le necessità strategiche fissate a Washington, occorreva scongiurare il rischio che in Europa Occidentale il modello socialista potesse diventare troppo attrattivo, e a tal fine si rendeva necessario coniugare il capitalismo con misure sociali progressiste e concedere limitati spazi di autonomia alle classi dirigenti (ovviamente fedeli all’alleato americano) dei paesi interessati. A tale proposito, va rilevato che un peso determinante nelle scelte degli Stati satelliti derivava non tanto dalle imposizioni degli Stati Uniti quanto dai diversi orientamenti delle stesse classi dirigenti in relazione alla gestione della dipendenza e di quei limitati spazi di autonomia che Washington concedeva. Al loro interno infatti potevano coesistere sensibilità più stataliste o più liberiste, più o meno attente all’interesse nazionale, sia pure in quadro capitalista e da una posizione assolutamente subalterna e dipendente in ambito geo-politico. È importante ricordare che in occasione delle Conferenze di Teheran e Mosca il compito di promuovere e gestire la ricostruzione dell’Europa Occidentale era stato assunto dalla Gran Bretagna, ma ben presto fu chiaro che Londra non sarebbe stata in grado di sostenere l’onere economico che una tale operazione avrebbe comportato. Quando gli USA lo capirono, si fecero trovare pronti nel sostituire gli inglesi, utilizzando così la ricostruzione come veicolo per legare gli Stati dell’Europa Occidentale al proprio sistema di potere, facendo leva sulla dipendenza economica per intensificare quella politica, con una speciale attenzione all’aspetto militare. La volontà di risollevare le sorti economiche e finanziarie dei paesi subalterni aveva infatti come finalità quella di liberare risorse per le politiche di riarmo, che fino ad allora erano gravate solo sulle spalle americane. Non a caso dopo il 1951 l’ERP (European Recovery Program, il nome ufficiale di quello che è conosciuto universalmente come Piano Marshall) cessò di esistere e gli aiuti divennero esclusivamente di tipo militare. L’enfatizzare la minaccia comunista molto pragmaticamente serviva anche a depotenziare la minaccia fascista, dal momento che si creava un obiettivo in comune e in questo modo si apriva la strada all’integrazione di elementi della fascisteria (ex-membri della polizia politica, ecc) nella NATO e nelle strutture più o meno segrete ad essa collegate (Gladio, Anello), coinvolte in azioni di “guerra sporca”, infiltrazione politica, ecc. Con una Direttiva Presidenziale il 4 aprile 1951 veniva istituito il Psychological Strategy Board (PSB), un organismo composto da direttore della CIA, Vicesegretario della Difesa e Sottosegretario di Stato. L’obiettivo era definire le linee guida e le modalità di conduzione della lotta ideologica al comunismo. Italia e Francia vennero individuate come terreni di elezione della sua attività e l’Italia in particolare fungerà da laboratorio.

I contenuti dell’ERP. Con la Conferenza di Washington il Dipartimento di Stato americano scopriva le carte e rivelò che il Governo avrebbe erogato agli Stati interessati gli aiuti promessi da Marshall in misura e qualità inferiore rispetto alle speranze europee e solo a condizione che i paesi sottoscrivessero dei pesanti trattati bilaterali in cui si ribadissero in modo stringente gli obblighi già elencati da Clayton in occasione della Conferenza di Parigi (luglio-settembre 1947), ma rimasti sino allora nel vago. Nell’ottobre del 1947 il Dipartimento di Stato USA dichiarò che il Congresso era disponibile a erogare solo aiuti in merci, per di più quasi esclusivamente surplus (invenduto e di qualità inferiore). Man mano che se ne chiarivano i termini gli aiuti apparvero sempre più inadeguati ai bisogni dei paesi europei. La strategia USA consisteva infatti nel guidare la ricostruzione occidentale verso una espansione della produzione ma senza lasciare grandi margini di autonomia ai paesi assistiti. Imponendo le merci, gli americani avrebbero influenzato i prezzi e distorto i canali commerciali dei paesi assistiti. Tra gli esempi in tal senso relativi all’Italia si possono citare l’obbligo di acquistare grano -che avrebbe comportato (e comportò) un aumento del prezzo al consumo dello stesso, con la conseguente generazione di una spirale inflattiva- o l’obbligo di acquistare il carbone, in virtù del quale lo Stato non era più in grado di utilizzare risorse per finanziare i progetti volti al conseguimento di una produzione energetica indipendente. Risulta evidente cosa ciò abbia significato in termini di dipendenza e assenza di sovranità nella sfera economica. Ormai trascinati nella Guerra Fredda, i paesi dell’Europa occidentale si trovarono a essere implicitamente ricattati dal Dipartimento di Stato americano che, sfruttando la loro dipendenza dal dollar-gap, reclamava un’apertura immediata delle frontiere, l’eliminazione dei cartelli, regole di libero mercato e controlli sull’uso degli aiuti. Una delle finalità del Piano Marshall consisteva nell’obbligare i paesi coinvolti a entrare nel circuito del Fondo Monetario e della Banca Mondiale. Ciò allo scopo di legarli in maniera sempre più stringente ai meccanismi del sistema capitalista a egemonia statunitense. Uno strumento fondamentale di tale progetto era rappresentato dai fondi di contropartita in valuta locale sotto controllo statunitense, i quali costituivano la chiave di volta del tentativo americano di controllo sulle finanze e sul mercato europeo in vista dell’attuazione degli impegni di Bretton Woods. Si trattava di un conto presso la Banca Centrale USA, dove avrebbero dovuto essere depositati fondi in valuta locale pari al valore in dollari delle merci che gli usa avrebbero regalato. Chiedendo di depositare tale somma automaticamente, prima o comunque a prescindere dalla loro vendita sul mercato, il Dipartimento di Stato mirava a eliminare la rete di doppi prezzi e sovvenzioni in vigore in tutti i paesi europei, soprattutto per i generi di prima necessità come grano e carbone, che influivano sul livello generale dei prezzi. Clayton e le altre teste d’uovo dell’amministrazione Truman si proponevano di porre i fondi di contropartita sotto il diretto controllo del Dipartimento di Stato, ed influenzare così direttamente gli investimenti e la politica finanziaria del paese assistito. In questo modo gli americani avrebbero trattato l’OEEC (Organisation for European Economic Cooperation) come un’area economica integrata, orientandola verso la stabilizzazione finanziaria e un’ideale divisione del lavoro. Alcuni di questi propositi rimasero solo sulla carta, dovendo fare i conti con resistenze e differenti strategie in merito, sia nell’amministrazione USA che tra le classi dirigenti dei paesi alleati. Il Piano Marshall più che un vero piano era infatti un progetto, teso ad elaborare una politica estera che coagulasse visioni diverse dell’interesse statunitense. L’esistenza di contraddizioni e ripensamenti non solo non deve stupire ma non deve essere rimossa dall’analisi storica a causa di una lettura a senso unico e astratta degli interessi americani, in merito ai quali coesistevano invece differenti letture e posizioni. Per poco tempo, l’unico paese che assunse posizioni critiche e si fece portatore delle istanze in difesa della sovranità (anche degli altri Stati) fu la Gran Bretagna, nel frattempo passata a un governo laburista, la quale arrivò addirittura a che minacciare di uscire dall’ERP. Gli Stati Uniti furono però abili a mostrarsi flessibili di fronte a queste resistenze, permettendo che i vari paesi si relazionassero in modo diverso tra loro, sulla base delle rispettive aspirazioni ed esigenze di politica interna. I sei punti della bozza Piano Marshall (quelli validi per tutti i paesi) erano i seguenti:

- consultazioni obbligatorie con il FMI, col diritto degli USA a proporre variazioni dei tassi di cambio, il che avrebbe significato potere imporre svalutazione ai paesi europei;

- politiche economiche più coordinate;

- abolizione di pratiche restrittive e introduzione del libero commercio, con l’estensione della clausola della nazione più favorita ai paesi occupati da truppe statunitensi (Corea, Giappone Germania);

- abolizione delle discriminazioni contro le esportazioni di materiali strategici;

- garanzie a favore degli investimenti esteri;

- creazione di un fondo di contropartita da impiegare per la stabilizzazione finanziaria o per gli investimenti, in accordo tra il paese assistito e gli USA;

Si trattava di misure che nei fatti costituivano una evidente limitazione della sovranità e dell’indipendenza dei paesi interessati, e che pertanto non da tutti potevano essere facilmente “digeriti”. Per questa ragione nei trattati formulati tra maggio e giugno ‘48 non furono ufficializzati ma vennero riformulati con una maggiore ambiguità interpretativa, rinviando così le autentiche decisioni ai successivi negoziati bilaterali tra le amministrazioni. I paesi, come già detto, si relazionano in modo diverso: la Gran Bretagna ad esempio mantenne la possibilità di continuare le politiche imperniate i deficit del bilancio e rifiutò la clausola della nazione più favorita in quanto occupata; l’Italia al contrario preferì sfruttare fino in fondo la dipendenza dagli USA, in quanto si riteneva che una corresponsabilizzazione degli americani nella ricostruzione avrebbe significato una maggiore stabilità per il governo anticomunista di De Gasperi. Non sarebbe stato più possibile parlare di un interesse nazionale separato da quello dell’area di appartenenza. Una volta accettata la supremazia americana, i governi europei dovevano cercare di influenzarne i processi decisionali per poterli indirizzare a proprio vantaggio. La funzione preminente della classe dirigente di ciascun paese diventava da un lato quella di rappresentare la propria nazione all’interno del melting-potstatunitense e degli organismi internazionali, dall’altro di rendere compatibili con i bisogni nazionali i nuovi e più pressanti vincoli di stabilizzazione capitalista imposti dal centro. Nonostante questi obblighi, restava comunque decisiva l’interpretazione che ciascuna classe dirigente avrebbe dato della sua funzione. Sebbene le scelte fossero talvolta obbligate, i modi di attuazione delle politiche comuni all’area capitalista ricadevano quindi nella piena responsabilità dei governi. È pertanto a questo livello che va giudicata la responsabilità di ciascun governo, sin dalle manovre di stabilizzazione effettuate per ottemperare agli impegni assunti a Washington. Alla base dei trattati bilaterali (articolo 1 comma 1) si faceva discretamente riferimento alla legge americana del 3 aprile 1948 (Foreign Assistance Act), vincolando così indirettamente i firmatari dell’ERP agli obblighi che il Congresso aveva imposto per l’erogazione degli aiuti. Si trattava di quattro principi, apparentemente generici, ma di fatto vincolanti nel senso di un’economia capitalista: un grande sforzo produttivo, l’espansione commercio estero, la creazione e il mantenimento della stabilità finanziaria interna e lo sviluppo della cooperazione economica. Questi principi erano seguiti dalla seguente espressione: “incluse tutte le misure possibili per mantenere equi assi di cambio ed eliminare progressivamente le barriere commerciali”. L’articolo 2 comma 1 dei trattati bilaterali prevedeva inoltre che il governo del paese firmatario avrebbe adottato “tutte le misure necessarie per assicurare che le merci e i servizi ottenuti con l’assistenza fornita ai sensi di quest’Accordo vengano usati per scopi che siano in armonia con il presente accordo”. Per lo Stato italiano l’obbligo era quello di adottare misure volte a prevenire intralci alla concorrenza nel commercio internazionale. L’invio delle merci seguiva un complesso iter. Una volta che queste venivano assegnate vi era l’obbligo per il paese assistito di pagarle, sebbene ne avesse beneficiato soltanto in un secondo tempo. C’era inoltre una sensibile disparità tra le allocations (proposta di aiuti) e quanto veniva effettivamente stanziato (shipments). Chi si rifà alla propaganda fa riferimento alle allocations, tuttavia le shipments totali ammontavano a 10, 4 miliardi di dollari nel giugno del 1951, per arrivare 11,4 miliardi di dollari nel giugno del 1952, quando ci furono gli ultimi invii. Anche considerando tutti gli aiuti militari la cifra totale non supererebbe i 22,4 miliardi. Va sottolineato che nel ’47 e nel 48 l’ERP non risultò essere l’aiuto più consistente in Italia, essendo superato da IA (Interim Aid) e UNRRA. I costi e i benefici dell’ERP variarono sensibilmente: alla fine del ’48 il ricavo lordo per il governo italiano non arrivò a un decimo del valore ufficiale degli aiuti, mentre alla fine del giugno ’49 raggiunse la metà. Il massimo ricavo, il 90%, venne raggiunto nel 1950 per poi ridiscendere a circa il 70% dei fondi ufficiali alla fine del 1951. Così, a causa della differenza tra prezzi statunitensi e prezzi italiani, l’Italia co-finanziò i fondi di contropartita ufficiali in media per quasi un terzo del totale.

L’integrazione europea come dipendenza. Il processo di integrazione europea, che prende avvio ufficialmente con la fondazione della CECA (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio), va inserita anch’essa nel contesto storico e geo-politico del dopoguerra, rivelandosi così come un tassello fondamentale di quell’operazione volta a legare in modo indissolubile gli Stati europei agli USA, attraverso rapporti di natura neo-coloniale in tutti gli ambiti: politico, economico, culturale, militare. Prendiamo appunto la fondazione della CECA negli anni Cinquanta. Salutato come un accordo teso a superare divisioni e contenziosi in Europa, in realtà nacque sotto supervisione USA al fine della produzione di armamenti destinati alla NATO. Carbone ed acciaio, infatti, erano e tuttora sono materie prime indispensabili per la produzione bellica. In nome della “pace” e della “sicurezza” del Continente si operò quindi sotto traccia, in direzione di una stretta dipendenza dai centri politici statunitensi. È pertanto da smentire con forza l’idea secondo cui l’Unione Europea costituirebbe almeno potenzialmente la conditio sine qua non per la creazione di un polo geo-politico autonomo e alternativo agli Stati Uniti. Ripercorrendo la storia dell’integrazione europea, risulta evidente che l’avanzamento dei processi unitari procede di pari passo con l’intensificarsi del legame nei confronti di Washington. I freni e i parziali ripensamenti che, tra la seconda metà degli anni Sessanta e gli anni Settanta, arrivarono da Oltreoceano rispetto all’integrazione furono di carattere meramente contingente e non mutarono nella sostanza le finalità del processo, né tantomeno lo rimisero in discussione. In tal senso va considerata l’uscita della Francia di De Gaulle dal Comando integrato NATO (non dalla NATO tout court, come spesso si crede, dal momento che il paese d’Oltralpe rimase nel Patto Atlantico a tutti gli effetti) nel 1966. Il fatto che i francesi avessero dato vita a una propria forza di deterrenza atomica, sia pure limitata, provocò certo il malumore di Washington, ma non bisogna dimenticare che questa era rivolta comunque contro l’URSS, a dimostrazione che l’intendimento di De Gaulle era quello di ritagliarsi una posizione di partner privilegiato degli USA, ma sempre nell’ambito del blocco occidentale, non certo di rimettere in discussione la collocazione della Francia nell’area atlantica. Analogamente, la Ostpolitik di Willy Brandt suscitò qualche preoccupazione negli USA, ma è evidente che mai la Germania pensò di riorientare la propria politica estera in ottica pro-sovietica. Lo stesso asse franco-tedesco, il cui fondamento risale al Trattato dell’Eliseo del 1963, funzionò a dovere quando entrambi i paesi si trovavano in perfetta sintonia con Washington, e difatti la dottrina tedesca in materia di sicurezza si basava (e si basa) sul doppio pilastro tedesco-statunitense e franco-tedesco. Lo storico e giornalista Joshua Paul, attualmente collaboratore del U.S. Army Force Development Directorate, ha mostrato, grazie a documenti declassificati dell’Amministrazione USA, come l’integrazione europea sia stata di fatto una creatura del Dipartimento di Stato USA e della CIA. Al fine di promuovere infatti “l’ideale europeo”, gli Stati Uniti si avvalsero dell’ACUE (American Committee for United Europe), creato nel 1948, un anno dopo il varo del Piano Marshall e un anno prima di quello della NATO. Dell’ACUE facevano parte politici, giuristi, banchieri e sindacalisti, ma il nerbo centrale era costituito da uomini dei servizi segreti, come il primo presidente William Donovan (a capo dell’OSS durante la Seconda Guerra Mondiale, l’organizzazione precorritrice della CIA), Allen Dulles (direttore della CIA dal 1953 al 1961), Walter Bedell (primo direttore della CIA), Paul Hoffmann (ex ufficiale dell’OSS, capo dell’amministrazione del Piano Marshall e presidente della Fondazione Ford). Significativo il fatto che fu proprio Donovan, con un memorandum del 26 luglio 1950, a dare istruzioni per una campagna a favore del Parlamento Europeo, ma lo è ancora di più una comunicazione del Dipartimento di Stato USA datata 11 giugno 1965 e inviata al vice presidente della Comunità Economica Europea (CEE), Robert Marjolin, con la quale si invitava a portare avanti in segreto il progetto dell’unione monetaria: non se ne sarebbe dovuto parlare fino a che l’adozione di proposte del genere non fosse divenuta praticamente inevitabile. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, è stata la nascita dell’euro, considerato dagli USA uno strumento di dominio sulle economie degli Stati europei, essendo più semplice controllare un’unica valuta emessa da una Banca Centrale svincolata da esigenze politiche, anziché una pluralità di valute sovrane ed istituti di emissione soggetti al controllo politico dei governi dei singoli Stati. L’ACUE fu il principale finanziatore del Movimento Europeo, una piattaforma di organizzazioni europeiste creata formalmente dopo il congresso dell'Aia del 7-11 maggio 1948. Già in quell’occasione veniva delineato l’obiettivo del processo di integrazione, ovvero l’Unione Europea politica ed economica, caratterizzata da liberalizzazione dei movimenti di capitale, unificazione valutaria e coordinamento delle politiche di bilancio e del credito. Se le prime due tappe sono già state raggiunte per mezzo dell’euro e, prima ancora, dei vari trattati europei che a partire dagli anni Ottanta hanno smantellato il controllo politico da parte degli Stati sui propri sistemi finanziari, non sfugge agli sguardi più attenti che la centralizzazione delle politiche di bilancio si vada delineando come lo sbocco naturale del processo innescatosi con l’attuale crisi (indotta) del debito. Da più parti (le forze politiche e i media di ispirazione liberista ed atlantista) si insiste infatti nel dire che per uscire dalla crisi ci vuole “più Europa”, in altre parole un avanzamento nel processo di centralizzazione delle decisioni in ambito economico in vista della costruzione degli Stati Uniti d’Europa. In questa direzione si inscrivono tra l’altro alcuni recenti provvedimenti come il Fiscal Compact, nonché l’istituzione del MES (Meccanismo Europeo di Stabilità). Il Movimento Europeo ha giocato un ruolo essenziale nel processo di integrazione europea, esercitando la propria influenza sulle istituzioni nazionali e comunitarie fino ai giorni nostri. Tuttavia è stato l’ACUE a gestire i programmi del Movimento e a dirigerne i leader, erogando i fondi solo a condizione che l’esecuzione proposta fosse precedentemente approvata e agendo in modo tale da impedire la raccolta dei fondi stessi in Europa, mantenendo così il Movimento dipendente dall’America. I finanziamenti ai federalisti europei avvenivano tramite canali come la Fondazione Ford, la Fondazione Rockfeller e uomini d’affari legati agli Stati Uniti. I leader del Movimento Europeo erano considerati dalla Commissione Americana per l’Europa Unita addirittura come “suoi uomini”. Si trattava del Primo Ministro e Ministro degli Esteri belga Paul-Henri Spaak (uno dei firmatari dei Trattati CECA ed Euratom del 1957), del Ministro degli Esteri francese Robert Schumann, di Jean Monnet (Presidente dell’Alta Autorità della CECA). Tra i principali interlocutori dell’ACUE figuravano anche personalità come quella di Giovanni Agnelli, di Giovanni Malagodi (ex segretario del Partito Liberale), di Ugo La Malfa (ex segretario del Partito Repubblicano) e di Franco Malfatti, sottosegretario DC di vari governi dal 1958 al 1960 e Presidente della Commissione Europea dal giugno del 1970 al marzo del 1972. Va sottolineato che l’integrazione politica europea è stata sin da principio (ed è tuttora) indissolubilmente legata all’integrazione militare, ovviamente entro la cornice atlantista della NATO. I differenti atteggiamenti prodottisi storicamente da parte delle amministrazioni USA vanno anche in questo caso letti come il frutto di differenti visioni sia dell’interesse americano sia della modalità ottimale di portare avanti il processo di integrazione: si va perciò dai più convinti sostenitori del federalismo europeo a coloro i quali pongono l’accento soprattutto sulla necessità di creare una difesa comune europea, dal momento che ciò esigerebbe una maggiore partecipazione dei paesi europei alle spese militari dell’Alleanza Atlantica, per arrivare a chi invece ritiene indispensabile mantenere un certo protagonismo statunitense nel processo di integrazione, al fine di intervenire e creare dissenso tra i paesi membri qualora si presentasse l’eventualità di una leadership europea ostile agli interessi americani[6]. Una posizione, questa, diffusa per lo più negli ambienti repubblicani (mentre i democratici al contrario risultano spesso tra i più strenui sostenitori del federalismo europeo) e che costituisce la sponda politica privilegiata oltreoceano per quegli “euroscettici” di matrice liberal-conservatrice, proiettati verso una rinegoziazione dei contenuti della dipendenza con il proposito di strappare condizioni più vantaggiose, in cambio dell’assoluta fedeltà all’atlantismo. È significativo comunque che dopo la caduta del Muro di Berlino il processo di allargamento verso est dell’Europa sia andato di pari passo col processo di allargamento verso est della NATO. Di più: per ogni nuovo paese membro l’adesione all’Unione Europea è stata sempre preceduta dall’adesione alla NATO, a testimonianza del fatto che non esiste alcuna autonomia geopolitica dell’Europa rispetto agli USA. A tale proposito, non è un caso che le sporadiche voci di (parziale) dissenso nei confronti di Washington siano state storicamente espressione unicamente di singoli governi nazionali. Al contrario, le prese di posizione degli organi comunitari dell’Unione Europea, quando sono arrivate, si sono sempre rivelate più che allineate con quelle dell’alleato/padrone d’oltreoceano.

L’accelerazione del processo di integrazione europea a partire dalla seconda metà degli Anni Settanta. Gli Anni Settanta sono un decennio cruciale sotto molti aspetti: la crisi petrolifera del 1973, la fine della convertibilità aurea e degli accordi di Bretton Woods nel 1971 sono tutti fattori che concorrono a determinare quella svolta liberista teorizzata dalla Scuola di Chicago, il cui principale esponente, Milton Friedman, riceve il Nobel per l’economia proprio nel 1976. Tra la fine degli Anni Settanta e l’inizio degli Anni Ottanta assistiamo a fenomeni di indubbia rilevanza, che segnano un passaggio epocale: la fine della stagione di grande conflitto sociale e politico avviatasi nel 1968 e gli anni del cosiddetto “riflusso” (la ritirata nel privato dopo i “botti finali” del ’77 che chiudono un decennio alquanto turbolento), le elezioni di Margareth Thatcher e Ronald Reagan e l’ascesa al soglio pontificio di Giovanni Paolo II. A ciò si devono aggiungere le vicende del blocco socialista, il quale continua a crescere economicamente nella prima metà del decennio per poi iniziare manifestare evidenti segnali di crisi, sia sul piano economico che su quello politico. In questo quadro va collocata l’accelerazione del processo di integrazione europea, che si accompagna indissolubilmente a misure di segno ultra-liberista. Nel 1979 viene creato lo SME (Sistema Monetario Europeo), il quale prevedeva per i cambi monetari una banda di oscillazione massima fissata al 2,5% (con l’eccezione dell’Italia, per la quale il tetto era del 6%), il cui scopo era quello di promuovere un sistema di cambi fissi tra i paesi europei. Una sorta di anticipazione, in forme più blande e flessibili, del sistema-euro. Questo meccanismo obbligava ad adottare una politica di tassi d’interessi elevati al fine di compensare il minore afflusso di valuta dovuto al passivo dei movimenti di merci. Lo SME costituiva un passo preliminare per la creazione di uno spazio europeo integrato dal punto di vista finanziario e basato sui principi della libera concorrenza e della totale liberalizzazione dei movimenti di capitale. Obiettivi su cui ci si impegna con la sottoscrizione dell’Atto Unico Europeo nel 1986 e che poi verranno formalizzati col Trattato di Maastricht nel 1992. Durante gli Anni Ottanta vengono poi smantellati ad uno ad uno tutti gli strumenti della cosiddetta repressione della rendita finanziaria, sino ad allora fondamento indiscusso della politica economica italiana. Attraverso questi strumenti il risparmio dei residenti (cittadini o stranieri, famiglie o imprese) non poteva uscire liberamente dai confini nazionali, ma era spinto ad essere investito e depositato nel nostro paese e ad essere trasformato in obbligazioni, pubbliche e private, emesse in Italia. Erano infatti in vigore i divieti di esportazione della moneta, di acquistare quote di società aventi sede fuori dal territorio della Repubblica Italiana, di acquistare ed esportare titoli emessi all’estero e pagabili all’estero. La necessità di autorizzazioni amministrative e la possibilità che esse venissero negate spingevano il risparmio italiano verso investimenti e prestiti ad attività produttive che si svolgevano in Italia, verso l’acquisto di titoli, azionari e obbligazionari, pubblici e privati, emessi in Italia, nonché verso l’effettuazione di depositi in filiali di banche aventi sedi in Italia. Già per questa ragione si creava una domanda di titoli obbligazionari che altrimenti non vi sarebbe stata, con la conseguenza che direttamente (per la domanda di titoli del debito pubblico) e indirettamente (per la generale domanda di titoli obbligazionari) tendevano a scendere i tassi di interesse sui titoli del debito pubblico. Se il risparmiatore è libero (e i gestori del risparmio sono liberi) di investire in ogni luogo del mondo, sovrano è il risparmiatore (e i gestori) ma non lo Stato e quindi il popolo, che deve alzare interessi per attirare i “prestiti” dei cittadini e dei residenti e non soltanto dei risparmiatori stranieri. Esisteva poi il vincolo di portafoglio, attraverso cui le banche commerciali erano obbligate ad acquistare obbligazioni in una “rosa” indicata dalla Banca d’Italia, che disciplinava anche come amministrare il portafoglio. Si trattava in parte di uno strumento di politica industriale, poiché consentiva di far affluire il risparmio verso particolari settori reputati importanti. Lo smantellamento del protezionismo finanziario ha un passaggio assolutamente fondamentale nel 1981, quando viene sancito il divorzio tra la Banca d’Italia (presieduta al tempo da Carlo Azeglio Ciampi) e il Ministero del Tesoro (in mano allora a Beniamino Andreatta): da quel momento la Banca d’Italia non garantisce più la sottoscrizione dei titoli rimasti invenduti. Diminuirà così progressivamente il finanziamento monetario delle esigenze del Tesoro, costretto ad alzare i tassi d’interesse sulle emissioni di titoli per poterli piazzare. Nel 1983 viene accantonato il massimale sugli impieghi, strumento della politica creditizia consistente nel fissare un limite massimo all’espansione degli impieghi bancari, al fine di determinare una diminuzione dei tassi d’interesse sul mercato finanziario. Nello stesso anno cadono anche gli ultimi vincoli di portafoglio, mentre nel 1984 vengono allentate le restrizioni nell’assegnazione di valuta per i viaggi all’estero. È del 1987 invece l’abolizione del deposito vincolato infruttifero sull’acquisto di attività estere, mentre nel 1990 entra in vigore la direttiva CEE sulla liberalizzazione dei movimenti di capitali a breve termine. Liberalizzazione che come detto verrà completata (estendendola ai tutti i movimenti di capitale) dal Trattato di Maastricht del 1992. Nel 1993 cade poi lo scoperto del conto corrente di Tesoreria presso la Banca d’Italia, in vigore dal 1948. Il Tesoro aveva sino ad allora goduto di questo credito automatico, verificato con riscontro mensile. Lo scoperto aveva il limite del 15% (poi 14%) delle spese risultanti dal bilancio di competenza (la disposizione è stata formalmente abrogata nel dicembre 2010, ma era inapplicata dal 1994, dall’entrata in vigore del Trattato di Maastricht, che, nell’art. 104, ora 123 del TFUE, ha vietato ogni forma di anticipazione della banca centrale verso gli Stati membri della UE). Lo Stato italiano pagava l’interesse dell’1% e spese basse e forfettarie, qualsiasi fosse il livello d’inflazione. Attraverso questo strumento si consentiva allo Stato di introdurre moneta in base alle esigenze necessarie a promuovere la piena occupazione e a fornire i servizi pubblici essenziali, oltre che a finanziare le funzioni pubbliche. Il regime di finanziamento del fabbisogno pubblico sottraeva il finanziamento pubblico alla concorrenza dei mercati finanziari.  Lo scoperto del conto corrente di Tesoreria era parte essenziale di quel regime. A tal fine era necessario che parte del denaro depositato presso le banche commerciali dai residenti – cittadini e stranieri, imprese con sede in Italia e famiglie – andasse a finanziare il debito pubblico, ponendo vincoli alle banche che esercitano la raccolta dei depositi: l’intermediazione finanziaria doveva essere posta al servizio della collettività. Il risultato si poteva ottenere, e durante la prima Repubblica fu ottenuto, mediante il ricorso ad una elevata riserva obbligatoria, quale strumento per convogliare parte rilevante del risparmio dei residenti – soprattutto i piccoli e i piccolissimi depositi effettuati presso le filiali delle banche commerciali – verso l’acquisto di titoli del debito pubblico. Tra le rilevanti conseguenze dell’abolizione di queste norme vi è il fatto che viene meno l’obbligo di utilizzare il sistema bancario per i rapporti economici con l’estero. L’incanalamento di tutte le transazioni con l’estero nel sistema bancario, fino ad allora prevalentemente statale, consentiva a Tesoro e Banca d’Italia di attuare controlli coercitivi sui flussi valutari e sui cambi. Si rinuncia così a cuor leggero a strumenti decisivi per l’esercizio della sovranità monetaria e finanziaria. Il sistema delineato da questa gigantesca opera di deregolamentazione dei flussi finanziari costituisce l’impalcatura al sistema dell’euro, il quale non sarebbe stato altrimenti concepibile ed i cui effetti nefasti sono sotto gli occhi di tutti. In primo luogo il fatto che lo Stato non possa esercitare alcun controllo sulla politica monetaria danneggia in maniera letale un sistema produttivo da sempre legato all’esportazione (e quindi alla svalutazione); in secondo luogo l’unificazione valutaria beneficia – come sempre in questi casi – unicamente il “centro” (la Germania), che esporta merci e capitali nei paesi della periferia, con l’effetto di desertificare il loro sistema produttivo e di innescare una crescita esponenziale del debito, il quale ha cambiato completamente natura rispetto al passato. Se un tempo esso veniva infatti contratto con i cittadini risparmiatori, oggi lo Stato deve invece finanziarsi sul mercato, attraverso la vendita di titoli a tassi d’interesse sempre più alti per attrarre i capitali (esteri soprattutto).

Conclusioni. Il processo d’integrazione europea si inserisce, sin dai suoi primi passi, nel quadro della dipendenza atlantica, la quale si è dispiegata nel nostro paese attraverso una pluralità di canali a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Non solo è stato fortemente voluto dagli USA (a dispetto delle teorie di una certa vulgata che vedono nella UE un – quantomeno potenziale – concorrente geopolitico degli Stati Uniti), ma gli obiettivi fino ad ora raggiunti erano stati fissati già nei primi anni del Dopoguerra. Una conferma in tal senso ce la fornisce l’assoluta centralità che l’adesione alla NATO rappresenta come requisito per ogni paese che si candidi a entrare nell’Unione Europea. La crisi prima e l’implosione poi del blocco sovietico hanno fatto venir meno le ragioni che giustificavano nei paesi dell’Europa occidentale quel compromesso fra capitale e lavoro di matrice keynesiana che aveva contraddistinto i cosiddetti “trent’anni gloriosi”, e lo stesso discorso vale per la sia pur limitata autonomia concessa dagli USA ai propri alleati/subalterni in politica estera negli stessi anni. La spinta decisa verso il modello neo-liberista (avviata già a partire dagli Anni Settanta) e la riaffermazione della propria egemonia nel campo occidentale contro eventuali concorrenti sul piano economico (in primis la Germania) sono stati i cardini della strategia statunitense dopo la caduta del Muro di Berlino. In questo senso va letta l’accelerazione del processo d’integrazione, la cui tappa successiva sarà rappresentata dall’integrazione euro-atlantica. Primo passo in tal senso dovrebbe essere rappresentato dal TAFTA, acronimo TransAtlantic Free Trade Area. Obiettivo: i capitalismi potenzialmente concorrenti, su tutti quello tedesco. La Germania – si ricorderà – non era inizialmente entusiasta riguardo la prospettiva dell’euro, ma è stata “allettata” attraverso la possibilità concessale di sfruttare la moneta unica a proprio vantaggio contro i suoi competitors continentali e attraverso il beneplacito alla riunificazione. Ora però siamo di fronte ad un bivio, con gli USA che premono per centralizzazione delle politiche di bilancio e del credito – al fine di imbrigliare definitivamente la Germania – e quest’ultima che comprensibilmente tenta di smarcarsi. L’esito della confliggenza d’interessi tra Washington e Berlino determinerà o un’ulteriore avanzamento verso gli United States of Europe o lo scenario di un’Europa a due velocità, con i paesi della periferia che potrebbero uscire dalla moneta unica e dar vita a un euro del sud o a forme di aggancio al dollaro sul modello di quanto sperimentato in altre aree del pianeta soggette all’egemonia statunitense. In entrambi i casi ciò che non muterebbe sarebbe il regime di dipendenza, l’assenza di sovranità e il progressivo impoverimento materiale di larghi strati della popolazione, dovuto all’applicazione inesorabile dei dogmi liberisti. Alla luce di questo legame inscindibile tra dipendenza atlantica, Unione Europea, liberismo ed euro, appare quindi sempre più ineludibile la (ri)conquista della sovranità nazionale, la rottura con UE ed euro e la ricollocazione geopolitica dell’Italia. Si tratta di passaggi irrinunciabili per poter anche solo pensare una trasformazione dei rapporti economici e sociali, in Italia come in qualsiasi altro paese del continente. Dario Romeo

A destra e non solo: perché piace Putin. Mostra i muscoli all’Occidente. Bombarda in Siria. Reprime il dissenso in casa propria. Eppure, nel resto del mondo il presidente russo piace sempre di più. E non solo a destra. Nell’epoca delle leadership deboli, ecco dove nasce la fascinazione per l’uomo forte, scrive Bernard Guetta il 17 ottobre 2016 su "L'Espresso". Siamo in presenza del fenomeno Putin. Donald Trump lo considera straordinario, e ne è ricambiato. In Europa, dai Paesi scandinavi all’Italia, tutte le nuove estreme destre si riconoscono così naturalmente in lui che Marine Le Pen è andata a cercare di che finanziare il suo partito proprio nelle banche russe. Sull’altro versante dello scacchiere francese, più a sinistra del partito socialista, all’ex troskista Jean-Luc Mélenchon non piace che Putin sia criticato quando, giorno e notte, fa a pezzi la signora Merkel e chiunque altro. Sempre in Francia, l’ex primo ministro François Fillon, liberale proveniente dal gollismo sociale, difende con le unghie e con i denti la necessità di trovare un’intesa con quest’uomo al quale intere fasce delle opinioni pubbliche occidentali non trovano granché da ridire. E questo è un dato di fatto. Quando non entusiasma, è difficile che Vladimir Putin non piaccia o piaccia poco, anche se nessuno ignora i suoi misfatti. Ex spia di secondo livello, il successore di Boris Eltsin – di cui è stato stretto collaboratore – è il primo capo di Stato europeo ad aver annesso alcuni territori dalla fine della Seconda guerra mondiale: mi riferisco all’annessione de jure della Crimea e a quella de facto di due pezzetti di Georgia. Sotto il suo governo in Russia sono scomparse le libertà di espressione e di associazione sbocciate ai tempi di Gorbaciov. Vladimir Putin ha fatto del suo paese una “democratura”, una dittatura con le parvenze e perfino i fronzoli elettorali della democrazia, ma che bombarda a tappeto con i suoi aerei – non con quelli di Bashar al-Assad - perfino gli ospedali di Aleppo. Annulla il suo incontro con François Hollande e crea nel proprio paese un clima di guerra. Tutti sanno queste cose. Nessuno osa confutarle. Nonostante tutto, però, Putin piace. Perché? È una questione di immagine: questa attrazione politica ha prima di ogni altra cosa una dimensione fisica. Vladimir Putin non è James Dean né Marcello Mastroianni: le sue fattezze e i suoi lineamenti sono del tutto ordinari, eppure quest’uomo asciutto e muscoloso sprigiona un’impressione di forza bruta che egli sa usare in modo quasi scenico. Quando si fa riprendere a torso nudo, sempre a torso nudo, mentre cavalca stalloni o lotta da solo contro animali selvaggi, non fa perdere la testa soltanto agli appassionati di pornografia omosessuale. In Russia come in Occidente questa sublimazione della virilità serve a metterlo in netta contrapposizione con gli altri dirigenti del mondo, europei e americani in primis, perché bisogna ammettere che la qualità principale di Angela Merkel non è essere un’amazzone, così come François Hollande non è proprio Superman. E sebbene Barack Obama abbia sicuramente classe, ha più l’aspetto di un professore universitario che quello di un campione di lotta libera. Il messaggio che Vladimir Putin diffonde per mezzo di queste sue immagini e il linguaggio altrettanto virile col quale egli ama accompagnarle servono per affermare che l’Occidente è comandato soltanto da individui gracilini, mentre lui sarebbe un vero capo. Tutto ciò potrebbe far ridere. Questo spettacolo epico dovrebbe far ridere ma così non accade, tutt’altro, perché Stati Uniti ed Europa - che insieme alla Russia formano la stragrande maggioranza della cristianità bianca - oggi hanno una paura generalizzata. Se Donald Trump, nonostante tutto, riesce a sedurre una percentuale così grande dell’elettorato americano; se le nuove estreme-destre avanzano così tanto in Europa, è perché il nostro mondo che ha guidato la scena internazionale a lungo ora teme di essere sorpassato dalla Cina e dai Paesi emergenti; è perché il terrorismo jihadista alimenta il fantasma di un’invasione musulmana contro la quale si dovrebbero imbracciare le armi; è perché le tutele sociali, la piena occupazione, i salari sono messi a rischio dalla delocalizzazione industriale in terre lontane, dove la manodopera non incide più di tanto sui bilanci annuali. Gli occidentali si credono con le spalle al muro, in guerra aperta con l’Islam, in conflitto strisciante con Africa e Asia. Il più delle volte inconsapevolmente, in qualche caso consapevolmente, gli occidentali hanno dunque voglia di un vero capo, di qualcuno che li guidi in battaglia, di un generale che non biascichi le parole e non sia smidollato, ed è in questo ruolo che Vladimir Putin si offre loro, inebriando le nuove estreme destre e seducendo al di là di esse. In virtù di uno straordinario paradosso storico, Mosca diventa la Mecca delle destre nazionaliste dopo essere stata la Mecca del Comunismo, e il presidente russo, le sue delegazioni, i suoi deputati e la sua televisione coltivano una connivenza attiva con queste forze riemerse dal periodo prebellico fascista. Come i partiti comunisti di ieri, le nuove estreme destre sono diventate gli intermediari del Cremlino in territorio occidentale, e questa offensiva ideologica centra il bersaglio, riscuote successo perché il terreno le è favorevole. In Europa e negli Stati Uniti si avverte una sorta di stanchezza democratica. I grandi partiti di una volta - il repubblicano e il democratico su una costa dell’Atlantico, i socialdemocratici e i democristiani sull’altra - sono gravemente indeboliti dalla loro stessa incapacità di reinventarsi e di affrontare le sfide del nuovo secolo. Non si mobilitano e ormai sono così poco forieri di speranza che gli elettori non credono più in loro e nell’alternanza di destra e sinistra. Ovunque, i vari scenari si spaccano, perfino negli Stati Uniti dove il successo istantaneo di Bernie Sanders a sinistra, dopo quello del Tea Party a destra, esprime il desiderio di qualcos’altro in tutti i raggruppamenti politici. In crisi, la democrazia occidentale non risponde più alle aspirazioni dei cittadini che da essa ormai non attendono neanche quel balzo in avanti dell’Occidente che disperano di veder spiccare. Questa crisi non soltanto alimenta le estreme-destre, resuscita i nazionalismi, conduce al rigetto dell’unità europea e allinea, adesso, i conservatori britannici con l’Ukip, il partito di Churchill con quello di Nigel Farage: oltre a ciò gli elettori e i grandi partiti stessi tendono anche a dissacrare i valori democratici. Dopo l’11 settembre, gli Stati Uniti hanno ritenuto del tutto naturale infischiarsene dell’Habeas corpus e aprire quel dimenticatoio senza fondo che è Guantánamo. Dopo gli attentati a Charlie Hebdo e al Bataclan, François Hollande ha introdotto in Francia leggi straordinarie in mezzo al plauso pressoché generale. La signora Merkel è considerata irresponsabile perché, accordando asilo politico a rifugiati che avevano ogni diritto di pretenderlo, ha ritenuto di poter dare l’esempio e rammentare agli europei i valori nei quali credono. A eccezione dell’Italia - e si dovrebbe rendere onore all’Italia - l’Europa non ne vuol più sapere di barconi interi carichi di famiglie in fuga dal Daesh e da Bashar al-Assad che naufragano nel Mediterraneo. Nelle democrazie occidentali il rispetto delle libertà e della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo sta compiendo drammatici passi indietro e dunque non c’è da stupirsi se la democratura di Vladimir Putin non sconvolge più tante persone, proprio come il sostegno militare che egli assicura al macellaio di Damasco aiutandolo a far fuori il suo stesso popolo. Al contrario, molti, troppi occidentali lo ammirano perché egli non si fa intimidire dai vincoli legali e dalle convenzioni internazionali sottoscritte dal suo Paese, e non si fa scrupolo di governare da uomo forte e di aiutare, con sprezzo di ogni cosa e a colpi di crimini di guerra, una dittatura che in maniera fuorviante si continua a ritenere che possa fungere da baluardo contro i jihadisti. Che lo si dica esplicitamente o no, agli occhi di molti Vladimir Putin passa, in sintesi, per lo scudo dell’Occidente cristiano, per il vero capo di cui le altre democrazie sarebbero prive. Ma c’è dell’altro. Nell’esercitare la sua seduzione, il padrone del Cremlino si serve anche dell’antiamericanismo degli europei. L’Europa ama il cinema di Hollywood e i grattacieli di New York, la cultura e l’estetica americane, ma non ha mai perdonato gli Stati Uniti per averle sottratto il primo posto nel mondo. L’Europa nutre nei confronti dell’America un sentimento misto fatto di odio e amore, tanto più grande oggi che gli americani si allontanano da lei per difendere i propri interessi in Asia, dove ormai sono a rischio. Non soltanto l’America ci ha umiliato con la sua potenza, ma adesso ci abbandona, proprio ora che alle nostre frontiere orientali e meridionali incombono i pericoli. Non soltanto l’America ci ha reso suoi vassalli, ma adesso ci lascia soli, proprio ora che avremmo bisogno come non mai del suo apparato difensivo. E di riflesso, di conseguenza, molti europei cercano di trovare un’intesa con Vladimir Putin affinché non ci crei troppi problemi a est e ci protegga a sud, andando lui a combattere, al nostro posto, al fianco di dittatori rassicuranti nei loro completi di sartoria così ben tagliati. Eppure, anche se Putin ha molti assi nella manica, gli manca il denaro che è il nerbo della guerra. La sua economia in rovina non è neppure paragonabile a quella di un paese emergente. E le sue avventure in Ucraina e in Siria non migliorano le cose, al contrario. Traduzione di Anna Bissanti

I paradossi dei partiti in politica estera. Dopo la decisione di Angela Merkel di accogliere i siriani, la sinistra si è improvvisamente innamorata della destra europea, mentre la destra loda Putin. E il Movimento 5 Stelle si trova d’accordo con il premier ungherese Orbán, scrive Pierluigi Battista il 9 settembre 2015 su "Il Corriere della Sera". A maggioranza variabile, anche in politica estera. La volubilità italiana è così spiccata che Angela Merkel, vituperata fino a pochi giorni fa come la crudeltà incarnata, bollata come la personificazione della perfidia, l’affamatrice della Grecia che solo l’audacia di Tsipras ha saputo contrastare, l’erede di Hitler che è capace di ottenere con lo strangolamento finanziario ciò che il predecessore non era riuscito a raggiungere con i carri armati e i campi di concentramento, oggi per la sinistra diventa una santa: Santa Angela dell’Accoglienza. La sinistra italiana si è improvvisamente innamorata della destra europea. Ma la destra italiana accusa con i suoi giornali la Merkel, la cui leadership nella destra europea è fuori discussione, di promuovere l’islamizzazione dell’Europa, come se i rifugiati che premono alle frontiere non scappassero dai decapitatori dello Stato islamico, oltre che dai massacri del macellaio Assad. Alla destra che un tempo amava descriversi come portabandiera di una «rivoluzione liberale» piace anche l’ungherese Orbán (quello dei fili spinati e dei muri), che però fa la sua notevole figura, dimostrando così la sempre più accentuata volatilità delle nozioni tradizionali di destra e di sinistra, anche nel blog di Grillo. Dove però sono almeno coerenti. Il loro motto è semplice: stare con tutti quelli che hanno la Merkel, sia nella versione crudele che in quella buonista, come bersaglio principale. Per cui nei Cinque Stelle si sta con l’ultradestro Farage nel Parlamento europeo e contemporaneamente ci si reca ad Atene in pellegrinaggio con l’ultrasinistro Varoufakis. E con l’Isis? Trattare, secondo la lectio di Di Battista. E contro gli odiati sionisti di Israele e addirittura con le donne velate iraniane perché, come ha proclamato Grillo comodamente adagiato ai bordi di una piscina in Costa Smeralda, almeno non si acconciano in modo peccaminoso come fanno le occidentali. E ci si chiede con una certa preoccupazione cosa potrebbe essere la politica estera di un futuribile governo Cinque Stelle. Il presidente francese Hollande è di sinistra e dice che contro l’Iss bisogna prepararsi ad azioni aeree più martellanti e incisive. Ma il governo di sinistra italiano si affretta a dire che no, giammai l’Italia parteciperà a raid aerei contro i tagliagole che costringono, insieme alle bombe di Assad sui civili, milioni di siriani a scappare dalle nostre parti. Sempre eccentrici. Sempre fuori collocazione. Con la sinistra che ama la destra e la destra che ama quelli che la destra europea non ama. Putin, per esempio. Fosse per la destra italiana la linea contro l’attacco della Russia all’Ucraina sarebbe facilissima: non fare niente e avanti senza esitazioni con i contratti. Naturalmente sono discutibili le sanzioni, e anche una certa fretta nell’allungare l’ombra della Nato a Est. Ma qui è un dogma l’amicizia indistruttibile tra Putin e Berlusconi. Piace l’uomo della tradizione, dell’autoritarismo, della grande potenza che riscopre se stessa e le proprie antiche radici. Per cui se la destra italiana oggi fosse al governo, la destra che un tempo era atlantica e atlantista, avremmo un’Italia che nello scontro tra gli Stati Uniti e la Russia non avrebbe esitazioni a stare con la Russia. Che poi la Russia, chissà come mai, non è neanche meta delle masse di profughi che da Budapest prendono immancabilmente la strada dell’Ovest anziché dell’Est. Forse è per questo che Putin piace tanto a Salvini: tiene lontani i profughi (però bisognerebbe dire al leader della Lega che apre anche una grande moschea a Mosca). L’Italia del caos in politica estera. Era così imprevedibile?

Gli ex tifosi di Stalin in trincea contro Putin. Ipocrisia e memoria corta: la sinistra che oggi accusa la Russia anti-democratica ieri sosteneva quella sovietica, scrive Vittorio Feltri, Mercoledì 19/03/2014, su "Il Giornale". Leggiamo e strabuzziamo gli occhi. Gli Stati Uniti e l'Unione europea sostengono che il referendum svoltosi in Crimea, il cui esito ha decretato il passaggio di questo Paese dall'Ucraina alla Russia, sia illegittimo e pertanto vada annullato. In base a quali elementi si cerca d'invalidare un plebiscito? Si parla di brogli, ma ciò è assurdo visto che una schiacciante maggioranza degli abitanti ha votato in favore del proprio ritorno fra le braccia di Mosca. Di solito si confondono le carte quando il risultato è incerto e bastano pochi suffragi a determinare la vittoria di una parte o dell'altra. Nel presente caso non c'erano dubbi sul trionfo dei filorussi. E allora dov'è il problema? Sta nel fatto che il rimescolamento degli assetti nazionali in quell'area non garba né a Washington né a Bruxelles, riluttanti a riconoscere a Vladimir Putin l'autorità di dirimere un contenzioso nel quale sono in ballo interessi importanti sia per la Crimea sia per la Russia. Tutto qua. Le questioni di cassetta, poi, non sono mai estranee alle guerre, fredde o calde non c'è differenza. Cosicché, quando fa comodo, i referendum sono la più alta espressione della democrazia, perché riflettono la volontà popolare in forma diretta; quando invece non fanno comodo, li si liquida quali esercizi di volgare populismo. Il conformismo dominante, cifra sempre in voga, allorché si tratti di squalificare qualcuno (o qualcosa) e di emarginarlo nel disprezzo, taccia il reprobo di demagogia, e subito i signorini del politicamente corretto danno segni di ampio assenso. Fino a poco tempo fa, anche in casa nostra, come in tutto il mondo civile, l'autodeterminazione dei popoli era considerata un dogma imprescindibile. Adesso, dato che vi si è appellata la Crimea in accordo con Mosca, è una sorta di ciarpame da riporre nel dimenticatoio. È talmente chiara la malafede di coloro che hanno sanzionato la Russia da non meritare alcuna chiosa. Quanto a Putin, può essere simpatico o no (è ininfluente), ma ha di sicuro più carisma di Barack Obama e di qualunque leaderino europeo. Il suo Paese, seppellito il comunismo poco più di vent'anni orsono, è riuscito rapidamente a recuperare il terreno perduto mentre inseguiva la chimera del collettivismo perfetto e, pur tra mille grane irrisolte, compresa l'ingiustizia sociale, ovvero una forte disparità fra ricchi troppo ricchi e poveri troppo poveri, è riuscito a diventare una potenza mondiale. Ed è proprio questo a infastidire le nazioni a più lunga tradizione democratica. Esse non si capacitano che l'ex impero sovietico, crollato sotto il peso della miseria e di un sistema fallimentare, sia risorto grazie al turbocapitalismo, di cui il presidentissimo è la guida. Paradossalmente, in Italia, gli odiatori più feroci di Putin, manco a dirlo, sono gli stessi beoti che amavano Stalin e Breznev, a dimostrazione che peggio dei postcomunisti - coloro che hanno cercato di superare con successo l'inganno della dittatura del proletariato - ci sono soltanto gli ex comunisti, che non hanno perso né il pelo né il vizio. P.S. La Russia, oltre a subire varie sanzioni che le sono state inflitte dai potenti della Terra, non avrà facoltà di partecipare all'imminente G8. Nonostante ciò, nelle piazze di Mosca non si segnalano scene di disperazione, tipo gente che si strappa i capelli. Diciamo che il sentimento dominante è l'indifferenza, con qualche punta d'ilarità.

Lettera aperta al Feltri innamorato dello stalinista Putin, scrive Stefano Magni il 20 marzo 2014 su "L’Intraprendente”. Caro Vittorio Feltri, sono un piccolo giornalista liberale, scusa se ti disturbo con questa lettera, ma da quando è scoppiata la crisi in Ucraina mi sembra che il mondo si sia capovolto. Fai bene a rimproverare l’ipocrisia di una sinistra, stalinista fino a ieri, che adesso si mette “in trincea” contro Putin. Non li capisco nemmeno io. Ma a maggior ragione non capisco te, non capisco i tuoi colleghi, non capisco questa destra che si è improvvisamente risvegliata russofila e che ora è “in trincea” dall’altra parte della nuova cortina di ferro, assieme ai nostalgici dell’Armata Rossa. Sento l’urgenza di scriverti, perché mi sembra di essermi risvegliato in un incubo. Un po’ come in quei film horror in cui il protagonista si ritrova improvvisamente in mezzo a zombi. Dove padre, madre, fratelli e amici con cui ha convissuto fino a ieri, adesso mangiano carne umana e lo vedono come una grande bistecca ambulante. La situazione non è così drammatica come in quei film, ma poco ci manca. Perché a marzo, una mattina, mi son svegliato e ho iniziato a sentire giornalisti liberali che parlano di complotti globali americani come un Giulietto Chiesa qualsiasi (non si sono fatti crescere anche loro i baffi da Stalin, ma fra poco me lo aspetto), militanti libertari e anti-statalisti che elogiano le virtù della nuova Unione Sovietica di Putin, cristiani tradizionalisti e pacifici che reclamano una dittatura post-comunista anche in Italia. E il tuo ultimo editoriale mi conferma ancor di più che il mio mondo si è improvvisamente e inspiegabilmente capovolto. Tu scrivi, a proposito del referendum in Crimea: «In base a quali elementi si cerca d’invalidare un plebiscito? Si parla di brogli, ma ciò è assurdo visto che una schiacciante maggioranza degli abitanti ha votato in favore del proprio ritorno fra le braccia di Mosca». Un referendum vinto da una maggioranza del 97% dei voti… Scusami, ma allora ritieni valida anche la rielezione di Kim Jong-un in Corea del Nord, per caso? Lui ha preso il 100% dei voti. Non è stato scelto solo dalla schiacciante maggioranza dei nordcoreani, bensì dalla totalità del suo popolo. Ma sappiamo bene che nei regimi comunisti funziona così. E in Crimea non è successo nulla di diverso, considerando che i russi e ucraini russofoni sono il 58% della popolazione (compresi i bambini) e il risultato referendario sfiora il 97% con un’affluenza dell’81%. Dove son finiti i tatari, che sono il 12% della popolazione e, piuttosto che tornare in Russia, si suiciderebbero in massa? E dove sono i voti del 30 e passa percento degli ucraini che in tutti questi mesi hanno dimostrato assieme ai loro connazionali di Kiev? A Sebastopoli si è recato alle urne il 123% della popolazione. Hanno votato pure i caduti russi della Guerra di Crimea, secondo te? Tu scrivi che «Quanto a Putin, può essere simpatico o no (è ininfluente), ma ha di sicuro più carisma di Barack Obama e di qualunque leaderino europeo». Perdonami il francesismo, ma con questo ragionamento mi ricordi quel marito che, per far dispetto a una moglie insopportabile, decide di tagliarsi gli zebedei. Obama è un pessimo presidente degli Usa, su questo sarei perfettamente d’accordo. I leaderini europei sono irresoluti, ambiziosi ma vuoti di idee politiche. Ma… Putin? Un leader europeo, se non ci piace, possiamo anche non votarlo. Putin non lascia scampo: è un autocrate. Non ha nemmeno bisogno di truccare le elezioni, perché il suo potere è talmente invadente e pervasivo che i russi arrivano alle urne già senza alternative. A noi non piace l’opprimente statalismo italiano ed europeo. Ma Putin ha fatto sua la massima fascista (e comunista) del “tutto nello Stato, niente al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato”. Ha nazionalizzato tutto. E non ha ottenuto questa gran ricchezza: il Pil russo è poco più di quello italiano, eppure i russi sono più del doppio di noi e hanno ogni bendiddio di risorse naturali. Ma quel che più mi lascia perplesso è quel tuo dire: «Il suo Paese, seppellito il comunismo poco più di vent’anni orsono, è riuscito rapidamente a recuperare il terreno perduto». Ma dove la vedi questa Russia? Dove hai mai visto “seppellire il comunismo” russo? Hai visto quei nerboruti in camicia rosso-bruna che marciavano a passo cadenzato sotto le bandiere sovietiche per le vie di Mosca, al suono di marcette dell’Armata Rossa, a sostegno di Putin e dell’annessione della Crimea? Hai visto le statue di Lenin (e qualcuna persino di Stalin) che spuntano ovunque come funghi totalitari e vengono difese da catene umane nell’Ucraina pro-russa? La Russia non ha affatto seppellito il suo comunismo. Ascolta, per favore, quel che dicono alla loro televisione, dove giornalisti di regime iniziano a proclamare, con toni degni del Chrushev dei tempi dei missili di Cuba, che possono fare di noi “cenere radioattiva”. Ascolta, per favore, quei manifestanti del Donbass (terra di Stakhanov) che orgogliosamente dicono ai giornalisti “Rivogliamo l’Urss! Sono 23 anni che soffriamo, adesso rivogliamo l’Armata Rossa qui, a liberarci!”. Caro Vittorio, per favore: non creiamoci una Russia immaginaria, come un compagno Peppone qualsiasi che si inventava una Urss “paradiso dei lavoratori”. La Russia ha avuto una grande occasione per liberarsi dal comunismo, ma l’ha buttata via. Per 23 anni si sono alternati gruppi di potere, uno peggio dell’altro: corrotti, oligarchici, mafiosi, idealisti pseudo-liberali senza arte né parte. Ma adesso hanno prevalso i peggiori di tutti: i nostalgici. E, per favore, anche tu, non ti fare illudere da quattro icone baciate da Putin. Anche Stalin, a suo tempo, si faceva scudo della tradizione popolare ortodossa. Ma era Stalin. Non è una rinascita spirituale: sono mezzucci, per attrarre il consenso popolare e ingannare i cristiani più allocchi d’Europa, niente di più. Quel che sta accadendo in Ucraina è lo stesso processo che tante volte abbiamo visto ai tempi di Stalin: si denuncia un “pericolo fascista” in un Paese vicino, si instaura in loco un governo fantoccio che chiede aiuto, si invade il vicino in questione. Ecco, io voglio una destra che mi difenda da questa nuova potenza imperiale che, pur non chiamandosi più Urss, è la stessa identica cosa. Io non capisco questi ex tifosi di Reagan in trincea contro… noi stessi. E dimmi che è tutto e solo un brutto sogno, per favore. Con sincera ammirazione.

MISTERI E DEPISTAGGI DI STATO.

Strage dell’Italicus, Alberto Moravia sul Corriere di 43 anni fa: «Vogliono l’Italia in preda alla paura». Il 4 agosto 1974 una bomba esplose sul treno Italicus diretto a Monaco in prossimità di San Benedetto Val di Sambro. Della strage che causò 12 morti e 48 feriti furono accusati alcuni esponenti dell’estrema destra neofascista, ma i processi si conclusero con l’assoluzione di tutti gli imputati. Dal Corriere del 5 agosto 1974 di Alberto Moravia. Ripubblichiamo il testo che Alberto Moravia scrisse il 4 agosto 1974 sulla strage del treno Italicus. L’idea della strategia della tensione, ossia della provocazione, sistematica, torna, naturalmente, ad affacciarsi di fronte alla strage del treno Roma-Monaco. E come potrebbe essere diversamente? Certo, preferiremmo pensare all’atto assurdo di un esaltato o di un gruppo di esaltati; ma gli attentati anonimi, gli omicidi misteriosi che dal 12 dicembre del 1969 si sono seguiti in questo Paese, non possono non essere ormai ricollegabili anche dalle persone più ottimiste e fiduciose ad un disegno eversivo. Del resto durante recenti processi per falliti attentati la strategia della tensione è stata riconosciuta come una realtà, per loro positiva e necessaria, dagli stessi attentatori. Così dovrebbe essere chiaro a tutti che ogni mattina, in un luogo imprecisato d’Italia o in più di un luogo, gruppi di persone si riuniscono, calme e razionali, per escogitare via via i mezzi più atti a rovesciare le istituzioni e a creare un governo favorevole alla loro ideologia e ai loro interessi. Perché questi mezzi sono quasi unicamente violenti? Evidentemente perché, a quanto pare, si tratta di minoranze molto ristrette o addirittura di gruppi esigui, i quali sanno di certo che non potrebbero raggiungere il successo attraverso il voto politico, sola via legittima al potere in regime di democrazia. Ci troviamo, dunque, in una situazione senza precedenti, almeno in Italia. Non bisogna, infatti, dimenticare che persino il fascismo, tra le due guerre, potè, conquistare e mantenere il potere soltanto grazie ad una relativa base di massa. I gruppi eversivi ai quali bisogna attribuire la strategia della tensione sono invece addirittura senza volto. Oltre che su aiuti stranieri ammessi recentemente anche da personaggi del partito di maggioranza, ma finora mai provati, essi non possono contare che sulla già menzionata strategia, servendosene come di un detonatore per provocare interventi radicali di non meglio identificate forze dell’ordine. Anche questo, del resto non è ormai un mistero per nessuno ed è stato confermato da innumerevoli inchieste, interviste, relazioni, fughe di notizie, memoriali, eccetera. A questo punto, però, ci sembra del tutto inutile di continuare a passare in rivista le varie fasi insieme torpide e sanguinose della strategia della tensione. Esse sono chiare e non hanno bisogno di essere ulteriormente illuminate. Cerchiamo, invece, di vedere cosa è stato fatto dall’altra parte, cioè dalla parte della difesa delle istituzioni repubblicane. Siamo tentati di dire: troppo poco, anche di specificare dove la difesa è stata viva ed efficace e dove invece, fiacca e inoperante. Ma preferiamo guardare unicamente agli aspetti positivi. Ebbene, diciamolo pure, qualche cosa è stato fatto dal dicembre del 1969, anche se, naturalmente, non è stato fatto abbastanza. Il popolo italiano nel suo complesso ha resistito al canto insidioso e paralizzante delle sirene e della paura. E’ rimasto calmo e lucido, senza cadere nelle auspicate emotività e mitomanie. Questo ha permesso alla stampa, soprattutto da ultimo, di svolgere un buon lavoro, in accordo proprio con quella civiltà occidentale che mette tra i consumi più indispensabili e più diffusi quello dell’informazione. Sono stati pubblicati centinaia di articoli i quali se non altro hanno servito a definire con sufficiente precisione i lineamenti principali del disegno eversivo. Questo, bisogna ammetterlo, è stato fatto in condizioni politicamente sfavorevoli, fra le tentazioni della politica degli opposti estremismi e quella dell’unilateralità partigiana. Ad ogni modo qualche verità è pur venuta a galla, e come sempre la verità ha portato ad un risultato politico positivo, come per esempio il voto del referendum. Di conseguenza, ci lusinghiamo di pensare che, come ogni mattina, alcune persone o gruppi di persone si alzano con quest’idea: «Vediamo cosa si può fare per rovesciare le istituzioni repubblicane». Così, alla stessa ora altre persone speriamo più numerose e più forti si alzano con il pensiero opposto: «Vediamo cosa si può fare per difendere la Repubblica». L’attentato al treno Roma -Monaco vorrebbe ispirarci paura, una paura dimentica delle vittime, sollecita soltanto di noi stessi. E invece, no. Esso ci ispira la pietà indignata che non si può fare a meno di provare di fronte a chi è stato adoperato come mezzo iniquo per un fine ingiusto. E quanto alla paura, come diceva Tolstoj a proposito di un mediocre scrittore di libri terrorizzanti: «Egli vuole farci paura. E invece non riesce che a far paura a se stesso».

La Strategia dell'Inganno - 1992-93. Le bombe. I tentati golpe. La guerra psicologica in Italia. Libro di Stefania Limiti. Un racconto appassionante e documentato sui tre aspetti chiave che hanno contraddistinto la stagione delle bombe e delle stragi in Italia:

Un inquietante pericolo golpista: il golpe Nardi, una vicenda solo in apparenza boccaccesca – ne parlò la moglie e amante di due stimati ufficiali, ma non si trattò solo di un gioco a sfondo erotico; l’assalto alla Rai di un gruppo di mercenari su ordine della Cia, alcuni dei quali per la prima volta hanno dato all’autrice testimonianze inedite sui fatti.

Gli scandali del Sismi e del Sisde che resero le strutture dei servizi segreti in Italia più instabili di quanto lo fossero ai tempi della P2: uomini che entravano in stanze riservate senza nessuna documentazione, personaggi che si muovevano nell’ombra come Gianmario Ferramonti.

Lo stragismo, ovvero la manipolazione di gruppi criminali mafiosi come metodo utile alla destabilizzazione del potere.

Documentazione e testimonianze inedite su fatti meno conosciuti degli anni delle bombe in Italia: l’assalto alla sede Rai di Saxa Rubra, il Golpe Nardi e altre vicende dimenticate che lasciarono con il fiato sospeso l’Italia. Una nuova lettura delle stragi in Italia (via Fauro a Roma, Palestro a Milano, Georgofili a Firenze) che nella ricorrenza dei 25 anni solleverà curiosità e interesse. Una nuova e originale lettura del potere in Italia, orchestrato attraverso una costante opera di destabilizzazione, una successione di inganni, una vera guerra psicologica. 

L'AUTRICE – Stefania Limiti è nata a Roma ed è laureata in Scienze politiche. Giornalista professionista, ha collaborato con varie testate, in particolare con il settimanale «Gente», su temi di attualità e di politica internazionale. Inoltre ha lavorato per «l'Espresso», «Left», «La Rinascita della Sinistra» e «Aprile». Si è dedicata negli ultimi due anni alla ricostruzione di pezzi ancora oscuri della nostra storia attraverso la lettura delle sentenze giudiziarie e interviste ai protagonisti: il risultato di questo lavoro giornalistico viene presentato nelle pagine seguenti. Segue con molta attenzione la questione palestinese e ha scritto "I fantasmi di Sharon" (Sinnos, 2002), nel quale ricostruisce la strage nei campi profughi di Sabra e Shatila e le responsabilità libanesi e israeliane, e «Mi hanno rapito a Roma» (Edizioni L'Unità, 2006) sulla vicenda del sequestro da parte del Mossad di Mordechai Vanunu, che mise l'Italia sotto i riflettori del mondo intero nel 1986. Inoltre ha realizzato un'inchiesta sul dossier di Bob Kennedy sull'assassinio del presidente degli Stati Uniti dal titolo "Il complotto. La controinchiesta segreta dei Kennedy sull'omicidio di JFK" (Nutrimenti, 2012). Con Chiarelettere ha pubblicato "L'Anello della Repubblica" (2009), più volte ristampato.

«La strategia dell'inganno», storia della guerra non convenzionale in Italia, scrive Ciro Manzolillo Martedì 16 Maggio 2017 su “Il Mattino”. Il periodo più nero della nostra Repubblica. La grande crisi di sistema che colpì l'Italia tra il 1992 e il 1993 e che trovò soluzione nella nascita della cosiddetta Seconda Repubblica, è segnata da eventi tragici dai risvolti ancora non chiari e chiariti.

Il cosiddetto golpe Nardi, l'assalto alla sede Rai di Saxa Rubra, le stragi di Milano, Firenze, Roma quelle mafiose di Palermo, il blackout a Palazzo Chigi e, in mezzo, Tangentopoli, gli scandali del Sismi e del Sisde, la fine dei partiti storici, la crisi economica.

La sequenza degli avvenimenti di questo biennio viene ricostruita su documenti e con dovizia di dettagli nel volume appena uscito per Chiarelettere «La strategia dell'inganno» della giornalista Stefania Limiti. Secondo l’autrice: «Tutti questi fatti portano il segno di una grande opera di destabilizzazione messa in pratica anche con la collaborazione delle mafie e con l'intento di causare un effetto shock sulla popolazione, creando un clima di incertezza e di paura e disgregando le nostre strutture di intelligence».

Stefania Limiti dalle sue pagine cerca di dimostrare come centinaia di testimonianze, processi hanno offerto le prove che in Italia è stata combattuta una guerra non convenzionale a tutto campo e sotterranea. Furono azioni coordinate? E se sì da chi? Non lo sappiamo. Di certo tutte insieme, in un contesto di destabilizzazione permanente, provocarono un ribaltamento politico generale. Un golpe ideologico a tutti gli effetti.

DAL TESTO – "Le stragi sul continente, quindi, sono concepite e realizzate per diffondere una campagna di terrore. Cosa nostra deve aver ritenuto che la capitolazione dello Stato sarebbe stata più facile colpendo indistintamente la popolazione e le opere d'arte. Gli attentati sono programmati fuori dalla Sicilia e non prendono di mira uomini rappresentativi dello Stato: l'Italia era fin troppo abituata a quello schema, s'indignava, è vero, ma non ne era più spaventata. Il nuovo piano punta a seminare il panico, gli obiettivi sono anonimi e hanno un messaggio eloquente per chi possiede la giusta chiave di lettura."

La strategia dell’inganno – Stefania Limiti. Scrive il 6 luglio 2017 Giuseppe Licandro su Excursus.org". Tra il marzo 1992 e l’aprile 1994, l’Italia fu sconvolta da una lunga serie di attentati di matrice mafiosa che, terrorizzando la gente, accentuò la crisi dei partiti della Prima Repubblica iniziata con Tangentopoli. La stagione terroristica cominciò con l’assassinio di Salvo Lima (12 marzo ’92) e continuò col tentato omicidio di Maurizio Costanzo (14 maggio ’92) e gli attentati che uccisero Giovanni Falcone (23 maggio ’92) e Paolo Borsellino (19 luglio ’92). Seguirono poi la strage di Firenze (27 maggio ’93), l’esplosione di varie bombe a Milano e a Roma (27-28 luglio ’93), l’omicidio di Don Pino Puglisi a Palermo (15 settembre ’93) e due falliti attentati, uno allo stadio Olimpico di Roma (31 ottobre ’93), l’altro a Formello contro Salvatore Contorno, mafioso pentito (14 aprile ’94). Gli attacchi cessarono a metà del 1994, poiché ­ Cosa Nostra trovò nuovi referenti politici, ma fu anche indebolita dall’arresto dei boss più violenti (Leoluca Bagarella, Filippo e Giuseppe Graviano, Salvatore Riina). Nello stesso periodo si svolse la controversa trattativa tra Stato e mafia, con i Corleonesi che pretesero la revisione del maxiprocesso, l’abolizione dell’ergastolo e del II comma dell’articolo 41-bis del Codice Penale (che ha introdotto il carcere duro per i capimafia), ma alla fine ottennero solo concessioni minori (nel novembre 1993 il governo Ciampi revocò il 41-bis a 143 mafiosi). Dietro le quinte operarono probabilmente “menti raffinatissime” che, sfruttando scandali e stragi, affrettarono il passaggio alla Seconda Repubblica, come sostiene la giornalista Stefania Limiti nell’interessante saggio La strategia dell’inganno. 1992-93. Le bombe, i tentati golpe, la guerra psicologica in Italia (Chiarelettere, pp. 256, € 16,90).

Nella prima parte del libro l’autrice parla della deception, la tecnica usata per ingannare l’opinione pubblica e influenzare le classi dirigenti, raccontando due strane storie avvenute proprio nel tragico 1993: il colpo di stato organizzato dal pilota aeronautico calabrese Giovanni Marra; le trame eversive denunciate da Donatella Di Rosa. Su input forse di “amici americani”, Marra cercò di allestire un piccolo esercito per occupare la sede romana Rai di Saxa Rubra, ma il golpe abortì sul nascere, poiché il Servizio di Informazione per la Sicurezza Democratica (Sisde) sventò il complotto e ne arrestò l’ideatore, che patteggiò una pena minima, dichiarando di aver orchestrato un bluff come «strategia di conquista amorosa» della fidanzata, mentre gli altri complici furono scagionati. La Limiti, però, ritiene che il finto golpe di Saxa Rubra servisse «a far credere all’imminenza di colpo di Stato e alla sua concreta possibilità di realizzarsi», per screditare le istituzioni. L’altra grottesca vicenda riguardò un ipotetico golpe «programmato per la fine del 1993 e gli inizi del 1994», nel quale sarebbero stati coinvolti – tra gli altri − i generali Goffredo Canino, Luigi Cantone e Franco Monticone, il tenente colonnello Aldo Michittu, il terrorista tedesco Friedrich Schaudinn, il neofascista Gianni Nardi: quest’ultimo, tuttavia, risultava morto in un incidente stradale avvenuto in Spagna nel 1976. A denunciare la trama eversiva, nell’ottobre 1992, fu Donatella Di Rosa – moglie di Michittu, che confermò le accuse – la quale, secondo l’autrice, era «un agente destabilizzatore […] invischiata negli ambienti eversivi». La donna confessò (ma poi smentì) di essere stata l’amante di Monticone e parlò di un grosso giro di denaro servito per comprare armi e addestrare i mercenari. Nell’ottobre 1993, la Procura di Firenze fece riesumare il corpo di Nardi, sepolto nel cimitero di Palma di Majorca, ma la perizia stabilì che si trattava proprio del cadavere del neofascista. La bizzarra vicenda si sgonfiò e i due coniugi furono arrestati e condannati con l’accusa di calunnia e autocalunnia con finalità eversive. L’autrice è convinta che «le denunce dei Michittu erano fatte ad arte», perché le rivelazioni contenevano insieme «fatti veri, informazioni poco credibili e notizie totalmente false». Lo scandalo servì forse per impaurire e distrarre l’opinione pubblica, mentre «altri ambienti erano molto impegnati a ricostituire un tessuto politico adatto all’Italia nel nuovo ordine mondiale».

La seconda parte de La strategia dell’inganno è dedicata alle pratiche poco ortodosse messe in atto dai cosiddetti “servizi segreti deviati” per depistare le indagini, spiare, intimidire o sopprimere personaggi scomodi. Viene, innanzi tutto, tracciata una breve cronistoria dell’intelligence nostrana a partire dal 1949, quando fu costituito il Servizio Informazioni Forze Armate (Sifar). Nello stesso periodo fu creato anche l’Ufficio Affari Riservati del Ministero degli Interni, che in seguito divenne Servizio di Sicurezza. Dopo il colpo di stato minacciato nel 1964 dal comandante dell’Arma dei Carabinieri Giovanni De Lorenzo (il “Piano Solo” che coinvolse anche il presidente della Repubblica Antonio Segni, costretto a dimettersi), il Sifar fu sciolto e nel 1966 nacque il Servizio Informazioni Difesa (Sid), operativo fino al 1977, che fu implicato nella “strategia della tensione”. Proprio nel 1977 ci fu la prima riforma dei servizi segreti italiani, con la costituzione del Servizio Informazioni e Sicurezza Militare (Sismi) e del già citato Sisde. Le due agenzie investigative furono subito infiltrate dalla loggia massonica Propaganda 2, diretta da Licio Gelli: s’iscrissero, infatti, alla P2 sia il primo direttore del Sismi Giuseppe Santovito, sia quello del Sisde Giulio Grassini. Forse non fu casuale il fatto che, nel marzo 1978, le Brigate Rosse rapirono Aldo Moro e lo tennero in ostaggio per 55 giorni prima di ucciderlo, senza che l’intelligence nostrana riuscisse a liberarlo, nonostante fosse stata probabilmente individuata la prigione di via Montalcini a Roma. Agli inizi degli anni Novanta, sebbene fosse stato costituito il Comitato Esecutivo per i Servizi di Informazione e Sicurezza (Cesis) per vigilare su Sismi e Sisde, l’intelligence italiana si trovò impreparata di fronte alle stragi mafiose. Si prospettò, dunque, una nuova riforma dei servizi, che però fu completata solo nel 2007, con la creazione dell’Agenzia Informazioni e Sicurezza Interna (Aisi) e dell’Agenzia Informazioni e Sicurezza Esterna (Aise). Nel 1990, Giulio Andreotti − presidente del Consiglio − iniziò la ristrutturazione dei servizi di sicurezza, cercando di «buttare giù i vecchi apparati», che furono poi coinvolti anche nello scandalo dei fondi neri, grazie ai quali vari funzionari del Sisde erano riusciti a «procurarsi cospicui e improvvisi arricchimenti». La parte più retriva dell’intelligence reagì e fece trapelare notizie riservate in merito all’esistenza di un grande quantità di denaro, accumulata «attraverso accantonamenti di somme erogate al servizio». Antonio Galati, funzionario del Sisde, dichiarò che «dal 1982 al 1992 ogni ministro dell’Interno (con l’eccezione di Amintore Fanfani) aveva ricevuto 100 milioni al mese, soldi presi tra quelli accantonati dal servizio». Nell’inchiesta giudiziaria furono coinvolti noti esponenti della Democrazia Cristiana come Antonio Gava, Nicola Mancino, Oscar Luigi Scalfaro e Vincenzo Scotti. Il 3 novembre 1993, Scalfaro − presidente della Repubblica − tenne un discorso televisivo nel quale denunciò un complotto contro le istituzioni democratiche. In seguito, la Procura di Roma archiviò le accuse «ipotizzando la liceità delle donazioni di denaro». Nei servizi di sicurezza erano allora attivi molti “agenti di influenza”, esperti in “operazioni coperte” che erano finalizzate «ad “aggredire” il paese d’interesse, carpendone i segreti […] o influenzandone il processo decisionale». In questa tipologia di persone la Limiti fa rientrare, oltre a Gelli, due nomi di minore importanza: Aldo Anghessa e Gianmario Ferramonti. Il primo, funzionario del Cesis, divenne celebre per il mancato arresto e la successiva fuga dall’Italia del terrorista Schauddin nel 1992. Il secondo, imprenditore informatico, nel 1991 affiancò Umberto Bossi alla guida della Lega Nord (di cui fu anche tesoriere), pilotando la conversione a destra del movimento leghista che determinò nel 1994 la nascita del Polo delle Libertà.

La terza parte del saggio è dedicata alla “strategia della tensione” che ancora una volta sconvolse l’Italia tra il 1992 e il 1994 e che, secondo l’autrice, rientrava nelle tecniche di “guerra non convenzionale” largamente usate durante la Guerra Fredda «per contrastare l’avanzata delle forze comuniste e progressiste». Stefania Limiti denuncia, in particolare, le cosiddette covert actions, cioè le operazioni coperte della Cia, consentite dal National Security Act, un documento del 1947 che riconosce agli Usa il diritto «di influenzare politicamente, economicamente e militarmente Stati esteri». Un esempio di “operazione coperta” si ebbe negli anni Sessanta in Laos, dove fu combattuta una guerra segreta contro i comunisti locali, attraverso l’«uso dei mercenari, omicidi mirati e, soprattutto, addestramento di eserciti locali». Le covert actions sono continuate anche dopo la caduta del Muro di Berlino, come dimostra l’omicidio, avvenuto a Bad Homburg nel novembre 1990, del banchiere tedesco Alfred Herrhausen, che intendeva costruire un’Europa unita senza interferenze da parte della Banca Mondiale. L’attentato fu rivendicato dalla Rote Armee Fraktion (Raf), ma in seguito le dichiarazioni di un terrorista pentito – Siegfrid Nonne – e di un ex agente della Cia – Fletcher Prouty – misero in dubbio l’autenticità della rivendicazione, lasciando trasparire l’ennesima covert action.

Nel 1987, cambiandole proprie simpatie politiche, Cosa Nostra decise «di abbandonare la Dc e dirottare i consensi verso il Psi». I Corleonesi divennero sempre più aggressivi, attaccando apertamente le istituzioni, soprattutto dopo la costituzione della Direzione Investigativa e della Procura Nazionale Antimafia. Dietro gli attentati dei primi anni Novanta, tuttavia, non ci furono solo gli uomini di Riina: nelle stragi di Capaci e di via D’Amelio, infatti, emersero «anomalie rispetto agli schemi comportamentali tradizionali di Cosa Nostra». Proprio questi attentati determinarono l’approvazione da parte del Parlamento del II comma dell’articolo 41-bis del Codice Penale, che andava contro gli interessi dei mafiosi. Secondo le dichiarazioni fornite da vari pentiti e collaboratori (Filippo Barreca, Giovanni Brusca, Salvatore Cangemi, Pietro Carra, Francesco Di Carlo, Antonino Giuffrè, Luigi Ilardo, Nino Lo Giudice, Gaspare Spatuzza), nelle stragi mafiose ci sarebbero state numerose interferenze da parte dei servizi segreti deviati. Alcuni testimoni hanno parlato della partecipazione a vari delitti di mafia di Giovanni Aiello, un ex poliziotto (noto anche come “Faccia di mostro” a causa di una grossa cicatrice che gli deturpava il volto), indicato da Lo Giudice come colui che avrebbe «fatto saltare in aria Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta». Un ruolo importante lo avrebbe svolto anche Paolo Bellini, «un estremista di destra che ha passato la vita a fare l’agente provocatore», il cui apporto fu determinante nell’attentato contro la Galleria degli Uffizi a Firenze. Alla strategia terroristica fornì il proprio contributo anche la ‘ndrangheta, coinvolta «nel progetto politico che puntava alla separazione delle regioni meridionali dal resto del Paese». Non mancarono, del resto, i misteri e le stranezze: alcune della azioni criminali furono rivendicate da una fantomatica organizzazione, la Falange Armata; nel luogo dal quale i killer avevano fatto saltare in aria la macchina di Falcone, fu ritrovato il biglietto da visita dell’agente del Sisde Lorenzo Narracci; l’autobomba esplosa contro l’automobile di Costanzo in via Fauro fu parcheggiata davanti a una sede del Sisde; vari testimoni indicarono la presenza di una enigmatica donna negli attentati di via Fauro, Firenze e Milano. Riguardo alla mancata esplosione dell’autobomba allo stadio Olimpico di Roma, il procuratore antimafia Pietro Grasso ritenne plausibile «l’ipotesi che la strage dell’Olimpico fosse stata fatta fallire di proposito da qualcuno all’interno di Cosa Nostra», perché stavano emergendo nuove forze politiche (come Forza Italia) che avevano stabilito «un rapporto privilegiato con l’ala moderata di Cosa Nostra». 

La Procura di Firenze, in verità, indagò sui possibili mandanti politici delle stragi, in particolare su Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, considerati come i nuovi interlocutori di Cosa Nostra, ma l’inchiesta si chiuse nel 1998 con l’archiviazione perché non c’erano elementi sufficienti per suffragare le ipotesi investigative. Stefania Limiti, concludendo la sua attenta disamina del traumatico passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, ritiene che a trarre vantaggio dal terrorismo mafioso furono proprio le forze più conservatrici: «Le stragi intimidiscono le istituzioni, disorientano le forze politiche, generano uno spazio pubblico di caos. E creano gli uomini d’ordine ai quali la massa si affida, invocando la ghigliottina».

Ilaria Alpi. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Ilaria Alpi (Roma, 24 maggio 1961 – Mogadiscio, 20 marzo 1994) è stata una giornalista e fotoreporter italiana del TG3, assassinata a Mogadiscio insieme al suo cineoperatore Miran Hrovatin. Si diplomò al Liceo Tito Lucrezio Caro di Roma. Grazie anche all'ottima conoscenza delle lingue (arabo, francese e inglese) ottenne le prime collaborazioni giornalistiche dal Cairo per conto di Paese Sera e de l'Unità. Successivamente vinse una borsa di studio per essere assunta alla Rai.

L'inchiesta sul traffico di rifiuti in Somalia e la morte. Ilaria Alpi giunse per la prima volta in Somalia nel dicembre 1992 per seguire, come inviata del TG3, la missione di pace Restore Hope, coordinata e promossa dalle Nazioni Unite per porre fine alla guerra civile scoppiata nel 1991, dopo la caduta di Siad Barre. Alla missione prese parte anche l'Italia, superando in tal modo le riserve dell'inviato speciale per la Somalia, Robert B. Oakley, legate agli ambigui rapporti che il governo italiano aveva intrattenuto con Barre nel corso degli anni ottanta. Le inchieste della giornalista si sarebbero poi soffermate su un possibile traffico di armi e di rifiuti tossici che avrebbe visto, tra l'altro, la complicità dei servizi segreti italiani e di alte istituzioni italiane: Alpi avrebbe infatti scoperto un traffico internazionale di rifiuti tossici prodotti nei Paesi industrializzati e dislocati in alcuni paesi africani in cambio di tangenti e di armi scambiate coi gruppi politici locali. Nel novembre precedente l'assassinio della giornalista era stato ucciso, sempre in Somalia ed in circostanze misteriose, il sottufficiale del SISMI Vincenzo Li Causi, informatore della stessa Alpi sul traffico illecito di scorie tossiche nel paese africano. Alpi e Hrovatin furono uccisi in prossimità dell'ambasciata italiana a Mogadiscio, a pochi metri dall'hotel Hamana, nel quartiere Shibis. La giornalista e il suo operatore erano di ritorno da Bosaso, città del nord della Somalia: qui Ilaria Alpi aveva avuto modo di intervistare il cosiddetto sultano di Bosaso, Abdullahi Moussa Bogor, che riferì di stretti rapporti intrattenuti da alcuni funzionari italiani con il governo di Siad Barre, verso la fine degli anni ottanta. La giornalista salì poi a bordo di alcuni pescherecci, ormeggiati presso la banchina del porto di Bosaso, sospettati di essere al centro di traffici illeciti di rifiuti e di armi: si trattava di navi che inizialmente facevano capo ad una società di diritto pubblico somalo e che, dopo la caduta di Barre, erano illegittimamente divenute di proprietà personale di un imprenditore italo-somalo. Tornati a Mogadiscio, Alpi e Hrovatin non trovarono il loro autista personale, mentre si presentò Ali Abdi, che li accompagnò all'hotel Sahafi, vicino all'aeroporto, e poi all'hotel Hamana, dinanzi al quale avvenne il duplice delitto. Sulla scena del crimine arrivarono subito dopo gli unici altri due giornalisti italiani presenti a Mogadiscio, Giovanni Porzio e Gabriella Simoni. Una troupe americana (un freelance che lavorava per un network americano) arrivò mentre i colleghi italiani spostavano i corpi dall'auto in cui erano stati uccisi a quella di un imprenditore italiano con cui successivamente vennero portati al Porto vecchio. Una troupe della Svizzera italiana si trovava invece all'Hotel Sahafi (dall'altra parte della linea verde) e filmò su richiesta di Gabriella Simoni - perché ci fosse un documento video - le stanze di Miran e Ilaria e gli oggetti che vennero raccolti. Ilaria Alpi venne sepolta nel Cimitero Flaminio di Roma.

Il procedimento penale. Il 18 luglio 1998 il sostituto procuratore di Roma Franco Ionta formulò la richiesta di rinvio a giudizio a carico del cittadino somalo Omar Hashi Hassan, accusato di concorso in omicidio volontario aggravato: secondo l'accusa, egli sarebbe stato alla guida della Land Rover con a bordo i componenti del commando che uccise i due giornalisti italiani. Hassan era giunto in Italia l'11 gennaio per essere ascoltato dalla Commissione Gallo in merito alle violenze asseritamente inferte da parte di alcuni militari italiani a diversi civili somali nel corso della Missione Ibis coordinata dall'ONU (UNOSOM I e II); arrivato in Italia, un altro cittadino somalo, Ahmed Ali Rage, detto Gelle, anch'egli convocato dalla procura di Roma per rendere dichiarazioni, riconobbe lo stesso Hassan come uno degli autori dell'omicidio. A seguito delle successive indagini Hassan fu rinviato a giudizio dal giudice per l'udienza preliminare Alberto Macchia. La prima udienza dibattimentale si tenne il 18 gennaio 1999 presso la Corte d'Assise di Roma; il collegio era presieduto da Gianvittore Fabbri. Nel corso del processo, alcuni dei testimoni auditi lasciarono intravedere particolari inquietanti intorno ai possibili legami tra l'assassinio della giornalista e i presunti traffici illeciti di armi e di rifiuti tossici che sarebbero intercorsi tra Italia e Somalia. Il 10 maggio, il presidente del Comitato parlamentare per i servizi di informazione e sicurezza e per il segreto di Stato, Franco Frattini, intervenendo ad una trasmissione televisiva, rilevò come la questione dei traffici illeciti come possibile movente del duplice omicidio fosse "un elemento importante che sta emergendo". Ad accusare Hassan comparve tuttavia un altro testimone chiave: Ali Abdi, l'autista che aveva accompagnato Alpi e Hrovatin dall'aeroporto di Mogadiscio all'hotel Hamana, in prossimità del quale avvenne il brutale delitto. La difesa, da parte sua, chiamò a testimoniare due cittadini somali, i quali asserirono che il giorno dell'agguato l'imputato si trovava presso Haji Ali, a duecento chilometri da Mogadiscio, per visitare un familiare gravemente malato. La perizia della Polizia Scientifica, nel ricostruire la dinamica dell'azione criminale, stabilì che i colpi sparati dai Kalašnikov erano indirizzati alle vittime, poiché sparati a bruciapelo, a distanza ravvicinata; secondo una successiva perizia balistica, invece, i colpi sarebbero stati sparati da lontano, senza che l'omicida potesse avere consapevolezza dell'identità delle vittime. Il 20 luglio 1999 Hassan fu assolto per non aver commesso il fatto: secondo il collegio, Hassan sarebbe stato offerto alla giustizia italiana dal presidente somalo Ali Mahdi "come capro espiatorio" per riallacciare i rapporti tra Italia e Somalia. Hassan, tuttavia, non vene immediatamente scarcerato poiché, nel frattempo, si era aperto a suo carico un processo per violenza carnale, reato asseritamente commesso a danno di una sua connazionale in Somalia. Da tale capo d'accusa sarà assolto il 26 luglio 1999. Rispetto al duplice omicidio, invece, il processo d'appello ebbe inizio il 24 ottobre 2000, presso la Corte d'assise d'appello di Roma; il collegio era presieduto da Franco Plotino. Il secondo grado di giudizio ribaltò le conclusioni del collegio di prime cure: secondo i giudici dell'impugnazione, infatti, sia Gelle che Ali Abdi "sono da considerare attendibili ed entrambi hanno visto l'imputato a bordo della Land Rover prima della sparatoria"; Hassan, ritenuto responsabile del duplice omicidio volontario, con l'aggravante della premeditazione, fu condannato all'ergastolo. Venne inoltre disposta la misura della custodia cautelare in carcere, motivata sulla base del pericolo di fuga. Nel frattempo, tuttavia, Gelle, testimone chiave del processo, si era reso irreperibile, cosicché le sue dichiarazioni furono ritenute irripetibili e fu in tal modo precluso l'esame incrociato. Ali Abdi, da parte sua, tornò in Somalia e fu ucciso nel giro di un breve periodo di tempo. La sentenza fu confermata dalla Corte di cassazione, salvo nella parte in cui riconosceva l'aggravante della premeditazione; la Cassazione dispone dunque il rinvio al giudice di merito per la nuova commisurazione della pena. Il processo d'appello bis si aprì il 10 maggio 2002 davanti alla corte d'Assise d'Appello di Roma, presieduta da Enzo Rivellese: il collegio concluse per la pena di 26 anni di reclusione, senza la premeditazione e riconoscendo le attenuanti generiche come equivalenti all'aggravante del numero dei partecipanti all'agguato (essendo 7 i componenti dell'agguato). Il 19 ottobre del 2016 la svolta. Secondo il sostituto procuratore generale analizzando le prove emerse nei confronti di Omar Hassan "ne deriva un quadro bianco senza immagini, senza niente". "E quindi - ha detto Razzi - la mia conclusione non può che essere una richiesta di assoluzione per non aver commesso il fatto". Il magistrato ha parlato di "inattendibilità" del teste Gelle. "Non esiste" ha sottolineato. Ashi Omar Hassan viene assolto dopo aver scontato 17 dei 26 anni che avrebbe dovuto scontare secondo la pena inflittagli. Il 3 Luglio 2017, la procura di Roma chiede di archiviare l'inchiesta in quanto risulta impossibile accertare l'identità dei killer e il movente del duplice omicidio.

I lavori della Commissione parlamentare d'inchiesta. Il 23 febbraio 2006 un'apposita Commissione parlamentare d'inchiesta, dopo due anni, concluse i suoi lavori con tre relazioni contrapposte, una approvata a maggioranza e due di minoranza. Durante le audizioni vennero sentiti numerosi testi a vario titolo coinvolti o a conoscenza delle dinamiche e dei fatti. Tra essi Mario Scialoja, ex ambasciatore italiano, che escluse o ritenne minima la possibilità di matrice fondamentalista islamica, e vari appartenenti ai servizi informativi SISMI e SISDE che invece contemplarono una forte possibilità di questa matrice. La commissione, tuttavia, non avrebbe condotto i necessari approfondimenti per escludere che l'omicidio potesse essere stato commesso per le informazioni raccolte dalla Alpi sui traffici di armi e di rifiuti tossici. La commissione, sempre nella relazione di maggioranza, cercò di riscontrare l'ipotesi che l'omicidio fosse avvenuto "nell'ambito di un tentativo di rapina o di sequestro di persona conclusosi solo fortuitamente con la morte delle vittime, e questa tesi veniva accreditata anche in base ad un rapporto riservato di UNOSOM del 3 aprile 1994, da cui citava "è probabile che i banditi intendessero non appropriarsi del veicolo, ma rapinare due cittadini occidentali...". Contestualmente veniva citato come fonte il somalo Ahmed Ali Rage, detto "Gelle", che accusava un altro somalo, Hashi Omar Hassan, di avergli raccontato che l'intenzione iniziale fosse di rapire i due giornalisti e che la situazione fosse poi degenerata nella sparatoria; Hassan venne arrestato anche sulla base di queste dichiarazioni quando arrivò in Italia per testimoniare ad un altro processo, quello sulle presunte violenze a carico di soldati del contingente italiano appartenenti alla brigata paracadutisti "Folgore". Altro movente che venne preso in considerazione fu il rancore verso gli italiani a causa di un arresto subito dallo stesso Hassan da parte proprio di un contingente della Folgore intervenuto a separare una rissa, durante il cui intervento Hassan colpì un ufficiale italiano. Ancora ad avvalorare questa ipotesi, nella relazione lunga 687 pagine, Valentino Casamenti dichiara che "i banditi liberati (dopo l'arresto da parte italiana) versavano in gravi condizioni economiche. Dovevano ripagare i loro avvocati ed avevano comunque urgente bisogno di soldi. Avevano deciso allora di sequestrare degli italiani per vendicarsi del trattamento subito dalla Folgore...", anche se la giornalista Giuliana Sgrena, amica della Alpi ed arrivata a Mogadiscio subito dopo l'uccisione, nella sua audizione il 20 luglio 2005 dichiarò che "si è detto che potesse essere un sequestro, ma allora sembrava abbastanza inverosimile. La stessa Sgrena fu ascoltata in merito all'ipotesi di una "ritorsione di natura economica, ovvero vendetta anti italiana o anti occidentale" insieme al giornalista di Repubblica Vladimiro Odinzoff, che intervistò un suo contatto somalo, che aveva a suo dire partecipato alla battaglia del Pastificio e che raccontò di una banda di quindici criminali somali arrestati da un gruppo misto del Col Moschin e della polizia somala, brutalmente picchiati all'arresto e dalla polizia somala anche in carcere tanto che uno avrebbe perso l'uso delle gambe, da cui la ragione della vendetta; questa fonte, sebbene ritenuta credibile da Odinzoff e dalla Sgrena, tanto che il primo ne ricavò un articolo pubblicato su La Repubblica il 5 aprile 1994 con titolo Ilaria e Miran uccisi dalla malavita somala, sebbene nessun riscontro fosse stato trovato a supporto. Nell'opposizione parlamentare ci si soffermò, invece, su alcune anomalie del modo di procedere della Commissione d'inchiesta, che potrebbero averne falsato le risultanze. Quella che nella XIV legislatura da uno dei suoi componenti (l'onorevole Enzo Fragalà) fu definita “l'unica Commissione parlamentare della storia della Repubblica che svolge sul serio l'attività di inchiesta (le altre hanno sempre fatto salotto)”, nel suo regolamento interno, il 3 marzo 2005 introdusse un articolo 10-bis riguardante le deliberazioni incidenti sulle libertà costituzionalmente garantite. Ciò fu presentato dal Presidente, Taormina, come la risposta ad un quesito posto da tempo in importanti scritti di costituzionalisti: quello di assicurare che la ricerca di un'azione investigativa fosse condivisa da tutte le forze politiche. In realtà, la ricchissima disamina della materia dell'articolo 82 della Costituzione riscontra un'esigenza di utilizzazione dello strumento numerico essenzialmente ad altro fine (quello dei maggiori o minori quorum da raggiungere per istituire una Commissione di inchiesta). Poco o nulla si rinviene, invece, sulla questione delle deliberazioni della Commissione d'inchiesta, che in tempi di consensualismo antico decidevano all'unanimità le modalità di esercizio dei loro poteri istruttori. Nella relazione conclusiva della Commissione di cui era presidente, Taormina sostenne che la norma regolamentare in questione opera “da un punto di vista dei rapporti con i terzi, il rafforzamento delle garanzie del cittadino attinto da un provvedimento, il quale sarà posto in essere solo in quanto risultato positivo al giudizio di legittimità, di merito nonché di opportunità politica effettuato da tutti i membri dell'organismo parlamentare presenti in seduta”. Ma l'unica, vera garanzia è l'esistenza di un organo terzo cui affidare il controllo, in ordine alla riconducibilità della fattispecie al parametro di riferimento offerto dalla Costituzione. Nella successiva legislatura una norma che seguiva la medesima struttura e finalità - anche se prevedeva non l'unanimità dei presenti ma la maggioranza dei due terzi dei componenti - fu proposta all'interno della legge istitutiva di una Commissione di inchiesta, quella antimafia. Infine, il presidente Taormina sosteneva che “la brutalità dei numeri è certamente qualcosa che cozza con l'esigenza dell'accertamento dei fatti”. In data 11 febbraio 2008 la Corte Costituzionale, adita in sede di conflitto di attribuzione, stabilì che: « [...]non spettava alla Commissione parlamentare di inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin adottare la nota del 21 settembre 2005 (prot. n. 2005/0001389/SG-CIV), con la quale è stato opposto il rifiuto alla richiesta, avanzata dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Roma, di acconsentire allo svolgimento di accertamenti tecnici congiunti sull'autovettura corpo di reato, ed annulla, per l'effetto, tale atto.» Nel gennaio 2011 la Commissione parlamentare annuncia la riapertura delle indagini sul caso. Il 5 settembre 2012, come già su un articolo de l'Unità del 7 febbraio 2006, Carlo Taormina ha dichiarato: «Ilaria Alpi è morta a causa di una rapina. Era in vacanza non stava facendo nessuna inchiesta, la commissione che presiedevo lo ha accertato. Ho un documento che manterrò privato per rispetto alla sua memoria che racconta tutta un'altra storia».

Ilaria Alpi, cronaca di 23 anni senza verità. 20 marzo 1994: Ilaria Alpi e Miran Hrovatin vengono uccisi in un agguato a Mogadiscio. Un colpevole di comodo, depistaggi e tante bugie: dopo due decenni ancora non sappiamo chi ha voluto la morte dei due giornalisti. Ma conosciamo il movente: le loro ricerche sui traffici di armi e rifiuti, scrive Federico Marconi il 7 luglio 2017 su "L'Espresso". “Non cerco giustizia, voglio solo conoscere la verità”. Luciana Alpi non vede la fine della lunga battaglia iniziata 23 anni fa. Vuole sapere chi sono i mandanti dell’omicidio della figlia Ilaria, inviata del Tg3 in Somalia, che il 20 marzo 1994 venne freddata da una scarica di Kalashnikov insieme all’operatore Miran Hrovatin a pochi passi dall’ambasciata italiana di Mogadiscio. Da allora processi, commissioni parlamentari e inchieste giornalistiche non sono riuscite a fare definitiva chiarezza sulla vicenda. Non si sa chi faceva parte del commando di sette uomini che sparò sull’auto che trasportava i due giornalisti, né chi sia il mandante del duplice omicidio. A pagare è stato un innocente: Omar Hassan Hashi, condannato nel 2003 a 26 anni di carcere. Giustizia è stata fatta, almeno per lui. Nel 2015, il programma televisivo “Chi l’ha visto?” aveva rintracciato il suo principale accusatore, Ahmed Ali Rage detto “Gelle”. Alle telecamere dichiarò di essere stato pagato per mentire. Così nel gennaio di quest’anno il tribunale di Perugia ha ridato la libertà ad Hashi. Nelle motivazioni della sentenza, i giudici perugini parlano chiaramente di “attività di depistaggio” che hanno portato alla condanna di un innocente. La procura di Roma ha aperto dunque un nuovo fascicolo, ma il 4 luglio 2017 ne ha chiesta l’archiviazione: “Dopo 23 anni è impossibile accertare killer e movente - scrive nella richiesta il pubblico ministero Elisabetta Ceniccola - e non c’è nessuna prova di depistaggi”. “Non sarà un’archiviazione a mettere fine alla ricerca della verità”, dichiara Domenico D’Amato, avvocato della famiglia Alpi. Una ricerca durata 23 anni, che ha scavato le radici nel lavoro di inchiesta di Ilaria, che cercava le prove di un traffico di armi e rifiuti tossici tra Italia e Somalia.

L'inchiesta e l'agguato. 20 marzo 1994. Mogadiscio, un commando di sette uomini ferma la jeep con a bordo Ilaria Alpi e Miran Hrovatin a pochi metri dall’ambasciata italiana. Una raffica di kalashnikov toglie la vita ai due giornalisti del Tg3, in Somalia per seguire il ritorno in Italia del contingente italiano inviato in missione di pace nel Corno d’Africa. Ma Ilaria stava seguendo anche un’altra pista, un traffico di armi e rifiuti tossici che coinvolgeva sia i signori della guerra locali sia delle navi provenienti dall’Italia. Per questo la settimana prima Ilaria e Miran erano andati a Bosaso, una città portuale nel nord del Paese, per intervistarne il “sultano” Abdullahi Moussa Bogor, riguardo una nave sequestrata dai pirati, forse utilizzata per i traffici illeciti. “Non è stata una rapina” dirà subito Giancarlo Marocchino, imprenditore italiano con affari in Somalia, “si vede che erano andati in posti in cui non dovevano andare”. E forse avevano scoperto qualcosa che non dovevano scoprire. I corpi dei due giornalisti vengono riportati in Italia. Ma nel viaggio di ritorno succede qualcosa: i sigilli dei bagagli vengono aperti, spariscono gli appunti di Ilaria e i nastri di Miran.

Un colpevole di comodo. Gennaio 1998. Dopo tre anni di indagini, la svolta. L’ambasciatore in Somalia Giuseppe Cassini, incaricato dal Governo Prodi di cercare i responsabili dell’omicidio Alpi, torna in Italia con tre somali. Con lui sull’aereo c’è Omar Hassan Hashi, fatto venire in Italia per testimoniare alla Commissione d’inchiesta “Gallo” sulle violenze perpetrate in Somalia dal contingente italiano durante la missione di pace. Ci sono anche Sid Abdi, l’autista di Ilaria e Miran; e Ali Ahmed Ragi, detto “Gelle”, testimone oculare dell’agguato. Abdi e Gelle dichiarano alla magistratura che Hashi era uno dei sette uomini del commando che ha fatto fuoco su Ilaria: viene subito arrestato.

Assoluzione e condanna. Luglio 1999. Omar Hassan Hashi viene assolto dal Tribunale di Roma. I giudici considerano poco attendibili le testimonianze dell’autista di Ilaria e Miran, Sid Abdi, e quella di Gelle. Nelle motivazioni, i giudici scrivono che Gelle ha cambiato versione più volte ed è sparito prima di poter testimoniare al processo. Inoltre l’altro testimone chiave, Sid Abdi, dichiara di non aver visto Gelle tra le persone presenti il giorno dell’assassinio. Più credibili i tre somali che si sono presentati davanti ai giudici confermando l’alibi di Hashi: il 20 marzo 1994 non si trovava a Mogadiscio, ma ad Adale, a 200km dalla capitale. Il pubblico ministero, che aveva chiesto l’ergastolo per Hashi, fa ricorso. Nel novembre del 2000, i giudici della Corte di Appello di Roma ribaltano la prima sentenza, condannando Hashi al fine pena mai. Tre anni dopo, la Corte di Cassazione rende definitiva la condanna: la pena per il somalo è di 26 anni di carcere.

La Commissione: "Ma quale inchiesta, erano in vacanza". Gennaio 2004. Il Parlamento istituisce una Commissione d’inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. È presieduta dall’avvocato e deputato di Forza Italia Carlo Taormina. Il suo compito è quello di approfondire le indagini sull’omicidio e le ricerche sui traffici che Ilaria Alpi stava conducendo. La Commissione desta molte critiche. Taormina si scaglia contro i giornalisti Rai che continuano a lavorare sul Caso Alpi: accusati di essere “depistatori”, subiscono la perquisizione delle proprie abitazioni e delle redazioni in cui lavorano. Dopo due anni di lavori, la Commissione fece emergere forti dubbi sulla veridicità delle testimonianze che indicavano Hashi come membro del commando che uccise Ilaria. Ma non fece luce sui mandanti, né sui traffici illeciti. Il presidente Taormina dichiarò che i due giornalisti uccisi “erano in vacanza in Somalia, non stavano conducendo nessuna inchiesta: la Commissione lo ha accertato”. La procura acquisisce gli atti della Commissione e riapre le indagini sul Caso.

Il giudice: "Omicidio su commissione". Dicembre 2007. La procura di Roma chiede l’archiviazione del nuovo fascicolo sul Caso Alpi. Viene respinta dal Gip Emanuele Cersosimo che dispone nuovi accertamenti. “Fu un omicidio su commissione” viene scritto nel testo con cui si respinge l’archiviazione “con l’intento di far tacere i due reporter ed evitare che le loro scoperte sui traffici di armi e rifiuti venissero resi noti”.

Il Sismi: "Uccisi per il loro lavoro sui traffici". Dicembre 2013. La presidente della Camera Laura Bordini avvia la procedura di desecretazione degli atti della Commissione d’inchiesta sull’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Le note del Sismi del 1994 confermano i risultati delle tante inchieste giornalistiche svolte negli anni: “Ilaria Alpi è stata uccisa perché indagava su un traffico di rifiuti e armi. I mandanti vanno ricercati tra militari somali e cooperazione”. In un’informativa riservata dei giorni successivi all’omicidio il Servizio segreto militare fa quattro nomi: il colonnello Mohamed Sheikh Osman (trafficante d’armi del clan Murasade), Said Omar Mugne (amministratore della Somalfish), Mohamed Ali Abukar e Mohmaed Samatar. In un’altra nota del 1994 il Sismi indica come “mandanti o mediatori” due imprenditori italiani: Ennio Sommavilla e Giancarlo Marocchino, tra i primi ad accorrere sul luogo dell’agguato. In una nota del 1996 viene infine indicato come possibile mandante il generale Aidid, signore della guerra somalo, utilizzatore finale del traffico d’armi che Ilaria avrebbe scoperto.

Il testimone ritratta. Marzo 2015. Una nuova svolta. ll programma ‘Chi l’ha visto?’ manda in onda l’intervista di Chiara Cazzaniga a Ali Ahmed Ragi “Gelle”, il testimone chiave nel processo contro Omar Hashi. Rintracciato a Birmingham dopo un’inchiesta lunga un anno, il somalo racconta dell’accordo propostogli dall’ambasciatore Cassini: una falsa testimonianza in cambio di un visto per lasciare la Somalia. “Non ero presente sul luogo dell’omicidio, il nome di Hashi mi è stato fatto dall’ambasciatore” ha dichiarato Gelle che, per evitare che con le sue false accuse venisse condannato un innocente, decise di scomparire dopo la testimonianza resa agli inquirenti. Gli avvocati di Hashi chiedono subito la revisione del processo.

"Fu depistaggio". Gennaio 2017. La Corte d’Assise di Perugia rimette in libertà Omar Hassan Hashi. Nelle motivazioni della sentenza, i giudici di Perugia parlano di “attività di depistaggio che possono essere avvalorate dalle modalità della ‘fuga’ del teste e dalle sue mancate concrete ricerche”. Non bastasse la facilità con cui la giornalista di Chi l’ha visto? ha rintracciato Gelle, a sostegno di tale tesi vi è anche l’attività di sorveglianza della Polizia sull’ex “testimone chiave”: negli spostamenti durante la sua permanenza nella Capitale, Gelle era sempre accompagnato dalla Polizia. Poi da un giorno all’altro sparì. La Procura di Roma apre nuovamente le indagini ma con scarsi risultati: il 4 luglio il Pm Ceniccola chiede l’archiviazione del procedimento. “Ero ottimista e certa che avrei avuto giustizia dalla Procura di Roma sul duplice omicidio di Mogadiscio” ha dichiarato Luciana Alpi il 6 luglio nel corso di una conferenza alla Federazione Nazionale della Stampa. “Non è vero che non ci sono i moventi e le prove dei depistaggi” afferma Domenico D’Amati, legale della famiglia Alpi “ce ne sono in abbondanza, non si vogliono leggere”. La famiglia ha dichiarato che si opporrà alla richiesta di archiviazione della Procura. Dopo 23 anni di indagini, processi, inchieste e depistaggi, non può essere solo un giudice a decidere se si possono accertare fatti e responsabilità: la verità storica non può essere ostaggio della verità giudiziaria.

Caso Ilaria Alpi e quel dossier segreto consegnato a Gianni De Gennaro. Un rapporto riservato sulla fuga del testimone chiave Gelle finì nelle mani dell'ex capo della polizia, violando il regolamento della Commissione parlamentare d'inchiesta, scrive Andrea Palladino il 9 aprile 2015 su "L'Espresso". Sono i documenti meglio custoditi del Parlamento. Blindati, conservati con cura quasi maniacale. Ogni occhio che si posa sulle pagine con il timbro “segreto” viene annotato: data, ora d’inizio e di fine della lettura. C’è di più. “Non è consentito ad alcuno estrarre copia”, recitava l’articolo 18 del regolamento interno della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin per i documenti classificati. Relazioni, atti d’indagine o informative dei servizi. Niente fotocopie. Una regola che, però, ha avuto le sue curiose eccezioni, con un rapporto riservatissimo su un testimone gestito dalla Digos che finisce nella mani dell’ex capo della polizia Gianni De Gennaro. Siamo tra la fine del 2004 e il novembre del 2005, quando i lavori della commissione guidata da Carlo Taormina entrano in un fase delicatissima. Testimoni somali ascoltati secretando tutto, nome compreso, ufficiali di collegamento alle prese con intercettazioni telefoniche e incontri riservati, e una pista rilevante apparsa quasi per caso. Un capitano della Guardia di finanza, Gianluca Trezza, inizia ad approfondire quello che appariva come un clamoroso depistaggio, il caso del testimone chiave Ahmed Ali Rage, detto Gelle. Un somalo portato in Italia dall’ambasciatore Giuseppe Cassini nell’ottobre del 1997, che accuserà - prima di sparire - il connazionale Hashi Omar Assan, il capro espiatorio condannato poi a 26 anni carcere con l’accusa di aver fatto parte del gruppo di fuoco entrato in azione il 20 marzo 1994. Gelle, tre mesi dopo aver deposto davanti al funzionario della Digos romana Lamberto Giannini e al pm Franco Ionta, era sparito. Il 13 ottobre 2004 il capitano Trezza ascolta insieme al presidente Carlo Taormina - unico parlamentare presente - il racconto del giornalista somalo Mohamed Sabrie Aden: “Gelle mi ha raccontato nel 2002 per telefono di aver mentito, perché pagato”, spiegò in un verbale subito secretato. Dopo quindici anni lo stesso Gelle ripeterà il suo racconto - questa volta in video - alla redazione di Chi l’ha visto. Chi lo aveva convinto a dire il falso? E, soprattutto, chi aveva aiutato Gelle a sparire, evitando così di deporre in aula? Il capitano Trezza si mette all’opera. Ricostruisce con attenzione quello che avviene prima del Natale 1997, data della scomparsa del testimone chiave. Il suo rapporto finale arriva nelle mani di Carlo Taormina il 25 ottobre del 2005. “Segreto”, utilizzabile solo all’interno della commissione. Riporta la testimonianza di Giuseppe Scomparin, titolare di un’officina meccanica dove il Ministero dell’Interno aveva piazzato Gelle nei tre mesi della sua permanenza in Italia. “Ricordo che (i funzionari del ministero dell’interno) mi dissero che il ragazzo non sarebbe venuto per tre, quattro giorni. Alla scadenza di tale lasso di tempo una nuova conversazione telefonica mi preannunciò che il ragazzo non sarebbe più venuto al lavoro”. Parole pesanti, tanto che il capitano Trezza annota: “Se ne trarrebbe che l’allontanamento dall’Italia di Gelle fosse avvenuto quantomeno con la consapevolezza degli uomini delle istituzioni”. Meno di due settimane dopo inizia la curiosa movimentazione di quel rapporto segreto, che esce dalle stanze della commissione: “Consegnata fotocopia senza omissis a capo della Polizia dott. De Gennaro”, è l’annotazione sul fascicolo, desecretato solo nel 2006, dopo la chiusura dell'inchiesta parlamentare. Un salto a piè pari del regolamento della stessa commissione. “Io non ricordo assolutamente di aver dato quel documento all’allora capo della Polizia - spiega oggi l’avvocato Carlo Taormina - e sicuramente non diedi nessuna delega d’indagine a Gianni De Gennaro”. Dunque, il tutto sarebbe avvenuto all'insaputa della stessa presidenza della commissione. Che accadrà dopo? Giuseppe Scomparin, ascoltato in audizione il 23 novembre 2005, cercherà goffamente di rivedere la sua testimonianza, mentre Gelle - nonostante la Digos abbia sempre assicurato di cercarlo attivamente - rimarrà a Birmingham, lontano dai tribunali italiani. E il povero Hashi Omar Assan continuerà a scontare 26 anni di galera. Grazie ad un testimone falso.

Caso Alpi, il supertestimone ha mentito. Vent'anni dopo l'omicidio la verità è più vicina. Il somalo che aveva accusato Hashi Omar Assan è stato scovato da “Chi l’ha visto”: gli italiani avevano fretta di chiudere il caso e gli hanno promesso denaro in cambio di una sua testimonianza, si legge in una nota del programma.  Scoprire chi ha depistato è la via maestra per arrivare ai mandanti, scrive Andrea Palladino il 16 febbraio 2015 su "L'Espresso". Era uccel di bosco dal dicembre del 1997, quando lasciò l’Italia diretto verso il Regno Unito. Il supertestimone del caso Alpi, il somalo che aveva accusato Hashi Omar Assan- unico condannato per l’agguato costato la vita alla giovane giornalista del Tg 3 il 20 marzo 1994, a Mogadiscio - si era reso irreperibile dopo aver deposto davanti alla Digos e alla Procura di Roma. Mai apparso in Tribunale, lasciando dietro di sé il sospetto di una testimonianza in qualche maniera pilotata. Alla fine sono stati i colleghi di Ilaria Alpi a scovarlo. Ai giornalisti del programma di Rai 3 “Chi l’ha visto” Ahmed Ali Rage, detto Gelle, il supertestimone sparito nel nulla, ha confermato di aver mentito: “Gli italiani avevano fretta di chiudere il caso - riferisce una nota del programma - e gli hanno promesso denaro in cambio di una sua testimonianza al processo: doveva accusare un somalo del duplice omicidio”. Un capro espiatorio, dunque, un nome da dare in pasto all’opinione pubblica e alla famiglia, cercando di chiudere un caso complesso e politicamente delicato. La lunga fuga di Ahmed Ali Rage è la chiave di volta del caso Alpi. Già nel 2006 le autorità italiane conoscevano tutto sul testimone sparito. Una nota dell’Interpol diretta alla commissione d’inchiesta sulla morte dei due giornalisti Rai indicava con precisione molti elementi per trovare e ascoltare Gelle: l’indirizzo della sua casa a Birmingham, dove andava a ritirare il sussidio da rifugiato politico, i suoi contatti nel Regno Unito. E il nome della moglie, Kadro Arale. Nel frattempo il Tribunale di Roma aveva aperto un processo contro il supertestimone per calunnia, dopo la rivelazione di una telefonata tra il testimone e un giornalista collaboratore di Rai International, dove Gelle, sosteneva di essere stato pagato per raccontare il falso. Nulla, però, è accaduto. Ahmed Ali Rage non è stato mai trovato dalle autorità italiane e il processo si è concluso con un’assoluzione, basata sulla impossibilità di verificare l’autenticità della telefonata e della voce di Gelle. Per trovare il testimone somalo in fondo bastava poco. La moglie Kadro Arale lo scorso anno era regolarmente registrata sulle liste degli elettori di Birmingham. Documenti pubblici, consultabili facilmente sul web. All’indirizzo indicato abitava la famiglia di Gelle, strettamente protetta dalla comunità somala. “Cosa volete da lui?”, aveva risposto un anno fa la moglie, mentre vicini e altre famiglie somale creavano un muro invalicabile. Gelle in quei giorni era assente, ma bastava insistere con le domande per avere la conferma di essere nel posto giusto. Se il vecchio indirizzo indicato dall’Interpol nel 2006 era ormai “bruciato”, le tracce lasciate dalla moglie e dai figli erano chiari e inequivocabili. Ora le sue parole registrate da Rai 3 riaprono con forza il caso. La Procura di Roma - che ha ancora aperto il fascicolo sull’agguato del 1994 - dovrà capire chi ha pagato Gelle per mentire. Scoprire chi ha depistato è la via maestra per arrivare ai mandanti. Vent’anni dopo l’agguato di Mogadiscio forse la verità è più vicina.

Caso Ilaria Alpi, la Camera mette online i documenti. Sono passati vent'anni dall'omicidio della giornalista e dell'operatore Miran Hrovatin in Somalia. Tra misteri e depistaggi ancora tanti punti da chiarire, scrive Giovanni Tizian il 17 marzo 2016 su "L'Espresso". 20 marzo del 1994. Un agguato mette fine alla vita di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. A pochi giorni dall'anniversario, la Camera dei deputati mette online l’Archivio digitale che contiene tutta la documentazione raccolta dal Parlamento sul caso. Un fascicolo denso di misteri, personaggi torbidi, affaristi e presenza inquietanti degli apparati di sicurezza. Il governo e la presidente di Montecitorio l'hanno definito un nuovo capitolo dell’operazione-trasparenza. Dopo la rimozione del segreto su materiali riguardanti la Terra dei Fuochi, le navi dei veleni e il cosiddetto “armadio della vergogna” sulle stragi nazifasciste, ecco la parte riguardante i l'uccisione dei due giornalisti. All'indirizzo archivioalpihrovatin.camera.it si troveranno i documenti depositati presso l’Archivio storico della Camera: sia quelli già “liberi”, finora consultabili solo andando di persona alla sede di Roma (2009 documenti, per 104.943 pagine), sia quelli declassificati per iniziativa della Presidenza della Camera nel corso di questa legislatura (208 documenti, per un totale di 13.614 pagine; una prima tranche di 17 documenti era stata declassificata alcuni mesi fa). I materiali però non sono consultabili direttamente. Possono essere consultati solo dopo aver compilato una domanda online. E grazie alla collaborazione della Rai sono pubblicati materiali video, anche non montati, realizzati fra il 1992 e il 1994 da Ilaria Alpi, Miran Hrovatin ed altri telecineoperatori Rai in Somalia, a Belgrado e in Marocco. «Questi documenti ci fanno entrare nel mondo di Ilaria - ha dichiarato la Presidente Boldrini - ci fanno scoprire com’era e come lavorava; fanno emergere il profilo di una donna appassionata e insieme di una giornalista di talento. La sua voce era diventata, nei primi anni ‘90, la voce della Somalia, così come le immagini di Miran Hrovatin ci avevano fatto conoscere un Paese messo in ginocchio dalla guerra fratricida, dalla fame e dalla povertà. Possa questa azione di trasparenza contribuire alla ricerca della verità e alla conservazione della memoria». Verità che è ancora tarda ad arrivare. E che speriamo, con il venire meno di alcuni segreti di Stato, possa avvicinarsi. Così da chiudere uno dei capitoli più neri della nostra storia e rendere giustizia a due colleghi, morti per dovere.

Strage di Ustica, il testimone che riscrive la storia d'Italia: "Era guerra, ho visto tutto", scrive il 20 Dicembre 2017 “Libero Quotidiano”. Si riaccende lo scontro politico, dopo le novità arrivate dagli Usa, sul caso Ustica, con la nuova testimonianza su quanto avvenne il 27 giugno del 1980, la notte in cui il Dc9 Itavia, in volo da Bologna a Palermo, con a bordo 81 persone, sparì dai radar, finendo in mare. Le parole di Rian Sandlin, l’ex marinaio della portaerei Saratoga, che al giornalista Andrea Purgatori racconta di un conflitto aereo, nel Mediterraneo, tra caccia americani e libici, rilanciano, di fatto, l’ipotesi di un incidente di guerra che coinvolse il volo civile italiano. Parole che - in attesa di un interessamento della Procura di Roma - riaprono il dibattito tra chi sostiene la tesi della bomba a bordo e chi pensa che a colpire l’aereo sia stato un missile, forse alleato. Per Daria Bonfietti, presidente dell’Associazione Parenti delle Vittime della strage di Ustica "il fatto che due Mig libici fossero stati abbattuti la notte di Ustica lo avevano già detto altri, ma sentirlo dire da un signore che stava sulla Saratoga, che finora gli Usa ci avevano detto stesse in rada, è una novità importante". "È chiaro che ci sono cose non dette su Ustica, ma il problema non è la verità, perché loro, al governo, sanno qual è la verità, il problema è che non vogliono raccontarla", aggiunge Paolo Bolognesi, presidente dell’Associazione 2 agosto: "Pensavano con la direttiva Renzi di tacitare la richiesta di verità, ma non hanno fatto il loro dovere fino in fondo, ora basta, diano le carte vere". Di cosa "vergognosa" e di "bufala gigantesca", parla invece il senatore di Idea, Carlo Giovanardi. "Sono falsità - sottolinea - già smentite da sentenze penali passate in giudicato che dicono che non c’è stata alcuna battaglia aerea, nessun missile, nessun aereo in volo". Giovanardi, non dà alcun credito alle ultime novità: "Ci sono 4mila pagine di perizie internazionali che dicono dov’era la bomba, quando è esplosa e tutti i dettagli - spiega il senatore di Idea - dall’altra, invece, abbiamo 27 versioni diverse" che accusano "gli Usa, i francesi, i libici". "Ho letto cose terrificanti in Commissione Moro - ricorda il senatore che è membro dell’organismo che indaga sulla morte del leader Dc - sui palestinesi che preparavano un terribile attentato, i documenti sono ancora segretati e Gentiloni, che abbiamo chiesto venisse a riferire, non ci risponde". "Per arrivare a chiarire rendiamo pubbliche quelle carte, in particolare il carteggio del biennio ’79-’80 dei nostri servizi da Beirut che parla delle minacce di rappresaglia da parte dei palestinesi, dopo lo stop al Lodo Moro", conclude il senatore di Idea.

Strage di Ustica, la verità del militare Usa: «Due Mig libici abbattuti dai nostri caccia la sera dell’esplosione». La nuova testimonianza ad «Atlantide», su La7. Torna l’ipotesi del volo colpito per errore, scrive Ilaria Sacchettoni il 20 dicembre 2017 su "Il Corriere della Sera". Trentasette anni dopo, una nuova testimonianza riaccende la speranza di raggiungere la verità sull’esplosione in volo del Dc-9 che uccise 81 persone sui cieli di Ustica. Brian Sandlin, all’epoca marinaio sulla Saratoga destinata dagli Usa al pattugliamento del Mediterraneo, intervistato (questa sera ad Atlantide su La7) da Andrea Purgatori, autore della prima ricostruzione sulla vicenda, racconta i fatti di cui fu testimone. È la sera del 27 giugno 1980. Dalla plancia della nave che staziona a poche miglia dal golfo di Napoli, il giovane Sandlin assiste al rientro da una missione speciale di due Phantom disarmati, scarichi. Aerei che sarebbero serviti ad abbattere altrettanti Mig libici in volo proprio lungo la traiettoria aerea del Dc-9: «Quella sera — racconta l’ex marinaio — ci hanno detto che avevamo abbattuto due Mig libici. Era quella la ragione per cui siamo salpati: mettere alla prova la Libia». È un’affermazione storica. Per la prima volta qualcuno attesta lo scenario bellico nei cieli italiani durante gli ultimi anni della guerra fredda. «Eravamo coinvolti in un’operazione Nato e affiancati da una portaerei britannica e da una francese» aggiunge Sandlin. La pista del Dc-9 vittima di un’iniziativa militare alleata nei confronti della Libia ha faticato a farsi strada. Ed è ancora alla ricerca di conferme. L’Italia di quegli anni sconta ambiguità. Le istituzioni — per evitare ritorsioni — collaboravano con Gheddafi fornendogli nomi e indirizzi degli oppositori al suo regime che si trovavano in Italia. Gli Usa invece, erano decisi a combatterlo come avverrà in futuro con altri colonnelli (tra cui Saddam Hussein): «Il capitano Flatley — prosegue Sandlin — ci informò che durante le nostre operazioni di volo due Mig libici ci erano venuti incontro in assetto aggressivo e avevamo dovuto abbatterli». L’ex marinaio della Us Navy è pronto a smentire la versione di una bomba terroristica piazzata a bordo dell’aereo Itavia. E a supportare gli approfondimenti dei magistrati della Procura di Roma, Maria Monteleone ed Erminio Amelio, sull’aereo colpito per errore durante un’azione di forza degli alleati. A 57 anni compiuti Sandlin restituisce l’atmosfera che si respirò nei giorni successivi: «Ricordo che in plancia c’era un silenzio assoluto. Non era consentito parlare, non potevamo neppure berci una tazza di caffè o fumare. Gli ufficiali si comportavano in modo professionale ma parlavano poco fra loro». La sensazione diffusa è quella di aver commesso qualcosa di enorme. Possibile che fosse proprio l’abbattimento di un aereo civile? Sandlin non ipotizza ma offre nuovi dettagli. Ma il suo silenzio in tutti questi decenni? È terrorizzato. Nel 1993 la visione di una puntata di 60 minutes (leggendario programma d’inchiesta della Cbs raccontato anche nel film Insider di Michael Mann con Al Pacino) per un attimo addormenta la paura e restituisce memoria all’ex marinaio. Sandlin, però, non trova ancora il coraggio di mettere a disposizione di altri le proprie informazioni. Un sottoufficiale prossimo alla pensione, racconta, era stato ucciso in una rapina tanto misteriosa quanto anomala. Unico ad essere colpito benché in un gruppo di bersagli possibili. Sapeva qualcosa su Ustica? La paura, spiega Sandlin, scompare nel momento in cui cambiano gli scenari internazionali e lo strapotere della Cia è ridimensionato: «Oggi non credo — dice — che possa ancora mordere». E allora l’ex marinaio della Usa Navy parla, racconta e smentisce verità ufficiali. Ad esempio quella del Pentagono sul fatto che, quella notte, i radar della Saratoga sarebbero stati spenti per non disturbare le frequenze televisive italiane. Impossibile, dice l’uomo. Mai e poi mai una nave così avrebbe potuto spegnere i radar.

Strage di Ustica. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La strage di Ustica fu un disastro aereo, avvenuto nella sera di venerdì 27 giugno 1980, quando un aereo di linea Douglas DC-9-15 della compagnia aerea italiana Itavia, decollato dall'Aeroporto di Bologna e diretto all'Aeroporto di Palermo, si squarciò in volo all'improvviso e cadde nel braccio di mare compreso tra le isole tirreniche di Ustica e Ponza, chiamata posizione Condor. Nell'evento persero la vita tutti gli 81 occupanti dell'aereo. Molti aspetti di questo disastro, a partire dalle cause stesse, non sono ancora stati chiariti. Nel corso degli anni, sulla strage di Ustica si sono dibattute principalmente le ipotesi di un coinvolgimento internazionale (in particolare francese, libico e statunitense, con una delle aviazioni militari dei tre Paesi, che avrebbe colpito per errore il DC-9 con un missile diretto al nemico), di un cedimento strutturale o di un attentato terroristico (un ordigno esplosivo nella toilette del velivolo. Nel 2007 l'ex-presidente della Repubblica Cossiga, all'epoca della strage presidente del Consiglio, ha attribuito la responsabilità del disastro a un missile francese «a risonanza e non ad impatto», destinato ad abbattere l'aereo su cui si sarebbe trovato il dittatore libico Gheddafi. Tesi analoga è alla base della conferma, da parte della Corte di Cassazione, della condanna al pagamento di un risarcimento ai familiari delle vittime, inflitta in sede civile ai Ministeri dei Trasporti e della Difesa dal Tribunale di Palermo. I procedimenti penali per alto tradimento, a carico di quattro esponenti dei vertici militari italiani, si sono conclusi con l'assoluzione degli imputati. Altri procedimenti a carico di militari (circa 80) del personale AM si sono conclusi con condanne per vari reati, tra i quali falso e distruzione di documenti. La compagnia Itavia, già pesantemente indebitata, cessò le operazioni il 10 dicembre; il 12 dicembre le fu revocata la licenza di operatore aereo (su rinuncia della stessa compagnia) e, nel giro di un anno, si aprì la procedura di fallimento. Ricostruzione cronologica dell'avvenimento.

Alle 20:08 del 27 giugno 1980 il DC-9 immatricolato I-TIGI decolla per il volo IH870 da Bologna diretto a Palermo con 113 minuti di ritardo accumulati nei servizi precedenti; una volta partito, si svolge regolarmente nei tempi e sulla rotta assegnata (lungo l'aerovia "Ambra 13") fino all'ultimo contatto radio, tra velivolo e controllore procedurale di Roma Controllo, che avviene alle 20:59.

Alle 21:04, chiamato per l'autorizzazione di inizio discesa su Palermo, dove era previsto arrivasse alle 21:13, il volo IH870 non risponde. L'operatore di Roma reitera invano le chiamate; lo fa chiamare, sempre senza ottenere risposta, anche da due voli dell'Air Malta, KM153, che segue sulla stessa rotta, e KM758, oltre che dal radar militare di Marsala e dalla torre di controllo di Palermo. Passa senza notizie anche l'orario di arrivo a destinazione, previsto per le 21:13.

Alle 21:25 il Comando del soccorso aereo di Martina Franca assume la direzione delle operazioni di ricerca, allerta il 15º Stormo a Ciampino, sede degli elicotteri Sikorsky HH-3F del soccorso aereo.

Alle 21:55 decolla il primo HH-3F e inizia a perlustrare l'area presunta dell'eventuale incidente. L'aereo viene dato per disperso.

Nella notte numerosi elicotteri, aerei e navi partecipano alle ricerche nella zona. Solo alle prime luci dell'alba, un elicottero di soccorso individua alcune decine di miglia a nord di Ustica alcuni detriti in affioramento. Poco dopo raggiunge la zona un Breguet Atlantic dell'Aeronautica, che avvista una grossa chiazza di carburante; nel giro di qualche ora cominciano ad affiorare altri detriti e i primi cadaveri dei passeggeri. Ciò conferma che il velivolo è precipitato nel mar Tirreno, in una zona in cui la profondità dell'acqua supera i tremila metri.

Le vittime del disastro furono ottantuno, di cui tredici bambini, ma furono ritrovate e recuperate solo trentotto salme. La Procura di Palermo dispose l'ispezione esterna di tutti i cadaveri rinvenuti e l'autopsia completa di 7 cadaveri, richiedendo ai periti di indicare:

causa, mezzi ed epoca dei decessi;

le lesioni presentate dai cadaveri;

se su di essi si ravvisassero presenze di sostanze tossiche e di corpi estranei;

se vi fossero tracce evidenti di ustioni o di annegamento.

Sulle sette salme di cui fu disposta l'autopsia furono riscontrati sia grandi traumi da caduta (a livello scheletrico e viscerale), sia lesioni enfisematose polmonari da decompressione (tipiche di sinistri in cui l'aereo si apre in volo e perde repentinamente la pressione interna). Nelle perizie gli esperti affermarono che l'instaurarsi degli enfisemi da depressurizzazione precedette cronologicamente tutte le altre lesioni riscontrate, ma non causò direttamente il decesso dei passeggeri facendo loro soltanto perdere conoscenza. La morte, secondo i medesimi esperti, sopravvenne soltanto in seguito, a causa di traumi fatali, riconducibili (così come la presenza di schegge e piccole parti metalliche in alcuni dei corpi) a reiterati urti con la struttura dell'aereo in caduta e, in ultima analisi, all'impatto del DC9 con l'acqua. La ricerca tossicologica dell'ossido di carbonio e dell'acido cianidrico (residui da combustione) fu negativa nel sangue e nei polmoni. Nessuna delle salme presentava segni di ustione o di annegamento. Il controllo radiografico, alla ricerca di residui metallici, risultò positivo su cinque cadaveri. Più precisamente:

nel cadavere 20 due piccole schegge nell'indice e nel medio sinistri;

nel cadavere 34 piccoli frammenti in proiezione della testa dell'omero destra e della quinta vertebra lombare;

nel cadavere 36 minuti frammenti nella coscia sinistra;

nel cadavere 37 un bullone con relativo dado nelle parti molli dell'emibacino;

nel cadavere 38 un frammento delle dimensioni di un seme di zucca e di forma irregolare nella mano destra.

La perizia ritenne di escludere, per le caratteristiche morfologiche e dimensionali, la provenienza dei minuscoli corpi estranei dall'eventuale frammentazione di involucro di un qualsiasi ordigno esplosivo.

Comunicazioni radio del DC-9 con Roma Ciampino 18:26:06Z. (ora in GMT):

Roma: «870 identifichi.»

IH870: «Arriva.»

Roma: «Ok, è sotto radar, vediamo che sta andando verso Grosseto, che prua ha?»

IH870: «La 870 è perfettamente allineata sulla radiale di Firenze, abbiamo 153 in prua. Ci dobbiamo ricredere sulla funzionalità del VOR di Firenze.»

Roma: «Sì, in effetti non è che vada molto bene.»

IH870: «Allora ha ragione il collega.»

Roma: «Sì, sì pienamente.»

IH870: «Ci dica cosa dobbiamo fare.»

Roma: «Adesso vedo che sta rientrando, quindi, praticamente, diciamo che è allineato, mantenga questa prua.»

IH870: «Noi non ci siamo mossi, eh?!.»

Comunicazioni radio del DC-9 con Roma Ciampino 18:44:08Z.

IH870: «Roma, la 870.»

Roma: «IH870 per Ponza, 127,35.»

IH870: «127,35. Grazie, buonasera.»

Comunicazioni radio del DC-9 con Roma Ciampino 18:44:44Z.

IH870: «È la 870, buonasera Roma.»

Roma: «Buonasera 870. Mantenga 290 e richiamerà 13 Alfa.»

IH870: «Sì, senta: neanche Ponza funziona?»

Roma: «Prego?»

IH870: «Abbiamo trovato un cimitero stasera venendo... da Firenze in poi praticamente non ne abbiamo trovata una funzionante.»

Roma: «Eh sì, in effetti è un po' tutto fuori, compreso Ponza. Lei quanto ha in prua ora?»

IH870: «Manteniamo 195.»

Roma: «195. Sì, va bene. Mantenga 195, andrà un po' più giù di Ponza di qualche miglio.»

IH870: «Bene, grazie.»

Roma: «E comunque 195 potrà mantenerlo, io penso, ancora un 20 miglia, non di più perché c'è molto vento da ovest. Al suo livello dovrebbe essere di circa 100-120 nodi l'intensità.»

IH870: «Eh sì, in effetti sì, abbiamo fatto qualche calcolo, dovrebbe essere qualcosa del genere.»

Roma: «Ecco, non lo so, se vuole continuare con questa prua altrimenti accosti a destra anche un 15-20 gradi.»

IH870: «Ok. Mettiamo per 210.»

Comunicazioni radio del DC-9 con Roma Ciampino 18:46:31Z.

IH870: «È la 870, è possibile avere un 250 di livello?»

Roma: «Sì, affermativo. Può scendere anche adesso.»

IH870: «Grazie, lasciamo 290.»

Comunicazioni radio del DC-9 con Roma Ciampino 18:50:45Z.

Roma: «L'Itavia 870 diciamo ha lasciato Ponza 3 miglia sulla destra, quindi, quasi quasi, va bene per Palermo così.»

IH870: «Molto gentile, grazie. Siamo prossimi a 250.»

Roma: «Perfetto. In ogni caso ci avverta appena riceve Palermo.»

IH870: «Sì, Papa-Alfa-Lima lo abbiamo già inserito, va bene e abbiamo il DME di Ponza.»

Roma: «Perfetto. Allora normale navigazione per Palermo, mantenga 250, richiamerà sull'Alfa.»

IH870: «Benissimo, grazie.»

Comunicazioni radio del DC-9 con Roma Ciampino 18:56:00Z.

IH870: «È sull'Alfa la 870.»

Roma: «Eh sì, affermativo. Leggermente spostato sulla destra, diciamo 4 miglia e comunque il radartermina. 28,8 per ulteriori.»

IH870: «Grazie di tutto, buonasera.»

Roma: «Buonasera a lei.»

Comunicazioni radio del DC-9 con Roma Ciampino 18:56:54Z.

IH870: «Roma, buonasera. È l'IH870.»

Roma: «Buonasera IH870, avanti.»

IH870: «115 miglia per Papa-Alfa... per Papa-Romeo-Sierra, scusate. Mantiene 250.»

Roma: «Ricevuto IH870. E può darci uno stimato per Raisi?»

IH870: «Sì: Raisi lo stimiamo per gli uno-tre.»

Roma: «870 ricevuto. Autorizzati a Raisi VOR. Nessun ritardo è previsto, ci richiami per la discesa.»

IH870: «A Raisi nessun ritardo, chiameremo per la discesa, 870.»

Roma: «È corretto.»

Comunicazioni radio del DC-9 con Roma Ciampino 18:59:45Z - ultimo segnale del transponder.

Il flight data recorder (FDR) dell'aereo aveva registrato dati di volo assolutamente regolari: prima della sciagura la velocità era di circa 323 nodi, la quota circa 7 630 m (25 000 piedi) con prua a 178°, l'accelerazione verticale oscillava, senza oltrepassare 1,15 g. La registrazione del tranquillo dialogo tra il comandante Domenico Gatti e il copilota, che si raccontavano barzellette, restituito dal cockpit voice recorder (CVR), si era interrotta improvvisamente e senza alcun segnale allarmante che precedesse la troncatura.

Gli ultimi secondi dal CVR: «Allora siamo a discorsi da fare... [...] Va bene i capelli sono bianchi... È logico... Eh, lunedì intendevamo trovarci ben poche volte, se no... Sporca eh! Allora sentite questa... Gua...». La registrazione si era interrotta tagliando l'ultima parola («Guarda!»). Questo particolare potrebbe indicare un'improvvisa interruzione dell'alimentazione elettrica.

Le principali ipotesi sulle quali gli inquirenti hanno indagato sono:

il DC-9 sarebbe stato abbattuto da un missile aria-aria sparato da un aereo militare;

il DC-9 sarebbe precipitato dopo essere entrato in collisione (o in semicollisione) con un aereo militare;

sarebbe avvenuto un cedimento strutturale;

sarebbe esplosa una bomba a bordo.

A partire dalla succitata prima ipotesi, negli anni si è affermata la tesi che in zona vi fosse un'intensa attività aerea internazionale: sebbene dagli enti militari, nazionali e alleati, sino ai primi anni novanta non fosse mai giunta alcuna conferma di tali attività (che pure è stato ipotizzato possano essere state occultate), né sul relitto sia mai stato trovato alcun frammento di missile, ma soltanto tracce di esplosivo, si sarebbe determinato uno scenario di guerra aerea, nel quale il DC-9 Itavia si sarebbe trovato per puro caso mentre era in volo livellato sulla rotta Bologna-Palermo. Testimonianze emerse nel 2013 confermerebbero la presenza di aerei da guerra e navi portaerei. L'occultamento e la distruzione, di alcuni registri (Marsala, Licola e Grosseto) e di alcuni nastri radar (Marsala e Grosseto) che registrarono il tracciato del volo DC-9 IH870, a fronte delle prove prodotte da altri analoghi registri e nastri non occultabili e non distrutti (Fiumicino, Satellite russo), vengono portati a sostegno di tale ipotesi. Da testimonianze risulta che se il disastro avesse avuto cause chiare (difetto strutturale o bomba) non sarebbe stato necessario occultare e distruggere prove di primaria importanza sul volo, come è stato stabilito dalle conclusioni della sentenza nel Procedimento Penale Nr. 527/84 A G. I.. I dati di volo distrutti e recuperati da altre fonti nazionali e internazionali e l'allarme generale della difesa aerea lanciato da due piloti dell'aeronautica militare italiana potrebbero confermare la tesi accusatoria, secondo la quale l'aereo DC-9 Itavia del volo IH870, attorno al quale volavano almeno tre aerei dei quali uno a velocità supersonica, sia stato abbattuto da un aereo che volava a velocità supersonica, tesi proposta per la prima volta dall'esperto del National Transportation Safety Board, John Macidull.

Nel libro pubblicato nel 1994 The other side of deception - ISBN 0-06-017635-0 - scritto dall'ex-agente del Mossad Victor Ostrovsky, a pagina 248 si cita una conversazione tra l'autore ed un collega inglese avvenuta a fine gennaio 1990 in un albergo ad Ottawa (Canada):

"Do you believe or think or know if the Mossad may have had any involvement in what happened to Flight 103 over Lockerbie?"

I was dumbfounded. It took me several seconds to realize what the man had asked me. I responded almost automatically.

"No way".

"Why?"

"No reason. Just no way, that's all. Up to this point, every time Israel or the Mossad has been responsible for the downing of a plane, it's been an accident, and related directly to the so-called security of the state, like the shooting down of the Libyan plane over the Sinai and the Italian plane (thought to carry uranium) in 1980, killing eighty-one people. There is no way that they'd do this".

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"Credi o pensi o sai se il Mossad può essere implicato in quanto è successo al volo 103 su Lockerbie?"

Ero perplesso. Ci misi diversi secondi a realizzare quanto mi era stato chiesto. Risposi quasi automaticamente.

"In nessun modo".

"Perché?"

"Nessun motivo. Semplicemente in nessun modo, è tutto. Sino ad oggi, ogni volta che Israele o il Mossad è stato responsabile dell'abbattimento di un aereo, si è trattato di un incidente, ed in diretta relazione con la cosiddetta sicurezza di Stato, come l'abbattimento dell'aereo libico sul Sinai e l'aereo italiano (che si pensava trasportasse uranio) nel 1980, nel quale furono uccise ottantuno persone. In nessun modo avrebbero fatto una cosa simile".

Victor Ostrovsky non è mai stato interrogato dai giudici italiani in relazione ai fatti della Strage di Ustica ed alle informazioni contenute nel suo libro.

Sul caso Ustica la magistratura italiana ha condotto un'attività di indagine durata per decenni, con cospicue cartelle di atti: al processo di primo grado si giunse con due milioni di pagine di istruttoria, 4 000 testimoni, 115 perizie, un'ottantina di rogatorie internazionali e 300 miliardi di lire di sole spese processuali e quasi trecento udienze processuali. Le indagini vennero avviate immediatamente sia dalla magistratura sia dal Ministero dei Trasporti, all'epoca ministro Formica. Aprirono un procedimento le procure di Palermo, Roma e Bologna, mentre il ministro dei trasporti nominò una commissione d'inchiesta tecnico-formale diretta dal dottor Carlo Luzzatti, che però non concluse mai i suoi compiti, visto che, dopo aver presentato due relazioni preliminari, decise per l'autoscioglimento nel 1982 a causa di insanabili contrasti di attribuzioni con la magistratura. Formica finì con l'adeguarsi alla tesi prevalente, che l'aereo era precipitato per un cedimento strutturale dovuto alla cattiva manutenzione. Il 10 dicembre 1980 Itavia interruppe l'attività, mentre ai dipendenti non veniva più corrisposto lo stipendio. Il Ministero dei Trasporti il 12 dicembre 1980 revocò all'Itavia le concessioni per l'esercizio dell'attività, su rinuncia della stessa compagnia aerea. Dal 1982 l'indagine divenne, di fatto, di esclusiva competenza della magistratura, nella persona del giudice istruttore di Roma Vittorio Bucarelli. La ricerca delle cause dell'incidente, nei primi anni e senza disporre del relitto, non permise di raggiungere dati sufficientemente attendibili. Sui pochi resti disponibili, i periti rinvennero tracce di esplosivi. Nel 1982, una perizia eseguita da parte di esperti dell'aeronautica militare italiana, trovò solo C4, esplosivo plastico presente nelle bombe, come quella fatta esplodere nel successivo 1987 da agenti della Corea del Nord sul volo Korean Air 858. Nella relazione della Direzione laboratori dell'A.M. - IV Divisione Esplosivi e Propellenti (Torri) del 5 ottobre 1982 (parte I, Libro I, Capo I, Titolo III, capitolo III della sentenza ordinanza del giudice istruttore) la causa dell'incidente viene individuata nella detonazione di una massa di esplosivo presente a bordo del velivolo, in ragione della rilevata presenza su alcuni reperti di tracce di T4, e dell'assenza di tracce di TNT. La perizia dell'Aeronautica Militare venne seguita da una controperizia dell'accusa. La seconda repertazione, nel 1987, trovò T4 e TNT su di un frammento dello schienale nº 2 rosso: la perizia chimica Malorni Acampora del 3 febbraio 1987 (disposta dal giudice istruttore nel corso della perizia Blasi: Parte I, Libro I, Capo I, Titolo III, Capitolo IV, pag. 1399 e ss. della sentenza ordinanza del giudice istruttore) rileva la presenza chiara e inequivocabile sia di T4 che di TNT (sempre nel frammento dello schienale nº 2 rosso), miscela la cui presenza è tipica degli ordigni esplosivi. Queste componenti di esplosivi, solitamente presenti nelle miscele di ordigni esplosivi, hanno indebolito l'ipotesi di un cedimento strutturale, come era stato ipotizzato il 28 gennaio 1981 da una commissione nominata dal ministro dei trasporti Formica. L'acclarata presenza di esplosivi indeboliva l'ipotesi di cedimento strutturale, tanto più per cattiva manutenzione. Ciò aprì, in epoche successive, spiragli per richieste di risarcimenti a favore dell'Itavia (cui tuttavia il ministro dei Trasporti Formica aveva revocato la concessione dei servizi aerei di linea per il pesante passivo dei conti aziendali, non per il disastro). Secondo le rivelazioni di due cablogrammi (cable) (03ROME2887 e 03ROME3199) pubblicati sul sito WikiLeaks, l'allora ministro per le relazioni con il parlamento, Carlo Giovanardi, difese in Parlamento la versione della bomba, paragonandola a quella della strage di Lockerbie. Tuttavia, in un'intervista concessa ad AgoraVox Italia, Giovanardi smentì la versione dell'ambasciata statunitense, in cui si legge che lo stesso avrebbe espresso la sua volontà di "mettere a tacere" le ipotesi sulla strage di Ustica. Le parole di Carlo Giovanardi furono poi contestate dalla senatrice Bonfietti, presidente dell'Associazione parenti delle vittime della strage di Ustica.

Il recupero del relitto. Nel 1987 l'allora ministro del Tesoro Giuliano Amato stanziò i fondi per il recupero del relitto del DC-9, che giaceva in fondo al mar Tirreno. La profondità di 3 700 metri alla quale si trovava il relitto rendeva complesse e costose le operazioni di localizzazione e recupero. Pochissime erano le imprese specializzate che disponevano delle attrezzature e dell'esperienza necessarie: la scelta ricadde sulla ditta francese Ifremer (Institut français de recherche pour l'exploitation de la mer, Istituto di ricerca francese per lo sfruttamento del mare), che il giudice Rosario Priore avrebbe poi ritenuto collegata ai servizi segreti francesi. Sulla conduzione dell'operazione di recupero effettuata dai DSRV della Ifremer, che portò in superficie la maggior parte della cellula dell'aeromobile, scaturirono molti dubbi, principalmente sui filmati consegnati in copia e sul fatto che l'ispezione al relitto documentata dalla ditta francese fosse davvero stata la prima. Le difficoltà tecniche, i problemi di finanziamento e le resistenze esercitate da varie delle parti interessate contribuirono a rimandare il recupero per molti anni. Alla fine due distinte campagne di recupero, nel 1987 e nel 1991, consentirono di riportare in superficie circa il 96% del relitto del DC-9; si specifica che è stato recuperato l'85% della superficie bagnata dell'aereo. Il relitto venne ricomposto in un hangar dell'aeroporto di Pratica di Mare, dove rimase a disposizione della magistratura per le indagini fino al 5 giugno 2006, data in cui fu trasferito e sistemato, grazie al contributo dei Vigili del Fuoco di Roma, nel Museo della Memoria, approntato appositamente a Bologna. Molto interesse destò nell'opinione pubblica il rinvenimento il 10 maggio 1992, durante la seconda campagna di recupero al limite orientale della zona di ricerca (zona D), di un serbatoio esterno sganciabile di un aereo militare, schiacciato e frammentato, ma completo di tutti i pezzi; tali serbatoi esterni generalmente vengono sganciati in caso di pericolo o più semplicemente in caso di necessità (come ad esempio in fase di atterraggio) per aumentare la manovrabilità dell'apparecchio. Il serbatoio fu recuperato il 18 maggio e fu sistemato a Pratica di Mare con gli altri reperti. Lungo 3 metri, per una capienza di 300 U.S. gal (1 135 litri) di combustibile, presentava i dati identificativi: Pastushin Industries inc. pressurized 300 gal fuel tank installation diagram plate 225-48008 plate 2662835 che lo indicavano quindi prodotto dalla Pastushin Aviation Company di Huntington Beach, Los Angeles, California (divenuta poi Pavco)[68] negli Stati Uniti oppure all'estero su licenza. Tale tipo di serbatoio era installabile su almeno quattro modelli di aerei: MD F-4 Phantom (in servizio nelle flotte di Stati Uniti, Israele, Germania, Grecia e Regno Unito), Northrop F-5 (in servizio nel 1980 nelle flotte di Arabia Saudita, Austria, Bahrein, Botswana, Brasile, Canada, Cile, Corea del Sud, Etiopia, Filippine, Giordania, Grecia, Honduras, India, Iran, Iran, Kenya, Libia, Malesia, Norvegia, Pakistan, Paesi Bassi, Singapore, Spagna, Sudan, Svizzera, Thailandia, Taiwan, Tunisia, Turchia, Stati Uniti, Venezuela, Vietnam del Sud e Yemen), F-15 Eagle (in servizio nelle flotte di Arabia Saudita, Giappone, Israele e Stati Uniti), Vought A-7 Corsair II (in servizio nelle flotte di Stati Uniti, Grecia, Portogallo e Thailandia). Nessuno degli aerei listati è stato impiegato nelle flotta di Francia, nazione responsabile dell'abbattimento secondo le ipotesi di Francesco Cossiga e Canal+. Gli Stati Uniti, interpellati dagli inquirenti, risposero che dopo tanti anni non era loro possibile risalire a date e matricole per stabilire se e quando il serbatoio fosse stato usato in servizio dall'Aviazione o dalla Marina degli Stati Uniti. Furono interpellate anche le autorità francesi, che risposero di non aver mai acquistato o costruito su licenza serbatoi di quel tipo; fornirono inoltre copie dei libri di bordo di quel periodo delle portaerei della Marine nationale Clemenceau e Foch.

Buona parte degli oblò del DC-9, malgrado l'esplosione, sono rimasti integri; secondo i periti, questo fatto escluderebbe che l'esplosione sia avvenuta a causa di una bomba collocata all'interno dell'aereo.

Nel 1989 la Commissione Stragi, istituita l'anno precedente e presieduta dal senatore Libero Gualtieri, deliberò di inserire tra le proprie competenze anche le indagini relative all'incidente di Ustica, che da quel momento divenne pertanto, a tutti gli effetti, la Strage di Ustica. L'attività istruttoria della Commissione determinò la contestazione di reati a numerosi militari in servizio presso i centri radar di Marsala e Licola. Per undici anni i lavori si susseguirono, interessando i vari governi del tempo e le autorità militari. Come riportato esplicitamente nelle considerazioni preliminari dell'inchiesta del giudice Priore, sin dalle prime fasi gli inquirenti mossero accuse di scarsa collaborazione e trasparenza da parte di, come definito: «soggetti che a vario titolo hanno tentato di inquinare il processo, e sono riusciti nell'intento per anni». Venne coniato il termine muro di gomma, divenuto poi il termine utilizzato per descrivere il comportamento delle istituzioni nei confronti delle ricostruzioni che attribuivano la causa del disastro aereo di Ustica ad un'azione militare. Dopo cinque mesi, infatti, venne presentata una secca ed essenziale ricostruzione da parte dei due esperti Rana e Macidull, che affermavano con certezza che si era di fronte ad un abbattimento causato da un missile. La ricostruzione non venne presa in seria considerazione dal governo presieduto dall'onorevole Francesco Cossiga, che assunse un orientamento diverso e non fu disposto a modificarlo. Il presidente della società Itavia, Aldo Davanzali, per aver condiviso la tesi del missile, fu indiziato del reato di diffusione di notizie atte a turbare l'ordine pubblico, su iniziativa del giudice romano Santacroce a cui era affidata l'inchiesta sul disastro. L'ex ministro Rino Formica, ascoltato dalla Commissione, dichiarò di ritenere verosimile l'ipotesi di un missile, già da lui sostenuta in un'intervista all'Espresso del 1988: a suo dire, a convincerlo tempestivamente che il DC-9 era stato abbattuto da un missile era stato il generale Saverio Rana, presidente del Registro Aeronautico, il quale all'indomani della sciagura, dopo un primo esame dei dati radar, avrebbe detto al ministro dei Trasporti che l'aereo dell'Itavia era stato attaccato da un caccia ed abbattuto con un missile. Per Formica, il generale Rana - nel frattempo morto per tumore - era «un compagno, un amico» nel quale aveva piena fiducia. In seguito all'intervista all'Espresso, interrogato dalla commissione parlamentare sulle stragi, Formica disse di aver parlato dopo l'incidente solo col ministro della Difesa Lelio Lagorio delle informazioni avute da Rana, anche se non era andato oltre, trattandosi non di certezze ma di opinioni ed intuizioni; ma Lagorio, il 6 luglio 1989, davanti alla stessa commissione, nel confermare che Formica gli parlò del missile, commentò: «Mi parve una di quelle improvvise folgorazioni immaginifiche e fantastiche per cui il mio caro amico Formica è famoso». Il 27 maggio 1990 i periti hanno concluso che si tratta di un missile e non di una bomba a bordo. Malgrado ciò, gli esperti dell'aeronautica militare italiana che hanno partecipato alla superperizia, in qualità di consulenti di parte, continuano a sostenere la tesi della bomba.

Anche gli inquirenti denunciarono esplicitamente che il sostanziale fallimento delle indagini fosse dovuto a estesi depistaggi ed inquinamenti delle prove, operati da soggetti ed entità molteplici, come riportano i passi introduttivi del Procedimento Penale Nr. 527/84 A G. I. «Il disastro di Ustica ha scatenato, non solo in Italia, processi di deviazione e comunque di inquinamento delle indagini. Gli interessi dietro l'evento e di contrasto di ogni ricerca sono stati tali e tanti e non solo all'interno del Paese, ma specie presso istituzioni di altri Stati, da ostacolare specialmente attraverso l'occultamento delle prove e il lancio di sempre nuove ipotesi – questo con il chiaro intento di soffocare l'inchiesta – il raggiungimento della comprensione dei fatti [...] Non può perciò che affermarsi che l'opera di inquinamento è risultata così imponente da non lasciar dubbi sull'ovvia sua finalità: impedire l'accertamento della verità. E che, va pure osservato, non può esserci alcun dubbio sull'esistenza di un legame tra coloro che sono a conoscenza delle cause che provocarono la sciagura ed i soggetti che a vario titolo hanno tentato di inquinare il processo, e sono riusciti nell'intento per anni.» (CAPO 3° Gli inquinamenti. Capitolo I Considerazioni preliminari. pag. 3.) Per questa ipotesi investigativa, assieme alle indagini per la ricerca delle cause si sovrapposero le indagini per provare quegli inquinamenti e quei depistaggi.

Tracciati radar. L'aereo DC-9 era sotto il controllo del Centro regionale di controllo del traffico aereo di Ciampino e sotto la sorveglianza dei radar militari di Licola (vicino Napoli) e di Marsala (in Sicilia). Tra le tracce radar oggetto di visione, è stata accertata la presenza di tracciati radar di numerose stazioni, civili e militari, nazionali ed internazionali.

Il registro del radar di Marsala. Animazione a velocità raddoppiata del tracciato radar, registrato dall'impianto di Ciampino, degli ultimi minuti del volo. Il DC-9 è diretto a sud e vi è un vento a circa 200 km/h verso sud-est. Si notino i due echi senza identificazione sulla sinistra: secondo alcuni periti si tratta della traccia di un aereo, secondo altri di falsi plot, errori del radar. La scritta "IH870" scompare con l'ultima risposta del transponder. Altri contatti su cui si sono concentrate le indagini sono i plot doppi dopo il disastro, sospettati di essere tracce di altri aerei in volo. Tali plot potrebbero anche essere stati determinati, si è ipotizzato, dalla struttura principale dell'aereo in caduta e da fenomeni di chaffing causati da frammenti, anche se restano i dubbi per i plot ad ovest del punto di caduta in quanto sopravvento e quindi difficilmente attribuibili a rottami che cadono nel letto del forte vento di maestrale (che proviene appunto da Nord-Ovest e spinge verso Sud-Est). Durante le indagini si appurò che il registro dell'IC, cioè del guida caccia Muti del sito radar di Marsala, aveva una pagina strappata nel giorno della perdita del DC-9. Il pubblico ministero giunse quindi alla conclusione che fosse stata sottratta la pagina originale del 27 giugno e se ne fosse riscritta poi, nel foglio successivo, una diversa versione. Durante il processo, la difesa contestò questa conclusione e affermò che la pagina mancante non sarebbe stata riferita al giorno della tragedia, ma alla notte tra il 25 e il 26 giugno. L'analisi diretta della Corte concluse che la pagina tra il 25 e il 26 era stata tagliata, come osservato dalla difesa, ma quella che riguarda la sera del 27 giugno era recisa in modo estremamente accurato, così che fosse difficile accorgersene (il particolare era infatti stato omesso all'avvocato difensore). La numerazione delle pagine non aveva invece interruzioni ed era quindi posteriore al taglio. Interrogato a questo proposito, il sergente Muti, l'IC in servizio quella sera a Marsala non fornì alcuna spiegazione («Non so cosa dirle»). La difesa riconobbe in seguito che la pagina del registro dell'IC, cioè del guida caccia Muti in servizio il 27 giugno, era stata effettivamente rimossa dal registro.

Il registro del radar di Licola. Il centro radar di Licola è il più vicino al punto del disastro. All'epoca era di tipo fonetico-manuale: nella sala operativa del sito, le coordinate delle tracce venivano comunicate a voce dagli operatori seduti alle console radar ad altri operatori, che le disegnavano stando in piedi dietro un pannello trasparente. Parallelamente tali dati venivano scritti da altri incaricati sul modello "DA 1". Il "DA 1" del 27 giugno 1980 non fu mai ritrovato.

Aeroporto di Grosseto e centro radar di Poggio Ballone. Il giudice istruttore e la Commissione stragi sono in possesso dei tracciati del radar di Grosseto: nelle registrazioni del radar dell'aeroporto di Grosseto si vedono due aerei in volo in direzione nord, sulla rotta del DC-9 Itavia. Mentre due altre tracce di velivoli, provenienti dalla Corsica, giungono sul posto alcuni minuti dopo l'orario stimato di caduta del DC-9 stesso. I nastri con le registrazioni radar del centro della Difesa aerea di Poggio Ballone sarebbero invece spariti: ne rimangono soltanto alcune trasposizioni su carta di poche tracce.

Aeroporto di Ciampino. Il radar di Ciampino quella sera registrò delle tracce che, secondo i periti interpellati dall'associazione dei parenti delle vittime, potevano essere identificate come una manovra d'attacco aereo condotta nei pressi della rotta del DC-9.

Aeroporto di Fiumicino. Il radar dell'Aeroporto di Roma-Fiumicino registrò il volo del DC-9 Itavia del 27 giugno 1980 nel lasso di tempo intercorso tra le ore 20:58 e le 21:02.

AWACS. In quelle ore, un aereo radar AWACS, un quadrireattore Boeing E-3A Sentry, dell'USAF, uno degli unici due presenti in Europa nel 1980, basati a Ramstein (Germania) dall'ottobre del 1979, risulta orbitante con rotta circolare nell'area a nord di Grosseto. Dotato dell'avanzatissimo radar 3D Westinghouse AN/APY-1 con capacità "Look down", in grado di distinguere i velivoli dagli echi del terreno, era in condizione di monitorare tutto il traffico, anche di bassa quota, per un raggio di 500 km.

Portaerei Saratoga. L'ammiraglio James Flatley al comando della portaerei USS Saratoga della US Navy, ancorata il 27 giugno 1980 nel golfo di Napoli, dopo aver inizialmente dichiarato che «dalla Saratoga non fu possibile vedere nulla perché tutti i radar erano in manutenzione», successivamente cambiò versione: disse che nonostante fossero in corso lavori di manutenzione dei radar, uno di essi era comunque in funzione ed aveva registrato «un traffico aereo molto sostenuto nell'area di Napoli, soprattutto in quella meridionale». A detta dell'ammiraglio, si videro passare «moltissimi aerei». I registri radar della Saratoga sono andati persi. Secondo altre fonti, la Saratoga non si trovava affatto in rada a Napoli il 27 giugno 1980.

Civilavia e Centro bolognese. Le stazioni radar di Civilavia e di Centro bolognese si occupavano di registrare tutti i voli nazionali ed internazionali civili, commerciali e militari, per poi procedere alla stampa e alla fatturazione dei costi di ogni passaggio aereo a ciascuna compagnia, società o autorità competente. I nastri con le registrazioni dei voli, decrittati e stampati, furono acquisiti dal giudice istruttore.

Radar russo. Nell'aprile del 1993 il generale Yuri Salimov, in forza ai servizi segreti russi, affermò di aver seguito i fatti di Ustica attraverso un radar russo basato in Libia che, con l'ausilio di un satellite, era in grado di monitorare il mar Tirreno meridionale.

Il traffico aereo. Diversi elementi portarono gli inquirenti ad indagare sull'eventuale presenza di altri aerei coinvolti nel disastro. Si determinarono con certezza alcuni punti:

In generale la zona sud del Tirreno era utilizzata per esercitazioni NATO.

Furono inoltre accertate in quel periodo penetrazioni dello spazio aereo italiano da parte di aerei militari libici. Tali azioni erano dovute alla necessità da parte dell'Aeronautica Militare Libica di trasferire i vari aerei da combattimento da e per la Jugoslavia, nelle cui basi veniva assicurata la manutenzione ai diversi MiG e Sukhoi di fabbricazione sovietica, presenti in gran quantità nell'aviazione del colonnello Gheddafi.

Il governo italiano, fortemente debitore verso il governo libico dal punto di vista economico (non si dimentichi che dal 1º dicembre 1976 addirittura la FIAT era parzialmente in mani libiche, con una quota azionaria del 13% detenuta dalla finanziaria libica LAFICO, tollerava tali attraversamenti e li mascherava con piani di volo autorizzati per non impensierire gli USA. Spesso gli aerei libici si mimetizzavano nella rete radar, disponendosi in coda al traffico aereo civile italiano, riuscendo così a non allertare le difese NATO.

Diverse testimonianze, inoltre, avevano descritto l'area come soggetta a improvvisa comparsa di traffico militare statunitense. Un traffico di tale intensità da far preoccupare piloti, civili e controllori: poche settimane prima della tragedia di Ustica, un volo Roma-Cagliari aveva deciso per sicurezza di tornare all'aeroporto di partenza; in altre occasioni i controllori di volo avevano contattato l'addetto aeronautico dell'ambasciata USA per segnalare la presenza di aerei pericolosamente vicini alle rotte civili. Più specificamente, durante la giornata del 27 giugno 1980 era segnata nei registri, dalle 10:30 alle 15:00, l'esercitazione aerea USA "Patricia", ed era poi in corso un'esercitazione italiana h. 24 (cioè della durata di ventiquattro ore) a Capo Teulada, segnalata nei NOTAM.

Durante quella sera, tra le ore 20:00 e le 24:00 locali, erano testimoniati diversi voli nell'area da parte di aerei militari non appartenenti all'aeronautica militare italiana: un quadrireattore E-3A Sentry (aereo AWACS o aereo radar), che volava da oltre due ore a 50 km da Grosseto in direzione nord ovest, un CT-39G Sabreliner, un jet executive militare e vari Lockheed P-3 Orion (pattugliatori marini) partiti dalla base di Sigonella, un Lockheed C-141 Starlifter (quadrireattore da trasporto strategico) in transito lungo la costa tirrenica, diretto a sud.

Inoltre, sembra che in quei giorni (ed anche quella sera) alcuni cacciabombardieri F-111 dell'USAF basati a Lakenheath (Suffolk, Gran Bretagna), si stessero trasferendo verso l'Egitto all'aeroporto di Cairo West, lungo una rotta che attraversava la penisola italiana in prossimità della costa tirrenica, con l'appoggio di aerei da trasporto strategico C-141 Starlifter. Gli aerei facevano parte di un ponte aereo in atto da diversi giorni, che aveva lo scopo di stringere una cooperazione con l'Egitto e ridurre la Libia, con la quale vigeva uno stato di crisi aperta sin dal 1973, a più miti consigli.

Intensa e insolita attività di volo fino a tarda sera era testimoniata anche dal generale dei Carabinieri Nicolò Bozzo presso la base aerea di Solenzara, in Corsica, che ospitava vari stormi dell'Armée de l'air francesi: ciò smentiva i vertici militari francesi, i quali avevano affermato ai magistrati italiani di non aver svolto con la loro aeronautica militare alcuna attività di volo nel pomeriggio del 27 giugno 1980.

La sera della strage di Ustica, quattro aerei volavano con lo stesso codice di transponder. Il DC-9 Itavia aveva come codice il n. 1136 e altri tre velivoli, di cui uno sicuramente militare, erano dotati dello stesso numero di riconoscimento.

Dalla perizia tecnico-radaristica risulta che trenta aerei supersonici militari, difensori e attaccanti, sorvolarono la zona di Ustica nel pomeriggio e alla sera del 27 giugno 1980, dalle 17:30 alle 21:15, per 3 ore e 45 minuti. Gli aerei militari avevano tutti il transponder spento per evitare di essere identificati dai radar. Un'esercitazione d'aviazione di marina, come ha detto l'ammiraglio James H. Flatley, nella sua prima versione e che conferma la presenza di una portaerei che raccolse i propri aerei.

Intensa attività militare. Successivamente, all'inizio dell'agosto 1980, oltre a vari relitti furono ritrovati in mare anche due salvagenti e un casco di volo della marina americana; a settembre, presso Messina, si rinvennero frammenti di aerei bersaglio italiani, che sembrano però risalenti a esercitazioni terminate nel gennaio dello stesso anno. Questi dati evidenziano che nell'area tirrenica, in quel periodo del 1980, si svolgeva un'intensa attività militare. Inoltre, benché molti di questi fatti, se presi singolarmente, appaiano in relazione diretta con la caduta del DC-9, si è notata da alcuni la coincidenza temporale dell'allarme degli F-104 italiani su Firenze, al momento del passaggio del DC-9, dell'esistenza di tracce radar non programmate che transitano ad oltre 600 nodi in prossimità dell'aereo civile, della pluritestimonianza dell'inseguimento tra aerei da caccia sulla costa calabra e, infine, delle attività di ricerca, in una zona a 20 miglia ad est del punto di caduta, effettuate da velivoli non appartenenti al Soccorso aereo Italiano.

Due aerei militari italiani danno l'allarme. Due F-104 del 4º Stormo dell'aeronautica militare italiana, di ritorno da una missione di addestramento sull'aeroporto di Verona-Villafranca, mentre effettuavano l'avvicinamento alla base aerea di Grosseto si trovarono in prossimità del DC-9 Itavia. Uno era un F-104 monoposto, con un allievo ai comandi; l'altro, un TF 104 Gbiposto, ospitava due istruttori, i comandanti Mario Naldini e Ivo Nutarelli. Alle ore 20:24, all'altezza di Firenze-Peretola, il biposto con a bordo Naldini e Nutarelli, mentre era ancora in prossimità dell'aereo civile, emise un segnale di allarme generale alla Difesa Aerea (codice 73, che significa emergenza generale e non emergenza velivolo) e nella registrazione radar di Poggio Ballone «il SOS-SIF è [...] settato a 2, ovvero emergenza confermata, ed il blink è settato ad 1, ovvero accensione della spia di Alert sulle consolles degli operatori» – in linguaggio corrente: «il segnale di allarme-SIF (Selective Identification Feature, caratteristica di identificazione selezionabile) è posizionato su 2, ossia emergenza confermata, ed il lampeggìo è posizionato su 1, ossia accensione della spia di allarme sulla strumentazione degli operatori» – quindi risulta che Naldini e Nutarelli segnalarono un problema di sicurezza aerea e i controllori ottennero conferma della situazione di pericolo. I significati di tali codici, smentiti o sminuiti di importanza da esperti dell'aeronautica militare italiana ascoltati in qualità di testi, furono invece confermati in sede della Commissione ad hoc della NATO, da esperti dell'NPC (NATO Programming Centre), i quali difatti hanno affermato nel loro rapporto del 10 marzo 1997: « Varie volte è stato dichiarato lo stato di emergenza confermata relativa alla traccia LL464/LG403 sulla base del codice SIF1 73, che all'epoca del disastro veniva usato come indicazione di emergenza. La traccia ha attraversato la traiettoria del volo del DC-9 alle 18:26, ed è stata registrata per l'ultima volta nei pressi della base aerea di Grosseto alle 18:39». L'aereo ripeté per ben tre volte la procedura di allerta, a conferma inequivocabile dell'emergenza. Né l'aeronautica militare italiana né la NATO hanno mai chiarito le ragioni di quell'allarme.

Il MiG-23 precipitato in Calabria. Il 18 luglio 1980 la carcassa di un MiG-23MS dell'Aeronautica militare libica venne ritrovato sui monti della Sila in zona Timpa delle Magare, nell'attuale comune di Castelsilano, crotonese (allora in provincia di Catanzaro), in Calabria, dalla popolazione locale. Il Giudice Istruttore ipotizzò una correlazione del fatto con la caduta del DC-9 Itavia, in quanto furono depositate agli atti delle testimonianze di diversi militari in servizio in quel periodo, tra le quali quelle del caporale Filippo Di Benedetto e dei suoi commilitoni del battaglione "Sila", del 67º battaglione Bersaglieri "Persano" e del 244º battaglione fanteria "Cosenza", che affermavano di aver effettuato servizi di sorveglianza al MiG-23 non a luglio, bensì a fine giugno 1980, il periodo cioè della caduta del DC-9 Itavia. Si teorizzò quindi che il caccia libico non fosse caduto il giorno in cui fu dichiarato il ritrovamento dalle forze dell'ordine (cioè 18 luglio), ma molto prima, probabilmente la stessa sera della strage, e che quindi il velivolo fosse stato coinvolto, attivamente o passivamente, nelle circostanze che condussero alla caduta dell'aereo Itavia. I sottufficiali Nicola De Giosa e Giulio Linguanti dissero altresì che la fusoliera del MiG era sforacchiata «come se fosse stata mitragliata» da «sette od otto fori da 20 mm» simili a quelli causati da un cannoncino. La perizia eseguita nel corso dell'istruttoria del giudice Vittorio Bucarelli fece bensì emergere elementi che vennero interpretati come coerenti con la tesi che l'aereo fosse precipitato proprio il 18 luglio: dalle testimonianze dei Vigili del Fuoco e dai Carabinieri accorsi sul luogo dello schianto e dal primo esame del medico legale si evinse che il pilota era morto da poco; il paracadute nel quale era parzialmente avvolto era sporco di sangue e il cadavere (non ancora in rigor mortis) riportava ferite in cui era visibile del sangue che iniziava a coagularsi. In aggiunta fu riportato che dai rottami del MiG usciva il fumo di un principio di incendio (subito domato dai Vigili del Fuoco). Per contro tali affermazioni vennero confutate dal professor Zurlo, che in una lettera scritta con il dottor Rondanelli e inviata nel 1981 alla sede dell'Itavia affermò che il cadavere pilota del MiG era in avanzato stato di decomposizione, tale da suggerire una morte avvenuta almeno 20 giorni prima del 23 luglio. A gennaio 2016 un’inchiesta del canale televisivo francese Canal+ addebitò la responsabilità dell'abbattimento dell'aereo Itavia ad alcuni caccia francesi impegnati in un'operazione militare sul mar Tirreno: secondo la ricostruzione proposta, un velivolo estraneo si sarebbe nascosto ai radar volando sotto il DC-9, non riuscendo però ad evitare l'intercettazione da parte dei suddetti caccia francesi, che nel tentativo di attaccarlo avrebbero inizialmente colpito per errore l'I-TIGI. Il velivolo nascosto sarebbe poi comunque stato colpito e infine sarebbe precipitato in Calabria, venendo quindi identificato col MiG caduto a Timpa delle Magare. Le ipotesi del documentario vennero però presto confutate dai documenti di anni di indagini e perizie, come dalla sentenza-ordinanza del giudice Priore. Tra le testimonianze che datano la caduta del MiG al giorno stesso della strage di Ustica, il 27 giugno, si annovera quella dell'ex caporale Filippo Di Benedetto e alcuni suoi ex commilitoni; la tesi è sostenuta dal maresciallo Giulio Linguanti e dal giudice istruttore Rosario Priore, che a sua volta trovò una serie di testimoni che riferirono di aver visto il 27 giugno 1980 due caccia che ne inseguivano un terzo, sparando con il cannoncino, lungo una rotta che da Ustica andava su Lamezia e fino a Castelsilano.

La tesi della bomba. Il giorno dopo il disastro, alle 12:10, una telefonata al Corriere della Sera annunciò a nome dei Nuclei Armati Rivoluzionari, un gruppo terrorista neofascista, che l'aereo era stato fatto esplodere con una bomba da loro posta nella toilette, da uno dei passeggeri: tal Marco Affatigato (imbarcato sotto falso nome), membro dei NAR che - invece - era in quei mesi al servizio dell'intelligence francese e che, nel settembre dello stesso anno, rientrato in Italia, venne recluso nel carcere di Ferrara. Affatigato, però, sconfessò rapidamente la telefonata: per rassicurare la madre chiese alle Digos di Palermo e di Lucca di smentire la notizia della sua presenza a bordo dell'aereo precipitato. Circa un mese dopo ci fu la strage di Bologna. In entrambi i casi, Bologna era la città in cui avrebbero colpito i NAR ma per tutti e due i casi Giuseppe Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, ai vertici del gruppo terrorista, smentirono un coinvolgimento dell'organizzazione negli eventi, come la smentì il colonnello Amos Spiazzi dopo aver conosciuto in carcere Marco Affatigato. Vi è quindi chi ipotizza un depistaggio nel depistaggio, ovvero che la strage di Bologna sia servita ad avvalorare la tesi della bomba dei NAR collocata all'interno dell'aereo.

La tesi della bomba avrebbe diviso anche i periti incaricati dal giudice Vittorio Bucarelli di analizzare i resti ripescati dal fondale marino: un primo momento li vide concordi all'unisono circa il missile; successivamente, due dei cinque tecnici avrebbero cambiato versione propendendo per la bomba. La bomba sarebbe stata collocata durante la sosta nell'aeroporto di Bologna, nella toilette posteriore dell'aereo. La perizia sulle suppellettili del gabinetto ritrovate ha confermato che erano intatte la tavoletta del water e il lavandino: inoltre secondo gli specialisti britannici del Dra di Halstead, nessuno dei pezzi della toilette, water e lavandino è scheggiato da residui di esplosivo. Inoltre il giudice osservò come fosse possibile collocare una bomba su un aereo partito con due ore di ritardo, avendo la certezza che sarebbe esplosa in volo, invece che a terra.

I dialoghi registrati.

Alle 20:58 di quella sera, nella registrazione di un dialogo tra due operatori radar a Marsala, seduti di fronte allo schermo radar, si sentì uno dei due esclamare: «[...] Sta' a vedere che quello mette la freccia e sorpassa!» e poco dopo anche «Quello ha fatto un salto da canguro!»

Alle 22:04 a Grosseto gli operatori radar non si accorsero che il contatto radio con Ciampino era rimasto aperto e che le loro voci venivano registrate. Nella registrazione si sente: «[...] Qui, poi... il governo, quando sono americani...»

e quindi: «Tu, poi... che cascasse...» e la risposta: «È esploso in volo!»

Alle 22:05, a Ciampino, gli operatori, parlando del radar di Siracusa, dissero: «[...] Stavano razzolando degli aerei americani... Io stavo pure ipotizzando una collisione in volo.» ed anche: «Sì, o...di un'esplosione in volo!»

I nastri telefonici e le testimonianze in aula. «Allora io chiamo l'ambasciata, chiedo dell'attaché... eh, senti, guarda: una delle cose più probabili è la collisione in volo con uno dei loro aerei, secondo me, quindi...» (27 giugno 1980, ore 22:39 locali. Dalla telefonata tra Ciampino e l'ambasciata USA). Nel 1991 gli inquirenti entrarono in possesso solo di una piccola parte dei nastri delle comunicazioni telefoniche fatte quella notte e la mattina seguente. La maggior parte di tali nastri è andata perduta, in quanto erano stati riutilizzati sovraincidendo le registrazioni. Dall'analisi dei dialoghi emerse che la prima ipotesi fatta dagli ufficiali dell'aeronautica militare italiana era stata la collisione e che in tal senso avevano intrapreso azioni di ricerca di informazioni, sia presso vari siti dell'aeronautica sia presso l'ambasciata USA a Roma. Più volte si parlava di aerei americani che "razzolano", di esercitazioni, di collisione ed esplosione, di come ottenere notizie certe al riguardo. Tutto il personale che partecipava alle telefonate venne identificato tramite riconoscimenti e incrocio di informazioni. Solo dopo il rinvenimento di quei nastri, si ammise per la prima volta di aver contattato l'ambasciata USA o di aver parlato di "traffico americano"; prima era sempre stato negato. Le spiegazioni fornite dagli interessati durante deposizioni e interrogatori contrastano comunque con il contenuto delle registrazioni o con precedenti deposizioni.

Udienza del 21 febbraio 2001: PM - «Furono fatte delle ipotesi sulla perdita del DC-9 in relazione alle quali era necessario contattare l'ambasciata americana?» Chiarotti - «Assolutamente no, per quello che mi riguardi [...] La telefonata fu fatta per chiedere se avessero qualche notizia di qualsiasi genere che interessasse il volo dell'Itavia, [...]».

Udienza del 7 febbraio 2001: capitano Grasselli - «Normalmente chiamavamo l'ambasciata americana per conoscere che fine avevano fatto dei loro aerei di cui perdevamo il contatto. Non penso però che quella sera la telefonata all'ambasciata americana fu fatta per sapere se si erano persi un aereo. Ho ritenuto la telefonata un'iniziativa goliardica in quanto tra i compiti del supervisore non c'è quello di chiamare l'ambasciata [...]».

Deposizione del 31 gennaio 1992 del colonnello Guidi: - «Ho un ricordo labilissimo anzi inesistente di quella serata. Nessuno in sala operativa parlava di traffico americano, che io ricordi. [...] pensando che l'aeromobile avesse tentato un ammaraggio di fortuna, cercavamo l'aiuto degli americani per ricercare e salvare i superstiti». Una volta fatta ascoltare in aula la telefonata all'ambasciata, Guidi affermò di non riconoscere la propria voce nella registrazione e ribadì che non ricordava la telefonata. Nel 1991 affermava: «Quella sera non si fece l'ipotesi della collisione» e ancora «Non mi risulta che qualcuno mi abbia parlato d'intenso traffico militare [...]. Se fossi stato informato di una circostanza come quella dell'intenso traffico militare, avrei dovuto informare nella linea operativa l'ITAV, nella persona del capo del II Reparto, ovvero: Fiorito De Falco». Nel nastro di una telefonata delle 22:23 Guidi informò espressamente il suo diretto superiore, colonnello Fiorito De Falco, sia del traffico americano, sia di un'ipotesi di collisione, sia del contatto che si cercava di stabilire con le forze USA. Ma nella deposizione dell'ottobre 1991, anche il generale Fiorito De Falco affermava: «[...] Guidi non mi riferì di un intenso traffico militare».

Le morti sospette secondo l'inchiesta Priore. «La maggior parte dei decessi che molti hanno definito sospetti, di sospetto non hanno alcunché. Nei casi che restano si dovrà approfondire [...] giacché appare sufficientemente certo che coloro che sono morti erano a conoscenza di qualcosa che non è stato mai ufficialmente rivelato e da questo peso sono rimasti schiacciati.» (Ordinanza-sentenza Priore, capo 4, pag. 4674).

Per due dei 12 casi di decessi sospetti permangono indizi di relazione al caso Ustica:

maresciallo Mario Alberto Dettori: trovato impiccato il 31 marzo 1987, in un modo definito dalla Polizia Scientifica innaturale, presso Grosseto. Mesi prima, preoccupato, aveva rovistato tutta la casa alla ricerca di presunte microspie. Vi sono indizi che fosse in servizio la sera del disastro presso il radar di Poggio Ballone (GR) e che avesse in seguito sofferto di «manie di persecuzione» relativamente a tali eventi. Confidò alla moglie: «Sono molto scosso... Qui è successo un casino... Qui vanno tutti in galera!». Dettori confidò con tono concitato alla cognata che «eravamo stati a un passo dalla guerra». Tre giorni dopo telefonò al capitano Mario Ciancarella e disse: «Siamo stati noi a tirarlo giù, capitano, siamo stati noi [...]. Ho paura, capitano, non posso dirle altro al telefono. Qui ci fanno la pelle». Il giudice Priore conclude: «Sui singoli fatti come sulla loro concatenazione non si raggiunge però il grado della prova».

maresciallo Franco Parisi: trovato impiccato il 21 dicembre 1995, era di turno la mattina del 18 luglio 1980, data del ritrovamento del MiG libico sulla Sila. Proprio riguardo alla vicenda del MiG erano emerse durante il suo primo esame testimoniale palesi contraddizioni; citato a ricomparire in tribunale, muore pochi giorni dopo aver ricevuto la convocazione. Non si riesce a stabilire se si tratti di omicidio.

Gli altri casi presi in esame dall'inchiesta, sono:

colonnello Pierangelo Tedoldi: incidente stradale il 3 agosto 1980; avrebbe in seguito assunto il comando dell'aeroporto di Grosseto.

capitano Maurizio Gari: infarto, 9 maggio 1981; capo controllore di sala operativa della Difesa Aerea presso il 21º CRAM (Centro Radar Aeronautica Militare Italiana) di Poggio Ballone, era in servizio la sera della strage. Dalle registrazioni telefoniche si evince un particolare interessamento del capitano per la questione del DC-9 e la sua testimonianza sarebbe stata certo «di grande utilità all'inchiesta», visto il ruolo ricoperto dalla sala sotto il suo comando, nella quale, peraltro, era molto probabilmente in servizio il maresciallo Dettori. La morte appare naturale, nonostante la giovane età.

Giovanni Battista Finetti, sindaco di Grosseto: incidente stradale; 23 gennaio 1983. Era opinione corrente che avesse informazioni su fatti avvenuti la sera dell'incidente del DC-9 all'aeroporto di Grosseto. L'incidente in cui perde la vita, peraltro, appare casuale.

maresciallo Ugo Zammarelli: incidente stradale; 12 agosto 1988. Era stato in servizio presso il SIOS di Cagliari, tuttavia non si sa se fosse a conoscenza d'informazioni riguardanti la strage di Ustica, o la caduta del MiG libico.

colonnelli Mario Naldini e Ivo Nutarelli: incidente di Ramstein, 28 agosto 1988. In servizio presso l'aeroporto di Grosseto all'epoca dei fatti, la sera del 27 giugno, come già accennato, erano in volo su uno degli F-104 e lanciarono l'allarme di emergenza generale. La loro testimonianza sarebbe stata utile anche in relazione agli interrogatori del loro allievo, in volo quella sera sull'altro F-104, durante i quali, secondo l'istruttoria, è «apparso sempre terrorizzato». Sempre secondo l'istruttoria, appare sproporzionato - tuttavia non inverosimile - organizzare un simile incidente, con esito incerto, per eliminare quei due importanti testimoni.

maresciallo Antonio Muzio: omicidio, 1º febbraio 1991; in servizio alla torre di controllo dell'aeroporto di Lamezia Terme nel 1980, poteva forse essere venuto a conoscenza di notizie riguardanti il MiG libico, ma non ci sono certezze.

tenente colonnello Sandro Marcucci: incidente aereo; 2 febbraio 1992. Marcucci era un ex pilota dell'Aeronautica militare coinvolto come testimone nell'inchiesta per la strage di Ustica. L'incidente fu archiviato motivando l'errore del pilota. Tuttavia, nel 2013 il pm di Massa Carrara, Vito Bertoni, riaprì l'inchiesta contro ignoti per l'accusa di omicidio. L'associazione antimafia “Rita Atria” denunciò che l'incidente non fu causato da una condotta di volo azzardata, come sostennero i tecnici della commissione di inchiesta, ma probabilmente da una bomba al fosforo piazzata nel cruscotto dell'aereo.

maresciallo Antonio Pagliara: incidente stradale; 2 febbraio 1992. In servizio come controllore della Difesa Aerea presso il 32º CRAM di Otranto, dove avrebbe potuto avere informazioni sull'abbattimento del MiG. Le indagini propendono per la casualità dell'incidente.

generale Roberto Boemio: omicidio; 12 gennaio 1993 a Bruxelles. Da sue precedenti dichiarazioni durante l'inchiesta, appare chiaro che «la sua testimonianza sarebbe stata di grande utilità», sia per determinare gli eventi inerenti al DC-9, sia per quelli del MiG libico. La magistratura belga non ha risolto il caso.

maggiore medico Gian Paolo Totaro: trovato impiccato alla porta del bagno, il 2 novembre 1994. Gian Paolo Totaro era in contatto con molti militari collegati agli eventi di Ustica, tra i quali Nutarelli e Naldini.

Il rinvio a giudizio. Alla luce di queste anomalie inspiegate e delle risposte, da parte del personale dei due siti radar di Marsala e Licola, ritenute insoddisfacenti, il 28 giugno 1989il giudice Bucarelli accolse la richiesta del procuratore Santacroce e rinviò a giudizio per falsa testimonianza aggravata e concorso in favoreggiamento personale aggravato, ventitré tra ufficiali e avieri in servizio il giorno del disastro. L'ipotesi accusatoria fu che i militari, con una vasta operazione di occultamento delle prove e di depistaggio, avrebbero tentato di nascondere una battaglia tra aerei militari, nel corso della quale il DC-9 sarebbe precipitato.

Telefonata anonima a Telefono Giallo. Nel 1988, l'anno prima, durante la trasmissione Telefono giallo di Corrado Augias, con una telefonata anonima qualcuno aveva dichiarato di essere stato «un aviere in servizio a Marsala la sera dell'evento della sciagura del DC-9». L'anonimo aveva riferito che i presenti come lui, avrebbero esaminato le tracce, i dieci minuti di trasmissione di cui parlavano nella puntata, dichiarando: «noi li abbiamo visti perfettamente. Soltanto che il giorno dopo, il maresciallo responsabile del servizio ci disse praticamente di farci gli affari nostri e di non avere più seguito in quella vicenda. [...] la verità è questa: ci fu ordinato di starci zitti».

Scontro aereo tra caccia. In un articolo dal titolo Battaglia aerea poi la tragedia, pubblicato dal quotidiano L'Ora il 12 febbraio 1992, il giornalista Nino Tilotta affermò che l'autore della telefonata sarebbe stato in effetti in servizio allo SHAPE di Mons, in Belgio, e che avrebbe detto in trasmissione di essere a Marsala per non farsi riconoscere. Avrebbe rivelato la sua identità rilasciando l'intervista anni dopo essere andato in pensione in quanto, come aveva affermato, non si sentiva più vincolato dall'obbligo di mantenere il segreto militare. L'articolo parlava di uno scontro aereo avvenuto tra due caccia F-14 Tomcat della US Navy ed un MiG-23 libico. Secondo questa versione, il SISMI all'epoca comandato dal generale Giuseppe Santovito avrebbe avvertito gli aviatori libici di un progetto di attaccare sul mar Tirreno l'aereo nel quale Gheddafi andava in Unione Sovietica. Sembra che i progettisti di questa azione di guerra siano da ricercare tra quelli indicati dall'ammiraglio Martini, e cioè tra francesi e americani. In seguito alla spiata del SISMI, l'aereo che trasportava Gheddafi, arrivato su Malta, tornò indietro, mentre altri aerei libici proseguivano la rotta.

Testimonianze americane. Ventiquattr'ore dopo il disastro del DC-9, l'addetto militare aeronautico americano Joe Bianckino, dell'ambasciata americana a Roma, organizzò una squadra di esperti, formata da William McBride, Dick Coe, William McDonald, dal direttore della CIA a Roma, Duane Clarridge, dal colonnello Zeno Tascio, responsabile del SIOS (servizio segreto aeronautica militare italiana) insieme a due ufficiali italiani. Il giorno successivo alla strage Joe Bianckino era già in possesso dei tabulati radar e i suoi esperti li avevano sottoposti ad analisi. John Tresue, esperto missilistico del Pentagono, affermò, durante il suo interrogatorio come testimone, che gli furono consegnate dopo la sciagura, diverse cartelle con i tabulati dei radar militari; John Tresue informò il Pentagono, che ad abbattere il DC-9 era stato un missile. Il 25 novembre 1980, John Macidull, un esperto americano del National Transportation Safety Board, analizzò il tracciato radar dell'aeroporto di Fiumicino e si convinse che, al momento del disastro, accanto al DC-9 volava un altro aereo. Macidull disse che il DC-9 era stato colpito da un missile lanciato dal velivolo che era stato rilevato nelle vicinanze, velivolo non identificato in quanto aveva volontariamente spento il dispositivo di riconoscimento (transponder). Tale aereo, secondo Macidull, attraversava la zona dell'incidente da Ovest verso Est ad alta velocità, tra 300 e 550 nodi, nello stesso momento in cui si verificava l'incidente al DC-9, ma senza entrare in collisione.

Testimonianze libiche. Nel 1989 l'agenzia di stampa libica Jana preannunciò la costituzione di un comitato supremo d'inchiesta sulla strage di Ustica: «Tale decisione è stata presa dopo che si è intuito che si è trattato di un brutale crimine commesso dagli USA, che hanno lanciato un missile contro l'aereo civile italiano, scambiato per un aereo libico a bordo del quale viaggiava il leader della rivoluzione.

La firma falsa del presidente della Repubblica. Mario Ciancarella, ex capitano che indagava sull'incidente aereo, venne cacciato dall’Aeronautica con decreto del Quirinale nel 1983. Tuttavia il decreto non era stato firmato veramente dal presidente della Repubblica Sandro Pertini, ma da un soggetto esterno che ha falsificato la sua firma. In seguito a questa scoperta, è stato richiesto il reintegro del capitano Mario Ciancarella al ministro della difesa Roberta Pinotti.

Il processo della strage di Ustica. Il processo sulle cause e sugli autori della strage in realtà non si è mai tenuto in quanto l'istruttoria relativa definì "ignoti gli autori della strage" e concluse con un non luogo a procedere nel 1999. (ref. "L'istruttoria Priore") Il reato di strage non cade comunque in prescrizione per cui, se dovessero emergere nuovi elementi relativi, un eventuale processo potrebbe essere ancora condotto. Il processo complementare sui fatti di Ustica, per la parte riguardante i reati di depistaggio, imputati a carico di alti ufficiali dell'aeronautica militare italiana, è stato invece definitivamente concluso in Cassazione nel gennaio del 2007, con una sentenza che ha negato si siano verificati depistaggi.

L'istruttoria Priore. Le indagini si conclusero il 31 agosto 1999, con l'ordinanza di rinvio a giudizio-sentenza istruttoria di proscioglimento, rispettivamente, nei procedimenti penali nº 527/84 e nº 266/90, un documento di dimensioni notevoli che, dopo anni di indagini, la quasi totale ricostruzione del relitto, notevole impiego di fondi, uomini e mezzi, escluse le ipotesi di una bomba a bordo e di un cedimento strutturale, circoscrivendo di conseguenza le cause della sciagura ad un evento esterno al DC-9. Non si giunse però a determinare un quadro certo ed univoco di tale evento esterno. Mancano tuttora, del resto, elementi per individuare i responsabili. «L'inchiesta», si legge nel documento, «è stata ostacolata da reticenze e false testimonianze, sia nell'ambito dell'aeronautica militare italiana che della NATO, le quali hanno avuto l'effetto di inquinare o nascondere informazioni su quanto accaduto». L'ordinanza-sentenza concludeva: «L'incidente al DC-9 è occorso a seguito di azione militare di intercettamento, il DC-9 è stato abbattuto, è stata spezzata la vita a 81 cittadini innocenti con un'azione, che è stata propriamente atto di guerra, guerra di fatto e non dichiarata, operazione di polizia internazionale coperta contro il nostro Paese, di cui sono stati violati i confini e i diritti.»

Il processo in Corte di Assise sui presunti depistaggi. Il 28 settembre 2000, nell'aula-bunker di Rebibbia appositamente attrezzata, iniziò il processo sui presunti depistaggi, davanti alla terza sezione della Corte di Assise di Roma. Dopo 272 udienze e dopo aver ascoltato migliaia tra testimoni, consulenti e periti, il 30 aprile 2004, la corte assolse dall'imputazione di alto tradimento - per aver gli imputati turbato (e non impedito) le funzioni di governo - i generali Corrado Melillo e Zeno Tascio "per non aver commesso il fatto". I generali Lamberto Bartolucci e Franco Ferri furono invece ritenuti colpevoli ma, essendo ormai passati più di 15 anni, il reato era già caduto in prescrizione. Anche per molte imputazioni relative ad altri militari dell'Aeronautica Militare Italiana (falsa testimonianza, favoreggiamento, e così via) fu accertata l'intervenuta prescrizione. Il reato di abuso d'ufficio, invece, non sussisteva più per successive modifiche alla legge. La sentenza non risultò soddisfacente né per gli imputati Bartolucci e Ferri, né per la Procura, né infine per le parti civili. Tutti, infatti, presentarono ricorso in appello.

Il processo in Corte di Assise d'Appello, sui depistaggi. Anche il processo davanti alla Corte di Assise d'Appello di Roma, aperto il 3 novembre 2005, si è chiuso il successivo 15 dicembre con l'assoluzione dei generali Bartolucci e Ferri dalla imputazione loro ascritta perché il fatto non sussiste. La Corte rilevava infatti che non vi erano prove a sostegno dell'accusa di alto tradimento. Le analisi condotte nella perizia radaristica Dalle Mese, sono state eseguite con «sistemi del tutto nuovi e sconosciuti nel periodo giugno-dicembre 1980» e pertanto non possono essere prese in considerazione per giudicare di quali informazioni disponessero, all'epoca dei fatti, gli imputati. In ogni caso la presenza di altri aerei deducibile dai tracciati radar non raggiunge in alcuna analisi il valore di certezza e quindi di prova. Non vi è poi prova che gli imputati abbiano ricevuto notizia della presenza di aerei sconosciuti o USA collegabili alla caduta del DC-9.

Il ricorso in Cassazione (procedimento penale). La Procura generale di Roma propose ricorso per cassazione chiedendo l'annullamento della sentenza della Corte d'Appello del 15 dicembre 2005, e come effetto dichiarare che «il fatto contestato non è più previsto dalla legge come reato» anziché «perché il fatto non sussiste». La legge inerente all'alto tradimento venne infatti modificata con decreto riguardante i reati d'opinione l'anno successivo. Il 10 gennaio 2007 la prima sezione penale della Cassazione ha assolto con formula piena i generali Lamberto Bartolucci e Franco Ferri dichiarando inammissibile il ricorso della Procura generale e rigettando anche il ricorso presentato dal governo italiano.

Le dichiarazioni di Cossiga: ipotesi francese e nuova inchiesta. A ventotto anni dalla strage, la procura di Roma ha deciso di riaprire una nuova inchiesta a seguito delle dichiarazioni rilasciate nel febbraio 2007 da Francesco Cossiga. L'ex presidente della Repubblica, presidente del Consiglio all'epoca della strage, ha dichiarato che ad abbattere il DC-9 sarebbe stato un missile «a risonanza e non a impatto», lanciato da un velivolo dell'Aéronavale decollato dalla portaerei Clemenceau, e che furono i servizi segreti italiani ad informare lui e l'allora ministro dell'Interno Giuliano Amato dell'accaduto. In relazione a ciò, il giudice Priore dichiarò in un'intervista all'emittente francese France 2 che l'ipotesi più accreditata era che ci fosse un elemento militare francese.

Perizie d'ufficio e consulenze tecniche di parte. Volendo fare una breve sintesi dell'enorme numero di perizie d'ufficio e consulenze di parte, oltre un centinaio al termine del 31 dicembre 1997, possiamo ricordare: perizie tecnico-scientifiche: necroscopiche, medico-legali, chimiche, foniche, acustiche, di trascrizione, grafiche, metallografico-frattografiche, esplosivistiche, che non sono mai state contestate da alcuna parte.

Sono state essenzialmente quattro:

Stassi, Albano, Magazzù, La Franca, Cantoro, riguardanti le autopsie dei cadaveri ritrovati, durata anni, non s'è mai pienamente conclusa;

Blasi, riguardante il missile militare che ha colpito l'aereo civile, durata molti anni, è sfociata in spaccature profondissime e mai risolte;

Misiti, riguardante l'ipotesi bomba, durata più anni, è stata rigettata dal magistrato perché affetta da tali e tanti vizi di carattere logico, da molteplici contraddizioni e distorsioni del materiale probatorio da renderlo inutilizzabile ai fini della ricostruzione della verità;

Casarosa, Dalle Mese, Held, concernente la caduta del MiG-23.

Perizie d'ordine generale ovvero quelle con quesiti sulla ricostruzione dei fatti e sulle loro cause, che sono state sottoposte a critiche, contestazioni ed accuse:

radaristiche che hanno determinato documenti di parte critici e contrastati, in particolare l'interpretazione dei dati radar ovvero l'assenza o la presenza di altri velivoli all'intorno temporale e spaziale del disastro;

esplosivistica, dalle cui sperimentazioni sono state tratte deduzioni di parte a volte non coincidenti.

Le dichiarazioni di Giorgio Napolitano. L'8 maggio 2010, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in occasione del Giorno della memoria dedicato alle vittime del terrorismo, ha chiesto la verità sulla strage di Ustica. Poco prima Fortuna Piricò, vedova di una delle vittime della strage, aveva chiesto di «completare la verità giudiziaria che ha parlato di una guerra non dichiarata, di completarla definendo le responsabilità». Una richiesta che Napolitano ha appoggiato: «Comprendo il tenace invocare di ogni sforzo possibile per giungere ad una veritiera ricostruzione di quel che avvenne quella notte». Intorno a quella strage, Napolitano ha visto «anche forse intrighi internazionali, [...] opacità di comportamenti da parte di corpi dello Stato». Poco tempo dopo, il 26 giugno 2010, in occasione del trentennale del disastro, il Presidente ha inviato un messaggio di cordoglio ai parenti delle vittime: «Il dolore ancora vivo per le vittime si unisce all'amara constatazione che le indagini svolte e i processi sin qui celebrati non hanno consentito di fare luce sulla dinamica del drammatico evento e di individuarne i responsabili... Occorre il contributo di tutte le istituzioni a un ulteriore sforzo per pervenire a una ricostruzione esauriente e veritiera di quanto accaduto, che rimuova le ambiguità e dipani le ombre e i dubbi accumulati in questi anni.». Anche in occasione del trentunesimo anniversario della strage, il 27 giugno 2011, il presidente Napolitano ha lanciato un appello perché si compia ogni sforzo, anche internazionale, per dare risposte risolutive.

Il Memorandum e le intercettazioni di Massimo Carminati. Il 2 settembre 2014, sono stati rivelati gli appunti segreti, le informative e i carteggi segreti del Ministero degli Affari Esteri, contenuti nel Memorandum che ha per oggetto la strage di Ustica in relazione alle questioni informative aperte con gli Stati Uniti. Sempre nel 2014, stando ad alcune intercettazioni emerse durante le indagini sulla cosiddetta Mafia Capitale uno dei boss della cupola mafiosa, Massimo Carminati, conversando con un suo collaboratore avrebbe affermato che «la responsabilità di Ustica era degli Stati Uniti».

Condanna in sede civile dei ministeri dell'interno e dei trasporti. Il 10 settembre 2011, dopo tre anni di dibattimento, una sentenza emessa dal giudice civile Paola Proto Pisani, ha condannato i ministeri della Difesa e dei Trasporti al pagamento di oltre 100 milioni di euro in favore di 42 (quarantadue) familiari delle vittime della Strage di Ustica. Alla luce delle informazioni raccolte durante il processo, i due ministeri sono stati condannati per non aver agito correttamente al fine di prevenire il disastro, non garantendo che il cielo di Ustica fosse controllato a sufficienza dai radar italiani, militari e civili (alché non fu garantita la sicurezza del volo e dei suoi occupanti), e per aver successivamente ostacolato l'accertamento dei fatti. Le conclusioni del giudice di Palermo escludono che una bomba fosse esplosa a bordo del DC-9, affermando bensì che l'aereo civile fosse stato abbattuto durante una vera e propria azione di guerra, dipanatasi senza che nessuno degli enti controllori preposti intervenisse. La sentenza individuò inoltre responsabilità e complicità di soggetti dell'Aeronautica Militare Italiana nel perpetrare atti illegali finalizzati a impedire l'accertamento della corretta dinamica dei fatti che condussero alla strage. Il 28 gennaio 2013 la Corte di Cassazione, nel respingere i ricorsi dell'avvocatura dello Stato ha confermato la precedente condanna, condividendo che il DC-9 Itavia fosse caduto non per un'esplosione interna, bensì a causa di un missile o di una collisione con un aereo militare, essendosi trovato nel mezzo di una vera e propria azione di guerra. I competenti ministeri furono dunque condannati a risarcire i familiari delle 81 vittime per non aver garantito, con sufficienti controlli dei radar civili e militari, la sicurezza dei cieli. La sentenza fu accolta favorevolmente dall'associazione dei familiari delle vittime. Il 30 giugno 2017 un ulteriore ricorso dell'avvocatura dello Stato è stato rigettato dalla Corte d'Appello di Palermo, che ha nuovamente additato a causa dell'incidente un atto ostile perpetrato da un aereo militare straniero.

Risarcimento danni all'Itavia e ai suoi dipendenti. Aldo Davanzali, anche se formalmente non per motivi direttamente correlati alla sciagura, perse la compagnia aerea Itavia, che cessò di volare e fu posta in amministrazione controllata nel 1980, con i conti in rosso, previa revoca della licenza di operatore aereo: un migliaio di dipendenti restarono senza lavoro. Probabilmente anche l'errata conclusione peritale in merito ai motivi del disastro influì sulla decisione di chiudere la società. Lo stesso Davanzali chiese allo Stato un risarcimento di 1 700 miliardi di lire per i danni morali e patrimoniali subìti a seguito della strage di Ustica, nell'aprile 2001. All'Itavia saranno infine corrisposti 108 milioni di euro, a risarcimento delle deficienze dello Stato nel garantire la sicurezza dell'aerovia su cui volava il DC-9.

Risarcimento recupero carcassa del DC-9. La Corte dei Conti richiese un risarcimento di 27 miliardi di lire a militari e personaggi coinvolti, come compenso per il recupero della carcassa del DC9.

Risarcimento vittime. La Corte di Cassazione, il 28 gennaio 2013, ha riconosciuto un risarcimento di 1,2 milioni di euro ai familiari di quattro vittime della strage di Ustica. Il giudice di Palermo, il 9 ottobre 2014, ha condannato il ministero della Difesa e il ministero dei Trasporti, a rimborsare le spese di giudizio e a risarcire con 5 637 199 euro, 14 familiari o eredi, di Annino Molteni, Erica Dora Mazzel, Rita Giovanna Mazzel, Maria Vincenza Calderone, Alessandra Parisi e Elvira De Lisi morti nella tragedia aerea di Ustica.

Ustica, sul Dc9 abbattuto la summa dei depistaggi, simbolo delle stragi italiane. Si sa tutta la verità sull'abbattimento dell'aereo Itavia in quel giugno 1980? Scrive Beppe Crespolini l'1 luglio 2017 su "Bergamo news". Le stragi ed alcuni fatti gravissimi accaduti in Italia, alludo, ad esempio, all’omicidio Moro, alle stragi di Bologna e di Brescia, sono soggetti a depistaggi e a inquinamenti di prove che allontanano la verità e lasciano in testa il dubbio che non tutto sia stato detto per coprire personaggi, istituzioni e azioni di paesi ai quali in quei giorni ed ancora oggi, non si vogliono attribuire, per convenienze politiche e strategiche, responsabilità. Connivenze di servizi segreti, di politici e interessi che volano molto al di sopra delle teste dei cittadini comuni rappresentano quella ragion di stato che piange davanti alle telecamere dopo aver condiviso la responsabilità dei morti con altre realtà e aver architettato sordide coperture agli autori dei misfatti. Vien da chiedersi se l’etica abbia mai sfiorato coloro che siedono nelle famigerate “stanze dei bottoni” o se la ragione di stato autorizzi il sacrificio di molte persone o di un solo cittadino per compiacere alleati ritenuti utili in un’ottica che a noi non è dato di comprendere. In questi giorni ricorre un nuovo triste anniversario il cui racconto sintetizzo per ragioni di cronaca, perché non venga dimenticato il dolore inflitto alle famiglie delle 81 persone che hanno perso la vita in quel lontano 27 giugno del 1980. Sono le ore 20,08 del 27 giugno 1980. Il DC9 I-TIGI della compagnia aerea Itavia scompare dall’aerovia Ambra 13. Dopo l’ultimo contatto radio, avvenuto alle 20,59 con Roma e la successiva autorizzazione ad iniziare la discesa verso Palermo, l’aereomobile non dà più segnali. I tentativi di comunicare con il comandante sono vani. Anche due aerei di Air Malta, il KM 153 e il KM 758 che seguono la stessa rotta, tentano di mettersi in contatto con il volo Itavia I-TIGI. Nessuna risposta. Alle 21,56 si alza in volo il primo elicottero Sikorski per cercare il velivolo scomparso. Nessuna traccia viene trovata. L’aeromobile è dato per disperso e solo alle prime luci dell’alba si individua l’area di mare nel quale l’aereo, o quello che resta di lui, si è inabissato. Degli 83 passeggeri, dei quali 13 bambini, ne vengono ripescati solo 38. E qui inizia la ridda delle ipotesi e delle certezze alle quali seguono regolari smentite che indicano nel cedimento strutturale del velivolo prima, e nello scoppio di un ordigno a bordo successivamente, le cause del disastro. Una figura di spicco, anche in questo caso, così come nel caso Moro, sostiene tesi che poi verranno tutte cancellate mano a mano che le indagini proseguono: Francesco Cossiga. Anche Giovanardi fu sospettato di voler mettere a tacere “l’incidente” obbedendo, probabilmente, a qualche ordine impartito da ambienti ai quali non si può che dire sì. Furono investiti più di 300 miliardi di lire in indagini e ricuperi dal mare delle parti dell’aereo e continuarono per molto tempo a sovrapporsi tesi diverse, fino a che non si arrivò ad una prima ammissione di responsabilità che attribuiva la causa del disastro ad un missile sganciato da aerei francesi di stanza in Corsica. Ma anche questa ipotesi perse di credibilità fino a che si arrivò, con estrema difficoltà, ad ammettere che l’aereo di Itavia fu abbattuto da un caccia americano durante la battaglia con un Mig libico che viaggiava sotto la pancia del DC9, nel tentativo di far rientro alla base senza che nessuno lo individuasse. Il MIG libico fu abbattuto lo stesso giorno della scomparsa dai radar del DC9 Itavia, ma non fu il MIG a causarne la distruzione, bensì uno dei due caccia americani che ingaggiò il combattimento con l’aereo libico che stava rientrando alla base dopo la manutenzione effettuata in Iugoslavia. La tesi che ormai si dà per certa è che nell’inseguimento del MIG, il caccia predator americano sia entrato in collisione con il DC9 Itavia. Pare che i nostri servizi segreti fossero tacitamente consenzienti al passaggio sul nostro territorio del MIG nel viaggio di rientro alla base. Ma anche la data dell’abbattimento del Mig, in un primo momento, fu spostata, in modo tale da non mettere in relazione i due avvenimenti. Come sempre accade in presenza di fatti di gravità assoluta, si verificarono alcuni suicidi e morti “casuali” in incidenti stradali e per infarto tra i testimoni più vicini alla verità, durante lo svolgimento delle indagini. Negli scorsi mesi è uscita una pellicola che, personalmente, ritengo molto ben realizzata e rispettosa dello svolgimento dei fatti, per quanto sia consentito ad un film. Il titolo è Ustica, per la regia di Sergio Martinelli, regista lombardo specializzato proprio nella ricerca della verità sulle cause e sulle responsabilità di persone o “entità” che hanno provocato eventi tristissimi nella nostra Repubblica. Si può ancora parlare di Repubblica quando il destino di una nazione come la nostra è talmente condizionato da parentele con realtà extra-nazionali delle quali si tutelano gli interessi? Il prezzo da pagare è il depistaggio dei fatti e la creazione di barriere che devono impedire, nella mente di chi le crea, di arrivare a capo delle responsabilità se non in tempi biblici, con difficoltà enormi e con ulteriori sacrifici di vite umane. Così, ai morti di Ustica vanno aggiunte altre vittime, vale a dire, quelle persone che, per loro sfortuna, erano in possesso della verità, ragion per cui sono state “suicidate”, nel timore che riferissero i fatti così come si erano svolti. Le logiche politiche, talora, prescindono dalla vita e dalla morte della gente. Ci sono ancora tanti casi di disastri e di stragi aperti nella nostra nazione ma temo, ahimé, che difficilmente la verità, questa grande premessa etica della vita di tutti noi, potrà venire a galla nella sua cruda e nuda essenza. L’ affermazione della verità, dovere morale di qualsiasi essere umano degno di tale nome, porterebbe a galla responsabilità di persone e di istituzioni che negandola, si sono qualificati come schiavi al servizio della menzogna, per favorire stati amici o istituzioni indegne. Quando si compiono azioni criminali, immorali e irrispettose della dignità dei cittadini e della loro sicurezza, sarebbe auspicabile che le prove venissero immediatamente prodotte. Questo eviterebbe annosi processi e dispendio di milioni di euro o di lire, moneta di quel tempo, che avrebbero potuto essere destinati al benessere della gente. Ma da noi, le verità sono tante e si confondono, perché ognuno di coloro che le professa, per amore del proprio tornaconto o per imposizione di qualche entità più forte, si rende disponibile ad assecondare con servilismo le coperture depistanti. I modi per essere ringraziati sono molti e non sempre fatti di denaro. La garanzia della conquista del potere o del suo mantenimento è più gratificante di valige di denari, colorati di rosso, quel rosso sangue che campeggia anche nella nostra bandiera.

SEGRETI DI STATO/ Dal Lodo Moro alle stragi, i silenzi di un testimone scomodo. E' tornata d'attualità la vicenda del cosiddetto lodo Moro. "La Stampa" ha intervistato Bassam Abu Sharif, ma i conti non tornano. Molte le reticenze. E non solo sue, scrive Salvatore Sechi il 5 luglio 2017 su "Il Sussidiario". E' tornata d'attualità la vicenda del cosiddetto lodo Moro. Il termine indica lo scambio (una sorta di informale patto di non belligeranza) tra Aldo Moro, per conto del governo italiano, e il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, un'organizzazione del terrorismo palestinese affiliata all'Olp. Il Fplp risulta legatissimo all'Unione sovietica, alla primula rossa del terrorismo Carlos, alle Cellule rivoluzionarie tedesche di Thomas Kram. Attraverso il responsabile per l'informazione, Bassam Abu Sharif (più tardi stretto collaboratore di Arafat), il Fronte intrattiene ottimi rapporti con il col. Stefano Giovannone, uomo di assoluta fiducia di Moro sulle questioni e i rapporti mediorientali. E con la sua collaborazione invia in Italia il giordano Abu Saleh Anzeh. Sarà sempre Giovannone a proteggere Abu Saleh (un finto studente nelle università di Perugia e Bologna) anche dai tentativi della questura del capoluogo emiliano e in generale del ministero dell'Interno di rimandarlo in Giordania, per antisemitismo e odio rissoso verso Israele. Come capo-centro del Sismi, da Beirut nel 1972-1981, e in quanto collegato a Moro, Giovannone ha l'incarico di vigilare sulla sicurezza delle nostre rappresentanze diplomatiche in Medio oriente. Acquisisce una conoscenza preziosa e ineguagliata dei problemi e dei dirigenti politici del Medio oriente. Morto nel 1985, dopo un calvario giudiziario in cui è stato lasciato solo dai suoi referenti politici, ai minuziosi contatti con i palestinesi di Giovannone si debbono i sette anni di pace di cui l'Italia ha potuto godere dal 1973 all'80. Da quanto emerge da diversi documenti dell'intelligence, il nostro governo gioca la carta della diplomazia parallela. Condivide l'obiettivo di dare ai palestinesi uno Stato e riconosce un vero e proprio salvacondotto per i terroristi (o estremisti arabi che li si voglia chiamare), cioè il diritto a lottare per conseguirlo anche col trasporto di armi sul nostro territorio. In cambio, il Fronte si impegna a non compiere azioni di guerra o di rappresaglia anti-israeliana all'interno delle nostre frontiere, oltre a fornire — pare — una moral suasion sui paesi arabi per la fornitura (e il prezzo) del petrolio. L'intesa si rompe nell'inverno del 1979-1980. Abu Saleh Anzeh (legatissimo ad Habbash), insieme a Daniele Pifano e ad altri tre rappresentanti romani di Autonomia vengono fermati e arrestati il 7 novembre 1979 a Ortona e condannati dai tribunali di Chieti e di Ortona, il 25 gennaio 1980, a sette anni di carcere per il trasporto di alcuni missili Sam 7 Strela di fabbricazione sovietica. Sono solo in transito da noi, ma la loro destinazione è di essere usati contro un nostro alleato, Israele. I paesi arabi reagiscono con una forte minaccia. Se Abu Saleh Anzeh non verrà immediatamente liberato (il che avverrà il 17 giugno 1981 per decorrenza dei termini di custodia), ci saranno pesanti ritorsioni contro la popolazione civile (Giovannone parla di una città o di un aeroporto). Questo è il messaggio che i nostri servizi (Ucigos e Sismi) recepiscono e diffondono. Nel giro di qualche semestre si avrà l'abbattimento nel mare di Ustica di un aereo Dc9 dell'Itavia (con la morte di 81 persone) e l'attentato alla stazione centrale di Bologna con 200 feriti e 84 morti. Il 2 settembre a Beirut scompaiono due giornalisti, Italo Toni e Graziella De Palo, che il Fplp avrebbe dovuto proteggere. Forse i due giornalisti hanno appurato troppo sui responsabili della strage di Bologna? C'è un collegamento tra i due episodi? A chiarire il clima di quel periodo la Commissione parlamentare d'inchiesta su Moro ha di recente chiamato uno dei dirigenti del Fplp, amico di Giovannone, Bassam Abu Sharif. La Stampa lo ha fatto intervistare da Francesca Paci. In realtà la sua testimonianza, che sia Fioroni sia la giornalista non hanno pensato minimamente di contestare, è poco affidabile e reticente. Vediamolo da vicino. Sharif ignora la differenza, sul piano giuridico, tra la promessa di un impegno e un "lodo". Il Fronte avrebbe concesso solo la prima, e l'Italia si sarebbe obbligata a fornire un aiuto umanitario che per la verità era in corso da anni. La mediazione svolta da Giovannone non può essere scambiata per una responsabilità istituzionale per la quale il colonnello dei carabinieri non aveva la veste né le deleghe. Sharif dice di avere contato circa un migliaio di italiani che frequentarono i corsi di addestramento militare e ideologico, e ricorda l'opzione del Fronte per il sindacato. Ma non è in grado di fare i nomi di nessuno. Non spende una parola su Rita Porena, una giornalista e ricercatrice del ministero degli Esteri che era legata a Giovannone, ma anche a lui e al responsabile dei servizi segreti di Al Fatah, Abu Iyad. Per la verità, è incomprensibile, se è ancora in vita, la mancata testimonianza di costei. Avventata mi pare la negazione di ogni rapporto tra il Fplp e le Brigate rosse. E' vero che inizialmente ci furono delle resistenze, ma le testimonianze raccolte dal giudice Mastelloni, insieme alle memorie di Mario Moretti, presso il Tribunale di Venezia mostrano che fu stabilita una collaborazione sul traffico delle armi. Suscitano ulteriori dubbi e riserve sull'affidabilità di Sharif la sua dichiarazione di non sapere nulla di quanto avvenne a Ortona, come della strage di Ustica e di quella di Bologna. Eppure Abu Saleh Anzeh, cioè una persona molto vicina ad Habbash e a Giovannone, è direttamente o indirettamente presente in tutte queste vicende. Sulla crisi dei missili del novembre 1979, quando il lodo Moro si ruppe, il silenzio di Sharif è solo reticenza. Trovo molto strano e preoccupante che il senatore Fioroni e i suoi collaboratori di centro-sinistra e di centro-destra non abbiano voluto contestare le affermazioni di questo alto dirigente del Fplp. Per quale ragione l'hanno invitato in Commissione se non avevano nulla da chiedergli?

Ustica, la contro indagine: "il testimone fu eliminato con un sabotaggio". L'incidente delle Frecce tricolore dove perse la vita un testimone della vicenda di Ustica secondo i familiari non sarebbe stato un incidente, scrive Alessandro Raffa Esperto di Cronaca su "it.blastingnews.com" e curato da Pierluigi Crivelli il 4 luglio 2017. Sono trascorsi più di 37 anni dal quel tragico 27 Giugno 1980 in cui avvenne la strage di Ustica, tuttavia diversi aspetti della vicenda non sono stati ancora chiariti, e negli anni si sono moltiplicate le voci di quanti pensano ad un coinvolgimento dei servizi segreti. Diversi casi di suicidio accaduti a personaggi legati alla vicenda a vario titolo hanno fatto ipotizzare negli anni che in alcuni casi si potesse trattare di omicidi mascherati da suicidio, e secondo quanto sostengono i familiari di un pilota morto in seguito all'incidente di Ramstein, persino la strage in oggetto non sarebbe frutto del caso, ma della necessità di eliminare un testimone scomodo.

L'incidente di Ramstein. Con questo nome viene ricordato l'incidente aereo accaduto nell'Agosto 1988 durante un'esibizione delle "frecce tricolore" presso la base Nato di Ramstein, in Germania. Secondo la versione ufficiale un errore del pilota Ivo Nutarelli provocò un incidente che coinvolse tre aerei, due dei quali precipitarono in fiamme sulla pista, mentre un terzo cadde sulla folla, provocando 67 morti e oltre 300 feriti. A distanza di 29 anni una contro indagine della famiglia di Nutarelli sostiene però che non si sia trattato di un normale incidente, ma che questo sia stato frutto di un sabotaggio. E mediante un avvocato chiedono di riaprire il caso, almeno per riabilitare la posizione del pilota incolpato di essere il responsabile dell'errore umano che portò alla tragedia.

Nutarelli era un testimone di Ustica. La sera della strage di #ustica il pilota Nutarelli insieme al collega Naldini si erano alzati in volo dalla base di Grosseto e avevano volato sulla scia del Dc 9 Itavia della strage, fino a 10 minuti prima che questo cadesse nelle acque di Ustica. Durante il volo dagli aerei dei due piloti partirono due segnali di allarme, che avrebbero dato secondo quanto ricostruito in seguito dopo aver visto altri aerei da combattimento volare negli spazi destinati ai voli civili. Secondo alcuni si sarebbe trattato di un velivolo libico, mentre secondo altri sarebbero stati aerei da guerra statunitensi o francesi. Quanto i due piloti avevano visto nei cieli lo riferirono al Colonnello Tedoldi, che alcune settimane dopo però perse la vita mentre viaggiava in automobile con la moglie ed i figli.

La contro inchiesta. Secondo l'avvocato Osnato, che segue la vicenda di Ustica per conto dei familiari delle vittime, Nutarelli ed il collega Naldini erano certamente al corrente di molteplici fatti riguardanti la strage di Ustica, cosa che trova riscontro anche nelle carte dei titolari dell'inchiesta, tuttavia il loro nome e la volontà di sentirli arrivano nell'aula del tribunale solo ad otto anni di distanza dai fatti, quando i due sono morti. Di quel volo purtroppo mancano le conversazioni radio tra i due velivoli e la base, in quanto trattandosi di un'esercitazione non erano previste conversazioni. La morte per i due piloti è arrivata due settimane dopo che i Carabinieri si erano recati alla base radar di Poggio Ballone per sequestrare i tracciati relativi al volo di Nutarelli e Naldini. E secondo l'avvocato non sarebbe un caso. "A Ramstein si è trattato di omicidio e non di un fortuito incidente", afferma senza mezzi termini.

Ustica, la Corte d'appello conferma il risarcimento da 17 milioni, scrive il 29/06/2017 “La Sicilia”. I giudici di secondo grado: "Ci fu depistaggio e il DC) fu abbattuto da un missile". Ma il depistaggio è prescritto, mentre resta in piedi l'indennizzo per "fatto illecito". Lo Stato dovrà risarcire oltre 17 milioni di euro a 29 familiari delle vittime della strage di Ustica del 27 giugno del 1980, che registrò 81 morti. E’ quanto ha stabilito, con una sentenza depositata ieri, la prima sezione civile della Corte d’Appello di Palermo rigettando l’appello che l’Avvocatura dello Stato aveva presentato contro la sentenza di condanna emessa dal Tribunale civile di Palermo nel 2011. Secondo la Corte del capoluogo siciliano, resta accertato il depistaggio delle indagini svolte all’indomani del disastro aereo del Dc9 Itavia. Il velivolo, che da Bologna era diretto a Palermo, con ogni probabilità fu abbattuto da un missile e a parere dei giudici civili di Palermo i Ministeri della Difesa e dei Trasporti non assicurarono al volo adeguate condizioni di sicurezza. Per i giudici palermitani è esclusa l’ipotesi alternativa della bomba collocata a bordo dell’aereo o di un cedimento strutturale, in linea, quindi, con lo scenario già tracciato dall’istruttoria conclusa nel '99 dal giudice Rosario Priore. (ANSA). La Corte d’Appello ha dichiarato la prescrizione del risarcimento per depistaggio, ma ha confermato il risarcimento da fatto illecito liquidando, complessivamente, in favore dei 29 familiari oltre 17 milioni e 400 mila euro di risarcimento. Alla somma dovranno essere detratti gli indennizzi già ricevuti dallo Stato.

Strage di Ustica: per la Corte d'Appello di Palermo l'aereo fu abbattuto da un missile, per il senatore Giovanardi la verità è un'altra, scrive "AvioNews" il 30 giugno 2017. E' stata depositata mercoledì 28 giugno 2017 la sentenza che conferma il risarcimento per i familiari delle vittime del DC-9 precipitato il 27 giugno 1980. (WAPA) - La prima sezione civile della Corte di Appello di Palermo ha depositato mercoledì la sentenza con cui obbliga lo Stato a risarcire con oltre diciassette milioni di Euro i familiari delle 81 vittime della strage di Ustica. Secondo i giudici l'aereo DC-9 di Itavia decollato il 27 giugno 1980 da Bologna alla volta di Palermo e precipitato nel Mar Tirreno nel tratto compreso tra le isole di Ponza ed Ustica fu abbattuto probabilmente da un missile, ed i ministeri della Difesa e dei Trasporti non garantirono la sicurezza del volo. E' stato quindi rigettato l'appello dell'Avvocatura dello Stato contro la precedente condanna emessa dal Tribunale Civile di Palermo. Anche se il segreto di Stato non permette di ricostruire l'esatta dinamica dei fatti, soddisfazione è stata espressa dagli avvocati dei familiari delle vittime. Il senatore Carlo Giovanardi ha definito invece in una nota il sistema giuridico italiano "schizofrenico" con una verità processuale in ambito penale "nella quale si afferma, dopo anni di processo e centinaia di udienze, che su Ustica non c'è mai stata nessuna battaglia aerea e meno che mai è stato lanciato un missile" diversa da quella accertata dal Tribunale civile. Per Giovanardi è necessario stabilire la verità ed identificare i mandanti e gli esecutori che avrebbero collocato una bomba a bordo del velivolo. Per questa ragione il senatore chiede che sia tolto il segreto di Stato al carteggio tra il Governo e l'ambasciata italiana a Beirut nei mesi precedenti la strage che conterrebbe rivelazioni importanti per fare luce sulle ragioni dell'accaduto. 

Ustica, altre tre condanne in appello per lo Stato: 55 milioni per risarcire i familiari delle vittime. Decisione della prima sezione civile della Corte di Appello di Palermo, che segue la prima sentenza, sempre di condanna, riguardante i ministeri di Difesa e Trasporti, scrive il 10 luglio 2017. A distanza di 37 anni esatti dalla strage di Ustica arrivano nuove sentenze secondo cui i ministeri della Difesa e dei Trasporti dovranno risarcire 45 familiari delle 81 vittime per complessivi 55 milioni di euro. È quanto ha deciso, depositando tre nuove decisioni, la Prima Sezione civile della Corte di Appello di Palermo. La strage, ricordiamolo, avvenne il 27 giugno 1980: lo scoppio in volo del Dc9 Itavia diretto da Bologna a Palermo provocò la morte di 81 persone. Lo scorso 28 giugno la stessa Corte aveva già condannato i due ministeri a risarcire altri 39 familiari dei passeggeri del Dc9 per ulteriori 17 milioni di euro. Nelle tre sentenze la Corte di Appello del capoluogo siciliano, rigettando altrettanti ricorsi dell’Avvocatura dello Stato, quantifica il danno rimandando ai motivi della sentenza emessa il 28 giugno scorso. In primo grado, nel settembre 2011, il tribunale di Palermo aveva condannato i due ministeri a risarcire oltre 100 milioni di euro a 81 familiari. Secondo la Corte d’Appello palermitana i ministeri della Difesa e dei Trasporti, innanzitutto, «avrebbero dovuto attivarsi per le opportune reazioni, per consentire ad esempio l’intercettazione del velivolo ostile al fine di garantire la sicurezza e l’incolumità di passeggeri ed equipaggio». Il tribunale, sposando le conclusioni raggiunte in primo grado - concluso nel 2011 con la condanna degli stessi ministeri - ribadisce che sulla base dei rilevamenti radar l’incidente del Dc9 Itavia si verificò «a causa dell’operazione di intercettamento realizzata da parte di due caccia, che nella parte finale della rotta del Dc9 viaggiavano parallelamente ad esso, di un velivolo militare precedentemente nascostosi nella scia del Dc9 al fine di non essere rilevato dai radar, quale diretta conseguenza dell’esplosione di un missile lanciato dagli aerei inseguitori contro l’aereo nascosto oppure quale conseguenza di una quasi-collisione verificati tra l’aereo nascosto e il Dc9».

Incidente aereo di Ustica: la compensatio lucri cum damno, scrive Pasquale Fornaro il 6 luglio 2017. Qui la sentenza: Corte di Cassazione - sez. III civile - ord. interlocutoria n. 15534 del 22-6-2017. La società Aerolinee Itavia S.p.A. conveniva in giudizio il Ministero della difesa, il Ministero dei trasporti e il Ministero dell’interno, per sentirli condannare al risarcimento dei danni patiti a seguito della sciagura area verificatisi nel cielo di Ustica il 27 giugno 1980, in occasione della quale era andato distrutto il DC 9/10-I-TIGI di proprietà di essa attrice ed erano decedute 81 persone. L’adito Tribunale di Roma, con sentenza del novembre 2003 accoglieva la pretesa risarcitoria e condannava i Ministeri dell’interno, della difesa e dei trasporti, in solido tra loro, al pagamento della complessiva somma di euro 108.071.773,64, oltre accessori, nonché alle spese di lite. Successivamente, l’impugnazione di tale decisione da parte delle Amministrazioni soccombenti veniva accolta dalla Corte di appello di Roma con sentenza dell’aprile 2007, la quale, a sua volta, fu oggetto di ricorso per cassazione da parte della Aerolinee Itavia S.p.A., in amministrazione straordinaria, sulla base di nove motivi. Con la sentenza n. 10285 del 2009, la Corte dichiarò inammissibile il ricorso nei confronti del Ministero dell’interno e ne accoglieva i primi sette motivi nei confronti dei Ministeri della difesa e dei trasporti. A seguito di riassunzione da parte della Aerolinee Itavia S.p.A., in amministrazione straordinaria, la Corte di appello di Roma, nel contraddittorio con il Ministero dell’interno, il Ministero della difesa ed il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, con sentenza resa pubblica il 27 settembre 2012, pronunciava in via definitiva sulla domanda proposta dall’attrice nei confronti del Ministero dell’interno, rigettandola con compensazione delle spese processuali dei gradi di merito e pronunciava in via non definitiva sulla domanda proposta dalla stessa società in amministrazione straordinaria nei confronti degli altri due Ministeri convenuti, rimettendo la causa sul ruolo, con separata ordinanza, per la determinazione dell’ammontare del danno.

Con sentenza definitiva resa pubblica il 4 ottobre 2013, la Corte di appello di Roma condannava il Ministero della difesa ed il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, in solido tra loro, al pagamento, in favore della Aerolinee Itavia S.p.A., della somma di euro 265.154.431,44 (di cui euro 27.492.278,56 a titolo di risarcimento del danno, euro 105.185.457,77 per rivalutazione ed euro 132.476.695,11 per interessi), oltre interessi legali dalla sentenza al saldo, oltre al pagamento dei 3/4 delle spese processuali di tutti i giudizi, con compensazione del restante 1/4.

La Corte territoriale però negava il diritto dell’Itavia a vedersi risarcito: sia il danno per la perdita dell’aeromobile, in quanto la società attrice aveva incassato un indennizzo assicurativo da parte dell’Assitalia ammontante a lire 3.800.000.000, mentre il valore del velivolo al momento del sinistro, come accertato dal c.t.u., era di lire 1.586.510.540; sia il danno conseguente alla revoca delle concessioni di volo. Ricorrevano per cassazione, pertanto, il Ministero della difesa ed il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, mentre la Aerolinee Itavia S.p.A., proponeva altresì ricorso incidentale.

La Terza Sezione Civile cui il ricorso era assegnato con ordinanza interlocutoria n. 15534/17 depositata il 22 giugno, è stato posto il quesito alle Sezioni Unite “se nella liquidazione del danno debba tenersi conto del vantaggio che la vittima abbia comunque ottenuto in conseguenza del fatto illecito, ad esempio percependo emolumenti versatigli da assicuratori privati (come nel caso di specie), da assicuratori sociali, da enti di previdenza, ovvero anche da terzi, ma comunque in virtù di atti indipendenti dalla volontà del danneggiante.

Quesito, dunque, che in sé pone anche l’interrogativo sul se la cd. Compensatio lucri cum damno possa operare come regola generale del diritto civile oppure in relazione a determinate fattispecie.

I problemi della compensatio lucri cum damno nascono al momento stesso in cui si cerca di definirla. Tale locuzione allude al principio per cui il giudice, in sede di quantificazione del risarcimento del danno dovuto dall’autore, deve tenere conto non solo del pregiudizio causato dal fatto illecito (contrattuale o extracontrattuale), bensì anche degli eventuali vantaggi che si sono venuti a creare nel patrimonio del soggetto danneggiato. E’ ben possibile, quindi, che un comportamento di per sé illecito o dannoso possa produrre effetti positivi nella sfera giuridica del danneggiato. Si pensi, ad esempio ad un sinistro stradale che abbia provocato la distruzione integrale di un autoveicolo di modesto valore. La corresponsione in toto del costo del ripristino della cosa danneggiata provocherebbe al danneggiato un vantaggio patrimoniale ulteriore rispetto al valore effettivo del bene. Pertanto, assodato che il risarcimento del danno soddisfa l’esigenza di tenere indenne il danneggiato dalle perdite subite, cioè l’esigenza di ripristinare il suo patrimonio come se l’illecito non fosse mai stato commesso, e se è inoltre vero che, per quantificare l’ammontare del risarcimento dovuto, si fa il conteggio differenziale tra la consistenza patrimoniale prima e dopo il fatto è, per forza, altrettanto vero che gli eventuali vantaggi recati alla vittima debbano al pari essere tenuti in considerazione. Ciò significa che il giudice deve “compensare” le perdite con i benefici che il fatto illecito o l’inadempimento contrattuale, abbiano determinato nella sfera giuridica della parte danneggiata, detraendo i secondi dalle prime. Di fronte, comunque, ad vuoto legislativo dottrina e giurisprudenza si sono interrogati, se e in che modo detto effetto economico vantaggioso debba essere computato in detrazione a quanto dovuto dal danneggiante a titolo di risarcimento.

In dottrina si ravvisano ben tre orientamenti diversi. Alcuni autori negano del tutto che nel nostro ordinamento esista un istituto giuridico definibile come “compensatio lucri cum damno”; altri ammettono che in determinati casi danno e lucro debbano compensarsi, ma negano che ciò avvenga in applicazione di una regola generale; altri ancora fanno della compensatio lucri cum damno una regola generale del diritto civile.

Chi aderisce al primo orientamento fa leva principalmente sulla mancanza di una regola ad hoc che definisca l’istituto e aggiunge un immancabile richiamo all’ “iniquità” di un istituto che ha l’effetto di sollevare l’autore del fatto illecito dalle conseguenze del suo operato.

Chi aderisce al secondo orientamento, invece, condivide l’affermazione secondo cui nel nostro ordinamento alcuna norma generale sancisce tale istituto ma soggiunge che il problema dell’individuazione delle conseguenze risarcibili d’un fatto dannoso è una questione di fatto, da risolversi caso per caso, e che nel singolo caso non può escludersi a priori che concause preesistenti o sopravvenute al fatto illecito consentano alla vittima di ottenere un vantaggio.

Infine chi aderisce al terzo orientamento sostiene che l’istituto della compensatio lucri cum damno è implicitamente presupposto dall’art. 1223 cc là dove ammette il risarcimento dei soli danni che siano “conseguenza immediata” dell’illecito, e che inoltre, quel principio generale è desumibile da varie leggi speciali: tra queste l’art. 1, comma 1 bis della legge 14 gennaio 1994 n. 20, o l’art. 33 comma 2 del D.P.R. 8 giugno 2011 n.327.

I contrasti, inoltre, non mancano nella stessa giurisprudenza. Essa ha sempre ritenuto esistente un istituto giuridico definibile come compensatio lucri cum damno.

Secondo un primo orientamento la compensatio opera solo quando sia il danno che il lucro scaturiscano in via “immediata e diretta” dal fatto illecito. In applicazione di tale principio è stata, pertanto, esclusa la compensatio in tutti i casi in cui la vittima di lesioni personali, o i congiunti di una persona deceduta a seguito di un illecito, avessero ottenuto il pagamento di speciali indennità previste dalla legge da parte di assicuratori sociali, enti di previdenza, come pure gli indennizzi da parte di assicuratori privati contro gli infortuni. In questi casi il diritto al risarcimento del danno trae origine dal fatto dell’illecito, mentre il diritto all’indennità scaturisce dalla legge.

Un diverso orientamento, opposto, ammette l’operatività della compensatio lucri cum damno. Se, infatti, taluni affermano che essa operi solo quando danno e lucro scaturiscano in via immediata e diretta dal fatto illecito, elevando la causa del lucro dal rango di “occasione” a quello di “causa”, si giungerebbe al risultato di detrarlo dal risarcimento.

In attesa della decisione della Suprema Corte, si può concludere affermando che la “compensatio lucri cum damno”, seppur non codificata, è istituto di creazione giurisprudenziale e dottrinale che trova la sua origine e ragion d’essere direttamente negli artt. 1223 c.c., risarcimento del danno contrattuale, e 2056 c.c. ,valutazione dei danni extracontrattuali, e costituisce il corollario necessario del principio base per cui il risarcimento del danno deve adempiere la sua funzione ripristinatoria dello status quo ante, senza che siano rimasti danni non risarciti o, in senso opposto, provocati ingiusti profitti.

Pasquale Fornaro. Laureato in Giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Napoli Federico 2. Specializzato nelle Professioni Legali presso l'Università degli Studi di Roma Guglielmo Marconi.

Mostro di Firenze, fenomenologia di un'inchiesta mostruosa. Quel che resta della questione, giuridicamente ferma al 2000 con due condanne definitive, gira a vuoto e da allora ha provocato solo danni, scrive il 28 luglio 2017 Maurizio Tortorella su Panorama. Ci mancava soltanto il legionario ottantasettenne e presunto mitomane. L’inchiesta senza fine sul Mostro di Firenze, ormai, è irrimediabilmente diventata un mostro d’inchiesta. L’indagine sui 16 omicidi che dal 1968 al 1985 hanno terrorizzato le campagne fiorentine e sconvolto l’Italia non finisce mai di stupire. Adesso la procura di Firenze ha ri-messo sotto la lente un vecchio personaggio, che aveva già sfiorato due volte: Giampiero Vigilanti, pratese, un passato nella Legione straniera di cui gli sono rimasti i classici virili tatuaggi sul braccio destro. Nel settembre 1985, proprio all’epoca dell’ultimo duplice omicidio, gli perquisirono la casa grazie a un’accusa anonima. Poi, nel 1994, la polizia tornò da lui e gli trovò 176 proiettili calibro 22, compatibili con quelli usati dal Mostro. Ne uscì pulito tutte e due le volte. Oggi il punto pare riguardare la scomparsa di quattro pistole, tra le quali una Beretta calibro 22, il cui furto Vigilanti giura di avere regolarmente denunziato nel 2013: "Ci andavo a sparare al poligono e i magistrati le avevano anche viste" sostiene. Le cronache degli ultimi giorni, ingenerosamente, si sono tutte concentrate su una sua comparsata in tv, nel 2005, quando aveva raccontato di un’evanescente eredità americana e della sua dura prigionia in Viet-Nam, alla Rambo. Si legge addirittura di una pista che legherebbe i 16 poveri morti alla "strategia della tensione" neofascista. Sembra un po’ tanto. Si vedrà. Certo è che quel che resta dell’inchiesta sui delitti del Mostro, giuridicamente ferma al 2000 con le due condanne definitive di Mario Vanni e di Giancarlo Lotti (rispettivamente all’ergastolo e a 26 anni di reclusione), gira a vuoto e da allora ha provocato solo danni. Tra una perquisizione e l’altra, era emerso il nome di Jean-Claude Falbriard, un pittore francese ospite della villa fino al 1997: vi avrebbe lasciato quadri inquietanti, con donne mutilate, e una pistola. A quel punto, Falbriaid era stato ricercato per mari e per monti, e i mass media l’avevano indicato come "il tassello mancante". Invece sarebbe bastato poco per evitargli la gogna: nei 17 anni degli omicidi non era mai entrato in Italia. Rintracciato, interrogato, era stato indagato per… porto abusivo d’arma. Poi era stato prosciolto, ma i giornali l’avevano trasformato in “supertestimone". Nell’ottobre 2001, nel bosco fiorentino di San Casciano, la procura aveva annunciato di avere individuato la "stanza segreta", un capanno dove sarebbero stati consumati i riti satanici del Mostro. Nella «cripta", in realtà, gli agenti avevano trovano più che altro uno spettacolo da Halloween: pipistrelli di plastica, scheletri di cartone, candeline. Gli inquirenti, però, non s’erano arresi: le scritte sui muri della cripta (era stato disposto addirittura di staccare l’intero blocco d’intonaco) erano state confrontate con una frase apparsa sopra un muro del centro di Firenze: "Pacciani è innocente, arrestate…". Purtroppo il resto della scritta era stato cancellato. Insomma, un altro buco nell’acqua. A lanciare l’improbabile "pista satanica", in quel lontano 2001, era stata Gabriella Pasquali Carlizzi, assistente sociale nelle carceri, scrittrice e autrice di siti internet. Carlizzi aveva rivelato di essere stata presa molto sul serio dagli inquirenti, tanto da essere stata interrogata "una novantina di volte". Va detto che in rete restano tracce di suoi dialoghi anche con la Madonna di Fatima, e delle sue suggestive soluzioni per ogni mistero che abbia avvelenato la storia d’Italia. Va aggiunto che nel 2000 Carlizzi ha anche subito una condanna (in primo grado) a due anni di reclusione per calunnia nei confronti dello scrittore Alberto Bevilacqua, un’altra vittima di questa storiaccia infinita: nel 1995 la donna aveva più volte, caparbiamente accusato l’autore della Califfa di essere il vero Mostro. Altri inquirenti si sono invece affezionati alla tesi del "secondo livello" e sospettano l’esistenza di mandanti: medici maniaci, che avrebbero pagato gli assassini per procurarsi macabri feticci sessuali da usare per il loro piacere o per messe nere. Un’indagine era decollata nel gennaio 2004, contro Francesco Calamandrei, farmacista di San Casciano Val di Pesa. S’ipotizzava un suo legame con il medico perugino Francesco Narducci, il cui cadavere nel 1985 era stato trovato nel lago Trasimeno ed era finito al centro di un altro mistero. Narducci era stato coinvolto nella storia del Mostro come presunto «conservatore» dei feticci, mentre s’ipotizzava che Calamandrei fosse tra i mandanti dei delitti. Il processo, durante il quale il figlio del farmacista era morto per un’overdose, è finito con un’assoluzione piena nel maggio 2008. Anche Calamandrei è morto, di crepacuore, nel 2012. Nel 2004, infine, era finito nei guai Mario Spezi, il migliore dei giornalisti “mostrologhi” fiorentini, e collaboratore anche di Panorama. Buffo, era stato proprio Spezi a fare i primi collegamenti tra i delitti del Mostro: senza di lui, forse, l’inchiesta sarebbe arrivata molto dopo, o forse mai. Il giornalista s’era trasformato nel più duro critico dell’inchiesta. Era convinto che le piste sataniche e sui medici mandanti fossero folklore: credeva nell’omicida seriale e solitario. Spezi era stato intercettato, perquisito e indagato per favoreggiamento. A casa sua gli agenti avevano sequestrato di tutto, perfino una "piramide tronca in pietra a base esagonale, occultata dietro la porta della sala da pranzo". Dicevano fosse simile a un oggetto rinvenuto anni prima, sulla scena di un delitto del Mostro, e che rimandasse a un rito satanico. "Ma stava dietro la porta perché è un comune fermaporta", rideva Spezi. Nel 2006 la procura di Perugia l’aveva arrestato per depistaggio e per concorso nell’omicidio del medico Narducci. Era rimasto in prigione 23 giorni, prima che la Cassazione lo liberasse e lo assolvesse in pieno. È morto anche lui, un anno fa, di cancro.

Morto Ciro Cirillo, il Dc sequestrato dalle Br e rilasciato dopo una oscura trattativa con la camorra. Aveva novantasei anni: Domani i funerali, scrive il 30 luglio 2017 "La Repubblica". Se ne sono andati un uomo e un pezzo di storia che sconvolse l'Italia. È morto all'età di 96 anni l'ex presidente della Regione Campania Ciro Cirillo. L'esponente di punta della Dc fu sequestrato a Torre del Greco (Napoli) dalle Brigate Rosse il 21 aprile1981 (quando era assessore ai lavori pubblici della Campania e presidente della commissione che doveva gestite tutti gli appalti del post terremoto del 1980) per poi essere rilasciato dopo diversi giorni di prigionia in circostanze ancora oggi avvolte da molti misteri. Un rapimento che ha segnato la memoria del nostro Paese con il primo serio sospetto di trattativa tra lo Stato, le Br e la camorra di Cutolo, a tre anni dal rapimento Moro. Durante il rapimento ci fu anche un conflitto a fuoco: furono uccisi l'agente di scorta Luigi Carbone e l'autista Mario Cancello, e venne gambizzato il segretario dell’allora assessore campano all'Urbanistica, Ciro Fiorillo. L'ultima uscita pubblica di Ciro Cirillo, l'ex presidente della Regione Campania è dell'anno scorso, quando decise di festeggiare insieme a figli, nipoti e gli altri parenti i suoi 95 anni. Era il febbraio del 2016 quando convocò i suoi cari al Circolo Nautico di Torre del Greco per un pranzo al quale presero parte diversi amici politici della vecchia Democrazia Cristiana, in particolare della città vesuviana dove risiedeva. Per l'occasione fu presente anche il sindaco Ciro Borriello. I funerali di Ciro Cirillo si svolgeranno domani, lunedì 31 luglio, a Torre del Greco, alle ore 16.30 nella chiesa dei Carmelitani Scalzi a corso Vittorio Emanuele. Il rapimento Cirillo per anni è stato avvolto dal mistero. Una vicenda scomoda su cui i riflettori sono rimasti sempre bassi, fino al febbraio dell'anno scorso quando lo stesso Cirillo rilascia un'intervista alla tv svizzera italiana, per negare con decisione ogni trattativa finalizzata al suo rilascio da parte del boss ("Lo escludo, assolutamente") e allo stesso tempo per rimestare antiche accuse: "Ci fu un'istruttoria, da parte del giudice Carlo Alemi, che aveva un solo obiettivo, incastrare Antonio Gava, allora ministro dell’Interno".  Accuse  che il giudice ha prontamente ricusato, con un 'intervista all'Espresso: “Mi sembra incredibile che il dottor Cirillo abbia oggi fatto quelle affermazioni, totalmente discordanti peraltro con quanto affermò, in mia presenza ed al mio indirizzo, il 19 maggio 2008, all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, in occasione della presentazione del documentario “La trattativa” del programma Rai “La storia siamo noi”, allorché mi disse: “Anzi penso che mai come in questo momento avremmo tutti bisogno di magistrati coraggiosi e onesti come lei”. Intrecci mai chiariti e che ora con la morte di Cirillo tornano a infittirsi. Infatti in un'intervista a Repubblica, a firma di Giuseppe D'Avanzo, nel 2001 Cirillo disse di aver affidato la verità sul suo rapimento a un memoriale di una quarantina di pagine consegnato a un notaio con l'impegno di renderlo pubblico solo dopo la sua morte. Ma in una successiva intervista al Mattino ritrattò: "Dissi anche che lo avevo dato ad un notaio, che lo conservava in cassaforte. Non era vero. Ma quell'invenzione ebbe effetto, per un po' sono stato lasciato in pace dai giornalisti".

Rapimento Cirillo: le Br, Cutolo e la Dc. Così D'Avanzo raccontò la trattativa. E il suo clamoroso prezzo. L'articolo di Giuseppe D'Avanzo su Repubblica del primo febbraio 1985, di Giuseppe D'Avanzo, pubblicato su Repubblica il primo febbraio 1985. "Può dirsi sufficientemente provato che nelle trattative per il rilascio di Ciro Cirillo sono intervenuti esponenti democristiani ed esponenti dei servizi segreti". Il giudice istruttore di Napoli, Carlo Alemi, non ha dubbi. Nella lunga ordinanza-sentenza di rinvio a giudizio dei brigatisti della colonna napoletana delle Br il magistrato affronta al capitolo nono "le trattative per il sequestro Cirillo". Soltanto tredici pagine, ma un rosario di testimonianze sufficienti a fargli chiedere un'ulteriore "approfondita istruttoria" per conoscere "l'esatto ruolo svolto dalla Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo per il rilascio di Cirillo; l'intervento di esponenti di partiti politici che hanno fatto da tramite ed eventualmente da garanti tra le Br e Cutolo nello sviluppo della trattativa; il ruolo svolto durante i giorni del sequestro dai servizi segreti e se questo sia stato contenuto nell'ambito dei compiti istituzionali". Le tredici pagine, tuttavia, con le testimonianze dei brigatisti pentiti già disegnano lo scenario della trattativa, i suoi protagonisti, il prezzo che gli intermediari si dicevano pronti a pagare per la liberazione dell'assessore regionale Dc. E se il prezzo è clamoroso - forse fu offerta anche l'indicazione del luogo dove era custodito Patrizio Peci -, altrettanto clamoroso è l'unico nome di protagonista che salta fuori, Gava: nome sussurrato da tempo ma mai entrato finora in un'inchiesta giudiziaria. A vuotare il sacco sono stati Pasquale Aprea e Maria Rosaria Perna, i carcerieri di Cirillo nei due mesi della sua prigionia. "Nella prima decade di maggio - hanno raccontato - durante la fase in cui il sequestro andava politicamente malissimo, le Br con lo spostamento dei compagni detenuti ad Ascoli seppero che la camorra dietro pressioni di esponenti politici napoletani offriva per la liberazione di Cirillo 5 miliardi, armi a volontà, un elenco di magistrati napoletani con relativi indirizzi. Anzi si offriva di effettuare agguati ai danni di magistrati indicati dalle Brigate rosse". Antonio Chiocchi, uno dei fondatori della colonna napoletana, riferì in più occasioni ai due che "Gava era andato da Cutolo per trattare la liberazione di Cirillo presso le Brigate rosse". Silvio o Antonio Gava? Il magistrato non lo scrive. Inizialmente la trattativa si arena di fronte al rifiuto dei terroristi. Maurizio Stoccoro, un altro pentito, ha confermato di aver saputo da Giovanni Planzio, capo storico della colonna, "che Cutolo era intervenuto per sollecitare il rilascio di Cirillo in quanto alla camorra serviva che venissero allentati i posti di blocco della Polizia che ne impedivano tutti i traffici illeciti". "Cutolo ci offrì - ha raccontato Stoccoro - denaro, due o più miliardi, molte armi. Quante ne avessimo volute". Un'offerta che non interessò le Brigate rosse. L'attacco delle Br, infatti, - ha spiegato Stoccoro ai magistrati - era rivolto alla Dc proprio per dimostrare che mentre la Democrazia cristiana per Moro non aveva voluto trattare, aveva invece trattato per Cirillo". A maggio la trattativa ha una svolta. Comincia l'andirivieni di camorristi e brigatisti nel carcere di Ascoli Piceno e di Palmi. Giovanni Planzio ha detto ai giornalisti che "per Cirillo cominciarono a muoversi i servizi segreti". Con l'arrivo ad Ascoli Piceno degli uomini del colonnello Musumeci aumenta anche il prezzo offerto alle Brigate rosse. Intermediari Luigi Bosso, un delinquente comune politicizzatosi in carcere, e Sante Notarnicola. "Alle Brigate rosse - annota il giudice istruttore - viene offerto un grosso quantitativo di mitra, un elenco di carabinieri e di magistrati dell'antiguerriglia, l'indicazione del luogo in cui era custodito Patrizio Peci". Il superpentito delle Br era in quelle settimane - siamo nella primavera dell'81 - nelle mani delle squadre speciali del generale Dalla Chiesa. Chi dichiarò la disponibilità di far conoscere alle Brigate rosse il preziosissimo indirizzo? Gli omissis dell'ordinanza lasciano la domanda senza risposta. Ad avviare finalmente la trattativa fu Giovanni Senzani, il leader della colonna Napoli. Ha raccontato Maria Rosaria Aprea: "Una sera Senzani, entrando a casa, disse: "Qui ci facciamo pure i soldi". Antonio Chiocchi e Pasquale Aprea si ribellarono con asprezza al loro capo. Ma Senzani ribadì "la correttezza politica di tale richiesta". "Gli obiettivi politici - spiegò - sono stati raggiunti. La corresponsione di sussidi ai disoccupati, la smobilitazione della roulottopoli dei terremotati, la pubblicazione dei verbali di interrogatorio di Cirillo. E' giusto - conclude il criminologo - espropriare Cirillo, la sua famiglia, la Democrazia cristiana"". L'intera ricostruzione della trattativa è stata confermata da altri pentiti. Michele Galati, membro del direttivo della "colonna veneta" delle Br, nel carcere di Cuneo incontrò i brigatisti Moretti, Guagliardo, Franceschini. Il giudizio politico che espressero sulla trattativa fu lapidario. "Le Br - sostennero Moretti e Franceschini - non avevano alcun interesse ad un pagamento da parte di alcuni palazzinari napoletani ma puntarono immediatamente ad una trattativa che vedesse direttamente coinvolta la Dc". Enrico Fenzi, brigatista e cognato di Senzani, molto vicino al leader Mario Moretti, ha riferito, dal suo canto, ai giudici: "Moretti ripetè più di una volta che era venuto fuori e bisognava pur dirlo che se Cirillo non era stato ammazzato ciò era dovuto all'intervento di Cutolo". Testimonianze confermate dal maresciallo Angelo Incandela, comandante degli agenti di custodia del carcere di Cuneo: "Sì, il pentito Sanna ci tracciò tutto il quadro delle trattative intercorse tra servizi segreti, camorra e Brigate rosse al fine di ottenere la liberazione di Cirillo". E Luigi Bosso ha confermato, prima della sua morte improvvisa, che fu "Cutolo ad attribuirgli l'incarico di entrare in contatto con i brigatisti di Palmi, latore di questo messaggio: la Dc è disposta a trattare a tutti i livelli attraverso il canale di Cutolo".

E Cirillo disse a D'Avanzo: "La verità? E' dal notaio". L'assessore regionale Dc, sequestrato nel 1981 dalle Br e rilasciato dopo una trattativa che vide intermediario il boss camorrista Raffaele Cutolo, vent'anni dopo incontrò il giornalista. "Glielo dico subito, non le racconterò quello che so: non voglio farmi sparare. Ho scritto tutto in una quarantina di pagine. Dopo la mia morte si vedrà", di Giuseppe D'Avanzo, pubblicato su Repubblica il 12 aprile 2001. Ciro Cirillo, scatarrando come una locomotiva ("Mi sono raffreddato, maledizione"), viene giù con passo svelto dal piano superiore della villa bianca nel sole. Prende posto nell'angolo del divano bianco, oltre la tenda e la grande finestra c'è il mare di Napoli e, alle spalle, il Vesuvio. Ciro Cirillo, 80 anni, è vispo come un grillo. Ride, sorride, ammicca, allude, insinua, ricorda, omette, dissimula. Se il più crudo cinismo può essere bonario, Ciro Cirillo è un cinico bonario. Bonario soprattutto con se stesso. Si è appena seduto e subito la mette giù, bella chiara: "Signore mio, glielo dico subito, io non le racconterò la verità del mio sequestro. Quella, la tengo per me, anche se sono passati ormai venti anni. Sa che cosa ho fatto? Ho scritto tutto. Quella verità è in una quarantina di pagine che ho consegnato al notaio. Dopo la mia morte, si vedrà. Ora non voglio farmi sparare - a ottant'anni, poi! - per le cose che dico e che so di quel che è accaduto dentro e intorno al mio sequestro, dopo la mia liberazione...". Alle 21,45 del 27 aprile 1981 nel garage di via Cimaglia a Torre del Greco, Napoli, le Brigate Rosse sequestrano l'assessore regionale all'Urbanistica, Ciro Cirillo. Cinque persone lo attendono nell'oscurità e quando ne vengono fuori stanno già sparando. Muoiono Luigi Carbone, agente di scorta, Mario Cancello, autista. Ciro Cirillo fu prigioniero delle Brigate Rosse per ottantanove giorni. "Mi tenevano in una casetta di legno all'interno di un appartamento. C'era un lettino e un wc chimico. Ogni sera - ricorda Cirillo - arrivava il fiorentino, quel Senzani, e cominciava a soffocarmi di domande. C'era stato il terremoto, la Dc mi aveva messo alla testa della commissione tecnica per la ricostruzione e Senzani voleva da me 'i piani'. Dove tieni 'i piani'? Ce li hai a casa? Andiamo a prenderli! Come se i piani fossero già pronti. Che gli dovevo dire? Che io nemmeno volevo fare l'assessore all'urbanistica? Era vero, finii lì controvoglia, a sapere che cosa mi sarebbe successo... Dunque, quello mi interrogava e io rispondevo il meno possibile. Facevo il fesso. Tu, mi diceva Senzani, sei il punto di riferimento di questo regime e io non capivo nemmeno di quale regime parlasse. Mi diceva: noi abbiamo visto che, con l'uccisione di Aldo Moro, non abbiamo avuto il rivolgimento che ci aspettavamo e abbiamo deciso di cambiare area, obiettivo e metodo. Il metodo era di cavare i soldi di un riscatto dal mio sequestro. Cominciarono a chiedermi quanti soldi avessi. Io, di soldi, non avevo poi tanti. Sì e no, una cinquantina di milioni al Banco di Napoli. E gli amici? - mi chiedevano i brigatisti - Quanto ti possono dare gli amici politici, gli amici imprenditori? Ma quali imprenditori, dicevo io...". Negli atti, non è questa la storia. Ciro Cirillo indica ai figli gli "amici" che gli devono un favore. Per quel tale mi sono "interessato", a quell'altro ricordategli dell'appalto, a quell'altro poi ditegli di quel mio "intervento". Ciro Cirillo nella "casetta di legno" butta giù una lista di nomi. Albino Bacci, Bruno Brancaccio, Italo Della Morte, Michele Principe, presidente della Stet... Sono lunghe quelle notti nella casa di Antonio Gava sulla collina di Posillipo. Don Antonio li convoca. Gli imprenditori accorrono e si sistemano intorno al tavolo nel Cubo. Il Cubo è bianco, gigantesco, piazzato al centro del salone e protetto da due porte scorrevoli. Antonio Gava di tanto in tanto si allontana per ricevere un giornalista, per parlare con il presidente del Consiglio Arnaldo Forlani e li lascià lì a fare i conti di quel che possono dare o devono dare. Tutti gli imprenditori edili napoletani che avevano partecipato al sacco della città negli Anni Cinquanta e Sessanta, legati a cappio doppio alla Dc di Antonio Gava, mettono mano al portafoglio e partecipano alla "colletta". Saranno ripagati per quel gesto di solidarietà e si taglieranno, al momento opportuno, una bella fetta nella torta della ricostruzione. Ciro Cirillo ha bevuto il suo caffè. Ora si guarda intorno soddisfatto mentre si sistema più comodamente nell'angolo del divano. "Sa che cosa mi chiedo qualche volta? Mi chiedo: a chi devi ringraziare, Ciro? Sa come rispondo? Ciro, tu non devi ringraziare nessuno perché - glielo voglio dire - quelli là, gli imprenditori mica hanno fatto grandi sacrifici. Glien'è venuto solo bene ad aiutarmi. Tanto bene e tanti affari". I soldi degli imprenditori era necessari, ma non potevano essere sufficienti. Chi avrebbe convinto i brigatisti a intascare il denaro e a lasciar libero il prigioniero? C'era un solo uomo che aveva quel potere, pensano i dorotei. Quell'uomo era in carcere ad Ascoli Piceno e si chiamava Raffaele Cutolo, capo della Nuova Camorra Organizzata. A sedici ore dal sequestro, nel carcere di Ascoli Piceno si presenta un uomo del Sisde. E' solo la prima di una lunga teoria di visite illegali, non autorizzate, segrete. Dinanzi al camorrista sfileranno spioni, camorristi latitanti, "ambasciatori" delle Brigate Rosse, "due uomini politici di livello nazionale". Cutolo fa il prezioso, si lascia pregare e implorare. Chiede sconti di pena per i suoi, per sé perizie psichiatriche per venir fuori dalla galera, vuole appalti della ricostruzione a vantaggio delle imprese che controlla e qualche miliarduccio per la mediazione. Gli dicono: "Tranquillo, entro due o tre anni uscirai...". Cutolo ricorda: "Mi è stato promesso che sarei uscito dal carcere. Mi fecero balenare la possibilità formale della scarcerazione...". Incassato il "premio" per il presente e assicurazioni per il futuro, il camorrista offre alle Br "soldi, armi e una lista di indirizzi per eseguire le condanne a morte di magistrati antiterrorismo e un elenco di esponenti delle forze dell'ordine". Quel che soltanto nel 1978 la Dc e lo Stato si erano rifiutati di accettare per uno statista del livello di Aldo Moro, decretandone - come sostiene oggi Francesco Cossiga - la morte, va in porto per Ciro Cirillo. Il riscatto venne pagato. Senzani intasca su un bus di Roma 1 miliardo e 450 milioni. Cutolo sdegnato dice di aver rifiutato la tangente. I suoi lo contraddicono: "Si mise in tasca una cifra che oscillò tra i 2 miliardi e 800 milioni al miliardo e mezzo". All'alba del 24 luglio 1981, Ciro Cirillo viene rilasciato in un palazzo abbandonato in via Stadera a Poggioreale. Ciro Cirillo non appare imbarazzato. Non c'è nessuna incertezza nella sua voce, nessun dubbio nelle sue parole. Si attende la domanda. Deve essere una domanda che in questi venti anni si sarà sentito fare mille volte. Ha imparato a fronteggiarla anche se, a quanto pare, sembra gradirla come una pernacchia. "Ora a questo punto, signore mio, lei mi chiederà: perché per Moro la fermezza e per lei la trattativa? Me la faccia. So che deve farmela. E allora me la faccio da solo perché conosco la risposta: la Dc non poteva tollerare altro sangue, non avrebbe sopportato un altro esponente di prima fila morto ammazzato dai terroristi. Così il segretario del partito Flaminio Piccoli e il mio amico Antonio Gava decisero di darsi da fare. Non creda alla chiacchiere sulla trattativa con Cutolo. Fu Cutolo a farsi avanti. Gli affari della camorra, con tutta quella polizia nelle strade, stavano andando a rotoli. E allora meglio offrire un aiuto e darci un taglio a quella storia". Ciro Cirillo dice proprio così, lo dice con una soddisfazione che gli fa luccicare gli occhi. Le Br non dissiparono il gruzzolo del riscatto. Si armarono meglio. Uccisero. Nel primo anniversario del sequestro di Cirillo, il 28 aprile 1983, ammazzarono Raffaele Delcogliano, assessore campano alla formazione professionale. Lo uccisero con il suo autista, Aldo Iermano. Il 28 luglio 1982, spararono in faccia al capo della squadra mobile di Napoli, Antonio Ammaturo e al suo autista, Pasquale Paola. Assaltarono due caserme dell'Esercito. Ci rimisero la vita un soldato di leva, Antonio Palumbo, e due agenti di polizia, Antonio Bandiera e Mario De Marco. Nella camorra per due anni si scatenò la più violenta guerra della sua storia scandita da mille morti all'anno. I rivali di Cutolo videro nel patto stretto dal camorrista con i politici e gli imprenditori una definitiva minaccia per il loro potere e affari e partirono all'attacco sterminando sistematicamente gli uomini della Nuova Camorra Organizzata, minacciando i dorotei campani per goderne dei favori, assediando gli imprenditori per sciogliere il nodo che li legava a Cutolo. "Se vuole sapere come andò dopo, glielo dico...". Ciro Cirillo è un fiume in piena. "La verità è che io sono stato umiliato, mortificato. Perché? E me lo chiede. Ero sulla cresta dell'onda. Sarei diventato ancora presidente della Regione. Avrei gestito la ricostruzione della regione. Sarei stato eletto in Parlamento. Avrei fatto il ministro. Beh, quanto meno il sottosegretario. Invece accadde che dopo la liberazione mi fecero sapere che era meglio che non mi facessi più vedere alle riunioni di partito. Nomi non ne faccio, no. Sono personaggi in auge e nomi non ne faccio. Comunque, uno di questi signori mi avvicina e mi dice: “Ciro, con la tua presenza nuoci al partito...”. Capito, a me che per un soffio non ero stato accoppato dalle Br, dicono: fatti più in là, sparisci. No, non li odio. Certo, non posso considerare i Popolari di oggi dei miei amici". Il 16 marzo 1982 l'Unità pubblica in prima pagina la notizia che per la liberazione di Cirillo erano stati coinvolti i vertici dei servizi segreti e il capo della camorra Cutolo. E' la verità sostanziale affondata dalla falsità del documento che la raccoglie. Lo scoop è l'inizio della più imponente operazione di cancellazione di prove e di morte di testimoni che abbia mai funestato un caso politico-giudiziario. Muoiono i latitanti che trattarono dentro e fuori il carcere per conto di Cutolo. Muoiono gli ufficiali dei servizi segreti che accompagnarono la trattativa. Muore l'avvocato di Cutolo che faceva da messaggero. Muore l'ambasciatore delle Brigate Rosse. Muoiono suicidi i compagni di cella del camorrista. Le Brigate Rosse si incaricano di ammazzare Antonio Ammaturo che aveva ricostruito la vicenda in un dossier spedito al Viminale e scomparso per sempre. Nonostante le difficoltà, il giudice istruttore Carlo Alemi, il 28 luglio 1988 deposita la sua ordinanza di rinvio a giudizio e scrive delle trattativa e del "patto scellerato" stretto dalla Dc con la camorra. Antonio Gava è il ministro degli Interni della Repubblica nel governo presieduto da Ciriaco De Mita. Che tuonerà: "Alemi è un giudice che si è posto fuori del circuito istituzionale" (Alemi è un uomo gentile e riservato. E lo è rimasto anche dinanzi alla persecuzione e i processi disciplinari che ha dovuto subire per quella sua indagine. Oggi è presidente del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere). E' a suo agio Ciro Cirillo quando parla del processo. "Quello non era un processo, fu un tentativo di mettere in difficoltà il mio amico Antonio Gava. Lei sa che cosa disse la sentenza? Disse: “E' stato impossibile accertare la verità”. Vede che quei quaranta fogli che ho lasciato nella cassaforte del mio notaio, prima o poi, torneranno utili?"

Chi trattò con la camorra per salvare Cirillo? Forse nessuno, scrive Paolo Comi l'1 Agosto 2017 su "Il Dubbio". Il vecchio assessore democristiano è morto domenica a 96 anni. Fu al centro di un mistero mai risolto e di gigantesche polemiche. A 96 anni, domenica, è morto Ciro Cirillo, gran democristiano anni 70 in Campania. Aveva sessant’anni, il 21 aprile del 1981, quando un commando delle Br lo aspettò sotto casa, a Torre del Greco, la sera, all’ora di cena, e appena la sua auto si fermò, il commando iniziò a sparare, come si faceva in quegli anni. Restarono sull’asfalto, morti stecchiti, il suo autista e la guardia del copro, un maresciallo dei carabinieri. Mentre il suo segretario particolare, un ragazzo di trent’anni, si salvò, ma con la gamba maciullata. Lui restò illeso. I brigatisti lo sollevarono di peso, lo gettarono nel cassone d’un furgone e lo portarono nella prigione del popolo. Li guidava un certo Giovanni Senzani, che era stato un consulente del ministero di giustizia, era uno studioso, un sociologo. Ala militarista delle Br. Da quel giorno iniziarono mesi di fuoco, paragonabili forse solo ai due mesi di tre anni primi, quelli celebri del rapimento di Aldo Moro nel 1978. Diamo un’occhiata alle date che separano l’inizio di aprile all’inizio di agosto del 1981. 4 aprile, notte, una strada di periferia a Milano, al polizia intercetta Mario Moretti ed il professor Enrico Fenzi che stanno andando a trovare un esponente della mala che loro non sanno essere un confidente della questura. Moretti e Fenzi vengono bloccati, immobilizzati e disarmati. Moretti è considerato il capo assoluto delle Br, l’erede di Curcio, il cervello del sequestro Moro e anche l’uomo che ha sparato al presidente della Dc. Fenzi è uno dei leader dell’ala militare delle Br, e Moretti è in lite con lui. Fatto sta che le Br sono decapitate. Prendono il comando Barbara Balzerani, che guida i movimentisti, e, appunto, Senzani del quale abbiamo già parlato come leader dei militaristi. Però tutto si può dire meno che l’arresto di Moretti abbia indebolito l’organizzazione. Passano poco più di due settimane dal colpo a favore della polizia e Senzani risponde. 21 aprile, rapito Ciro Cirillo. 20 maggio, Porto Marghera, un commando, pare guidato da Antonio Savasta, entra in casa di un dirigente del Petrolchimico della Montedison, un certo Giuseppe Taliercio, e se lo porta via. Due settimane dopo un altro dirigente d’azienda, Renzo Sandrucci, uomo Alfa Romeo, viene sequestrato a Milano. È il 3 giugno. La settimana successiva, il 10 giugno, tocca a a Roberto Peci, che è il fratello di Patrizio Peci, il primo pentito della storia delle Br. Roberto non ha neanche 30 anni. Il suo rapimento è una vendetta trasversale. A questo punto le Brigate Rosse si trovano ad avere contemporaneamente nelle loro mani quattro prigionieri. Un giorno sì e uno no arrivano proclami, dichiarazioni, confessioni, fotografie, richieste di riscatto. E le azioni militari non si limitano alla gestione delle prigioni del popolo e agli interrogatori. Si spara, si ferisce, si uccide per strada. Negli stessi giorni dei quattro rapimenti vengono uccisi Raffaele Cinotti, Mario Cancello, Luigi Carbone, Sebastiano Vinci. Ciascuno in un giorno diverso e in un luogo diverso: tutti e quattro poliziotti. Era quello il clima in quegli anni. Non è facile crederci, magari, ma la lotta politica avveniva in questo clima qui. Eppure non prevaleva la pulsione repressiva, illiberale. Pensate che in quegli stessi anni il Parlamento approvava le leggi- Gozzini, e cioè una serie di norme, che oggi vengono considerate dai più ultraliberali, che attenuano le pene, introducono premi e semilibertà e misure alternative al carcere…

I quattro sequestri hanno esiti diversi. Il 5 luglio si conclude tragicamente il sequestro di Taliercio. L’ingegnere viene ucciso in modo barbaro. L’autopsia stabilisce che era ferito, aveva dei denti rotti e non mangiava da cinque giorni. Taliercio si era rifiutato di collaborare, probabilmente aveva mantenuto un atteggiamento di sfida. Il processo per la sua morte si concluderà con tre condanne all’ergastolo per tre brigatisti poco conosciuti, mentre il leader della colonna, il romano Antonio Savasta, che collabora con gli inquirenti, se la cava con dieci anni. Il nome di Taliercio, chissà perché, scompare dal Pantheon degli eroi di quegli anni. Non so quanti siano gli italiani che oggi, se gli chiedi a bruciapelo chi era Taliercio, sono in grado di rispondere. Temo poche centinaia. Il 23 e il 24 luglio, nel giro di poche ore, si concludono positivamente il sequestro Sandrucci e quello Cirillo. Vengono liberati tutti e due. Per tutti e due è stato pagato un riscatto. Pochi giorni dopo, il 3 agosto, la notizia atroce dell’uccisione di Roberto Peci, che ha una figlioletta di un anno, viene processato dal tribunale dei terroristi davanti a una telecamera, e poi, davanti alla telecamera, ucciso con una mitraglietta. La cassetta di questo obbrobrio viene mandata ai giornali. Di suo fratello Patrizio, che era l’obiettivo di questa spietatezza, non si saprà mai più niente. Ha cambiato nome, ha cambiato connotati – pare – con una operazione di chirurgia plastica, vive in una località sconosciuta. Ora dovrebbe avere un po’ meno di settant’anni. Di come si sia ottenuta la liberazione di Sandrucci non si sa molto e non si parla molto. La liberazione di Cirillo invece solleva un pandemonio di polemiche. Questo Cirillo è l’ex presidente della Regione, è un uomo forte della cosiddetta corrente del Golfo, cioè quella corrente democristiana che fa capo ad Antonio Gava e che è il braccio napoletano dei dorotei. Cirillo, al momento del sequestro, è l’assessore all’urbanistica della Campania e si occupa dell’immenso affare della ricostruzione dopo il terremoto del 1980. I giornali raccontano che per liberarlo, il suo partito, che appena tre anni prima non ha voluto trattare con le Br per salvare Moro, ha trattato invece, eccome, non solo con le Br ma anche con la camorra di Raffaele Cutolo che avrebbe fatto da intermediaria. Non si saprà mai se è vero. Si sa che un riscatto di un miliardo e 400 milioni di lire (cifra molto alta per quell’epoca, quando un’automobile di media cilindrata costava circa quattro-cinque milioni) è stato pagato a Roma, il 21 luglio, all’interno di un tram (il numero 19) che va dalla stazione Termini a Centocelle. I soldi li porta in un borsone un amico di Cirillo e li consegna a Giovanni Senzani in persona, che acchiappa la borsa, scende al volo da un tram e vola via con una Fiat 128 che lo aspetta alla fermata. La Dc raccolse i soldi? Il segretario democristiano Flaminio Piccoli sapeva? E Antonio Gava?

L’anno dopo l’Unità, cioè il giornale del Pci, pubblica uno scoop clamoroso: è stato il ministro Vincenzo Scotti in persona a trattare con la camorra, anzi è andato personalmente in carcere a discutere con Raffaele Cutolo. E’ una bomba atomica sulla politica italiana. Ma poche ore dopo l’uscita del giornale si scopre che il documento che accusa Scotti è falso. E’ una contraffazione realizzata da un certo Gino Rotondi (che non si saprà mai se lavorava per la camorra, o per i servizi segreti, o se era un mitomane) che la consegna a una giovanissima cronista del giornale dei comunisti. Lo scandalo a quel punto si rovescia e travolge tutti i dirigenti dell’Unità, a partire dal direttore, il giovane Claudio Petruccioli, che si dimette dopo poche ore, e persino qualche dirigente del Pci, e precisamente il vice di Berlinguer, Alessandro Natta, che si dimette anche lui dal suo incarico. Il capogruppo Giorgio Napolitano prende la parola alla Camera e chiede scusa a nome del partito e del giornale. Allora le cose andavano così, a voi verrà da sorridere ma è la verità: se un giornale pubblicava una notizia falsa (cosa che oggi avviene quasi tutti i giorni su moltissimi giornali) poi era un casino e addirittura il direttore ci rimetteva il posto. Non potevi neppure mettere in pagina delle intercettazioni un pop’ contraffatte, perché rischiavi grosso…Il caso Cirillo finì così. La Dc se la cavò. Nessuno mai seppe la verità. Recentemente Giovanni Senzani – che oggi è libero e un paio d’anni fa ha presentato un suo film, pare piuttosto bello, a Locarno – in una intervista al “Garantista” ha giurato che non ci fu nessuna trattativa né con la camorra né con la Dc. Che pagarono i parenti di Cirillo. Lui, Cirillo, una volta libero fu costretto a ritirarsi dalla politica. In un’intervista a Repubblica disse che la verità l’aveva detta a un notaio e che sarebbe diventata pubblica dopo la sua morte, Cioè ora. Poi però smentì, e disse che non c’era nessun segreto. Adesso aspettiamo un paio di giorni per vedere se esce fuori ‘ sto notaio. Altrimenti ci dovremo rassegnare all’idea che probabilmente furono davvero i parenti di Cirillo a tirare fuori il miliardo e rotti e che la Dc non c’entrava niente.

Le voci della strage. Stazione di Bologna. Due giovanissimi cameramen arrivano sul luogo dell'attentato e documentano l'inferno: polvere, sangue, disperazione, rabbia e stupore. Quaranta minuti choccanti nel documentario di History Channel. Online su L'Espresso i minuti iniziali, con le prime registrazioni della sala operativa e il sonoro originale dei soccorritori, scrive Gianluca De Feo il 30 luglio 2007 su "L'Espresso". Erano passati pochi minuti e nessuno riusciva a capire. Perché sembrava incredibile. Il boato era stato sentito in ogni angolo della la città. Poi per pochi secondi il silenzio. Ma le voci che lo avevano seguito parlavano di tanti morti: una decina, forse trenta. Una cifra impensabile: trenta morti alla stazione, nel cuore di Bologna, nei giorni dell'esodo d'agosto. Tutti correvano verso la piazza dilaniata: baristi con il grembiule addosso, cameriere con la divisa di una volta, operai in tuta blu, carabinieri con la cravatta da cerimonia. Per coprire i corpi travolti nel parcheggio dei taxi usavano le tovaglie. E subito l'incredibile diventava vero: i cadaveri erano decine. Alla fine saranno 85. Quella mattina del 2 agosto 1980, pochi minuti dopo le 10.25 nella piazza della Stazione arrivarono anche Enzo Cicco e Giorgio Lolli, meno di quarant'anni in due. Arrivarono di corsa, prima delle ambulanze. Da poche settimane i due ragazzi avevano cominciato a collaborare come cameramen per Punto Radio Tv, storica emittente nata da un'idea di Vasco Rossi e poi acquistata dal Pci. Le loro immagini documentano l'incredibile: la polvere, il sangue, la disperazione, la rabbia. Ma soprattutto lo stupore per quell'attentato così mostruoso che aveva sepolto turisti, pendolari, ferrovieri, baristi, ferrovieri. Perché nessuno anche in quei primi istanti ha mai dubitato sulla matrice della strage: l'odore dell'esplosivo era inconfondibile.

Adesso, 27 anni dopo, History Channel trasmette integralmente i quaranta minuti girati da Cicco e Lolli. "L'Espresso" anticipa i minuti iniziali, con le prime registrazioni della sala operativa e poi il sonoro originale dei soccorritori. Un filmato choccante, che costringe lo spettatore a immergersi tra le rovine e i suoni di quel dramma; tutto sembra uscire da un'atmosfera irreale. Pochi urlano e lo fanno solo per cercare di dare un ordine a quei soccorsi fatti solo di buona volontà; i più sembrano parlare a bassa voce, quasi sussurrare, come se l'enormità della tragedia gli avesse tolto il respiro. C'è chi piange, senza riuscire a fermarsi. E una folla crescente di persone che sente il bisogno di fare qualcosa, affrontando a mani nude quella montagna che ha preso il posto della sala di aspetto inghiottendo 85 vite. Da quella di Angela Fresu, che a ottobre sarebbe andata all'asilo, a quella di Luca Mauri, che forse aveva già comprato la cartella per la prima elementare; da Marina Trolese, di sedici anni che lotterà invano per dieci giorni, a quella di Antonio Montanari, che di anni ne aveva 86 e aveva già visto due guerre prima di venire massacrato da una guerra mai dichiarata.

History Channel ha mandato in onda questo documento alle 10.25, nell'orario esatto dell'esplosione. È un filmato che costringe a entrare nella polvere, obbligando ogni spettatore a fare i conti con la ferita più profonda nella storia della Repubblica: oggi come allora, le immagini tolgono il fiato. E spingono solo a chiedere: perché?

Strage di Bologna, la memoria divisa. I familiari (anche) contro i magistrati. La contestazione annunciata. Gelo con la Procura dopo lo stop all’inchiesta sui mandanti dell’esplosione del 2 agosto 1980 nella sala d’aspetto della stazione che causò 85 morti e duecento feriti, scrive Marco Imarisio il 1 agosto 2017 su "Il Corriere della Sera". L’autobus della linea 37, matricola 4030, tornerà per la prima volta in piazza Medaglie d’oro. Quella mattina divenne un simbolo, della tragedia, dei soccorsi, di una città che cerca di reagire fin da subito. Gli autisti tolsero i montanti e i corrimano per consentire l’ingresso delle barelle, e fissarono delle lenzuola ai finestrini, per impedire la vista dei corpi feriti, mutilati, oltraggiati. Non tornò più in servizio, per rispetto delle vittime. Non è mai stato formalmente dismesso, per rispetto della propria storia. Oggi, 37 anni dopo la strage, uscirà dal capannone di via Bigari, dove è stato conservato e curato come una reliquia laica, e verrà portato davanti alla stazione.

Lo strappo del 2005. Ci sarà il 37, memoria della Bologna che seppe resistere e rimase in piedi, per quanto colpita. Mancherà il resto, la concordia istituzionale, la condivisione del ricordo. Quest’anno come non mai. Succede spesso, il 2 agosto ha talvolta fatto più notizia per la contestazioni che per l’esercizio delle memoria. Nulla, neppure una apparenza di quiete, è stato più come prima dopo il 2005, quando gli abituali fischi contro gli esponenti del governo divennero bordate, lunghe quanto il discorso dell’allora vice primo ministro Giulio Tremonti e capaci di oscurarlo. Da allora non parla più nessuno, o quasi. È stato inventato lo spazio mattutino tra le mura del Comune, per ridare la voce alla politica nazionale, che nel momento più importante, l’unico che davvero conta, il corteo da piazza Nettuno alla stazione, il comizio alle 10.10 del presidente dell’Associazione familiari delle vittime seguito dal minuto di silenzio e dal discorso del sindaco, è sempre stata costretta all’anonimato e al silenzio, accompagnato dal rumore di fondo dei fischi.

L’attacco al governo. Ma questa volta si è passati alle parole. Che spesso sono pietre, per definizione e contenuto. «Il governo si è comportato in maniera assurda e truffaldina nei confronti delle vittime. I suoi rappresentanti in piazza e sul palco non sono graditi. Non li vogliamo accanto a noi». Paolo Bolognesi, il deputato Pd che dal 1996 è il volto dell’Associazione familiari, ci è andato pesante. Il suo canone prevede da sempre dichiarazioni roboanti. Ma per questo 2 agosto ha scelto lo scontro frontale, in polemica con il suo segretario Matteo Renzi, che da presidente del Consiglio promulgò la direttiva per rendere pubbliche le carte sugli anni della strategia della tensione, con il sottosegretario Claudio De Vincenti che lo scorso anno, alla cerimonia «privata» in Comune promise che tutto sarebbe stato risolto entro l’anniversario del 2017. «Invece continuano a fare il gioco delle tre carte. Ancora lo scorso maggio ho chiesto alla presidenza del Consiglio la lista degli iscritti alla Gladio nera. Mi è stato risposto che c’è un problema di privacy. Sembra che la verità interessi solo a noi».

I dubbi sui mandanti. Il bersaglio inedito degli strali di Bolognesi e dell’Associazione è la magistratura. Fino a oggi l’asse tra i familiari e i magistrati aveva retto seppur con difficoltà alle scosse del tempo e al paradosso di un processo per strage chiuso a differenza di molti altri con colpevoli accertati, i terroristi neri Francesca Mambro, Valerio Fioravanti e Luigi Ciavardini, ma che ha lasciato dietro di sé una scia di dubbi e illazioni su chi davvero avesse progettato quella atrocità. La ferita non si rimargina mai, come le feroci discussioni, eufemismo, tra chi inneggia a quella sentenza contro gli allora giovani neofascisti dei Nuclei armati rivoluzionari e chi insiste a dire che è sbagliata, che quei «ragazzini» non c’entrano, e dietro l’esplosione c’è il terrorismo medio-orientale, la Libia o qualche intrigo internazionale. Il gelo con la procura è sceso a marzo, dopo la richiesta di archiviazione dell’inchiesta sui mandanti e l’invio per competenza a Roma del filone che riguarda l’eventuale partecipazione all’attentato dell’ex Nar Gilberto Cavallini. Non si è mai sciolto, anzi.

Il testo del discorso. E qui di parole ne sono bastate poche, tante quante lo slogan scelto per il manifesto della commemorazione di quest’anno: La storia non si archivia, la forza della verità non si può fermare, la giustizia faccia la sua parte. Il messaggio è arrivato forte e chiaro al procuratore capo Giuseppe Amato, che ne ha preso atto. «Non credo che la nostra presenza possa riscuotere un apprezzamento», ha detto, seguito a ruota dal procuratore aggiunto Valter Giovannini, che rappresenta la memoria storica della procura bolognese. «Sono d’accordo con la non partecipazione alla commemorazione in stazione». La mediazione del sindaco Virginio Merola, che invece appoggia le ragioni della protesta contro il governo, ha strappato ai magistrati la promessa di una presenza in Comune, in quella che si presenta come una vera e propria riserva indiana degli ospiti sgraditi. Bolognesi ha fatto un altro strappo non inviando il testo del suo discorso a sindaco e prefetto, come invece accade ogni anno da 37 anni. Si annunciano sorprese. Era quasi meglio quando c’erano i fischi.

Strage di Bologna, l’articolo di Enzo Biagi: «Quante trame di vita su quei binari». Il 2 agosto 1980 una bomba esplose alla stazione di Bologna, nel più grave atto terroristico avvenuto in Italia nel dopoguerra. I morti furono 85. Questo è il pezzo che Enzo Biagi scrisse sul «Corriere della Sera». Ripubblichiamo il testo che Enzo Biagi scrisse il 2 agosto 1980 sulla strage alla stazione di Bologna. "Nell’aria bruciata d’agosto, si è alzata una nuvola di polvere sottile, ha invaso il piazzale, sul quale mi sono affacciato tante volte. Bastava la voce dell’altoparlante, con quegli inconfondibili accenti, per farmi sentire che ero arrivato a casa. Adesso la telecamera scopre l’orologio, con le lancette ferme sui numeri romani: le dieci e venticinque. Un attimo, e molti destini si sono compiuti. Ascolto le frasi che sembrano monotone, ma sono sgomente, di Filippini, il cronista della TV, costretto a raccontare qualcosa che si vede, a spiegare ragioni, motivi che non si sanno: lo conosco da tanti anni, e immagino la sua pena. Dice: «Tra le vittime, c’è il corpo di una bambina». Mi vengono in mente le pagine di una lettura giovanile, un romanzo di Thornton Wilder, «Il ponte di San Louis Rey», c’era una diligenza che passava su un viadotto, e qualcosa cedeva, precipitavano tutti nel fiume, e Wilder immaginava le loro storie, chi erano, che cosa furono. Quell’atrio, quelle pensiline, il sottopassaggio, il caffè, le sale d’aspetto che odorano di segatura, e nei mesi invernali di bucce d’arancio, mi sono consuete da sempre: con la cassiera gentile, il ferroviere che ha la striscia azzurra sulla manica, che assegna i posti, e mentre attendiamo mi racconta le sue faccende, quelle del suocero tedesco che vuol bere e di sua moglie che dice di no, e la giornalaia, che scherza: «Ma come fa a leggere tutta questa roba?», e vorrei sapere qualcosa, che ne è stato di loro, e li penso, ma non so pregare. Si mescolano i ricordi: le partenze dell’infanzia per le colonie marine dell’Adriatico, i primi distacchi, e c’erano ancora le locomotive che sbuffavano, i viaggi verso Porretta per andare dai nonni, e le gallerie si riempivano di faville, e bisognava chiudere i finestrini, e una mattina, incolonnato, mi avviai da qui al battaglione universitario, perché c’era la guerra. Ritornano, con le mie, le vicende della stazione: quando, praticante al «Carlino», passavo di notte al Commissariato per sapere che cos’era capitato, perché è come stare al Grand Hotel, ma molto, molto più vasto, gente che va, gente che viene, e qualcuno su quei marciapiedi ha vissuto la sua più forte avventura: incontri con l’amore, incontri con la morte. Passavano i treni oscurati che portavano i prigionieri dall’Africa, che gambe magre avevano gli inglesi, scendevano le tradotte di Hitler che andavano a prendere posizione nelle coste del Sud, e conobbi una Fraulein bionda in divisa da infermiera alla fontanella, riempiva borracce, ci mettemmo a parlare, chissà più come si chiamava, com’è andata a finire. Venne l’8 settembre, e davanti all’ingresso, dove in queste ore parcheggiano le autoambulanze, si piazzò un carro armato di Wehrmacht; catturavano i nostri soldati, e li portavano verso lo stadio, che allora si chiamava Littoriale. Un bersagliere cercò di scappare, ma una raffica lo fulminò; c’era una bimbetta che aveva in mano la bottiglia del latte, le scivolò via, e sull’asfalto rimase, con quell’uomo dalle braccia spalancate, una chiazza biancastra. Cominciarono le incursioni dei «liberators», e volevano sganciare su quei binari lucidi che univano ancora in qualche modo l’Italia, ma colpirono gli alberghi di fronte, qualche scambio, i palazzi attorno, le bombe caddero dappertutto, e vidi una signora con gli occhialetti d’oro, immobile, composta, seduta su un taxi, teneva accanto una bambola, pareva che dormisse, e l’autista aveva la testa abbandonata sul volante. «Stazione di Bologna», dice una voce che sa di Lambrusco e di nebbia, di calure e di stoppie, di passione per la libertà e per la vita, quando un convoglio frena, quando un locomotore si avvia. Per i viaggiatori è un riferimento, per me un’emozione. Ecco perché mi pesa scrivere queste righe, non è vero che il mestiere ti libera dalla tristezza e dalla collera, in quella facciata devastata dallo scoppio io ritrovo tanti capitoli dell’esistenza dei mici. «Stazione di Bologna»: quante trame sono cominciate e si sono chiuse sotto queste arcate di ferro. Quanti sono stati uccisi dallo scoppio, o travolti dalle macerie: cinquanta, sessanta, chissà? Credere al destino, una caldaia che esplode, un controllo che non funziona, una macchina che impazzisce, qualcuno che ha sbagliato, Dio che si vendica della nostra miseria, e anche l’innocente paga? Anche quei ragazzi nati in Germania che erano passati di qui per una vacanza felice, ed attesa, il premio ai buoni studi o al lavoro, una promessa mantenuta, un sogno poetico realizzato: «Kennst Du das Land, wo die Zitronen bluhen?», lo conosci questo bellissimo e tremendo Paese dove fioriscono i limoni e gli aranci, i rapimenti e gli attentati, la cortesia e il delitto, dovevano pagare anche loro? Forse era meglio vagheggiarlo nella fantasia. Ci sono genitori che cercano i figli; dov’erano diretti? Perché si sono fermati qui? Da quanto tempo favoleggiavano questa trasferta? E le signorine del telefono, già, che cosa è successo alle ragazze dal grembiule nero che stavano dietro il banco dell’interurbana: chi era in servizio? Qualcuna aveva saltato il turno? Che cosa gioca il caso? Poi, l’altra ipotesi, quella dello sconosciuto che deposita la scatola di latta, che lascia tra le valigie o abbandonata in un angolo, magari per celebrare un anniversario che ha un nome tetro, «Italicus», perché vuol dire strage e un tempo «Italicus» significava il duomo di Bolsena, le sirene dei mari siciliani, i pini di Roma, il sorriso delle donne, l’ospitalità, il gusto di vivere di un popolo. Non mi pare possibile, perché sarebbe scattato l’inizio di un incubo, la fine di un’illusione, perché fin lì, pensavamo, non sarebbero mai arrivati. «Stazione di Bologna», come un appuntamento con la distruzione, non come una tappa per una vacanza felice, per un incontro atteso, per una ragione quotidiana: gli affari, i commerci, le visite, lo svago. Come si fa ad ammazzare quelle turiste straniere, grosse e lentigginose, che vedono in ognuno di noi un discendente di Romeo, un cugino di Caruso, un eroe del melodramma e della leggenda, che si inebriano di cattivi moscati e di sole, di brutte canzoni? Come si fa ad ammazzare quei compaesani piccoli e neri, che emigrano per il pane e si fermano per comperare un piatto di lasagne, che consumano seduti sulle borse di plastica? Come si fa ad ammazzare quei bambini in sandali e in canottiera che aspettano impazienti, nella calura devastante, la coca cola e il panino e non sanno che nel sotterraneo, non lo sa nessuno, c’è un orologio che scandisce in quei minuti la loro sorte? Vorrei vedere che cosa contengono quei portafogli abbandonati su un tavolo all’istituto di medicina legale: non tanto i soldi, di sicuro, patenti, anche dei santini, una lettera ripiegata e consumata, delle fotografie di facce qualunque, di quelle che si vedono esposte nelle vetrine degli «studi» di provincia: facce anonime, facce umane, facce da tutti i giorni. Dicono i versi di un vero poeta, che è nato da queste parti e si chiama Tonino Guerra: «A me la morte / mi fa morire di paura / perché morendo si lasciano troppe cose che poi non si vedranno mai più: / gli amici, quelli della famiglia, i fiori / dei viali che hanno quell’odore / e tutta la gente che ho incontrato / anche una volta sola». Sono facce che testimoniano questa angoscia, ma nessuno ha potuto salvarle. «Stazione di Bologna». D’ora in poi non ascolteremo più l’annuncio con i sentimenti di una volta; evocava qualcosa di allegro e di epicureo, tetti rossi e mura antiche, civiltà dei libri, senso di giustizia, ironia, rispetto degli altri, massi, anche la tavola e il letto, il culto del Cielo e il culto per le buone cose della Terra. Ora, ha sapore di agguato e di tritolo. Perché il mondo è cambiato e in peggio: i figli degli anarchici emiliani li battezzavano Fiero e Ordigno, quelli dei repubblicani Ellero e Mentana, quelli dei socialisti Oriente e Vindice, quelli dei fascisti Ardito e Dalmazia, una gli insegnavano a discutere a mensa imbandita. Si picchiavano anche, si sparavano, talvolta, ma il loro ideale era pulito e non contemplava l’agguato: Caino ed Erode non figuravano tra i loro maestri. «Stazione di Bologna»: si può anche partire, per un viaggio senza ritorno".

L'Associazione delle vittime: «Lo Stato non vuole la verità sulla strage di Bologna». «Se si sapessero come sono andate veramente le cose si innescherebbe un effetto a catena che a molti farebbe paura» afferma il presidente Paolo Bolognesi. Sulle polemiche dopo l'archiviazione dell'indagine sui mandanti: «Anche noi abbiamo il diritto di critica, non parliamo solo in tribunale», scrive Federico Marconi l'1 agosto 2017. «L’Italia non ha mai fatto i conti con il proprio passato. È una costante: è stato così per il fascismo, lo è oggi per la strategia della tensione. Ci sono ancora dei grumi, delle situazioni e degli apparati che non si possono assolutamente svelare. Se così fosse ci sarebbe un effetto a catena che a molti farebbe paura». Paolo Bolognesi, presidente dell’Associazione delle vittime della strage di Bologna e deputato Pd, non si nasconde dietro frasi di circostanza quando si parla dell’attentato che il 2 agosto 1980 sconvolse Bologna e l’Italia. La bomba che scoppiò quel giorno alla stazione fece 85 morti e oltre 200 feriti: la più grande strage che l’Italia abbia conosciuto in tempo di pace. Nonostante lacune nelle indagini e depistaggi di cui furono responsabili dirigenti del Sismi, dopo un tormentato iter giudiziario sono stati individuati i responsabili dell'eccidio: nel 1995 la Cassazione ha condannato in via definitiva all’ergastolo Francesca Mambro e Giusva Fioravanti, membri del gruppo di estrema destra Nuclei Armati Rivoluzionari.

Presidente Bolognesi, dopo 37 anni si continuano ancora a cercare i mandanti della strage.

«Ancora non sappiamo tutta la verità e ci impegneremo fino a che non verrà fatta. Abbiamo cercato una sponda negli ultimi governi, e in un primo momento sembrava che l’avessimo trovata: nel 2015 è stato stipulato un accordo per la digitalizzazione degli archivi con il Ministero della Giustizia e quello dei Beni Culturali. Questa è una metodologia di indagine e di analisi che permetterebbe di fare chiarezza sui mandanti della strage. La digitalizzazione viene però osteggiata, boicottata, con tutte le motivazioni più incredibili. Nei tre anni successivi all’accordo non è stata digitalizzata una pagina. Dopo i miei reclami è stato fatto un comunicato congiunto in cui si diceva che gli archivi non possono essere divulgati per ricerche di natura giudiziaria, una cosa totalmente assurda. Ma questi sono messaggi che vogliono rassicurare qualcuno che è un po' preoccupato, sicuramente non i familiari delle vittime. Poi c'è la direttiva Renzi (con cui nel 2014 è stato deciso di declassificare i documenti riguardanti le stragi, ndr), che tante speranze aveva dato alle associazioni: ma gli unici che vogliono che funzioni sono i familiari delle vittime, non certo gli apparati dello Stato».

Quali difficoltà ci sono in questa partita che si gioca negli archivi?

«Innanzitutto abbiamo un blocco costante e metodico da parte degli apparati dello Stato. Sembrerà incredibile, ma sia dal Ministero della Difesa che dal vecchio Ministero dei Trasporti sono spariti gli archivi. Incredibile ma vero, il Ministero della Difesa dal 1980 al 1986 non ha nulla che riguardi i voli e le navi che attraversavano l'Italia e il Tirreno. Ma se non si trovano questi archivi fai qualcosa, fai un'inchiesta per capire dove sono andati a finire. Nessuno però fa una piega: questo dei documenti è l’ultimissimo dei loro problemi».

Per quale motivo ci sono ancora tutte queste resistenze da parte dello Stato?

«Perché evidentemente ci sono situazioni e apparati che non possono essere svelati. Nell'ambito della direttiva Renzi ultimamente ho chiesto i nomi degli appartenenti ai Nuclei Armati di Difesa dello Stato, la cosiddetta Gladio Nera, che molto probabilmente è implicata in questi attentati e non solo. Mi è stato risposto che non me li potevano dare per ragioni di privacy».

A marzo la Procura di Bologna ha archiviato l’indagine su Licio Gelli come mandante e finanziatore della strage. Non avete risparmiato critiche ai procuratori bolognesi.

«La procura deve ricordarsi che anche le vittime hanno il diritto di critica, non parliamo solo in tribunale. L'archiviazione è stata fatta su una serie di “non indagini” che lasciano perplessi. Sul finanziamento di Gelli agli stragisti si sono basati su una relazione del 1984, non su elementi più recenti o sulle acquisizioni che noi abbiamo presentato, che non sono stati neanche guardate. C'è anche una perla nella richiesta di archiviazione: i pm scrivono che Mambro e Fioravanti erano degli “spontaneisti”. Questo vuol dire non tenere nemmeno conto della sentenza del 1995 con cui i due membri dei Nar sono stati condannati. Questa cosa ci lascia molto perplessi. Noi abbiamo presentato un dossier di mille pagine, la procura ha chiesto l'archiviazione a cui ci siamo opposti e a ottobre vedremo cosa deciderà il Gip. Poi se il fascicolo verrà archiviato vedremo quali parti si potranno sviluppare per far riaprire il processo».

Dopo tutte questi attacchi a governo e procura, in che clima si svolgeranno le manifestazioni per l’anniversario della strage?

«Bologna è una città estremamente democratica, i cittadini hanno avuto sempre un comportamento esemplare nei confronti di chiunque abbia partecipato alla commemorazione. Non c'è stato nessun ministro, neanche nei momenti più delicati, che sia stato contestato durante il corteo o le manifestazioni. Può darsi che qualche volta, mentre parlavano dal palco, siano stati fischiati. Ma questo per altre ragioni, come per le promesse non mantenute».

Nonostante si siano individuati i responsabili della strage, periodicamente si torna a parlare della “pista palestinese” (secondo cui la bomba è stata una ritorsione dell’Olp per la rottura del Lodo Moro, ndr). Per quale motivo?

«La “pista palestinese” non porta da nessuna parte. Riportarla agli onore della cronaca fa parte di operazioni per confondere le idee alla gente, per fargli uscire dalla testa personaggi come Francesca Mambro e Giusva Fioravanti. I due responsabili della strage, condannati a 8 ergastoli per i loro 98 omicidi, hanno già finito di scontare la pena. Sembra una grande barzelletta, ma è quello che ha fatto lo Stato italiano. È una sorta di do ut des».

Può spiegarsi meglio?

«C’è un silenzio eccezionale da parte dello Stato nei confronti di questi personaggi. Non dico che dovrebbero essere in galera, ma almeno non dovrebbero aver finito di scontare la pena dopo tutto il sangue che hanno versato. Inoltre è appurato come abbiano continuato ad avere frequentazioni poco limpide. Mambro e Fioravanti, durante il periodo di liberà condizionale, avevano contatti con Gennaro Mokbel, uomo della Banda della Magliana e grande riciclatore di soldi sporchi. Addirittura c'è un’intercettazione telefonica di Mokbel in cui dice che “liberare quei due dalla galera” gli è costato un milione e duecentomila euro. È incredibile che nessuno abbia indagato su queste situazioni. Mambro e Fioravanti erano in libertà condizionale e doveva essere sospesa immediatamente: per evitare, come poi è successo, che avessero contatti con malavitosi. Per Mambro e Fioravanti si è mosso il mondo della Banda della Magliana, non so che si vuole di più: probabilmente avrebbero dovuto fare un’altra strage affinché lo Stato li rispedisse in galera».

Le stragi senza colpevoli dell'estremismo nero. Franco Freda fa l’editore ad Avellino. Fioravanti e Mambro hanno scontato due mesi per ogni persona uccisa. Abbatangelo gode addirittura del vitalizio, scrive Paolo Biondani il 2 agosto 2017 su "L'Espresso". Sono rimasti quasi tutti impuniti. E oggi non si sentono vinti, ma vincitori. Sono i precursori e gli ispiratori dei movimenti neonazisti e neorazzisti di oggi. Se le Brigate rosse erano contro lo Stato, che le ha sgominate con centinaia di arresti e condanne, il terrorismo di destra era dentro lo Stato. Gli stragisti hanno trovato complicità e protezioni nei servizi e negli apparati di polizia e di giustizia. Così troppe bombe nere sono rimaste senza colpevoli. E i teorici della violenza hanno potuto riproporsi come cattivi maestri. Il più famoso dei terroristi neri, Franco Giorgio Freda, è libero da anni. Vive ad Avellino con una giovane scrittrice e fa ancora l’editore di ultradestra, con un sito che lo celebra come «un pensatore» da riscoprire: il padre «preveggente» di un «razzismo morfologico» da opporre «alla mostruosità del disegno di una società multietnica». Freda è stato condannato in tutti i gradi di giudizio per 16 attentati con decine di feriti che nel 1969 aprirono la strategia della tensione: bombe contemporanee sui treni delle vacanze, all’università di Padova, in stazione, in fiera e in tribunale a Milano. La sua casa editrice però parla solo dell’assoluzione in appello per piazza Fontana (17 morti, 88 feriti), per insufficienza di prove (e abbondanza di depistaggi). Liberato nel 1986, Freda si è rimesso a indottrinare neonazisti fondando un movimento chiamato Fronte Nazionale: riarrestato, è stato difeso dall’avvocato Carlo Taormina e nel 2000 la Cassazione gli ha ridotto la condanna a tre anni per istigazione all’odio razziale. Dopo di che è tornato libero. Il suo braccio destro, Giovanni Ventura, che aveva confessato gli attentati del 1969 che prepararono piazza Fontana, non ha mai scontato la condanna: è evaso nel 1978 e ha trovato rifugio sotto la dittatura in Argentina, che ha rifiutato di estradarlo. A Buenos Aires è diventato ricco con un ristorante per vip, fino alla morte per malattia nel 2010. Nell’ultimo processo su piazza Fontana, la sentenza conclude che Freda e Ventura erano colpevoli, ma le nuove prove sono state scoperte troppo tardi, dopo l’assoluzione definitiva. Per la catena di bombe nere che hanno insanguinato l’Italia fino agli anni Ottanta, oggi in carcere si contano solo due condannati. A Opera è detenuto Vincenzo Vinciguerra, esecutore della strage di Peteano, un irriducibile che rifiuta la scarcerazione e oggi accusa i servizi. Il secondo è Maurizio Tramonte, condannato solo ora per la strage di Brescia, commessa nel 1974 mentre collaborava con il Sid del generale Maletti (che è libero in Sudafrica). Tramonte è stato arrestato in giugno dopo l’ultima fuga in Portogallo. Il suo capo, Carlo Maria Maggi, leader stragista di Ordine Nuovo nel Triveneto, condannato per la strage Brescia (8 morti, 102 feriti), sconta la pena a casa sua, perché ha più di 80 anni ed è malato. Sconti e benefici di legge hanno cancellato il carcere anche per Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, i fondatori dei Nar (con Massimo Carminati), che dopo l’arresto hanno confessato più di dieci omicidi e sono stati condannati anche per la strage di Bologna (85 vittime), nonostante le loro proteste. E nonostante i depistaggi: due ufficiali del Sismi fecero trovare armi ed esplosivi su un treno, nel 1981, per salvare i neri incolpando inesistenti terroristi esteri. Fioravanti e Mambro hanno ottenuto la semilibertà nel 1999. Paolo Bolognesi, presidente dei familiari delle vittime, notò «hanno scontato solo due mesi di carcere per ogni morte causata». Anni dopo Bolognesi, mentre parlava in una scuola di Verona, si vide attaccare da uno studente di destra poi arrestato come uno dei picchiatori che nel 2008 hanno ucciso a botte un ragazzo di sinistra. Per le carneficine nere le condanne si limitano a pochi esecutori. I mandanti e tutti gli altri complici sono sconosciuti. E per molte stragi, da piazza Fontana a Gioia Tauro all’Italicus, l’impunità è totale. A fare eccezione è la strage del treno di Natale (23 dicembre 1984, sedici morti, 267 feriti), che è costata l’ergastolo, tra gli altri, a Pippo Calò, il boss della cupola di Cosa Nostra trapiantato a Roma. Il procuratore Pierluigi Vigna parlò di «terrorismo mafioso»: un attacco allo Stato ripetuto nel 1992-93. Come custode dell’esplosivo usato dai mafiosi, è stato condannato un politico di destra: Massimo Abbatangelo, ex parlamentare del Msi. Scontati sei anni, ha poi beneficiato della cosiddetta riabilitazione, che cancella la sentenza dal certificato penale. E il 4 luglio scorso l’ex deputato con la nitroglicerina ha perfino riottenuto il vitalizio della Camera.

Morire di politica - Violenza e opposti estremismi nell'Italia degli anni '70, scrive “La Storia siamo noi" della Rai. 69 morti e più di mille feriti, 7.866 attentati e 4.290 episodi di violenza: sembra un bollettino di guerra, è invece il bilancio di una stagione politica tra le più drammatiche della prima Repubblica, quella che negli anni Settanta ha visto contrapposte l'estrema destra e l'estrema sinistra, il rosso e il nero. Mai come in quegli anni questi due colori hanno finito per dividere e accecare centinaia di migliaia di giovani di più generazioni, che si sono odiati e combattuti senza esclusione di colpi, trascinando il nostro Paese quasi alle soglie di una guerra civile. Una violenza che nasce nei cortei e nelle piazze, che diventa sempre più cieca, anche se ammantata di grandi ideologie.

Gli anni Settanta cominciano nel '68. Due episodi, accaduti entrambi a Roma, preludono all'esplosione di violenza degli anni che verranno: la "battaglia di Valle Giulia" (1 marzo 1968) e l'attacco dei militanti del Movimento Sociale all'Università "La Sapienza" (16 marzo 1968). 

L'episodio di Valle Giulia prende avvio da una manifestazione indetta per protestare contro lo sgombero della facoltà di Architettura, occupata il 29 febbraio dagli studenti. Sgomberata dalla polizia, chiamata dal rettore Pietro Agostino D'Avack, la facoltà resta presidiata. Il corteo di protesta si riunisce prima a Piazza di Spagna, per poi dirigersi a Valle Giulia con l'intento di liberare la facoltà dalle forze dell'ordine. Gli studenti attaccano la polizia lanciando sassi e altri oggetti contundenti, la battaglia dura diverse ore e alla fine il bilancio è di 228 fermi e 211 feriti di cui 158 tra le forze dell'ordine. Tra i partecipanti agli scontri troviamo il regista Paolo Pietrangeli (che all'episodio dedicò una canzone), Giuliano Ferrara (che rimase ferito), e Oreste Scalzone, fondatore e leader dei gruppi della sinistra extraparlamentare Potere Operaio e Autonomia Operaia. Ispirato dall'episodio di Valle Giulia, Pier Paolo Pasolini scrive la poesia Il PCI ai giovani in cui dichiara polemicamente di simpatizzare con gli agenti perché veri "figli di poveri"; è l'interpretazione del Sessantotto come di 'una cifrata rivolta della borghesia contro se stessa'.

Pochi giorni dopo la battaglia di Valle Giulia, il 16 marzo, circa 200 militanti del Movimento Sociale si presentano all'università di Roma 'La Sapienza' per dare una lezione al movimento studentesco: poiché è di sinistra, va fermato. A guidarli c’è anche il Segretario del partito Giorgio Almirante insieme allo stato maggiore dell'MSI eletto a Roma: Anderson e Caradonna. Decine di picchiatori aggrediscono gli studenti di sinistra che ripiegano nella facoltà di Lettere - sulla cui scalinata viene fotografato Almirante attorniato da picchiatori armati di bastoni? ma poi l'attacco viene respinto; i militanti del MSI si rifugiano nella facoltà di Giurisprudenza che viene circondata dagli studenti di sinistra che tentano di entrare. Dalle finestre i missini cominciano a tirare mobili e a lanciare suppellettili. Un banco, lanciato dall'ultimo piano, ferisce gravemente alla spina dorsale Oreste Scalzone che si salva per miracolo. I fascisti asserragliati dovranno uscire dall'università dentro i blindati della polizia.

Piazza Fontana: 12 dicembre 1969. Milano, ore 16,37 del 12 dicembre 1969, una bomba collocata in una valigetta esplode nella Banca Nazionale dell'Agricoltura a Piazza Fontana: 16 vite stroncate e 88 feriti gravi. Inizia in questi locali anneriti dal fumo la vera storia politica degli anni Settanta con la lunga escalation di sangue che l'ha contrassegnata. Quella di Piazza Fontana, insieme alla strage di Bologna, è uno degli attentati più gravi dell'Italia del Dopoguerra. «Simbolicamente quella deflagrazione, in un freddo pomeriggio del dicembre 1969, racchiude in sé tutto quanto accadrà dopo. Incancrenirà le ideologie, ridurrà i cervelli di migliaia di giovani ad agglomerati di pulsioni emotive e ribellistiche, polverizzerà i sentimenti in milioni di frammenti di vita, di odio e di amore, di voglie di cambiamento e desideri di distruzione. E, soprattutto, come un colpo d'ascia, taglierà in due tronconi le pulsioni di un Paese ancora acerbo. Sfumerà in due colori, il rosso e il nero, le vitalità di più di una generazione» (da Baldoni A, Provvisionato S., A che punto è la notte, Vallecchi, 2003, p. 18).

Non sarà l'unica strage, altre cinque insanguineranno l'Italia negli anni Settanta: Gioia Tauro (22 Luglio 1970), Questura di Milano (17 maggio 1973), Piazzale della Loggia a Brescia (28 maggio 1974), treno Italicus (4 agosto 1974), Stazione di Bologna ( 2 agosto 1980): 132 morti che ancora chiedono giustizia. Il 12 dicembre del 1970, durante la manifestazione per il primo anniversario della strage di Piazza Fontana, scoppiano incidenti, la polizia carica, un agente spara un candelotto lacrimogeno ad altezza uomo e uccide lo studente Saverio Saltarelli, 23 anni.

Il rapporto Mazza (1971). A lanciare per primo l'allarme su una degenerazione dello scontro politico è il Prefetto di Milano Libero Mazza in un lungo rapporto sulla situazione di Milano in cui denuncia gli estremismi sia di destra che di sinistra: nessuno però lo prende in adeguata considerazione. Il fascicolo ha per titolo: Situazione dell'ordine pubblico relativamente a formazioni estremiste extraparlamentari, ma passa alla cronaca e poi alla storia più semplicemente come 'Rapporto Mazza', dal nome del suo autore che per mesi verrà criticato dalla sinistra come allarmista. In realtà il 'Rapporto Mazza' era stato redatto nel dicembre del 1970, ma diventa pubblico il 16 aprile 1971, quando viene riportato dal «Giornale d'Italia». Si sostiene che la contestazione sta prendendo una brutta piega, e che esiste il rischio di un'insurrezione armata contro lo Stato. Mazza è bollato come 'fascista', nonostante il suo passato di partigiano, e negli slogan dei cortei viene apostrofato con violenza («Mazza, ti impiccheremo in piazza»). Nel rapporto fa riferimento anche al "Collettivo politico metropolitano", crogiuolo delle future Brigate Rosse, in cui milita Renato Curcio: «Il gruppo conta pochissimi aderenti e nel gennaio 1970 ha pubblicato un opuscolo di propaganda dal titolo "Collettivo". I suoi principali esponenti sono Renato Curcio studente universitario, Corrado Simioni impiegato da Mondatori e Franco Troiano impiegato alla Siemens. Rispetto alle organizzazioni politico-sindacali di tipo tradizionale, il movimento ha recentemente annunciato la formazione di nuclei, denominati "Brigate rosse", da inserire nelle fabbriche».

Il "giovedì nero" di Milano: 12 aprile 1973. In quegli stessi anni anche a destra si fa strada la violenza con esiti drammatici. Siamo a Milano, il 12 aprile 1973: il Movimento Sociale ha indetto una manifestazione 'contro la violenza rossa'; nel partito si avverte la necessità di fare qualcosa contro lo strapotere delle formazioni estremiste della sinistra extraparlamentare: è oltre un anno che il Movimento Sociale non riesce a tenere nessun comizio a Milano. Tra gli oratori chiamati per la manifestazione spicca il nome di Ciccio Franco, il leader calabrese del 'Boia chi molla', motto della rivolta avvenuta a Reggio Calabria nel luglio del 1970, scoppiata in seguito alla decisione di spostare il capoluogo di regione a Catanzaro. La manifestazione era stata autorizzata da tempo, ma viene revocata nella mattinata del 12 dal Prefetto Libero Mazza che vieta tutte le manifestazioni di carattere politico fino al giorno 25, anniversario della Liberazione. Ma, ricorda Maurizio Murelli, militante del MSI: «Il comizio si sarebbe fatto a qualsiasi costo, lo volesse il prefetto o no. Questa era la parola d'ordine per quanto riguardava il Movimento Sociale»; nel pomeriggio, verso le 17,30, si radunano presso la sede del MSI in Via Mancini alcune centinaia di giovani che si dirigono verso Piazza Tricolore; a loro si aggregano altri gruppi provenienti da Piazza Oberdan, altri ancora si attestano in Corso Concordia. Dopo che una delegazione del MSI, capitanata dal vicesegretario Franco Maria Servello insieme all'On. Franco Petronio, Ciccio Franco e Ignazio La Russa, allora Segretario regionale del Fronte della Gioventù, si era recata in Prefettura per protestare contro il divieto, a ridosso di Piazza Tricolore viene lanciata una bomba a mano SRCM che ferisce un agente ed un passante. Le forze dell'ordine intervengono per disperdere i manifestanti e in Via Bellotti un altro militante Vittorio Loi, 21 anni, lancia una seconda bomba a mano contro le forze dell'ordine uccidendo sul colpo l'agente Antonio Marino: originario di Caserta, faceva parte della Seconda compagnia del Terzo celere e avrebbe compiuto 23 anni a giugno. La sera stessa il Movimento Sociale mette una taglia sugli assassini e il giorno dopo si consegnano Vittorio Loi e Maurizio Murelli. La morte dell'agente Marino mette in discussione la convinzione, molto diffusa a sinistra, che ci sia una sorta di connivenza tra estremisti di destra e forze dell'ordine.

Roma 16 aprile 1973: il rogo di Primavalle. Tra gli innumerevoli fatti di sangue che contraddistinguono questa stagione politica uno su tutti esprime l'aberrazione a cui si può arrivare in nome dell'odio ideologico: il rogo di Primavalle. A Roma nella notte del 16 aprile un commando di Potere Operaio si dirige verso Via Bibbiena nel quartiere popolare di Primavalle dove abita la famiglia di Mario Mattei, netturbino e segretario della sezione locale del Movimento Sociale Italiano. Al terzo piano, sotto la porta dell'appartamento, vengono versati diversi litri di benzina e viene quindi appiccato il fuoco: restano intrappolati nelle fiamme i figli di Mattei, Virgilio, di 22 anni, e il fratellino Stefano di 10. Viene lasciato un cartello sotto il palazzo: 'Giustizia proletaria è fatta'. Per il rogo di Primavalle vengono condannati con sentenza definitiva Achille Lollo, Manlio Grillo e Marino Clavo, esponenti di Potere Operaio, tutti fuggiti all'estero. Nel febbraio del 1975 si apre il processo per il rogo di Primavalle: il 28 febbraio nelle zone limitrofe al Tribunale di Roma, in Piazzale Clodio, scoppiano violenti scontri tra giovani di destra e di sinistra. A Piazza Risorgimento viene assassinato lo studente greco fuorisede del FUAN, Mikis Mantakas. La condanna è caduta in prescrizione il 28 gennaio 2005. Nel febbraio del 2005 la procura di Roma ha deciso di riaprire il caso. Le fiamme del rogo di Primavalle dimostrano che si è innescata una degenerazione senza limiti né tabù (come nel film Arancia Meccanica uscito proprio in quegli anni, 1971). Inizia a dilagare di un odio inarrestabile tra le opposte fazioni.

Dopo Piazza della Loggia, l'antifascismo militante. La mattina del 28 maggio 1974 una bomba nascosta in un cestino portarifiuti esplode sotto i portici di Piazza della Loggia a Brescia: è in corso una manifestazione antifascista indetta dai sindacati. L'attentato, rivendicato da Ordine Nero, provoca 8 morti e più di 90 feriti. Dopo la strage di Piazza della Loggia si avvia una campagna che chiede la messa al bando del MSI; si inaugura così una delle stagioni più funeste, ossia quella dell'antifascismo militante. Afferma Marco Boato, deputato dei Verdi, ex dirigente di Lotta Continua: «E' successo che una dimensione assolutamente condivisibile, quella dell'antifascismo - l'Italia è una repubblica nata sull'antifascismo, dalla Resistenza - è diventata una dimensione di scontro di piazza, anche ad un livello individuale assolutamente degenerato.»

Le leggi speciali. Di fronte a un ordine pubblico messo sempre più a rischio il Parlamento approva nel 1975 le cosiddette "leggi speciali": si tratta della cosiddetta 'legge Reale' (dal nome del Ministro che l'ha redatta, il repubblicano Oronzo Reale), che autorizza la polizia a sparare in caso di necessità e la misura del fermo di 48 ore. La legge risponde al desiderio di protezione e sicurezza dei cittadini. Approvata a grande maggioranza dall'opinione pubblica, viene sottoposta a referendum l'11 giugno 1978: il 23,5% vota per l'abrogazione, il 76,5% per il mantenimento. Nel 1978 segue l'istituzione di corpi speciali con finalità antiterrorismo: il GIS (Gruppo Intervento Speciale) dei Carabinieri ed il NOCS (Nucleo Operativo Centrale di Sicurezza) della Polizia. Nel 1980 viene emanata la cosiddetta "legge Cossiga" (legge n. 15 del 6 febbraio) la quale prevede condanne sostanziali per chi venga giudicato colpevole di "terrorismo" ed estende ulteriormente, secondo alcuni in modo incostituzionale, i poteri della polizia. Anche questa legge viene sottoposta ad un referendum, tenuto il 17 maggio 1981: l'85,1% si esprime per il mantenimento, il 14,9% per l'abrogazione.

Il 1977: una nuova stagione di contestazione. Nel 1977 una nuova grande contestazione nasce dalle università. Ma, diversamente dal '68, esplode con violenza. Dopo la morte dello studente Francesco Lorusso a Bologna (11 marzo 1977), si allarga l'area della rivolta armata, nei cortei compaiono le P38 e le bombe molotov; negli scontri a Milano, Torino e Roma fanno la loro parte anche gli agenti delle squadre speciali. Il movimento del Settantasette è una galassia politica e culturale variegata che va dall'ironia dadaista degli 'indiani metropolitani', alle rivendicazioni delle femministe, alle provocazioni dell'autonomia creativa fino alle provocazioni violente dell'autonomia organizzata. Nascono le radio libere: Radio Alice a Bologna, Radio Sherwood a Padova, Radio Città Futura a Roma. Sostiene Marco Boato: «Il '77 è il secondo ciclo di un grande movimento collettivo che si verifica nel nostro paese all'interno del quale si scontrano due anime. Un'anima che potremmo definire creativa quasi di rinnovamento di costumi, di valori, di espressioni, fortemente innovativa, e un'anima violenta, alla fine è prevalsa questa seconda». Un elemento scatenante di questa nuova svolta violenta è anche la delusione della prova elettorale della sinistra extraparlamentare nelle elezioni del 20 giugno 1976, sotto il cartello elettorale di Democrazia Proletaria (raggiunge solo l'1,51 %, 556.022 voti). In molti si convincono che l'unica strada è quella della lotta armata, mentre altri si rifugiano nel privato e si comincia a parlare di riflusso.

Walter Rossi (30 settembre 1977). L'episodio più eclatante in questi anni è l'uccisione a Roma dello studente Walter Rossi. È il 30 settembre 1977, nel quartiere Balduina un gruppo di giovani di sinistra sta distribuendo volantini per protestare contro il ferimento, avvenuto la sera prima a Piazza Igea, di una compagna, Elena Pacinelli 19 anni, colpita da tre proiettili. In Viale Medaglie d'oro i compagni di Elena, dopo aver subito un'aggressione con sassi e bottiglie partita dalla vicina sede del MSI, vedono un blindato della polizia avanzare lentamente verso di loro, seguito da un gruppo di fascisti che lo utilizza come scudo. Due persone si staccano dal gruppo e fanno fuoco contro i giovani di sinistra. Walter Rossi, 20 anni, militante di Lotta Continua è colpito alla nuca: gli agenti si scagliano su chi tenta di soccorrerlo. I compagni del ragazzo pregano gli stessi agenti di chiamare qualcuno, un'ambulanza: «Non abbiamo la radio, non possiamo fare nulla», si sentono rispondere. I colpevoli saranno individuati anni dopo in Alessandro Alibrandi e Cristiano Fioravanti. Fioravanti attribuisce ad Alessandro Alibrandi il colpo mortale, ma in seguito alla morte di quest'ultimo in uno scontro a fuoco con la polizia (5 dicembre 1981) il procedimento penale viene archiviato. Fioravanti è condannato a nove mesi e 200 mila lire di multa, solo per i reati concernenti le armi. L'uccisione di Walter Rossi è un segno che anche l'estrema destra sta cambiando.

7 gennaio 1978: la strage di Via Acca Larentia. Sul finire degli anni Settanta lo spontaneismo armato trascina anche la destra nella galassia del terrorismo A scatenarlo un triplice omicidio che avrà un effetto devastante su tutta la destra italiana: l'eccidio di Acca Larentia. Sono le ore 18,20 e alcuni ragazzi stanno uscendo dalla sede del Movimento Sociale in Via Acca Larentia numero 28, al quartiere Tuscolano di Roma, quando una raffica di mitra Skorpion uccide Francesco Ciavatta, di 18 anni e Franco Bigonzetti di 19. Alcuni mesi dopo la strage, il padre di Ciavatta, operaio, si suicida per la disperazione gettandosi dalla finestra della sua casa in Piazza Tuscolo. Il duplice omicidio viene rivendicato in una maniera inusuale, mediante una cassetta audio fatta ritrovare accanto ad una pompa di benzina: la voce contraffatta di un giovane, a nome dei Nuclei Armati per il Contro potere Territoriale, dice: Ieri alle 18.30 circa, un nucleo armato, dopo un'accurata opera di controinformazione e controllo della fogna di via Acca Larentia, ha colpito i topi neri nell'esatto momento in cui questi stavano uscendo per compiere l'ennesima azione squadristica. Da troppo tempo lo squadrismo insanguina le strade d'Italia coperto dalla magistratura e dai partiti dell'accordo a sei. Questa connivenza garantisce i fascisti dalle carceri borghesi, ma non dalla giustizia proletaria, che non darà mai tregua. I due giovani missini sono stati uccisi con quella stessa mitraglietta Skorpion che dieci anni dopo, nel 1988, sarà utilizzata in altri tre omicidi, firmati dalle Brigate rosse: quelli dell'economista Ezio Tarantelli, dell'ex sindaco di Firenze Lando Conti e del senatore Roberto Ruffili. La sera stessa del duplice omicidio, davanti alla sezione di via Acca Larentia scoppiano violenti scontri tra militanti di destra e forze dell'ordine: sembra che un giornalista RAI per sbaglio abbia gettato un mozzicone di sigaretta su una chiazza di sangue: il gesto, interpretato come un segno di disprezzo, infiamma gli animi e fa scoppiare il finimondo. Un tenente dei carabinieri fa fuoco ad altezza uomo e uccide Stefano Recchioni, 19 anni. Il bilancio è tremendo: tre ragazzi di destra uccisi, due dai comunisti, uno dallo Stato. Per molti è la prova di essere soli, contro tutti; scatta la molla della vendetta e della violenza fine a se stessa, non supportata da alcun preciso disegno politico. «È una violenza confusa e irrazionale, priva di programma, velleitaria quella che va organizzandosi dopo Acca Larentia. La scorciatoia della lotta armata si apre quasi da sola: nasce una sigla, quella dei NAR, Nuclei Armati Rivoluzionari, che non diventerà mai una vera e propria organizzazione di lotta armata, ma resterà soltanto una sigla a disposizione, una sigla che può usare chiunque abbia voglia di combattere il suo senso di impotenza e di incertezza» (da Baldoni A., Provvisionato S., op. cit., p. 253). Dalla deposizione di Francesca Mambro alla Seconda Corte d'assise d'appello di Bologna: «Acca Larentia segna il momento in cui la destra, i fascisti a Roma, hanno uno scontro armato violentissimo con le forze dell'ordine. Per la prima volta e per tre giorni, i fascisti romani spareranno contro la polizia. E questo segnò ovviamente un punto di non ritorno. Anche in seguito, per noi che non eravamo assolutamente quelli che volevano cambiare 'il palazzo', rapinare le armi ai poliziotti o ai carabinieri, avrà un grande significato. Che lo facessero altre organizzazioni era normale, il fatto che lo facessero i fascisti cambiava le cose di molto, perché i fascisti fino ad allora erano considerati il braccio armato del potere costituito. E poi diventerà anche un momento di prestigio» (udienza del 17 novembre 1989).

I NAR sono una delle 177 sigle che praticano la lotta armata nel 1978; l'anno dopo saranno 215, ma questo è terrorismo, ed è un'altra storia.

L'estremismo di sinistra. Dalla relazione della Commissione Parlamentare sul Terrorismo. Documento aggiornato al 24/02/2006 da Archivio 900. Nella seduta del 23 ottobre 1986 la Camera dei Deputati, approvando una proposta del deputato Zolla deliberò di istituire una Commissione parlamentare d'inchiesta per accertare, in relazione ai risultati della lotta al terrorismo in Italia, le ragioni che avevano impedito l'individuazione dei responsabili delle stragi verificatesi a partire dal 1969. Si era appena concluso il quindicennio terribile ('69-'84) che la Commissione fa oggetto della sua considerazione di insieme e nel quale il nostro Paese aveva conosciuto tensioni sociali estreme, tali da porre in discussione la stessa tenuta delle istituzioni democratiche. Altissimo era stato il numero degli attentati e degli episodi di violenza dichiaratamente ispirati da ragioni politiche o comunque immediatamente percepiti come tali dall'opinione pubblica ed alto il prezzo di sangue che il paese aveva pagato: nel periodo più acuto della crisi, e cioè dal 1969 al 1980, trecentosessantadue morti e quattromilaquattrocentonovanta feriti, di cui rispettivamente centocinquanta e cinquecentocinquantuno attribuibili ad episodi di strage lungo l'arco che lega l'attentato di Piazza Fontana a Milano nel dicembre del 1969 a quello della stazione di Bologna nell'agosto del 1980 (114). La risposta dello Stato era stata complessivamente ferma, le istituzioni democratiche avevano tenuto, i terrorismi di opposta matrice politica sostanzialmente disvelati e sconfitti. Tuttavia gli autori degli episodi di strage erano rimasti impuniti; da ciò la determinazione parlamentare di cui innanzi si è detto con la quale si è aperta una vicenda istituzionale che la presente relazione ambirebbe concludere, almeno allo stato delle acquisizioni attuali. Significativo appare peraltro che già nel 1986 il Parlamento manifestava di avvertire come le ragioni che avevano impedito l'individuazione dei responsabili delle stragi fossero da porre in relazione ai risultati della lotta al terrorismo in Italia, fossero cioè da individuare nei probabili limiti di una risposta istituzionale che pure nel suo complesso doveva (e deve) ritenersi positiva. E' un approccio che dopo un decennio appare ancora estremamente fondato e che la Commissione ritiene di mantenere fermo nell'analizzare separatamente, appunto dall'angolo visuale della risposta istituzionale, fenomeni che nella realtà storica del periodo ebbero compresenza ed ambiti di reciproca influenza: e cioè, da un lato, l'estremismo ed il terrorismo di sinistra, dall'altro, l'estremismo ed il terrorismo di destra. E ciò al fine di cogliere per entrambi nella risposta istituzionale identità o differenze di risultati e di limiti. Tutto ciò nella ribadita avvertenza che tale approccio analitico può apparire utile a disvelare insieme - e cioè in termini di una coincidenza almeno parziale - le ragioni dello stragismo e le ragioni della mancata individuazione delle relative responsabilità.

Sulla base di queste scelte di metodo è quindi possibile comprendere perché, nell'ordine espositivo, appaia opportuno affrontare innanzitutto l'analisi dell'eversione e dell'estremismo di sinistra, atteso che più diretta ne appare la connessione con due fenomeni che determinarono la grande tensione sociale che segnò il finire degli anni '60 e cioè la contestazione studentesca, da un lato, la protesta operaia e sindacale, dall'altro. Sul punto alla riflessione della Commissione due appaiono i dati che meritano di essere preliminarmente sottolineati. La riflessione storiografica sul partito armato, che ampiamente utilizza le fonti derivanti dall'analisi giudiziaria del fenomeno e dalla ormai imponente memorialistica dei principali attori di quella fosca stagione, consente di ritenere ormai acquisito che la lotta armata sia stata un derivato della storia della sinistra italiana, in particolare della sinistra di ispirazione marxista, per quanto riguarda l'ideologia, gli orientamenti, i progetti ed anche per quanto riguarda parziali insediamenti sociali. Sul punto non sembra ormai possibile nutrire dubbi di qualche fondatezza, giovando semmai segnalare i ritardi con cui fu percepita la reale natura di un fenomeno che, malgrado la sua natura clandestina, solo in parte ebbe carattere occulto nel suo svolgimento. In realtà le motivazioni politiche e gli obiettivi che il "partito armato" si proponeva furono resi sempre immediatamente conoscibili, sicché è il ritardo di percezione che potrebbe oggi assumere rilievo in una prospetti va critica, (attivando una problematica che merita di essere risolta), una volta che appare ben difficile ricondurre quel ritardo esclusivamente ai fenomeni di rimozione collettiva, che pure vi furono in ampi strati della pubblica opinione politicamente orientata a sinistra. Analogamente indubbio è che originariamente il movimento di contestazione studentesca, che prese il nome dal "sessantotto", non aveva come componente prevalente un progetto rivoluzionario di ispirazione marxista mediante lo strumento della lotta armata. Il movimento ebbe in realtà basi culturali non diverse da forme anche intense di protesta giovanile che in ambito occidentale si erano manifestate anni prima. Ovvio è il riferimento ai moti universitari statunitensi del 1964 e ad analoghe esperienze francesi, tedesche e inglesi degli anni successivi. I modelli culturali iniziali, solo latamente politici, (gli hippies, i figli dei fiori, i Beatles, la "contestazione", come venne definita, di stili di vita "borghesi", i primi contatti con le culture orientali, una maggiore libertà nei rapporti familiari e sessuali) erano ben diversi da quelli che avrebbero assunto dominanza nella radicalizzazione successiva ed esprimevano una aspirazione intensa quanto confusa ad un modello alternativo di società, più libera, meno stratificata e massificante. Non a caso nell'originaria atmosfera culturale il filosofo più letto era Marcuse (e non Marx) ed alimentava una protesta genericamente antiautoritaria, che nell'ambito universitario investiva innanzitutto il potere accademico. Con tali caratteri non può sorprendere che la spinta che alimentava la protesta giovanile, mentre profondamente incise sui costumi sociali liberalizzandoli, non seppe trovare uno sbocco politico; rapidamente quindi, almeno come movimento di massa, sfilacciandosi ed esaurendosi. Questa fu la tendenza in altre nazioni dell'Occidente che conobbero il fenomeno. Non così in Italia dove l'intrecciarsi dei moti studenteschi con le tensioni sindacali ed operaie che caratterizzarono il medesimo periodo, determinò un naturale terreno di cultura per una radicalità politica, già propria di gruppi sorti nel periodo precedente ma rimasti sino a quel momento sostanzialmente quiescenti e non operativi, che furono indicati da subito come sinistra extraparlamentare per l'assenza di un riferimento istituzionale in partiti rappresentati in Parlamento, ma anche perché intrisi di valori di fondo non coerenti con i principi della democrazia parlamentare. Il passaggio decisivo alla estremizzazione dello scontro sociale e quindi alla lotta armata può individuarsi in due eventi che segnano il tardo autunno del 1969. Il primo è lo sciopero generale proclamato dai sindacati per il 19 novembre 1969, che indicono a Milano un comizio al Teatro Lirico al centro della città, dove il sovrapporsi alla protesta sindacale di un corteo organizzato da formazioni di sinistra extraparlamentare a prevalente componente studentesca, determinò i disordini in cui morì Antonio Annarumma. Il secondo, sempre a Milano, è la strage di piazza Fontana di cui ampiamente ci si occuperà in pagine seguenti, ma della quale vuol qui sottolinearsi il carattere di spartiacque, che fortemente incide sull'esplodere della violenza successiva. Vuol dirsi cioè che nel "partito armato", dove le due componenti studentesca e operaista continueranno a lungo a convivere, fu percepibile almeno nella sua fase iniziale anche una ulteriore componente che potrebbe definirsi latamente "resistenziale", (si pensi, come esempio certamente non esaustivo all'esperienza individuale di Giangiacomo Feltrinelli, che giustificava la scelta dell'organizzazione armata e clandestina, con la necessità di contrastare un golpe autoritario e militare ritenuto imminente); anche se va riconosciuto che tale aspetto scemò nell'evoluzione successiva, a mano che un disegno sempre più segnatamente rivoluzionario e quindi antidemocratico venne a delinearsi.

La storia del partito armato, come si è già accennato, è ormai nota, perché ricostruita con sufficiente compiutezza dalla indagini giudiziarie e dalla stessa memorialistica dei suoi protagonisti. Sicché superfluo appare ripercorrerne sia pur sinteticamente le tappe, se non al fine di articolare intorno alle fasi della sua evoluzione, il giudizio che la Commissione ritiene compito suo proprio in ordine all'efficacia e ai limiti dell'azione di contrasto che al partito armato fu opposta dagli apparati istituzionali dello Stato. In tale prospettiva, ciò che colpisce allo stato attuale della riflessione è la sostanziale fragilità ed insieme il carattere di relativa segretezza che denunziano nella fase della loro costituzione i vari gruppi eversivi di sinistra, sì da fondare l'avviso meditato che una più ferma ed accorta risposta repressiva immediata avrebbe potuto almeno limitare l'alto prezzo di sangue che il paese pagò negli anni successivi.

Quanto alla fragilità e cioè alla ridotta capacità offensiva, sul piano di una lotta armata, dei vari gruppi eversivi che, pur tra notevoli diversità, costituirono nel loro insieme il "partito armato", sarà sufficiente il richiamo ad alcuni episodi che possono dirsi esemplari. Il primo organico tentativo fatto da una personalità di rilievo avente a disposizione molte risorse e molti legami internazionali, l'editore Giangiacomo Feltrinelli, si conclude tragicamente in un disastro, denunciante, per le sue modalità, improvvisazione e velleitarismo, portando rapidamente alla dissoluzione dei pochi nuclei che si erano costituiti. Altrettanto evidente è la fragilità di tentativi come quello della "Barbagia Rossa" in Sardegna o dei "Primi fuochi di guerriglia" in Calabria. Ed ancora: il 25 gennaio 1971 otto bombe incendiarie vengono collocate su altrettanti autotreni fermi sulla pista di Linate dello stabilimento Pirelli, solo tre, però esplodevano, non le altre cinque perché difettose. L'impreparazione è confessata nel volantino di rivendicazione, che commenta: "Sbagliando si impara. La prossima volta faremo meglio". L'11 marzo 1973, a Napoli, il militante dei N.A.P., Giuseppe Vitaliano Principe, è ucciso dall'esplosione di un ordigno che sta preparando, mentre rimane gravemente ferito Giuseppe Papale. Il 30 maggio dello stesso anno un altro militante dei NAP Giuseppe Taras è ucciso dall'esplosione dell'ordigno che sta preparando sul tetto del manicomio giudiziario di Aversa. D'altro lato le stesse Brigate Rosse nel documento teorico del settembre 1971 devono constatare "lo stato di impreparazione in cui si trovano le forze rivoluzionarie di fronte alle nuove scadenze di lotta".

A tale iniziale scarsa potenzialità offensiva, che alla luce dei fatti innanzi ricordati appare innegabile, si aggiunge la constatazione altrettanto dovuta del carattere di relativa segretezza e di permeabilità, che i gruppi eversivi denotano nella fase costitutiva e di operatività iniziale. Si pensi al gruppo "22 ottobre", operativo a Genova, che risulta essere stato infiltrato sin dall'inizio da ambigui personaggi tra malavitosi e confidenti della polizia (Adolfo Sanguinetti, Gianfranco Astra, Diego Vandelli). A tale gruppo è attribuibile la prima vittima della lotta armata, il fattorino portavalori dello IACP di Genova, Alessandro Floris, ucciso durante una rapina destinata ad autofinanziamento. Il gruppo (che all'inizio del mese si era inserito in un programma-radio annunciando: "Attenzione proletari, la lotta contro la dittatura borghese è cominciata") dopo la rapina è rapidamente liquidato. Per ciò che concerne il gruppo eversivo di maggior consistenza, e cioè le B.R., basterà rammentare ciò che riferisce Moretti, con riguardo alla fase preliminare di costituzione della struttura, in ordine ad una riunione che nel novembre 1969 si tenne al pensionato Stella Maris di Chiavari per iniziativa del Comitato Politico Metropolitano di cui furono fondatori tra gli altri Renato Curcio e Alberto Franceschini e nel quale erano confluiti Comitati Unitari di base di alcune fabbriche (tra cui la Sit-Siemens, ove operava lo stesso Moretti) e collettivi autonomi costituiti in varie situazioni dalla sinistra extraparlamentare. Riferisce Moretti: "A un certo punto ci accorgiamo che il convegno, pure indetto con una certa riservatezza, è sorvegliato da alcuni poliziotti della squadra politica di Milano: li conoscevamo benissimo, almeno quanto loro conoscevano noi". Esemplare ancora, il modo con cui Franceschini descrive le prime esperienze di clandestinità con riferimento alla situazione della Pirelli; "Ci conosciamo, nome per nome. Eravamo clandestini per modo di dire, stavamo in quella clandestinità di massa, in quella omertà proletaria che copriva tutti i comportamenti illegali. Vanno alla clandestinità obbligata solo quelli che stanno per essere arrestati". E' nota peraltro una deposizione del generale Dalla Chiesa che senza dare indicazioni ulteriori ha lasciato capire che l'opera di infiltrazione soprattutto dell'Arma dei Carabinieri nelle organizzazioni eversive di sinistra era stata quasi permanente e sin dall'inizio. Il dato è stato direttamente confermato alla Commissione nel corso della X legislatura dal generale Giovanni Romeo, ex capo dell'Ufficio "D" del SID: "Abbiamo seguito l'intera problematica del terrorismo in modo molto attento... Quando tutti parlavano di dover affrontare il terrorismo mediante infiltrazioni, il reparto D lo aveva già fatto, ed è per questo che è pervenuto a quei risultati" (il riferimento è ai due arresti di Renato Curcio). "Se questa informazione verrà fuori, molti uomini potranno correre pericoli" (il che esclude che il riferimento fosse a nomi noti come quelli di Girotto e Pisetta). Sono dati che ricevono conferma anche da altre fonti indubbiamente autorevoli. Con riferimento all'infiltrazione iniziale di Girotto ai suoi risultati positivi ma anche alla possibilità non sfruttata di risultati ulteriori, ha scritto il generale Vincenzo Morelli che ha ricoperto vari incarichi di comando nell'Arma dei CC e che dal 1980 al 1982 è stato comandante della I Brigata CC di Torino: "L'arresto di questi due brigatisti era stato infatti deciso ed eseguito in modo frettoloso a causa di sopravvenute difficoltà che minacciavano, di compromettere il confidente; così almeno si disse allora (il corsivo è della Commissione). Secondo alcuni esperti, tuttavia, era questo un rischio che poteva essere corso di fronte alle inderogabili necessità di continuare le indagini: essi suggerivano di non arrestare per il momento i due capi storici delle Brigate Rosse ma di continuare a seguirne i movimenti attraverso quegli elementi scaltri e di fiducia da tempo infiltrati nell'organizzazione eversiva". Appaiono quindi evidenti una serie di indici di una attività informativa fin dall'inizio penetrante ed efficace, che lascia interdetti dinanzi a risultati nell'attività di contrasto, che se non furono scarsi per ciò che in seguito si dirà, non ebbero però quella rapida definitività che lo stato delle informazioni di cui si era in possesso avrebbe potuto consentire. Una spiegazione del fenomeno potrebbe rinvenirsi nella circostanza che i gruppi eversivi, malgrado la loro scarsa organizzazione e la loro relativa permeabilità, trovarono nelle tensioni sociali del periodo (la prima metà degli anni settanta) una notevole capacità di radicamento. Il dato è però ambivalente atteso che, con riferimento alla realta sociale e politica in cui i gruppi venivano a radicarsi, la permeabilità ed il carattere di relativa segretezza divenivano indubbiamente maggiori. Si pensi ad esempio a periodici legali come "Nuova resistenza", che sorge per iniziativa concordata dalle B.R. con Feltrinelli e nel cui primo numero poteva leggersi: "Tutto il lavoro del nostro giornale vuol essere un contributo a sciogliere ostacoli, presentando la pratica, le tesi e le tendenze di quei movimenti di classe che hanno come base comune lo sviluppo della guerriglia, come forma di lotta dominante per la liberazione della classe operaia da ogni sfruttamento". Si pensi all'intera storia di Potere Operaio le cui vicende, se da un lato sono intimamente legate al terrorismo diffuso di Autonomia Operaia, dall'altro appartennero alla vita ufficiale del paese, sì da essere state suscettibili di una piena conoscibilità contestuale al loro svolgimento. Ha scritto riferendosi a Potere Operaio, Giorgio Bocca: "Ogni quattro attivisti di P.O. due sono poliziotti". A tanto può aggiungersi l'indiscutibile patrimonio informativo che deve ritenersi certamente derivato da una attività di contrasto che ha riguardato la confusa nebulosa dell'estremismo di sinistra e che ha conosciuto anche momenti di intensa efficacia; così negli ultimi mesi del 1971, quando hanno luogo "operazioni setaccio" nelle aree metropolitane con centinaia di arresti, migliaia di denuncie, sequestri di un imponente quantità di armi e munizioni. Vuol dirsi in altri termini, che il magma protestatario in cui le B.R. operano il loro radicamento sociale, era agevolmente conoscibile e noto, sì da rendere più severo il giudizio in ordine all'assenza di più intensi risultati nel contrasto al fenomeno eversivo.

Peraltro, sospendendo per ora il giudizio su tali aspetti almeno per alcuni profili inquietanti, va sottolineato come anche in ragione di tale radicamento in realtà sociali diffuse e nel loro complesso eversive, i gruppi clandestini, pur tra ricorrenti insuccessi, (si pensi, oltre a quelli già ricordati, al rapimento Gancia e alla sua sanguinosa conclusione nella cascina Spiotta) ottengano anche clamorosi risultati (i rapimenti Costa e Sossi da parte delle B.R., quello Di Gennaro ad opera dei NAP). Il successo di tali operazioni e le dichiarazioni di alcuni sequestrati (che presentano l'organizzazione delle BR come fortissima e in possesso di informazioni penetranti e globali) alimentano il mito della invincibilità delle BR e l'opinione diffusa che le stesse fossero qualcosa di diverso da ciò che erano e che pubblicamente dichiaravano di essere incentivando quel moto collettivo di rimozione, che già si è segnalato, nella pubblica opinione orientata a sinistra e dando altresì fondamento all'ipotesi che alle spalle delle BR e degli altri gruppi eversivi potesse esservi in Italia o all'estero un'unica centrale (il mito del Grande Vecchio) di direzione e controllo. Sono ipotesi che, per quanto autorevolmente e ripetutamente affacciate, non trovano riscontro in una storia, quella del partito armato, che ormai può ritenersi quasi compiutamente disvelata. Ma soprattutto giova sottolineare come il patrimonio informativo di cui gli apparati di sicurezza erano in possesso già all'epoca dei fatti, era già idoneo a smentire la fondatezza delle ipotesi medesime e a fondare un'azione di contrasto ferma ed efficace.

D'altro canto non vi è dubbio che un tal tipo di risposta vi sia stato; ciò che colpisce è però il carattere altalenante di un'azione repressiva che conosce momenti di forte intensità, inframmezzati a cali di tensione e a bruschi ripiegamenti. Sicchè la valutazione d'insieme che la Commissione ritiene di formulare sul punto è su un carattere di "stop and go" nella risposta istituzionale, carattere che merita di essere investigato e nei limiti del possibile chiarito ai fini di una sua meditata e motivata valutazione. Ed invero può dirsi storicamente accertato che, ad onta della presunta invincibilità delle B.R., fu ben possibile al generale Dalla Chiesa, pochi mesi dopo il clamoroso successo dell'operazione Sossi, infiltrarne addirittura il vertice nel giro di poche settimane (l'infiltrato è padre Girotto detto "frate Mitra") giungendo così all'arresto di due dei capi storici, Curcio e Franceschini, in occasione di un appuntamento al quale sarebbe dovuto intervenire anche Moretti che riesce fortunosamente a sfuggire alla cattura. In pochi mesi, quindi le B. R. sono decapitate, ma è disarmante l'estrema facilità con cui un'operaziona guidata da Margherita Cagol riesce a liberare Curcio dal carcere di Casale Monferrato. Tra il 1974 e il 1976 l'organizzazione appare comunque ridotta ai minimi termini, anche per effetto di una pressione costante delle forze di sicerezza sul vertice delle B.R. che culmina con il nuovo arresto di Curcio e di Nadia Mantovani, Angelo Basone, Vincenzo Guagliardo e Silvia Rossi Marchese, nella base di via Maderno a Milano, il 18 gennaio 1976, cui segue quello di Semeria, il 22 marzo, alla stazione centrale, sempre a Milano. E si è già riferito in ordine alla fonte che consente alla Commissione di ritenere che tali successi costituirono il frutto di una attività informativa dei servizi di sicurezza operata mediante infiltrati diversi dai noti Girotto e Pisetta. Appare quindi davvero singolare che subito dopo sia stato possibile ai pochi brigatisti residui riorganizzare sostanzialmente le proprie forze al fine di determinare un salto qualitativo all'azione eversiva, la quale passa da una fase iniziale che può definirsi di propaganda armata ad una fase successiva di vero e proprio terrorismo di sinistra, che si concluderà soltanto nei primi anni del decennio successivo. Ad un giudizio reso oggi sereno anche dagli anni trascorsi, tale recuperata possibilità dei pochi brigatisti residui di riorganizzarsi, per raggiungere come si vedrà un più elevato livello di aggressività, appare oggettivamente collegabile a scelte operative degli apparati istituzionali assolutamente non condivisibili e di ben difficile spiegabilità. Specifico è il riferimento allo scioglimento del 1975 del nucleo antiterrorismo del generale Dalla Chiesa. Tale scelta appare oggi ancora più grave, alla luce di acquisizioni in base alle quali risulterebbe che i servizi di sicurezza avevano chiaramente percepito che le BR avevano la possibilità di riorganizzarsi attingendo ad un più elevato livello di pericolosità. Già nel giugno del 1976 il settimanale "Tempo" pubblicò le seguenti dichiarazioni di uno dei massimi responsabili dei Servizi, generale Maletti: "Nell'estate del 1975 (...) avemmo sentore di un tentativo di riorganizzazione e di rilancio (delle BR, n.d.r.) sotto forma di un gruppo ancora più segreto e clandestino, e costituito da persone insospettabili anche per censo e per cultura, e con programmi più cruenti. (...) Questa nuova organizzazione partiva col proposito esplicito di sparare, anche se non ancora di uccidere. (...) Arruolavano terroristi da tutte le parti e i mandati restavano nell'ombra, ma non direi che si potessero definire di sinistra". Lo stesso Maletti, in un'intervista successiva, dichiarò: "Già nel luglio del 1975 inviai un rapporto al Ministro dell'Interno che allora era Gui, per avvertirlo che d'ora in poi gli eversori avrebbero inaugurato la tecnica dell'attentato alla persona, in particolare quella della sparatoria alle gambe".

Ed invero solo nel 1976 le B.R. alzano il tiro ponendo l'omicidio politico a fine dichiarato della propria azione. Episodi omicidiari precedenti, infatti, come l'uccisione di due militanti dell'M.S.I. a Padova, furono eventi volontari ma non premeditati. Soltanto alla vigilia delle elezioni politiche del 1976, le BR per la prima volta sparano per uccidere: la vittima è il Procuratore della Repubblica di Genova, coco, (che era considerato il responsabile del mancato avviarsi delle trattative al momento del sequestro Sossi) e due uomini di scorta. Che si fosse in presenza di un'evoluzione e quindi di una seconda fase del gruppo eversivo non può ormai revocarsi in dubbio. Ciò è pacificamente riconosciuto dagli stessi protagonisti della lotta clandestina. "Nel corso del 1976, l'impianto organizzativo subisce una trasformazione radicale, che non resterà senza conseguenze nel dibattito interno. Questa trasformazione costituisce una vera e propria seconda fondazione delle BR, in seguito alla quale tutti i comparti e tutte le attività dell'organizzazione vengono ripensati entro lo schema di una impostazione che mette al centro l'attacco al cuore dello Stato". Sorprende che un simile ambizioso ed estremo programma sia nutrito da un gruppo terroristico ridotto a poche unità e fortemente provato, come oggi riconosce parlando di sé. Lauro Azzolini dichiara a un giornalista; "Dopo Sossi, dopo la Spiotta, dopo la caduta di tanti compagni, con le forze regolari ridotte a quindici persone, Moretti, Bonisoli ed io facemmo una lunga riflessione e arrivammo a questa alternativa; qui, o questa guerra la facciamo sul serio, o tanto vale piantarla. Qui o ci mettiamo in testa di vincere, o siamo vinti in partenza. E' il fronte logistico che diventa il vero centro dell'organizzazione, e lì ci siamo noi, Moretti, Bonisoli ed io. La direzione strategica perde ogni importanza". E il giornalista che riceve tale dichiarazione ritiene di commentarla così: "I fondatori delle B, i capi storici, dicono che l'esperienza era esaurita nel 1975. E allora perché continuare per altri sette anni? Perché strascinamento e involuzione militarista sono l'effetto di una crisi sociale ed economia che si trascina: è la tesi fondamentale della nostra ricerca. La storia non si scrive con i se, ma come ipotesi si può dire che, se fra il '75 e il '76 non fosse ripartita l'eruzione sociale, la guerriglia urbana sarebbe probabilmente finita lì". E' valutazione che la Commissione ritiene solo in parte da condividere. E' pur vero infatti che le forti tensioni sociali che riesplodono nel Paese con il movimento del 1977 diedero nuova linfa all'estremismo terroristico. Ma è altrettanto vero, da un lato, che l'eruzione sociale segue di circa un anno il momento riorganizzativo delle BR, dall'altro che la successione storica degli eventi nello spazio temporale considerato denuncia momenti di forte debolezza e quasi di stallo nella risposta istituzionale dello Stato. Attribuire tutto ciò a meri fenomeni disorganizzativi sarebbe già grave nella prospettiva del giudizio storico politico che alla Commissione compete. E per altro anche un simile giudizio non può pienamente apparire satisfattivo, perchè contrastato dai notevoli successi del periodo precedente, consentiti anche dal cospicuo patrimonio informativo sul fenomeno di cui gli apparati di sicurezza erano in possesso.

Certo sul piano dell'oggettività storica non soltanto dal 1975 in poi le nuove BR (sostanzialmente rifondate) sotto la direzione di Moretti ed articolate soprattutto nelle due colonne di Genova e di Roma (la prima con un insediamento sociale di tradizione operaia, la seconda di tipo giovanile studentesco) appaiono abbastanza diverse da quelle del periodo di propaganda armata, ma subiscono per alcuni anni un'azione di contrasto abbastanza evanescente. Sul punto non può non sottolinearsi, tra l'altro, che alcuni dei protagonisti di sanguinosi eventi immediatamente successivi erano stati addirittura arrestati e poi rilasciati (come Morucci) o erano riusciti ad evadere (come Gallinari). E' in questa situazione che l'eruzione del movimento del '77 innalza in maniera esponenziale le possibilità di insediamento sociale dei gruppi terroristici. Il movimento ha una precisa data di nascita: il 1° febbraio 1977, quando durante scontri tra studenti di sinistra e di destra a Roma, nell'aula magna di Statistica (occupata) viene ferito alla testa da un colpo di pistola lo studente di sinistra Guido Bellachioma. I gruppi dell'ultrasinistra replicano con quella che definiscono "una risposta di massa" - nella quale, in un primo momento, hanno un ruolo gli "indiani metropolitani", più folcloristici che violenti - con l'occupazione dell'università, sino agli scontri col servizio d'ordine che protegge Lama, (sono in prima fila i futuri brigatisti Emilia Libera e Antonio Savasta). E' da tale area ribollente di protesta e conflittualità sociale che affluiscono alle BR centinaia di militanti, parte "regolari", parte no, che farà loro superare la stagnazione dl '76, col solo segnale nazionale - a Genova - che ora si spara per uccidere. Dirà Morucci: "A un certo punto c'è stata in Italia un'area di circa 200 mila giovani che è passata al comunismo marxista per mancanza di alternativa" (intervista a "il Giorno", 26 aprile 1984). Le BR divengono così il punto di riferimento di una parte dell'eredità (marxista-leninista oltreché anarco-libertaria) della sinistra italiana, alla quale si rivolgeranno centinaia di militanti che dai comportamenti collettivi ribelli che coinvolgono decine di migliaia di giovani (dai cortei che scandiscono: "Attento poliziotto è arrivata la compagna P38") passano alla pratica delle armi. Ciò non può essere storicamente dimenticato per negare di tali fenomeni la reale e dichiarata natura. Ma altrettanto impossibile è negare che nella fase la risposta dello Stato appare complessivamente deludente, per giungere a risultati di grottesca inefficienza nei giorni drammatici del sequestro Moro, che saranno oggetto in seguito di un'analisi separata e che tuttavia si situano in tale panorama complessivo, in cui viene a collocarsi il sorgere di un nuovo soggetto della lotta armata che del movimento del '77 deve ritenersi il più tipico prodotto: Prima Linea.

Anche per tale formazione terroristica, come già per le BR e forse in maniera più intensa, risalta alla riflessione della Commissione una notevole permeabilità e quindi conoscibilità già nella fase fondativa, che suscita forti perplessità intorno ai limiti dei risultati conseguiti nell'azione di contrasto immediato da parte degli apparati istituzionali di sicurezza pubblica. Prima Linea nasce infatti da un vero e proprio congresso costitutivo a San Michele a Torre presso Firenze nell'aprile 1977 e preceduto da riunioni a Salò e Stresa dell'autunno '76, promosse dalle componenti più estreme di una formazione extraparlamentare notissima e che non aveva in sé nulla di clandestino: "Lotta continua". PL costituisce quindi una sostanziale evoluzione dei cosiddetti "servizi d'ordine" di LC, con abitudine alla violenza e presenza riconosciuta sul territorio; A Milano, Torino, Bergamo, Napoli, in Brianza, a Sesto San Giovanni. "Prima Linea non è un nuovo nucleo combattente comunista, ma l'aggregazione di vari nuclei guerriglieri che finora hanno agito con sigle diverse", come può leggersi nel volantino che rivendica la prima clamorosa azione del nuovo soggetto della lotta armata, l'irruzione nella sede dei dirigenti FIAT a Torino, il 30 novembre 1976. La trasparenza della fase costitutiva non sembra quindi essere discutibile, se è vero che a San Michele a Torri viene approvato uno statuto: al vertice vi è una "conferenza di organizzazione", di fronte alla quale il comando nazionale deve rispondere del proprio operato. Vengono costituiti un settore tecnico logistico e uno informativo, ma quella che pesa è la struttura armata, che va dalle "ronde proletarie", ai "gruppi di fuoco" (che possono anche decidere le azioni) alle "squadre di combattimento" (che si limitano ad eseguirli). Ancora una volta è la stessa memorialistica dei protagonisti a dar conto di un livello di clandestinità davvero esile. "I sergenti (dei servizi d'ordine), noti a tutti (come Chicco Galmozzi, arrestato nel marzo '76 dopo un'allegra serata con cibi e liquori espropriati), potevano entrare alla mensa della Marelli (a Sesto) e sedere ammirati, come i moschettieri del re, al tavolo delle impiegate". Ed ancora Pietro Villa (uno dei fondatori) ricorda: "A Salò abbiamo discusso praticamente in pubblico. A Firenze ci trovavamo in una cascina (S. Michele a Torri), ma alla sera io e i compagni milanesi tornavamo in città per dormire in albergo, figurati che clandestinità. 'Senza tregua' (rivista legale sotto il cui striscione i militanti sfilavano nei cortei) esibiva le armi e scandiva 'Basta parolai, armi agli operai', senza subire conseguenze". Appare in proposito esemplare la vicenda del gruppo che si articolare intorno alla redazione di tale rivista. Il gruppo di Torino, guidato da Marco Donat Cattin (figlio del ministro DC Carlo) con nome di battaglia di "comandante Alberto", compie un'irruzione nel centro studi Donati (della DC e proprio della corrente di Carlo Donat Cattin), nel corso della quale una componente del commando, Barbara Graglia, perde ingenuamente un paio di guanti facilmente a lei collegabili: recano infatti il numero di matricola 236 delle allieve del collegio del Sacro Cuore. Durante una perquisizione del suo alloggio vengono trovati manifestini dal titolo “Costruiamo i comitati comunisti per il potere operaio”, che esprimono la necessità della guerra civile, ciclostilati in via della Consolata 1 bis, la vecchia sede di Potere operaio, intestata ora al centro Lafargue dove viene redatto il periodico 'Senza tregua'. Con Barbara Graglia frequentano la sede Marco Scavino, che è stato dirigente di Potere ope raio - possiede lui le chiavi dell'appartamento -, Felice Maresca, un operaio della Fiat, Valeria Cora, Marco Fagiano, Carlo Favero e una ottantina di giovani provenienti da Potere operaio e da Lotta continua. Vuol dirsi cioè, come ormai più volte sottolineato in sede saggistica, che con riguardo a Prima Linea si accentuano i due caratteri già innanzi sottolineati con riferimento alle BR dopo la fase rifondativa del 1975 e cioè: da un lato l'ampiezza dell'insediamento sociale, dall'altro nella risposta dello Stato, forti elementi di colpevole sottovalutazione e comunque di notevole debolezza. E' un giudizio già più volte formulato con argomentazioni che alla Commissione paiono sostanzialmente condivisibili, stante la esemplarità di episodi e sequenze oggettive. Leader come Galmozzi, Borelli, Scavini sono arrestati nel maggio '77, appena costituita l'organizzazione con statuto, ma tornano in libertà. Baglioni viene liberato mentre è in corso il sequestro Moro; Rosso e Libardi subito dopo. Marco Donat Cattin svolge tranquillamente il suo lavoro di bibliotecario, presso l'Istituto Galileo Ferraris, prendendo regolari permessi per partecipare alle azioni armate. In una di queste, in vista del processo di Torino alle Br, Prima linea uccide il maresciallo Rosario Berardi, uomo di punta dell'antiterrorismo (10 marzo '78) e la rivendicazione telefonica viene addirittura dalla casa dell'on. Carlo Donat Cattin, con relativa registrazione degli inquirenti. Un altro leader di PL, Roberto Sandalo, dalle future clamorose confessioni (marzo 1980), ben noto come "Roby il pazzo", capo del servizio d'ordine di Lotta continua, può frequentare la qualificata scuola allievi ufficiali alpini, ad Aosta, che controlla i curricula; e, come ufficiale, trasporta armi per l'organizzazione.

Non può quindi sorprendere come già nel 1984 e cioè al concludersi della fosca stagione, in sede saggistica fu da più parti avanzata l'ipotesi che sarebbe stato possibile stroncare il terrorismo sul nascere o almeno sin dal 1972 e ridurlo a fenomeno sporadico; e che pertanto la violenza estremistica aveva potuto dispiegarsi impunita per un decennio e il terrorismo rosso svilupparsi pressoché indisturbato fino al delitto Moro, solo in quanto dall'interno degli apparati dello Stato alcune forze avevano preferito lasciare mano libera ad un fenomeno che screditava le forze della sinistra parlamentare e i sindacati, inficiandone la capacità di rappresentanza sociale; o addirittura aveva ritenuto di usare l'estremismo e poi il terrorismo rosso per determinare allarme sociale con esiti politici stabilizzanti. Misurandosi con tale giudizio, come indubbiamente è dovuto, la Commissione osserva che, alla stregua dei dati già esposti, va riconosciuto che una risposta dello Stato all'estremismo di sinistra vi è stata, ha avuto carattere di fermezza ed ha conseguito successo finale. Le forze politiche - anche di sinistra e segnatamente il PCI - furono fermissime nella condanna del terrorismo e nel riaffermare i valori dello Stato democratico nato dalla Resistenza e ostacolarono con successo la possibilità che movimenti eversivi realizzassero un più ampio insediamento sociale. Il Parlamento varò provvedimenti legislativi rigorosi atti a combattere il terrorismo. Ottima fu nel suo complesso la tenuta e la risposta della istituzione giudiziaria, che pagò un doloroso prezzo di sangue in tutte le sue componenti (Bachelet, Alessandrini, Croce). In particolare la magistratura inquirente seppe trovare forme efficaci di conduzione e coordinamento delle indagini, che avrebbero dato positivi risultati anche in anni successivi nel contrasto a forme diverse di criminalità. Una democrazia ancor giovane seppe, nel suo complesso, reggere ad una difficile prova. Tutto ciò è indubbio, ma altrettanto innegabile è che nel corso del tempo la risposta istituzionale degli apparati di sicurezza ha conosciuto l'alternarsi di momenti di fermezza con momenti di minore tensione e di stallo spinti in alcuni casi fino alla colpevole tolleranza; giudizio negativo che ovviamente coinvolge - e sia pure in maniera indiretta - l'azione degli Esecutivi succedutisi nel tempo. Per tali ultimi profili peraltro, oggettività impone di riconoscere che consimili atteggiamenti di colpevole minimizzazione, o di tolleranza, furono presenti anche nel corpo sociale almeno con riguardo alla violenza diffusa e si accompagnarono ad una ritardata presa di coscienza della reale natura di un terrorismo, cui a lungo ci si intestardì ad attribuire "colore politico" diversa da quello palese e palesemente dichiarato. Si pensi con riferimento all'opinione pubblica orientata a sinistra al peso della coscienza di una affinità di matrice culturale, ai riflessi, a volte inconsci, dell'antica diffidenza verso lo Stato e di miti rivoluzionari non ancora superati che indicevano spesso ad atteggiamenti di comprensione verso i gruppi estremisti, a volte anche al fine di tentarne il recupero politico. Si pensi ancora, in termini più generali e con particolare riferimento alla vicenda di Prima Linea, a quanto la collocazione in fasce medio-alte di molti dei suoi protagonisti abbia influito nel determinare in ampi settori del ceto dirigente un atteggiamento minimizzante che caratterizzò anche specifici episodi giudiziari. Esemplari in tal senso possono ritenersi:

- da un lato, nella sua drammaticità, la vicenda della famiglia Donat Cattin, che vedeva riuniti al suo interno un Ministro della Repubblica e uno dei capi delle formazioni militari che attentavano al cuore dello Stato; a riprova che per ampi strati della borghesia italiana i moti studenteschi, prima, e la contestazione armata, poi, furono anche un conflitto generazionale, dove "l'uccisione della figura paterna" come via di crescita e di accesso alla maturità, perdeva il suo connotato metaforico per acquisire i caratteri di una tragica realtà quotidiana;

- dall'altro la nota sentenza dell'11 marzo 1979 con cui la Corte di assise di Torino escluse che il Gruppo della Consolata, di cui si è già detto, costituisse una banda armata, e sminuendone la pericolosità, la qualificò come una mera associazione sovversiva per la rudimentalità della sua composizione, per la carenza di mezzi, per l'inefficienza operativa. Sicché giova avvertire fin da ora (in parte anticipando il giudizio conclusivo cui la Commissione ritiene di giungere e ribadendo la scelta di metodo che la Commissione ha operato), che non è soltanto l'altalenanza della risposta (degli apparati di sicurezza) dello Stato in sé considerata a fondare un giudizio valutativo più grave, quanto piuttosto il suo inserirsi in un ben più ampio quadro di riferimento, che oggi è possibile ricostruire pur sempre su base oggettiva come esito di una riflessione complessiva che abbracci l'intero periodo 1969-84 in tutti i suoi aspetti ed insieme valorizzi dati emergenti dalla analisi del periodo anteriore.

Con il sequestro dell'onorevole Moro, la strage degli uomini di scorta, la prigionia e quindi l'uccisione dell'ostaggio, le BR raggiungono il più elevato livello di aggressività e sembrano saper rendere concreto e veritiero il loro disegno di portare un attacco al cuore dello Stato. Pure il sanguinoso esito della vicenda apre all'interno delle BR ferite e contraddizioni ed al contempo svela la sterilità dell'operazione militare nella sua incapacità di raggiungere sbocchi politici ulteriori. In realtà il risultato sperato di un riconoscimento politico viene sfiorato ma non raggiunto, in questo - e solo in questo - dovendosi ritenere efficace la scelta politica di rifiutare l'apertura della trattativa. (Secondo quanto riferito alla Commissione dall'addetto stampa di Moro, dottor Guerzoni è possibile che vi sia stato un intervento della Presidenza del Consiglio sul Pontefice perché il suo elevato appello agli "uomini delle BR" non contenesse un riconoscimento politico seppure in forma larvata). L'apparato istituzionale registra per converso una secca sconfitta, apparendo disarmato e incapace di elaborare vuoi una strategia politica, vuoi una adeguata risposta repressiva. Né vi è dubbio che la totale negatività di risultati nel contrasto al più grave degli atti terroristici del partito armato sia da collegare, come effetto a causa, a decisioni istituzionali del periodo immediatamente anteriore che appaiono inspiegabili al limite della dissennatezza. E' un giudizio che sostanzialmente è stato già espresso in sede parlamentare e che alla Commissione è consentito rafforzare sia per la maggior distanza temporale che oggi separa da quei tragici eventi, sia soprattutto per la maggiore ampiezza di ambito investigativo in cui gli episodi specifici vengono a situarsi. Già nella relazione della Commissione parlamentare d'inchiesta sulla strage di Via Fani era infatti possibile leggere: "La Commissione non ha potuto avere risposte convincenti sul perché l'Ispettorato antiterrorismo, costituito sotto la direzione del questore Santillo il 1º giugno 1974, sia stato, nel pieno "boom" del terrorismo (gennaio 1978), disciolto, e perché non ne sia stata utilizzata l'esperienza organizzativa ed il personale addetto. [...]. L'Ispettorato antiterrorismo aveva cominciato a costruire una mappa dei movimenti eversivi e a raccogliere informazioni sui singoli presunti terroristi, in una visione unitaria del fenomeno, la sola capace di consentire un corretto apprezzamento e una lotta efficace. [...]. Gli stessi interrogativi la Commissione si è posta in ordine alle esperienze accumulate dal Nucleo antiterrorismo costituito nel maggio 1974 presso il Comando Carabinieri di Torino, che svolse un importante lavoro investigativo ai tempi del seque sto Sossi [...]". Sono perplessità che, come già accennato, possono oggi trasformarsi in una valutazione più marcatamente negativa, considerando come scelte opposte a quelle oggetto di critica determinarono con immediatezza positività di risultati. Ed infatti pochi mesi dopo l'epilogo della vicenda Moro e cioè il 9 agosto 1978 il Presidente del Consiglio Andreotti e i ministro dell'interno Rognoni e della difesa Ruffini, riuniti a Merano, conferiscono a Dalla Chiesa "compiti speciali operativi" nella lotta al terrorismo, sui quali doveva riferire "direttamente al Ministro dell'interno", con decorrenza dal 10 settembre 1978. Il generale Dalla Chiesa ricostruisce il Nucleo antiterrorismo e consegue in poche settimane un risultato di elevato livello, quando nell'autunno del 1978 le forze del Nucleo fanno irruzione nell'individuato covo milanese di via Monte Nevoso. Si tratta in realtà del quartiere generale delle BR dove vengono arrestati due dei cinque membri dell'esecutivo. L'importanza del risultato non viene colta appieno dagli organi di informazione che minimizzano l'episodio quasi che si trattasse dell'arresto di due militanti stampatori dei documenti relativi al sequestro Moro, mentre è sul contenuto di questi che si accentra l'attenzione dell'opinione pubblica, trascurando l'importanza operativa intrinseca del risultato. Ancora una volta quindi le BR denunciano una loro fragilità ed una loro incapacità a resistere veramente ad una azione repressiva condotta con la professionalità e l'efficienza propria degli apparati di sicurezza di uno Stato moderno. La contraddizione con la disarmante inefficienza che ha caratterizzato la risposta istituzionale durante la prigionia di Moro, è evidente. Parrebbe quasi che gli apparati istituzionali che non hanno saputo proteggere Moro né individuarne la prigione né liberarlo, dimostrino una improvvisa efficienza nell'individuare il luogo altrettanto segreto dove erano custodite "le carte di Moro" ed entrarne in possesso, attivando peraltro in ordine all'utilizzazione di tali documenti una vicenda oscura che si snoderà negli anni successivi e che appare oggi - almeno a livello di ipotesi giudiziarie - collegata all'omicidio dello stesso generale Dalla Chiesa. Potrebbe pensarsi che, imboccata una nuova via, ci si avvicini ad un successo finale. Ma ciò non avviene. Per circa tre anni il partito armato continua in una alternanza singolare di successi parziali e di sconfitte altrettanto parziali. Sul piano degli esiti politici alcuni omicidi appaiono addirittura controproducenti, come l'assassinio di Emilio Alessandrini, organizzato da Donat-Cattin all'inizio del 1979 e teorizzato con la singolare affermazione della necessità di colpire i magistrati riformisti perché più pericolosi dei magistrati reazionari; come l'assassinio dell'operaio Guido Rossa, che vanamente le BR tentarono di giustificare affermandone la natura preterintenzionale. Si tratta, come già per l'uccisione di Moro, di fatti che per il partito armato ebbero valenza negativa sotto il profilo propagandistico, perché posero in difficoltà il raggiungimento dell'obiettivo, pure dichiarato, di conseguire più ampi radicamenti sociali. Altri episodi costituiscono invece un indubbio successo come il sequestro del giudice D'Urso, nel corso del quale le BR riescono a piegare lo Stato alla trattativa giungendo ad ottenere che sia la stessa figlia del magistrato a leggere da una emittente radiofoni il testo di un loro comunicato accusatorio. Tuttavia, dopo poche settimane, l'inafferrabile capo delle BR, Mario Moretti, viene catturato all'esito di una banale azione di infiltrazione ad opera della pubblica sicurezza; ciò a conferma di una permanente fragilità dello stesso vertice operativo dell'organizzazione terroristica. Ma ancora una volta il colpo decisivo non viene sferrato e le BR seppur divise (si autonomizza a Milano la Brigata Walter Alasia, che aveva come punto di riferimento sociale l'Alfa Romeo; alcuni dei suoi componenti erano anche nel consiglio di fabbrica), seppur distinte (l'ala cosiddetta movimentista, che dovrebbe far capo a Senzani, che poi diventerà il partito della guerriglia, e l'ala cosiddetta militarista), e seppure prive del leader che le aveva guidate per dodici anni, il Moretti appunto, mettono a segno nel giro di pochi mesi quattro rapimenti: Sandrucci, dirigente dell'Alfa a Milano; Taliercio, dirigente del Petrolchimico; Roberto Peci, fratello di Patriz io, uno dei grandi pentiti, nell'estate del 1981; l'assessore democristiano Ciro Cirillo. In tale ultimo episodio non solo lo Stato è piegato alla trattativa ma questa ultima ha disvelato con il tempo un torbido retroscena del rapporto tra terrorismo, servizi di sicurezza e malavita organizzata. Di fatto in cambio di denaro e di reciproci favori fra la malavita e il terrorismo, Cirillo sarà rilasciato in luglio.

Ma ormai un nuovo decennio è iniziato; e la situazione sociale del Paese è profondamente mutata. La ristrutturazione industriale della fine del decennio ha profondamente mutato il mondo delle fabbriche e la stessa condizione del lavoro dipendente venendo così meno, o almeno fortemente attenuandosi, la possibilità di un radicarsi in quel mondo dell'azione politica dei gruppi estremisti e di elementi della protesta giovanile e della contestazione studentesca. Il mutamento sociale e le difficoltà esterne che ne derivavano per la realizzazione di un progetto già originariamente velleitario sono percepiti all'interno del partito armato già sul finire degli anni Settanta. Poco dopo l'attentato ad Alessandrini l'ala militarista di Prima Linea e lo stesso Donat-Cattin riconoscono che non esistono più le condizioni per la lotta armata in Italia ed emigrano in Francia. Il resto dell'organizzazione si scioglie in un convegno avvenuto a Barzio nella Pasqua del 1981 ed evolve in un "polo organizzato", una rete di protezione di militanti ricercati che daranno poi vita ai Comunisti organizzati per la liberazione proletaria (Colp). La lotta armata è dunque in una fase di declino e le operazioni delle BR, che pur proseguono, non possono essere più presentate come un attacco al cuore dello Stato. Conscia di questa difficoltà derivante dalla profonda mutazione economico-sociale che il Paese ha conosciuto, la stessa area movimentista delle BR, diretta da Senzani, tenta una nuova via di radicamento sociale in direzione del sottoproletariato meridionale urbano e sconta fatalmente, nella nuova realtà, un più intenso inquinamento da parte della criminalità organizzata.

La parabola del partito armato si chiude sostanzialmente quando, il 17 dicembre 1981, alcuni brigatisti travestiti da idraulici rapiscono il generale James Lee Dozier, responsabile logistico del settore sud-est della Nato. Da Verona lo portano senza difficoltà a Padova. E' un'operazione eclatante, perché nessun movimento guerrigliero era riuscito a sequestrare un generale americano. L'azione è quindi clamorosa, quanto confuso.

Giovanni Lindo Ferretti e la stage di Bologna: furono o no i fascisti?, scrive il 2/08/2017 Chiara Comini. Avvenne il 2 agosto del 1980 alle 10.25 l’esplosione, causata da una bomba, che provocò la morte di 85 persone e 200 i feriti. Oggi, dopo 37 anni dalla strage, Giovanni Lindo Ferretti lancia una provocazione. Ferretti, noto per essere stato il cantate del gruppo musicale CCCP Fedeli alla linea, nato nell’Emilia degli anni Ottanta, in un intervista rilasciata a Repubblica dichiara: “Non concordo con il pensiero della maggioranza dei bolognesi, non credo che l’attentato del 2 agosto sia opera di fascisti italiani. Mi dispiace non essere in sintonia con la mia città, quella in cui ho vissuto di più. Quando è successo il 2 agosto io ero ancora un bolognese di adozione, ma io non ci ho mai creduto”. Continua affermando: “In quel momento i palestinesi avevano dei problemi con lo Stato italiano e il fatto che non siano state fatte indagini su tre o quattro personaggi in quei giorni a Bologna mi convince oltremisura. Se almeno si fossero fatte le indagini…”. Secondo Ferretti sarebbe più plausibile la pista, allora archiviata, definita “Lodo Moro”, o “Lodo Palestinese”: il patto tra servizi segreti italiani e la dirigenza palestinese per evitare attentati in Italia. Solo negli ultimi anni si sono iniziate a scoprire le carte, ammettendo l’effettiva esistenza dell’accordo, allora considerato una tesi complottista. Un documento segreto, emerso anni fa grazie a Enzo Raisi, datato 17/02/1978 e pubblicato nel 2015 dal Quotidiano nazionale, prova l’esistenza del Lodo Moro. Raisi il 2 agosto 1980 era nei pressi della stazione, in procinto di partire per il servizio militare. Da quel giorno si è assiduamente dedicato alla ricerca della verità. La sua convinzione è che la strage sia stata opera dei palestinesi in combutta con Carlos, un terrorista internazionale famoso anche con il nome di “Sciacallo”. Non è da sottovalutare che tra la fine del 1979 e l’inizio del 1980, fosse stato arrestato e condannato il responsabile del Fronte per la liberazione della Palestina in Italia. Nel libro “Ustica storia e controstoria”, scritto dall’on. Eugenio Baresi, possiamo leggere: “Fra il sette e otto novembre 1979, in un casuale controllo – ricorda Baresi – vengono sequestrati missili antiaerei a membri dell’Autonomia romana e ad un palestinese, Abu Anzeh Saleh, […], rappresentante in Italia del Fronte per la liberazione della Palestina (FPLP). La Procura di Chieti con assoluta e inusuale velocità perviene ad un’immediata condanna il 25 gennaio del 1980. Il responsabile del FPLP in Italia, arrestato e condannato, è residente da anni a Bologna”. La strage della stazione di Bologna, pertanto, si collocherebbe in uno scenario intrecciato di fatti avvenuti in quegli anni che la collegherebbero dall’omicidio di Aldo moro e all’aereo di Ustica, che Baresi considera un “avvertimento non capito”. L’ordigno a Bologna sarebbe stato il secondo avvertimento. Ferretti conclude la sua dichiarazione a La Repubblica dicendo: “Tutte le persone che conosco e a cui voglio bene non lo vogliono nemmeno sentire. Questa città si è fatta un punto di onore nel rivendicare una necessità di antifascismo militante 50 anni dopo l’epopea fascista e ha avuto un’occasione meravigliosa”. Resta il fatto che questa ipotesi, dopo quasi quarant’anni dalla tragedia, grazie a documenti allora secretati, ha iniziato a prendere sempre più forma.

La provocazione di Giovanni Lindo Ferretti: "La strage di Bologna? Non furono i fascisti". Le parole del musicista sull'attentato del 2 agosto in stazione, che provocò 85 morti e 200 feriti: "Mi spiace ma la penso diversamente dai bolognesi, credo alla pista palestinese", scrive Emanuela Giampaoli l'1 agosto 2017 su “La Repubblica”. "Non concordo con il pensiero della maggioranza dei bolognesi, non credo che l’attentato del 2 agosto sia opera di fascisti italiani". Lo dice Giovanni Lindo Ferretti, ex CCCP ed ex CSI, da anni ormai ritiratosi sull’Appennino tosco emiliano, sceso sotto le Torri per inaugurare al Museo della Musica la mostra della fotografa Federica Troisi "Illumina le tenebre", dedicata agli abitanti dell'enclave serba di Velika Hoca in Kosovo, alla quale il musicista partecipa con una serie di testi e di brani musicali. Parole che suonano come una provocazione alla vigilia dell’anniversario della strage, quando la città è pronta a ricordare ancora una volta la sua ferita più profonda e a raccogliersi intorno ai suoi morti. "Mi dispiace non essere in sintonia con la mia città, quella in cui ho vissuto di più. Quando è successo il 2 agosto io ero ancora un bolognese di adozione, ma io non ci ho mai creduto". A convincere il cantante e scrittore è il cosiddetto lodo palestinese, una pista archiviata che in ambito giudiziario contrasta con le sentenze, la matrice neofascista e le condanne definitive di Mambro e Fioravanti. "In quel momento i palestinesi avevano dei problemi con lo Stato italiano e il fatto che non siano state fatte indagini su tre o quattro personaggi in quei giorni a Bologna mi convince oltremisura. Se almeno si fossero fatte le indagini…". Confessa che sono anni che ha smesso di parlare di queste cose. "Tutte le persone che conosco e a cui voglio bene non lo vogliono nemmeno sentire. Questa città si è fatta un punto di onore nel rivendicare una necessità di antifascismo militante 50 anni dopo l’epopea fascista e ha avuto un’occasione meravigliosa".

C’è una pista araba per la strage alla stazione di Bologna? Scrive Paolo Delgado il 2 Agosto 2017 su "Il Dubbio". Trentasette anni dopo la bomba alla stazione di Bologna, cioè la più sanguinosa strage nella storia d’Italia, oggi si ripeteranno puntualissime le polemiche che accompagnano da sempre la commemorazione. Stavolta nel mirino ci sarà la stessa procura di Bologna, fortemente criticata per aver archiviato l’inchiesta sui mandanti della strage. E’ opportuno ricordare che, secondo una sentenza definitiva ma giudicata quasi ovunque non credibile, non sono ancora stati individuati né i mandanti, né il movente, né gli esecutori materiali della strage. Ci sono tre condannati, Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, ma come “anelli intermedi”: quelli che avrebbero organizzato, su mandato non si sa di chi, l’attentato poi realizzato non si sa da chi per non si sa quali ragioni. Si può scommettere che nella polemica sui mandanti non una parola verrà dedicata alla denuncia che il quotidiano romano Il Tempo porta avanti, inascoltato, da una settimana. Il direttore Gian Marco Chiocci ha rivelato che esistono delle note dell’allora capo dei servizi segreti in Medio Oriente Stefano Giovannone, capocentro Sismi a Beirut e già uomo di fiducia di Aldo Moro. Le informative, ancora secretate dal Copasir, potrebbero secondo Chiocci gettare una luce tutta diversa sulla strage e sui suoi mandanti. Le note di Giovannone sono state visionate dai parlamentari della commissione Moro, ma senza il permesso di fotocopiarle né di diffonderne i contenuti. Prima di entrare nel merito degli appunti del vero ideatore del famoso Lodo Moro, quello che consentiva alle organizzazioni palestinesi di usare di fatto l’Italia come base in cambio dell’impegno a non colpire obiettivi italiani ( a meno che, segnalava però Cossiga, non avessero rapporti con Israele: il che, secondo l’ex presidente picconatore, escludeva dall’accordo gli ebrei), bisogna chiarire perché quelle note sono importanti e fino a che punto costituiscono un elemento valido per l’individuazione della verità sulla strage del 2 agosto 1980. A rendere particolarmente interessante quel documento è prima di tutto proprio il fatto che siano note di pugno di Giovannone. Non si trattava infatti di un agente dell’Intelligence come tanti: “Stefano d’Arabia”, com’era soprannominato, era senza dubbio la persona che nello Stato italiano conosceva meglio, più a fondo e più da vicino le organizzazioni palestinesi, nei confronti delle quali provava una assoluta simpatia. Il secondo elemento d’interesse è la stessa scelta di mantenere il segreto su quelle note del 1979- 80 a destare curiosità e sospetti: cosa giustifica, a quasi quarant’anni di distanza, tanta prudenza? Allo stesso tempo va chiarito che gli appunti di Giovannone non indicano affatto con certezza una responsabilità palestinese nella strage. In compenso confermano al di là di ogni dubbio che le indagini trascurarono deliberatamente una pista e scelsero, non sulla base di elementi concreti ma al contrario ignorando i soli elementi concreti a disposizione, di seguire solo quella neofascista. L’antefatto è noto ma conviene riassumerlo. Nella notte tra il 7 e l’8 novembre tre autonomi romani del collettivo di via dei Volsci furono arrestati a Ortona mentre trasportavano per conto dei palestinesi due lanciamissili Sam- 7 Strela di fabbricazione sovietica. Giovannone si mobilitò immediatamente, poche ore dopo l’arresto, per cercare invano di risolvere l’incidente, evidentemente molto preoccupato per qualcosa, anzi per qualcuno, che non potevano certo essere i tre autonomi. Si trattava infatti Abu Anzeh Saleh, ufficialmente studente a Bologna, in realtà responsabile militare del Fronte popolare per la Liberazione della Palestina in Europa. Saleh, che aveva chiesto ai tre autonomi di occuparsi del trasporto, senza chiarire di cosa si trattasse, fu arrestato pochi giorni dopo. Qualche settimana fa l’allora dirigente dell’Fplp Abu Sharif, nel corso dell’audizione di fronte alla Commissione Moro, ha rivelato che proprio Saleh era il dirigente palestinese a cui lo Stato italiano si era rivolto, dopo il sequestro di Moro, chiedendo un intervento dell’Olp a favore della liberazione dell’ostaggio. I rapporti stretti tra Giovannone e Saleh sono confermati dall’interessamento del potente colonnello perché al palestinese, espulso nel ‘ 74, fosse consentito il ritorno e il soggiorno in Italia. La preoccupazione di Giovannone era comprensibile e fondata. Sin dal ‘ 73 era in vigore l’accordo con il Fronte, come con altre organizzazioni palestinesi, che avrebbe dovuto mettere Saleh al riparo da ogni rischio d’arresto. Il colonnello aveva capito al volo che, con tre autonomi italiani di mezzo e nel clima dell’epoca, ottenere la scarcerazione del palestinese sarebbe stato molto difficile. Era ben consapevole di quanta irritazione ciò avrebbe comportato nei vertici dell’Fplp, allora fortemente influenzato dalla Libia, e quanto fosse di conseguenza alto il rischio di una reazione violenta. Pochi giorni dopo gli arresti, Giovannone accenna, nelle informative ancora secretate, a una lettera inviata al premier italiano Cossiga da Arafat, evidentemente preoccupatissimo per i sospetti di collusione tra palestinesi e terrorismo italiano. Nella lettera, mai consegnata a Cossiga per l’intervento del responsabile dell’Olp in Italia Nemer Hammad, Arafat attribuiva alla Libia ogni responsabilità per il trasporto dei lanciamissili. In dicembre Giovannone accenna per la prima volta a una divisione tra falchi e colombe ai vertici dell’Fplp e del conseguente rischio di dure rappresaglie ove l’Italia non mantenesse i propri impegni con il Fronte. In concreto, senza la liberazione di Saleh e la restituzione dei lanciamissili. Il colonnello torna a registrare la possibilità di rappresaglie e di iniziative punitive nei confronti dell’Italia nei primi mesi del 1980, dopo che il 25 gennaio tutti gli imputati erano stati condannati in primo grado a sette anni. In aprile Giovannone riporta le preoccupazioni dello stesso leader dell’Fplp George Habbash, che si dice pressato dall’ala estremista del Fronte favorevole alla rappresaglia. Nella stessa occasione il responsabile dei servizi segreti italiani in Medio Oriente specifica che l’eventuale attentato sarebbe commissionato a un’organizzazione esterna all’Olp, quella di Carlos con il quale, aggiunge Giovannone, l’area dura dell’Fplp ha appena preso contatti. L’esecuzione, prosegue la nota, sarebbe probabilmente affidata a elementi europei, per non ostacolare il lavoro diplomatico in vista del riconoscimento dell’Olp da parte dell’Italia. In maggio Giovannone cita apertamente un ultimatum, con scadenza il 16 maggio, dopo il quale la maggioranza sia dei vertici che della base del Fronte è favorevole a riprendere la piena libertà d’azione in Italia, se nel frattempo non ci sarà stata la liberazione di Saleh. Il colonnello afferma anche che, secondo le sue fonti, a premere per un’azione violenta è la Libia, principale sostegno del Fronte ma che, in ogni caso, nulla succederà prima della fine di maggio. La fase più pericolosa è invece considerata l’avvio del processo d’appello, il 2 luglio. Nelle settimane seguenti il governo italiano fa sapere di essere pronto a prendere in considerazione la condizione di Saleh, ma non quella dei tre autonomi italiani, e di essere disponibile a indennizzare i palestinesi per i due lanciamissili sequestrati. Il 29 maggio però la Corte d’Appello dell’Aquila respinge la richiesta di scarcerazione di Saleh e le fonti di Giovannone alludono a due possibili ritorsioni: un dirottamento aereo oppure l’occupazione di un’ambasciata. Ma è lo stesso capocentro del Sismi, in giugno, a sottolineare che gli siano stati segnalati obiettivi falsi allo scopo di coprire quelli e a ipotizzare un attentato “suggerito” dalla Libia all’Fplp ma non rivendicato per evitare di creare problemi all’Olp. L’ultimo appunto è di fine giugno. Giovannone dice di essere stato informato sulla scelta del Fronte di riprendere a muoversi in piena libertà, cioè senza più offrire le garanzie previste dal Lodo Moro e afferma di aspettarsi «reazioni particolarmente gravi» se l’appello non rovescerà la sentenza di condanna. Il processo però viene subito rinviato fino a ottobre. Le comunicazioni di Giovannone si fermano qui, ma l’11 luglio il direttore dell’Ucigos prefetto Gaspare De Francisci mette in allarme con una nota riservata il direttore del Sisde Giulio Grassini in merito a possibili ritorsioni da parte dell’Fplp. Né l’informativa di Giovannone né i molti altri elementi che potrebbero indicare una pista libicopalestinese per la strage sono tali da permettere di arrivare a conclusioni credibili, come troppo spesso ha cercato di fare negli ultimi anni uno stuolo di investigatori dilettanti. Ma il punto non è sostituirsi agli inquirenti. È, più semplicemente, chiedersi perché, che, con elementi simili a disposizione, gli investigatori abbiano deciso, sin dalle prime ore dopo l’attentato, di seguire tutt’altra pista.  

Lo Stato “contro natura”. L’indagine della Dda di Reggio Calabria (ri)svela il matrimonio tra apparati statali marci e mafie, scrive il 31 luglio 2017 Roberto Galullo su "Il Sole 24 ore". La natura del genere umano è progredire, sperimentare e inventare ciò che può migliorare la vita stessa, aiutato in ciò, oltre che dall’intelligenza, il dialogo ed il confronto, anche dalla scienza e, per chi crede, dalla fede. E’ così da sempre in tutti i campi e in ogni settore della vita. A volte lo Stato si comporta contro natura. A volte la magistratura si comporta contro natura. E, contro natura, si comporta anche la libera informazione il cui compito dovrebbe (lo è sempre meno) condire la crescita della società, inseguendone i difetti ed esaltandone i pregi. Inutile girarci attorno: mi riferisco – da ultimo ma solo da ultimo – all’indagine della Procura di Reggio Calabria che ha ripreso, ampliandola e dandole rinnovata forza la precedente indagine Mammasantissima (ma sarebbe più corretto dire tutto ciò che è confluito nel procedimento Gotha) e Sistemi criminali del 1998 in quel di Palermo avviata da Roberto Scarpinato e proseguita da Antonio Ingroia che il 21 marzo 2001 dovette chiederne l’archiviazione giocoforza. Ebbene, cosa ci dicono in estrema sintesi queste indagini: che le mafie non sono più (per quel che mi riguarda non sono mai state) coppola e lupara ma evoluti sistemi criminali che trovano ed offrono una sponda alle parti spurie e marcie dello Stato. Un matrimonio di interessi – non certo di amore – che può essere sublimato e far raggiungere un intenso orgasmo ai copulatori, quando le mafie diventano un sol corpo ed una sola anima con lo Stato deviato. Ora, senza allontanarci tanto da questo esempio terra-terra, le indagini a cui ho fatto riferimento ci raccontano in maniera plastica che lo Stato va contro natura quando, anziché progredire, migliorare, evolvere, ha delle componenti marce che lo ancorano allo status quo.

Volete un esempio? Ve lo faccio subito. A pagina 19 dell’ordinanza firmata dal Gip Adriana Trapani, che ha accolto e valorizzato la tesi della Dda reggina – capo della Procura Federico Cafiero De Raho, procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo e, dalla Dna, il sostituto procuratore nazionale Francesco Curcio, che hanno ricostruito la “Cosa unica”, che entra in azione quando lo Stato deve essere prima destabilizzato e poi stabilizzato – si legge una cosa molto ma molto interessante. «Così come per Cosa Nostra il procedere del maxi processo verso le condanne definitive era stato il preoccupante annuncio dell’inizio di un declino inarrestabile – si legge testualmente nel provvedimento – così per alcuni settori di tali apparati, lo smantellamento di Gladio (autunno 1990) era stato, per alcuni esponenti degli apparati di sicurezza e i loro sodali, ma sarebbe meglio parlare dei manovratori di costoro (vedremo come si giungerà ad individuare in non identificati appartenenti della 7 Divisione del Sismi e nel residuo, ma pervicace, piduismo gelliano il nucleo di tali forze), il segnale di un intollerabile ridimensionamento del proprio potere. Insomma, le mafie e le descritte schegge infedeli di apparati statali, sembravano accomunati, in quegli anni, ad uno stesso destino: i nuovi equilibri geo-politici stavano mutando i meccanismi di un sistema in cui erano prosperate. La loro sopravvivenza era quindi legata alla necessità di impedire che quei cambiamenti travolgessero quel sistema. Insomma, entrambe, cercavano il mantenimento dello status quo. Inteso, però, non attraverso la conservazione, al posto di comando, degli stessi uomini e delle stesse formazioni politiche (che, anzi si intendeva liquidare perché non più utili e spendibili), ma al contrario, attraverso l’ennesima applicazione dell’eterno adagio gattopardesco, “per cui si deve cambiare tutto affinché nulla cambi”. Si dovevano rinnovare del tutto le rappresentanze politiche, affinché, quelle oramai logore della prima Repubblica, fossero sostituite da nuovi partiti e nuovi uomini che continuassero a garantire l’egemonia mafiosa nelle regioni meridionali. E mentre le stragi e la strategia della tensione sarebbero stati un perfetto acceleratore di questo finto ricambio, le mafie, non senza il contributo di altre e diverse forze occulte (come si vedrà in dettaglio, sia paramassoniche piduiste che della destra eversiva) preparavano, attraverso il leghismo meridionale (che si saldava a quello settentrionale) la finta-nuova classe politica etero diretta, che aveva la precipua mission di garantire ‘ndrangheta, Cosa Nostra e le altre mafie». Che le mafie abbiamo come solo e unico obiettivo “sociale” quello di cristallizzare e conservare lo status quo è ovvio quanto lo è la genialità del calcio dipinto per 25 anni da Francesco Totti. Le mafie vivono e prosperano in un perimetro di regole che non cambiano o, se cambiano, è solo per agevolarne il cammino di corruzione e sopraffazione. Che una parte dello Stato, invece, ancori le proprie radici a quelle delle mafie per mantenere quello status quo che legittima gli uni e gli altri in un nodo mortale per la democrazia, lo trovo contro natura. Chi la pensa diversamente alzi la mano ma sappia che domani (e per tutta la settimana) aggiungerò nuovi elementi e riflessioni.

Stato “contro natura”. La Dda di Reggio Calabria svela la piaga purulenta all’interno dei servizi segreti: la Falange Armata, scrive l'1 agosto 2017 Roberto Galullo su "Il Sole 24 ore". Cari lettori di questo umile e umido blog, da ieri vi sto raccontando quando e come lo Stato, la magistratura e l’informazione vanno contro la propria natura che è quella di far evolvere una società, garantirne la giustizia e assicurare la conoscenza dei fatti. Lo faccio prendendo spunto dall’ultima e fondamentale indagine della Procura di Reggio Calabria (capo della Procura Federico Cafiero De Raho, procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo e, dalla Dna, il sostituto procuratore nazionale Francesco Curcio), che hanno ricostruito la “Cosa unica”, che entra in azione quando lo Stato deve essere prima destabilizzato e poi stabilizzato. Tutto deve cambiare affinché nulla cambi, scrive testualmente la Gip Adriana Trapani che ha firmato l’ordinanza contro Rocco Santo Filippone (‘ndrangheta) e Giuseppe Graviano (Cosa nostra). Ieri ci siamo fermati al matrimonio tra mafie e apparati dello Stato marcio per garantire lo status quo. Nulla di più logico per le mafie. Nulla di più aberrante e contro natura per lo Stato. Ci siamo (sof)fermati sulla 7ma Divisione del Sismi che, secondo le indagini reggine, era avvinto come l’edera ai residui del piduismo “gelliano”. Ma cos’era ‘sta 7ma Divisione del Sismi? Si trattava della Divisione dell’ex servizio di sicurezza che manteneva i collegamenti operativi con Gladio, il gruppo che aveva creato la sedicente Falange Armata. Breve inciso: Gladio era un’organizzazione paramilitare clandestina italiana di tipo stay-behind (“stare dietro”, “stare in retroscena”) promossa dalla Nato e organizzata dalla Cia per contrastare un’ipotetica invasione dell’Europa da parte della ex Unione Sovietica e dei paesi aderenti al Patto di Varsavia. Venne svelata bel ’90 ufficialmente da Giulio Andreotti che parlò di una struttura di informazione, risposta e salvaguardia. La Falange Armata, invece, ve la descrivo con le conclusioni alle quali giunge il Gip Trapani: «… la Procura condensa le proprie conclusioni in merito alla ideazione e all’utilizzo della sigla Falange Armata, inizialmente adottata da Cosa Nostra per nascondere la sua presenza dietro le azioni stragiste. Le ragioni dell’utilizzo di tale sigla miravano ad impedire che gli attentati fossero immediatamente ricondotti alle mafie. Se così fosse stato, le condizioni per ricattare lo Stato non ci sarebbero più state, in quanto si sarebbe trattato di un ricatto palesemente firmato. Attraverso un mirato approfondimento e richiamando i dati sopra esposti, la Procura conclude collegando tale sigla ai servizi deviati, in quanto ideata ed utilizzata da appartenenti infedeli ai Servizi di Sicurezza, sia per regolare conti interni ai servizi stessi, sia per essere messa a disposizione, inizialmente in funzione di depistaggio, delle azioni criminali eseguite delle organizzazioni mafiose. Significativa, in tal senso, è la vicenda sopra esaminata di Paolo Fulci. Filoni d’indagine — autonomi e distinti — su Cosa Nostra, sulla ‘ndrangheta e sul Sismi consentono, pertanto, di giungere a tale conclusione».  Quindi qui abbiamo già uno Stato “contro natura” sviscerato da alcuni magistrati e avallato da un giudice terzo ma torniamo alla 7ma Divisione del Sismi, dalla quale eravamo partiti. Per farlo torniamo a quel nome appena accennato sopra, quello di Paolo Fulci, ex ambasciatore che era stato, dopo una lunga e brillante carriera in diplomazia, Segretario generale del Cesis – organismo di controllo e coordinamento dei due servizi d’informazione “operativi” dell’epoca (il Sisde ed il Sismi) – fra il maggio 1991 e aprile 1993 e poi, della Dna. La Procura di Reggio Calabria ha dapprima acquisito la lunga deposizione, che aveva ad oggetto proprio la Falange Armata, resa da Fulci alla Dda di Palermo il 4 aprile 2014 e poi ha acquisito un articolato carteggio, composto da informative della Digos e documenti forniti all’aurorità giudiziaria dai servizi d’informazione e dal Cesis sul medesimo oggetto. La deposizione di Fulci alla Dda di Palermo fu particolarmente lunga. Fulci, poco dopo avere informato (in modo non dettagliato) il Comandante dell’Arma dei carabinieri dell’epoca e, ben più sommariamente, i suoi referenti politici – vale a dire i Presidenti del Consiglio in carica e quelli che gli avevano dato il mandato (il Presidente Giulio Andreotti con l’avallo dell’allora Presidente della Repubblica Francesco Cossiga) – dopo che nell’aprile 1993 lasciò l’incarico si recò a svolgere funzioni diplomatiche oltreoceano. Vennero poi sentiti, il suo capo-gabinetto – generale Nicola Russo – e altri collaboratori, dalla Digos di Roma su delega della locale Procura. In buona sostanza, emerse che Fulci, dopo accertamenti interni fatti svolgere da personale di sua fiducia, avesse richiesto, al comandante generale dei Carabinieri di dare impulso ad attività d’indagine su circa 15 funzionari del Sismi, che prestavano servizio presso il nucleo Ossi, una sorta di gruppo di elite della Divisione del Sismi, in quanto a suo giudizio probabili o possibili appartenenti alla sedicente Falange armata (che pure aveva minacciato Fulci), una sorta di struttura occulta dei servizi deviati che svolgeva una campagna di “intossicazione”, disinformazione e aggressione ad esponenti istituzionali, che si poneva in continuità con la politica piduista dei vecchi apparati Sid/Sifar. Il generale Russo, in particolare — che non aveva partecipato alle attività di accertamento in questione, promosse da Fulci, si legge testualmente nel provvedimento firmato dal Gip Trapani — in via generale, nel corso della escussione del 3 luglio 1993 alla Digos di Roma, ribadì che Fulci legava le attività di minaccia, rivendicazione ed intimidazione della Falange, al tentativo di infangare e intimorire tutti i soggetti di rilievo istituzionale o pubblico che avevano evidenziato perplessità sulla cd Operazione Gladio individuando, anche legami fra, questa e la P2. Nel corso delle successive indagini, venivano approfonditi ulteriori aspetti e profili dei collegamenti Falange/7ma Divisione derivanti da quelle che erano state le dichiarazioni di Fulci. Ma questo lo leggeremo domani.

Stato “contro natura”. Nella stagione stragista Licio Gelli aveva in mano le mafie e i servizi deviati. Potevano vivere Falcone e Borsellino?  Scrive il 2 agosto 2017 Roberto Galullo su "Il Sole 24 ore". Cari lettori di questo umile e umido blog, da ieri vi sto raccontando quando e come lo Stato, la magistratura e l’informazione vanno contro la propria natura che è quella di far evolvere una società, garantirne la giustizia e assicurare la conoscenza dei fatti. Lo faccio prendendo spunto dall’ultima e fondamentale indagine della Procura di Reggio Calabria (capo della Procura Federico Cafiero De Raho, procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo e, dalla Dna, il sostituto procuratore nazionale Francesco Curcio), che hanno ricostruito la “Cosa unica”, che entra in azione quando lo Stato deve essere prima destabilizzato e poi stabilizzato. Tutto deve cambiare affinché nulla cambi, scrive testualmente la Gip Adriana Trapani che ha firmato l’ordinanza contro Rocco Santo Filippone (‘ndrangheta) e Giuseppe Graviano (Cosa nostra). Abbiamo fin qui analizzato il matrimonio tra mafie e apparati dello Stato marcio per garantire lo status quo. Va ora segnalato un dato di eccezionale rilievo che va ben al di là delle stesse coraggiose dichiarazioni dell’ex ambasciatore Fulci in quanto acquisito in epoca successiva alla cessazione dalla carica al Cesis dello stesso. Come evidenziato in una informativa del Servizio Antiterrorismo, non solo – e non tanto – vi era coincidenza fra le sedi periferiche del Sismi e le celle da cui provenivano le telefonate della Falange Armata ma addirittura da una attenta e scrupolosa ricognizione dei pernottamenti in albergo dei soggetti segnalati da Fulci stesso (appartenenti, come detto, alla 7ma Divisione – Ossi -) risultava che anche da un punto di vista temporale vi era coincidenza fra i soggiorni di molti di costoro e il giorno in cui dalla cella della località ove si trovavano, erano partite le minacce falangiste. Lo stesso servizio Antiterrorismo, infine, nella nota segnalava come fosse evidente, con riferimento alle minacce subite da Fulci della Falange Armata, ancora prima che prendesse servizio al Cesis e ancora prima che fosse nota la sua nomina, la riconducibilità delle minacce in questione ad appartenenti ai servizi. Secondo la Procura di Reggio Calabria e il giudice Trapani che ha firmato l’ordinanza, c’è un altissimo grado di probabilità che la Falange Armata fosse una sigla riconducibile ai cosiddetti servizi deviati. Tre filoni d’indagine – autonomi e distinti – su Cosa Nostra, sulla ‘ndrangheta e sul Sismi consentono di giungere alla stessa conclusione. Il filone investigativo sul Sismi consente di precisare che la struttura deviata si annidava all’interno della 7ma Divisione (scolta nel 1993) del Sismi. Si trattava della Divisione che si occupava di Gladio e che, non diversamente dalle mafie, vedeva messa in discussione la sua mission nel nuovo periodo storico che si andava ad aprine nei primi anni Novanta. «Non sappiamo chi, all’interno di tale divisione abbia in concreto operato a tale fine, ma le tracce processuali che si aveva il dovere di seguire portano fino a quella porta», si legge nel provvedimento. Questi soggetti, legati alle vecchie strutture dei servizi in mano a Licio Gelli, che non a caso tutelavano, concordarono – fra il 1990 ed il 1991 – con le principali mafie, Cosa Nostra, ‘ndrangheta, l’utilizzo della sigla Falange Armata nella rivendicazione di efferati delitti e stragi. Come sappiamo, negli anni successivi, ci sarebbero state sia le stragi che le rivendicazioni. Il contatto e l’accordo in questione era parallelo a quello storico che vedeva, ancora una volta, protagonisti Gelli e le mafie, nel lancio delle cosiddette liste autonomiste e andava oltre. Gli elementi indiziari convergenti consentano infatti di tracciare un legame fra Gelli e la strategia stragista nel suo complesso. Per ora mi fermo ma domani si prosegue.

IOR NAME IS 007: DA MARCINKUS A SCARANO, GLI INTRECCI TRA SERVIZI, MASSONI E VATICANO. L’inchiesta su monsignor 500 euro è l’ultimo di una lunga serie di misteri che vedono intrecci tra servizi segreti italiani, Vaticano e massoneria - La morte di Papa Luciani, che voleva riformare lo Ior, e quello scazzo con Villot - Il caso di Emanuela Orlandi, scrive Marco Mostallino per Lettera43.it il 3 luglio 2013. Tonache, barbe finte e grembiulini. La vicenda dell'Istituto opere religiose (Ior), la banca vaticana i cui vertici sono stati indotti alle dimissioni, si intreccia da 40 anni con gli affari e le manovre di monsignori, agenti segreti più o meno deviati, massoni e piduisti.

MONSIGNORI E MASSONI. Massone era monsignor Paul Markincus, presidente dello Ior tra il 1971 e il 1989, coinvolto negli scandali del Banco Ambrosiano e nelle misteriose morti di Michele Sindona e Roberto Calvi. Massone era anche monsignor Jean Villot, potente segretario di Stato all'epoca di Paolo VI e protagonista di un duro scontro sugli assetti della banca con Albino Luciani, il pontefice che intendeva rivoluzionare l'Istituto ma che morì prima di poter mettere mano alle riforme.

IL CASO SCARANO. E membri dei servizi segreti italiani erano - o forse sono ancora - il prefetto Francesco La Motta, incarcerato il 28 giugno scorso per il furto di fondi del Viminale passati sui conti Ior, e Giovanni Zito, il carabiniere fermato con l'accusa di aver fatto da spallone tra l'Italia e la Svizzera per muovere i quattrini di Nunzio Scarano, il vescovo arrestato proprio per i traffici di decine di milioni movimentati attraverso i canali riservati della banca vaticana. Marcinkus guidò lo Ior, coltivandone i legami con Calvi, Sindona e il capo della P2 Licio Gelli, fino a quando nel 1987 la magistratura italiana ne ordinò l'arresto per gli intrighi dell'Ambrosiano. Il monsignore massone trovò rifugio per quasi 10 anni prima tra le mura della Santa Sede, che non lo consegnò mai alla giustizia, poi di una piccola parrocchia statunitense, dove morì nel 1997 senza che l'allora papa, Giovanni Paolo II, aprisse mai i segreti della Chiesa agli investigatori italiani.

SCARANO B. Chi cercò di ripulire le istituzioni vaticane da imbrogli e malaffare fu Albino Luciani. Prima, nel 1972, da patriarca di Venezia, quando si recò in Vaticano per contrastare la decisione di Marcinkus di acquisire due banche venete legate al mondo cattolico. Poi, nel 1978, da papa.

LA MANO DI JEAN VILLOT. Non vi riuscì, poiché il capo dello Ior godeva della piena protezione del segretario di Stato dell'epoca, il cardinale Jean Villot. Il porporato francese era un uomo abile, scaltro, determinato e spregiudicato, messo a capo del governo della Santa Sede nel 1969 da Paolo VI. Membro della massoneria, conservò la carica anche con Luciani, l'uomo che appena eletto pontefice - come confessò egli stesso ai suoi collaboratori fatti giungere a Roma dal Veneto - si trovò subito attorno la terra bruciata creata dalla Curia vaticana.

LUCIANI E QUELLA MORTE SOSPETTA. Luciani era un uomo limpido e determinato: «Desidero che siano i vescovi e cardinali, con una loro rappresentanza, a decidere cosa fare dello Ior. Chiedo che le sue azioni siano tutte lecite e pulite e consone con lo spirito evangelico», disse. Prima di aggiungere, riferendosi a Marcinkus pur senza farne il nome, che «il presidente dello Ior deve essere sostituito, nel rispetto della persona: un vescovo non può presiedere e governare una banca». Ma accadde esattamente il contrario. A essere sostituito, dopo 33 giorni di pontificato, fu il papa. E a causa di morte. Taluni ipotizzarono che quel «rispetto della persona» non fu garantito a Luciani: il decesso venne classificato per cause naturali, ma nessuna autopsia fu mai eseguita.

PAPA LUCIANI. Tra le mani, il papa morto teneva alcune carte - notizia che il Vaticano sulle prime nascose - con appunti su un duro colloquio avvenuto poche ore prima con Villot, al quale aveva comunicato di voler cambiare i vertici dello Ior e di alcuni ministeri della Santa Sede, ricevendo in cambio il parere fortemente negativo dell'allora segretario di Stato.

I SERVIZI SEGRETI ITALIANI, TRA IOR E CRIMINALITÀ. Nelle vicende dello Ior, dell'Ambrosiano e nelle misteriose morti a esse legate i servizi segreti italiani spuntano spesso e volentieri. L'ombra degli 007 è calata sugli omicidi di Calvi e Sindona mentre, secondo alcune testimonianze, gli agenti italiani avrebbero svolto ruoli di mediazione tra i porporati e la banda della Magliana nel rapimento di Emanuela Orlandi.

CARLO CALVI CON LA MADRE E MICHELE E RINA SINDONA ALLE BAHAMAS. Ed è accertato da diverse indagini che uffici dello spionaggio italiano hanno spesso utilizzato conti coperti dello Ior per spostare soldi in maniera riservata. Le ultime due inchieste romane hanno poi rivelato che uomini dei servizi sono pesantemente coinvolti nei traffici illeciti che avvengono tramite la banca vaticana.

GLI EX AISI LA MOTTA E ZITO. Il prefetto La Motta, arrestato pochi giorni fa, prima di essere trasferito al Viminale è stato vicedirettore dell'Aisi, il servizio segreto per la sicurezza interna (una dalle agenzie che hanno sostituito Sismi e Sisde, i cui nomi erano diventati impronunciabili). Anche l'uomo accusato di aver trasportato i soldi di monsignor Scarano, il sottufficiale dei carabinieri Giovanni Zito, aveva lavorato per l'Aisi per poi tornare in forza all'Arma.

EMANUELA ORLANDI. Ma uno 007 è un po' come un prete: la sua scelta vocazionale lo accompagna per tutta la vita e le indagini di questi giorni dimostrano che i film di James Bond in fondo portano con sé una morale veritiera: quando indossi una barba finta, è difficile poi che qualche pelo, magari proprio dei più sporchi, non ti resti addosso per sempre.

Soldi, caso Orlandi, abusi: il nuovo libro di Nuzzi sui misteri del Vaticano. «Su Emanuela dì che non sai niente». Nella nuova inchiesta del giornalista Nuzzi, «Peccato originale», anche la denuncia dei chierichetti di San Pietro, sottoposti ad indebite attenzioni da parte dei loro superiori, scrive l'8 novembre 2017 Gian Antonio Stella su "Il Corriere della Sera". «Allo Ior dovresti evitare assolutamente di conoscere i nomi dei correntisti…». «E se invece dovessi chiedere i nomi dei clienti?». «A quel punto, amico mio, avrai quindici minuti per mettere in sicurezza i tuoi figli. A presto caro…». Basta questo scambio di battute tra Ettore Gotti Tedeschi sul punto di essere nominato presidente della Banca Vaticana e l’«apprezzato uomo delle istituzioni pragmatico e soprattutto molto ascoltato» che scodella al banchiere l’affettuoso «consiglio» dalle sfumature mafiose, a gettare una lama di luce sul nuovo libro di Gianluigi Nuzzi.

La fronda a Papa Francesco. Si intitola «Peccato originale», è edito da Chiarelettere e in 352 pagine il giornalista e scrittore, autore dei bestseller «Vaticano S.p.A.», «Sua Santità» e «Via Crucis» cerca di rispondere a sette domande rimaste in sospeso. Domande che, proprio perché irrisolte, vanno indietro anche di mezzo secolo. «È stato ucciso Albino Luciani? Chi ha rapito Emanuela Orlandi? Se la ragazza ormai “sta in cielo”, come afferma papa Francesco, il Vaticano ha delle responsabilità nell’omicidio, e quali sono? Perché le riforme per la trasparenza della curia, avviate prima da Joseph Ratzinger e adesso da Bergoglio, puntualmente falliscono o rimangono incompiute? Cosa blocca il cambiamento? E ancora: i mercanti del tempio continuano a condizionare la vita della Chiesa dopo aver avuto un ruolo nella rinuncia al pontificato di Benedetto XVI? Infine, la questione più drammatica: lo stallo nel quale sono cadute le riforme di Francesco è dovuto a chi non vuole questo Papa, dentro e fuori i sacri palazzi, e dunque ne ostacola l’opera riformatrice?». Per rispondere, spiega, ha seguito tre fili rossi: i soldi, il sangue, il sesso. Fili che «annodandosi tra loro costituiscono una fitta trama d’interessi opachi, violenze, menzogne, ricatti, e soffocano ogni cambiamento».

Il boss in basilica. E c’è davvero di tutto, nel libro. Dai conti correnti allo Ior di Eduardo de Filippo o di Anjezë Gonxe Bojaxhiu, (suor Teresa di Calcutta) alla dettagliata ricostruzione della riservatissima trattativa tra i vertici della magistratura romana e gli altissimi prelati che fecero sapere al procuratore Giancarlo Capaldo, che da anni indagava sulla scomparsa della Orlandi, del loro imbarazzo per la crescente «tensione massmediatica» a causa della presenza nei sotterranei di sant’Apollinare della tomba di Enrico «Renatino» De Pedis, il boss della banda della Magliana sospettato d’aver avuto un ruolo centrale nella sparizione della ragazza e sepolto lì in cambio di una donazione, pare, di 500 milioni di lire. Insomma, il «disagio» per «sospetti» e «pettegolezzi» era tale che se i giudici si fossero presi la briga di rimuover loro la salma, come raccontava il film di Roberto Faenza «La verità sta in cielo», il Vaticano dopo anni di reticenze avrebbe discretamente fornito tutto ciò che sapeva. Un patto che dopo la traslazione della salma e l’esame di 409 cassette e 52.188 ossa umane per cercare eventuali tracce della quindicenne sparita, sfumò com’è noto nel nulla.

Papa Luciani. Come nel nulla erano finiti i dubbi, le discussioni e le polemiche sulla morte di Albino Luciani, il «Papa che sorrise solo 33 giorni». Fu avvelenato? Probabilmente no, dice Nuzzi: piuttosto fu «schiacciato» dal peso dei problemi e più ancora dalla «verità tragica e indicibile» di quanto avveniva dentro lo Ior. Che lui avrebbe voluto riformare fin dal ‘72, quando da Patriarca di Venezia aveva avuto il primo scontro col potentissimo e spregiudicato cardinale Paul Marcinkus. Il quale, si legge in «Peccato originale», avrebbe liquidato sei anni dopo il neoeletto Giovanni Paolo I con parole sprezzanti: «Questo pover’uomo viene via da Venezia, una piccola Diocesi che sta invecchiando, con 90.000 persone e preti anziani. Poi, all’improvviso, viene catapultato in un posto e nemmeno sa dove siano gli uffici. (…) Si mette a sedere e il segretario di Stato gli porta una pila di documenti, dicendo: “Esamini questi!”. Ma lui non sa neppure da dove cominciare».

Scatole cinesi e conti esteri. In verità, i pasticci, le scatole cinesi e i labirinti azionari erano tali che avrebbe faticato a capirci non solo un Papa santo ma un revisore dei conti provetto. Basti dire che uno dei numerosi documenti in appendice al libro, del 23 marzo 1974, è la «contabilizzazione assegno n. 0153 s/FNCB NY, del valore di 50.000 dollari, emesso all’ordine: “S.S. Paolo VI per erogazione in relazione Esercizio 1973”. In basso nel documento si riporta il relativo addebito sul conto n. 051 3 01588, intestato “Cisalpine Fund”, che potrebbe far riferimento alla banca panamense Cisalpine, nel cui cda siederanno Paul Marcinkus con Roberto Calvi e Licio Gelli». Banca tirata in ballo in un incontro con Nuzzi dalla stessa vedova di Roberto Suárez Gómez, il «re della cocaina»: «Mio marito Roberto era felice di aver incontrato in Venezuela Calvi, perché disponendo di un garante di questo livello gli affari sarebbero andati molto meglio... con la cocaina immagino, non fu esplicito ma immagino fosse così... Calvi era socio di mio marito...».

La lobby gay. Ma le pagine destinate a sollevare più polemiche sono quelle dedicate al sesso. Dove sono ricostruiti gli scandali recenti come il gay party a base di cocaina interrotto dai gendarmi vaticani in un appartamento nello stesso palazzo del Sant’Uffizio o le confidenze di Elmar Theodor Mäder, l’ex comandante delle guardie svizzere («Esiste in Vaticano una lobby gay talmente potente da essere pericolosa per la sicurezza del pontefice») o ancora le amarezze di papa Francesco: «In Vaticano esiste una lobby gay. Nella curia ci sono persone sante, davvero, ma c’è anche una corrente di corruzione. Si parla di una lobby gay ed è vero, esiste». Ma Nuzzi va oltre. Pubblica un’intercettazione telefonica ad esempio tra il rettore della basilica di Sant’Apollinare all’epoca della scomparsa della Orlandi e un giovane seminarista nato in Birmania. Intercettazione strapiena di allusioni sessuali a dir poco imbarazzanti. Più ustionante ancora la testimonianza di un polacco (con nome, cognome e copia della lettera di denuncia) entrato dodicenne nel pre-seminario San Pio X a palazzo San Carlo (lo stesso in cui vivono cardinali come Tarcisio Bertone) dove le Diocesi indirizzano i ragazzini che «manifestano una predisposizione per il sacerdozio» e «partecipano come chierichetti alle funzioni religiose nella basilica di San Pietro». Incluse quelle celebrate dal Papa. E dove, stando a quanto raccolto in «Peccato originale», sarebbero avvenuti abusi denunciati ai superiori, su su nella scala gerarchica, senza che certe cose, purtroppo, venissero radicalmente cambiate. A essere allontanato, scrive anzi il giornalista, fu il chierichetto che chiedeva di allontanare chi molestava lui e il suo compagno di stanza. Accuse assurde? Si vedrà. Certo colpiscono le risposte rasserenanti e sdrammatizzanti di certi prelati chiamati a intervenire dopo queste denunce. Su tutte una «raccomandazione» al giovane polacco: «Ti auguro di riprendere serenità e docilità».

Emanuela Orlandi, spunta dossier shock, scrive il 18/09/2017 "Adnkronos.com". Nuovo documento choc sul caso di Emanuela Orlandi, la ragazzina 15enne, figlia di un commesso della Prefettura della Casa Pontificia, scomparsa in circostanze misteriose il 22 giugno del 1983. L'esistenza del dossier segreto emerge dal libro-inchiesta Gli impostori del giornalista Emiliano Fittipaldi. "E' un riassunto di tutte le note spese per un presunto 'allontanamento domiciliare' di Emanuela Orlandi", scrive su Facebook il cronista. "Ho trovato un documento uscito dal Vaticano. Ci ho lavorato mesi, e ho pubblicato un libro, Gli impostori, che uscirà tra qualche giorno", spiega. "Leggendo il resoconto - continua il giornalista nel post su Facebook - e seguendo le tracce delle uscite della nota, che l'estensore attribuisce al cardinale Lorenzo Antonetti, sembra che il Vaticano abbia trovato la piccola rapita chissà da chi, e che abbia deciso di 'trasferirla' in Inghilterra, a Londra. In ostelli femminili". "Per 14 anni - prosegue - le avrebbe pagato rette, vitto e alloggio, spese mediche, spostamenti. Almeno fino al 1997, quando l'ultima voce parla di un ultimo trasferimento in Vaticano e 'il disbrigo delle pratiche finali'". "Delle due l'una - osserva il giornalista - o il documento è vero, e apre squarci clamorosi e impensabili sulla storia della Orlandi. O è un falso, un apocrifo che segna una nuova violenta guerra di potere tra le sacre mura. Ma - conclude - chi può aver costruito un simile resoconto?". Fittipaldi torna a occuparsi di Vaticano con 'Gli impostori' dopo essere stato coinvolto due anni fa nel caso Vatileaks per il suo libro Avarizia. Messo sotto processo dal Vaticano con l'accusa di aver divulgato documenti top secret, il giornalista è stato prosciolto lo scorso anno "per difetto di giurisdizione". Il cardinale Giovanni Battista Re, il cui nome è comparso, insieme a quello del cardinale Jean-Louis Tauran tra i destinatari del documento, dichiara, intervistato da Stanze Vaticane, il blog di Tgcom24: "Non ho mai visto quel documento pubblicato da Fittipaldi, non ho mai ricevuto alcuna rendicontazione su eventuali spese effettuate per il caso di Emanuela Orlandi". Il cardinale Re, all'epoca era Sostituto per gli Affari Generali della Segreteria di Stato e avrebbe ricevuto questo dossier da parte dell'Apsa (L'Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica). Nessuna certezza sull'autenticità del documento che riporta la firma dattiloscritta del cardinale Lorenzo Antonetti, ma non quella autografa. Vaticano: "Documento Fittipaldi falso e ridicolo" - "Falso e ridicolo". Così, senza commentare oltre, il portavoce della Santa Sede Greg Burke definisce il documento pubblicato da Fittipaldi. "Il muro sta cadendo", scrive su Facebook Pietro Orlandi, fratello di Emanuela. Probabilmente un auspicio per Pietro che da sempre lotta per la verità su quanto accaduto alla sorella.

Caso Orlandi, c’è il giallo dei ricoveri Sul dossier l’ombra dei corvi. L’elenco di spese per gestire il caso sarebbe un avvertimento. Riferimenti diretti ad altri documenti allegati e ancora segreti, scrive Fiorenza Sarzanini il 18 settembre 2017 su "Il Corriere della Sera". «Allontanamento domiciliare della cittadina Emanuela Orlandi»: così, nel dossier che circola in Vaticano, viene definita la scomparsa della giovane avvenuta il 22 giugno 1983. E tanto basta per accreditare l’ipotesi che quei cinque fogli con l’elenco delle spese per circa 500 milioni di lire attribuite alla Santa Sede per gestire la vicenda fino a luglio 1997, siano in realtà un avvertimento. La resa dei conti in una guerra interna cominciata con le rivelazioni dei «corvi» e continuata con i documenti pubblicati durante Vatileaks. Una possibilità avvalorata dal fatto che fossero stati rubati dalla cassaforte di monsignor Vallejo Balda — condannato come una delle «fonti» — e poi restituiti in un plico anonimo spedito alla Prefettura. Sono proprio le circostanze elencate nella relazione a sollevare nuovi dubbi e interrogativi su quello che invece è sempre stato considerato un rapimento di cui però rimane oscuro il movente.

Le ricevute allegate. Nel testo attribuito all’allora presidente dell’Apsa, l’amministrazione del patrimonio della sede apostolica, si parla di un «divieto postomi di interrogare direttamente le fonti incaricando esclusivamente il capo della gendarmeria vaticana», che all’epoca era Camillo Cibin. E subito dopo si specifica che il documento «non include l’attività commissionata da Sua Eminenza il cardinale Agostino Casaroli al “Commando 1” in quanto alcun organo a noi noto o raggiungibile è a conoscenza di quanto emerso e della quantità di denaro investita nell’attività citata». Sia Cibin, sia Casaroli sono morti. Ma molte persone che collaboravano con loro rivestono tuttora incarichi all’interno della Santa Sede. E forse proprio a loro si rivolge chi ha confezionato il dossier. Anche perché specifica che esistono «documenti allegati in originale per la parte relativa ai pagamenti per i quali è stata rilasciata quietanza», sottolineando che sono state effettuate spese «non fatturate». Una nota che suona come un messaggio in codice per far sapere che altre carte potrebbero essere rese note.

I due ricoveri. Nessuna tra le ipotesi formulate nel corso degli anni su che cosa sia accaduto alla giovane ha mai trovato riscontro, ma accreditare la tesi che possa essere stata «gestita» per 14 anni dalle gerarchie ecclesiastiche apre scenari inquietanti proprio su quanto può essere accaduto Oltretevere. Anche perché l’appello del 3 luglio 1983 pronunciato da Giovanni Paolo II, durante l’Angelus, escluse la pista di una fuga volontaria e confermò che il Pontefice potesse avere avuto informazioni su un coinvolgimento del Vaticano per la responsabilità di personaggi interni, oppure come destinatario del ricatto. Per questo suscitano interesse due «voci» del dossier che riguardano i ricoveri in strutture sanitarie della Gran Bretagna. Nella prima si parla di «spese clinica St Mary’s Hospital Campus Imperial College» di Londra per 3 milioni di lire. E subito dopo è citata la «dottoressa Leasly Regan, Department of Obstetrics & Gynaecology» senza specificare la spesa ma annotando invece che l’attività «economica a rimborso» è contenuta «nell’allegato 28».

Niente protocollo. Nel dossier «presentato in triplice copia per dovuta conoscenza a entrambi i destinatari» — che sono l’allora sostituto per gli Affari generali della Segreteria di Stato, il cardinale Giovanni Battista Re, e il sottosegretario Jean Louis Tauran — si sottolinea che «come da richiesta non si espleta la funziona di protocollazione». Un’altra circostanza che appare come un avvertimento. Di questo documento si parla ormai da svariati mesi tanto che la famiglia Orlandi aveva chiesto udienza al Segretario di Stato Pietro Parolin. Dalla Santa Sede hanno sempre negato che esistesse. Ora si scopre invece che era stato custodito nella prefettura della Santa Sede. Perché non si è confermato che circolava e si trattava di un falso? O forse qualcuno era convinto di essere riuscito a insabbiarlo.

Emanuela Orlandi, il giallo del nuovo dossier: "Oltre 483 milioni di lire spesi dal Vaticano per il suo allontanamento". Un documento shock esce dalla Santa Sede. È il cuore di un libro-inchiesta di Emiliano Fittipaldi, “Gli impostori”. Se è vero, apre squarci clamorosi sulla vicenda della ragazzina scomparsa nel 1983. Se falso, segnala uno scontro di potere senza precedenti nel pontificato di Francesco. Ecco un'anticipazione, scrive Emiliano Fittipaldi il 18 settembre 2017 su “L’Espresso". Prima di consegnarmi i documenti, la fonte aveva tergiversato per settimane. Nei primi due incontri, durante i quali avevo chiesto consigli su come raggiungere l'obiettivo, aveva escluso con fermezza di avere le carte che cercavo. "Le ho solo lette, se le avessi te le darei, figurati," aveva chiarito seccamente di fronte alle mie insistenze. Non ero convinto che dicesse la verità, ma tentai le strade alternative che mi aveva indicato. Capii presto che era fatica sprecata, e dopo un po' tornai alla carica. Alla fine, al terzo appuntamento, la fonte ha ammesso di avere il dossier. "Te li do solo perché credo che sia venuto il momento di far luce sulla storia." Al quarto incontro, avvenuto in un bar del centro di Roma, mi consegnò una cartellina verde. Me ne tornai a casa di corsa senza neanche guardarci dentro. Appena varcata la porta del mio studio, la aprii. C'erano dei fogli: una lettera di cinque pagine, datata marzo 1998. È scritta al computer o, forse, con una telescrivente, ed è inviata (così leggo in calce) dal cardinale Lorenzo Antonetti, allora capo dell'Apsa (l'Amministrazione del patrimonio della Sede apostolica), ai monsignori Giovanni Battista Re e Jean-Louis Tauran. Al tempo, Giovanni Battista Re era il sostituto per gli Affari generali della segreteria di Stato della Santa Sede; Jean-Louis Tauran era il numero uno dei Rapporti con gli stati, un'altra sezione del dicastero della Curia romana che "più da vicino", come spiega il sito del Vaticano, "coadiuva il Sommo Pontefice nell'esercizio della sua suprema missione". Insomma, Re e Tauran erano nei vertici della Curia e, secondo l'estensore del documento, si sarebbero occupati direttamente della vicenda Orlandi. Il nome di Re era spuntato fuori già dalla lettura della prima sentenza istruttoria sul caso, firmata dal giudice Adele Rando nel 1997. La presunta missiva di Antonetti, come molte altre a cui ho avuto accesso nelle mie inchieste sulla Santa Sede, non era firmata a penna. Alla fine, l'autore chiariva che non era stata nemmeno protocollata, "come da richiesta".

Leggo il testo della prima pagina tutto d'un fiato. "Resoconto sommario delle spese sostenute dallo stato città del vaticano per le attività relative alla cittadina Emanuela Orlandi (Roma 14 gennaio1968),", è il titolo. "La prefettura dell'Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica ha ricevuto mandato di redigere un documento di sintesi delle prestazioni economiche resosi necessarie a sostenere le attività svolte a seguito dell'allontanamento domiciliare e delle fasi successive allo stesso della cittadina Emanuela Orlandi. "La sezione di riferimento, sotto la mia supervisione, ha provveduto a raccogliere il materiale attraverso gli attori dello Stato che hanno interagito con la vicenda. "Moltissimi limiti nella ricostruzione sono stati riscontrati nell'impossibilità di rintracciare documentazione relativa agli agenti di supporto utilizzati sul suolo italiano stante il divieto postomi di interrogare le fonti, incaricando esclusivamente il capo della Gendarmeria Vaticana in questo senso. "L'attività di Analisi è suddivisa in archi temporali rilevanti per avvenimenti e per spese sostenute. "Il documento non include l'attività commissionata da Sua Eminenza Reverendissima Cardinale Segretario di Stato Emerito Agostino Casaroli al 'Commando 1', in quanto alcun organo a noi noto o raggiungibile è a conoscenza di quanto emerso e della quantità di denaro investita nell'attività citata. "I documenti allegati (197 pagine) al presente rapporto sono presentati in originale per la parte relativa ai pagamenti per i quali è stata rilasciata quietanza, sono presentati in forma di resoconto bancario le quantità di denaro utilizzate e prelevate per spese non fatturate." La lettera che ho in mano sembra, o vuole sembrare, un documento di accompagnamento a una serie di fatture e materiali allegati di quasi duecento pagine che comproverebbero alla segreteria di Stato le spese sostenute per Emanuela Orlandi in un arco di tempo che va dal 1983 al 1997. Scorro rapidamente le fredde voci di costo elencate. Delineano scenari nuovi e oscuri su una vicenda di cui si è scritto e ipotizzato molto, e su cui il Vaticano ha sempre negato di avere informazioni ulteriori rispetto a quanto raccontato e condiviso con i giudici italiani che hanno investigato in questi ultimi trentaquattro anni. Il dossier sintetizza gli esborsi sostenuti dal Vaticano dal 1983 al 1997. La somma totale investita nella vicenda Orlandi è ingente: oltre 483 milioni, quasi mezzo miliardo di lire. L'elenco riempie pagina due, tre, quattro e, in parte, cinque del rendiconto. La prima voce riguarda il pagamento di una "fonte investigativa presso Atelier di moda Sorelle Fontana". La Orlandi, nell'ultima telefonata alla famiglia prima della sparizione, aveva in effetti detto che qualcuno le aveva proposto di pubblicizzare i prodotti di una marca di cosmetici, la Avon, durante una sfilata delle stiliste Fontana. Per la fonte, la Santa Sede aveva sborsato 450.000 lire. C'era un'altra spesa per la "preparazione all'attività investigativa estera" costata altre 450.000 lire, uno "spostamento" da ben 4 milioni di lire e, soprattutto, le "rette vitto e alloggio 176 Chapman Road Londra". Chi ha scritto il documento, come vedremo, aveva digitato male l'indirizzo: a quello giusto c'è la sede londinese dei padri scalabriniani, la congregazione dei missionari di San Carlo fondata nel 1887 da Giovanni Battista Scalabrini. Dagli anni sessanta gestiscono un ostello della gioventù destinato esclusivamente a ragazze e studentesse. Nel periodo 1983-1985, per le rette, erano stati versati 8 milioni di lire. Il prezzo giusto, mi dico, per ospitare una persona in quell'arco temporale (per dare un ordine di misura, nel 1983, secondo i dati storici della Banca d'Italia, lo stipendio medio di operai e impiegati era di circa 500.000, 600.000 lire nette al mese). La prima pagina si chiude con i costi per l'"indagine formale in collaborazione con Roma" (23 milioni) e con la misteriosa "attività di indagine riservata extra 'Commando 1', direzione diretta Cardinale Casaroli", per una cifra di 50 milioni di lire. Agostino Casaroli era il segretario di Stato che nella vicenda Orlandi ha avuto un ruolo importante, soprattutto all'inizio. La nota, nella seconda e nella terza pagina, racconta i costi sostenuti per l'"allontanamento domiciliare" di Emanuela nel periodo "febbraio 1985-febbraio 1988". Si elencano dispendiosi viaggi a Londra di esponenti vaticani di altissimo livello, soldi investiti per la "attività investigativa relativa al depistaggio", spese mediche in ospedali e fatture per specialisti in "ginecologia". Si parla di "un secondo" e di "un terzo trasferimento", di decine di milioni di lire per "rette omnicomprensive" di vitto e alloggio. Gli anni scorrono. Arrivo all'ultima pagina. Il documento segnala che il resoconto dei costi per le attività relative alla cittadina Orlandi e al suo "allontanamento domiciliare" si riferisce stavolta al periodo "aprile 1993-luglio 1997". Le voci del quadriennio sono solo tre: oltre alle solite rette (con "il dettaglio mensile e annuale in allegato 22") e ad altre "spese sanitarie forfettarie", figura il capitolato finale. Mi si gela il sangue: "Attività generale e trasferimento presso Stato Città del Vaticano, con relativo disbrigo pratiche finali: L. 21.000.000". La lista finisce qui, ma in fondo alla quinta pagina il mittente aggiunge una postilla. "Il presente documento è presentato in triplice copia, per dovuta conoscenza ad entrambi i destinatari, si rimanda a documentazione allegata sulle modalità di redazione. Non si espleta funzione di protocollazione come da richiesta. APSA è sollevata dalla custodia della documentazione allegata presentata in originale. In fede, Lorenzo Cardinale Antonetti. Stato Città del Vaticano, A.D. 1998, mese di marzo giorno 28." Smetto di leggere. Il documento, che esce certamente dal Vaticano, anche se non protocollato e privo di firma del suo estensore, pare verosimile. Ma quasi incredibile nel suo contenuto. Dunque, delle due l'una: o è vero, e allora apre per la prima volta squarci impensabili e clamorosi su una delle vicende più oscure della Santa Sede. O è un falso, un documento apocrifo, che mischia con grande abilità tra loro elementi veritieri che inducono il lettore ad arrivare a conclusioni errate. In entrambi i casi, il pezzo di carta che ho in mano è inquietante. Perché, fosse un documento non genuino, significherebbe che gira da almeno tre anni un dossier devastante fabbricato ad arte per aprire una nuova stagione di ricatti e di veleni in Vaticano. Chi e quando avrebbe costruito un simile documento, che come vedremo contiene dettagli, indirizzi, nomi e circostanze molto particolari che solo un soggetto "interno" alla Città Santa poteva conoscere così bene? Se non è davvero stato scritto dal cardinale Antonetti, chi l'ha redatto con tale maestria, e chi l'ha poi messo, anni fa, nella cassaforte della Prefettura?

Difficile rispondere ora a queste domande. Ma è chiaro che, se il documento fosse falso, la Gendarmeria guidata da Domenico Giani avrà parecchio da lavorare. Il report fasullo potrebbe essere rimasto nascosto per anni in qualche cassetto, mai usato (almeno fino ad ora) e infine dimenticato. O potrebbe essere stato costruito ad hoc più di recente, dopo il furto del marzo del 2014, e restituito dai ladri insieme ad altri documenti certamente veritieri. Ma se è così, perché monsignor Abbondi non ha detto davanti ai magistrati di papa Francesco che lo interrogavano sul contenuto del plico anonimo con i documenti rubati che era tornato, tra gli altri, anche un dossier sulla Orlandi che non aveva mai visto, e quindi forse fasullo? Perché ha parlato genericamente di carte "sgradevoli"?

È pure evidente, però, che il report non spiega chiaramente cosa sia accaduto alla ragazzina che amava le canzoni di Gino Paoli, né accusa con nome e cognome qualcuno di responsabilità specifiche sul rapimento e sulla fine di Emanuela. Per quanto incredibile, cerco di costringermi a pensare che il documento possa essere anche una lettera autentica. Il report di un burocrate, il cardinale Antonetti appunto, che rendiconta minuziosamente ai due destinatari tutte le spese sostenute per "l'allontanamento domiciliare" della Orlandi, spese divise per quattro archi temporali definiti. Una pratica obbligatoria nei servizi segreti di ogni Stato del pianeta: alla fine di un'operazione, anche quelle in cui vengono usati fondi neri, i responsabili devono presentare il consuntivo di ogni spesa effettuata ai superiori. La missiva è "presentata in triplice copia", come si usa fare da sempre in Vaticano anche per i documenti riservati (uno va ai destinatari dei vari dicasteri coinvolti, un altro resta nell'archivio dell'Apsa). Stavolta una copia è finita anche negli archivi della Prefettura degli affari economici, cioè il ministero della Santa Sede che aveva il compito di supervisionare le uscite dei vari enti vaticani. Non è una stranezza: nell'enorme armadio blindato che i ladri hanno aperto nel marzo del 2014 ci sono migliaia di documenti provenienti anche da altri enti vaticani. Tra cui, per esempio, le lettere di Michele Sindona spedite non in Prefettura, ma ai cardinali presidenti di pontificie commissioni. Fosse veritiero, dunque, il rendiconto datato marzo 1998, pur in assenza delle 197 pagine di fatture, darebbe indicazioni e notizie sbalorditive che potrebbero aiutare a dipanare la matassa di un mistero irrisolto dal 1983. Perché dimostrerebbe, in primis, l'esistenza di un dossier sulla Orlandi mandato alla segreteria di Stato, mai consegnato né discusso con le autorità italiane che hanno investigato per decenni senza successo sulla scomparsa della ragazzina. Perché evidenzierebbe come la chiesa di Giovanni Paolo II abbia fatto investimenti economici importanti su un'attività investigativa propria, sia in Italia sia all'estero, i cui risultati sono a oggi del tutto sconosciuti. Perché il dossier citerebbe un fantomatico "Commando1" guidato direttamente da Agostino Casaroli, potente segretario di Stato della Santa Sede, forse un gruppo di persone composto da pezzi dei servizi segreti vaticani (il corpo della Gendarmeria ha funzioni di ordine pubblico e di polizia giudiziaria, ma svolge anche lavoro di intelligence per la sicurezza dello stato) che ha preso parte alle attività successive alla scomparsa della ragazza. Ma, soprattutto, il resoconto diventa clamoroso quando mostra come tra il 1983 e la fine del 1984 il Vaticano, dopo indagini autonome, avrebbe investe in un primo "spostamento" la bellezza di 4 milioni di lire. Da allora il campo da gioco dei monsignori che si sarebbero occupati della vicenda di Emanuela si sposta in Inghilterra. In particolare, a Londra.

Possibile che Emanuela Orlandi sia stata ritrovata viva dal Vaticano e poi nascosta in gran segreto nella capitale inglese? Se non è così, e se il documento è autentico, a chi la Santa Sede ha pagato per quattordici anni "rette vitto e alloggio" elencate in un report che ha come titolo "Resoconto sommario delle spese sostenute dallo Stato Città del Vaticano per le attività relative alla cittadina Emanuela Orlandi" e per il suo "allontanamento domiciliare"? Come mai nella nota sulla ragazza viene indicato che il capo della Gendarmeria del tempo, Camillo Cibin, avrebbe sborsato la bellezza di 18 milioni di lire, tra il 1985 e il 1988, per andare avanti e indietro da Londra? Chi sarebbe andato a trovare qualche tempo dopo il medico personale di papa Wojtyla, Renato Buzzonetti, insieme a Cibin, "presso la sede l. 21", una "trasferta" da 7 milioni di lire? Perché e a chi, all'inizio degli anni novanta, il Vaticano avrebbe pagato spese sanitarie - come segnala ancora l'estensore dello scritto - per i controlli (o addirittura un ricovero) alla Clinica St. Mary, sempre a Londra? Chi è andata, sola o accompagnata, a farsi visitare dalla "dottoressa Leasly Regan, Department of Obstetrics & Gynaecology" dello stesso nosocomio un'unica "attività economica a rimborso" di cui il capo dell'Apsa non indica la spesa precisa, invitando a leggere i "dettagli in allegato 28"? (contattata da l'Espresso, la Regan nega di avere fatture a nome della Orlandi, e dice di non poter ricordare, dopo tanti anni, se ha curato una ragazza con le fattezze di Emanuela).

La storia, secondo il documento, non sembra finire bene. Perché la lista si conclude con un ultimo capitolato di spesa, sull' "attività generale e trasferimento presso Stato Città del Vaticano con relativo disbrigo pratiche finali". Il trasferimento è il quarto segnalato nel report: chi viene portato in Vaticano? Perché nel luglio 1997 la "pratica" di Emanuela Orlandi viene considerata chiusa?

A metà giugno del 2017 capisco, dal Corriere della Sera, che qualcun altro è a conoscenza del documento misterioso. La famiglia Orlandi ha infatti presentato un'istanza di accesso agli atti per poter visionare "un dossier custodito in Vaticano". Il quotidiano accredita che il fascicolo possa contenere resoconti di attività inedite fino al 1997, con dettagli anche di natura amministrativa svolta dalla segreteria di Stato ai fini del ritrovamento". Capisco che si tratta proprio del report che ho in mano. Il giorno dopo monsignor Angelo Becciu, sostituto per gli Affari generali della segreteria, nega l'esistenza di qualsiasi carta riservata: "Abbiamo già dato tutti i chiarimenti che ci sono stati richiesti. Il caso per noi è chiuso". Anche il cardinale Re interviene, assicurando che "la Segreteria di Stato" di cui nel 1997 lui era sostituto "non aveva proprio niente da nascondere. Essendo uno dei due destinatari della presunta lettera di Antonetti, decido di chiamarlo, e domandargli se ha mai ricevuto quel report sull’ "allontanamento domiciliare" di Emanuela Orlandi, e se in caso contrario quello che ho in mano è un report apocrifo che vuole inchiodarlo a responsabilità che lui non ha. L'inizio del colloquio è rilassato. Appena gli leggo il titolo, il cardinale, senza chiedermi nulla nel merito del documento, tronca improvvisamente la conversazione: "Guardi io non so di questo. E mi dispiace non poterla aiutare. Sono qui con altre persone". Clic.

La mia ricerca è iniziata nel febbraio del 2017. Leggendo il libro di Francesca Chaoqui e dell'ex direttore della sala stampa del Vaticano Federico Lombardi. Quest'ultimo ricordava come un testimone eccellente del processo che mi vedeva coinvolto, quello su Vatileaks 2, aveva parlato di alcuni documenti trafugati. Il test era monsignor Alfredo Abbondi, capo ufficio della Prefettura degli Affari economici. La parte più interessante del suo interrogatorio riguarda un misterioso furto avvenuto nelle stanze di quell'ufficio nella notte tra il 29 e il 30 marzo 2014. Dopo mezzanotte, qualcuno si era introdotto nel palazzo senza rompere alcuna serratura dei portoni di accesso, aveva sgraffignato qualche spicciolo negli uffici delle congregazioni ai primi piani dell'immobile e s'era poi concentrato sulla cassaforte e su uno soltanto dei dodici armadi blindati nascosti in una delle stanze della Prefettura, al quarto piano del grande edificio che si affaccia su piazza San Pietro. A don Abbondi, la mattina del 14 maggio 2016, i magistrati chiedono conto di quella singolare vicenda. Il prelato spiega che nell'ufficio esisteva "un archivio riservato che era sotto la responsabilità del segretario Balda", custodito inizialmente "in un armadio in una stanza vicina a quella del monsignore"; aggiunge che "dopo il furto, l'archivio riservato venne piazzato direttamente nella stanza di Vallejo". Quando il promotore di giustizia gli domanda cosa avessero rubato i ladri, Abbondi specifica che, se dalla piccola cassaforte "portarono via soldi e delle monete, dall'armadio blindato prelevarono invece dei documenti dell'archivio riservato... alcuni dei quali vennero poi riconsegnati in busta chiusa nella cassetta della posta del dicastero". Proprio così: alcune carte trafugate vennero rispedite in un plico anonimo, quasi un mese dopo lo scasso. Un dettaglio già raccontato da Gianluigi Nuzzi. Non solo. Il giornalista aveva pubblicato anche alcuni dei documenti restituiti alla Prefettura, tra cui diverse lettere mandate dal "Banchiere di Dio", Michele Sindona, a esponenti delle gerarchie vaticane, oltre a missive con riferimenti a Umberto Ortolani, fondatore - insieme a Licio Gelli - della loggia massonica deviata P2. "Cosa c'era nel plico?" chiede diretto il promotore di giustizia a don Abbondi. "Documenti di dieci, vent'anni fa, che di fatto non avevano più alcun valore," risponde il prelato. "Nel riordinare i fogli dopo l'effrazione, vidi che gli atti contenuti nell'archivio non erano tanto relativi alla sicurezza dello stato," ma a fatti che il monsignore definisce "sgradevoli". "Sgradevoli," ripeto tra me e me. Riponendo il libro mi domandai se, come ipotizzavano Abbondi e numerosi esponenti della Santa Sede, restituendo alcuni o tutti i documenti trafugati, i ladri avessero voluto lanciare un avvertimento, una minaccia, o se il furto nascondesse in realtà altre motivazioni. Certamente vi avevano collaborato persone informate dei segreti della Prefettura, visto che i banditi, violando un solo armadio blindato, erano andati a colpo sicuro. Di certo Abbondi fa intendere ai magistrati vaticani che i documenti ritornati dopo il furto non sono diversi da quelli che lui sapeva essere conservati nella cassaforte. Cominciai a leggere il volume della Chaouqui...Senza tanti giri di parole, la Chaouqui fa poi capire al lettore che, dalla discussione avuta quella mattina con il suo amico (i due in seguito diventeranno acerrimi nemici), aveva compreso che era stato lo stesso Balda a compiere l'effrazione, forse con il supporto di manovalanza esterna. Un'accusa pesantissima. Balda, che era già stato sentito dalla Gendarmeria insieme ad altri dipendenti dell'ufficio, ha sempre negato ogni addebito...L'avvocatessa calabrese - che nel 2014, ricordiamolo, era membro della Cosea e lavorava negli uffici della Prefettura che ospitavano la commissione - è uno dei pochissimi testimoni diretti di ciò che avvenne negli uffici dopo l'effrazione. E, come aveva fatto monsignor Abbondi in tribunale durante la sua deposizione, decide di raccontare nel suo libro il momento in cui tornano le carte sottratte un mese prima. Ma se il prete aveva parlato genericamente di documenti "sgradevoli", la Chaouqui entra nei dettagli, narrando in prima persona: "Alla fine i fascicoli ricompaiono, spediti da mano ignota agli uffici della Prefettura. C'è il dossier su un vescovo molto potente e sulle delicate questioni legate a un'eredità ricevuta quando era nunzio in Francia. Ci sono i resoconti delle spese politiche di Giovanni Paolo II ai tempi della Guerra fredda e di Solidarno??. C'è il carteggio tra il banchiere Michele Sindona e il faccendiere Umberto Ortolani, che il Vaticano avrebbe cercato in capo al mondo. C'è il file di Emanuela Orlandi e capisco il finale di una storia che deve rimanere sepolta"...Ora ho deciso di pubblicare il documento. Avessero ragione Becciu e il cardinale Re, il documento sarebbe certamente un falso. Sarebbe importante capire allora chi sono gli impostori che l'hanno architettato, e per quali oscuri motivi la storia di una ragazza scomparsa nel 1983 venga ancora usata per ricatti e lotte intestine della città sacra. Ma se le verosimiglianze impressionanti delle note spese del dossier fossero confermate da nuovi elementi determinati, il Vaticano e i suoi alti esponenti avrebbe mentito ancora una volta. E gli impostori sarebbero loro.

Emanuela Orlandi, perché dopo 32 anni la Cassazione chiude il caso. La corte ha giudicato inammissibile il ricorso della famiglia della quindicenne scomparsa nel 1983, scrive il 6 maggio 2016 Panorama. La Cassazione, dopo 32 anni, mette una pietra sull'inchiesta per la scomparsa di Emanuela Orlandi, la quindicenne residente nella città del Vaticano, di cui si sono perse le tracce dal 22 giugno 1983. La sesta sezione penale della Cassazione ha giudicato inammissibile il ricorso della famiglia contro l'archiviazione dell'indagine della procura di Roma. Nell'ottobre scorso il gip aveva respinto l'opposizione, avanzata dai familiari di Emanuela e da quelli Mirella Gregori (scomparsa poche settimane prima), alla richiesta di archiviazione da parte del procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, e dei pm Simona Maisto ed Ilaria Calò. L'inchiesta vedeva sei indagati, tutti in qualche modo legati al bandito della banda della Magliana Enrico De Pedis (ucciso nel 1990): monsignor Pietro Vergari, ex rettore della basilica di Sant'Apollinare, Sergio Virtù, autista di Enrico De Pedis, Angelo Cassani, detto "Ciletto", Gianfranco Cerboni, ("Giggetto"), Sabrina Minardi, già supertestimone dell'inchiesta, e il fotografo Marco Accetti. La parola testimone, un ruolo nella scomparsa di Emanuela era stato ricoperto da personaggi di spicco del sodalizio criminale romano. A parlare di un legame tra il caso Orlandi e la banda della Magliana era già stato in passato il pentito Antonio Mancini, che riferì di un depistaggio fatto da De Pedis, uno dei capi della banda sepolto nella Cappella di Sant'Apollinare a Roma proprio in virtù di presunti legami con ambienti vaticani. Tesi smentita, negli anni scorsi, dallo stesso rettore della Basilica. Proprio dietro Sant'Apollinare c'era la scuola di musica frequentata dalla stessa Emanuela, ultimo luogo in cui fu vista la ragazza scomparsa. Contro di loro sia la procura sia il gip hanno ritenuto che non fossero stati raccolti sufficienti elementi probatori. E ora è arrivato il visto della Cassazione. Rimangono pendenti per Accetti, che nelle scorse settimane è stato sottoposto a perizia psichiatrica che l'ha giudicato capace di intendere e volere ed anche di stare in giudizio benché affetto da disturbi della personalità di tipo narcisistico ed istrionico, le accuse di calunnia e autocalunnia.

Emanuela Orlandi: le tappe della sparizione (1983-2017). La scomparsa di Emanuela Orlandi: perché si riapre il caso. “Spesi dal Vaticano 483 milioni di lire per rette, vitto, alloggio e spostamenti della ragazza". Da un dossier pubblicato nel libro di Emanuele Fittipaldi, scrive il 18 settembre 2017 Chiara Degl'Innocenti su Panorama. “Ho trovato un documento uscito dal Vaticano. Ci ho lavorato mesi, e ho pubblicato un libro, Gli impostori, che uscirà tra qualche giorno. Un riassunto di tutte le note spese per un presunto ‘allontanamento domiciliare’ di Emanuela Orlandi”. Ben 483 milioni di lire. Così, su facebook Emiliano Fittipaldi ha postato una parte del suo articolo uscito su Repubblica e Il Corriere della Sera in cui rivela di essere in possesso di un “documento choc” sulla ragazzina che viveva nella Santa Sede, poi scomparsa nel 1983. “Leggendo il resoconto e seguendo le tracce delle uscite della nota, che l'estensore attribuisce al cardinale Lorenzo Antonetti, sembra che il Vaticano abbia trovato la piccola rapita chissà da chi, e che abbia deciso di trasferirla in Inghilterra, a Londra”, prosegue Fittipaldi.

Da quanto si legge nell’articolo, il giornalista de L’Espresso sostiene che quei documenti gli sono stati consegnati da una fonte che “dopo aver tergiversato per alcune settimane” al terzo appuntamento “ha ammesso di avere il dossier”. Per poi lasciarglielo al quarto incontro. "Te li do solo perché credo che sia venuto il momento di far luce sulla storia."

Il dossier. Una cartellina con cinque fogli. Il dossier in mano a Fittipaldi è una lettera di cinque pagine, datata marzo 1998. “Scritta al computer o, forse, con una telescrivente, ed è inviata (così leggo in calce) dal cardinale Lorenzo Antonetti, allora capo dell'Apsa (l'Amministrazione del patrimonio della Sede apostolica), ai monsignori Giovanni Battista Re e Jean-Louis Tauran”. La lettera sembrerebbe, dice ancora il giornalista de L’Espresso, “un documento di accompagnamento a una serie di fatture e materiali allegati di quasi duecento pagine che comproverebbero alla segreteria di Stato le spese sostenute per Emanuela Orlandi in un arco di tempo che va dal 1983 al 1997”. Anni in cui la giovane sarebbe stata trasferita in ostelli femminili. Per 14 anni le sarebbero state pagate “rette, vitto e alloggio”, “spese mediche” e “spostamenti fino al 1997, quando l'ultima voce parla di un trasferimento in Vaticano e il disbrigo delle pratiche finali”. Soldi sborsati dalla Santa Sede che ammonterebbero a 483 milioni di lire e che vanno a infittire la trama della storia di Emanuela Orlandi e della sua scomparsa.

Chi sono i due monsignori della lettera. Ai vertici della Curia negli anni ‘90 c’erano Giovanni Battista Re, il sostituto per gli Affari generali della segreteria di Stato della Santa Sede, e Jean-Louis Tauran a capo dei Rapporti con gli stati che, come spiega il sito del Vaticano, "coadiuva il Sommo Pontefice nell'esercizio della sua suprema missione" e come tali i due “si sarebbero occupati direttamente della vicenda Orlandi” mentre il nome di Re era spuntato fuori già dalla lettura della prima sentenza istruttoria sul caso, firmata dal giudice Adele Rando nel 1997”.

Quando il caso Orlandi era stato chiuso. Il 6 maggio 2016 la Cassazione aveva confermato l’archiviazione dell’inchiesta secondo cui il caso di Emanuela Orlandi veniva definitivamente chiuso dal punto di vista giudiziario giudicando “inammissibile il ricorso della famiglia contro l’archiviazione” da parte della procura di Roma che nel maggio del 2015 aveva sostenuto che non erano emersi “Elementi idonei a richiedere il rinvio a giudizio di alcuno degli indagati”.

L’importanza del dossier. Come sostiene il Fittipaldi se il documento fosse vero quella pagine aprono “squarci clamorosi e impensabili sulla storia della Orlandi”. Se è un falso sarebbe “un apocrifo che segna una nuova violenta guerra di potere tra le sacre mura”.

Dal rapimento il 22 giugno 1983 alle piste che portarono negli anni ad Ali Agça, allo Ior di Marcinkus, alla Banda della Magliana fino alle recenti novità, scrive Edoardo Frittoli il 18 settembre 2017 su Panorama. Il caso della scomparsa di Emanuela Orlandi tiene in sospeso l'Italia dal 22 giugno del 1983, da quando cioè la quindicenne cittadina vaticana non è più tornata a casa. Nel corso del tempo sono state molte le ipotesi che hanno collegato il mistero Orlandi prima all'attentato a Giovanni Paolo II, poi alla banda della Magliana e allo Ior infine a casi di pedofilia. Di questi giorni l'ultima novità: documenti che ne dimostrerebbero l'essere in vita almeno fino al 1997. Ecco dunque le tappe principali della cronistoria di uno dei gialli più intricati della storia italiana.

22 giugno 1983 - la scomparsa. Emanuela Orlandi, 15 anni, figlia di un funzionario del Vaticano, non fa rientro a casa dopo la lezione pomeridiana di musica. Sono le ore 19,00. L'ultima persona con cui ha un contatto telefonico è la sorella con la quale parla di una fantomatica proposta di lavoro come promotrice di cosmetici per conto dell'atelier delle Sorelle Fontana che le sarebbe stato offerto quel giorno.

23 giugno 1983. Il padre di Emanuela formalizza la denuncia di scomparsa al commissariato "Trevi". Partono le ricerche.

25 giugno 1983. A casa della famiglia Orlandi giungono le prime telefonate di segnalazione. Tra le molte inattendibili, giunse anche quella del sedicenne Pierluigi, che sosteneva di aver incontrato Emanuela a Campo dei Fiori nel ruolo di promotrice di cosmetici. Fu tenuto in considerazione in quanto la descrizione della ragazza pareva molto dettagliata. Tre giorni dopo fu la volta di tale Mario, titolare di un bar sul tragitto che Emanuela percorreva quasi quotidianamente il quale sosteneva che la giovane gli avesse confidato l'intenzione di allontanarsi volontariamente dalla famiglia. L'ipotesi si rivelerà priva di fondamento. Contemporaneamente il cugino degli Orlandi e agente del Sismi Giulio Gangi si mette sul tracce dei testimoni che avrebbero visto Emanuela parlare nei pressi del Senato con un uomo sceso da una Bmw verde. Rintracciata le vettura, Gangi entra in contatto in un residence con una misteriosa donna che lo congeda freddamente. Poco dopo Gangi scopre che i superiori sono stati avvisati delle sue indagini. Gangi sarà allontanato dal caso ed epurato dai superiori dieci anni dopo i fatti.

5 luglio 1983. Giunge alla Sala Stampa vaticana la prima telefonata di un uomo con accento anglosassone chiamato L' Amerikano. Sostiene per la prima volta il legame tra il rapimento Orlandi e l'attentato a Giovanni Paolo II. La ragazza sarebbe nelle mani dei "Lupi Grigi" per essere scambiata con l'attentatore del Pontefice Ali Agça. Le 16 telefonate anonime non troveranno mai un riscontro reale nelle piste degli inquirenti.

1995. Dai rapporti dell'allora vicecapo del Sisde Vincenzo Parisi emergerebbe la figura del Cardinale Paul Marcinkus, all'epoca presidente dello Ior, la banca vaticana legata alla vicenda del crack del Banco Ambrosiano e dell'omicidio di Roberto Calvi.

2005. Emerge la pista che legherebbe il rapimento Orlandi alla Banda della Magliana. La ragazza sarebbe stata rapita per ordine di Renato De Pedis, uno dei capi dell'organizzazione criminale su ordine del cardinale Marcinkus. Questa pista sarà indicata dalle testimonianze di Sabrina Minardi, ex moglie del calciatore Bruno Giordano la quale ebbe una relazione proprio con De Pedis. Secondo le testimonianze (rese poco affidabili dalla sua dipendenza dalla cocaina) la Minardi avrebbe confermato il coinvolgimento di De Pedis come esecutore e di Marcinkus come mandante. Emanuela non sarebbe stata uccisa subito bensì rinchiusa nei sotterranei di un appartamento del quartiere Monteverde Nuovo. Attendibile fu l'indicazione della Minardi che portò al ritrovamento della Bmw usata per il trasferimento della Orlandi, appartenuta a due personaggi effettivamente legati alla Banda della Magliana e al caso Calvi.

2011. Antonio Mancini, criminale pentito della banda della Magliana conferma ai giornalisti il coinvolgimento della banda, che avrebbe rapito Emanuela per ricattare lo Ior di Marcinkus in quanto reo di avere "bruciato" soldi delle attività illecite dell'organizzazione criminale nel crack del Banco Ambrosiano. Il fatto che De Pedis sia stato seppellito nella basilica di Sant'Apollinare dimostrerebbe il ruolo di mediatore che il capo della banda ebbe nella restituzione del denaro del Banco Ambrosiano.

2012. È la volta della pista della pedofilia, aperta dal capo degli esorcisti americani Gabriele Amorth. Il prelato sostenne che Emanuela sarebbe stata coinvolta in un giro di festini a base di droga e sesso organizzati in Vaticano che avrebbero riguardato laici e prelati altolocati. Sarebbe rimasta uccisa accidentalmente ed il suo cadavere occultato. 

2014. Legata al caso Vatileaks è la vicenda della cassaforte svaligiata in Vaticano il 30 marzo contenente documenti amministrativi relativi alle spese dell'Apsa (Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica). Poco dopo il furto i documenti della cassaforte saranno restituiti in un plico.

Settembre 2017. Inizia a farsi strada l'ipotesi che Emanuela Orlandi sia rimasta in vita almeno sino al 1997, in quanto uno dei documenti amministrativi stilati in quell'anno fa specifica menzione alle spese sostenute per le "attività relative alla cittadina Emanuela Orlandi".

Era un giallo “normale”… Poi diventò un affare di Stato (Vaticano), scrive Paolo Delgado il 19 Settembre 2017 su "Il Dubbio". La scomparsa di Emanuela Orlandi, da Marcinkus alla banda della Magliana, una storia di misteri e depistaggi sullo sfondo delle nuove rivelazioni del libro di Fittipaldi pubblicate dall’Espresso. C’è il terrorismo internazionale: l’attentato al papa, i Lupi grigi, la guerra santa del Papa guerriero (e polacco) contro l’idra rossa, la Stasi che s’impiccia e depista per stornare gli sguardi dallo zampino di Bucarest nell’attentato del lupo Alì. C’è il nido di vespe finanziarie che ruotava intorno al Ior, con di mezzo il chiacchieratissimo banchiere di Dio Paul Marcinkus, il banco Ambrosiano, la loggia più famosa del mondo e di conseguenza qualche ombra sinistra, quella dei Frati Neri con il loro bravo impiccato, quella dell’attentato in cui al posto della vittima predestinata finì ammazzato il killer, nonché boss della Magliana Danilo Abbruciati. E c’è la bandaccia naturalmente, tirata in mezzo dal pentito Antonio l’Accattone Mancini ma anche da Sabrina Minardi, ex moglie del calciatore dal piede dorato Bruno Giordano, ex amante o sedicente tale di Renatino De Pedis, il boss ripulito ammazzato in mezzo alla strada in pieno giorno, a Campo de’ Fiori, nel 1990 e destinato poi a riposare, sino alla recente cremazione, nella basilica di sant’Apollinare, con papi e santi ma per la verità anche con gente di meno nobili natali e senz’aureole di sorta. Testimoni discutibili, che non lesinano strafalcioni ma che, specie la Minardi, ogni tanto qualche riscontro lo hanno portato. Entrambi addossano al sepolto in sant’Apollinare la responsabilità del ratto senza specificarne però in modo sia pur minimamente convincente il movente. C’è l’ombra perversa di festini a base di adolescenti ancora quasi bimbe per prelati porconi e fatali incidenti, e non è neppure tutto. Grotte sotterranee che permettono di deambulare sotto la Capitale, sussurri di salme accumulate nei ridenti giardini del Vaticano, legami ipotizzati pur se mai provati con altre scomparse misteriose, a partire da quella di un’altra ragazzina, Mirella Gregori, un mese e mezzo prima della sparizione della Orlandi. Materiale che al confronto I Misteri di Parigi vagheggiati da Eugene Sue sembrano segretucci da educande. Il caso Orlandi è il vero grande giallo italiano. Lo resterebbe anche se, come sostiene il giornalista che più di ogni altro è andato a fondo nel fattaccio, Pino Nicotri, tutto questo clamore che da quasi 35 anni non si attenua fosse solo frutto di una perversa spirale mediatica, uno show troppo ghiotto, con audience troppo malata e rinnovatasi nel tempo per essere abbandonato. Perché anche in quel caso la somma di depistaggi, interferenze, intrecci poco districabili di bugie e verità basterebbero a rendere quella scomparsa l’evento forse più clamoroso nella storia criminale della Capitale e del Paese tutto. Le ultime a vedere viva Emanuela Orlandi, 16 anni non ancora compiuti, furono due compagne di corso nella scuola di musica di sant’Apollinare dove la ragazza faceva, pare, mirabili progressi con il flauto. Si incontrarono alla fermata dell’autobus di fronte al Senato intorno alle 19 del 22 giugno 1983. Emanuela raccontò di una allettante proposta di lavoro: 350mila lire per pubblicizzare una linea di prodotti di bellezza. Le suggerirono di stare in campana. Promise di decidere solo dopo aver chiesto il permesso a casa e in effetti telefonò alla sorella che le suggerì di aspettare e parlarne con i genitori. Poi le tre amiche si separarono e da quel momento di Emanuela non si è più saputo niente. Era una ragazza tutta casa, scuola e Chiesa, dissero parenti e amici, impossibile sospettare qualche frequentazione equivoca. Quasi vent’anni dopo l’avvocato della famiglia, Gennaro Egidio, smentì: «I motivi della scomparsa sono molto più banali di quello che si è fatto credere. Contrariamente alle dichiarazioni dei familiari, Emanuela di libertà ne aveva molta». Le nuove indagini confermarono: Emanuela era una ragazza normale. Le capitava di saltare la scuola e firmarsi la giustificazione da sola. Tra i ragazzi un po’ più grandi che frequentava ce n’erano alcuni che usavano stupefacenti, o che andavano a rimorchio di ragazze per le strade da quel punto di vista ottimamente frequentate intorno al Vaticano, a uno era capitato pure di prostituirsi. Secondo il legale sarebbe stato casomai opportuno scandagliare meglio il giro di amicizie dalla zia paterna. Egidio promise a Nicotri di dire qualcosa in più su quelle frequentazioni di zia Anna a breve, ma era malato e spirò prima di farlo. Nulla di speciale, se non, forse, che l’identikit alla santa Maria Goretti ostacolò forse sul momento la pista più ovvia, quella di un rimorchio da parte dello sconosciuto che offriva soldi facili e soprattutto visibilità patinata finito in tragedia. Fu infatti facile appurare che non c’era nessuna ricerca di volti nuovi da parte di quella società di cosmetici e che, in compenso, il marpione e forse peggio aveva già provato ad adescare fanciulle in quel modo, e nella stessa zona, altre volte. A rendere il caso qualcosa in più che non uno dei tanti casi di ragazze sparite che costellano da decenni le puntate di Chi l’ha visto? fu il papa in persona. Emanuela era cittadina vaticana e appena dieci giorni dopo, il 3 luglio, durante l’Angelus, Giovanni Paolo II lanciò un appello ai rapitori. Ne seguirono altri 7. Fu quell’appello a evocare la tempesta o si sarebbe prodotta comunque? Difficile, anzi impossibile dirlo. Di fatto, appena due giorni dopo, un uomo con accento americano telefonò in sala stampa vaticana per chiedere uno scambio con Alì Agca, il turco che nel 1981 aveva sparato al papa. Arrivarono altre telefonate: una a un’amica della giovane scomparsa: amica di fresca data, il cui numero di telefono Emanuela aveva segnato proprio poche ore prima di sparire. Altre 15 dall’Americano che i periti ipotizzarono potesse essere Paul Marcinkus, il cardinale al vertice della banca vaticana, lo Ior, in persona. Un anno dopo, tanto per restare in tema turco, arrivò anche la chiamata dei Lupi grigi, l’organizzazione in cui aveva militato Agca. Si scoprì poi che a chiamare erano invece i servizi tedeschi dell’est, per sviare dai colleghi bulgari il sospetto di aver organizzato l’attentato del 1981. A tirare in ballo la Magliana, già nel nuovo millennio, fu prima una telefonata anonima, poi Mancini, infine, e con dovizia di particolari Sabrina Minardi. Confusa, anche per via dei decenni di stupefacenti assunti nel frattempo, spesso incoerente, pasticciona sulle date, la (sedicente) ex amante di Renatino non si poteva né si può definire del tutto non credibile. Aveva parlato lei per prima di un rifugio sotterraneo che si prolungava per chilometri, al quale si poteva accedere da un appartamento nel quale sarebbe stata tenuta prigioniera Emanuela, e l’immenso sotterraneo, quasi una città sotto la metropoli, c’è davvero, con tanto di lago sotterraneo. Aveva raccontato di essere andata anche lei a prelevare la Orlandi, con una BMW, in quel 22 giugno 1983, e l’automobile è saltata fuori davvero, proprietà del faccendiere Flavio Carboni, uno dei ballerini impegnati nella danza macabra intorno a Roberto Calvi poco prima dell’impiccagione del banchiere sotto il Ponte dei Frati neri a Londra, passata poi a uno dei tanti che gravitavano intorno alla Banda più celebrata della storia criminale italiana. Inevitabilmente il dossier spuntato dal Vaticano ricaricherà le batterie del carrozzone mediatico. Autorizzerà sospetti, permetterà di lanciarsi in nuove ipotesi, attirerà picchiatelli e bugiardi meno disinteressati. Forse ha ragione Nicotri, convinto che di misterioso, in questo caso, ci sia solo il nome del bastardo che dopo aver attirato Emanuela in trappola l’ha ammazzata. Ma anche al netto dei mitomani e dei depistatori, che in questo caso sono stati davvero una legione, è difficile evitare la sensazione che qualcosa di misterioso, nel giallo della povera Emanuela, ci sia davvero.

“Dietro l’altare”, il docu-film sugli abusi della Chiesa, scrive Francesca Spasiano il 26 luglio 2017 su "Il Dubbio". Una storia di violenze e insabbiamenti. Lucio Mollica racconta come è nato “Dietro l’altare”, il docu-film sui casi di pedofilia nella Chiesa. Una storia di violenze e insabbiamenti. Il lungo trascorso della Chiesa è costellato di capitoli bui e adesso lo scandalo degli abusi bussa alle porte del Vaticano. Se anche la commissione antipedofilia voluta da Papa Francesco si è rivelata insufficiente nell’affrontare la guerra alle tonache incriminate, sorge naturale lo scoramento dei più ottimisti. «Abbiamo un bisogno disperato di credere in papa Francesco. Il papa trasuda sincerità. È senz’altro un uomo buono. Quindi mettere in discussione le sue parole e misurare il loro divario con la realtà è stato più che uno sforzo intellettuale: uno sforzo emotivo, ancora più doloroso se l’argomento è quello degli abusi sui minori», racconta John Dickie nel presentare il suo ultimo lavoro, Dietro l’altare (Behind the altar), in onda stasera alle 21 in prima tv mondiale su LaF (Sky 139). Il documentario risponde alla crescente domanda di chiarezza sul tema della pedofilia, proprio mentre il dibattito sulle vicende di violenze sessuali investe la Santa Sede ai suoi vertici sulla scorta del caso George Pell. Il lavoro di inchiesta e investigazione internazionale realizzato dallo storico britannico riporta la preziosa testimonianza di vittime, esperti e religiosi: da Marie Collins a Padre Hans Zollner, entrambi membri della Pontificia Commissione per la tutela dei Minori. Il docu-film – diretto dal regista messicano Jesus Garces Lambert e prodotto da GA&A Productions con ZDF/Arte, EO, Witfilm in associazione con Effe tv e altre nove broadcast internazionali – è un viaggio verso la verità, dagli Stati Uniti d’America alla Francia, dal Vaticano all’Argentina attraverso la Storia della Chiesa fino alla rivelazione di casi sconosciuti. Ce lo racconta Lucio Mollica, tra gli autori del documentario insieme a Vania del Borgo e lo stesso John Dickie. Il team si era già consolidato nel lavoro di scrittura di “Chiesa Nostra”, uno speciale che svela il sodalizio tra Chiesa cattolica e criminalità organizzata.

Quale contributo apporta questo documentario al lavoro di indagine sui casi di pedofilia nella Chiesa?

«L’obiettivo di questo film era documentare quanto sta avvenendo sotto il papato di Francesco sul tema della lotta agli abusi sui minori. La sorpresa è che la Chiesa non ha davvero voltato pagina nonostante l’impegno promesso dal pontefice. Le aspettative deluse sono al centro del nostro lavoro».

Si esprime dunque un giudizio nei confronti dell’operato di Papa Francesco?

«Il papa ha più volte ribadito intransigenza contro quei preti protagonisti d’abusi e ha promesso tolleranza zero. Non abbiamo motivo di dubitare della sincerità delle sue parole, ha ancora il tempo per riprendere il cammino di riforme avviato da Benedetto XVI, ma episodi di pedofilia interni alla Chiesa continuano a verificarsi numerosi in ogni parte del mondo senza che vi sia una concreta assunzione di responsabilità e un intervento deciso. Se Papa Francesco non vuole vanificare la bontà dei suoi intenti deve correre ai ripari e schierarsi con provvedimenti severi».

Lo scandalo del Caso Pell ha coinvolto per la prima volta la Chiesa nelle sue più alte sfere, accentrando il dibattito sulle vicende di pedofilia, oggi più acceso che mai. Cosa si nasconde “dietro l’altare”?

«Sono molte le figure controverse tra la rappresentanza ecclesiastica. Si pensi al cardinale cileno Errazuriz chiamato a far parte del gruppo di 9 alti prelati che assistono papa Francesco nel governo della Chiesa Universale nonostante sia stato criticato dalle vittime per non aver condotto adeguatamente le indagini sul più noto caso di pedofilia del clero cileno. L’imperativo è rompere la coltre di silenzio. Molti episodi si sarebbero potuti evitare se si fosse prestato attenzione alle denunce dei parenti delle vittime, e se la Chiesa si fosse prestata a collaborare con le autorità giudiziarie».

Sappiamo che il lavoro di inchiesta condotto ha una portata internazionale. Come avete selezionato le tappe del viaggio?

«Il numero di vittime è davvero impressionante. Dopo un lungo lavoro di scrematura abbiamo selezionato le storie che ci sembravano più rappresentative del fenomeno di abusi e violenze diffuso in tutto il mondo. Siamo partiti dalla Francia, a Lione dove sono emersi episodi di abusi su almeno 70 bambini. Tornando in Italia, ci siamo soffermati sul caso di Don Inzoli, senz’altro rappresentativo della lentezza della burocrazia e della Chiesa nell’affrontare la lotta ai crimini sessuali. Preziosa la testimonianza di Marie Marie Collins, ex membro della Pontificia Commissione per la tutela dei Minori e a sua volta vittima, che ci ha raccontato come il percorso di riforme intrapreso abbia infine condotto alle sue dimissioni a cause delle resistenze incontrate in Vaticano. Negli Stati Uniti, siamo stati ad Altoona-Johnstown, in Pennsylvania, per un’inchiesta su centinaia di bambini vittime di abusi sessuali: a seguito degli scandali esplosi l’atteggiamento della procura è di tolleranza zero. Infine l’Argentina, il paese del Papa, con le prime ed esclusive interviste alle vittime di Padre Corradi, arrestato con l’accusa di aver abusato sessualmente di alcuni studenti sordomuti dell’Istituto Provolo di Mendoza».

Che tipo di resistenza avete incontrato nel corso della vostra ricerca?

«Il problema principale per chi conduce indagini di questo tipo è di dover confrontarsi con una Chiesa che si ostina a mantenere sotto silenzio tutto ciò che riguarda gli abusi sessuali. Questo vale sia per noi giornalisti, che per i legali delle vittime e soprattutto per i magistrati. Nel film raccontiamo il caso di un pm italiano che si è visto rifiutare dal Vaticano una rogatoria internazionale. I processi canonici sono sotto segreto pontificio, e per chi tradisce questa regola ci sono pene severissime. Omertà e silenzio sono al centro di un atteggiamento increspatosi negli anni».

Il tema degli abusi sui minori è prima di tutto un argomento fatto di sofferenza umana. Come raccontare la pedofilia?

«È stato molto difficile confrontarsi con storie così raccapriccianti, che vedono al centro i bambini. Definiamo spesso i protagonisti di queste vicende delle “vittime”, eppure io li appellerei “eroi”: nonostante il peso ditali sofferenze, trovano il coraggio di raccontare la propria storia e di sfidare la autorità, vittime ancora una volta. Mi piacerebbe segnalare tra le testimonianze raccolte il ruolo delle donne, sempre in prima linea nel rompere il silenzio. È forse proprio da loro che la Chiesa dovrebbe ricominciare per condurre la “rivoluzione” necessaria».

LA MAFIA GLOBALIZZATA.

I padrini dall'Australia: la 'ndrangheta radicata nella terra dei canguri. Tra Melbourne, Sidney, Adelaide, Perth e Griffith, i clan della provincia di Reggio Calabria hanno replicato metodi e business. Un rifugio sicuro dalle leggi italiane. Così come lo è il Canada, "zona franca" raccontata nel prossimo numero dell'Espresso in edicola da domenica 15 gennaio, scrive Giovanni Tizian il 13 gennaio 2017 su "L'Espresso". Un omicidio può dire molte cose. Specie se la vittima è un avvocato di successo, che viveva a Melbourne e difendeva mafiosi calabresi trapiantati in Australia. Per questo il cadavere di Joseph “Pino” Acquaro lancia messaggi tutti da decifrare, che sono senza ombra di dubbio la chiave per entrare nella dimensione più recente della 'ndrangheta in Oceania. Un'organizzazione globale. Che, come raccontiamo nel prossimo numero in edicola domenica 15 gennaio, ha colonizzato anche il Canada, trasformandolo in una sorta di rifugio dei padrini. Una vera e propria “zona franca”, così la definisce il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti, dove è impossibile persino catturare un latitante. Perché il codice canadese non prevede il reato di associazione mafiosa e quindi quelli che per le nostre procure sono pericolosi ricercati non lo sono per le autorità nordamericane. Insomma, Canada e Australia terre promesse della 'ndrangheta international. Non a caso il cartello criminale - di cui parliamo nell'inchiesta su “l'Espresso” in edicola- dal nome “Siderno Group of Crime” è lo stesso che ha inviato propri uomini pure nella terra dei canguri. E qui, a Melbourne, l'omicidio di “Pino” Acquaro, l'avvocato, è la spia, l'ennesima, di un potere che i clan ostentano senza preoccupazione. Acquaro, oltre che professionista stimato, è stato presidente della camera di commercio italiana a Melbourne e membro del Reggio Calabria club. Le indagini sull'omicidio avvenuto il 16 marzo scorso nel quartiere italiano di Melbourne proseguono. Ma alcune tracce, da quanto risulta all'Espresso, portano proprio in Italia. E benché siano solo sospetti, le verifiche svolte dai nostri detective hanno messo a fuoco degli “strani” viaggi di ritorno di alcuni personaggi legati ai clan calabresi con solide basi nella terra dei canguri. Indizi che raccontano di sospetti partiti da Melbourne per rientrare in Calabria nei giorni immediatamente successivi all'omicidio. In episodi del genere, del resto, nulla è lasciato al caso. Per di più se non è l'unica anomalia in tutta questa vicenda. Tra gli elementi in possesso della nostra Antimafia anche un incontro avvenuto circa sette giorni prima dell'omicidio tra l'avvocato dei boss australiani e un narcos calabrese, Antonio Vottari, ricercato dal 2011 per aver importato in Italia diverse tonnellate di cocaina. Acquaro e Vottari si sarebbero incontrati a Melbourne. Qualche giorno dopo il trafficante è salito su un aereo. Ma arrivato a Fiumicino è stato catturato dai carabinieri. Come nel più remoto dei paesi della Calabria o del Nord Italia, anche in Australia la 'ndrangheta affilia sindaci, avvicina politici nazionali, corrompe funzionari pubblici. E uccide. Nell'ultimo anno, per esempio, le pistole dei clan hanno fatto fuoco per ben due volte. Il primo a cadere è stato l'avvocato Joseph “Pino” Acquaro. L'ultimo boss ammazzato, invece, a novembre scorso: Pasquale “Path” Barbaro, giovane ma con un pedigree criminale di tutto rispetto, oltre che legami di sangue diretti con i padrini più anziani. Correva l'anno 1920. Nel porto di Melbourne attraccavano i primi battelli carichi di italiani. Tra questi, confusi tra chi emigrava alla ricerca di un lavoro onesto, c'erano anche i pionieri della 'ndrangheta australiana. Tra tre anni, dunque, le cosche calabresi festeggeranno i cento anni di storia in Oceania. La global 'ndrangheta, in questo, ha anticipato persino la globalizzazione dei mercati. Eppure, come in Canada, anche in Australia, c'è chi continua a fare finta di niente. E neanche gli omicidi eccellenti o le relazioni con il potere politico scoperte da alcuni giornalisti di Melbourne hanno innescato una lotta senza quartiere ai clan della mafia calabrese, che qui spesso viene ancora chiamata “Honoured society”, etichetta vintage e decisamente impregnata di folklore. Anna Sergi è una criminologa esperta di 'ndrangheta nel mondo, in particolare in Australia. Insegna all'università di Essex, in Inghilterra. Ma collabora con un rivista specialistica australiana. In un suo recente articolo ha descritto esattamente le diverse sfumature con cui i clan operano nella terra dei canguri. In sintesi ha spiegato come le famiglie criminali originarie soprattutto della Locride, provincia di Reggio Calabria, riescano a mutare i propri codici culturali a seconda del contesto in cui “lavorano”. Una trasformazione che ha permesso di penetrare anche in ambienti politici ed economici di grande peso. La capacità di entrare negli ambienti che contano ha portato molti vantaggi ai boss calabresi trapiantati in Australia. In un caso avrebbero persino ottenuto coperture da un ex ministro, e ancora prima, negli anni '80, da altri politici locali. Uno dei primi detective a recarsi in Australia alla fine degli anni '80 fu il poliziotto Nicola Callipari, poi ucciso dai soldati americani nel 2005 in Iraq durante la liberazione della giornalista del Manifesto Giuliana Sgrena. Già ai tempi della missione di Callipari erano evidenti le connessioni con il potere locale. Negli anni queste interferenze sono emerse sfociando anche in scandali i cui riverberi hanno raggiunto l'Italia. Il gap legislativo che esiste tra Italia e Australia è incolmbabile. Ciò che accade nei rapporti con il Canada si ripete nella difficile cooperazione con la polizia australiana. Quelli che per noi sono latitanti, per loro spesso non lo sono. Con situazioni paradossali. Come nel caso di Tony Vallelonga, per ben quattro volte sindaco di un sobborgo di Perth. Vallelonga in Australia è un personaggio noto, oltre alla politica è molto attivo nella comunità religiosa e negli anni è diventato un punto di riferimento della comunità italiana. I pm della procura antimafia di Reggio Calabria lo hanno indagato per associazione mafiosa. Fosse stato residente in Italia l'avrebbero arrestato, ma vista la distanza non hanno potuto fare di più. Il fatto è che continua a stare lì. E si difende dalle accuse: non è un membro della 'ndrangheta international, dice.  Nonostante le intercettazioni lo inchiodino mentre discute in Calabria, in uno dei suoi viaggi, con il grande capo della' ndrangheta tutta, che manco a dirlo è di Siderno. È qui che le cimici hanno registrato diversi summit all'interno della lavanderia di proprietà del padrino Giuseppe Commisso detto "u Mastru", il maestro. Lo stesso che fa da stella polare agli affiliati di stanza in nordamerica. Tony l'ex sindaco e "u Mastru" discutevano di questioni organizzative dei clan. Un altro caso che ha provocato forti frizioni tra le autorità è quello del narcos condannato dal tribunale di Catanzaro a 25 anni per traffico internazionale di cocaina. Si chiamava Nicola Ciconte ed era il trafficante delle 'ndrine tra Melbourne, Sydney e Perth. Non ha scontato neppure un giorno dietro le sbarre, perché le autorità locali non hanno mai dato il via libera all'estradizione. Cavilli giuridici, prove non utilizzabili dai tribunali australiani, nonostante fosse accusato dai magistrati calabresi di aver importato in Australia 500 chili di cocaina dalla Colombia tramite la rete della 'ndrangheta globale. È morto qualche anno fa da uomo libero in seguito a una malattia contratta in Cambogia. Storie di una mafia diventata globale. E paradossi di una giustizia che resta locale.

Messa per il boss, il sindaco al parroco: «Vattene da Grumo Appula», scrive Valerio Falerini martedì 27 dicembre 2016 su "Il Secolo D'Italia". Se non ci fossero di mezzo un morto ammazzato e una storiaccia di mafia, lo scontro tra don Michele Delle Foglie, controverso parroco di Grumo Appula e Michele D’Atri, il sindaco di quel paese di 13mila anime alle porte di Bari, ben potrebbe rievocare le celebri scazzottature tra Peppone e don Camillo nell’infuocato scenario della Bassa padana nell’immediato dopoguerra. Ma di mezzo c’è la mafia e un boss, Rocco Sollecito, ucciso in un regolamento di conti tra clan rivali che a Montreal, Canada, si contendono le piazze dello spaccio della droga. Al parroco è venuto in mente di invitare i fedeli alla messa (poi annullata) in suffragio del “pezzo da 90” con un manifesto in cui si è detto «spiritualmente unito» alla famiglia colpita dl lutto. Un protagonismo che al sindaco D’Atri non è piaciuto neanche un po’. Tanto è vero che ha deciso di appellarsi direttamente al vescovo invitandolo «dopo l’ennesima segnalazione» a prendere gli opportuni «provvedimenti». «Credo – ha proseguito il primo cittadino – che su don Michele Delle Foglie ci sia un profilo di incompatibilità col territorio per via dell’attività imprenditoriale della famiglia che sta tentando di aprire da anni il più grande impianto di compostaggio della regione in contrasto con il volere dell’Amministrazione comunale». Una dichiarazione probabilmente destinata ad illuminare sotto una luce nuova la discutibile iniziativa del parroco di Grumo Appula. Per la verità, secondo quanto ricostruito dallo stesso D’Atri, subito dopo l’affissione del manifesto con cui il parroco invitava i fedeli a partecipare alla celebrazione religiosa, il sindaco aveva provveduto ad informare le forze dell’ordine e la curia. La guerra tra il sindaco e il parroco di Grumo Appula non erano certo una novità per il vescovo di Bari, Francesco Cacucci. Proprio D’Atri ha ricordato di aver più volte segnalato al presule comportamenti «non condivisibili tenuti dal parroco» che «hanno letteralmente spaccato in due la comunità civile e religiosa di Grumo Appula, arrivando a chiudere le porte della chiesa persino ad una statua della Madonna in processione». Tra i due, sindaco e sacerdote, i rapporti dovevano essere ridotti ai minimi termini. «Lui usa il pulpito – è l’accusa di D’Atri – per sbraitare con chi si mette contro le sue posizioni». A Grumo Appula, intanto, i cittadini assistono un po’ spaesati a questa “botta” di celebrità non attesa e non richiesta. «Popolo di ignoranti», li ha definiti don Michele in un’intervista alla stampa. «Piuttosto è gente per bene che preferisce restare in silenzio di fronte a tanta arroganza», è la replica del sindaco. Speriamo che abbia ragione lui.

Grumo e la messa per il boss, il vescovo gela il sindaco: "Decido io sul parroco". Monsignor Francesco Cacucci riconosce l'errore e l'imprudenza di don Michele Delle Foglie nell'aver annunciato una celebrazione per Rocco Sollecito ucciso in Canada, replica al primo cittadino che aveva chiesto di rimuovere il sacerdote, scrive il 28 dicembre 2016 "La Repubblica". La polemica nata a Grumo Appula attorno al parroco della chiesa Santa Maria Assunta, don Michele Delle Foglie, e alla messa (poi annullata) in suffragio del boss Rocco Sollecito, ucciso in Canada nel maggio scorso in un agguato mafioso, si è spostata ben presto su una presunta 'incompatibilità' tra il sacerdote e il territorio, per gli affari relativi all'impianto di compostaggio della famiglia di don Michele. A sollevare il nuovo polverone è stato il sindaco di Grumo Appula, Michele D'Atri, che ha accusato il parroco di "usare il pulpito per sbraitare con chi si mette contro le sue posizioni", auspicando che "dopo l'ennesima segnalazione, vescovo e autorità preposte intervengano con provvedimenti esemplari, peraltro più volte richiesti ad esclusivo interesse della comunità religiosa già abbastanza provata e danneggiata". L'arcivescovo di Bari-Bitonto, Francesco Cacucci, nel ribadire che il parroco ha commesso un errore, "un'imprudenza" che ha creato un "grave scandalo", ha tuttavia sottolineato che i provvedimenti disciplinari nei confronti di un parroco "non competono al sindaco". Sulla vicenda è intervenuto anche il legale difensore della famiglia Delle Foglie, l'avvocato Francesco Paolo Sisto, il quale ha parlato di "dichiarazioni da parte del primo cittadino inaccettabili e strumentali". Ad accendere la miccia, però, è stata la funzione religiosa in suffragio di Rocco Sollecito, annunciata giorni fa con un manifesto in cui si invitavano i fedeli a partecipare alla messa, annullata dopo la nota del Questore di Bari che ordinava una celebrazione privata alle 6 del mattino e poi dopo la lettera del vescovo, monsignor Francesco Cacucci. Le porte della chiesa però non si sono aperte affatto per la messa in suffragio del boss. Don Michele è rimasto chiuso in casa annunciando che farà "giungere un appello a Papa Francesco affinché mi riceva come il padre accoglie un figlio nel dolore" e ha infine spiegato ai fedeli con un comunicato affisso all'ingresso della chiesa che la celebrazione è stata "revocata" su richiesta della famiglia Sollecito. La vicenda ha completamente spaccato in due il paese alle porte di Bari. Da un lato chi sta con don Michele "che ha fatto solo il suo dovere di prete", perché "tutti i defunti meritano una preghiera" ha detto la cognata del boss, dall'altra chi auspica che "questa storia finalmente smuova le cose in città". Vicinanza a don Michele è stata espressa anche dall'Azione Cattolica parrocchiale, che ha invitato i fedeli a partecipare alla messa celebrata non da don Michele ma da padre Francesco Sollazzo, con il vicario zonale del vescovo, don Marino Cutrone. Commenti e prese di posizione sono arrivate anche dalla Commissione parlamentare antimafia. Il senatore del Pd Giuseppe Lumia ha detto che "boss del suo calibro (di Rocco Sollecito, ndr) non vanno onorati. Bisogna evitare che attorno a figure del genere si continuino ad alimentare forme di ammirazione tipiche della cultura mafiosa". Ha detto la sua anche Vittorio Sgarbi, schierandosi a favore di don Michele e definendo l'iniziativa di questore e vescovo "un atto di bullismo".

Salta la messa per il boss L'«obbedisco» del prete che ora si appella al Papa. L'ordine del vescovo: annullata la cerimonia di suffragio. Il sindaco: parroco incompatibile, scrive Bepi Castellaneta, Mercoledì 28/12/2016, su "Il Giornale". Le porte della chiesa sbarrate, le strade silenziose e ancora immerse nel buio, a malapena rischiarate dalla luce dei lampeggianti di polizia e carabinieri rimasti a presidiare la piazza. Alla fine la messa in suffragio del boss ucciso non c'è stata e poco prima dell'alba Grumo Appula, provincia di Bari, è un paese deserto. Il giorno prima il questore Carmine Esposito aveva disposto che la celebrazione avvenisse alle 6 del mattino e non nel pomeriggio, come invece voleva il parroco. Il quale però ha rinunciato adeguandosi all'ordine partito dalla Curia. Tuttavia il caso non è affatto chiuso. Tanto che il sacerdote, don Michele Delle Foglie, annuncia l'intenzione «di far giungere un appello a Papa Francesco affinché precisa in un messaggio affidato ai microfoni di Radionorba mi riceva come un padre accoglie un figlio nel dolore. Le sante messe prosegue non si celebrano in onore dei defunti, le sante messe si celebrano a suffragio dei defunti e quanto più si è peccatori tanto si chiede la misericordia di Dio». Il caso è scoppiato quando per le strade di questo sonnacchioso centro agricolo sono spuntati alcuni manifesti funebri in cui don Michele «invita la comunità dei fedeli alla celebrazione» in suffragio di Rocco Sollecito, boss di Cosa Nostra, assassinato in un agguato a colpi di pistola il 28 maggio scorso a Laval, sobborgo di Montreal, Canada. Un omicidio eccellente: la vittima infatti è un nome pesante della criminalità organizzata italiana radicata oltre Oceano e secondo gli investigatori il delitto rientra in una sanguinosa guerra tra clan combattuta tra le cosche di mafia siciliana e ndrangheta. Ecco perché il 6 giugno il questore di Bari, Carmine Esposito, vietò i funerali in forma solenne a Grumo Appula ordinando che si tenessero all'alba per ragioni di ordine pubblico. Ma a distanza di qualche mese il parroco ha annunciato una messa, provvedendo anche ai manifesti in cui peraltro si definisce «spiritualmente unito ai familiari residenti in Canada e con il figlio Franco venuto in visita nella nostra cittadina». Sono passate alcune ore, il questore ha firmato un secondo provvedimento mentre dalla Curia è partita una reazione durissima: l'arcivescovo di Bari, monsignor Francesco Cacucci, ha firmato una lettera indirizzata al parroco in cui vieta la celebrazione fissata per le 18,30, evidenzia «il grave scandalo» provocato dall'iniziativa e minaccia provvedimenti disciplinari. E così ieri il dispositivo di sicurezza è scattato, dinanzi alla chiesa Matrice di Santa Maria Assunta sono arrivate le pattuglie di polizia e carabinieri, ma le porte sono rimaste chiuse: nessuna messa in suffragio, una decisione che puntualizza il parroco è stata presa dopo la rinuncia della famiglia Sollecito. A Grumo Appula non si parla d'altro. E il caso diventa anche politico perché il sindaco, Michele D'Atri, non solo bolla il sacerdote come «incompatibile con la città», ma fa riferimento all'attività imprenditoriale del fratello, in procinto di avviare un gigantesco impianto di compostaggio proprio lì in zona «in contrasto dice il primo cittadino con il volere dell'amministrazione comunale». Il paese per la verità è diviso. «Tutti meritano una preghiera», dice la cognata del boss ucciso. E in tanti, nonostante le polemiche e il clamore, difendono ancora il parroco.

Il caso della messa per il boss mafioso e i rapporti tra stato e chiesa smascherati. La storia è di per sé istruttiva in quanto utile a mettere in luce due verità sottaciute per abitudine, scrive Antonio Gurrado il 28 Dicembre 2016 su “Il Foglio". Il caso di Grumo Appula è un piccolo male per un grande bene. È totalmente superfluo dibattere se il prete che voleva celebrare la Messa in suffragio dell'anima del boss abbia commesso o meno un errore; a riguardo esiste un pronunciamento del Vescovo competente cui bisogna ubbidire e basta. La storia tuttavia è di per sé istruttiva in quanto utile a mettere in luce due verità sottaciute per abitudine. La prima è che in Italia, nonostante concordati e salamelecchi, lo Stato continua a percepirsi come ente intrinsecamente contrapposto alla Chiesa, ostile e vessatorio: non si spiegherebbero altrimenti il questore che dispone l'orario delle celebrazioni e il sindaco che ambisce a deporre il sacerdote, manco fossimo nel XII secolo o in piena caccia giacobina ai preti refrattari. La seconda verità è confermata dal pronunciamento stesso del Vescovo, il quale ha applicato il canone che proibisce esequie e suffragi in caso di pubblico scandalo dei fedeli. Significa che una celebrazione non è evento privato ma presa di posizione, e che pertanto la pratica della fede ha una ricaduta sociale superiore alla contingenza della politica. Non si può ridurla a spiritualità da esercitarsi privatamente e arbitrariamente nella forma che si preferisce fino a che non collide col quieto vivere e col governo del territorio: non c'è riuscito il procuratore di Giudea, figuriamoci il sindaco di Grumo Appula.

Organizza una messa per il boss ucciso, Sgarbi si schiera con il parroco di Grumo Appula. «Io sto con Don Michele Delle Foglie, il parroco di Grumo Appula». A scriverlo in un post su Facebook è Vittorio Sbarbi, che commenta l'iniziativa di questore e vescovo di Bari di vietare la celebrazione pubblica in ricordo del boss Rocco Sollecito, prevista per oggi alle 18.30. «Un questore deve occuparsi dei criminali vivi, non di quelli morti - dice Sgarbi - ma soprattutto non può essere lui a dire se un parroco deve celebrare messa o meno. La fede è un atto intimo, privato. Un questore che si occupa di una messa vuol dire che non ha nulla di serio da fare, oltre a esercitare una grave interferenza. Schierare decine di carabinieri e poliziotti davanti una chiesa è stato un atto di bullismo». «Avrebbe fatto bene il vescovo - continua Sgarbi - a schierarsi con il suo parroco, piuttosto che cedere alla retorica di chi utilizza una messa per inventare un pericolo di mafia anche davanti a un morto». 

Quei "sistemi" oltre i boss, scrive Piergiorgio Morosini su "La Repubblica" il 14 gennaio 2017. Piergiorgio Morosini - Componente del Consiglio Superiore della Magistratura. “La mafia ormai sta nelle maggiori città italiane dove ha fatto grossi investimenti edilizi, o commerciali, o magari industriali”. A dirlo è Carlo Alberto dalla Chiesa in un'intervista a Giorgio Bocca, a pochi giorni dall’eccidio di via Isidoro Carini. Nella sua intuizione c’era una sfida. A lui interessava la “rete mafiosa di controllo, che grazie a quelle case, a quelle imprese, a quei commerci magari passati a mani insospettabili, sta nei punti chiave, assicura i rifugi, procura le vie del riciclaggio, controlla il potere”. Quella sfida, ancora attuale, diventa oggi più difficile per due motivi: l’erosione degli antidoti socio-istituzionali all’illecito; l’evoluzione dei clan, non più riducibili alla Cosa Nostra di Riina, con le sue regole, il suo popolo e il suo territorio, attorno a cui ruota la “zona grigia” dei complici. Recenti inchieste svelano network tra boss, imprenditori, uomini delle istituzioni, professionisti. Si pensi a “Mafia Capitale”, “Telekom Italia Sparkle”, o a quelle sullo smaltimento illegale dei rifiuti della camorra. Descrivono “sistemi criminali” che coinvolgono classi, ambienti e luoghi differenti tra loro, in cui la regia sovente non è dei mafiosi. E se un tempo investivano sugli appalti pubblici, oggi puntano ad altro. Dalle energie alternative alla distribuzione, dalla sanità privata alla tecnologia e all’immigrazione. Si tratta di settori che coinvolgono i bisogni quotidiani di tante persone. E ciò complica l’individuazione e la repressione di quei “sistemi”. Non bastano buone leggi. Occorre specializzazione di magistrati e polizia giudiziaria, distribuita in modo omogeneo sul territorio nazionale. Perché i boss sono sempre pronti a delinquere dove lo Stato non è in grado di capirli e, quindi, di scoprirli. Cosa agevola la mimetizzazione delle mafie? Per il tribunale di Milano (2010), “il preoccupante livello di accettazione sociale dell’impresa mafiosa”. Ossia tante imprese sane che, pure nel nord, subiscono in silenzio o ci entrano in affari. Forse è il prezzo della perdita di quel patrimonio di certezza amministrativa, di affidabilità nei commerci, di trasparenza nella politica e nella burocrazia. Occorre ripristinarlo per estirpare il male oscuro dell’Italia, di cui Dalla Chiesa parlò già nel 1982.

Il mercato dell’antimafia? Ne fanno parte anche i magistrati, scrive Tiziana Maiolo il 13 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Che esista, e non da oggi, un “florido mercato dell’antimafia”, come scrive il dottor Alberto Cisterna, è indubbio. Ma di questo mercato fanno parte a pieno titolo anche (alcuni) magistrati. E l’associazione Libera, che anche il dottor Cisterna pare apprezzare, voleva aprire una pizzeria “antimafia”. Le geniali intuizioni di Sciascia e quelle carriere dei pm “anti”. Che esista, e non da oggi, un “florido mercato dell’antimafia”, come scrive il dottor Alberto Cisterna, è indubbio. E l’aveva previsto trenta anni fa, senza mai sbagliare un colpo, la genialità di Leonardo Sciascia. Ma di questo mercato fanno parte a pieno titolo anche (alcuni) magistrati. Basterebbe il fatto che si pensano, si esibiscono (e ci costruiscono carriere) come “antimafia”. Non è solo un fatto linguistico. Nessun Pubblico ministero né alcun giudice può mai definirsi “anti” qualcosa o qualcuno, soprattutto ergersi a combattente nei confronti di un fenomeno, neppure il più criminoso e sanguinario quale è per l’appunto la mafia. Essendo la lotta alla criminalità organizzata compito dello Stato e delle forze dell’ordine, solo in un caso i Pubblici Ministeri (e mai i giudici) potrebbero gettarsi nella mischia dell’” antimafia”, se fossero sganciati dall’Ordine giudiziario e sottoposti all’esecutivo. Ma così non è e difficilmente sarà. Questa definizione solo apparentemente lessicale è importante proprio per quel che diceva Leonardo Sciascia, cioè che attraverso questa sorta di “professionismo” e di costruzione di carriere si sarebbe arrivati a una crisi profonda dello Stato di diritto e a un’amministrazione della giustizia strabica e, alla fine, ingiusta. È vero, non solo i magistrati si sono macchiati del “reato” di professionismo. Ci sono state scalate politiche nate sulle lenzuola bianche alle finestre, e florilegi di convegnistica e produzioni per così dire letterarie a fare da contorno all’attività della giustizia con il piglio dell’inevitabile, quasi tutto fosse concesso in nome di una battaglia di religione. Pure si sarebbe potuto fare diversamente. E diversamente si è fatto in tante parti d’Italia, senza protagonismi né luci della ribalta. Un piccolo esempio di un episodio cui ho partecipato personalmente. Quando ero assessore alla sicurezza a Buccinasco (cittadina attaccata a Milano e ingiustamente chiamata la “Platì del nord”), abbiamo aperto un asilo in una villetta confiscata. L’associazione Libera, che anche il dottor Cisterna pare apprezzare, voleva aprire una pizzeria “antimafia”. Qui sta la differenza tra il fare e l’apparire. L’asilo non era “anti” niente, ma forse era utile. E ancora non ho capito che sapore abbia la pizza mafiosa rispetto a quella dei ragazzi di Libera. La magistratura ha enormi responsabilità in tutto ciò. Non può chiamarsi fuori. Neanche Falcone. La polemica di Leonardo Sciascia sul maxiprocesso non fu questione di facciata né di personale inimicizia. Fu allarme e avvertimento: non combattete i fenomeni, non innamoratevi di un’ipotesi, non lasciatevi lusingare dalle sirene che agiscono per interesse. Era appena entrato in vigore il nuovo codice di procedura, almeno “tendenzialmente” accusatorio e ne fu fatta carne di porco. Venne incenerito il giudice Carnevale (vogliamo ricordare i sondaggi di Martelli-Falcone sulla sua giurisprudenza, senza risultato?) perché troppo pignolo e si portò a casa il risultato politico. Sì, politico. Con conseguenze tragiche. Ma quel che di politico successe dopo le stragi fu ancora peggio. Leggi speciali (l’ergastolo ostativo esiste ancora oggi) e gestione sciagurata dei “pentiti” (con un vero mercato della calunnia affidato alle mani di delinquenti assassini) servirono a distruggere lo Stato di diritto e a costruire brillanti carriere ad alcuni Pubblici Ministeri. Non c’è bisogno di fare nomi e cognomi, li troviamo ogni giorno sui giornali, qualcuno ai vertici massimi dello Stato. E qualcuno vuole ancora mettere in discussione la genialità di quell’intuizione di Leonardo Sciascia?

I DIECI COMANDAMENTI DELL’ANTIMAFIA.

Scrive il 3 gennaio 2017 Salvo Vitale su "Telejato.

Se incontri un mafioso girati dall’altro lato e sputa: non sputargli in faccia, correresti il rischio di beccarti una pistolettata.

Se il mafioso ti chiede il pizzo tu raddoppia, chiedigli il doppio di quanto lui pretende: se gli fai vedere di avere paura sei già nelle sue mani e dopo di questo denuncialo. Chi paga ed accetta di pagare diventa un finanziatore della mafia e quindi un complice.

Se ti accorgi che le forze dell’ordine non sono in grado di proteggerti, evita di farti ammazzare e comunque cerca un modo per proteggerti. È bene avere un amico a cui raccontare tutto ciò ed a cui rivolgersi in caso di bisogno. Se poi è un amico che sa difendersi e difenderti è meglio.

Non aspettare che siano gli altri a liberarti dalla Mafia! I giudici e le forze dell’ordine fanno il possibile ma anche tu devi fare qualcosa! In questa partita hai l’obbligo di essere un giocatore e non uno spettatore.

Ricordati di ricordare le date in cui sono state uccise le vittime della mafia e ricordare l’efferatezza aiuta a fare crescere la rabbia e Noi non dimentichiamo!

Il mafioso non è un uomo d’onore, né un padre protettore: è un delinquente che come le zecche succhia il sangue e si arricchisce sul lavoro degli altri… stanne alla larga!

Se sai che il supermarket, il negozio di cui ti servi, la pompa di benzina o il titolare del tuo cantiere pagano il pizzo o sono in qualche modo collusi con i mafiosi non andarci. Porti denaro nelle loro tasche.

Il traffico delle droghe, della cannabis, dalla cocaina al crack e tutte le porcherie che escono ogni giorno, è interamente nella mani della mafia. Anche qua devi essere cosciente di essere un cliente dei mafiosi e di portar loro il tuo denaro.

Guardati intorno ed impara ad identificare i mafiosi, persone, ditte, imprese che governano il tuo territorio e fanno affari secondo metodi che apparentemente sono normali. Cerca poi di costruire insieme ad altri che sono d’accordo con te, l’opposizione! È importante non essere soli in questa battaglia!

Il mafioso è un uomo come tutti gli altri. Se non lo accetti e ti metti in testa che la mafia non è invincibile, PUOI VINCERE! Quando vai a votare, e qui è importante, ricordati che ci sono partiti che sono veri e propri covi di mafiosi e che la mafia va a braccetto con gran parte della classe politica, a cominciare da chi oggi governa il paese. Il detto “una mano lava l’altra e tutte e due lavano la faccia” qui non funziona. Se tu dai il voto a questa gente non ti fai lavare la faccia ma te la fa sporcare di più, te la fa sporcare di merda.

L’ANTIMAFIA IMPLACABILE.

La Cassazione: «Toto Riina è malato, ha diritto a morire con dignità», scrive il 5 giugno 2017 "Il Dubbio". Apertura dei giudici del Palazzaccio alla scarcerazione del “boss dei boss”: ha 86 anni, è in carcere dal 1993. Valutare nuovamente se sussistano o meno i presupposti per concedere a Totò Riina il differimento della pena o gli arresti domiciliari per motivi di salute. È quanto ha disposto la Cassazione, che, accogliendo il ricorso presentato dalla difesa del boss di Cosa nostra, ha annullato con rinvio la decisione del tribunale di sorveglianza di Bologna che aveva detto “no” alla concessione di tali benefici penitenziari, nonostante le gravissime condizioni di salute in cui Riina versa da tempo. Il giudice bolognese aveva ritenuto che le “pur gravi condizioni di salute del detenuto” non fossero tali da “rendere inefficace qualunque tipo di cure” anche con ricoveri in ospedale a Parma (nel cui penitenziario Riina è recluso al 41 bis) e osservato che non erano stati superati “i limiti inerenti il rispetto del senso di umanità di cui deve essere connotata la pena e il diritto alla salute”. Il tribunale di sorveglianza di Bologna, invece, metteva in evidenza la “notevole pericolosità” di Riina, in relazione alla quale sussistevano “circostanze eccezionali tali da imporre l’inderogabilità dell’esecuzione della pena nella forma della detenzione inframuraria”. Oltre all'”altissimo tasso di pericolosità del detenuto”, il giudice ricordava “la posizione di vertice assoluto dell’organizzazione criminale Cosa nostra, ancora pienamente operante e rispetto alla quale Riina non ha mai manifestato volontà di dissociazione”: per questo, osservava il tribunale bolognese, era “impossibile effettuare una prognosi di assenza di pericolo di recidiva” del boss, nonostante “l’attuale stato di salute, non essendo necessaria, dato il ruolo apicale rivestito dal detenuto, una prestanza fisica per la commissione di ulteriori gravissimi delitti nel ruolo di mandante”. La prima sezione penale della Suprema Corte, con una sentenza depositata oggi, ha ritenuto fondato il ricorso, definendo “carente” e “contraddittoria” la decisione del tribunale di sorveglianza, che ha omesso di considerare “il complessivo stato morboso del detenuto e le sue generali condizioni di scadimento fisico”: affinchè la pena non si risolva in un “trattamento inumano e degradante”, ricordano i giudici di piazza Cavour, lo “stato di salute incompatibile con il regime carcerario, idoneo a giustificare il differimento dell’esecuzione della pena per infermità fisica o l’applicazione della detenzione domiciliare non deve ritenersi limitato alla patologia implicante un pericolo per la vita della persona, dovendosi piuttosto – si legge nella sentenza – avere riguardo ad ogni stato morboso o scadimento fisico capace di determinare un’esistenza al di sotto della soglia di dignità che deve essere rispettata pure nella condizione di restrizione carceraria”. I giudici di Palazzaccio, inoltre, osservano che “ferma restando l’altissima pericolosità” di Riina e “del suo indiscusso spessore criminale”, il tribunale di sorveglianza non “chiarisce come tale pericolosità possa e debba considerarsi attuale” data la “sopravvenuta precarietà delle condizioni di salute e, del più generale stato di decadimento fisico” del boss. La decisione del giudice bolognese, secondo la Cassazione, non spiega come “si è giunti a ritenere compatibile con le molteplici funzioni della pena e con il senso di umanità” imposte dalla Costituzione italiana e dalla Convenzione europea dei diritti umani “il mantenimento in carcere” di Riina, viste le sue condizioni di salute: la Corte afferma quindi “l’esistenza di un diritto di morire dignitosamente, che deve essere assicurato al detenuto e in relazione al quale il provvedimento di rigetto del differimento dell’esecuzione della pena e della detenzione domiciliare deve espressamente motivare”, anche tenuto conto delle “deficienze strutturali della casa di reclusione di Parma”. Il giudice di merito, dunque, deve “verificare, motivando adeguatamente in proposito, se lo stato di detenzione carceraria comporti una sofferenza ed un’afflizione di tali intensità da eccedere il livello che, inevitabilmente, deriva dalla legittima esecuzione di una pena”. Infatti, le “eccezionali condizioni di pericolosità” per cui negare il differimento pena devono “essere basate su precisi argomenti di fatto – conclude la Cassazione – rapportati all’attuale capacità del soggetto di compiere, nonostante lo stato di decozione in cui versa, azioni idonee in concreto ad integrare il pericolo di recidivanza”. Sulla base delle indicazioni e dei principi espressi della Suprema Corte nella sentenza di oggi, il tribunale di sorveglianza di Bologna dovrà riesaminare le istanze delle difesa di Riina.

La sentenza della Corte: «Ormai Riina è vecchio e malato. Non è più pericoloso». Secondo i giudici la giustificazione secondo la quale Riina può essere seguito e trattato anche in carcere è del tutto «parziale», scrive il 6 giugno 2017 "Il Dubbio". La sentenza che ha dato il via libera alla scarcerazione di Totò Riina è una vera e propria proclamazione del diritto e dei diritti della persona. Tra le pagine firmate da Mariastefania Di Tomassi presidente della prima sezione penale della Cassazione, si legge chiaramente che la permanenza in carcere del vecchio boss nega il diritto alla salute e il senso di umanità della pena. In particolare gli ermellini “contestano” la decisione di respingere la prima richiesta di scarcerazione, avanzata dal legale del boss lo scorso anno, spiegando che nel motivare il diniego, il tribunale di sorveglianza di Bologna aveva omesso di considerare il «complessivo stato morboso del detenuto e le sue condizioni generali di scadimento fisico». «II provvedimento impugnato – spiega infatti oggi la Cassazione – pur affermando le gravissime condizioni di salute in cui versa l’istante – soggetto di età avanzata, affetto da plurime patologie che interessano vari organi vitali, in particolare cuore e reni, con sindrome parkinsoniana in vasculopatia cerebrale cronica – nega la sussistenza dei presupposti normativi richiesti dall’art. 147, comma 1, n. 2, cod. pen. per il rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena, in particolare escludendo, da un lato, l’incompatibilità della detenzione con le condizioni cliniche dell’istante e, dall’altro, il superamento dei limiti imposti dal rispetto dei principi costituzionali del senso di umanità della pena e del diritto alla salute». Il Collegio spiega che la decisione di negare la libertà a Riina «è carente e, in alcuni tratti, contraddittoria». Secondo la Cassazione, infatti, «il provvedimento in esame sostiene l’assenza di un’ incompatibilità dell’infermità fisica del ricorrente con la detenzione in carcere, esclusivamente in ragione della trattabilità delle patologie del detenuto anche in ambiente carcerario, in considerazione del continuo monitoraggio della patologia cardiaca di cui quest’ultimo è affetto e dell’ adeguatezza degli interventi, anche d’urgenza, operati, al fine di prevenire danni maggiori, a mezzo di tempestivi ricoveri del detenuto presso l’Azienda ospedaliera Universitaria di Parma, ex art. 11 legge n. 354 del 1975» Insomma, secondo gli ermellini la giustificazione secondo la quale Riina può essere seguito e trattato anche in carcere è del tutto «parziale». «Tale prospettiva di valutazione è parziale e, pertanto, inadeguata a sostenere la ritenuta compatibilità delle condizioni di salute del ricorrente con il regime carcerario. In particolare, il Tribunale omette, nella motivazione adottata, di considerare il complessivo stato morboso del detenuto e le sue generali condizioni di scadimento fisico, pure descritte nel provvedimento. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, infatti, affinchè la pena non si risolva in un trattamento inumano e degradante, nel rispetto dei principi di cui agli artt. 27, terzo comma Cost. e 3 Convenzione EDU, lo stato di salute incompatibile con il regime carcerario, idoneo a giustificare il differimento dell’esecuzione della pena per infermità fisica o l’applicazione della detenzione domiciliare non deve ritenersi limitato alla patologia implicante un pericolo per la vita della persona, dovendosi piuttosto avere riguardo ad ogni stato morboso o scadimento fisico capace di determinare un’esistenza al di sotto della soglia di dignità che deve essere rispettata pure nella condizione di restrizione carceraria». 

I mafiosi ed una morte dignitosa. Cassazione: per Riina il diritto alla morte dignitosa. Rischio ricorsi per il 41bis, scrive Roberto Galullo il 5 giugno 2017 su "Il Sole 24 ore". Due boss di Cosa nostra, due valutazioni della Cassazione che rischiano di aprire strade opposte alla carcerazione dura.

Per l’uno, Bernardo Provenzano, morto il 13 luglio 2016 nel reparto adibito ai detenuti dell'ospedale San Paolo di Milano, il carcere duro non era incompatibile con la sua situazione di salute, ma al contrario era «fondamentale» per farlo sopravvivere.

L'altro, Totò Riina, alla pari di ogni altro detenuto, deve avere il diritto «a morire dignitosamente», a maggior ragione alla luce del fatto che le sue condizioni di salute sono a dir poco precarie. Ragion per cui il Tribunale di sorveglianza competente territorialmente, ha deciso la Cassazione, sarà chiamato a rivalutare la compatibilità o la sussistenza dei presupposti per il differimento della pena, lasciando il 41 bis.

Come se non bastasse si apre ora un varco per decine di reclusi al 41 bis (il carcere duro) che per questioni legate allo stato di salute possono appellarsi al fresco precedente di Riina.

Il 9 giugno 2015 la suprema Corte di Cassazione aveva bocciato il ricorso di “zu Binnu” - nell'ultimo periodo affetto, oltre che da tumore alla prostata, da decadimento cognitivo grave, ipertensione arteriosa, infezione cronica del fegato - perché il carcere duro è «fondamentalmente incentrato sulla necessità di tutelare in modo adeguato il diritto alla salute del detenuto». Se avesse lasciato il reparto ospedaliero del San Paolo di Milano per raggiungere un reparto comune, sarebbe stato a «rischio sopravvivenza», per la «promiscuità» e le cure che venivano invece dedicate. Gli avvocati del boss avevano fatto ricorso alla Suprema Corte contro il ricovero nella camera ospedaliera di massima sicurezza chiedendo che fosse spostato ai domiciliari in un reparto di lungodegenza dell'ospedale San Paolo.

L'11 luglio 2016, due giorni prima della morte, il giudice di sorveglianza di Milano 2 aveva respinto una nuova istanza di differimento pena per Provenzano (vale a dire che la pena va scontata ai domiciliari o in altro luogo di degenza al fine di garantire le cure o consentire una morte dignitosa) dell'avvocato Rosalba Di Gregorio che chiedeva la scarcerazione del boss o la revoca del carcere duro. I «trascorsi criminali e il valore simbolico del suo percorso criminale» avrebbero potuto esporlo «qualora non adeguatamente protetto nella persona» e «trovandosi in condizioni di assoluta debolezza fisica» ad «eventuali rappresaglie connesse al suo percorso criminale, ai moltissimi omicidi volontari dei quali è stato riconosciuto colpevole, al sodalizio malavitoso» di cui è stato «capo fino al suo arresto». In altre parole non era più lui ad essere un pericolo per gli altri ma lui ad essere potenziale vittima per scopi dichiarati o meno.

Sul profilo malavitoso torna la Cassazione nella decisione che coinvolge Riina, boss ottantaseienne. «Fermo restando lo spessore criminale», afferma infatti, «va verificato se Totò Riina possa ancora considerarsi pericoloso vista l'età avanzata e le gravi condizioni di salute». Si ripropone dunque il quesito che riguardò Provenzano e la contestuale necessità di garantirne la sicurezza pur in una situazione di grave salute fisica. La richiesta, recita la sentenza 27.766 relativa all'udienza del 22 marzo 2017 per Riina, era stata respinta lo scorso anno dal Tribunale di sorveglianza di Bologna, che però, secondo la Cassazione, nel motivare il diniego aveva omesso «di considerare il complessivo stato morboso del detenuto e le sue condizioni generali di scadimento fisico». Il Tribunale non aveva ritenuto che vi fosse incompatibilità tra l'infermità fisica di Riina e la detenzione in carcere, visto che le sue patologie venivano monitorate e quando necessario si era ricorso al ricovero in ospedale a Parma. La stessa che accade per Provenzano. Né più né meno. La Cassazione sottolinea, a tale proposito, che il giudice deve verificare e motivare «se lo stato di detenzione carceraria comporti una sofferenza ed un'afflizione di tale intensità» da andare oltre la «legittima esecuzione di una pena». Il collegio ha ritenuto che non emerga dalla decisione del giudice il modo in cui si è giunti a ritenere compatibile con il senso di umanità della pena «il mantenimento in carcere, in luogo della detenzione domiciliare, di un soggetto ultraottantenne affetto da duplice neoplasia renale, con una situazione neurologica altamente compromessa», che non riesce a stare seduto ed è esposto «in ragione di una grave cardiopatia ad eventi cardiovascolari infausti e non prevedibili». Questa decisione apre la strada ad altri ricorsi, anche in ragione della visibilità e del potere di Riina. Ricorsi che non si limiteranno soltanto ai boss in regime di 41 bis ma anche di detenuti comuni, reclusi pur in gravi condizioni di salute psichica o fisica. Molti Tribunali di sorveglianza infatti non concedono frequentemente differimenti pena legati a ragioni di salute anche gravi.

No, non è vero che la Cassazione ha detto di liberare Riina. Cosa c'è dietro la sentenza dei giudici che hanno accolto (in parte) le richieste della difesa del boss mafioso, malato, scrive Massimo Bordin il 5 Giugno 2017 su "Il Foglio". Se martedì mattina qualche giornale dovesse titolare “Vogliono liberare Riina” è bene sapere che ci sarebbe dell’esagerazione. Lunedì è stata resa pubblica una sentenza della prima sezione penale della Cassazione sulle condizioni di detenzione del “capo dei capi”. La trafila è questa: Riina, che ha 86 anni, gli ultimi 24 dei quali trascorsi in carcere, sta male e il suo avvocato ha presentato un’istanza al tribunale di sorveglianza di Bologna (Riina è detenuto a Parma) in cui si chiede la sospensione della pena o almeno i domiciliari. I giudici bolognesi hanno risposto di no, motivando con la intatta pericolosità del personaggio. La Cassazione ha annullato la decisione ma – ecco il punto – rinviandola ai giudici bolognesi per “difetto di motivazione”. Vuol dire che dovranno scriverla meglio. La Cassazione spiega che la pericolosità da sola non basta come argomento, scrive che esiste per tutti, anche per i peggiori dunque, il “diritto a una morte dignitosa”. Non si esclude che possa avvenire in carcere ma si chiede di argomentare più analiticamente. Ci sono dei precedenti, l’ultimo è il caso di Provenzano che obiettivamente stava ancora peggio di Riina ma fu lasciato morire in carcere. Prima ancora analoga sorte ebbe Michele Greco detto “il Papa” e ancora prima toccò a quello che di Riina e Provenzano era stato il capo, Luciano Liggio. Erano tutti pluriergastolani e grandi capi. Per i boss di medio calibro il trattamento è stato talvolta diverso. Gaetano Fidanzati e Gerlando Alberti furono mandati a morire a casa loro. Difficilmente sarà così per Riina. La Cassazione ha chiesto solo di rispettare le forme. In fondo esiste per questo.

Un uomo è un uomo…, scrive Piero Sansonetti il 6 giugno 2017 su "Il Dubbio". La coraggiosa sentenza della Cassazione che attribuisce a Toto Riina il diritto a «morire con dignità» è un colpo al populismo giudiziario e a chi pensa che la legge non sia uguale per tutti. È una sentenza che provocherà molte polemiche. Un colpo secco a quell’ideologia giustizialista – e a quella retorica giustizialista – che da molti anni prevale in Italia. Nel senso comune, nel modo di pensare delle classi dirigenti, negli automatismi dell’informazione e anche della politica. Dire che Totò Riina va liberato – perché è vecchio, perché è malato, perché le sue condizioni fisiche non sono compatibili con la vita in carcere, perché non è più pericoloso – equivale a toccare il tabù dei tabù, e cioè a mettere in discussione, contemporaneamente, alcuni dei pregiudizi più diffusi nell’opinione pubblica e nell’intellettualità (espressioni che ormai, largamente, coincidono). Il primo pregiudizio è quello che riguarda la legge. Che spesso non è concepita come la regola che assicura i diritti e la difesa della civiltà, ma piuttosto come uno strumento per punire e per assicurare la giusta vendetta, privata o sociale.  Non è vista come bilancia: è vista come clava. Il secondo pregiudizio riguarda l’essere umano, che sempre più raramente viene considerato come tale – e dunque come titolare di tutti i diritti che spettano a qualunque essere umano – e sempre più frequentemente viene invece inserito in una graduatoria di tipo “etico”. Cioè si suddivide l’umanità in innocenti e colpevoli. E poi i colpevoli, a loro volta, in colpevoli perdonabili, semiperdonabili o imperdonabili. E i diritti vengono considerati una esclusiva dei giusti. Il diritto di negare i diritti ai colpevoli, o anche solo ai sospetti, diventa il nocciolo duro del diritto stesso. Salvatore Riina, capo della mafia siciliana per circa un ventennio tra gli anni settanta e i novanta, è concordemente considerato come il vertice dell’umanità indegna, e dunque meritevole solo di punizione. Chiaro che per lui il diritto non esiste e qualunque ingiustizia, se applicata a Riina (o all’umanità indegna) inverte il suo segno e diventa giustizia. E, dunque, viceversa, qualunque atto di giustizia verso di lui è il massimo dell’ingiustizia. La Corte di Cassazione, con una sentenza coraggiosissima, inverte questo modo di pensare. E ci spiega un concetto semplice, semplice, semplice: che la legge è uguale per tutti. Come è scritto sulle porte di tutti i tribunali e sui frontoni di ogni aula. Il magistrato la studia, la capisce, la applica: non la adatta sulla base di suoi giudizi morali o dei giudizi morali della maggioranza. La legge vale per Riina come per papa Francesco, per il marchese del Grillo come per il Rom arrestato l’altro giorno col sospetto di essere l’assassino delle tre sorelline di Centocelle. E poi la Corte di Cassazione ci spiega un altro concetto, che fa parte da almeno due secoli e mezzo, della cultura del diritto: e cioè che la pena non può essere crudele, perché la crudeltà è essa stessa un sopruso e un delitto, e in nessun modo, mai, un delitto può servire a punire un altro delitto. Un delitto non estingue un altro delitto, ma lo raddoppia. La Cassazione fa riferimento esplicito all’articolo 27 della nostra Costituzione (generalmente del tutto ignorato dai giornali e da molti tribunali) e stabilisce che non è legale tenere un prigioniero in condizioni al di sotto del limite del rispetto della dignità personale e del superamento del senso di umanità nel trattamento punitivo. La Cassazione non dice che è ingiusto, o incivile, o inopportuno: dice che è illegale. E cioè stabilisce il principio secondo il quale, talvolta, scarcerare è legale e non scarcerare è illegale. Idea molto rara e di difficilissima comprensione. La prima sezione penale della Cassazione, che ha emesso questa sentenza respingendo una precedente sentenza del tribunale di sorveglianza di Bologna, e dichiarandola “errata”, ha avuto molto coraggio. Ha deciso senza tener conto delle prevedibili reazioni (e infatti già ieri sono piovute reazioni furiose. Dai partiti politici, dai giornalisti, dai maestri di pensiero). Usando come propria bussola i codici e la Costituzione e non il populismo giudiziario. È la prova, per chi non fosse convinto, che dentro la magistratura esistono professionalità, forze intellettuali e morali grandiose, in grado di garantire la tenuta dello stato di diritto, che ogni giorno la grande maggioranza della stampa e dell’informazione tentano di demolire. La magistratura è un luogo molto complesso, dove vive una notevole pluralità di idee in lotta tra loro. Non c’è solo Davigo e il suo spirito di inquisizione.

L’ascesa di Riina, così “u Curtu” prese il posto di Liggio, scrive Paolo Delgado il 6 giugno 2017 su "Il Dubbio". È stato un’anomalia feroce e distruttiva. Durante il suo impero, amici e nemici sono morti a migliaia. Per trovare un altro nome capace di evocare al solo pronunciarlo l’ombra di Cosa nostra bisogna saltare nello spazio e nel tempo, al di là dell’Atlantico e negli anni ‘ 30, nel regno di Lucky Luciano, oppure sconfinare nell’immaginario, sino a quel don Vito che si chiamava come il suo paese, Corleone. Eppure nella storia di Cosa nostra Salvatore Riina, Totò “u curtu”, è stato un’anomalia assoluta, feroce, devastante e distruttiva. Perché Cosa nostra, a modo suo, è sempre stata una democrazia. Così l’aveva voluta Salvatore Lucania, detto Charlie “Lucky” Luciano, dopo aver stroncato nel sangue le ambizioni imperiali di Salvatore Maranzana. Nessun capo dei capi per Cosa nostra, al massimo un primus inter pares, un presidente con intorno una commissione a fare da governo. E così era sempre stata la mafia siciliana. Fino al golpe di don Totò e dei suoi corleonesi nel 1981, e all’instaurazione di una dittatura tra le più sanguinarie, con oltre tremila esecuzioni, finita solo quando “u Curtu”, dopo 24 anni di latitanza, fu arrestato il 15 gennaio 1993. Eppure nessuno sembrava meno destinato al ruolo di capo assoluto della più potente associazione criminale del “viddano” nato il 16 novembre 1930 a Corleone, poco distante da Palermo in termini di chilometri ma all’altro capo dell’universo nelle gerarchie mafiose. Di famiglia poverissima, orfano a 13 anni, col padre e un fratello saltati in aria mentre scrostavano una bomba inesplosa, condannato per omicidio a 19 anni e scarcerato 6 anni dopo, Riina era uno dei picciotti di fiducia di Luciano Leggio, braccio destro del capomafia locale, rispettato e temutissimo, il dottor Michele Navarra. Piccolo, baffuto, silenzioso e sempre serio Riina e i suoi amici d’infanzia e compagni della vita, Bernardo “Binnu” Provenzano e Calogero Bagarella, fratello di Ninetta, futura signora Riina, erano l’esercito privato di Leggio, i suoi uomini di mano e di fiducia. Guardando a ritroso, la differenza tra i corleonesi e il resto di Cosa nostra era già chiara sin dagli esordi, da quando senza curarsi di niente, rispetto, regole o gerarchie, lasciarono il potente Navarra steso in mezzo a una strada di campagna, il 2 agosto 1958, sorpreso col suo autista e fucilato senza esitazioni. Qualche giorno prima il medico aveva tentato di eliminare il suo ex campiere e braccio destro diventato troppo ambizioso, Leggio. Dopo l’omicidio eccellente fu proprio Riina a guidare la delegazione che doveva cercare la pace con gli uomini di Navarra. Accordo raggiunto con reciproca soddisfazione, se non fosse che proprio all’ultimo minuto, tra una pacca e l’altra, Riina aggiunse una condizione imprevista: la consegna «di quei cornuti che hanno sparato a Leggio». Un attimo dopo Provenzano e Bagarella cominciarono a sparare e la mattanza a Corleone finì solo quando tutti gli uomini di Navarra furono eliminati uno a uno. Quando approdarono a Palermo i corleonesi non avevano amicizie politiche, non avevano le mani in pasta negli affari grossi, che allora erano soprattutto gli appalti, non avevano eserciti a disposizione come i boss di prima grandezza come i Bontate, sovrani della famiglia palermitana di Santa Maria del Gesù o Salvatore Inzerillo, con le sue parentele altolocate, cugino del potente padrino di Brooklyn Carlo Gambino, o come don Tano Badalamenti di Cinisi. I corleonesi avevano dalla loro parte solo la fame, la determinazione e la disposizione alla violenza che avevano già dimostrato a casa loro. A Palermo salirono piano piano parecchi gradini. Riina si fece altri anni di carcere prima di essere assolto nel giugno 1969. Uscito di galera scomparve per 24 anni ma senza andare troppo lontano e continuando a scalare i vertici di Cosa nostra. Organizzò la strage di viale Lazio a Milano, che il 10 dicembre 1969 mise fine alla prima guerra di mafia. Furono ammazzati il boss Michele Cavataio e tre suoi uomini, ma ci rimise la pelle anche Bagarella, e Provenzano si guadagnò il soprannome di “u Tratturi”, il trattore, finendo Cavataio a colpi di calcio di pistola sul cranio. Quando Leggio, latitante nel Nord, entrò a far parte della Commissione, Riina fu delegato a rappresentarlo e quando il boss finì in carcere ne prese il posto, nel ‘ 74, lo stesso anno in cui coronava con le nozze il lungo fidanzamento con Ninetta Bagarella. Ma i “viddani” restavano la plebe di Cosa nostra. Il giro grosso ora erano gli stupefacenti, e a loro arrivavano le briciole, concesse con sprezzo e sufficienza da Stefano Bontate, “il principe di Villagrazia”. Ma Don Totò non era solo deciso e crudele. Era anche astuto. Lavorò nell’ombra conquistando quinte colonne in tutte le famiglie, incluso il fratello di Bontate. Nell’estate ‘ 81 passò all’azione con i metodi brevettati a Corelone: ammazzò Bontate, ammazzò Inzerillo, sterminò uno per uno tutti i fedeli dei boss nemici, poi, come capita spesso nelle dittature diventò diffidente, iniziò a vedere tradimenti ovunque e a sospettarli anche prima che si verificassero come quando fece ammazzare il suo killer di fiducia, Pino Greco “Scarpuzzedda” perché stava diventando troppo popolare tra gli uomini d’onore. Negli anni del suo impero di terrore amici e nemici sono morti a migliaia. Riina conosceva solo la guerra. Nel suo regno l’eliminazione di giudici e poliziotti scomodi diventò norma comune e dopo la sentenza definitiva nel maxiprocesso istruito da Falcone e Borsellino dichiarò guerra allo Stato: Lima, Falcone, Borsellino, poi la pianificazione delle stragi. Per la stessa Cosa nostra la sua dittatura è stata devastante: all’origine delle collaborazioni, dei pentimenti, c’è la sua ferocia, quella che lo spingeva a far ammazzare i nemici, e se non li trovava tutti i familiari. È stato il primo e l’ultimo imperatore di Cosa nostra, e forse, senza neppure rendersene conto, anche il suo più temibile nemico.

Nel carcere di Riina sono reclusi altri tre novantenni. Non c’è solo Totò “u’ curtu” nel carcere di Parma, scrive Damiano Aliprandi il 6 giugno 2017 su "Il Dubbio". Proprio nel carcere di massima sicurezza di Parma dove è detenuto Toto Riina, ci sono altri casi di detenuti al 41 bis affetti di gravi patologie dovuti soprattutto alla loro età avanzata. Almeno tre di loro hanno raggiunto il novantesimo anno di età. Il caso più eclatante riguarda Francesco Barbaro – 90 anni compiuti il mese scorso – che, come si legge nella cartella clinica, soffre di disturbi cognitivi, deficit della memoria e altre patologie legate all’età. Una situazione che dal momento all’altro potrebbe ulteriormente peggiorare, tant’è vero che gli stessi operatori sanitari del penitenziario hanno espresso parere favorevole per un trasferimento presso una struttura più adeguata. Questa notizia – pubblicata nei giorni scorsi da Il Dubbio – è emersa grazie alla segnalazione di Rita Bernardini, esponente del Partito Radicale, giunta al tredicesimo giorno dello sciopero della fame per la riforma dell’ordinamento penitenziario, per non vanificare il lavoro degli stati generali sull’esecuzione penale: non solo per porre rimedio all’impennata di sovraffollamento, ma anche per umanizzare l’intero sistema penitenziario comprensivo dello stesso 41 bis. Secondo gli ultimi dati, del 24/ 01/ 2017, ci sono 729 detenuti al 41 bis. Nel carcere di Parma vi sono recluse 65 persone al regime di carcerazione dura. Alcuni sono giovani, ma la media si alza a causa dell’invecchiamento dei detenuti. A questo va aggiunto il discorso sanitario, perché oltre ai tre novantenni, ci sono anche diversi ultra 80enni che necessitano di cure. Il 41 bis ha come finalità l’evitare eventuali rapporti all’esterno con la criminalità organizzata, ma come si evince dalla relazione della commissione del Senato, guidata dal senatore Luigi Manconi, esistono regole restrittive che non avrebbero nessun legame con questa esigenza. Ad esempio c’è un isolamento di 22 ore al giorno, è vietato di attaccare fotografie al muro, c’è una limitazione dei capi di biancheria, l’uso del computer per chi studia è consentito a patto che quell’ora venga sottratta dall’ora d’aria. Sempre nel carcere di Parma, il garante locale dei detenuti Roberto Cavalieri ci aveva segnalato che ai detenuti reclusi al 41 bis viene puntata la telecamera direttamente sul water. Una privacy completamente annientata.

I Pm chiedono garantismo (ma soltanto per loro), scrive Giovanni M. Jacobazzi il 5 giugno 2017 su "Il Dubbio". Pronta la delibera che “scagiona” le (poche) toghe che hanno subito provvedimenti disciplinari. Il 99,7% dei magistrati ha una valutazione positiva, un “unicum” nelle democrazie occidentali. Mercoledì scorso il Plenum del Consiglio superiore della magistratura ha approvato, su proposta della Sesta commissione, competente sull’ordinamento giudiziario, una delibera destinata sicuramente a far discutere. In estrema sintesi, i consiglieri chiedono al Ministro della Giustizia di adottare «ogni iniziativa nell’ambito delle proprie attribuzioni al fine di introdurre un’apposita disciplina legislativa che permetta l’estensione anche alle toghe dell’istituto della riabilitazione». Attualmente non è previsto, infatti, nessun meccanismo per eliminare dal curriculum della toga la ‘ macchia” disciplinare. Nella sostanza questo determina, ad esempio, un handicap nei giudizi comparativi per accedere ai posti direttivi. In primis di procuratore o di presidente di tribunale. «Dopo un congruo periodo di ineccepibile esercizio delle funzioni e buona condotta», si legge nella delibera indirizzata al Ministro Andrea Orlando, si potranno dunque eliminare gli effetti della sanzione, senza lasciare traccia alcuna. L’Assemblea del Palazzo dei Marescialli chiede, al momento, di limitare la riabilitazione ai casi di condanne alle sanzioni meno gravi (cioè censura e ammonimento), e di porre quale condizione ostativa la pendenza di procedimenti penali o disciplinari per fatti tali da pregiudicare la credibilità del magistrato o il prestigio dell’ordine giudiziario. Censura e ammonimento, in specie, colpiscono i casi di ritardo nel deposito di una sentenza. Va ricordato che ben il 99.7% dei magistrati italiani ha attualmente una valutazione positiva. Un “unicum” fra le democrazie occidentali come spesso ricorda il primo presidente della Corte di Cassazione Giovanni Canzio che pone interrogativi su come vengono effettuate le valutazioni di professionalità. Con questo “colpo di spugna” si aumenterà verosimilmente tale numero. “L’ineccepibilità” della con- dotta richiesta, poi, dovrebbe essere la norma, un prerequisito, per chi esercita la giurisdizione e lo differenzia dalla platea dei dipendenti della Pubblica Amministrazione. Forse sarebbe stato il caso, per ottenere la riabilitazione, di richiedere un qualcosa che vada oltre. E c’è da chiedersi, infine, cosa penseranno i magistrati che si sono sempre comportati in maniera corretta, soprattutto quando vengono comparati i loro profili nell’assegnazione delle tanto ambite carriere direttive.

Totò Riina, scandalo italiano: vive in un centro di eccellenza medico, scrive "Libero Quotidiano" il 7 Giugno 2017. Da circa due anni Totò Riina non di fatto rinchiuso in carcere, ma ricoverato all'ospedale Maggiore di Parma. Il dettaglio non da poco era stato chiarito dal suo avvocato, Luca Cianferoni, durante la trasmissione L'aria che tira su La7, nel pieno del dibattito scatenato dalla sentenza della Cassazione sul diritto a "una morte dignitosa" per i detenuti. In attesa che il tribunale di sorveglianza di Bologna si esprima sull'eventuale scarcerazione, Riina resta in una sorta di stanza segreta della clinica universitaria di Parma, dove è ricoverato dal 5 novembre.  Come riportato da Repubblica, la stanza di Totò 'u Curtu è sostanzialmente una cella blindata, dove l'accesso è consentito solo a medici, infermieri e guardie. Ampia solo cinque metri per cinque, la stanza gode di un affaccio sulla città di Parma. Negli ultimi tempi il bosso avrebbe chiesto una radiolina e un calendario. Una richiesta che non potrà vedere soddisfatta, perché nella cella sono ammesse solo apparecchiature mediche. Il capo di Cosa Nostra è tenuto sotto stretta osservazione dai medici, a causa di diverse patologie che si sono aggravate nel corso degli anni.  Al di là della "morte dignitosa" e del diritto a curarsi e non peggiorare le condizioni in carcere, che è un sacrosanto diritto costituzionale, stona un po' che il boss sia così "coccolato", mentre spesso e volentieri per un cittadino libero qualunque le liste di attesa negli ospedali pubblici sono lunghissime, spesso in edifici fatiscenti. Così come stona un po' che un paziente le cui condizioni "sono ormai gravissime", prenda parte ad ogni tappa processuale (in collegamento video in barella) e sia l'unico degli imputati o teste a non assentarsi mai, a non fermarsi per pranzare o bere. In ogni caso la permanenza di Riina nell'ospedale di Parma non ha turbato la vita della struttura. L'ordine è quello di passare inosservati. Niente militari in divisa, niente mitragliette in vista. Gli spostamenti senza sirene. Adesso il Capo dei capi è in attesa del colloquio con i familiari, previsto una volta al mese. Ma il regime del 41bis vale anche in ospedale. La visita avverrà a un metro di distanza e non saranno permessi contatti fisici. Sarà tutto videoregistrato. Per i magistrati, Totò Riina è ancora in grado di mandare messaggi, è ancora riconosciuto come capo di Cosa Nostra.

Filippo Facci su "Libero Quotidiano" del 6 giugno 2017. Ha 86 anni, è in isolamento dal ’93, ne ha per poco. La Cassazione chiede i domiciliari, il tribunale si oppone in nome del carattere punitivo del carcere. Domanda: anche a Totò Riina va assicurato un «diritto a morire dignitosamente» che equivale a metterlo agli arresti domiliciari? Oppure, nonostante abbia 86 anni e la sua salute sia decisamente malmessa, deve restare in regime di carcere duro per ragioni di pericolosità o di principio? La questione è attuale, perché la Cassazione, a quanto pare, è della prima idea, mentre il tribunale di sorveglianza di Bologna è decisamente della seconda. Cercheremo si spiegare le ragioni di entrambe le parti, magari senza ammorbarvi troppo con le nostre valutazioni in merito. Allora. Riina è in galera dall’inizio del 1993 e dapprima c’era il problema di isolarlo per fargli perdere contatto con le sue truppe in rovina, perciò fu messo in regime di carcere duro 41 bis (la prima versione, la più implacabile e decisamente anticostituzionale) che tra varie vessazioni funzionò alla grande: soprattutto quando restarono operative Pianosa e l’Asinara, carceri talmente orrende da indurre alla collaborazione anche i peggiori mafiosi. Riina era monitorato notte e giorno da una telecamera (anche in bagno) e non distingueva il giorno dalla notte. In pratica vedeva solo la moglie che gli portava notizie dei figli. Poi, allentato giocoforza il 41bis anche su pressione di vari organismi internazionali, Riina potè presenziare a qualche processo dove cercò di fare quello che ha sempre cercato di fare: accreditarsi come capo di una mafia che intanto non esisteva più, svuotata di ogni struttura gerarchico-militare, coi capi e i sottoposti progressivamente tutti in galera, con armi e droga e patrimoni sequestrati, la presa sul territorio allentata, i traffici ceduti a mafie non siciliane. Dì lì in poi, Riina si è progressivamente acquietato e dalle intercettazioni (di cui era consapevole) è emerso una sorta di padre di famiglia con uscite paternalistiche che molti tuttavia si preoccupavano di interpretare o sovrainterpretare. Il processo­ectoplasma sulla “trattativa” è stata l’ultima occasione di Riina di inventarsi un contatto con la realtà degli ultimi 15 anni, coadiuvato da una preistorica “antimafia” (anche giornalistica) molto impegnata a inseguire fantasmi del passato e improbabili link col presente, tipo la panzana che Riina volesse far uccidere il pm Nino Di Matteo (che Riina probabilmente non sapeva neanche chi fosse). L’ultima fase è più o meno l’attuale: Riina è in carcere a Opera, ha 86 anni ed è affetto da duplice neoplasia renale, neurologicamente è discretamente rincoglionito (o «altamente compromesso», se preferite) e non riesce neppure a stare seduto per via di una grave cardiopatia. Insomma, non ne ha per molto. Il suo isolamento è peggiorato dal fatto che nessuno vuole condividere la cella con lui: troppi controlli e cimici, essendo lui ipersorvegliato. Ma Riina, secondo altri, resta sempre Riina. La Direzione antimafia lo considera a tutt’oggi il Capo di Cosa Nostra, benché non esista più Cosa nostra: ma si teme che i corleonesi ­ non è chiaro quali ­ dopo 25 anni possano riorganizzarsi. Per questa ragione il Tribunale di sorveglianza di Bologna, ancora l’anno scorso, respinse ogni richiesta di differimento o concessione degli arresti domiciliari, ed evidenziò «l’altissima pericolosità» e «l’indiscusso spessore criminale», dopodiché osservò pure che non vedeva incompatibilità tra le sue infermità e la detenzione in carcere: tutte le patologie risultavano monitorate, al punto che, quando necessario, era stato ricoverato in ospedale a Parma. Invece la Cassazione, a cui hanno ricorso i legali, è stata di diverso avviso, e ha invitato il Tribunale a ripensarci: ha accolto il ricorso nel marzo scorso, anche se l’abbiamo saputo solo ora. La Suprema corte ha detto che il Tribunale non aveva considerato «il complessivo stato morboso del detenuto e le sue condizioni generali di scadimento fisico», poi che un giudice dovrebbe (doveva) motivare «se lo stato di detenzione carceraria comporti una sofferenza ed un’afflizione di tale intensità» da oltrepassare la «legittima esecuzione di una pena», e che non si capisce come possano essere compatibili la condizione di Riina e la stretta detenzione riservata a un vecchio. Perciò va affermato il suo «diritto di morire dignitosamente», anche perché non si vede che cosa potrebbe comandare, ridotto com’è. Chi ha ragione? In ogni caso, il Tribunale di sorveglianza di Bologna ci tornerà sopra il 7 luglio prossimo. Dovessimo scommettere, premetteremmo anzitutto che non c’è giurisprudenza che non tenga conto dell’umore del Paese: ed è una fase, questa, in cui molti italiani e parlamentari continuano a pensare che la repressione penale debba avere un carattere punitivo e non rieducativo, come pure prevederebbe l’articolo 27 della Costituzione. In carcere si deve andare a star male, questo il sentire comune. Non fu diverso, del resto, per Bernardo Provenzano: la stessa Cassazione riconobbe che fosse affetto da patologie «plurime e gravi di tipo invalidante» ma disse pure che era compatibile con la galera. Il boss morì agli arresti ospedalieri nel luglio dell’anno scorso, sempre al 41 bis.

Vittorio Sgarbi su "Il Giorno" il 7 Giugno 2017: "Totò Riina a casa non è pietà umana, ma giustizia". "se il criminale compie il crimine, lo Stato non può imitarlo, Lo Stato non si vendica, non cerca una corrispondenza tra violenza patita e pena, che non deve andare oltre quei limiti che il criminale ha calpestato". Così, Vittorio Sgarbi oggi nella rubrica quotidiana "Sgarbi Vs Capre" che ha sul quotidiano Il Giorno. Scrive, Sgarbi, a proposito della pronuncia della Cassazione sulla carcerazione del boss mafioso Totò Riina, che ha scatenato reazioni indignate pressochè ovunque, tanto da parte dei cittadini che da parte della politica. "Chi cerca la vendetta - prosegue - è come lui. Lo Stato, come non uccide, non umilia. E non è pietà cristiana. E' giustizia".

Vittorio Feltri su “Libero Quotidiano” il 7 Giugno 2017: Riina in carcere, i brigatisti rossi a spasso da anni. La polemica del giorno esalta la faziosità che serpeggia in Italia. Secondo la Cassazione, Totò Riina, condannato all'ergastolo per una serie di omicidi mafiosi, potrebbe uscire dal carcere di Opera dove è blindato in regime di 41 bis e sottoposto a torture quotidiane, come ha dimostrato Melania Rizzoli nell' articolo pubblicato ieri su Libero. Il boss è dietro le sbarre da oltre due decenni, ha 86 anni, non ha molto da vivere perché soffre di svariate malattie, cardiache e tumorali. Tenerlo in galera non è un atto di giustizia, bensì di gratuita crudeltà dato che egli non è in grado di fare male a una mosca, essendo ridotto a uno straccio. I soliti cattivoni (politici e commentatori di pronto intervento) sono indignati all' idea che il detenuto venga spedito a casa sua in barella, preferiscono che costui patisca in cella pur essendo in stato preagonico. Sono duri e puri? Nossignori, sono ignoranti, non conoscono in che cosa consista il 41 bis e non hanno letto nemmeno una pagina di Cesare Beccaria (consigliamo a tutti di ripassarne il testo famoso, Dei delitti e delle pene). Altrimenti saprebbero che la prigione riservata ai criminali organizzati è una vergogna nazionale, per eliminare la quale nessuno muove un dito. Trattasi di isolamento perenne, un'ora di aria al dì, telecamere e luci sempre accese inquadrano anche il water e chi lo usa. La sorveglianza spietata è prevista 24 ore. Guantanamo, al confronto delle nostre strutture dedicate ai farabutti incalliti, è un ameno villaggio turistico. Fantastico. Il Parlamento è in procinto di approvare il reato di tortura da contestare ai poliziotti che eventualmente ricorrano ai muscoli per arrestare un delinquente. Però i deputati e i senatori consentono alle istituzioni di sottoporre a supplizi gli "ospiti" del succitato 41 bis. Non solo, non pensano neanche ad abolire le cosiddette pene accessorie. Esempio. Bossetti si è beccato l'ergastolo, che tuttavia non bastava: gli hanno aggiunto per sovrammercato un paio d' anni di isolamento. Mancavano due calci quotidiani nel didietro. Altro che culla del diritto, siamo la tomba della civiltà. Torniamo a Riina. Lo hanno spacciato per capo dell'onorata società, lui analfabeta tenne in scacco per venti anni e passa carabinieri e agenti, i quali lo cercarono dovunque, in qualsiasi angolo della Sicilia tranne che nella sua abitazione nel centro di Palermo, e qui fu poi scovato. Vengono dei sospetti: o fingevano di dargli la caccia, oppure erano un po' storditi. Altra spiegazione non esiste. Se il comandante supremo della mafia era davvero Totò, un nano capace a malapena di firmare, ci domandiamo con inquietudine per quale motivo gli intelligentoni della sicurezza non lo acchiapparono prima che ne combinasse di cotte e di crude. Un mistero ancora da svelare. Adesso che il nano è uno zombi, gli inflessibili giustizialisti insistono: fatelo marcire nella tomba di cemento che lo rinchiude. Deve patire. Essi agirono diversamente con i bastardi delle Brigate rosse che fecero più vittime del morbillo. Non ne è rimasto uno sotto chiave. Tutti liberi e belli, uno è entrato a Montecitorio, alcuni insegnano (quali materie si ignora) addirittura all' università, scrivono brutti libri, concionano in centinaia di conferenze pubbliche. Pluriassassini come Viscardi di Prima linea sono stati scarcerati subito, restituiti al consorzio umano quasi che fossero dei ladruncoli di ortaggi. In effetti ci sono assassini e assassini, quelli politici, via dalle pazze carceri medievali: meritano la riabilitazione di fatto; quelli mafiosi, Riina docet, benché la vecchiaia e la malattia li abbiano stritolati, rimangano all' inferno a tribolare finché non avranno tirato le cuoia. Se questa è giustizia, ci sputiamo sopra.

"Lucido, determinato e non pentito. Il mio incontro con Totò Riina nel carcere di massima sicurezza". Melania Rizzoli, medico e scrittrice, ha visto e visitato il capo di Cosa Nostra. "Mandarlo a casa? Esistono centri medici carcerari che possono curare i suoi problemi di salute". Intervista di Cristiano Sanna del 6 giugno 2017 su "Tiscali notizie". Il capo dei capi sta male. Molto: neoplasia ad entrambi i reni. Ha 87 anni, è sottoposto al regime di isolamento carcerario più duro, il 41bis, dal 1993. Nelle ultime ore non si discute che di lui, dopo la decisione della Cassazione di accogliere la richiesta di mandarlo ai domiciliari per permettergli di affrontare la morte in mezzo ai familiari. Una morte dignitosa, si direbbe. Ma cosa si intende per morte dignitosa quando il protagonista della richiesta è l'uomo che ha insanguinato e terrorizzato l'Italia, quello delle bombe, dei giudici fatti saltare per aria, delle crudeli esecuzioni, della strage di Capaci, dei bambini fatti sciogliere nell'acido, delle minacce di morte violenta all'attuale pm Antimafia, Di Matteo? Dove si ferma il concetto di giustizia e comincia quello di vendetta e di accanimento nei confronti di un super criminale? Melania Rizzoli, giornalista, scrittrice, medico e politico, sei anni fa ha incontrato Totò Riina nel braccio di massima sicurezza del carcere di Opera.

Melania, tu hai raccolto le storie dei carcerati celebri e delle loro condizioni di salute in un libro.

"Sì, tra gli altri raccontai anche di Provenzano, morto in carcere, in regime di isolamento, lo scorso luglio. Quando lo incontrai era incapace di intendere e di volere. Ho visitato i centri di detenzione perché facevo parte della Commissione sanità, occupandomi dei casi di malati incompatibili con il regime detentivo: come quelli affetti da sclerosi multipla, ad esempio".

Nel 2011 ad Opera incontri Totò un Riina lucido, integro, cosciente della sua condizione di carcerato.

"Rimasi colpita: dopo tanti anni di detenzione al 41bis, che è un regime spaventoso, perché sei sempre sotto terra, isolato, non hai giornali, aveva perfino il telecomando della tv bloccato, poteva solo cambiare canale e il televisore si accendeva a orari prestabiliti, trovai un uomo fiero. Orgoglioso, di spirito elevato, Riina pareva detenuto da massimo tre mesi. Sapeva di avere una storia di potere alle sue spalle e probabilmente nel suo presente. L'ho visitato come medico, l'ho stimolato a scrivere ma si rifiutò. Nun sacciu scrivere, rispose, mai lo farei. Io volevo che lasciasse una testimonianza della sua storia criminale. Lui disse: se casomai finissi in un libro di storia mai lascerei una testimonianza di me".

Perché? Riina si percepisce più grande di quanto possano raccontare gli altri?

"Io ho avuto l'impressione che non volesse condividere la sua storia con quella della reclusione".

Dunque una specie di scissione fra l'uomo siciliano privato e il capo dei capi che ha commesso stragi e violenze di ogni genere.

"Esatto, ho avuto l'impressione che fosse tornato in libertà avrebbe ricominciato la sua storia criminale senza problema".

Quindi la posizione dell'Antimafia che continua a considerarlo il perno di tutta la storia mafiosa ancora in movimento nel nostro Paese, non è semplice allarmismo.

"Riina è in regime 41bis aggravato, se la magistratura ha deciso di tenerlo in queste condizioni ne ha tutte le ragioni. Io sono un medico, ho seguito tanti terminali, ritengo che quando una persona affronta il momento più fragile e terribile della sua vita, la morte, abbia diritto di farlo in modo dignitoso. Riina è stato trasferito nel centro medico di Parma, un'eccellenza italiana, dove sono perfettamente in grado di seguirlo". 

Un'assistenza che gli si può dare tenendolo al 41bis o anche spostandolo altrove?

"In questi centri medici ci sono strutture di massima sicurezza, per permettere di assistere malati gravi in isolamento. Non è necessaria la scarcerazione".

Torniamo all'incontro con Riina ad Opera del 2011. In un braccio di massima sicurezza con quattro celle per lato, vuoto. Dentro c'era solo lui.

"Man mano che mi avvicinavo vedevo l'ombra del cancello riflessa sul pavimento del carcere, e si sentiva una musica, l'Ave Maria di Schubert che lui stava seguendo alla tv. Incontravo il personaggio che ha firmato la storia più orribile del nostro Paese. Ancora oggi Sicilia e mafia sono sinonime. L'ex premier Renzi, di fronte all'idea di tenere il G7 in Sicilia, fu sconsigliato di farlo, perché ancora oggi all'estero la Sicilia significa mafia. Riina è responsabile della fama negativa di quella regione".

Lo vedi, gli stringi la mano, lo visiti: a parte i problemi alla tiroide, c'erano già evidenze delle neoplasie ai reni?

"Aveva già problemi renali, prima che io andassi via mi sollecitò perché accelerassi le visite specialistiche. E' un uomo molto intelligente, ci teneva ad essere curato e alla sua salute".

Il rapporto dei boss, pervertito, con la religiosità: Riina disse che leggeva regolarmente la Bibbia. Come adesione alle tradizioni religiose o come passatempo?

"Sia come passatempo sia come conforto. Quando sei in quella condizione di isolamento, solo con te stesso, rinchiuso e impedito in qualsiasi forma di comunicazione, ti resta da pensare. Avrà riflettuto probabilmente sulle sue azione e responsabilità. Mi disse che non pregava ma che la Bibbia la leggeva tutte le sere. Non ha mai voluto dare un'immagine di cambiamento".

Quindi: no scarcerazione, se c'è bisogno di curarlo lo si può fare tenendolo in isolamento carcerario.

"Se non ci fosse la possibilità di curarlo in modo dignitoso direi che bisognerebbe spostarlo da li. Non come è stato fatto per Provenzano. Ma in Italia ci sono centri di eccellenza nelle case circondariali italiane in grado di assistere un detenuto anche condannato al 41bis. Certo non avrà ciò a cui tiene di più, la vicinanza della famiglia. Chi sta in isolamento ha diritto ad una sola visita al mese, per una sola ora. Ma ribadisco: Totò Riina si trova nel centro medico del carcere di Parma, in grado di affrontare qualsiasi emergenza medica e chirurgica". 

«Il mio incontro con Totò Riina in carcere». L’ho conosciuto in cella nel 2011. Era ancora vitale, per niente depresso Parlava in siciliano, faceva il galante. «Qui divento un monachello...», scrive su "Libero Quotidiano" il 6 giugno 2017 Melania Rizzoli. Ho incontrato Totò Riina nel carcere di Opera (Mi) nel 2011, durante una delle mie visite ispettive nei centri di reclusione italiani, che svolgevo in qualità (...) (...) di parlamentare della Commissione Sanitaria della Camera dei Deputati. Il “Capo dei capi” di Cosa Nostra era recluso in regime di 41bis, in isolamento assoluto, dal giorno del suo arresto, il 15 gennaio del 1993, ma quando me lo sono trovato di fronte ho visto un uomo forte e vitale, per niente depresso, anzi ancora fiero ed orgoglioso, come fosse incarcerato da appena pochi mesi. Avevo chiesto di vederlo per verificare il suo stato di salute, poiché, oltre alle varie patologie dalle quali era affetto, pochi mesi prima era stato colpito da un infarto, era stato curato ed era ancora convalescente. Sapevo che Riina non gradiva le visite di estranei, né tantomeno di parlamentari, che aveva sempre rifiutato di incontrare, per cui io chiesi aiuto al direttore del carcere di Opera, che mi accompagnò da lui nei sotterranei dell’isolamento. E per me fu un’esperienza indimenticabile. Totò “u’ curtu” era rinchiuso da solo in un intero reparto interrato, senza finestre e luce naturale, nel quale c’erano otto celle, quattro per lato, separate da un ampio corridoio, all’ingresso del quale era stato posizionato un metal detector con due agenti di polizia penitenziaria armati, alloggiati in un gabbiotto con quattro monitor, tutti collegati con la cella dell’unico detenuto di quel settore. Avanzando verso quel reparto calcolavo che quello spazio, seppur ampio, non sarebbe stato sufficiente a contenere in piedi tutte le vittime di mafia collegate a lui ed ai suoi sicari. Dopo i controlli di routine ai quali siamo stati sottoposti, io, il collega Renato Farina che si era offerto di accompagnarmi, e lo stesso direttore, questi andò avanti da solo, per informare Riina della nostra visita, avanzando verso la sua ferrata, dalla quale usciva una musica celestiale, l’Ave Maria di Schubert. Riina, senza spegnere il televisore od abbassare il volume, chiese chi volesse incontrarlo, rispose che lui non gradiva vedere nessuno e che non era interessato, esprimendosi in stretto dialetto siciliano, che però io conoscevo bene, avendolo appreso dai miei nonni materni, siciliani anche loro, per cui avanzai d’impeto di fronte a lui presentandomi, ed informandolo sullo scopo della mia visita inaspettata. Naturalmente mi rivolsi a lui nel suo stesso dialetto, cosa che lo colpì molto, e che lo fece sorridere, oltre che autorizzare gli agenti ad aprire il cancello per farmi entrare. «Allora lei mi capisce, s’accomodasse, prego trasisse» furono le sue prime parole, mentre allungava il braccio per porgermi la mano. Io ebbi un attimo di esitazione, ma poi quella stretta inevitabile mi diede un brivido, perché stavo ricambiando il saluto e stringendo la mano di un criminale assassino. Riina era vestito con una camicia bianca, pantaloni e scarpe nere senza stringhe, era sbarbato, e nonostante fosse quasi ottantenne, era brizzolato, pettinato ed ordinato, diritto come una spada, e non aveva l’aria sofferente. Notai subito un suo grosso gozzo tiroideo evidente e sporgente, e quando gli chiesi di visitarlo lui acconsentì, aprendo il collo della camicia, che era stirato, lindo e pulito, fresco di lavanderia. Il direttore si era raccomandato di non accennare nella maniera più assoluta con il detenuto alle sue vicende giudiziarie, per cui parlammo soprattutto del suo stato di salute, della sua situazione cardiaca e degli altri problemi che si evidenziavano dalla sua cartella clinica. Lui si lamentava della difficoltà e della lentezza per ottenere le visite specialistiche che gli spettavano, ma quello che mi colpiva di più era il suo stato d’animo. Riina era spiritoso, a tratti addirittura ironico, e ci teneva a dimostrare che la detenzione non gli pesava, non lo piegava, che la accettava ma non la subiva. «Qui mi stanno facendo diventare un monachello sa, ma io ero tutt’altro...». La sua cella era spoglia come quella dei frati, con un letto a branda, un solo cuscino, un comodino ed uno sgabello tondo di legno scuro vicino ad un piccolo tavolo. Sulle pareti nemmeno un crocifisso o una foto, ma un piccolo armadio senza sportelli con camicie, magliette e biancheria riposte in ordine, con una sola stampella con appesa una giacca blu. «Quando la indosso? Quando vengono gli avvocati, o quando, una volta al mese per un’ora sale su mia moglie. Io la aspetto e la vedo sempre volentieri, e mi faccio trovare ordinato. Perché io ho una buona mugliera lo sa? Le viene sempre da me, tutti i mesi prende la corriera, poi il treno e viene a trovarmi». In regime di 41bis si ha diritto ad una sola visita al mese con un solo familiare a volta e ad una sola telefonata mensile. «Se ho nostalgia della Sicilia? Ma quando mai, non sento nostalgia io, mai. Qui sto bene, mi trattano bene, mangio bene, sempre le stesse cose, ma non mi posso lamentare. E poi ho questi miei due angeli custodi (gli agenti di guardia) con i quali ogni tanto scambio qualche parola.

Il populismo giudiziario stavolta ha perso, scrive Sergio D'Elia il 6 giugno 2017 su "Il Dubbio". Il commento del segretario di Nessuno tocchi Caino. La sentenza della corte di Cassazione sul caso di Totò Riina è ineccepibile sotto il profilo giuridico, ed è un raro esempio di indipendenza del giudizio di una suprema corte da considerazioni di tipo moralistico, populistico o, peggio, politico che non dovrebbero mai albergare in un’aula di giustizia, anche di rango inferiore a quella della Cassazione. Principi e norme come «umanità della pena», «diritto a morire dignitosamente», «attualità della pericolosità sociale», sono raramente rispettati da un giudice quando si tratta di persona che per il suo passato criminale ha rappresentato l’emblema della mostruosità che non può mai svanire, che va alimentato per tutta la vita. In tempi di populismo giudiziario e, ancor più, penale non è accettabile che tali simboli del male assoluto si sciolgano come neve al sole. Totò Riina non può essere un pupazzo di neve con la coppola e la lupara di plastica in un giardino d’inverno che dura solo fino a primavera. Deve rimanere un monumento granitico e indistruttibile in servizio permanente effettivo, insieme a tutti gli altri armamentari speciali ed emergenziali della lotta alla mafia, dal 41 bis al ‘ fine pena mai’ dell’ergastolo ostativo da cui si può uscire in un solo modo: da collaboratori di giustizia o, come si dice, coi piedi davanti. La forza di uno Stato non risiede nella sua ‘ terribilità’, come diceva Leonardo Sciascia, ma nel diritto, cioè nel limite insuperabile che lo Stato pone a sé stesso proprio nel momento in cui deve affrontare il male assoluto. Se quel limite viene superato a morire non è solo Totó Rina, così come è stato lasciato morire Bernardo Provenzano, come rischiano di morire alcuni ultra novantenni ancora in 41 bis nel carcere di Parma o come Vincenzo Stranieri ancora in misura di sicurezza in regime di 41 bis nonostante abbia scontato la sua pena e sia gravemente malato. A morire e lo stato di diritto, la legge suprema che vieta trattamenti disumani e degradanti, a morire è anche la nostra Costituzione, il senso stesso della pena, che non può essere quello della vendetta nei confronti del più malvagio dei nemici dello Stato. 

Corleone, la figlia di Riina chiede per tre volte il bonus bebé e le viene negato: nessuno crede che sia indigente. Corleone, la figlia più piccola del capo di Cosa Nostra e il marito sostengono di essere indigenti e chiedono il beneficio da mille euro. Sia i commissari che l'lnps lo negano. Ufficialmente per vizi di forma, ma l'indigenza non convince nessuno. In carcere lui diceva: "Se recupero un terzo di quello che ho, sono sempre ricco", scrive il 18 giugno 2017 "Il Fatto Quotidiano". Tra gli italiani poveri in corsa per il bonus bebé c’era anche Lucia Riina, la figlia del boss Salvatore in carcere dal 1993 per il quale la Cassazione ha recentemente stabilito il “diritto alla morte dignitosa”, scatenando un fiume di polemiche. Il beneficio alla figlia, mille euro al mese, è stato però negato per tre volte. Ufficialmente per motivi formali dovuti al ritardo e all’incompletezza della domanda, sostanzialmente perché nessuno crede davvero all’indigenza della figlia del capo di Cosa Nostra, che in una conversazione intercettata nel carcere di Parma aveva anche detto “Se recupero un terzo di quello che ho, sono sempre ricco”. Lo racconta Repubblica Napoli con tutti i particolari. Lucia Riina è la più piccola di quattro fratelli e aveva avanzato istanza al Comune (sciolto qualche mese fa per infiltrazioni mafiose e attualmente retto da tre commissari) per ottenere l’assegno una tantum di mille euro dato dalla Regione siciliana, attraverso le amministrazioni locali, a chi nell’Isola mette al mondo un figlio e ha un reddito al limite dell’indigenza. Lo fa non una ma tre volte. Rigettata la richiesta, per un vizio formale, l’ha reiterata il marito di Lucia, Vincenzo Bellomo; ma anche lui ha ricevuto un no, dovuto al ritardo con cui era stata presentata l’istanza. Infine, il terzo tentativo (fallito) con l’Inps, che eroga un assegno mensile per i primi tre anni di vita del bambino (per un importo che va da 80 a 160 euro), a quelle famiglie che non superano 25 mila euro del parametro Isee. L’articolo dà conto del fatto che la figlia 37enne di Riina, che dipinge e vende i suoi quadri su Internet, vive a Corleone dal ’93, dove è tornata con la madre Ninetta Bagarella e i fratelli, all’indomani dell’arresto del padre, avvenuto il 15 gennaio di quell’anno. A Corleone si è sposata nel 2008, accompagnata all’altare dal fratello Giuseppe Salvatore che era appena uscito dal carcere. L’altro fratello, Giovanni Francesco, è in galera e sconta l’ergastolo per alcuni omicidi; Maria Concetta, la più grande, vive in Puglia con il marito. Quattro anni fa, in pieno agosto, un’intervista di Lucia Riina alla televisione della Svizzera francese Rts fece divampare le polemiche. L’ultimogenita del boss, che scelse Ginevra come meta del suo primo viaggio all’estero, si disse “dispiaciuta” per le vittime, ma “onorata e felice” di portare il cognome di suo padre: “immagino che qualsiasi figlio che ama i genitori non cambia il cognome. Corrisponde alla mia identità, siamo tutti figli di qualcuno e non bisogna restare nel passato ma andare avanti”. Le famiglie delle vittime di mafia insorsero e da quel momento Lucia tornò nell’ombra, prima di questa bizzarra richiesta, quasi un’ostentazione di normalità che mal si concilia con quanto sosteneva il padre in carcere.

La figlia di Riina chiede il bonus bebè. I commissari del Comune dicono no. Corleone, la figlia più piccola del capo di Cosa nostra e il marito sostengono di essere nullatenenti, scrive Salvo Palazzolo il 18 giugno 2017 su "La Repubblica". Adesso, i Riina sostengono di essere nullatenenti. E chiedono aiuto allo Stato, non era mai accaduto prima. La figlia più piccola del capo di Cosa nostra, Lucia, vorrebbe il bonus bebè dal Comune di Corleone. E ha sollecitato direttamente il pagamento dell’assegno, perché – così sostiene – ne ha diritto. Il marito, Vincenzo Bellomo, ha ribadito l’istanza. Ma dal Comune è arrivato un secco «no», firmato dai commissari che reggono l’amministrazione cittadina dopo lo scioglimento per infiltrazioni mafiosa. Ufficialmente, hanno pesato motivi formali: la domanda della giovane madre non è stata ritenuta completa, quella del padre è arrivata fuori termine. Anche l’Inps ha sottolineato che la figlia di Riina non ha diritto all’assegno mensile previsto per i genitori con un reddito minimo. Nessuno crede che la famiglia del capo di Cosa nostra sia nullatenente. Nelle ultime intercettazioni in carcere Totò Riina si vanta: «Perché se recupero pure un terzo di quello che ho sono sempre ricco», questo diceva al compagno dell’ora d’aria, il boss della Sacra Corona Unita Alberto Lo Russo. Parole di tre anni fa. «Io ho delle proprietà, queste proprietà metà sono divise ogni mese, ogni mese ci vanno... perché? Perché sanno che è mio nipote... sanno che è mio nipote... queste proprietà sono mie e di mio nipote, metà mia e metà di mio nipote». Ma è rimasto il giallo sulle proprietà. E sul nipote. Intanto, Lucia Riina continua a vivere a Corleone, così come la madre Ninetta. Lucia è una pittrice, i dipinti li pubblicizza su un sito Internet, dove racconta la sua storia: «Nel ‘93 quando sono arrivata a Corleone, avevo 12 anni, mi sono trovata catapultata in un mondo ed una realtà per me del tutto nuova; la scuola, la società, il paese, tutto nuovo». E rivendica la sua vita “normale” col marito: «Siamo riusciti a dare forma e concretezza al mio sogno di bambina che era disegnare ed al nostro sogno di adulti, cioè creare un lavoro onesto, dignitoso, positivo ed espressivo-creativo». L’altra figlia di Riina, Maria Concetta, si è invece trasferita con il marito in Puglia. Ci sono poi i figli maschi: Giovanni sta scontando l’ergastolo, Salvo ha l’obbligo di soggiorno a Padova e intanto promuove il suo libro appena tradotto in Romania e Spagna: “Riina family life”, s’intitola, il ritratto di una famiglia più che normale, a tratti descritta come vittima della giustizia. Il giovane Riina è attivissimo su Facebook. Uno dei suoi post recita: «Sui cadaveri dei leoni festeggiano i cani, credendo di aver raggiunto la vittoria. Ma i leoni rimangono leoni, i cani rimangono cani». Un riferimento alla situazione del padre in carcere. Il post è piaciuto tanto: ha racimolato 140 like e 66 condivisioni. Per Corleone, è un momento davvero particolare dopo lo scioglimento per mafia. Un gran lavoro per i commissari: Giovanna Termini, Rosanna Mallemi e Maria Cacciola. Il nuovo segretario generale del Comune è adesso Lucio Guarino, il direttore del Consorzio Sviluppo e legalità.

"Sono figlia di Riina, non ho diritto a nulla", lo sfogo di Lucia, scrive il 20/06/2017 "Adnkronos.com". "CHIEDEREMO al PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA, LA REVOCA della CITTADINANZA ITALIANA". E' quanto annuncia via social Lucia Riina, la figlia più piccola del boss Totò Riina, da qualche giorno al centro dell'attenzione mediatica per aver incassato un secco 'no' dal Comune di Corleone alla richiesta del bonus bebè. L'ultimogenita del capo dei capi, negli ultimi post pubblicati su Facebook, lamenta le recenti intrusioni nella sua vita privata scagliandosi contro le istituzioni e i media italiani. "Dal momento che la mia vita privata, oramai grazie alle istituzioni di questo paese ed alla stampa Italiana è diventata di dominio pubblico, per chi sa quali interessi, che con la mia piccola mente non capisco", scrive Lucia Riina, "quindi la mia vita non mi appartiene più!!! me l'hanno presa!!! rubata!!! vogliono quella di mio marito, e non basta!!! vogliono pure quella di mia figlia, innocente e voluta da Dio. Allora con mio marito abbiamo deciso che tanto vale che ve la offriamo noi, così gratis, perché io sono la figlia di Riina, non ho diritto a nulla, devo stare zitta, mi devo fare calpestare. Chi pensa questo è un folle!!!". La figlia del padrino di Cosa nostra ha poi spiegato "per filo e per segno, come sono andate le cose riguardo la richiesta del Bonus" condividendo sui social tutta la documentazione inviata al Comune di Corleone e annunciando un'importante decisione: "Tramite il nostro legale CHIEDEREMO al PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA, LA REVOCA della CITTADINANZA ITALIANA, e quindi dei DIRITTI COSTITUZIONALI, sia per noi che per nostra figlia, così sarà chiaro a tutti ed al mondo intero come L'Italia politica e mediatica tratta i suoi figli, perché sono BRUTTI, SPORCHI e CATTIVI".

Niente bonus bebè, Lucia Riina: «Noi, brutti: ci revochino cittadinanza». Lo ha scritto la figlia del capomafia su facebook raccontando la sua vicenda personale e contestando il mancato riconoscimento da parte del comune di Corleone dell’assegno, scrive il 20 giugno 2017 "Il Corriere della Sera". «Tramite il nostro legale chiederemo al presidente della Repubblica la revoca della cittadinanza italiana sia per noi che per nostra figlia così sarà chiaro al mondo intero come l’Italia politica e mediatica tratta i suoi figli, perché sono brutti, sporchi e cattivi». Lo annuncia, sul proprio profilo Facebook, Lucia Riina, figlia del boss ergastolano Totò, contestando il mancato riconoscimento da parte del Comune di Corleone del “bonus bebé”. La domanda, ricostruisce, era stata presentata «il 22 novembre 2016, dopo circa un mese che era nata nostra figlia, avendo già ottenuto l’attestazione Isee», perché, scrive Lucia Riina, «non riusciamo a raggiungere un reddito buono». Quindi hanno «presentato la richiesta per Assegno di maternità al Comune che per legge avrebbe dovuto rispondere entro 30 o 60 giorni». «Mio marito è andato in Comune a chiedere l’esito della richiesta, almeno tre volte - aggiunge - l’ultima volta il funzionario incaricato gli ha detto che lo stavano facendo impazzire per questa richiesta, avevano chiesto certificati penali, antimafia ed adesso avevano richiesto indagine da parte delle Forze dell’Ordine. Chi lo stava facendo impazzire e perché è rimasto un mistero». Dopo la richiesta da parte dell’avvocato di famiglia è arrivata la risposta. «Nella lettera - rivela - ci dicevano dal Comune che avevamo sbagliato a chiedere l’assegno di maternità con quella legge, ed invece avremmo dovuto chiederlo con un’altra».

«Riina a S. Pancrazio? Alzeremo le barricate», scrive Federica Marangio il 10 giugno 2017 su "La Gazzetta del Mezzogiorno". «Totò Riina in paese? No grazie». È il secco commento del sindaco Salvatore Ripa, che è certo di interpretare il parere tutti i suoi concittadini. Eppure, l’ipotesi che il più grande stragista mafioso possa arrivare in paese - a casa della figlia - sembra essere plausibile alla luce di quanto disposto dalla Cassazione. Sarebbe impensabile che possa essere uno dei figli maschi ad occuparsi del boss mentre una delle figlie è in Svizzera, dove sicuramente Riina non lo lascerebbero manco avvicinare. Ecco perchè è spuntata l’ipotesi San Pancrazio (BR), dove dal 2012 vive la figlia Maria Concetta con il marito Tony Ciavarello i suoi tre figli al quarto piano di un condominio vicino al Palazzo di Città. «Ma è un’ipotesi non veritiera - aggiunge il sindaco -. Anzi, non solo dopo aver preso le prime precauzioni ed essermi interfacciato con i miei interlocutori istituzionali so che non vi è alcuna possibilità perché ciò accada, ma, qualora queste parole dovessero convertirsi in qualcosa di più concreto, non esiterei ad organizzare delle sommosse o delle vere e proprie barricate”. Risale al 2012 la delibera della giunta comunale di intestare una piazza nella zona artigianale a Falcone e Borsellino, proprio mentre si paventava la possibilità di ospitare nel piccolo Comune uno dei fratelli di Riina, quello che allora risiedeva a Padova. Questo non significa che San Pancrazio abbia da ridire sulla figlia di Riina che vive in paese. “Tutti, ma soprattutto i minori hanno diritto a ricostruirsi una vita e a costruire il proprio cammino impostato nella tranquillità e lontano da ogni bruttura e polemica - aggiunge Ripa -. Il comune di San Pancrazio è stato infatti scelto proprio per garantire una vita lontana dai riflettori e dalla Sicilia dove i Riina sicuramente non sarebbero stati bene accetti”. Poca chiarezza, però, al momento su come gestire la vicenda di Riina e della sua precaria salute. Sebbene il procuratore nazionale Franco Roberti abbia precisato che Riina deve continuare a stare in carcere e soprattutto rimanere in regime di 41 bis, alcuni giudici della Cassazione hanno affermato che la possibilità che Riina possa tornare a vedere la luce del sole, sia pure nella sua abitazione, appare concreta. Insomma, nella pure ovvia spartizione tra favorevoli e contrari, rimane indubbio che “il Comune di San Pancrazio non consentirà in alcun modo che Riina si ricongiunga alla sua famiglia”, conclude il primo cittadino.

Vincenzo Stranieri è grave e la figlia fa lo sciopero della fame, scrive Damiano Aliprandi il 31 Maggio 2017 su "Il Dubbio". Anna, la figlia di Vincenzo Stranieri in carcere dal 1984 e in regime del 41 bis dal 1992, è in sciopero della fame dopo che il tribunale de L’Aquila ha respinto l’ennesima richiesta di scarcerazione per incompatibilità con il regime detentivo perché malato di tumore. Una vicenda paradossale che Il Dubbio ha seguito fin dall’inizio. Stranieri ha un tumore alla laringe e i 24 anni di 41 bis gli hanno causato gravi problemi di tipo psichiatrico. La sua pena teoricamente sarebbe dovuta finire il 16 maggio del 2016, ma gli restano ancora da espiare due anni di misura di sicurezza in una colonia penale agricola. Secondo la Direzione nazionale antimafia, però, risulta ancora pericoloso. Quindi il ministro della Giustizia, seguendo le indicazioni della Dna, gli ha prorogato di fatto il 41 bis trasformando la colonia penale in “casa lavoro” nella sezione del regime duro del carcere de L’Aquila. Però nell’Istituto abruzzese il lavoro non c’è per gli internati. A denunciarlo era stata la radicale Rita Bernardini quando lo scorso luglio si rivolse al capo Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Santi Consolo, proprio per porre rimedio alla situazione: durante la visita di Pasqua dell’anno scorso, l’esponente del Partito Radicale, aveva ritrovato internati cinque detenuti al 41 bis che dovevano scontare la cosiddetta “casa lavoro”; aveva chiesto a uno di loro quale fosse il suo lavoro attraverso il quale avrebbe dovuto “rieducarsi” e la risposta fu: «Lo scopino per 5 minuti al giorno». Un altro che faceva il porta- vitto, le chiese: «Come faccio a dimostrare che non sono più pericoloso?». E ancora un altro detenuto le fece presente che l’ora d’aria si svolgeva in un passeggio coperto senza mai poter ricevere la luce diretta del sole. «Qui non possiamo fare una revisione critica del nostro percorso; uno di noi che si vuole salvare che deve fare?». Rita Bernardini fece presente che a Vincenzo Stranieri, gravemente malato e quasi impazzito per i disumani e degradanti trattamenti subiti, era riservato questo trattamento assolutamente non compatibile con i diritti e la dignità di una persona. Nel frattempo però le condizioni fisiche di Stranieri si erano aggravate, trasferito nella struttura protetta di Milano “Santi Paolo e Carlo” per ricevere le cure adeguate, ha subìto un secondo intervento chirurgico. Ora si trova nel carcere milanese di Opera in completo isolamento con un sondino direttamente collegato allo stomaco per farlo nutrire. Aveva 24 anni quando venne arrestato nel lontano giugno del 1984 per aver fatto parte del sequestro di Annamaria Fusco, la giovane maestra figlia dell’imprenditore del vino Antonio Fusco rimasta per sei mesi nelle mani della Sacra corona unita prima di essere liberata dopo un lauto riscatto. Stranieri infatti era stato il numero due della cosiddetta quarta mafia. «Me lo hanno tenuto lontano per 32 anni – dice Anna Stranieri che non ha mai smesso di lottare per suo padre – ed ora che ha pagato i suoi errori lo Stato si accanisce e non si ferma neanche davanti al tudel more; ormai è chiaro che gli vogliono far fare la fine di Provenzano». Nel frattempo l’ultima batosta: per il Tribunale di sorveglianza, Stranieri può restare in carcere. Una decisione che va in controtendenza con le disposizioni dello stesso perito del giudice che consigliava il ricovero del detenuto in una proprietà della fondazione Don Gnocchi di Milano a causa del suo tumore che andrebbe monitorato presso strutture adeguate. Non può deglutire, né parlare. Si alimenta tramite un sondino e respira grazie alla tracheotomia. È dimagrito e non può camminare da solo. Ricordiamo che per il rapimento di Anna Maria Fusco, Vincenzo Stranieri fu condannato a 27 anni di carcere ridotti in appello a 18 e 10 mesi. Ma nel frattempo gli anni sono diventati 32 per delle condanne inflitte quando era in carcere per reati di associazione mafiosa. Al momento della condanna era giovanissimo e non sta pagando nessuna condanna per omicidio: è giusto avergli prorogato gli anni di carcerazione presso la sezione dedicata al 41 bis, nonostante il sopraggiungere di questa grave malattia e abbia scontato tutti gli anni inflitti?

LE VITTIME DELL’ANTIMAFIA ED IL REATO CHE NON C’E’: IL CONCORSO ESTERNO.

L’orrido Paese di Fantozzi, scrive Mattia Feltri il 4/07/2017 su “La Stampa”. Non bisogna lasciarsi abbindolare: era tutto bello perché era tutto uno schifo. Non c’era via di scampo, non c’erano gli innocenti, non c’erano vittime ma soltanto persecutori che si contendevano il ruolo. Il ragionier Fonelli, che in gioventù era stato uno scadente quattrocentista, cercava di organizzare le olimpiadi aziendali, ma i colleghi della megaditta erano interessati soltanto al «lancio dello stronzo», cioè del medesimo Fonelli che finiva spianato sul marmo dell’atrio. Poi, raccontava la voce fuori campo del ragionier Ugo Fantozzi, attraverso spiate, ricatti, adesioni alla mafia, alla camorra, alla P2, e a quattro abbonamenti a vita a Famiglia Cristiana, Fonelli era improvvisamente salito a megadirettore naturale, aveva assunto il nome di Cobram II e finalmente indetto le gare d’atletica leggera; e tutti si erano untuosamente iscritti. Poi, è vero, in ogni film Fantozzi aveva uno scatto d’orgoglio, entra nella stanza all’Olimpo del diciottesimo piano dove i bambini sono accolti uno per volta in occasione del Natale da megadirettori naturali e laterali, che si scambiano regali faraonici, panettoni d’oro massiccio a ventiquattro carati con zaffiri e ametiste al posto dei canditi e brindano con champagne riserva 1612; ed entra mentre la bruttissima figlia Mariangela - la bambina, la babbuina - è arrampicata sull’attaccapanni intanto che i blasonati le tirano noccioline. Tragico silenzio di colpa. «Comunque a tutti loro i miei più servili auguri per un distinto Natale e uno spettabile anno nuovo». La frase è cortigianesca, ma il tono no, è grave. Nessuno dice nulla. Viene da esplodere in un urlo esultante e liberatorio, e però Fantozzi è il padre che subisce conati di vomito ogni volta che guarda la piccola, al circo la scambia con uno scimpanzé, non si salva niente, nemmeno l’idea che ogni scarrafone sia bello agli occhi dei genitori. Ed è davvero meraviglioso perché non c’è astio né rancore, c’è un pessimismo lucido e cinico, irreparabile, non c’è tesi e antitesi, i padroni sono padroni, sulle porte degli uffici hanno targhe con scritto Gran. Figl. di Putt. Lup. Mann., quelli con predisposizioni progressiste vogliono gli impiegati a tavola con loro e li chiamano «cari inferiori», ma i rivoluzionari sono come il dottor Riccardelli che, non avendo potere sulla vita lavorativa della massa impiegatizia, infieriscono sul tempo libero: la sera di Inghilterra-Italia, prima leggendaria vittoria a Wembley, (Fantozzi celebra con frittatona di cipolle e Peroni familiare gelata) sono tutti convocati a vedere un film cecoslovacco con sottotitoli in tedesco, tocca andare per non passare da reazionari borghesi. Diventerà la sera della Corazzata Potëmkin («una cagata pazzesca») e Riccardelli sarà sequestrato e obbligato ad assistere a Giovannona coscia lunga inginocchiato sui ceci. Oppure sono come il mitico Folagra, esiste davvero, sta in un sottoscala della megaditta e parla di formazioni di gruppi spontanei, di collettivi urbani, di cogestione proliferante. Falci in pugno e bla bla bla compagno. Poi ieri qualcuno celebrava l’epopea del dipendente col posto fisso, l’articolo 18 e niente Jobs Act, ma Fantozzi e i suoi colleghi sono assenteisti, furbetti del cartellino, giocano a battaglia navale, vanno a prendere il sole sul tetto, Paolo Villaggio, iperbolico e impietoso, dirà che «l’unico sistema vero sarebbe quello di stanarli puntando sulle spie, i delatori che si annidano in tutti gli uffici d’Italia. Assoldare le carogne, insomma. Dopodiché, per i fannulloni, che rubano lo stipendio per non far nulla, arriva la punizione. Bastonarli, anzi no, meglio frustarli. La soluzione, infatti, non è farli andare fisicamente a lavorare perché pure se ci vanno, non fanno nulla. La loro esperienza fannullona è invincibile». Sono opportunisti, leccapiedi, ammazzerebbero il vicino di scrivania per uno scatto di stipendio, hanno meschine tendenze fedifraghe, quelli che ce la fanno, come il Fonelli citato all’inizio, sono immemori della vecchia condizione di sfruttati e si tramutano in sfruttatori sempre più implacabili. Capitalisti, ecclesiastici, rivoluzionari, popolo, ognuno pronto a sgraffignare quel che può, a esercitare senz’anima il potere concesso, poco o tanto, per il momento affiancati da un’abissale ignoranza, profeticamente avvinghiati a congiuntivi oggi così rampanti, «dichi», «facci», «batti lei». È questa l’Italia di Fantozzi, una globale e castale associazione per delinquere. Saperlo, e riderci sopra, è il primo atto di ottimismo.

IL NOSTRO CUPO FUTURO, scrive Mattia Feltri de “La Stampa”, nel suo post dell’8 luglio 2017 su facebook. La sentenza della Cassazione su Bruno Contrada non dovrebbe essere un semplice atto d'accusa contro la magistratura, o contro la politica, ma un atto d'accusa sul nostro modo di ragionare e di reagire ai problemi. Gran parte della legislazione antimafia è emergenziale, e dunque uno strappo alla regola dello stato di diritto. Il 41bis, e cioè il carcere duro per i mafiosi, è un esempio. Un esempio di palese tortura, per la precisione, che abbiamo deciso di accettare, o di non vedere, in nome di una lotta d'emergenza a un problema eccezionale, la mafia. E' già abbastanza interessante che queste leggi eccezionali durino da decenni, diventando così ordinarie, e facendo dell'Italia uno stato che ha in parte rinunciato alla sua Costituzione e allo stato di diritto, e lo ha fatto stabilmente. Non vado oltre, non voglio discutere le leggi antimafia perché si passa immediatamente per fiancheggiatori ideologici della criminalità organizzata. Le leggi emergenziali furono varate, con successo, negli anni del terrorismo rosso e nero, e servirono per combatterlo e vincerlo. Da allora se ne fa uso, qua e là, oltre la mafia. L'ultima legge approvata al Senato, chiamata codice antimafia, estende il sequestro cautelativo dei beni ai casi di corruzione se ci sia associazione per delinquere. Traduco: se uno è sospettato (semplicemente sospettato) di corruzione in associazione con altri, gli si possono sequestrare i beni. Quelli della famiglia, l'azienda, tutto. Con questa legge (per fortuna non ancora definitiva) nel biennio 92-93 lo Stato avrebbe potuto sequestrare il 70-80 per cento delle grandi aziende italiane, dalla Fiat in giù, cancellando dalla faccia dell'Italia l'impresa privata. E farlo prima di una sentenza di condanna. Tutto questo ha una spiegazione e una conseguenza. La spiegazione è che, disarmati davanti alla plateale illegalità dell'intero paese (non soltanto mafia e corruzione, ma evasione fiscale, assenteismo, truffe delle e alle banche, truffe delle e alle assicurazione, noi siamo una specie di associazione per delinquere fatta di sessanta milioni di italiani) non sappiamo che reagire con una smania repressiva montante, dilagante, fatta di inasprimento delle pene e leggi emergenziali. La conseguenza è che stiamo disarticolando lo stato di diritto, attribuendo alla magistratura un potere sterminato (così che poi gli errori giudiziari diventano sempre più devastanti), ma soprattutto stiamo fornendo armi formidabili a un governo che domani, o dopodomani, ispirato da sentimenti illiberali, avrebbe gioco più facile di instaurare una dittatura. Ora, noi pensiamo che la democrazia sia incrollabile e non lo è. Già oggi l'Italia non è più psicologicamente democratica, e lo si evince dalla furia e scorrettezza del dibattito pubblico. Le dittature non sono mai arrivate annunciate, ma di colpo, e quando era troppo tardi. Non buttiamoci giù. E' sabato. C'è il sole.

Sbatti la faccia di mostro in prima pagina, scrive "Il Foglio" il 27/07/2017. Il passato che non passa e l’eterno ritorno delle accuse a Contrada. Avrà pensato a un incubo, o forse a mente sarà corsa alla vigilia di Natale del 1992, quando venne arrestato dai suoi colleghi con l’infamante accusa di essere un amico della mafia. Ma ormai quella dovrebbe essere storia passata, dopo venticinque anni di Calvario giudiziario fatto di condanne e assoluzioni, conclusosi poche settimane fa con la revoca della condanna da parte della Cassazione ma dopo che la pena di 10 anni di carcere è stata già pagata in pieno. E invece il suo non era un Calvario, ma una fatica di Sisifo: ogni volta che riesce a spingere il masso fino in cima al monte, il masso rotola giù e Bruno Contrada deve andare a riprenderselo. Anche a 86 anni. È successo infatti che l’ex numero due del Sisde è stato svegliato in piena notte per una perquisizione nella casa in cui vive con la moglie malata. Il blitz è stato ordinato dalla procura di Reggio Calabria nell’ambito dell’inchiesta – parallela a quella palermitana sulla Trattativa – sulla “ndrangheta stragista”, per gli attentati ai carabinieri dei primi anni Novanta. Ma cosa c’entra Bruno Contrada? Nell’ordinanza che accusa i boss Giuseppe Graviano e Rocco Filippone quali mandanti della strategia stragista di attacco, l’ex poliziotto non compare direttamente. È coinvolto attraverso Giovanni Aiello, alias “faccia di mostro”, un ex poliziotto ultimamente accusato senza finora alcuna dimostrazione di ogni strage e nefandezza, dagli assassini di poliziotti e carabinieri alle stragi di Capaci e via D’Amelio fino alle bombe sui treni e l’omicidio di un bambino. Ebbene “Faccia di mostro” – che ultimamente ha sostituito il fantomatico Signor Franco nel ruolo di agente segreto supercattivo – sarebbe “legato a Bruno Contrada, sospettato di avere avuto un ruolo in diverse eclatanti vicende stragiste nel contesto di oscuri inquietanti rapporti fra criminalità organizzata e apparati statali deviati”. È l’abbondanza di aggettivi che giustifica il blitz notturno. Ma cosa pensavano di trovare gli inquirenti, a distanza di oltre 20 anni dai fatti, a casa di un vecchio che è stato ingiustamente recluso per 10 anni in carcere? La perquisizione ha portato al sequestro di nulla, niente, nisba. Ma è servita a sbattere, ancora una volta, le facce di mostro in prima pagina.

Bruno Contrada, l'ultimo linciaggio. Il Paese dovrebbe avere la decenza di chiedergli almeno scusa: invece dobbiamo sentire i commenti di chi a Palermo avviò l'inchiesta e sostenne l'accusa, scrive Giorgio Mulè il 14 luglio 2017 su Panorama. Ci sono alcuni principi elementari del diritto che non necessitano di una laurea per essere compresi. Se cercate su Wikipedia, appunto, la massima "nullum crimen, nulla poena sine praevia lege poenali" troverete questa spiegazione: "Rappresenta una massima fondamentale per il diritto moderno. L'espressione si fonda sull'assunto che non può esservi un reato (e di conseguenza una pena), in assenza di una legge penale preesistente che proibisca quel comportamento". Elementare, appunto. Dal che non si capisce perché questo Paese non abbia la decenza di chiedere scusa a Bruno Contrada, che dopo 25 anni di calvario giudiziario si è vista revocata la condanna a 10 anni di carcere (interamente scontata) per concorso esterno in associazione mafiosa: un reato che all'epoca dei fatti contestati (1979-1988) era sconosciuto al codice penale. Per esser chiari: non poteva essere arrestato, non poteva essere giudicato, non poteva essere condannato, non doveva soprattutto scontare neanche un giorno di carcere. C'è voluta nel 2015 la Corte europea dei diritti dell'uomo per riportarci a forza dalla bara del diritto alla culla e la Corte di Cassazione, finalmente, ha ora emesso un vagito e revocato la condanna. Ma a Contrada, poliziotto palermitano di gran lignaggio e successivamente alto funzionario dei servizi segreti, nessuno chiede scusa e nessuno ha la parvenza di un rossore: deve invece subire un ulteriore, odioso supplemento di linciaggio. Che consiste in particolare nei commenti di chi a Palermo avviò l'inchiesta e sostenne l'accusa. Sono analisi figlie di una visione di "parte" che rimane spesso senza argomenti e si rifugia nel bollare come sconcertante o stupefacente (Antonio Ingroia dixit) la pronuncia della Cedu e della Suprema Corte e arriva a spingersi in una sorta di mascariamento degli operatori del diritto laddove sostiene (Gian Carlo Caselli dixit) che "negare la configurabilità del concorso esterno, nerbo della mafia, equivale in pratica a negare la stessa mafia". A costo di passare per negazionista affermo convintamente che quella del concorso esterno, in verità, è un'enorme impostura perché presuppone che chi aiuta la mafia per nove anni come nel caso di Contrada lo possa fare a intermittenza un po' come quando leggete nelle ricette "q.b.": quanto basta. Si fa un favore a Totò Riina e poi si torna a fare il poliziotto, come se le "famiglie" fossero delle onlus di beneficenza che ricevono ogni tanto delle donazioni e non piuttosto delle schifose e crudeli macchine criminali fondate su un principio assoluto e invalicabile: o sei mafioso o non lo sei, non puoi mafiare a giorni alterni. O si aveva il coraggio (l'ardire) di processare Contrada per associazione mafiosa oppure, come finalmente ha riconosciuto la Cassazione, non si poteva condannare per un reato che non esisteva. Questo pacifico ed elementare principio è lo stesso che proprio alcuni magistrati invocano in questi giorni a proposito di una querelle godibilissima che loro stessi stanno mettendo in scena. La questione è legata alla promozione di un ex parlamentare del Pd, già ministro della giustizia ombra di quel partito, a presidente del Tribunale di Pordenone. Al Consiglio superiore della magistratura stanno volando gli stracci. Piercamillo Davigo e la sua corrente hanno abbandonato per protesta la giunta dell'Associazione nazionale magistrati perché sostengono l'assurdità di promuovere un ex parlamentare mentre si discute di una legge che regolerà in maniera severa le porte girevoli tra politica e toga. La risposta del presidente dell'associazione nazionale magistrati, Eugenio Albamonte è stata: "Questa norma più severa al momento non esiste e noi, visto che siamo dei giuristi, ci dobbiamo muovere nel solco del diritto positivo. Pretendere che il Csm faccia un atto illegittimo è veramente una mostruosità logica e giuridica". Bene, esimi giuristi che rivendicate giustamente come insuperabile il diritto a essere giudicati in forza di una norma esistente: prendete il numerino, mettetevi in coda e chiedete scusa a Bruno Contrada.

Perquisito Contrada: «Sono venuti a casa mia alle 4 del mattino e non mi hanno detto perchè», scrive Giulia Merlo il 29 luglio 2017 su "Il Dubbio". Accanimento o campagna elettorale? La procura di Reggio ordina il blitz nell’abitazione dell’86enne ex numero due del Sisde: cercavano carte e documenti di 25 anni prima. Alle 4 del mattino del 26 luglio, i poliziotti si sono presentati a casa sua a Palermo, con un ordine di perquisizione della procura della Repubblica del tribunale di Reggio Calabria. Ad aprire la porta hanno trovato Bruno Contrada, 86 anni, Capo della Mobile di Palermo ed ex numero 2 del Sisde, 10 anni scontati tra carcere e arresti domiciliari per un’accusa di concorso in associazione mafiosa poi revocata da una sentenza di Cassazione del luglio di quest’anno.

Che cosa ha pensato, quando ha sentito suonare il campanello alle 4 del mattino?

«Ero a letto con mia moglie, immobilizzata ormai a tre anni e cardiopatica. La Polizia ha citofonato e, quando si sono presentati, il mio debole cuore ha sobbalzato. Sa, io ho due figli: in quel momento ho pensato che era successo qualcosa a uno di loro. Fino a quando non sono saliti, mi ripetevo «Si tratta di Antonio o di Guido?». Solo quando mi hanno mostrato quel foglio intestato Procura della Repubblica presso il tribunale di Reggio Calabria, Direzione Nazionale Antimafia, mi sono un po’ rasserenato».

Come ha fatto a rassicurarla il pensiero che la Procura di Reggio cercasse proprio lei?

«Mi ha calmato il pensiero che i miei figli stessero bene. Subito dopo è subentrato l’interrogativo: perché? Era così lontana da me l’idea che potessi ricevere un ordine di perquisizione da Reggio Calabria. Lei deve sapere che io non ho mai prestato servizio in Calabria nè conosco nulla di quella regione. Nella mia carriera professionale mi sono occupato di crimine organizzato e di mafia, ma mai di fatti di ‘ndrangheta».

E quando ha letto l’ordine di perquisizione lo ha capito?

«Leggendo, ho visto che la perquisizione veniva effettuata nel quadro di indagini su fatti di mafia e di ‘ndrangheta risalenti agli anni Novanta, in particolare con riguardo all’omicidio di due carabinieri nel 1994».

Lei ricorda quei fatti?

«Ne ho avuto notizia quando ero detenuto in custodia cautelare nel carcere militare e so ciò che sanno tutti i cittadini che in quel periodo leggevano i giornali. Voglio ricordare che dalla vigilia di Natale del 1992 al 31 luglio del 1995, per trentuno mesi e sette giorni, io sono stato detenuto: per sedici mesi a Forte Boccea e per 15 mesi e sette giorni nel carcere militare di Palermo. A Palermo hanno addirittura riaperto una struttura dismessa da anni esclusivamente per me, per ricavarci una sola cella per la mia prigionia e i locali per il comando e per gli alloggi dei vigila- tori, trasferendo appositamente 25 uomini dell’organizzazione penitenziaria militare».

Quindi lei non sa nulla? Si parla di una sua connessione con Giovanni Aiello, soprannominato “faccia di mostro”, implicato nelle stragi degli anni Novanta.

«Io so solo che la procura sta indagando sui collegamenti tra mafia e ‘ndrangheta e che la perquisizione è stata disposta per un presunto mio rapporto con Giovanni Aiello risalente a circa 40 anni fa, quando dirigevo la squadra Mobile di Palermo, dal 1973 al 1976. In quegli anni Aiello prestò servizio per circa otto mesi e io lo ricordo vagamente: era uno dei tanti. Io con Aiello non ho mai avuto rapporti, nè personali, nè telefonici, nè tantomeno epistolari».

E quindi per questo è stata disposta la perquisizione…

«Sì, per il fatto che io ero dirigente della Mobile quando lui era stato lì. Le aggiungo che la Polizia ha perquisito anche casa di mio fratello, a Napoli, dove ho ancora la residenza anagrafica. Anche lì sono piombati alle 4 del mattino, spaventandolo moltissimo: mio fratello ha 80 anni ed è anche lui molto malato».

E hanno trovato qualcosa?

«A casa mia l’esito della perquisizione è stato negativo. Hanno cercato fino alle 7 del mattino, io li ho solo pregati di non fare troppo rumore per non svegliare mia moglie, che era sotto effetto di tranquillanti. Si sono concentrati sul mio archivio, in cui conservo le carte di 25 anni di processo e una raccolta stampa di migliaia di giornali. A casa di mio fratello, invece, hanno sequestrato qualche giornale».

Che tipo di giornali?

«Dei ritagli che parlavano di me nei primi tempi della mia carcerazione. Uno parlava di una perizia che mi era stata fatta, dove il consulente del tribunale, il primario della cattedra di psichiatria di Palermo, aveva stabilito che non era il caso che io venissi rimesso in libertà dalla custodia cautelare perchè, essendomi abituato al carcere, la libertà mi avrebbe creato uno squilibrio psicologico e sarei andato incontro a un trauma. Un fatto che suscitò l’indignazione del professore e psichiatra Cassano, dell’università di Pisa: quando ne venne a conoscenza telefonò a mio figlio per dirgli che avrebbe preso il primo volo per Palermo per farmi una nuova perizia, perchè non poteva accettare che si stabilisse che un uomo al quale viene ridata la libertà possa andare incontro a un trauma».

Insomma, non hanno trovato nulla.

«Ma che cosa dovevano trovare? Io gli ho anche detto di dirmi che cosa cercavano e che gli avrei messo tutto a disposizione. Tuttora non ho capito il perchè di questa perquisizione: il contesto calabrese non è il mio, non è quello in cui ho operato e non è quello per cui ho subito la carcerazione e i processi».

E ora che cosa succederà?

«Mi creda quando le dico che non so nulla di questa inchiesta calabrese. Non so neppure se sono indagato, persona informata dei fatti, sospettato… Ora l’avvocato se ne sta occupando e io cerco di riordinare le idee e di fare ricorso ai miei ricordi. Lei immagini quanti agenti, quanti carabinieri e quanti criminali un poliziotto ha conosciuto in 20 anni di squadra Mobile, 6 di Criminal Pol e altri 4 nell’Alto commissariato per la lotta contro la mafia e per 10 anni nei servizi di sicurezza, fino al mio arresto».

E come si sente, ora, dopo la perquisizione?

«Secondo lei cosa deve pensare un uomo che ha combattuto per un quarto di secolo in un processo, che ha ottenuto una sentenza della Cedu che stabilisce che non solo non doveva essere condannato ma nemmeno processato, e che dopo tutto questo si vede irrompere la polizia in casa alle 4 del mattino? Sono turbato e confuso, con un interrogativo martellante: Che cosa vogliono da me?»

Dopo la perquisizione è stato convocato?

«No, nessuno mi ha chiamato per chiedermi se mai avessi avuto rapporti con questo Aiello. Anche per questo mi chiedo che bisogno c’era di fare questa perquisizione, ben sapendo tra l’altro che sarebbe poi andata su tutti i giornali».

Dopo tutto questo, rifarebbe tutto ciò che ha fatto nella sua vita in Polizia?

«Se dovessi pentirmi del mio passato dovrei dichiarare il fallimento della mia vita. Io sin da ragazzino quando ero un balilla mi sono considerato un uomo dello Stato: nei bersaglieri ho giurato fedeltà alla bandiera e alla Repubblica, poi nella Polizia di Stato ho giurato un’altra volta. Sono sempre stato un servitore dello Stato e delle sue istituzioni. Posso dichiarare io il fallimento di questa vita? Io ho fatto il poliziotto per passione, perchè ho sempre voluto servire la Patria, difendendo l’ordine e la sicurezza pubblica».

Ma si immaginava, a 86 anni, di dover combattere contro questo stesso Stato?

«Nei primi anni Ottanta temevo che qualcuno mi avrebbe sparato quattro colpi di pistola, come fecero con il mio collega e amico fratello Boris Giuliano, che fu ucciso a tradimento da un criminale. Ecco che cosa mi aspettavo. Non certo di venir colpito dalla calunnia, un veleno che forse è anche più atroce del piombo».

Accordo mafia-‘ndrangheta: nuova irruzione della Polizia reggina in casa di Contrada, scrive il 29 luglio 2017 "CN24".  La Dda di Reggio Calabria indaga su un presunto patto fra la mafia siciliana e la ‘ndrangheta calabrese per attuare la stagione delle stragi voluta da Cosa Nostra negli anni Novanta. Nell'ambito dell'indagine dei magistrati calabresi, volta a fare luce sull'uccisione di due carabinieri avvenuta nel '94 e sul ferimento di altri militari, nei giorni scorsi sono state emesse delle ordinanze di custodia cautelare a carico del boss mafioso di Brancaccio, Giuseppe Graviano, già detenuto al 41 bis, e di Rocco Santo Filippone, esponente della 'ndrangheta. L’indagine, rientrante nell’operazione ‘Ndrangheta stragista, si concentra adesso sui rapporti tra Bruno Contrada, ex numero due del Sisde, e Giovanni Aiello, ex agente di polizia con un passato nei servizi segreti, conosciuto con il nome di “faccia da mostro”. Nella notte di giovedì scorso gli agenti della Questura reggina hanno effettuato una prima perquisizione nell’abitazione dell'ex funzionario del Sisde e stamane è avvenuta una seconda irruzione. Dal canto suo reagisce il difensore di Bruno Contrada, l'avvocato Stefano Giordano, che afferma: "E' una vicenda dai contorni inquietanti". Il legale prosegue annunciando che chiederà un incontro al capo della Polizia, Gabrielli, per raccontargli "alcuni particolari rilevanti anche dal punto di vista disciplinare che riguardano i funzionari della Squadra mobile di Reggio Calabria che oggi si sono presentati a casa di Bruno Contrada. Gli aspetti penali poi verranno approfonditi in altra sede". "La prima perquisizione, il 26 luglio scorso – aggiunge Giordano - fu di notte. Una perquisizione che a Palermo ha dato per altro esito negativo mentre nell'abitazione di Napoli, in cui vive il fratello, e' stato sequestrato un giornale del 1994 in cui si parlava di Contrada. Oggi invece - racconta - si sono presentati alle 8 di mattina. Solo alle 13 sono stato avvertito dallo stesso Contrada e mi sono precipitato a casa sua". Giunto nell'abitazione del suo assistito, il legale ha chiesto l'esibizione di una delega, dell'invito a comparire o del decreto di perquisizione mentre i poliziotti si apprestavano a redigere un verbale di interrogatorio. "Non avevano nulla di tutto ciò per cui - va avanti il difensore di Contrada - li ho invitati a lasciare immediatamente l'appartamento. Sottolineando che non potevano fare nulla di tutto ciò. Questo tira e molla e durato quasi un'ora. Sono stato costretto a chiamare i Carabinieri ai quali ho riferito l'accaduto". Contrada, che a dire del suo avvocato non aveva capito di essere sottoposto ad un interrogatorio ma, così come la volta precedente, non ha fatto alcun tipo di obiezione, anche per una forma di rispetto verso coloro che ritiene dei colleghi. Tuttavia l'avvocato Giordano parla di "aspetti inquietanti", di "abuso della pazienza altrui" e di uno "Stato di polizia". Anche per questa ragione ha deciso di utilizzare Facebook per denunciare questa seconda perquisizione.

Contrada perseguitato: chi ordina le irruzioni?, scrive Errico Novi l'1 agosto 2017. Terza perquisizione in pochi giorni per l’ex funzionario del Sisde: gli agenti impiegati sempre più autonomi dai pm. E l’avvocato Giordano denuncia la procura di Palermo. «Sabato il mio assistito Bruno Contrada ha ricevuto un’ulteriore visita da parte della polizia giudiziaria, stavolta alle 8 di mattina. Solo dopo 5 ore, quando mi sono precipitato a casa sua, ho potuto accertare che il mandato non esisteva. Contro questo abuso presenteremo un esposto alla Procura di Palermo, al Csm e ai ministri competenti». Lo dice al Dubbio l’avvocato Stefano Giordano, difensore dell’ex numero 2 del Sisde, dopo l’incredibile nuova irruzione degli agenti. Intanto Contrada ha incontrato i dirigenti radicali, che si sono presentati a loro volta a Palermo per una “perquisizione” dimostrativa, al termine della quale l’ex 007 si è iscritto al partito e ha tenuto una conferenza stampa con Rita Bernardini, Sergio D’Elia ed Elisabetta Zamparutti. Le perquisizioni sono addirittura tre. Una alle 4 di mattina del 26 luglio, mercoledì. Un’altra sabato, in orario appena meno teatrale, le 8 antimeridiane. Ma nell’intervista al Dubbio di sabato scorso, Bruno Contrada ha rivelato che un’ulteriore irruzione della polizia si era verificata sempre mercoledì 26 nell’abitazione napoletana in cui l’ex numero due del Sisde conserva la residenza anagrafica. Ha aperto suo fratello 80enne, sempre alle 8 del mattino. Di tutta la sconcertante vicenda si è occupato ieri anche il Corriere della Sera, con Pierluigi Battista che le ha dedicato la sua rubrica “Particelle elementari”. Di tutti, l’aspetto più grave è che la seconda visita fatta dagli agenti nella casa palermitana di Contrada non fosse accompagnata da formale autorizzazione. «Una irruzione senza titolo di perquisizione né delega», ha spiegato il difensore dell’ex 007, l’avvocato Stefano Giordano, «la polizia giudiziaria è stata fatta allontanare dal sottoscritto». Non è il primo caso recente di sfacciata disinvoltura delle forze dell’ordine che, in base all’articolo 109 della Costituzione, dovrebbero essere assoggettate all pubblico ministero. A parte la discutibile ipotesi, avanzata dalla Procura di Reggio Calabria, secondo cui Contrada potrebbe custodire informazioni illuminanti su “Faccia di mostro” Giovanni Aiello, e consentire così di scoprire se quest’ultimo fosse tra i mandanti dell’omicidio di due carabinieri avvenuto trentacinque anni fa, il dato allarmante è appunto la (tentata) irruzione illegittima di sabato scorso. Un arbitrio a cui il legale di Contrada è riuscito a porre fine solo quando ha composto il 112 per chiedere ai carabinieri di imporre la legge ai tre poliziotti. E che ora, come spiega il difensore, «sarà oggetto di un esposto che invieremo a Procura di Palermo, Csm, ministro della Giustizia e ministro dell’Interno, affinché siano valutati tutti i possibili profili penali e disciplinari». La Procura di Reggio Calabria non ha comunicato nulla sui fatti di sabato. Il questore Raffaele Grassi invece ha dichiarato che «non sono stati eseguiti perquisizioni o interrogatori». Affermazione che Giordano smentisce: «Sono in possesso di prove che è stato compilato un verbale di sommaria informazione». Sabato mattina i tre uomini della Polizia di Stato hanno indotto Contrada a consentire la copia di file e documenti dai suoi archivi in nome della “colleganza”. Cinque ore dopo, quando finalmente ha saputo di quanto avveniva a casa del suo assistito e si è precipitato sul posto, il difensore ha ottenuto che le copie digitali fossero cancellate. Nell’esposto si chiederà di valutare anche se «sussistessero i requisiti di urgenza per effettuare in orario notturno la perquisizione del 26 luglio». La legge prevede che debba appunto esserci una giustificazione per derogare agli orari ordinari. Il caso segnala ancora una volta un dato generale gravissimo: la polizia giudiziaria sembra muoversi sempre più spesso in un quadro di assurda autonomia dal- la stessa magistratura inquirente. Sempre nelle ultime ore, domenica scorsa, Matteo Renzi è tornato sulle «manomissioni» compiute, anche ai danni di suo padre, nel corso dell’indagine Consip. Anche in quella vicenda sono affiorati segni di probabile arbitrio da parte dei militari impiegati nell’attività investigativa. Indizi di un’azione sollecitata non solo dalle mere disposizioni della magistratura ma anche da tensioni e contrasti tutti interni ai carabinieri. Così come nel caso di Contrada è difficile tenere lontano il sospetto che antiche ruggini interne alla Polizia di Stato abbiano quanto meno favorito i modi spicci con cui è stata condotta la pseudo- perquisizione di sabato. L’interrogativo è se in Italia esista un problema di controllo delle forze dell’ordine impiegate nelle indagini penali. E se non sia opportuno rafforzare in tutte le maniere possibili l’assoggettamento di queste ultime alla magistratura.

Contrada: il caso delle perquisizioni senza mandato finisce in Parlamento, scrive giovedì 3 agosto 2017 "Il Secolo d’Italia". Giunge in Parlamento il caso della doppia perquisizione a carico di Bruno Contrada disposta alla fine di luglio dalla procura della Repubblica di Reggio Calabria nell’ambito dell’inchiesta su un presunto patto tra mafia e ‘ndrangheta tra il ’93 e il ’94, ma mai effettuata per l’opposizione dell’avvocato Stefano Giordano, legale dell’ex numero due del Sisde, che eccepì la mancanza della delega e del decreto di perquisizione. La vicenda ha destato scalpore perché di poco successiva alla decisione della Cassazione di revocare a Contrada la condanna per concorso in associazione mafiosa. In questo caso, l’attenzione degli inquirenti verso l’ex-investigatore si spiega con i presunti legami di quest’ultimo con Giovanni Aiello, noto come “faccia da mostro”, un ex agente di polizia ritenuto vicino ai Servizi. A sollevare il caso a Montecitorio è stato il deputato Amedeo Laboccetta, di Forza Italia, attraverso un’interrogazione discussa proprio in queste ore nella commissione Affari costituzionali della Camera. A rappresentare il governo, il viceministro Bubbico, la cui risposta – ha lamentato il parlamentare – è stata «assolutamente inadeguata e imprecisa». In particolare, Laboccetta ha puntato l’indice contro quella che ha definito una «presa di posizione burocratica» con all’interno «errori oggettivi». Tra questi il deputato cita il passaggio contenuto riferito alla perquisizione del 29 luglio, in cui si assicura che in ordine alla stessa era stata «verificata la disponibilità del signor Contrada». Circostanza, quest’ultima, – ha replicato Laboccetta – «assolutamente falsa»)”. Da qui la sua richiesta al ministro dell’Interno Minniti e al capo della Polizia, di «chiedere scusa» a Contrada a Roma e disporne il «reintegro nella polizia di Stato, con la relativa restituzione della dignità ad un servitore dello Stato». Una seconda richiesta è rivolta invece al Guardasigilli Orlando affinché «stigmatizzi il comportamento della procura di Reggio Calabria per le modalità con le quali sono state eseguite le perquisizioni ai danni di Bruno Contrada».

Se questa è giustizia…scrive Piero Sansonetti il 29 luglio 2017 su "Il Dubbio". Secondo voi c’è qualcosa di anche vagamente ragionevole nella decisione di mandare la polizia, in piena notte, a casa di un signore di 86 anni, per tirarlo giù dal letto e realizzare una perquisizione – evidentemente molto urgente – che dovrebbe servire a gettare luce su delitti di circa un quarto di secolo fa? Sapendo per di più che questo signore non è un tale che in tutti questi anni era irreperibile, ma è un ex dirigente dei servizi segreti che è stato in prigione per dieci anni (ingiustamente), è stato perquisito e interrogato decine di volte, processato, messo a confronto con decine di pentiti e di testimoni, tenuto in isolamento per mesi e mesi in un carcere militare, e alla fine assolto dalla corte costituzionale, appena due settimane fa? Esiste qualche persona al mondo che ritiene che la perquisizione realizzata l’altra notte potesse portare a qualche risultato? Che fosse utile? E che fosse necessario farla a sorpresa, prima dell’alba, in modo da impedire al sospetto di far sparire eventualmente carte che negli ultimi ottomila giorni (trascorsi da quando fu arrestato la prima volta) aveva dimenticato sul tavolino? È una vicenda paradossale quella che è capitata al dottor Contrada. Paradossale oltre ogni limite. Della sua storia abbiamo parlato varie volte nelle settimane scorse. Contrada è stato negli anni settanta e ottanta, e nei primi anni novanta, un poliziotto molto importante e un dirigente dei servizi segreti. Poi una sciagurata sera della vigilia di Natale, anno 1994, lo andarono a prendere a casa, a Palermo, lo sbatterono in fondo a una cella e ce lo lasciarono per molti anni. Un gruppo di pentiti, al solito, lo aveva accusato di essere stato amico della mafia. Contrada fu prima condannato, poi assolto, poi condannato di nuovo, scontò per intero la pena di dieci anni, poi fu riabilitato prima dalla Corte Europea e, ai primi di luglio, anche dalla Cassazione. L’Italia è stata condannata a risarcirlo. Ma la sua vita, ormai, era distrutta. Nei giorni scorsi si è molto discusso sul perché ci fu l’accanimento su Contrada. E se fu accanimento. Ora mi pare che la discussione, almeno su questo punto, può dirsi conclusa. Il dottor Contrada può senza tema di smentita considerarsi un perseguitato dallo Stato italiano. O forse è meglio dire: da pezzi dello Stato italiano. Resta il grande interrogativo: perché? Sarà difficile trovare una riposata sul passato, bisognerebbe andare a scavare di nuovo nella storia delle lotte di potere che erano aperte in quegli anni, a Palermo – e non solo – tra gli apparati dello Stato. Bisognerebbe andare a controllare le posizioni e gli interessi dei vari pentiti e i loro collegamenti con le varie cosche. Non è semplice. Più semplice, forse, è dare una risposta sul perché la persecuzione prosegue anche oggi. C’è un pezzo, piccolo probabilmente ma molto vistoso, di magistratura che concepisce il proprio lavoro come attività politica e non giurisdizionale. Tutto qui. E considera il filone aperto in Sicilia delle inchieste sulla presunta trattativa Stato- mafia (che ha dato vita a un processo che ancora procede, ma senza più imputati e senza capi di imputazione…) come una miniera d’oro. Adesso a qualcuno è venuta l’idea di estendere le indagini alla Calabria (dove, peraltro, pare che Contrada non abbia mai messo piede). A che serve? Quanto costa? Non sappiamo quanto costa. Possiamo provare a indovinare a cosa serve. L’impressione è che serva a creare nuove visibilità in vista della futura campagna elettorale. Nell’aria c’è l’idea che il prossimo parlamento sarà molto rinnovato, e forse dominato da partiti nuovi, come i 5 stelle. E ci sia spazio per personaggi e forze nuove che provengono da quella che i politologi chiamano società civile. Chi ha voglia e filo da tessere si fa avanti, si mette in mostra. Va bene, fate pure. Ma almeno con un minimo di buonsenso. Svegliare alle quattro di mattina un signore di 86 anni, sua moglie cardiopatica e suo fratello ottantenne, buon dio, non ha nulla che assomigli al buonsenso. 

La giustizia dei rumori. Il giudice Falcone cercava la giustizia delle verità, molti dei suoi “eredi” invece…, scrive Giuseppe Sottile il 18 Maggio 2017 su "Il Foglio". Da un lato c’è la giustizia delle verità; verità nude, secche, ossificate dal tempo e dalla pazienza, provate, dibattute, e poi fissate in sentenze pronunciate a nome del popolo italiano ed emesse al di là di ogni ragionevole dubbio. Dall’altro lato c’è la giustizia dei rumori, delle chiacchiere, delle urla e delle piazze; la giustizia dei teoremi e dei processi amministrati non dal rigore dei codici ma dai titoli dei giornali. Da un lato c’è Giovanni Falcone, il giudice antimafia straziato il 23 maggio di venticinque anni fa nell’attentato di Capaci. Dall’altro lato ci sono molti dei magistrati che sono venuti dopo, quelli che puntualmente lo ricordano e lo citano, quelli che confidenzialmente preferiscono chiamarlo Giovanni e che sul suo sacrificio hanno costruito una retorica buona per tutti gli azzardi e tutte le petulanze.

Cominciamo dal 1989, quando la piazza dell’antimafia dura e pura – la piazza dove troneggiavano il sindaco Leoluca Orlando e il gesuita Ennio Pintacuda – chiedeva a gran voce di impiccare al cappio della gogna l’eurodeputato Salvo Lima, padre padrone di quella vasta fetta della Dc siciliana che faceva capo alla corrente di Giulio Andreotti. Mani espertissime e menti raffinatissime lanciarono dentro il palazzo di giustizia una trappola ammiccante e ruffiana. Fecero sapere a Falcone che nel carcere di Alessandria c’era un pentito, Giuseppe Pellegriti, pronto a dichiarare che dietro gli omicidi eccellenti degli ultimi anni – quelli di Piersanti Mattarella, di Pio La Torre e di Carlo Alberto Dalla Chiesa – c’era proprio lui: il torvo, opaco e maleodorante Salvo Lima. Ma il giudice Falcone non ci cascò. Volò ad Alessandria, interrogò Pellegriti, cercò i riscontri e quando verificò che dietro il siparietto c’era soltanto fuffa, tornò rapidamente a Palermo e nello spazio di due giorni incriminò Pellegriti per calunnia. L’antimafia militante, ovviamente, non sopportò l’oltraggio. Si trasformò in sinedrio e gli scaricò addosso una raffica di insulti, il più tenero dei quale fu “venduto”.

Cominciamo dal 1989, quando il magistrato ucciso a Capaci smascherò il pentito che indicava Salvo Lima come mandante. Quelli che sono venuti dopo di lui, quelli che si definiscono eredi o addirittura allievi prediletti quale giustizia hanno contrapposto a quella che Falcone amava costruire con le prove e con i riscontri? Hanno preso Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo, e lo hanno trasformato in una “icona dell’antimafia” da portare in pellegrinaggio in tutti i talk-show dove i conduttori politicamente più impegnati, da Michele Santoro a Marco Travaglio, erano pronti tessere le lodi di un magistrato, Antonio Ingroia, che non si accontentava più delle verità scritte nelle sentenze, ma voleva andare oltre, molto oltre, fino al buco nero delle complicità e dei misteri che, dalla strage di Portella della Ginestra in poi, hanno ammorbato e pesantemente condizionato la vita della Repubblica. Solo che Ciancimino, come si è visto dopo, non raccontava verità ma castronerie che nessuno ha voluto o saputo arginare. Certo, nessuno nega che alla fine Massimuccio è finito pure lui sotto scopa per calunnia, come Pellegriti. Ma è altrettanto vero che con le sue temerarie ricostruzioni è stato costruito un processo – quello sulla fantomatica trattativa tra lo Stato e i boss di Cosa nostra – che da quattro anni si trascina stancamente davanti alla Corte d’Assise presieduta da Alfredo Montalto. Arriverà un brandello di verità? In questi quattro anni sono successe tante cose: Antonio Ingroia, il procuratore che ha imbastito la mastodontica inchiesta, forte del successo mediatico ha tentato la discesa in politica ma, dopo avere collezionato un flop pari solo alla sua ambizione, ha trovato riparo in un posticino di sottogoverno messogli a disposizione dal governatore della Sicilia, Rosario Crocetta; Massimo Ciancimino, invece, è finito in galera non tanto per le calunnie ma perché, mentre confidava a Ingroia le scelleratezze mafiose apprese dal padre, nascondeva in casa una quantità tale di tritolo da fare saltare in aria un intero palazzo. Eppure, nonostante le imprese di Ingroia e Ciancimino abbiano fatto crollare la credibilità delle accuse, c’è ancora un’antimafia chiodata che non vuole rassegnarsi all’evidenza e che cerca, con l’aiuto di una piazza sempre bene orchestrata, di trasformare il processo sulla Trattativa in un pozzo nero dentro il quale affogare non solo l’onore dello Stato, ma anche e soprattutto la vita di quei due generali dei carabinieri, Mario Mori e Antonio Subranni, che negli anni maledetti del sangue e delle stragi, arrestarono Totò Riina, boss di tutti i boss, e lo seppellirono dentro il carcere a vita.

Fine gogna mai. Basta confrontare la durata dei processi di ieri e di oggi per capire che serve una coraggiosa riflessione. E’ un’antimafia testarda e impietosa quella che soffia sul fuoco di questo processo: Mori, ex comandante del Ros, è ormai un imputato di professione che per quasi vent’anni è passato da un processo all’altro, sempre assolto. Ma vent’anni di gogna non sono bastati; perché Ingroia alla fine del 2012 l’ha tirato dentro la Trattativa e lo ha calato in un supplizio che non si sa nemmeno quanto potrà durare: a occhio e croce, visto che dovrà ancora concludersi il giudizio di primo grado e visto che dopo bisognerà aspettare le sentenza d’appello e quella della Cassazione, il calvario potrà dirsi concluso attorno al 2023. E’ una giustizia da tempi lunghi quella che, dopo Falcone, macina calunnie e mascariamenti, intercettazioni e sputtanamenti, rancori e fanatismi. Il motivo è semplice: i tempi lunghi moltiplicano le chiacchiere, amplificano i rumori, dilatano i sospetti e lasciano intatta quella confusione rintronante dentro la quale, alla fine della fiera, si insabbia – lentamente, inesorabilmente – lo stato di diritto. Sul numero di Panorama che potrete trovare in edicola sin da oggi, Riccardo Arena, autorevole cronista giudiziario di Palermo, presenta una puntuale analisi sulla durata dei processi, almeno di quelli sui quali tanto si è detto e scritto. E lo fa con dei raffronti che dovrebbero quantomeno spingere a una seria riflessione non solo il ministro della Giustizia o Commissione parlamentare antimafia, ma anche e soprattutto il Consiglio superiore della magistratura.

Nei processi che non finiscono mai un ruolo centrale spetta ancora a Massimo Ciancimino, il pataccaro della Trattativa. Il primo raffronto è quello relativo ai pentiti truffaldi e impostori che, pur di salvare la propria pelle, non hanno esitato a imbrogliare le carte e a crocifiggere chiunque si trovasse ad attraversare la loro strada. Per smascherare Giuseppe Pellegriti, il giudice Falcone impiegò due giorni. Per smascherare Vincenzo Scarantino, il picciotto che a Caltanissetta ha accusato sette persone, condannate all’ergastolo per il massacro di Paolo Borsellino e poi scarcerate senza nemmeno tante scuse, la giustizia siciliana del dopo Falcone ha impiegato ventitré anni lungo i quali si sono snodati tre processi, con le corti e i pm tutti concordi nell’assegnare fiducia a Scarantino, più volte pentito di essersi pentito e mai creduto quando ritrattava. Il secondo raffronto parte dal maxi processo, quello che assegnò alla mafia la più devastante sconfitta e condannò all’ergastolo non solo i padrini della “cupola” ma anche i boss e i picciotti dei singoli mandamenti, da Riina a Bernardo Provenzano, da Michele Greco a Leoluca Bagarella. “Se il maxi processo – scrive Arena – venne imbastito e avviato nell’arco di tre anni e mezzo e poi fu concluso, con la sentenza di Cassazione, in sei anni meno dieci giorni (10 febbraio 1986 - 30 gennaio 1992) il nuovo sistema dei processi-contenitore porta a inchieste interminabili, complesse, a dibattimenti infiniti, tutti immancabilmente in favore di telecamera, costantemente alimentati da sempre nuove accuse”. L’esempio più clamoroso è quello di Marcello Dell’Utri: la procura di Gian Carlo Caselli gli puntò gli occhi addosso a metà degli anni Novanta, la sentenza che lo ha portato al carcere di Rebibbia è arrivata diciassette anni dopo. Un record. Che comunque non chiude i suoi conti aperti con la giustizia: l’ex manager Fininvest infatti è, assieme ai generali Mori e Subranni, tra gli undici imputati della Trattativa e, nella migliore delle ipotesi anche la sua vicenda potrà chiudersi non prima del 2023.

 E' una giustizia dai tempi lunghi quella che macina calunnie e mascariamenti, intercettazioni, sputtanamenti e rancori. Fine gogna mai, verrebbe da dire. E verrebbe da dirlo anche per l’ex ministro democristiano Calogero Mannino che per tredici anni è stato imputato di concorso esterno ed è stato definitivamente assolto; però, quando già pensava di godersi la vecchiaia senza più salire e scendere le scale dei tribunali, ecco arrivare l’incriminazione per la Trattativa, finita anche questa in una sentenza di assoluzione emessa dal giudice del rito abbreviato ma puntualmente impugnata dai rappresentanti dell’accusa. Se non ci saranno altri intoppi pure per Mannino la fine, se mai fine ci sarà, non potrà arrivare prima del 2023. Altro che giustizia delle verità. Si dichiarano tutti figli e allievi di Falcone ma hanno trasformato molte aule del Palazzo di giustizia in altrettante stanze della tortura. Che Dio ce ne scampi.

Concorso esterno e giustizia. Contro gli intellettuali e i penalisti disonesti. La ricerca del bilanciamento tra lotta alla criminalità e garantismo individuale. Giovanni Fiandaca spiega perché la magistratura italiana deve far propri i princìpi garantistici della giurisprudenza di Strasburgo, scrive Giovanni Fiandaca il 15 Aprile 2015 su "Il Foglio". Dagli addetti ai lavori il concorso esterno viene definito un istituto di prevalente elaborazione giurisprudenziale perché gli elementi che lo costituiscono, com’è noto, non sono previsti in maniera puntuale e dettagliata dalla legge: essi vengono ricostruiti dagli interpreti (dottrinali e giurisprudenziali) grazie ad un adattamento al reato associativo delle norme generali sul concorso di persone. Per carità, nulla di eterodosso in questa operazione di adattamento, la quale si avvale di un metodo giuridico di cosiddetto combinato disposto tra norme che può considerarsi fisiologico nell’attività interpretativa ad opera dei giudici. Solo che questa logica combinatoria, come ho già spiegato su questo giornale nell’aprile dello scorso anno, presenta qualche complicazione in più a causa delle peculiarità del reato associativo, che è a sua volta un tipo di reato sui generis. Da qui la obiettiva difficoltà per la giurisprudenza di procedere a una tipizzazione giudiziale del concorso esterno soddisfacente sotto tutti i possibili aspetti. E ciò spiega perché l’elaborazione dei presupposti di un concorso esterno punibile sia andata progressivamente evolvendo nel corso del tempo, scandita da tre importanti sentenze della Cassazione a sezioni unite rispettivamente del 1994, del 2002 e del 2005. A mio giudizio, nonostante l’ultima di queste pronunce – la cosiddetta Mannino – abbia segnato un significativo passo avanti nel chiarire i presupposti della punibilità del concorrente esterno, l’onestà intellettuale induce a riconoscere che residuano ancora in proposito non pochi spazi di incertezza. Sicché, se è vero che nel nostro ordinamento la Costituzione affida in via prioritaria al legislatore democratico il compito di definire la materia penale, non può che ribadirsi l’auspicio che le forze politiche si responsabilizzino una buona volta e sul serio della spinosa questione. Ma il ceto politico attuale è in grado di precisare con una legge ad hoc la fisionomia tuttora sfuggente del concorso esterno? È lecito dubitarne. Comunque sia, la recente presa di posizione della Corte di Strasburgo nel caso Contrada, secondo la quale all’epoca dei fatti (1979-1988) il reato “non era sufficientemente chiaro”, si spiega anche in base a quanto si è detto fin qui. Nel periodo considerato la Cassazione riunita non si era ancora pronunciata sul concorso esterno, il che assume un rilievo tutt’altro che secondario nella prospettiva della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Infatti, secondo i giudici di Strasburgo, il principio di legalità penale (art. 7 CEDU) esige che il cittadino sia posto in condizione non solo di conoscere anticipatamente la norma incriminatrice in sé considerata, ma anche di prevederne ragionevolmente l’applicazione che i giudici ne fanno nei casi concreti. Proprio perché la legalità penale viene giustamente concepita anche come prevedibilità degli orientamenti giurisprudenziali, la conclusione cui è giunta la Corte europea nel caso Contrada ha una giustificazione molto plausibile. È auspicabile, più in generale, che nella magistratura penale italiana aumenti via via la disponibilità culturale a far propri i princìpi garantistici della giurisprudenza di Strasburgo. La giustizia penale, come “arma a doppio taglio”, richiede sempre – piaccia o non piaccia - un equilibrato (ancorché non sempre facile) bilanciamento tra lotta alla criminalità e garantismo individuale. 

Evviva il processo contro il concorso esterno. Come una sentenza ha messo a nudo il simbolo di tutti i reati fuffa: “Non si può essere condannati solo per concorso esterno”. Perché combattere contro la giustizia ectoplasma, scrive Piero Tony l'8 Marzo 2016 su "Il Foglio". E’ davvero la fiaba dello Stento, dopo decenni ancora oggi si deve continuare a discutere su quell’obbrobrio giuridico costituito dal concorso esterno in associazione mafiosa. E sempre in maniera vibratissima, perché chi lo sostiene è probabilmente mosso da importanti pulsioni savonaroliane che non possono tollerare di vedere impunita la fascia grigia dei rapporti di connivenza con il contesto territoriale e chi lo nega è soprattutto preoccupato per importanti anzi fondamentali principi di spessore costituzionale. Pare che qualche giorno fa per codesta contestazione di concorso esterno un gip di Catania (Bernabò Distefano) abbia emesso un proscioglimento ritenendola – come molti altri tecnici del diritto – non prevista dalla legge ma solo incondivisibile interpretazione giurisprudenziale degli articoli110 e 416 bis cp; che sia subito insorto il dirigente di quell’ufficio definendo quella conclusione – in sintonia con molti altri tecnici del diritto – come inaccettabile opinione personale. Al solito, una radicale contrapposizione di opinionisti. Il procuratore Caselli con un indignato articolo sul Fatto ha bollato – come molti altri – il revisionismo negazionista del gip. Per parte mia invece credo – come molti altri giudici che potrebbero avere quasi la stessa autorevolezza di Caselli – che quel gip abbia fatto e detto cose sacrosante e giuste. Dovrebbe bastare questa radicale antitesi – in aggiunta all’ondivago orientamento giurisprudenziale anche di Sezioni Unite della Cassazione – per ingenerare prudenza e qualche dubbio e qualche preoccupazione per la sorte dei tanti indagati, imputati e condannati in ordine a quell’evanescente ipotesi di reato. Ma andiamo con ordine. Partendo dalle due tipologie di concorso previsti dalla legge (concorso “eventuale” dell’articolo 110 cp e concorso “necessario” quale quello degli articoli 416, 416 bis cp), diventate poi tre con l’aggiunta giurisprudenziale del così detto “concorso esterno in associazione mafiosa” (per quanto si dirà forse sarebbe stato più esatto, ma anche più palesante e dunque ancor più facilmente criticabile, denominare quell’etereo delitto “reato di concorso nel concorso” e nulla più). Il delitto di associazione per delinquere sia o non sia di stampo mafioso (articoli 416, 416 bis cp) è reato a concorso necessario di persone nel senso che può sussistere solo con il concorso di più persone, almeno 3. Esso, sia o non sia di tipo mafioso, come noto è dalla legge configurato come reato a forma libera ossia a condotte non tipizzate – fermi restando naturalmente, quanto all’articolo 416 bis, sia metodo mafioso che forza intimidatrice che conseguenti condizioni di assoggettamento ed omertà – ma a composizione predefinita e chiusa quanto ai soggetti attivi nel delitto, nel senso che esso esiste solo grazie alla loro presenza associata, che pertanto ne è elemento costitutivo e condizione necessaria. E’ evidente, pertanto, che tale “plurisoggettività essenziale e necessaria” è norma speciale (per espressa definizione della legge occorre che al pactum sceleris partecipino almeno tre persone e che queste non possano che essere o associati o promotori o costitutori o organizzatori o capi) rispetto al concorso eventuale previsto e regolato in via generale per tutti i reati dall’articolo 110 cp e scomodato dai fautori del concorso esterno, quell’articolo 110 cp che dice “… quando (quindi non necessariamente, ndr) più persone concorrono nel medesimo reato, ciascuna di esse soggiace alla pena per questo stabilita…”. E’ tutta un’altra storia! A parte il nome, realtà giuridiche assolutamente diverse e lontane tra loro non compenetrabili anzi gnoseologicamente incompatibili (come morto ma non troppo o bagnato ma un po’ asciutto, tanto per intenderci). E non solo perché, da che mondo è mondo, la regola speciale fagocita quella generale, tant’è che a nessuno verrebbe in mente di pensare alla lucertola come ad un sauro, al pipistrello come ad un chirottero, alla nonna come anziano rappresentante del genere umano e così via; ma anche perché è lo stesso codice penale a ricordare a zelanti e distratti che “quando più leggi penali o più disposizioni della medesima legge penale regolano la stessa materia, la legge o la disposizione di legge speciale deroga alla legge o alla disposizione di legge generale, salvo che sia altrimenti stabilito (articolo 15 cp e 9 legge numero 689/1981). Eppure al mondo c’è chi ha pensato, forse solo per lodevole ansia punitiva nei confronti delle zone grigie del “patto scellerato ” menzionato dal procuratore Caselli, che la norma speciale del concorso necessario (articoli 416, 416 bis cp) e la norma generale di quello eventuale (articolo 110 cp) potessero filare tanto d’amore e tanto d’accordo da poter integrare con il connubio il nuovo reato di concorso esterno in associazione criminale, contemporaneamente dentro e fuori come la fata turchina, un pezzo di qua uno di là ed il gioco è fatto. Il concorso di persone, di cui all’articolo 110 cp, regola generale operante per tutti i reati e dunque per qualsiasi reato, per legge non può che essere interno al reato e mai esterno come declamano invece i fautori del concorso esterno, proprio perché a chiarissime lettere l’articolo 110 cp vuole prendere in considerazione solo persone che concorrano “nel medesimo reato”. E la ragione, semplicissima, è che con il vigente articolo 110 del codice Rocco del 1930 si volle prendere le distanze dal vecchio codice Zanardelli del 1889 che, facendo molti “distinguo”, sul punto si era dimostrato poco operativo; prevedeva infatti sanzioni e trattamenti penali diversi distinguendo (con intuibili difficoltà precettive ed accertative) tra compartecipazione materiale e morale, tra correità e complicità. Tagliando la testa al toro come si suol dire, il vigente codice Rocco previde che “l’evento deve essere messo a carico di tutti i concorrenti che con la propria azione contribuirono a determinarlo… e perciò a ciascuno dei compartecipi deve essere attribuita la responsabilità dell’intero… dall’esame dei casi della pratica si apprende che la preordinata catalogazione dell’entità dell’apporto di ciascun concorrente non può essere che arbitraria, perché in concreto il giudizio è in relazione ad un’infinità di circostanze, che sono sottratte ad ogni previsione, essendo il loro valore diverso nelle innumerevoli modalità dei fatti” (relazione al progetto definitivo – numero 134). Torniamo alla nostra ipotesi di concorso esterno in associazione mafiosa, cioè di asserito concorso in sodalizio mafioso da parte di persona forse connivente ma che mafiosa non è. Viene naturale: per zone grigie e sfuggenti si impongono norme grigie e sfuggenti. Ovvio. Visto che codesta persona non risulta pacificamente mafiosa, per poterla “attenzionare” con indagini di verifica il solo articolo 416 bis cp da solo non basta e non serve. Tant’è vero che, anche per non lasciare impuniti quelli delle fasce grigie e del “patto scellerato”, si è dovuto ricorrere… “all’esterno”. Né per attenzionarla serve e basta, evidentemente, il solo articolo 110 cp, quello del concorso nel “medesimo reato” con responsabilità per l’“intero”come precisa la relazione. Non serve e non basta perché serve a regolare – come detto – il comune concorso “eventuale” e non già quello specifico e “necessario” dei reati associativi. Presi separatamente quei due articoli non possono servire a nulla, insomma, nella lotta contro il crimine delle zone grigie ed ecco perché dal cappello è saltata fuori l’accoppiata. Da anni mi chiedo come i fautori del concorso esterno abbiano potuto applicare all’articolo 416 bis cp quell’articolo 110 cp che perentoriamente esordisce non con la previsione di un concorso esterno ma, al contrario, con un “quando più persone concorrono nel medesimo reato….”. E come abbiano potuto superare ogni possibile obiezione sul punto. Quale sarebbe il medesimo reato? Quello interno o quello esterno? Dall’interno verso l’esterno o viceversa? Perché sarebbe davvero grave se, con una sorta di sofisma tipo petizione di principio che sa tanto di artifizio, al fine di superare qualsiasi obiezione, si fosse posticipata la causa all’effetto invertendo le linee di partenza e traguardo del percorso logico; tanto da ritenere oggi sussistente quel tipo di reato che invece sarà ravvisabile solo domani e, come se non bastasse, solo grazie all’interpretazione della norma sub iudice… insomma mi apro nel frattempo la strada facendo qualcosa che non potrei fare. Conflitto di interessi? Gioco delle tre carte? Bah! Sarebbe così semplice, lineare, bello e giusto applicare le regole senza forzature e trattare i reati comuni come comuni e basta, senza rincorrere le utili agevolazioni investigative previste per chi indaga sulla mafia. E quelli mafiosi come mafiosi, con ordinata individuazione dei ruoli direttivi o associati nonché delle varie tipologie partecipative sia materiali sia morale. Ma in entrambi i casi, fare giustizia verificando in tempi rapidi se ogni indagato abbia materialmente o moralmente conferito un qualche contributo causale apprezzabile e concreto alla verificazione del fatto. E combattere quelli delle zone grigie del patto scellerato prima con l’educazione (furbetti e ganzini si combattono con la scuola, diceva mio nonno e mi pare ancora attuale) ossia con la prevenzione – che vuol dire mediazione e quella lotta alle ingiustizie e all’incultura civica che Giovanni Falcone invocava nel secolo scorso – poi con la giustizia “riparativa” e della persona. Utopia? Bah! Tutto il resto è contraddizione in termini, logica delle sensazioni, uno stiracchiare oltre il consentito la rete da pesca per arrivare alle fasce grige, è fuffa. Da decenni mi chiedo a chi possa essere venuta in mente per la prima volta – ci deve essere per forza un primo! – l’idea di un concorso interno… ma allo stesso tempo esterno… esterno ma non troppo. E’ solo fuffa parlare di concorso esterno quando per legge il concorso può essere solo interno ed organico. O ipotizzare un concorso da parte di chi non è associato in un reato che proprio nell’associazione si integra mediante l’affectio societatis dell’associazione stessa. E’ fuffa ricorrere al concorso morale e nascondersi dietro queste due parole quando la condotta non è di tale valenza da rendere l’autore annoverabile nei ruoli che la giurisprudenza ha ben precisato secoli fa, cioè quelli di istigatore o rafforzatore. E conseguentemente è fuffa il rincorrere indicatori che, vaghi come ectoplasmi, non assurgono a prova quantomeno di partecipazione consapevole ma che – di volta in volta ravvisati in frequentazioni improprie, incremento del rischio per la società civile, attività mediatoria o di cerniera, cointeressenza etc. etc. etc. – hanno consentito di materializzare fantasmi e pertanto impedire non di rado qualsiasi difesa concreta. Il procuratore Caselli ha tutte le ragioni quando dice che la criminalità organizzata si nutre anche di forze conniventi del contesto sociale e che alcuni comportamenti non dovrebbero restare impuniti. E’ palese che essa sia agevolata e prosperi grazie agli egotismi e alle diffuse timidezze del territorio, alla corruzione ed all’ignoranza, ad una riservatezza storica che qualche volta può rasentare l’omertà, all’ingiustizia sociale e all’incultura civica di cui parlava Giovanni Falcone come causa principale del fenomeno, alle disinvolture imprenditoriali. E’ palese, sono condotte e comportamenti/atteggiamenti spesso di marcata pericolosità che sarebbe logico e doveroso perseguire, purché senza forzature giurisprudenziali ideate per inseguire umori. Stringi stringi penso che, almeno fino a quando non sia modificato il quadro normativo, vada abbandonata la malaprassi del concorso esterno ed incrementata nel contempo l’attenzione per i reati-fine (che, meno evanescenti di qualsiasi concorso esterno, proprio delle fasce grigie costituiscono il tessuto connettivo) al fine di potersi accontentare… nell’attesa dei risultati socioeducativi o di una novità legislativa… di punirne gli autori, sia diretti che concorrenti interni ex articolo 110 cp. In conclusione, a mio sommesso giudizio fino a quando non cambierà il codice penale continuerà ad avere tutte le ragioni del mondo l’ingiustamente vituperato (ingiustamente e da pochi) gip di Catania.

Contrada nel meccanismo infernale. Terzi livelli e processi senza reato. Violante capì subito il rischio, scrive Massimo Bordin il 15 Aprile 2015 su "Il Foglio". Uno dei primi comunicati di commento all’arresto di Bruno Contrada fu quello di Luciano Violante, allora presidente della commissione parlamentare Antimafia. Era la vigilia di Natale del 1992, le stragi di Capaci e Via D’Amelio erano state compiute da pochi mesi e quello dell’alto funzionario del Sisde si poteva ben definire il primo arresto eccellente, come usano aggettivare i cronisti senza fantasia. Per raccordare “cosa nostra” con la misteriosa “entità”, il “terzo livello”, cosa meglio dei famigerati “servizi deviati”? Violante, con il suo tempestivo comunicato nella mattina di vigilia, raffreddò gli entusiasmi. “Attenzione – questo era il senso – L’accusa nei confronti di Contrada si riferisce a un periodo antico, quando i pentiti non c’erano e i poliziotti lavoravano grazie agli informatori. Era inevitabile dunque che avessero qualche contatto coi mafiosi”. Il presidente dell’Antimafia era il più intelligente della compagnia e aveva già capito l’essenziale. Intanto, il reato contestato era, per così dire, in via di definizione e il processo una specie di esperimento. Oggi, dopo oltre un ventennio, da Strasburgo ci ricordano che gli imputati non possono essere trattati come cavie. Il problema principale per Violante stava comunque nella periodizzazione delle stagioni dell’antimafia. Contrada apparteneva all’epoca pre-Buscetta, diciamo così. L’epopea del grande pentito si sarebbe chiusa con il processo Andreotti. Da Terranova, Costa e Chinnici a Falcone e Borsellino per arrivare, attraverso Caselli, a Ingroia, Scarpinato e ora Di Matteo. In ogni stagione c’è uno scarto rispetto alla precedente, che determina la “damnatio memoriae” di qualche suo protagonista. Perfino di Falcone, quando andò a Roma. Contrada è rimasto stritolato in questo meccanismo infernale. In modo diverso, dopo, è toccato anche a Violante, che forse aveva capito tutto. E a Mori. E a De Gennaro. Ma questa è questione in cui non ci può aiutare una Corte europea.

La Cassazione revoca la condanna a Bruno Contrada. Revocata la condanna a Bruno Contrada, l'ex agente del Sisde condannato a 10 anni per concorso in associazione mafiosa, scrive Chiara Sarra, Venerdì 7/07/2017 su "Il Giornale". La Cassazione revoca la condanna a Bruno Contrada, dichiarandola "ineseguibile e improduttiva di effetti penali". La Corte ha annullato senza rinvio una ordinanza della Corte d'appello di Palermo dell'11 ottobre 2016, relativa all'applicabilità di una decisione della Corte europea dei diritti dell'uomo. L'ex superpoliziotto, secondo i giudici di Strasburgo, fu condannato in Italia per concorso esterno in associazione mafiosa, in base a una "fattispecie criminosa la cui evoluzione interpretativa sarebbe stata il risultato di un controverso dibattito giurisprudenziale, consolidatosi solo successivamente ai fatti oggetto di contestazione e, quindi, la sua applicazione sarebbe stata, per l'imputato Contrada, assolutamente imprevedibile ed incerta". Bruno Contrada era stato condannato a 10 anni di carcere con una sentenza divenuta irrevocabile il 10 maggio 2007. Scontò gran parte della pena tra carcere e detenzione domiciliare e adesso potrebbe chiedere un maxirisarcimento per l'ingiusta detenzione.

Strasburgo dà ragione a Bruno Contrada: «Era malato, un abuso il carcere». La Corte per i diritti dell'uomo ha dato ragione all'ex 007: tra il 2007 e il 2008 le sue condizioni di salute erano incompatibili con la detenzione. Lo Stato italiano, se non ci saranno ricorsi, dovrà pagargli 15mila euro, scrive Mariateresa Conti, Martedì 11/02/2014 su "Il Giornale". Ormai è un uomo libero. Ha finito di scontare la pena a dieci anni di reclusione per un reato che lui ha sempre sostenuto di non aver commesso - concorso esterno in associazione mafiosa - e quella battaglia di sette anni fa, per strapparlo alla cella quando avrebbe avuto bisogno di un ospedale e di cure sembra lontanissima nel tempo. Eppure adesso la Corte dei diritti dell'uomo di Strasburgo ha dato ragione a Bruno Contrada, l'ex funzionario del Sisde accusato di collusioni con i boss: tra il 24 ottobre del 2007 e il 24 luglio del 2008 sono stati violati i diritti del detenuto Contrada che, essendo malato, avrebbe avuto bisogno di trattamenti sanitari. E per questa violazione lo Stato deve risarcirlo con un pagamento di 15mila euro. «C'è un giudice a Strasburgo - ha commentato il difensore di Contrada, l'avvocato Giuseppe Lipera - speriamo di trovarne presto un altro. È la prima parziale vittoria, ma noi continueremo a lavorare, giorno e notte, fino ad ottenere giustizia con la revisione del processo. Io prego affinché questo avvenga». Il ricorso alla Corte di Strasburgo era stato l'estrema ratio, dopo che le richieste di sospensione dell'esecuzione della pena e la scarcerazione per gravi motivi di salute erano state respinte. Per la Corte dei diritti dell'uomo l'Italia, nella detenzione in quel periodo di Contrada, ha violato il divieto di trattamento inumano e degradante del detenuto, visto che l'ex 007 era malato e aveva bisogno di cure. Di qui, adesso, il risarcimento, fissato in 15mila euro, 10mila per il danno morale e cinquemila per le spese legali sostenute.

Mafia, Cassazione revoca la condanna inflitta allʼex 007 Bruno Contrada, scrive Tgcom24 il 7 luglio 2017. Accolto il ricorso del legale che aveva impugnato il provvedimento con cui la Corte dʼAppello di Palermo aveva dichiarato inammissibile la sua richiesta di incidente di esecuzione. "Finiti 25 anni di sofferenza", commenta lʼex n. 3 del Sisde. La Cassazione ha revocato la condanna a 10 anni inflitta a Bruno Contrada. L'ex n. 3 del Sisde era accusato di concorso in associazione mafiosa. I giudici hanno accolto il ricorso del legale, che aveva impugnato il provvedimento con cui la Corte d'appello di Palermo aveva dichiarato inammissibile la sua richiesta di incidente di esecuzione. La Cassazione ha così dichiarato "ineseguibile e improduttiva di effetti penali la sentenza di condanna".

Contrada, per anni poliziotto in prima linea contro la mafia a Palermo, venne arrestato con l'accusa di concorso in associazione mafiosa il 24 dicembre del 1992. In primo grado fu condannato a 10 anni, ma la sentenza fu ribaltata in appello e il funzionario venne assolto. L'ennesimo colpo di scena ci fu in Cassazione, quando l'assoluzione fu annullata con rinvio e il processo tornò alla Corte d'appello di Palermo che, il 25 febbraio del 2006, confermò la condanna a 10 anni. La sentenza divenne definitiva nel 2007.

Contrada, che aveva subito una lunga custodia cautelare in carcere, tornò in cella. Il funzionario, tra il carcere e i domiciliari per motivi di salute, ha scontato tutta la pena. Due anni fa, però, la Corte europea dei diritti dell'Uomo condannò l'Italia a risarcire il poliziotto, nel frattempo sospeso anche dalla pensione, ritenendo che Contrada non dovesse essere né processato né condannato perché all'epoca dei fatti a lui contestati il reato di concorso in associazione mafiosa non era "chiaro, né prevedibile". A quel punto l'ex legale del funzionario tentò, invano, la strada della revisione che venne "bocciata" dalla Corte d'appello di Catania. L'ultimo tentativo, quello dell'incidente di esecuzione, è stato fatto dall'avvocato Stefano Giordano che ha chiesto alla Corte d'appello di Palermo, l'anno scorso, proprio alla luce della sentenza europea, di revocare la condanna sostenendo che prima del '94, spartiacque temporale fissato dalla Cedu, non fosse possibile condannare per il reato di concorso in associazione mafiosa. La corte dichiarò inammissibile il ricorso. Ora la Cassazione, a cui Giordano si è rivolto, gli ha dato ragione e la condanna è stata revocata. Dal momento che Contrada ha scontato la pena gli effetti della pronuncia si ripercuoteranno, ad esempio, sull'aspetto pensionistico.

Contrada: "Finiti 25 anni di sofferenza" - "Dopo 25 anni di sofferenza, mezzo secolo di dolore sapendo di essere innocente e di avere servito con onore lo Stato, le Istituzioni e la Patria, arriva finalmente l'assoluzione, dall'Italia e dall'Europa". Così Bruno Contrada commenta la sentenza di revoca della sua condanna. "Ho sofferto molto e molto più di me - aggiunge - ha sofferto la mia famiglia. Il mio pensiero va a tutti loro, che mi sono sempre stati sempre vicini. Il mio onore? Non l'ho perduto mai, ho sempre camminato a testa alta perchè ho sempre e solo fatto il mio dovere".

Contrada innocente. Annullata la condanna ma lui l'ha già scontata. La Cassazione revoca i dieci anni per mafia al superpoliziotto. Che ne ha fatti otto in cella, scrive Massimo Malpica, Sabato 8/07/2017, su "Il Giornale". Il superpoliziotto, ex capocentro e poi numero tre del Sisde, venne arrestato quando aveva 61 anni, alla vigilia di Natale del 1992, e dopo anni in carcere e lustri dopo lustri passati a ribadire la propria innocenza rispetto a quell'accusa piovuta dalle dichiarazione di «pentiti» e poi cristallizzata nell'ambigua formula del concorso esterno in associazione mafiosa, ha dovuto aspettare fino a ieri per vedere la Cassazione, finalmente, dargli ragione. E cancellare l'ultima condanna del 2006 a 10 anni di carcere (confermata in Cassazione e divenuta definitiva l'anno dopo) definendola «ineseguibile e improduttiva di effetti penali» e annullandola senza rinvio. Tutto questo quando Contrada ha 86 anni, e ha già scontato per intero quella condanna, alla faccia dell'ineseguibilità. Lui, d'altra parte, non si era mai arreso. Continuando a chiedere la revisione del processo, regolarmente respinta in quattro diverse occasioni, e ottenendo finalmente uno spiraglio di giustizia dalla Corte europea dei diritti dell'uomo che, nel 2014 e poi nel 2015, con due distinte sentenze aveva condannato l'Italia sia per non aver concesso i domiciliari all'ex superpoliziotto nonostante le precarie condizioni di salute sia, soprattutto, per averlo condannato per un reato «non sufficientemente chiaro né prevedibile» all'epoca dei fatti contestati. Proprio la decisione della Cedu ha fatto sponda perché la Cassazione smontasse quell'accusa e mettesse fine alla sua odissea. Ora comincerà l'iter per «risarcire» Contrada, ma la verità è che la sua odissea giudiziaria non è risarcibile. Il suo lavoro da servitore dello Stato contro mafia e criminalità è stato spezzato, il suo onore messo in dubbio da testimonianze di ogni genere, comprese clamorose panzane, se non storie mai avvenute, come quella mano strette a Contrada da Falcone che poi se la sarebbe «pulita sui pantaloni» per mostrare il suo ribrezzo, come raccontò Antonino Caponnetto in tribunale. Salvo poi, accertato che Falcone non era presente nella circostanza ricordata dal magistrato, ammettere che forse si ricordava male l'episodio. Sembrava che volessero seppellirlo da vivo, Contrada, con una lapide da «mafioso» a coprire la storia di un poliziotto coraggioso che per più di trent'anni ha seguito una sola causa, quella della Stato, uno Stato che poi l'ha perseguitato per 25 anni prima di arrendersi all'evidenza e alle sentenze di un tribunale internazionale. Adesso Contrada può finalmente rialzare la testa: «Non è solo un uomo libero. Ma incensurato», ha spiegato il suo legale, Stefano Giordano. Non è d'accordo l'ex pm Antonio Ingroia, che sosteneva l'accusa in primo grado. Per lui, la Cassazione «non ha certo riconosciuto che Contrada è innocente né ha revocato la sentenza di condanna definitiva a cui si è arrivati grazie a una convergenza di elementi solidissimi e accuratamente verificati». Essere condannati per un reato che ancora non esisteva per Ingroia è «un mero incidente di esecuzione», e l'auspicio dell'ex toga è che quella sentenza non venga «usata» per sbianchettare altre condanne. «A cominciare - spiega - da Marcello Dell'Utri».

Giustizia per l'ex 007. «Una vita devastata Rivoglio il mio onore». La fine del calvario: «Ridatemi tutto, encomi e diritto di voto». Riavrà la pensione intera, scrive Mariateresa Conti, Sabato 8/07/2017, su "Il Giornale". «Dopo 25 anni di lotte punteggiate da insuccessi, speranze deluse, ingiustizie, era molto difficile essere ottimisti. E sono passati già tre anni da quando la Corte europea ha detto che non potevo essere condannato per una legge che non c'era. Tre anni di lotta per avere giustizia piena. Perché io sono europeo e pure europeista, ma in primo luogo dovevano essere i giudici italiani a riconoscere la mia innocenza. E ora finalmente è avvenuto». Parla pacato ma con voce ferma Bruno Contrada, 86 anni a settembre: «Non mi piace ricordare la mia età, sono nato il 2 settembre del 1931, conti un po'...», dice al Giornale con un guizzo di quella ironia napoletana che 25 anni di calvario giudiziario e una decina di privazione della libertà tra carcere preventivo e condanna scontata non hanno spento, mai. Ironia. E pure sollievo, quello di Bruno Contrada e della sua famiglia, la moglie Adriana, i figli Guido e Antonio, i quattro nipotini, a cominciare da Bruno, il maggiore, che si chiama come lui: «È piccolo, ma già capisce». Sollevato, Contrada. Per avercela fatta. Per essere arrivato vivo, e lucido, a vedere il finale della sua odissea cominciata la vigilia di Natale del '92, quando all'apice della carriera al Sisde e superpoliziotto di primo piano, finì in manette per le dichiarazioni di quattro pentiti (poi moltiplicatisi sino a 24 nel corso del processo di primo grado) e rimase in carcere per 31 mesi e sette giorni, prima ancora della sentenza di condanna a dieci anni nel '96, diventata definitiva nel 2007 e scontata per otto anni. Lucido, Contrada. Lucidissimo. A sentirlo parlare sembra che questi 25 anni non siano mai passati. «Questa sentenza della Cassazione - confessa - mi ha colto di sorpresa, ma non mi sarei arreso. Non mi bastava che lo avesse detto la Corte europea che la mia condanna era ingiusta, volevo restituito pienamente il mio onore. Dopo il valore assoluto della vita c'è la libertà. E io sono stato privato della libertà personale per un lungo periodo. Non è solo una sofferenza fisica, è soprattutto una sofferenza morale». E che sofferenza, per lui e la sua famiglia. «Una vita devastata - continua - Io avevo la piena coscienza di non aver fatto nulla di male e di subire una sentenza ingiusta. Si vede che era destino, ma un destino non dovuto a una forza superiore, qui l'hanno manovrato gli uomini, alcuni uomini. Contro di me solo invenzioni di efferati criminali pagati dallo Stato oppure accuse loro suggerite da uomini che non voglio qualificare né definire. Se avessi commesso uno solo di quei fatti che mi sono stati contestati altro che condanna, avrei meritato la fucilazione per tradimento». Il Bruno Contrada che, oggi, ha vinto la sua battaglia con la cancellazione della condanna a dieci anni per concorso esterno inflittagli ad aprile del '96 dalla V sezione penale del tribunale di Palermo che ha sposato la tesi dell'accusa sostenuta dall'allora pm Antonio Ingroia («se lo incontrassi cambierei marciapiede», ha detto ieri Contrada in conferenza stampa), non va oltre. Glissa anche sulla domanda cruciale: perché, in quel momento storico, all'indomani delle stragi del '92 e mentre il suo Sisde lavorava in chiave antimafia e dava la caccia a Bernardo Provenzano, lo 007 Contrada andava tolto di mezzo: «La mia storia - dice - è complessa, aggrovigliata, inestricabile. Ci vorrebbe tempo, molto tempo. Ora penso a tutto quello che ho passato, agli avvocati che via via mi hanno sostenuto. Un pensiero speciale va all'avvocato Piero Milio. Lui, purtroppo, non ce l'ha fatta a vedere questo finale (è morto nel 2010, ndr)». Ironia della sorte, l'avvocato Stefano Giordano, che firma il successo di oggi in Cassazione a favore di Contrada, è il figlio del presidente del celebre Maxi processo ala mafia, Alfonso Giordano. Questa per la cancellazione della condanna era la battaglia fondamentale, per l'ex 007: «Ho lottato per il mio onore e la mia dignità, per il riconoscimento di tutto quello che ho dato alla Polizia di Stato, alla mia Patria». Ma la battaglia non è ancora finita. E non solo perché adesso a Contrada verrà anche restituita la pensione piena, non decurtata: «Voglio - dice - che sia cancellata la destituzione dalla Polizia. Voglio il riconoscimento del servizio, la restituzione degli oltre 100 encomi che ho ricevuto. E voglio anche il diritto di voto. Votano gli immigrati e io da 25 anni non posso. Risolto tutto questo, smetterò finalmente di leggere carte giudiziarie. Tornerò ai miei amici, Ovidio, Marziale, Giovenale, Kafka». Già, Kafka. Forse neppure lui, dopo 25 anni, avrebbe immaginato questo finale.

Contrada: «Ho servito lo Stato, mi hanno distrutto le calunnie», scrive Anna Germoni l'11 luglio 2017 su "Il Dubbio". Intervista all’ex funzionario del Sisde dopo la sentenza della Cassazione. Il Dubbio ha incontrato Bruno Contrada, prima della sentenza della Cassazione, e proprio in questa intervista ci aveva confidato: «Mi aspetto che le autorità competenti dello Stato italiano, quelle giudiziarie e amministrative, applichino l’articolo 46 della Convenzione europea, ratificata a suo tempo dall’Italia con tanto di legge. Quella Convenzione stabilisce che “le parti contraenti si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive dalla Corte europea, nelle controversie delle parti”. E la mia è una sentenza definitiva».

Prima dell’arresto, lei aveva ottenuto cento riconoscimenti per operazioni di servizio e nove promozioni. Da «emblema della lotta alla mafia» a «colluso con Cosa nostra»: ha rimpianti?

«Sono più di cento, i riconoscimenti, tra Polizia e Sisde. Ma poi ci sono quelli della Dea, l’antidroga americana. Quanto agli encomi di magistrati, ne cito uno solo: quello di Giovanni Falcone. No, non ho rimpianti per tutto ciò che ho fatto. Ho soltanto sentimenti di indignazione, di rivolta morale. E di disprezzo per chi non ha saputo o voluto riconoscere il mio operato al servizio dello Stato e delle istituzioni, cui ho dedicato tutta la mia esistenza».

Per 25 anni lei non ha mai smesso di proclamarsi innocente. Ha detto: «Nessuna delle accuse che hanno devastato la mia vita risponde al vero». Ma a Palermo, sostengono, «si uccide anche con la calunnia»? È davvero il suo caso?

«Chi opera contro la mafia e i mafiosi e ottiene risultati rischia di essere annientato dal piombo o dal fango. Chi invece si atteggia o simula, per vanagloria o per protagonismo, prima o poi cade nel ridicolo e nel disprezzo. Nel mio caso il Miles gloriosus non ha mai avuto un ruolo. È cronaca».

Chi ha usato la menzogna contro di lei?

«Le menzogne e le calunnie provengono principalmente dalle dichiarazioni indubbiamente interessate di un nugolo di criminali mafiosi: alcuni sono di alto livello, altri di basso rango. Molti di loro erano stati da me perseguiti, indagati. In alcuni casi ottennero anche pesanti condanne».

I nomi?

«Certo: gli uomini del clan Marchese e Gaspare Mutolo. Mafiosi che si sono resi responsabili di crimini mostruosi, e che io avevo fatto arrestare e perseguire. Mi avevano minacciato di morte. Poi sono diventati pentiti e sono diventati i principali accusatori nei miei confronti…»

Contro di lei, però, hanno parlato anche funzionari dello Stato.

«Più che funzionari, amministratori. Come in ogni ambiente di lavoro, dove non si creano soltanto amicizie, ci sono sciacalli, iene, che covano gelosie, invidie, maldicenze incomprensibili e inspiegabili rancori. Aspettano come corvi il tuo momento di debolezza, per avventarsi contro di te. E lo fanno sempre alle spalle».

Ha scritto un libro con Letizia Leviti, la giornalista di Sky tg24 morta a luglio dell’anno scorso.

«S’intitola La mia prigione, storia vera di un poliziotto a Palermo».

Racconta la sua vita, analizza la sua vicenda giudiziaria e lancia accuse molto pesanti contro alcuni pentiti e alcuni magistrati. È mai stato querelato?

«No. Mai una querela, né una richiesta di rettifica. Silenzio assoluto. Ho conosciuto Letizia e ho deciso di scrivere questo libro con lei nel 2012: non per difendermi, perché quello l’ho fatto e lo faccio nei tribunali. Ma per far conoscere i fatti alla gente. La verità. Certo, non mi aspettavo, alla fine di una bella carriera, di essere «impagliato» e di avere la vita devastata. Non pretendevo decorazioni al valore, ma almeno un grazie per aver servito le istituzioni. Adesso la giustizia che non ho trovato nel mio Paese, nella mia Patria, e preciso con la P maiuscola, l’ho trovata a Strasburgo».

Nel libro, lei ricorda che la sua stessa vicenda giudiziaria ha coinvolto persone a lei vicine. Chi sono?

«Sì: è accaduto a un mio collaboratore, Ignazio D’Antone, questore della Polizia, anche lui accusato di concorso esterno. È un validissimo servitore dello Stato».

Perché ha fatto il poliziotto? In quali valori credeva?

«In quelli in cui sono sempre cresciuto nella mia famiglia, fin da bambino: la Patria, la stessa famiglia, i rapporti umani, la giustizia, la solidarietà umana, la religione. Questi valori mi hanno sempre accompagnato. E io non ho mai mollato: sono sempre stato in prima linea contro la criminalità organizzata, la mafia».

E oggi?

«Continuo a crederci. Non credo più, invece, in alcuni uomini che pure rappresentano lo Stato e dicono di essere portatori degli stessi valori cui mi sono sempre ispirato».

Conosciamo Contrada per le sue battaglie contro Cosa nostra prima, e poi per l’impegno a difendersi nei processi. Ma com’è l’uomo Contrada?

«Sono al termine della mia esistenza. Ho quasi 86 anni. Credo di essere un nonno amorevole con i miei nipotini. Ma sarò sempre impegnato fino all’ultimo respiro, all’ultimo attimo della mia vita affinché sia fatta piena luce, verità e giustizia sulla vicenda che ha devastato la mia vita e quella della mia famiglia. Questa storia ha addolorato, angustiato, anche i miei amici più cari: capi della Polizia, funzionari del Sisde, agenti semplici, carabinieri, generali, che nel corso di questa odissea mi sono sempre stati vicini».

Vizia i suoi nipoti?

«No. Anche se, quando vengono da me, fanno disordine in casa o rompono qualcosa, anche oggetti di valore: li giustifico. Sempre. D’altronde, un nonno c’è proprio per quello…»

Quali sono le sue passioni ora?

«Leggo libri di storia: il Risorgimento, l’unità d’Italia. In particolare la storia della mia Napoli e della Sicilia tra ‘ 800 e ‘ 900. Adoro Lev Tolstòj e Honoré de Balzac. Di loro ho letto tutto. E poi Leonardo Sciascia».

Se la sua vita fosse un’opera letteraria, quale sarebbe?

«Tante insieme: penso a Il crogiuolo, il dramma di Arthur Miller, con la sua caccia alle streghe. Ma anche a Franz Kafka. E a Gioacchino Murat, soprattutto per la sua morte».

A proposito di morte, ci pensa mai?

«Certo… Anzi, è un pensiero costante, non c’è giorno che non mi passi nella testa. Però con molta serenità e consapevolezza. Ho un solo problema vero, prima di morire: la mia riabilitazione.

Quale sarà il suo testamento spirituale?

«Non fare mai del male. Mai. A nessuno».

Chi è Bruno Contrada e perché si parla di "Caso Contrada", scrive Francesco Trotta. Per comprendere l'importanza di quello che è passato alla storia come "Caso Contrada" partiamo da un'affermazione fatta dal giudice Paolo Borsellino poche settimane prima di essere ucciso nella strage di Via D'Amelio, riportata dal fratello Salvatore: "Solo a fare il nome di quell'uomo si può morire". Il nome ovviamente è quello di Bruno Contrada, poliziotto dal 1958, dal 1973 a capo della Squadra Mobile di Palermo, che lascia nel 1976 [al suo posto subentra Boris Giuliano] per entrare nella Criminalpol. E poi nel 1982 il passaggio al SISDE, i Servizi Segreti, di cui scala i vertici dirigenziali (vicecapo reparto del SISDE) fino al 1992. E' il 24 dicembre di quell'anno il giorno in cui per Contrada si aprono le porte del carcere. Un mese prima dell'arrivo di Giancarlo Caselli alla procura di Palermo e dell'arresto di Totò Riina (e venti giorni dopo il suicidio di Domenico Signorino, giudice "chiacchierato" del Maxiprocesso). Dietro le sbarre Contrada ci sarebbe restato per 31 mesi, in custodia cautelare: "non per l'accanimento della Procura o di un solo gip, ma perché le esigenze cautelari vengono confermate anche da tre giudici del Tribunale del Riesame e da dieci di due diverse sezioni della Cassazione" (Intoccabili, S. Lodato – M. Travaglio).

Di cosa è accusato Bruno Contrada? Il poliziotto è accusato di aver favorito, attraverso la sua grave condotta, Cosa Nostra. Azioni illecite, perpetrate come funzionario di Polizia, come dirigente dell'Alto Commissariato per il coordinamento della lotta alla criminalità mafiosa e, infine, presso il SISDE. Azioni che configurano reati di concorso in associazione per delinquere pluriaggravata ex artt. 110 e 416 commi 4 e 5 c.p., commessi in Palermo e altrove fino al 29 settembre 1982 e da tale data in poi (dopo l'entrata in vigore della fattispecie incriminatrice, introdotta con la Legge 13 settembre 1982 n.646) di concorso in associazione per delinquere di tipo mafioso pluriaggravata prevista dagli artt. 110 e 416bis comma 4 e 6 c.p. Contrada, in particolare, è accusato di aver fornito "ad esponenti della commissione provinciale di Cosa Nostra notizie riservate, riguardanti indagini ed operazioni di polizia, da svolgere nei confronti dei medesimi e di altri appartenenti all'associazione".

La vicenda giudiziaria. Il 5 aprile 1996 Contrada veniva condannato in primo grado a 10 anni di reclusione e 3 di libertà vigilata. Il 4 maggio 2001 la Corte d'appello di Palermo annullava la sentenza di primo grado perché il fatto non sussisteva. Il 12 dicembre 2002 la Cassazione annullava la sentenza di secondo grado e ordinava un nuovo dibattimento presso un'altra sezione della Corte d'appello, che si concludeva nel 2006, confermando la sentenza di condanna di primo grado nei confronti dell'imputato. Sentenza che diventava definitiva per opera della Cassazione il 10 maggio 2007. L'11 ottobre 2012 Bruno Contrada viene scarcerato. Complessivamente trascorre 4 anni in carcere e 4 agli arresti domiciliari. Gli altri due gli vengono condonati per buona condotta. L'11 febbraio 2014 la Corte europea dei diritti dell'uomo condannava lo Stato italiano, a causa della ripetuta mancata concessione dei domiciliari a Contrada (da luglio 2008), che era gravemente malato e malgrado la palese incompatibilità del suo stato di salute col regime carcerario fosse una violazione dell'art. 3. Il 13 aprile 2015 la Corte europea condannava nuovamente lo Stato italiano perché Contrada non sarebbe dovuto essere condannato per concorso esterno in associazione mafiosa dato che all'epoca dei fatti (dal 1979 al 1988) tale "reato non era sufficientemente chiaro, né prevedibile da lui. Contrada non avrebbe potuto conoscere le pene in cui sarebbe incorso". L'avvocato difensore di Bruno Contrada, Stefano Giordano, ha presentato negli ultimi anni quattro richieste di revisione del processo, tutte respinte. Infine nell'ottobre del 2016 la difesa ha presentato richiesta di revoca della condanna (chiedendo che venisse recepito il dettato della Corte europea), rigettata inizialmente dalla Corte d'appello di Palermo (che affermava che l'interpretazione della stessa Corte europea fosse incompatibile con l'ordinamento italiano), è stata accolta dalla Cassazione che ha annullato la condanna di Contrada perché "ineseguibile e improduttiva di effetti penali".

I fatti (che hanno portato alla condanna di Contrada) restano, come ha dichiarato il Procuratore Nazionale Antimafia, Franco Roberti. Il processo contro Bruno Contrada è stato istruito sulla base di numerosi testimoni e copioso materiale documentario, in particolare attraverso l'esame di più collaboratori di giustizia, ritenuti attendibili e membri di primo piano di Cosa Nostra, come Tommaso Buscetta, Francesco Marino Mannoia, Gaspare Mutolo, Rosario Spatola, Salvatore Cancemi, ecc. In sintesi venivano provate le condotte illecite di favoreggiamento a vantaggio di soggetti mafiosi noti a Contrada (rilascio di patenti di guida e porto d'armi); di agevolazione alla latitanza di mafiosi, primo fra tutti il capo mafia del mandamento di Partanna-Mondello, Rosario Riccobono, poi ucciso da Totò Riina nel 1982; di comunicazione di notizie di indagini programmate a carico di appartenenti a Cosa Nostra; di ripetute frequentazioni con soggetti condannati o indagati per appartenenza mafiosa. E' bene ribadire, come fa anche la sentenza di condanna della Cassazione, che le dichiarazioni dei pentiti trovavano riscontro da fonti testimoniali e documentali autonome e indipendenti. L'indagine della procura palermitana, infatti, si focalizzava su nove episodi assai significativi. La cosiddetta vicenda Gentile con la perquisizione eseguita il 12 aprile 1980 presso l'abitazione dell'allora latitante Salvatore Inzerrillo, diretta dal funzionario della Squadra mobile di Palermo Renato Gentile, che riceve moniti e richiami da Contrada, resosi interprete delle doglianze dei soggetti perquisiti per l'irruenza attuativa dell'intervento investigativo; l'operazione di polizia eseguita il 5 maggio 1980 con l'arresto di indagati di mafia in flagranza di reato pertinente l'associazione per delinquere, da cui il questore di Palermo Vincenzo Immordino estromette Contrada (cui in origine era stato affidato l'incarico di preparare un rapporto che preludesse alla detta operazione), segnalandone agli organi superiori il contegno di sostanziale inerzia investigativa; l'agevolazione dell'allontanamento dall'Italia del mafioso italo americano John Gambino, nel contesto (Ottobre 1979) del simulato sequestro di persona di Michele Sindona, poco tempo dopo l'uccisione di Giorgio Ambrosoli e Boris Giuliano; i rapporti critici con Boris Giuliano nell'ultimo periodo di vita di quest'ultimo anche in riferimento ad un incontro che Giuliano avrebbe avuto con Giorgio Ambrosoli poco prima che questi fosse ucciso, in merito ad indagini e accertamenti che entrambi stavano svolgendo; l'aver favorito il rinnovo del porto d'armi ad Alessandro Vanni Calvello, indagato per associazione mafiosa; i contrasti interpersonali tra Contrada e i funzionari di polizia Cassarà, Montana e Montalbano; la conversazione e il successivo incontro con Antonino Salvo, indagato per associazione mafiosa e per l'omicidio del giudice istruttore Rocco Chinnici; la vicenda Ziino, in cui Contrada ebbe più incontri con Gilda Ziino, vedova dell'ing. Roberto Parisi, vittima di omicidio di mafia: il giorno stesso in cui fu ucciso Parisi e subito dopo il giorno in cui la vedova depose di fronte al giudice Giovanni Falcone; l'agevolazione della fuga da Palermo di Oliviero Tognoli, indagato per riciclaggio di denaro mafioso e fermato a Lugano. 

Le parole dei collaboratori di giustizia, inoltre, gettano ancora più inquietudine sull'operato svolto da Contrada a partire dalla fine degli anni Settanta. Francesco Marino Mannoia e Angelo Siino riferiscono di incontri tra Stefano Bontade, allora capo di Cosa Nostra, e Contrada, per tramite, tra le altre cose, del Conte Arturo Cassina, imprenditore edile di Palermo; Salvatore Cancemi afferma di aver appreso da Pippo Calò (allora capomandamento di Porta Nuova) che Contrada era vicino a Bontade, anzi che, testualmente, il poliziotto era "in mano" a Bontade e a Rosario Riccobono, e che, alla fine della guerra di mafia, tutti i canali informativi istituzionali erano di fatto passati alla corrente corleonese; Tommaso Buscetta, per altro, giunto latitante a Palermo, era stato rassicurato della "tranquillità" della zona di Partanna-Mondello, in ragione di segnalazioni da parte di Contrada di eventuali operazioni di polizia; parole confermate anche da Rosario Spatola, che ricorda di aver visto Contrada e Riccobono ad un tavolo appartato di un ristorante di Sferracavallo; Giuseppe Marchese afferma addirittura di aver aiutato Totò Riina durante un trasferimento da un covo ad un altro, grazie ad una segnalazione di Contrada circa una perquisizione che sarebbe stata fatta nella sua zona di competenza. Ma è, forse, Gaspare Mutolo, nell'udienza del 21 febbraio 1996 durante il processo sulla strage di Via d'Amelio, a pronunciare le parole più pesanti: "[...] il giudice Borsellino mi viene a trovare, io ci faccio un discorso molto chiaro [...] e ci ripeto, diciamo, che io sapevo su alcuni giudici e su alcuni funzionari dello Stato molto importanti, però ci dico che non volevo verbalizzare niente se prima io non parlavo della mafia, ma diciamo li ho avvisati per dirci “c'è questo pericolo, insomma, se si sa qualche cosa, qua, insomma, finisce male”. Allora mi ricordo probabilmente [...] che il dottor Borsellino la prima volta che mi interroga, riceve una telefonata, mi dice “sai Gaspare, debbi smettere perché mi ha telefonato il Ministro”, “va beh, dice, manco una mezzoretta e vengo” [...]. Quindi manca qualche ora, 40 minuti, cioè all'incirca un’ora e mi ricordo che quando è venuto, è tutto arrabbiato, agitato, preoccupato, ma che addirittura fumava così distrattamente che aveva due sigarette in mano. Io insomma, non sapendo che cosa... “dottore, ma che cosa ha?” e molto lui preoccupato e serio, mi fa che, viceversa del ministro, si è incontrato con il dottor Parisi e il dottor Contrada... mi dice di scrivere di mettere a verbale quello che gli avevo detto oralmente, cioè che il dottor Contrada, diciamo, era colluso con la mafia, che il giudice Signorino, diciamo, era amico dei mafiosi... amico... insomma che tutto quel che sapeva gli diceva, ci ho detto “guardi noi più di questo non dobbiamo verbalizzare niente, perché” ci dissi “io... insomma a me mi ammazzano e quindi a me interessa che prima io verbalizzo tutto quello che concerne l'organigramma mafioso”. Io, appena finisco di parlare dei mafiosi, possiamo parlare di qualsiasi cosa, che a me non mi interessa più. L'ultima sera che ci lasciamo con il dottor Borsellino è stato, mi sembra, il venerdì, dopo due giorni il giudice... salta in aria". 

Francesco Trotta – Cosa Vostra. Fonti: Intoccabili di Saverio Lodato e Marco Travaglio; La Trattativa di Maurizio Torrealta; Sentenza di rigetto della Cassazione – 10 maggio 2007

Bruno Contrada. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Bruno Contrada (Napoli, 2 settembre 1931) è un ex funzionario, agente segreto ed ex poliziotto italiano; è stato dirigente generale della Polizia di Stato, numero tre del Sisde, capo della Mobile di Palermo, e capo della sezione siciliana della Criminalpol. Il suo nome è associato ai presunti rapporti tra servizi segreti italiani e criminalità, culminati nella strage di via d'Amelio dove morì in un attentato il giudice Paolo Borsellino che in quel periodo indagava sui collegamenti tra mafia e Stato, e alla cosiddetta "zona grigia" tra legalità e illegalità. Contrada si è dichiarato collaboratore e amico di Borsellino, ma i familiari del magistrato assassinato hanno smentito fermamente. Anche Giovanni Falcone pareva non si fidasse di lui da tempo. In gioventù fu amico e collaboratore di Boris Giuliano, la cui moglie ha espresso invece perplessità sulla colpevolezza di Contrada. Arrestato il 24 dicembre 1992, Contrada, che si è dichiarato estraneo al reato, è stato condannato in via definitiva nel 2007 a 10 anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa. Nel 2011-12 venne respinta la richiesta di revisione del processo e sempre nel 2012 finì di scontare la pena. L'11 febbraio 2014 la Corte Europea dei diritti dell'uomo (CEDU) ha condannato lo Stato italiano poiché ha ritenuto che la ripetuta mancata concessione degli arresti domiciliari a Contrada, sino al luglio 2008, pur se gravemente malato e malgrado la palese incompatibilità del suo stato di salute col regime carcerario, fosse una violazione dell'art. 3 Cedu (divieto di trattamenti inumani o degradanti). Il 13 aprile 2015 la stessa Corte europea dei diritti umani ha condannato lo Stato italiano stabilendo un risarcimento per danni morali da parte dello Stato italiano perché non doveva essere condannato per concorso esterno in associazione mafiosa dato che, all'epoca dei fatti (1979-1988), il reato non era ancora previsto dall'ordinamento giuridico italiano (principio di nulla poena sine lege), e nella sentenza viene affermato che «l'accusa di concorso esterno non era sufficientemente chiara». In seguito a ciò, nel giugno 2015 è iniziata la revisione del processo di Contrada, poi respinta il 18 novembre. Gli avvocati di Contrada hanno presentato istanza di revoca della condanna, respinta per due volte dalle corti d'appello, e infine accolta dalla corte di Cassazione nel 2017. Entrato in Polizia nel 1958, frequentò a Roma il corso di istruzione presso l'Istituto superiore di polizia. Dopo alcuni ruoli nel Lazio, nel 1973 gli venne affidata la direzione della squadra mobile di Palermo. Contrada fu uno degli investigatori che indagarono sul caso della scomparsa di Mauro De Mauro, giornalista rapito e assassinato dalla mafia nel 1970. Secondo lui e secondo Boris Giuliano la scomparsa era legata alle indagini di De Mauro sull'attentato in cui morì Enrico Mattei, presidente dell'ENI, morto ufficialmente in un incidente aereo, mentre altri come Carlo Alberto Dalla Chiesa pensavano fosse dovuta all'inchiesta sulla droga che stava svolgendo. In seguito nella vicenda entrarono anche i servizi segreti; alcuni hanno avvicinato la figura di un certo "signor X" (forse Vito Guarrasi) a Contrada. Insieme a Contrada, Dalla Chiesa e Giuliano lavorava al caso anche Giuseppe Russo; Dalla Chiesa, Giuliano e Russo saranno in anni seguenti assassinati dalla mafia, anche se i metodi dell'ultimo saranno contestati e su di lui graveranno alcune pesanti ombre (come per l'indagine sulla strage di Alcamo Marina). Nel 1976 lasciò a Giuliano la guida della mobile palermitana per passare alla Criminalpol. Nel 1982 Contrada transitò nei ruoli del SISDE con l'incarico di coordinarne i centri della Sicilia e della Sardegna. Nel settembre del 1982 viene nominato dal prefetto Emanuele De Francesco Capo di Gabinetto dell'Alto Commissario per la lotta contro la mafia, incarico che ricopre fino al dicembre del 1985; Nel 1986 fu chiamato a Roma presso il Reparto Operativo della Direzione del SISDE. Tra le azioni da lui dirette, numerosi arresti di trafficanti di droga e una vasta operazione contro un'organizzazione mafiosa che faceva capo alle famiglie dei Cursoti, dei Madonia e ai Corleonesi, che aveva come base operativa l'autoparco di Milano. Il 3 luglio 1993 (quindi sette mesi dopo l'arresto di Bruno Contrada) l'attività informativa da lui avviata portò al sequestro di beni mobili ed immobili, titoli di credito ed azioni che facevano capo a Totò Riina e Bernardo Provenzano. Contrada si fece anche promotore di una riorganizzazione del SISDE, sostituendo la prevalente funzione antieversiva con una specifica funzione antimafia, dal momento che la criminalità mafiosa aveva raggiunto livelli tali da poter essere ritenuta destabilizzante per le istituzioni; in tal caso ci sarebbe però stato un conflitto di attribuzione con la stessa Direzione Investigativa Antimafia, con cui ci furono contrasti.

Il 24 dicembre 1992, mentre si apprestava a trascorrere il Natale con la famiglia, venne arrestato, con mandato di cattura richiesto dal procuratore Gian Carlo Caselli, perché accusato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso (estensione giurisprudenziale dell'art. 416 bis Codice penale) sulla base delle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia (tra i quali Gaspare Mutolo, Tommaso Buscetta, Giuseppe Marchese, Salvatore Cancemi) e rimase in regime di carcere preventivofino al 31 luglio 1995, detenuto, limitatamente a questo periodo, nel carcere militare di Forte Boccea (Roma). «Nel 1979 Riccobono mi disse che potevo nascondermi nel territorio della sua famiglia. E soggiunse: io ci ho il dottor Contrada e posso avere tutte le informazioni...» (Tommaso Buscetta).

Il primo processo a suo carico, iniziato il 12 aprile 1994, si concluse il 19 gennaio 1996, quando, al termine di una requisitoria protrattasi per ventidue udienze, il pubblico ministero Antonio Ingroia chiese la condanna a dodici anni. Il 5 aprile 1996 i giudici disposero dieci anni di reclusione e tre di libertà vigilata. Il giudice Antonino Caponnetto disse che «quando Contrada venne interrogato sull'omicidio Mattarella mi rimase impresso un gesto di Falcone: una volta che Contrada ebbe terminato, entrambi, io e Falcone, ci alzammo per stringergli la mano. Poi Falcone la fissò per qualche istante e la pulì vistosamente sui pantaloni. Era un chiaro segno di ribrezzo». Quando gli fu riferito che ciò non poteva essere accaduto (l'interrogatorio a Contrada non era stato verbalizzato dall'ufficio istruzione di Falcone ma dal procuratore della Repubblica Vincenzo Pajno) Caponnetto cambiò versione, ammettendo che forse si era sbagliato, che Falcone non lo fece in aula ma, “eventualmente”, nel suo studio. L'allora Capo della Polizia Vincenzo Parisi[19] si prodigò invece per difendere l'indagato. Antonino Caponnetto giudicò incauta la posizione assunta da Parisi. Luciano Violante, nel frattempo divenuto presidente della Commissione parlamentare Antimafia, parlò in proposito di "caratteristica strutturale" circa il rapporto di Cosa nostra con il potere. Secondo Mutolo, la mafia era un'organizzazione dalla spiccata natura anticomunista, che aveva servito la causa atlantica sia portando voti alla Democrazia Cristiana, sia contrastando con ogni mezzo le iniziative delle formazioni progressiste (l'esempio più famoso nella strage di Portella della Ginestra). Questa attitudine aveva come contropartita una sorta di tacita pax mafiosa: per anni, lo Stato aveva evitato di combattere efficacemente contro quell'organizzazione criminale. A metà degli anni 1970 qualcosa era cambiato, poiché la politica sembrava aver accantonato i progetti di colpo di Stato. Nel mutato scenario, si osava attaccare i vertici mafiosi avvalendosi dello strumento giuridico dell'associazione per delinquere. L'incriminazione per tale reato, in buona sostanza, esponeva i boss al rischio di essere coinvolti nella responsabilità per ogni misfatto importante che accadesse nei rispettivi "mandamenti". L'analisi mafiosa della situazione aveva naturalmente individuato dei soggetti responsabili: oltre al medesimo Contrada, Boris Giuliano e Tonino De Luca. Nei confronti di questi uomini dello Stato, secondo Mutolo, la mafia avrebbe adottato una strategia del bastone e della carota: prima il tentativo di minaccia/corruzione e in seguito l'omicidio. Mutolo sostiene di aver appreso da Rosario Riccobono che Contrada "era ormai passato a disposizione della mafia". Dalla medesima fonte, Mutolo sapeva che il primo mafioso di rango a stabilire un rapporto di amicizia con Contrada sarebbe stato Stefano Bontate, avvalendosi dei buoni uffici prestati dal conte Arturo Cassina, una sorta di vicino di casa per il mafioso, nonché confratello del funzionario SISDE presso l'Ordine del Santo Sepolcro. Questa duplicità di relazioni risulta dalle carte processuali. L'Ordine del Santo Sepolcro confermò l'appartenenza dei due soggetti che abbiamo richiamato (d'altronde le liste di quella confraternita sono di pubblico dominio), ma smentì che avessero un rapporto personale. Al contrario, i magistrati ritennero non solo l'esistenza di questo contatto, ma anche una sorta di collaborazione piuttosto spinta tra Contrada ed il nominato Riccobono, al punto che più volte il secondo sarebbe stato informato dal primo dei vari tentativi di catturarlo ad opera della polizia, il tutto attraverso l'avvocato Cristoforo Fileccia. Il 4 maggio 2001 la Corte d'Appello di Palermo lo assolse perché il fatto non sussiste.

Il 12 dicembre 2002 la Corte di Cassazione annullò la sentenza di secondo grado, ordinando un nuovo processo, davanti ad una diversa sezione della Corte d'Appello di Palermo. Al termine del nuovo processo, il 25 febbraio 2006 i giudici di secondo grado confermarono, dopo 31 ore di camera di consiglio, la sentenza di primo grado che condannava Bruno Contrada a 10 anni di carcere e al pagamento delle spese processuali. Il 10 maggio 2007 la Corte di cassazione ha confermato la sentenza di condanna in appello. La corte escluse però che avesse agito per denaro. Contrada venne rinchiuso nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta.

Il 24 settembre 2011 la Corte d'appello di Caltanissetta ritiene che «non è manifestamente infondata» la richiesta di revisione del processo, ma l'8 novembre seguente la Corte dichiarò definitivamente inammissibile la richiesta di revisione del processo. Il 5 giugno 2012 la Corte di Cassazione dichiara inammissibile la richiesta di revisione del processo.

Egli si dichiara innocente e afferma di aver lavorato a contatto con informatori legati alla mafia per aiutare le indagini, secondo la prassi di infiltrazione tipica dei servizi segreti, dei poliziotti sotto copertura e degli ambienti militari; ottenere la fiducia di alcuni mafiosi sarebbe servito per arrivare ad incastrarli. Contrada ha dichiarato difatti nel 2015: «Stavo per prendere Provenzano e fui fermato. Ora voglio la revisione della sentenza di condanna...Mi hanno distrutto la vita, avevo i miei confidenti ma non ho mai visto un boss... So che il mio lavoro ai Servizi era inviso alla direzione antimafia». «Dobbiamo contestualizzare il mio processo, quel '92, l'abbattimento di quel sistema di Stato, di governo. Bisogna tenere conto delle invidie nella mia amministrazione, delle aspirazioni di carriera, del senso di rivalsa nei miei confronti. Il colpo di genio che hanno avuto quelli che mi hanno inquisito è stato tenermi 31 mesi e 7 giorni in regime di carcere preventivo, limitando le mie possibilità di difesa e determinando nell'opinione pubblica la convinzione che, se ero stato incarcerato, qualcosa dovevo avere pur fatto. Tanti imputati di concorso esterno aspettano liberi il processo. Io invece dovevo stare dentro, unico detenuto come Rudolf Hess a Spandau, a oltre 60 anni senza nemmeno un water decente perché in cella c'era il bagno alla turca. E non mi sono mai lamentato, e non ho mai chiesto niente, non mi facevo nemmeno portare cibo da casa. Perché non sono state prese in considerazione le testimonianze di 142 uomini delle istituzioni? Cinque capi della Polizia, direttori del Sisde, prefetti, questori, generali della Guardia di Finanza. E poi i tanti miei colleghi che sono venuti a testimoniare per me, quelli che lavoravano con me giorno e notte. Erano testimoni della verità dei fatti e li hanno disprezzati. »

(Bruno Contrada nel 2015)

Secondo Contrada l'accusa fu una vendetta dei pentiti, della mafia e di alcuni magistrati: «Chi combatte la mafia rischia il fango...Per lo Stato ho dato tutto. Io amico della mafia? Se solo ci penso, ci sto ancora male. Ne sono uscito distrutto nel morale, nel fisico.» Secondo lui i giudici hanno «ritenuto prevalenti le accuse di un nugolo di pendagli da forca, manigoldi, criminali sanguinari che non potevano farsi scrupoli nell’accusare e calunniare uno sbirro che odiavano, che li ha fatti arrestare e condannare. Hanno dato retta a questa gente e non a 140 uomini di Stato venuti al processo a raccontare la verità».

A fine dicembre 2007 l'avvocato difensore di Contrada, Giuseppe Lipera, ha inviato al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano una "accorata supplica" al fine di sollecitarlo a concedere la grazia in mancanza di un'esplicita richiesta da parte dell'interessato che, ritenendosi innocente, non intende inoltrarla. In un messaggio, Contrada ha ribadito: «Non ho mai chiesto, né chiedo, né chiederò mai la grazia a quello Stato da cui mi sarei aspettato un grazie e non una grazia». Contrari a ipotesi di grazia si sono dichiarati Rita Borsellino, l'Associazione dei familiari delle vittime di via dei Georgofili, la Fondazione Caponnetto e la Fondazione Scopelliti. Favorevoli furono il ministro Clemente Mastella e il presidente Napolitano stesso (che proposero l'avvio dell'iter), Fabrizio Cicchitto (Forza Italia), Marco Pannella(Radicali), Vittorio Sgarbi, Gianfranco Rotondi (DCA), Francesco Storace (La Destra).

Il guardasigilli Clemente Mastella, ha ricordato che «la decisione circa l'istanza di differimento della pena per ragioni di salute è di esclusiva competenza della magistratura di sorveglianza». Il 28 dicembre 2007 il magistrato di sorveglianza dispone, in maniera del tutto inattesa, il ricovero di Contrada presso il reparto detenuti dell'Ospedale Cardarelli di Napoli, ma il giorno dopo questi chiede di tornare in carcere a causa delle condizioni del reparto giudicate «da incubo» dal suo avvocato. Il 2 gennaio 2008 rientrando in carcere ha assegnato mandato al proprio legale di presentare istanza di revisione del processo che lo ha condannato in via definitiva a 10 anni di detenzione. L'8 gennaio il Tribunale di Napoli ha respinto ogni istanza di differimento della pena insieme alla richiesta degli arresti domiciliari. Il 10 gennaio 2008 il Presidente della Repubblica ha inviato una lettera al ministero della Giustizia per revocare l'avvio dell'iter, ponendo fine, di fatto, alla querelle giudiziaria. Il 16 aprile 2008 chiede che gli venga praticata l'eutanasia. La richiesta è stata presentata al giudice tutelare del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere dalla sorella, che ha spiegato che Contrada «vuole morire» perché «questa sembra l'unica strada percorribile per mettere fine alle sue infinite pene». Il 21 luglio dello stesso anno i suoi legali hanno diffuso la notizia che Contrada in carcere sarebbe dimagrito di 22 chili per dimostrare l'incompatibilità dell'ex dirigente del Sisde col regime carcerario. I familiari ed il legale hanno omesso di dichiarare che il dimagrimento del detenuto era derivante dal suo rifiuto di nutrirsi. Il 24 luglio 2008 sono stati concessi a Contrada gli arresti domiciliari per motivi di salute; al provvedimento è seguita la scarcerazione. Il provvedimento di concessione dei domiciliari ha una durata di 6 mesi e prevede l'obbligo di domicilio, negando la possibilità di recarsi a Palermo in quanto i giudici confermano la pericolosità sociale di Bruno Contrada. A Salvatore Borsellino (fratello di Paolo) che dichiarò la sua disapprovazione per la sua scarcerazione, ha risposto con una querela.

Il fratello di Bruno Contrada, Romano, si suicidò nell'aprile 2014 a Bagnoli con un colpo di pistola in bocca, seduto su un muretto, in via della Liberazione. Accanto al corpo venne rinvenuto il biglietto, scritto a mano, con il testo "sono stanco di vivere, non resisto più". Nel 2008 Romano Contrada - ex impiegato della Sip, invalido al cento per cento a causa di una grave malattia - aveva rivolto un appello al Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, per la scarcerazione del fratello Bruno.

L'11 ottobre 2012 viene scarcerato e pochi giorni dopo pubblica per i tipi Marsilio la storia della sua vicenda nel volume La mia prigione. In tutto Contrada, su 10 anni di carcere previsti, ne ha scontati quattro in carcere e quattro ai domiciliari mentre i restanti due gli sono stati condonati per buona condotta. All'uscita del carcere rese la seguente dichiazione: «Non odio nessuno, ma sono certo che prima o poi verrà il momento, e probabilmente non ci sarò più, che la verità sulla vicenda sarà ristabilita e qualcuno allora dovrà pentirsi del male che ha fatto a me e anche alle istituzioni.» Nonostante la fine della pena, non gli vennero restituiti i pieni diritti civili e i politici.

L'11 febbraio 2014 la Corte europea dei diritti dell'uomo (CEDU), organo del Consiglio d'Europa, ha condannato (sentenza Contrada v. Italia, n.1) lo Stato italiano poiché ha ritenuto che la ripetuta mancata concessione dei domiciliari a Contrada, sino al luglio 2008, pur se gravemente malato e malgrado la palese incompatibilità del suo stato di salute col regime carcerario, fosse una violazione dell'art. 3 (divieto di trattamenti inumani o degradanti)della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali di cui l'Italia è firmataria e a cui la sua giurisdizione è vincolata. Gli sono stati refusi € 10.000,00 per i danni morali, € 5.000,00 per il rimborso spese oltre oneri accessori ed interessi legali calcolati come nella generalità delle cause presso la CEDU. Il 13 aprile 2015 (Contrada v. Italia, n.2) la CEDU ha condannato lo Stato italiano stabilendo un risarcimento per danni morali di 10.000 euro a Bruno Contrada da parte dello Stato italiano (contro gli 80.000 chiesti da Contrada) per i danni morali e 2.500 euro (contro i 30.000 richiesti) per le spese processuali sostenute perché non doveva essere condannato per concorso esterno in associazione mafiosa dato che all'epoca dei fatti (1979-1988), il reato non era codificato e «l'accusa di concorso esterno non era sufficientemente chiara». Prosegue dicendo che «il reato contestato di concorso esterno è stato il risultato di un'evoluzione giurisprudenziale iniziata alla fine degli anni '80 del ‘900 e che si è consolidata nel 1994, con la sentenza della Cassazione “Demitry”. Così, all'epoca in cui i fatti contestati a Contrada sono avvenuti (1979-1988) il reato non era sufficientemente chiaro, né prevedibile da lui. Contrada non avrebbe potuto conoscere le pene in cui sarebbe incorso». Per i giudici di Strasburgo l'Italia ha violato anche l'articolo 7 della convenzione dei diritti dell'uomo, che si basa sul principio “nulla poena sine lege” (principio di irretroattività), cioè che «nessuno può essere condannato per un'azione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale». L'unico reato contestabile, se ritenuto colpevole, sarebbe stato quello di favoreggiamento personale. Nel luglio 2015 il governo italiano ha presentato ricorso alla Grande Chambre, che però a settembre è stato respinto dai giudici europei.

In seguito alla pronuncia europea, Contrada ha presentato per la quarta volta richiesta di revisione del processo. Per effetto della pronuncia della Corte costituzionalesul caso Dorigo, la Cassazione ha ammesso automaticamente la richiesta al tribunale di Caltanissetta, che ha accolto l'istanza di revisione, riservandosi di giudicare. La decisione, prevista per il 18 giugno 2015, è in seguito slittata ad ottobre; il presidente del collegio giudicante Aloisi e il giudice a latere della corte d'appello di Caltanissetta si sono infatti astenuti, perché avevano in precedenza già respinto la richiesta e hanno deciso di non pronunciarsi due volte sullo stesso fatto. L'inizio del processo di revisione è stato quindi fissato prima per il 15 ottobre 2015 e poi per il 18 novembre, con la corte chiamata a pronunciarsi per un nuovo respingimento o un nuovo processo con tre esiti possibili (assoluzione per non aver commesso il fatto, conferma della condanna per il reato di concorso esterno, proscioglimento per intervenuta prescrizione del reato di favoreggiamento).

La Corte d'Appello di Caltanissetta ha respinto la richiesta di revisione del processo il 18 novembre 2015, confermando la sentenza definitiva. La sentenza è stata confermata in Cassazione. Contrada e il suo legale Stefano Giordano hanno presentato una nuova richiesta alla corte d'appello di Palermo nell'ottobre 2016, perché venga recepita la pronuncia europea, tramite la revoca della condanna. La difesa ha anche inviato una lettera al Comitato dei ministri del consiglio d'Europa perché "vigilino sull'applicazione della sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo". La Corte d'appello di Palermo ha respinto il 27 ottobre la richiesta di revoca, non riconoscendo le motivazioni giurisprudenziali della CEDU, dichiarando la revoca inammissibile perché la corte europea si baserebbe su «un'interpretazione comunitaria di fatto incompatibile con l'ordinamento italiano». Il 7 luglio 2017 la corte di Cassazione revoca, tramite annullamento senza rinvio, la condanna per concorso esterno in associazione mafiosa a Contrada, dichiarandola "ineseguibile e improduttiva di effetti penali", in accoglimento della sentenza di Strasburgo.

Bruno Contrada, uno scandalo della giustizia italiana. La Corte di Cassazione ha annullato la sentenza di condanna per sostegno esterno ad associazione mafiosa all'ex dirigente del Sisde arrestato 25 anni fa, scrive il 7 Luglio 2017 "Il Foglio". La Corte di Cassazione ha annullato la sentenza di condanna a Bruno Contrada per sostegno esterno ad associazione mafiosa. L'ex dirigente del Sisde era stato arrestato 25 anni fa e ha scontato 10 anni di carcere prima che nell'aprile del 2015 la Corte europea per i diritti dell'uomo di Strasburgo giudicasse la sentenza illegittima in quanto Contrada era stato giudicato colpevole per concorso esterno in associazione mafiosa, accusa che, secondo la Corte "non era sufficientemente chiara e prevedibile per Contrada ai tempi in cui si sono svolti gli eventi in questione". I giudici romani hanno accolto il ricorso del legale di Contrada, Stefano Giordano, che aveva impugnato il provvedimento con cui la Corte d'appello di Palermo aveva dichiarato inammissibile il ricorso con cui si chiedeva la revoca della sentenza di condanna per concorso esterno in associazione mafiosa. La Cassazione ha quindi dichiarato, come si legge nel provvedimento, "ineseguibile e improduttiva di effetti penali la sentenza emessa nei confronti di Contrada dalla Corte di appello di Palermo in data 25 febbraio 2006, irrevocabile in data 10 maggio 2007". Così Giuliano Ferrara aveva riassunto la storia processuale di Contrada l'indomani della sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo: "Bruno Contrada è l’italiano più simile a Joseph K., disperato eroe di Franz Kafka, quello che “doveva aver fatto qualcosa perché una mattina fu tratto in arresto”. Alla vigilia di Natale del 1992, anno delle infami stragi palermitane, fu catturato, rinchiuso come alto funzionario dei servizi di sicurezza in un carcere speciale, seppellito da accuse tragicamente false e intrinsecamente ambigue, che la giustizia alternatamente confermò, smentì e confermò in via definitiva attraverso la Cassazione. Molti anni di carcere, una vita e una salute distrutte, un senso dell’onore personale avvilito e dissolto nella fornace della gogna di stato, della calunnia e del pettegolezzo maligno, in spregio al “ragionevole dubbio” (e più che questo) generato da un’assoluzione in giudizio e da altre circostanze".

Bruno Contrada, il reato che non c'è e la legge (sui pentiti) che c'è. Luciano Violante lo fece notare 25 anni fa, dopo l'arresto del poliziotto: all'epoca gli agenti lavoravano con gli “informatori”. Ma poi non disse altro, scrive Massimo Bordin l'8 Luglio 2017 su "Il Foglio". “Bisogna leggere le motivazioni”. Lo dicono sempre dopo una sentenza non prevista e nel caso di Bruno Contrada suona meno ipocrita che in altre occasioni. È innegabile che la faccenda sia complicata e a mostrarlo basta un breve riassunto. Imputato per “concorso esterno” con la mafia, il funzionario di polizia, e poi dirigente del servizio segreto per l’interno, fu prima condannato, poi assolto in appello, poi la cassazione annullò e allora fu ricondannato in appello e la cassazione fu soddisfatta. Provate a paragonare un simile ambaradam alla formula anglosassone che governa la giustizia: “Al di là di ogni ragionevole dubbio”. Siamo largamente al di qua, ma provate a dire che i tre gradi di giudizio, pressoché automatici, vi ricordano la calcistica “lotteria dei rigori” e allora magistrati, e avvocati, vi salteranno alla gola. “È il massimo del garantismo – diranno – e ce lo invidiano tutti”. Sanno benissimo che quello che invidiano sono gli stipendi dei magistrati. Le parcelle, gli avvocati riescono a farsele pagare in qualsiasi parte del mondo. Ci voleva una corte europea per dirci che non si può essere condannati per un reato che non esisteva nel momento in cui sarebbe stato commesso? Il problema è che quel reato non esiste ancora nel codice. È solo un mix di sentenze di quella cassazione che tutti i magistrati del mondo ci invidiano. Piuttosto c’è qualcos’altro che, all’epoca dei fatti contestati a Contrada, non c’era e oggi c’è: la legge sui pentiti. All’epoca i poliziotti lavoravano con gli “informatori”. Lo fece notare Luciano Violante poche ore dopo l’arresto di Contrada, la vigilia di Natale di 25 anni fa, ma poi non disse altro.

Il reato che non c'è. La Corte di Strasburgo dice che Contrada "non doveva essere condannato" per concorso esterno in associazione mafiosa. Da anni l'Italia "processa le ombre" e fa di un simil-reato la sostanza della persecuzione ingiusta degli innocenti fino a prova contraria, scrive Giuliano Ferrara il 14 Aprile 2015 su "Il Foglio". Strasburgo dixit. Per la Corte europea dei diritti umani Bruno Contrada “non doveva essere condannato” e lo stato deve rifondergli i danni, con una grottesca provvisionale di diecimila euro. Bruno Contrada è l’italiano più simile a Joseph K., disperato eroe di Franz Kafka, quello che “doveva aver fatto qualcosa perché una mattina fu tratto in arresto”. Alla vigilia di Natale del 1992, anno delle infami stragi palermitane, fu catturato, rinchiuso come alto funzionario dei servizi di sicurezza in un carcere speciale, seppellito da accuse tragicamente false e intrinsecamente ambigue, che la giustizia alternatamente confermò, smentì e confermò in via definitiva attraverso la Cassazione. Molti anni di carcere, una vita e una salute distrutte, un senso dell’onore personale avvilito e dissolto nella fornace della gogna di stato, della calunnia e del pettegolezzo maligno, in spregio al “ragionevole dubbio” (e più che questo) generato da un’assoluzione in giudizio e da altre circostanze. La fattispecie del reato imputatogli era la famigerata ipotesi di “concorso esterno in associazione di stampo mafioso”. Non associazione mafiosa, non ce n’erano i minimi presupposti, ma “concorso esterno” (lo stesso odioso capo di reato che è costato la libertà personale a Marcello Dell’Utri, collaboratore di Silvio Berlusconi, rinchiuso da un anno nel carcere di Parma). L’avvocato Giuseppe Lipera, mentre l’ultraottantenne condannato grida con la sua voce rauca lo scandalo che lo ha distrutto, ha nel frattempo ottenuto l’avvio, che è per il prossimo mese di giugno a Caltanissetta, della revisione del processo. Vedremo, ma già la notizia della ripartenza è un botto. Intanto sta risultando chiaro, sul piano di un giudizio etico europeo che è superiore per tempra e senso argomentativo alla giurisprudenza che ha dannato il “mostro”, che negli anni in cui Contrada avrebbe compromesso collusivamente lo stato, di cui era funzionario di altissimo rango nella repressione del crimine organizzato, non esisteva alcuna chiara definizione del reato per cui Contrada è stato condannato, appunto il “concorso”. Un uomo è stato arrestato, avvilito dall’infamia, carcerato e distrutto nel suo onore per qualcosa che all’epoca dei fatti addebitatigli non era reato. E’ noto che la vecchia polizia, ai tempi in cui non tutto era definito abusivamente con la tecnica mal governata del pentitismo o delle intercettazioni a strascico, aveva i suoi confidenti, metteva con coraggio le mani in pasta per catturare e portare a esiti di giustizia i boss mafiosi, attuando una strategia fatta di razionali distinzioni e strumentali abboccamenti. E i boss braccati dai superpoliziotti come Contrada trovarono il modo, in un’epoca di barbarie giuridica, di rivalersi. Il solito Antonio Ingroia, oggi avvocato Ingroia dopo essere stato candidato Ingroia, nella sua veste di allora di pm, aveva imbastito l’accusa che trasformava la pratica di polizia in vigore per una intera epoca storica in una collusione, anzi in un “concorso” collusivo che solo una sentenza della Cassazione, due anni dopo l’arresto di Contrada (1994), definì, quasi la Cassazione avesse il potere di fare una legge, come reato associativo (da quasi tutti considerato flebile nelle premesse logiche e giurisdizionali). Quando si dice la giustizia. Da anni, in processi a politici locali, uomini di stato (Andreotti) e uomini dello stato, trattiamo “le ombre come cosa salda”. E facciamo di un simil-reato la sostanza fin troppo realista della persecuzione ingiusta degli innocenti fino a prova contraria. Gli azzeccagarbugli leggeranno con spirito variabilmente manettaro la sentenza di Strasburgo, ma la sentenza questo dice.

Metodo Clouseau, scrive l'8/07/2017 Mattia Feltri su “La Stampa”. Fermi tutti e tenetevi forte. Quella di Bruno Contrada non è la solita questione di malagiustizia, è un capolavoro allucinogeno. Seguite il labiale. Bruno Contrada, già numero due del Sisde (servizi segreti), viene arrestato il 24 dicembre del 1992 mentre affetta il cappone. È accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. Condannato in primo grado, assolto in appello, assoluzione respinta in Cassazione, nuovo appello e nuova condanna (a dieci anni), che stavolta la Cassazione conferma. Fra carcere e domiciliari, Contrada sconta la pena. Nel 2015 la corte europea dei diritti dell’uomo dice che Contrada non doveva essere né condannato né processato perché, quando lo commise (se lo commise), il reato di concorso esterno non era abbastanza definito perché lui sapesse di commetterlo. Con questa sentenza, vincolante, Contrada va a chiedere la ripetizione del processo prima a Catania e poi a Palermo (non chiedete dettagli sul pellegrinaggio, è troppo), ma riceve due rifiuti. Arriva infine in Cassazione, che non concede un nuovo processo, ma si inventa una terza via. E cioè, fin qui c’erano sentenze di condanna e di assoluzione; ora c’è la sentenza che dichiara «ineseguibile e improduttiva di effetti» la sentenza precedente. Cioè, Contrada non può dirsi innocente, ma ha la fedina penale pulita. Cioè, ancora, la condanna esiste ma non va eseguita e non deve produrre effetti. Anche se è già stata eseguita e di effetti ne ha prodotti: dieci anni di detenzione. Se non siete ancora svenuti, buona giornata.

L’età della pietra, scrive Marco Travaglio il 9 luglio 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Appena il boss stragista Giuseppe Graviano, intercettato nell’ora d’aria, ha dato segni d’insofferenza e lanciato propositi di vendetta per le promesse non mantenute dai tanti che trattarono con Cosa Nostra per conto dello Stato e anche per conto proprio in attesa di farsi essi stessi Stato fra il 1992 e il ’94, nel biennio delle stragi, lo Stato non ha perso tempo e ha subito risposto. Con una sequenza di atti tutti formalmente legittimi, ma tutti impensabili fino a qualche mese fa. 1) La Cassazione ha respinto il diniego del Tribunale di sorveglianza di Bologna alla scarcerazione di Totò Riina, detenuto da 24 anni al 41-bis per scontare 15 ergastoli, invocando il suo diritto a una “morte dignitosa” nel letto di casa sua, come se fosse la cosa più normale di questo mondo. 2) Forza Italia ha chiesto formalmente agli amici del Pd di ammorbidire il nuovo Codice antimafia che allarga le maglie dei sequestri dei beni a chi risponde “soltanto” di corruzione o concussione, delitti sempre più difficili da distinguere da quelli delle nuove mafie. 3) Marcello Dell’Utri ha chiesto di tornare a casa anche lui per fantomatici motivi di salute, anche se dei 7 anni inflittigli per concorso esterno in associazione mafiosa ne ha scontati solo 3. 4) Lo stesso Dell’Utri ha ottenuto il permesso di farsi intervistare su La7 in una saletta del carcere, caso più unico che raro per un condannato detenuto per mafia e mai pentito, per definirsi “prigioniero politico” e benedire il governo Renzusconi prossimo venturo, mentre l’intrepido intervistatore lo chiamava “senatore”. 5) La Cassazione ha annullato le conseguenze della condanna definitiva di Bruno Contrada a 10 anni per concorso esterno in associazione mafiosa, in un “incidente di esecuzione” che non entra nel merito del verdetto e discute la colpevolezza, ma rende “ineseguibile e improduttiva di ogni effetto” la sua stessa pronuncia. E così si associa a quanto stabilito nel 2015 dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, che ritiene di fatto inesistente il reato di concorso esterno prima del 1994, perché fino ad allora (quando la Cassazione si pronunciò a sezioni unite) la giurisprudenza oscillava e gli uomini dello Stato non sapevano che vendersi alla mafia era reato. Il Contrada che oggi politici, tg e giornaloni ignoranti, smemorati o in malafede dipingono come un povero martire innocente e perseguitato per un quarto di secolo dagli aguzzini in toga è l’uomo che una quarantina di giudici di funzioni e sedi diverse fino alla Cassazione, han giudicato colpevole di aver fatto per anni il trait d’union fra Stato e mafia. Non solo per le accuse di una ventina di pentiti (le prime furono di Gaspare Mutolo davanti a Borsellino, assassinato due settimane dopo), ma pure da una gran quantità di autorevolissimi testimoni. Vari giudici raccontarono la diffidenza di Falcone e Borsellino nei confronti di “’u Dutturi”: Del Ponte, Caponnetto, Almerighi, Vito D’Ambrosio, Ayala, oltre a Laura Cassarà, vedova di Ninni (uno dei colleghi di Contrada alla Questura di Palermo assassinati dalla mafia mentre lui vi colludeva). Tutti a ripetere che Contrada passava informazioni a Cosa Nostra e incontrava boss come Rosario Riccobono e Calogero Musso. Nelle sentenze a suo carico si legge che Contrada concesse la patente ai boss Stefano Bontate e Giuseppe Greco; agevolò la latitanza di Totò Riina e la fuga di Salvatore Inzerillo e John Gambino; ebbe rapporti privilegiati con Michele e Salvatore Greco; spifferò segreti d’indagine ai mafiosi in cambio di favori e regali (come i 10 milioni di lire accantonati nel bilancio di Cosa Nostra a Natale del 1981 per acquistare un’auto a una sua intima amica). Decisivo fu il caso di Oliviero Tognoli, l’imprenditore bresciano arrestato in Svizzera nel 1988 come riciclatore della mafia. Secondo Carla Del Ponte, che lo interrogò a Lugano con Falcone, Tognoli ammise che a farlo fuggire dall’Italia era stato Contrada. Ma poi, terrorizzato da quel nome, rifiutò di verbalizzare e in seguito ritrattò. Quattro mesi dopo Cosa Nostra tentò di assassinare Falcone e la Del Ponte all’Addaura. Ora quest’uomo verrà risarcito dallo Stato con soldi nostri per i 10 anni trascorsi in carcere, riavrà a spese nostre la pensione di dirigente della Polizia che gli era stata revocata, oltre al diritto all’elettorato attivo e passivo (potrà votare e anche essere eletto). Ma non solo: tutti i condannati per concorso esterno, da Dell’Utri in giù, chiederanno lo stesso trattamento, cioè di salvarsi dalle conseguenze di sentenze anche definitive e tornare alla vita normale, magari anche in Parlamento, da sicuri colpevoli del gravissimo reato che hanno inoppugnabilmente commesso. Se qualcuno avesse ancora bisogno di prove sulla trattativa Stato-mafia avviata 25 anni da alcuni carabinieri del Ros e tuttoggi in pieno corso, è servito. Bisogna proprio avere l’anello al naso per non notare la repentina, vomitevole regressioneall’età della pietra dell’antimafia, quando Cosa Nostra ufficialmente non esisteva o era solo un’accozzaglia di rozzi e incolti professionisti della violenza senza complici nelle istituzioni, nella politica, nella finanza, nell’imprenditoria, nelle professioni, nella Chiesa: i “concorrenti esterni” che le hanno garantito due secoli di vita e potere, come a nessun’altra organizzazione criminale al mondo. Il tutto avviene all’indomani del 25° anniversario dell’assassinio di Falcone e a pochi giorni da quello di via d’Amelio, costata la vita a Borsellino e ai suoi angeli custodi. Ora, con buona pace della Corte di Strasburgo che la mafia non l’ha mai vista neppure in cartolina, e della nostra Cassazione che invece dovrebbe saperne qualcosa, il reato di concorso esterno non è un’invenzione: è sempre esistito, come il concorso in omicidio, in rapina, in truffa, in corruzione ecc. Nel 1875, quando la Sicilia aveva una Cassazione tutta sua e la mafia si chiamava brigantaggio, già venivano condannati i suoi concorrenti esterni agrigentini per “complicità in associazione di malfattori”. Nel 1982 la legge Rognoni-La Torre creò finalmente il reato di associazione mafiosa (art. 416-bis del Codice penale) e subito dopo, nel 1987, il pool di Falcone e Borsellino contestò il concorso esterno in associazione mafiosa ai colletti bianchi di Cosa Nostra nella sentenza-ordinanza del maxiprocesso-ter. Poi bastò che finissero nei guai alcuni potenti, tipo Contrada (condannato), Carnevale (condannato in appello e assolto dai colleghi della Cassazione), Dell’Utri (condannato), Cosentino (condannato in primo grado) e compagnia bella, perché i loro concorrenti esterni nel Palazzo e nei giornali strillassero al reato inesistente, confuso, fumoso. Idiozie che fortunatamente quasi mai trovavano cittadinanza nei tribunali, nelle corti d’appello e in Cassazione. Invece ora, all’improvviso, con le minacce di Graviano dal carcere e le larghe intese dietro l’angolo, si può dire e fare tutto. Anche mettere nero su bianco che uno stragista con 15 ergastoli sul groppone non deve morire in carcere, ma a casa sua. Anche sostenere, restando seri, che un superpoliziotto, già capo della Mobile e della Criminalpol a Palermo e poi numero 3 del Sisde, non sapeva che incontrare e favorire i boss, farli fuggire, avvertirli dei blitz dei colleghi (tutti ammazzati), restituirgli il porto d’armi, fosse reato: lo scoprì solo quando glielo disse la Cassazione a sezioni unite in un altro processo. E allora si battè una mano sulla fronte: “Cazzo, a saperlo per tempo non avrei lavorato tanti anni per la mafia prendendo lo stipendio dallo Stato! Ma non potevate dirmelo prima?”. Questa vergogna senza eguali viene contrabbandata per “garantismo”, mentre scava un fossato ormai incolmabile fra diritto e giustizia, fra regola e prassi, fra imputati di serie A e di serie B, fra potenti e poveracci, fra ricchi e poveri. A furia di depenalizzare reati gravissimi, agevolare prescrizioni, allargare immunità, regalare franchigie ai soliti noti, è sempre più difficile accettare le sentenze di una giustizia forte coi deboli e debole coi forti. Il mese scorso un tizio di Palermo che aveva rubato un pezzo di formaggio in un supermercato di Mondello s’è beccato 16 mesi di galera senza la condizionale: cioè finirà in galera. E quelli che per anni (entro e non oltre il 1994) hanno venduto lo Stato alla mafia la faranno franca l’uno dopo l’altro. Si spera almeno che chi plaude o tace su questo schifo, il 19 luglio ci risparmi le solite corone di fiori in via d’Amelio. E abbia il coraggio di fare sulle tombe di Borsellino e Falcone ciò che fa di nascosto da 25 anni: sputarci sopra.

Graviano: un messaggio che nasconde i destinatari, scrive il 10/06/2017 Francesco La Licata su "la Stampa". Il nastro si riavvolge e il film comincia daccapo. Le stragi mafiose del ‘92 e del ‘93 hanno rappresentato per 25 anni e rappresentano ancora l’autentico tormentone che ha accompagnato il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica. Un tormentone che ruota attorno alla discesa in campo di Silvio Berlusconi e alla nascita di Forza Italia. Quest’ultima rivelazione di Giuseppe Graviano, curiosamente tanto istupidito da non sospettare di essere intercettato in carcere, arriva proprio nel momento in cui la storia italiana del ‘92 e del ‘93 sembra essere già archiviata e relegata persino al ruolo di fiction, come abbiamo avuto modo di vedere seguendo l’ultima serie tv su Sky. Di Berlusconi e di Dell’Utri (quest’ultimo in carcere per concorso esterno) hanno parlato schiere di pentiti. Lo stesso Graviano, alla udienza in cui testimoniò a Torino il collaboratore Gaspare Spatuzza, si diede molto da fare nel lanciare messaggi e minacciare ricatti. Facendo intendere anche di essere pronto a qualche “sacrificio” (lui e forse il fratello, Filippo) pur di ricevere un allentamento del carcere duro. Sono passati otto anni e non sembra esser accaduto nulla, se non il “beneficio” di aver potuto ingravidare le rispettive mogli. Si era pensato che questo “evento” potesse essere stata conseguenza di una complicità del suo avvocato, immaginato come “trasportatore” del loro seme dal carcere ad un laboratorio per l’inseminazione. Apprendiamo oggi, per bocca di Giuseppe Graviano, che l’inseminazione avvenne per contatto diretto. Un “premio” per il suo silenzio, mentre gli si chiedeva di confermare le dichiarazioni di Spatuzza a proposito dei rapporti tra la mafia di Brancaccio e Berlusconi e Dell’Utri? Questo, Graviano non lo dice ma lo fa intendere. Ecco forse è questa la chiave dei colloqui intrattenuti in carcere, con un detenuto che non è neppure mafioso. Una sorta di replay dell’ “incidente” occorso a Totò Riina che si è fatto sorprendere dalle “cimici” carcerarie mentre parlava con un altro “signor nessuno”, appartenente ad una improbabile mafia pugliese. Insomma, questi boss quando hanno qualcosa da dire, da suggerire, da sussurrare e finanche da ammettere, sembrano voler scegliere la strada del “parlare” ma senza pentirsi. Una bella intercettazione e via. Resta da capire chi sono i destinatari dei messaggi. Berlusconi non sembra in grado di poter dare grandi aiuti a chicchessia, soprattutto se non si tratta di soldi. Dell’Utri sta anche peggio, immobilizzato in un reparto di cardiologia del carcere di Parma. Forse ci sono verità che ancora faticano a guadagnare la luce. Nel ‘92 certamente è accaduto qualcosa di poco commendevole nella terra di mezzo fra politica e alta finanza. Il proliferare delle Leghe, a Nord e a Sud, la svolta stragista di Cosa nostra, la fine dei partiti storici italiani. Le paure di Ciampi che, la notte delle bombe, convoca lo Stato Maggiore e si chiude a Palazzo Chigi. Se Graviano ha qualcosa da chiedere, potrebbe cominciare a parlare sul serio.  

“Scriveva su La Stampa: “Per una giustizia lontana dagli eccessi”. L’ex direttore Mieli: “Prima di iniziare a collaborare andò da Bobbio. Vedeva nella torinesità del giornale l’estraneità alle trame di potere”, scrive Luca Ubaldeschi il 29/05/2017 su "la Stampa". Paolo Mieli è stato direttore de La Stampa dal 1990 al 1992. L’esperienza di Giovanni Falcone a La Stampa è stata più che una collaborazione giornalistica. È stato un incontro di valori, il reciproco riconoscimento di un’affinità intellettuale. «Per noi - dice Paolo Mieli, il direttore che lo assunse come editorialista nel 1991 - Falcone era un mito e una delle cose di cui vado più fiero è la solidarietà che La Stampa gli manifestò prima della morte, diversamente da tanti altri che lo rivalutarono dopo l’attentato. Al magistrato, poi, la collaborazione con il giornale fece capire che al di là delle polemiche che lo avevano coinvolto, c’era un’Italia che credeva in lui e che lo avrebbe difeso». 

Come avvenne l’incontro tra La Stampa e Falcone?  

«Fu Ezio Mauro, mio condirettore, ad avere l’idea. Io pensavo che Falcone non avrebbe accettato. In quel periodo era un collaboratore di Claudio Martelli, ministro della Giustizia del governo Andreotti, ed era avversato dalla sinistra. Falcone non era stato corrivo con la tendenza dell’epoca di colpire esponenti della Dc e del governo, andando un po’ per le spicce. Era un autentico liberale e aveva una sincera cultura garantista, superiore a tanti altri magistrati. In quel clima, pensavo che sarebbe stato improbabile avere il suo sì». 

E invece che accadde?  

«Furono decisivi i buoni uffici di Francesco La Licata, nostro inviato esperto di mafia, e di Marcello Sorgi, capo della redazione romana. Falcone considerava La Licata un vero amico. Francesco e Sorgi erano per il magistrato la garanzia che poteva fidarsi della Stampa, che non lo avremmo mai strumentalizzato». 

Quando lei lo incontrò a Torino per siglare il contratto che cosa la colpì di più? 

«La timidezza, il senso dell’ironia, l’atteggiamento amichevole, il parlare poco e per nulla da padreterno. Capii che Falcone vedeva nella torinesità del giornale una garanzia di estraneità dalle trame di potere romane. Considerava La Stampa un giornale di un altro Paese, un giornale pulito, che non si sarebbe prestato a giochi». 

Perché prima di cominciare volle incontrare Norberto Bobbio?  

«Oltre che nostro editorialista, Bobbio era una personalità con un’autorevolezza riconosciuta da tutti, un candidato alla presidenza della Repubblica. A casa del filosofo a Torino ebbero un incontro lungo, denso, su tanti temi. Falcone ascoltò con attenzione, come prendendo appunti mentalmente. In seguito, parlandogli, ebbi la riprova che il magistrato aveva ricavato elementi di riflessione importanti dall’incontro. Credo che Falcone sia stata la persona con maggiore capacità di ascolto mai incontrata. L’ascolto è un’arte, lui traeva spunti da quella capacità. Gli editorialisti tendono a sottolineare le convergenze con i direttori. Lui ascoltava e poi con garbo metteva in chiaro i punti in cui dissentiva». 

Come nascevano gli articoli di Falcone?  

«Tutti dopo una chiacchierata con La Licata. Nessun articolo fu scritto in solitudine. La collaborazione tra loro era totale. Ho sempre considerato La Licata “l’altro Falcone”, un uomo integerrimo, capace però di sorridere, proprio come il magistrato. La Licata disegnava il quadro generale, faceva qualche osservazione puntuale, Falcone ascoltava e nascevano gli articoli che consentivano a Falcone di lasciarsi alle spalle la spirale di accuse e polemiche che lo aveva investito». 

Negli editoriali sui problemi della giustizia e della lotta alla criminalità, emerge l’intenzione di Falcone di non cercare facili invettive e ricette spettacolari, cercando piuttosto di spiegare, di portare la discussione sui binari della normalità. È una lettura corretta?  

«E’ così. La strada maestra dei suoi colloqui con La Licata era la convinzione fortissima che fosse necessario evitare gli eccessi». 

Lei ha ricordato il clima pesante contro Falcone. Quanto soffriva per le accuse contro di lui?  

«Era addolorato perché vedeva in quelle critiche non tanto un danno per sé, quanto il rischio di compromettere una strategia più larga di lotta alla mafia». 

Nei vostri colloqui parlava della paura di essere ucciso?  

«Mai. A volte io dicevo qualcosa in proposito, lui lasciava cadere il discorso. Era consapevole di aver accettato quel rischio già da tanto tempo e non stava a calcolare se i suoi passi avrebbero potuto aumentarlo. Faceva quello che riteneva necessario». 

Come visse La Stampa il 23 maggio del 1992?  

«Esiste un solo giorno, della mia direzione della Stampa, che ricordo minuto per minuto, ed è quello. Lo choc, poi la speranza perché all’inizio sembrava che avrebbe perso le gambe, ma sarebbe riuscito a sopravvivere. Ripensandoci, mi sembra un tempo lunghissimo quello trascorso fra la notizia dell’attentato e la morte, perché denso di angoscia e dolore. Falcone, la moglie, gli agenti della scorta... Da Mani Pulite alla guerra in Iraq, gli anni 90 sono stati pieni di eventi importanti, ma Capaci è stata la notizia che ha avuto il più profondo impatto tragico del decennio. L’attentato non era solo contro Falcone, era anche una sfida a chi voleva testimoniargli solidarietà nella sua battaglia antimafia. Con Capaci e poi via D’Amelio temetti davvero che l’Italia potesse precipitare in una abisso di barbarie. Per fortuna non è stato così». 

Ciccio La Licata, la bella penna dell’antimafia offerta a Ciancimino Jr.. Francesco La Licata, detto “Ciccio”, nato a Palermo il 22 settembre 1947. Nel ’70 entra all’Ora di Vittorio Nisticò, settore cronaca giudiziaria. A piazzale Ungheria si fa un giornale del pomeriggio: “Ci si alzava prima dell’alba e si girava per ospedali per sapere se fosse stato commesso qualche omicidio o fatto di cronaca rilevante – ricorda La Licata – Alle 9 dovevi aver già fatto il pezzo, con tanto di fotografie: era un incubo”, scrive Marco Pedersini il 18 Maggio 2011 su “Il Foglio”. Francesco La Licata, detto “Ciccio”, nato a Palermo il 22 settembre 1947. Nel ’70 entra all’Ora di Vittorio Nisticò, settore cronaca giudiziaria. A piazzale Ungheria si fa un giornale del pomeriggio: “Ci si alzava prima dell’alba e si girava per ospedali per sapere se fosse stato commesso qualche omicidio o fatto di cronaca rilevante – ricorda La Licata – Alle 9 dovevi aver già fatto il pezzo, con tanto di fotografie: era un incubo”. Ma, l’Ora, come gli altri quotidiani pomeridiani, è destinata al modernariato. Nel ’76 La Licata passa al Giornale di Sicilia e inizia a collaborare con l’Espresso ed Epoca. Alla Stampa nell’86, nel giro di tre anni lascia Palermo, senza smettere di occuparsi di Palermo. Con Lucio Galluzzo e Saverio Lodato ottiene una lunga intervista dal giudice Giovanni Falcone. Ne verrà fuori un libro, “Falcone Vive” (Flaccovio). Nel ’93, La Licata firma anche “Storia di Giovanni Falcone” (Rizzoli). La biografia, condita a dovere con testimonianze delle sorelle maggiori di Falcone, è un successo. Sono gli anni eroici di Gian Carlo Caselli a capo della procura di Palermo e ormai non c’è sospiro di pentito che La Licata non possa riportare ai lettori. Per il segugio della Stampa i verbali sono quasi un impiccio: gli altri si attardano a spulciarli, lui incontra i pentiti per strada. Una sera, per caso, si imbatte nel pentito Gioacchino Pennino, il “Buscetta della politica”, a un casello dell’autostrada. Non c’è da meravigliarsi: dopo trent’anni, Ciccio La Licata è un’autorità indiscussa, che non disdegna flirt con la tv (“Mixer”, “Blu notte”). Dal 2007, torna in libreria con “Sbirri” (Rizzoli) e “Pizzini, veleni e cicoria” (Feltrinelli), libro-intervista al procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso su Bernardo Provenzano. A inizio 2008 riceve una visita alla redazione romana della Stampa. E’ Massimo Ciancimino, figlio cadetto dell’ex sindaco mafioso di Palermo. “Aveva tanta voglia di parlare dei suoi guai giudiziari – ricorda La Licata – noncurante del mio scetticismo sulle sue reali motivazioni ‘collaborative’, cominciò a raccontarmi la sua vita spericolata accanto al padre. Non nascondo che riuscì ad accendere un lampo nella mia testa. La sua storia era di per sé un romanzo. Gli spiegai che, prima di pensare a un libro, sarebbe stato corretto ‘liberarsi’ di tanto fardello nella sede giusta: la magistratura”. “Massimuccio” aveva già cercato di ingolosire Enrico Mentana, Maurizio Belpietro e qualche vecchio collega di La Licata. Ma sarà il decano del giornalismo antimafia a concedersi: La Licata lavora il materiale grezzo di “Massimuccio” e ne ricava “Don Vito” (Feltrinelli), una biografia che si stempera nel romanzo, lanciata da una puntata intera di “Annozero”. La storia di don Vito apre a Ciancimino Jr. il circuito giusto delle presentazioni dei libri che non si possono non leggere. La Licata è il suo Virgilio, raddoppiato, a volte, da Sandro Ruotolo. Gli spalanca persino le porte del Festival del giornalismo di Perugia. In molti accorrono ad ascoltare l’“icona dell’antimafia” che hanno visto in tv. Con “Don Vito” si scrive il grande riscatto di Ciancimino Jr.: la presentazione del libro all’aula magna dell’Università di Palermo, dove “Massimuccio” viene benedetto da Salvatore Borsellino, fratello di Paolo. A un occhio attento non sfuggirebbe che, per dirne una, nel documento riportato a pagina 228 si vedono le elisioni lasciate dalla fotocopiatrice. Ma il libro piace, “Massimuccio” firma dediche, niente lo può fermare. A parte le minacce al figlio, da cui riparte più amato di prima. E poi sì, c’è anche l’arresto, il 21 aprile, quando la scientifica scopre che le carte dei Ciancimino sono gran patacche.

Contrada: Qualcuno si ravvederà, scrive il 12/10/2010 Francesco La Licata su "la Stampa". L’ex funzionario del Sisde scarcerato dopo 10 anni: la verità verrà ristabilita. Non si è mosso di un millimetro dalla posizione assunta la mattina di quella vigilia di Natale del 1992, quando, lui «sbirro» tra i più raffinati, aprì la porta ai colleghi che venivano ad arrestarlo su mandato della Procura di Palermo, ferita a morte dalle terribili stragi che avevano portato via Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Oggi Bruno Contrada, funzionario di vertice dell’ex Sisde (il servizio informativo civile) ed ex capo della squadra mobile di Palermo negli Anni 70), è di nuovo un uomo libero, dopo 20 anni di processi e più di 8 di detenzione. Il suo commento: «Spero che qualcuno si ravvederà del male che ha fatto a me e alle istituzioni». Contrada ha sempre cercato di difendersi dall’accusa di «intelligenza col nemico» (cioè Cosa nostra), macchia indelebile per un uomo di formazione militare e con una innegabile inclinazione verso le regole. «Se fossi colpevole di ciò di cui vengo accusato - aveva detto dopo la prima condanna - non meriterei una pena così lieve, ma la fucilazione alle spalle». E, una volta libero dopo 30 mesi di carcerazione preventiva, corresse i cronisti che pontificavano: «Giustizia è fatta». «Assolutamente no», rispose Contrada. «Sono soltanto un imputato a piede libero, la strada della giustizia sarà lunga». Facile previsione, la sua. E così oggi, dopo un quarto di secolo, ha gioco facile a insistere sulla tesi della giustizia non compiuta perché continua a protestarsi «non colpevole», nella migliore delle ipotesi vittima di un abbaglio dei giudici, nella peggiore bersaglio di una «trappola» di uomini che non nomina ma evidentemente crede di conoscere bene. L’aspetto fisico non rende la capacità di un ottantenne, neppure in buona salute, ossessionato da un solo obiettivo: recuperare la dignità persa, la sua e «quella dell’Istituzione che ho rappresentato». In passato, nelle aule dei tribunali, ha affidato la sua difesa ad uomini di legge, ora ha cominciato a fare da solo. Per questo ha racchiuso tutto il peso dei ricordi in un libro («La mia prigione», Marsilio editore), scritto con la giornalista Letizia Leviti (inviata di Sky). «Non è una difesa», dice Contrada, «è solo il racconto dei fatti, ora che ho espiato per intero una pena che non meritavo». Ne vien fuori una disamina di tutti i capi d’accusa che rimanda al mittente. Evidentemente sono i pentiti ad essere presi di mira: Gaspare Mutolo, Masino Buscetta, Francesco Marino Mannoia, Rosario Spatola, Francesco di Carlo e tutti gli altri (17 in tutto) arrivati, fa intendere l’autore, a coprire i vuoti man mano lasciati dalle bugie dei primi. Ma non ci sono soltanto i pentiti nel suo elenco. La sua tesi è che "costruzione" non avrebbe retto senza la volontà istituzionale di certificare una volontà inesistente. E così lamenta i silenzi di uomini dell’antimafia (come il consigliere istruttore Antonino Caponnetto) che avrebbero potuto testimoniare in suo favore ma preferiscono "non ricordare". Più di una frecciatina la riserva a Gianni De Gennaro (allora dirigente della DIA). E’ pungente quando - parlando del pentimento di Mutolo - lo descrive adagiato "tra le braccia ospitali della DIA di De Gennaro". Più esplicita la critica a commento di una frase di Enzo Biagi Su Buscetta: "De Gennaro me lo descrisse come un uomo pieno di dignità". Scrive Contrada: "Io l’avrei definito un uomo pieno di carisma criminale". Ma chi ha voluto la fine di Contrada? Non risponde, forse perché non ci può essere una risposta sola. Certo, è singolare che fra tanti processi svaniti nei meandri dell’ingegneria giudiziaria abbiano resistito solo il suo e quello a carico dell’altro capo della squadra mobile di Palermo, Ignazio D’Antone, anche lui tornato in libertà da pochi giorni. Una certezza se la lascia sfuggire: «Vedo un tentativo che proviene anche da ambienti dei carabinieri di coinvolgermi in storie alle quali sono completamente estraneo». Parole dure, scritte però dopo aver descritto il generale Mori come «uno dei migliori ufficiali dell’Arma» e «la Benemerita» come «simbolo della nostra Patria». E la trattativa tra Stato e mafia? Contrada dice di non aver saputo nulla fino al ’92, «poi fui arrestato». «Se avessi saputo - scrive - di un’azione svolta, forse anche a fini investigativi ritenuti volti al bene, io non avrei nessuna difficoltà a riferirlo». Ma la trattativa c’è stata? «Io credo che ci possa essere stato un tentativo, tacito ma implicitamente significativo e di chiara lettura per chi doveva capire e provvedere, da parte della mafia, di intimidazione, di pressione, di convincimento ad attenuare la durezza delle misure che lo Stato aveva già adottato e di altre che avrebbe ancora adottato, più incisive». E allora? «Non vedo motivo di scandalizzarsi. D’altra parte tutto il pentitismo è basato su questa strategia». Paragone forse eccessivo, visto che i pentiti qualche vita umana l’hanno salvata. 

Francesco La Licata scrive di mafia da sempre, scrive in un suo post Marco Taradash. Negli anni ottanta lavorava a Palermo, al Giornale di Sicilia, e si distingueva per la serietà e l'accuratezza delle sue inchieste. Anche chi criticava il quotidiano ne aveva stima. Oggi 8 luglio 2017 ha pubblicato sulla Stampa, dove lavora da anni, questo commento sulla vicenda Contrada. Mi pare utile per capire.

Dopo 25 anni tolta la condanna a Contrada. Ora che è arrivato alla soglia degli 86 anni, venticinque dei quali vissuti dentro un incubo, Bruno Contrada potrà almeno contare su una certezza: è finita. Sì, è vero, ci sarà ancora chi dirà che «i fatti restano i fatti». Chi obietterà che non è stata riconosciuta la sua innocenza ma semplicemente il fatto che «non poteva essere condannato» (come se questa fosse una quisquilia). Ci sarà chi continuerà a girare il coltello nella piaga, ma rimane il fatto che la sua vicenda giudiziaria è chiusa. Per sempre. E non deve essere un sollievo da poco per uno che si è fatto 10 anni di carcere, arrestato la vigilia di Natale del ’92, poi trattato alla stregua di un mafioso, fino a vedersi negare i domiciliari per gravi motivi di salute. Una soddisfazione che potrà soltanto attenuare il ricordo dei trenta mesi di carcerazione preventiva, trascorsi senza vedere un magistrato, in un carcere militare chiusi da tempo e riaperto solo per lui. Adesso lui dice: «Non ci contavo più. Ero talmente abituato a una giustizia sorda che quasi non credevo al pronunciamento della Cassazione». Dice di non odiare nessuno, «ma disprezzo i miei accusatori, laddove per disprezzo intendo mancanza di apprezzamento». Poi aggiunge una frecciatina verso chi investigò sulla sua vicenda: la neonata Direzione Investigativa Antimafia. Lasciando, così, intendere che l’origine dei suoi mali possa risiedere nella «volontà ministeriale» di allora di eliminare concorrenti fastidiosi alla DIA che si apprestava a divenire l’FBI italiano contro Cosa Nostra. E’ davvero un romanzo la storia di bruno Contrada. Poliziotto di successo, a Palermo sin dagli inizi degli anni sessanta. Non è mai stato molto amato dai palermitani, proprio per questo essere sfrontatamente “sbirro” anche quando i salotti buoni consigliavano prudenza e ragionevolezza. La squadra mobile di Contrada e Boris Giuliano rappresentava uno dei pochi argini allo strapotere mafioso, mentre il Palazzo di Giustizia sonnecchiava, si interrogava sull’esistenza della mafia e rimandava indietro i rapporti giudiziari di associazione a delinquere perché “generici” e privi di prove e testimonianze. Tutto ciò in una città dove i testimoni oculari degli omicidi pretendevano di essere arrestati per reticenza, per poter dimostrare di non aver aperto bocca. I due sceriffi (Bruno e Boris) furono investiti del compito di inventarsi un ufficio antimafia che a Palermo, sede legale di Cosa Nostra, nessuno aveva mai voluto. Solo la strage di Ciaculli del 1963 (7 morti tra carabinieri ed artificieri dell’esercito) riuscì a scuotere le menti e le coscienze dei burocrati romani. Così la mobile di Palermo divenne la migliore d’Italia. Sarebbe troppo lungo raccontare l’elenco delle operazioni antimafia di quella squadra: De Luca, Speranza, Moscarelli, Crimi, Incalza, Vasquez, Cipolla, D’Antone e tanti sottufficiali di grande valore. La mafia li odiava, ma non era ancora arrivato il tempo della mattanza. C’erano sempre dei limiti invalicabili (di opportunità) che venivano aggirati con artigianale esperienza. Per esempio, gli interrogatori degli “eccellenti” coinvolti nelle inchieste venivano condotti da poliziotti e magistrati, per sottolineare che non si trattavano di iniziative avventate di questurini, ma di necessità investigative ampiamente condivise dalle toghe. E quando arrivò la mattanza la “battaglia” si fece ancora più cruenta. L’omicidio del col. Giuseppe Russo dei carabinieri, ad un certo punto portò ai cugini Ignazio e Nino Salvo di Salemi, ricchi esattori e maggiorenti democristiani, che bisognava interrogare. In alto si pretese che venissero convocati di sera, in un ufficio discreto della mobile. Questo trattamento privilegiato non piacque molto a Contrada e Giuliano, tanto che inaspettatamente l’ingresso dell’ufficio fu preso d’assalto da fotografi e giornalisti. Quando Contrada fu promosso e trasferito alla Criminalpol (al piano di sopra), ottenne che gli succedesse il suo amico Boris. Ma non c’era giorno che i due non si scambiassero informazioni e sensazioni. Nel 1979, a luglio, la mafia uccise Giuliano e cambiò tutto. Tanto che uno dei moventi alle accuse a Contrada parla di di “paura”. La morte dell’amico, in sostanza, avrebbe indotto Contrada al “tradimento”. Ma come spiegare, allora, il fatto che Leoluca Bagarella, il killer di Giuliano, si trovi all’ergastolo inchiodato da un rapporto firmato da Bruno Contrada? L’Ingresso del funzionario nei ranghi del servizio segreto ha fatto il resto. Lo 007, si sa, è ambiguo per definizione. Così Contrada è stato pure sfiorato dalla accusa di aver avuto un ruolo nella strage di via D’Amelio. Sospetto più volte archiviato. Per 25 anni è entrato ed uscito dal sospetto. Certo, forse quest’ultima sentenza non certifica nessun innocenza, ma racconta forse come la sua vicenda si astata sempre affrontata dalla magistratura con un’attenzione particolare, diretta a non minare le fondamenta dell’architettura che sta alla base della battaglia contro Cosa Nostra e , soprattutto, contro le sue complicità  politiche ed istituzionali.

Uno 007 tra i veleni di Palermo. Il poliziotto agente segreto: dalla leggenda ai sospetti di depistaggio. Il ritratto che ne fece La Stampa all’epoca dell’arresto, avvenuto il 24 dicembre del 1992, scrive il 7/07/2017 Francesco La Licata su "la Stampa". Le circonlocuzioni, le cautele, i condizionali delle agenzie di stampa e dei notiziari televisi e radiofonici non riescono ad ammorbidire una notizia che per la città è un pugno nello stomaco. Bruno Contrada in carcere. Contrada associato con la mafia, delatore, traditore. Già, traditore. L’ infamia più triste, se si si pensa che il tradimento se c’ è stato, lo hanno subito soprattutto poliziotti e giudici che, per non tradire, sono morti. Ammazzati per strada, uno dopo l’altro. Così, mentre le notizie si accavallano, consegnando il fosco racconto di pentiti, affiorano nella mente gli anni della mattanza palermitana.  Un quarto di secolo sfregiato da una costante linea rossa, una tragica sequenza di morti, feriti, attentati, processi e anche «nfamità», per dirla con un linguaggio che a Palermo si usa per definire le montature. Bruno Contrada è stato protagonista indiscusso di questo quarto di secolo. Non era arrivata ancora «l’era Falcone», il palazzo di giustizia era un deserto dei Tartari affidato alla gestione di rappresentanti di un gruppo di potere squalificato, ma potentissimo. Governava un comitato d’ affari che racchiudeva, da un lato, uomini come Lima, Gioia e Ciancimino, e dall’ altro il monopolio affaristico di imperi come quelli del costruttore Ciccio Vassallo o del Cavaliere di Gran Croce Arturo Cassina, luogotenente dell’Ordine dei Cavalieri del Santo Sepolcro.  C’era la Palermo che contava, coi cavalieri di Cassina. Politici, burocrati, grand commis, affaristi e tanti, ma tanti, ufficiali dei carabinieri, funzionari di polizia e questori. Anche Bruno Contrada si era sottoposto alla cerimonia dell’investitura, con tanto di ermellino e lo spadino del conte Arturo posato sulla spalla destra. E a chi gli chiedeva perché avesse accettato l’offerta di Cassina, Contrada rispondeva: «Perché c’ è qualcosa di male? È come far parte del Rotary o del Lions». E aveva ragione, dal suo punto di vista, dal momento che si trovava in compagnia di alti funzionari dello Stato, nobili e luminari. La cosiddetta buona società. E poi, quella era un’epoca che vedeva la squadra mobile come una prima linea contro la mafia.  C’era Boris Giuliano, che con Contrada formava un binomio da leggenda. E c’erano molti altri funzionari giovani che, come si dice in gergo, «trottavano». Contrada era il capo, Giuliano il vice, due scuole diverse ma integrate bene. Nell’ immaginario dei palermitani quei poliziotti rappresentavano una sorta di <squadra speciale>, come nei telefilm americani. Sospetti? Neanche uno: fino ad allora, almeno. La fama di uomini della tempra di Boris Giuliano era talmente inattaccabile che da sola sarebbe bastata a far svanire qualunque ombra si fosse abbattuta sulla squadra mobile. È l’inizio degli Anni 70, I film del filone «la polizia arresta la magistratura assolve» sembrano ispirati dalla realtà palermitana. Lo stesso Contrada, con l’impermeabile del «tenente Sheridan», diventa protagonista di episodi mai dimenticati. Come quando si trova faccia a faccia con Giuseppe Greco, che si avvia a divenire il superkiller dei cento delitti. Lo insegue tra i vicoli della Vucciria, spara tra la folla Alla fine, con l’aiuto del commissario Vincenzo Speranza, lo prende, lo trattiene per i capelli e lo trascina alla squadra mobile. Eppure... Eppure, dicono quattro o cinque pentiti, già allora qualcosa non andava. Rivela Gaspare Mutolo che «il dottore Contrada» disponeva di una casa in via Jung. Un appartamento intestato ad un uomo d’ onore del clan di Rosario Riccobono, il boss che secondo altre rivelazioni aveva indotto alla collusione il giudice Domenico Signorino, morto suicida in seguito allo scandalo.  Secondo il pentito, Contrada era stato avvicinato, seguito e posto sotto osservazione per verificare la possibilità di ridurlo alla collaborazione, soluzione da preferire ai colpi di lupara che invece si sono rivelati necessari per altri. Questo racconta Mutolo. Resta da comprendere perché un appartamento, ufficialmente intestato ad un prestanome della mafia, dovesse essere usato seppure per motivi personali e privati da un giudice della Procura e dal capo della squadra mobile. E resta un dubbio: recitava, Contrada, quando per la morte dell’agente Cappiello, ucciso durante un’azione di polizia a Pallavicino, denunciò tre boss del clan di Riccobono, uno dei quali era proprio Gaspare Mutolo, oggi pentito e grande accusatore? Qualcuno ha obiettato che sì, è vero, Contrada denunciò ma nessuno fu catturato. Per la verità, Mutolo fu preso qualche tempo dopo, insieme con Salvatore Micalizzi. Se ne stavano al “Gambero Rosso”, a Mondello. Il pranzo a base di vongole e spigole fu interrotto dalla polizia. Addosso a Micalizzi furono trovati molti soldi. Nell’ ufficio di Bruno Contrada, il boss dovette subire l’umiliazione di raccogliere le banconote con la lingua. E il capo della mobile gli disse: «Sono ancora sporchi di sangue». Ma i «colpevolisti» ora dicono: «Contrada recitava».  Però a Roma non ne erano convinti. Tanto che quando, nel luglio 1979, uccidono Boris Giuliano, nuovo capo della squadra mobile, e non si trova un dirigente capace di ridare unità ad un gruppo dilaniato dalle polemiche e dalle faide interne, il governo si rivolge a lui, Bruno Contrada, che sta alla Criminalpol della Sicilia occidentale. Già le faide. Da allora, dall’ 80 gli uffici investigativi della questura entrano in un tunnel che non ha più visto l’uscita. Cominciano i veleni, tutti sospettano di tutti. I pentiti fanno risalire ad allora il consolidamento delle <cattive amicizie> di Contrada. Spuntano i nomi di Salvatore Riina e dei Marchese. È l’era delle talpe. La figura di Bruno Contrada si appanna. A questo contribuisce forse il fatto che entra nei servizi segreti, ma continua ad occuparsi di criminalità. Viene sospettato di aver aiutato a fuggire Oliviero Tognoli, imprenditore con contatti mafiosi. Dimostra l’estraneità al fatto. Lo accusano di depistaggio nell’ inchiesta sull’ assassinio di Piersanti Mattarella, ma anche questa volta vince i sospetti. Passa indenne da più d’ una inchiesta interna. Giovanni Falcone attribuisce a «menti raffinatissime» la paternità dell’attentato all’Addaura. Il giudice non fa nomi, ma quello di Contrada circola per tutti i corridoi dei Palazzi. E poi, la polemica col questore Vincenzo Immordino. Una brutta storia: Contrada e i suoi chiusi in una stanza della Mobile, mentre poliziotti venuti da fuori e comandati direttamente dal questore arrestavano una cinquantina di boss accusati di aver ucciso il capitano dei carabinieri Emanuele Basile Quella fu la vera delegittimazione di Contrada. Il questore dimostrò di non fidarsi. L’ errore fu non aver mai fatto chiarezza in nome di una presunta ragion di Stato.  

Scandalo giudiziario Contrada. Storia di una persecuzione, scrive Riccardo Lo Verso l'08 Luglio 2017 su "Live Sicilia". La giustizia dei professionisti dell'antimafia e un processo che non si doveva nemmeno fare. Su Bruno Contrada la giustizia italiana ha preso una cantonata che più cantonata non si può. Pubblici ministeri e giudici hanno accusato, processato e condannato un imputato che non potevano accusare, processare e condannare. Uno scandalo, giudiziario e umano, senza se e senza ma. Lo stabilisce la Cassazione che ha revocato la condanna a 10 anni interamente scontata, accogliendo, una volta e per tutte, le indicazioni della Corte europea per i diritti dell'uomo. Perché nella storia del poliziotto Bruno Contrada sono i diritti ad essere stati violati. C'è voluto il richiamo della giustizia di Strasburgo per ricordare l'esistenza di un principio basilare: un uomo non può essere processato per un reato che non esiste. Nessuno se n'è accorto in oltre un decennio di indagini e processi, celebrati in lunghissimi gradi di giudizio. Fra il 1979 e il 1988, anni in cui, secondo la pubblica accusa, l'ex numero 3 del Sisde aveva contribuito ad agevolare il potere di Cosa nostra, il reato di concorso esterno in associazione mafiosa non "era sufficientemente chiaro". Chiaro, e mica tanto, lo sarebbe diventato anni dopo. Nel 2015 la prima crepa nel percorso processuale su cui era stato apposto il bollo della definitività. I giudici di Strasburgo diedero ragione a Contrada. I Tribunali nazionali non avevano rispettato i principi di "non retroattività e di prevedibilità della legge penale". Ci sono voluti altri due anni per arrivare alla revoca decisa ieri, dopo che l'incidente di esecuzione era stato rigettato dalla Corte d'appello e respinte diverse istanze di revisione del processo. La decisione della Cassazione è senza rinvio. La revoca è davvero definitiva. Una sberla per la giustizia italiana e per quei pubblici ministeri della Procura di Palermo, allora diretta Giancarlo Caselli, che riconobbero in Contrada il poliziotto infame che andava a braccetto con i boss. A cominciare da Antonio Ingroia, che di Caselli era il prediletto, pubblico ministero assieme ad Alfredo Morvillo del primo processo concluso con la condanna. Non serve essere dei geni della matematica: la media dei successi di Ingroia crolla del 50%. Le statistiche dicono che nel corso di una quasi decennale stagione giudiziaria, prima di darsi alla politica e al sottogoverno regionale chiamato da Rosario Crocetta, il pm Ingroia ha fatto due soli grandi processi: quello a Bruno Contrada e quello a Marcello Dell'Utri. Quando nel 2015 i giudici di Strasburgo condannarono l'Italia a risarcire l'ex poliziotto con dieci mila euro, l'allora procuratore aggiunto disse che la decisione nasceva da “un fraintendimento, una solenne cantonata”. Di solenne c'è solo la bocciatura di un processo che non si doveva neppure celebrare. Non ci voleva la sfera di cristallo per prevedere le reazioni dei militanti dell'antimafia, dei nostalgici di una stagione inquisitoria che a Palermo ha collezionato sonore bocciature, dei commentatori duri e puri. Mica Contrada è stato assolto, diranno in coro, e i fatti contestati nei processi restano. Il primo a battere un colpo è stato Antonino Di Matteo, ex sostituto procuratore a Palermo, oggi alla Direzione nazionale antimafia, che con Ingroia ha dato vita al processo sulla Trattativa stato-mafia, prima che l'ex procuratore aggiunto svestisse la toga: "I fatti rimangono fatti, i rapporti di grave collusione con la mafia rimangono accertati nella loro esistenza e gravità - dice, appunto, Di Matteo - Già questo rende merito al lavoro della procura di Palermo e dei giudici che li hanno accertati. Spero - aggiunge - che questo venga spiegato per arginare le strumentalizzazioni finalizzate a rappresentare falsamente l'insussistenza dei fatti contestati". Accontentato. Nessun cenno da parte del sostituto procuratore nazionale antimafia alla distrazione di massa di una giustizia quanto meno sonnolenta. Di Contrada si sono occupati una quarantina di magistrati fra pubblici ministeri, giudici per le indagini preliminari, del Riesame, di Corte d'appello e della Cassazione. Roba da pallottoliere. Hanno sbagliato tutti?, come si chiedevano provocatoriamente autorevoli commentatori. La risposta è sì. In fin dei conti Di Matteo ha ragione. È vero, i giudici europei non parlano dei fatti del processo. Dicono molto di più e cioè che sono stati celebrarti dibattimenti senza reato. Non è solo una questione, già di per sé grave, in punta di diritto. Da Strasburgo è arrivata una lezione culturale: ci deve essere un bilanciamento fra l'esigenza di combattere la criminalità e le garanzie del singolo cittadino. L'imputato deve conoscere anticipatamente la norma per la quale è finito sotto processo. Deve sapere e non prevedere quali saranno le possibili conseguenze. Ne vale del suo diritto di difesa costituzionalmente garantito. Lo scandalo del processo Contrada è figlio di una totale assenza di equilibrio. Un uomo è stato arrestato e condannato per qualcosa che all'epoca dei fatti addebitatigli non era reato. Non un uomo qualsiasi ma l'ex numero 3 del Sisde, capo della Squadra mobile di Palermo e della Criminalpol. Lo ammanettarono alla vigilia di Natale del 1992, pochi mesi dopo che le bombe massacravano i corpi di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e degli uomini di scorta nelle stragi di Capaci e via D'Amelio. Altro che super poliziotto, Contrada, così dicevano i pentiti, era amico dei boss. Passava loro soffiate su indagini e blitz, li aiutava a scappare, incontrava capimafia del calibro di Saro Riccobono e del principe di Villagrazia, Stefano Bontade. E cioè dei padrini palermitani che decidevano sulla vita e la morte delle persone. La mattanza dei corleonesi era ancora lontana. Da quel 1992 Contrada ha subito la gogna di una giustizia che sa essere punitiva e vendicativa ancora prima di una dichiarazione di colpevolezza. I tempi della carcerazione preventiva e del processo da lui subiti sono tipici di un sistema malato. Nel 1996 il Tribunale di Palermo lo condannò a 10 anni, strappandogli i gradi dal petto e l'onore. Nel 2001 la Corte di Appello ribaltò la sentenza: assolto per “la carenza dei fatti concreti” e la mancanza della “necessaria specificità” delle accuse di pentiti che in quegli anni godevano di un titolo di credito illimitato o quasi. Piuttosto, scrivevano i giudici d'appello, si era in presenza di “apprezzamenti o opinioni” dei testimoni. I quali, per altro, non si poteva escludere che fossero mossi da una “sindrome vendicatoria” nei confronti dello sbirro che li aveva indagati. I giudici d'appello concedevano a Contrada, se non altro, il beneficio del dubbio, in una stagione senza regole, scritte e certe, se non quelle della strada. Per stanare i mafiosi il poliziotti si dovevano sporcare le mani, agganciare fonti, persino ammiccare se fosse stato necessario. Non era così per la Procura di Palermo e per i successivi giudici che condannarono l'imputato. Il comportamento di Contrada non rientrava nella prassi sbirresca, ma era il segno dell'infame collusione, di quel concorso esterno di cui si sarebbe iniziato a parlare solo due anni dopo, nel 1994. Un reato che, a distanza di decenni, ancora non esiste nel codice penale. Nell'attesa infinita e disattesa che sia normato il reato è servito, in molti casi, per processare le ombre e fare di un sospetto una prova. Il delitto imperfetto che diventa perfetto. E pensare che già trent'anni fa Giovanni Falcone sottolineava la necessità di una “tipizzazione” per colpire la cosiddetta borghesia mafiosa, i colletti bianchi in combutta con i boss. Il codice prevede l'art. 416 bis (associazione mafiosa), e l'art. 110 (concorso nel reato). Alla fine degli anni Ottanta arrivò il cosiddetto “combinato disposto” in nome del quale sono fioccate le sentenze che hanno cristallizzato il reato nella giurisprudenza nonostante sia mancato il passaggio legislativo per inserire il reato nel codice penale. Le occasioni non sono mancate. E neppure i processi. Giulio Andreotti, Calogero Mannino, Marcello Dell'Utri - solo per fare tre esempi con esiti diversi - sono stati indagati e processati per concorso esterno in associazione mafiosa (nel caso di Andreotti l'accusa poi muterà in associazione mafiosa). Studiosi e politici di tutto l'arco parlamentare hanno detto la loro sull'argomento. Nulla è cambiato. Per Bruno Contrada è diverso. Lo hanno condannato ancora prima che iniziasse lo scontro fra garantisti e forcaioli, ancora prima che il concorso esterno venisse menzionato in una sentenza della Cassazione. Nel suo caso è stato applicato un reato che non esisteva e pure in maniera retroattiva senza che nessuno dicesse qualcosa. È stata la Corte europea a suonare la sveglia. “Da oggi Bruno Contrada è un uomo incensurato”, dice il suo avvocato, Stefano Giordano, figlio di Alfonso, il presidente del maxiprocesso alle cosche di Palermo. Il legale riconosce il merito alla corte di Cassazione, “in maniera coraggiosa e libera”, di avere eliminato ogni macchia nei confronti di un grande servitore dello Stato". Da oggi comincia una legittima battaglia per trovare, qualora sia possibile, un ristoro a dieci anni di carcere. Si parte dal grottesco risarcimento di 10 mila euro che due anni fa i giudici di Strasburgo riconobbero a Contrada per il danno morale subito. Quanto valgono dieci anni di galera, la dignità e i diritti di un uomo? Un uomo che, nel caso di Contrada, ha criticato le sentenze, ma le ha sempre rispettate. Quando uscì dal carcere, nel 2012, invecchiato e fiaccato da una malattia, disse di non “provare rancore per nessuno”. Ricordava i tanti uomini di Stato che gli erano stati vicini”. “Verrà un giorno - diceva - che forse io non vedrò, che vedranno i miei figli, o i miei nipoti che la verità sarà acclarata e ristabilita. Temo allora che qualcuno debba ravvedersi e pentirsi di quello che ha fatto contro di me e le istituzioni che ho fedelmente servito”. Quel giorno, a 84 anni suonati, è arrivato anche se adesso ci sarà la corsa a negarlo. Quelli a venire, c'è da giurarci, saranno giorni di scontro duro fra i garantisti e i forcaioli di cui sopra. Si potevano contestare altri reati, diranno i colpevolisti ad oltranza. Un'interpretazione che non cancellerebbe l'errore. Si corre il rischio di andare fuori fuoco, dimenticando che il processo a Bruno Contrada non andava celebrato. A meno che qualcuno fra i giudici non ammetta di avere sbagliato e allora la vicenda potrebbe davvero aprire un dibattito costruttivo. Nel frattempo, per prima cosa, il poliziotto ammanettato nel '92 proverà da neo incensurato a riprendersi la sua vita, iniziando dalla pensione che non ha mai percepito.

La vicenda di Bruno Contrada raccontata da Indro Montanelli. Un brano da “La storia d'Italia”: “Ciò di cui dubitiamo è che il purismo giuridico sia un metro ragionevole per valutare gli uomini cui chiediamo di tuffarsi nel fango per farvi pesca di malavitosi”, scrive l'8 Luglio 2017 "Il Foglio". Pubblichiamo un brano tratto dal capitolo diciottesimo di “L'Italia di Berlusconi – 1993-1995: La storia d'Italia” di Indro Montanelli e Mario Cervi edito da Rizzoli.

Bruno Contrada – che ha passato i sessanta – era considerato, una ventina d’anni or sono, uno dei più brillanti poliziotti italiani. Bell’uomo dal piglio guascone, elegante, donnaiolo secondo le malelingue, mondano, furbo. Tale era la stima in cui veniva tenuto che fu messo a capo della Squadra mobile di Palermo: posto di estrema delicatezza e responsabilità. Lo lasciò nel 1977 per assumere la direzione della Criminalpol della Sicilia occidentale – queste duplicazioni e sovrapposizioni d’uffici e di competenze non danno in generale buoni frutti, ma lasciamo perdere – e alla Squadra mobile palermitana tornò nel 1979, dopo che il suo successore Boris Giuliano era stato assassinato. Un atto di grande coraggio, il suo, se immune da cedimenti. I cedimenti invece ci furono, secondo alcuni pentiti e secondo la procura di Palermo. Gaspare Mutolo (appunto un «pentito») ha sostenuto che proprio nel 1979 Bruno Contrada fu assoggettato a Cosa nostra. Da allora in poi la carriera di Contrada può essere letta in due modi diversi, anzi opposti: o in chiaro, come il progredire d’un funzionario stimato e capace (capo di gabinetto dell’Alto commissariato antimafia, uomo di punta del SISDE in Sicilia) o in controluce come il doppiogioco d’un colluso con le cosche che ostentava zelo inquisitorio per buttare fumo negli occhi: e sotto sotto si dava da fare per favorire i boss. Alla vigilia di Natale del 1992 Contrada fu arrestato per associazione mafiosa e portato prima nel carcere militare romano di Forte Boccea, quindi in quello militare palermitano, riaperto apposta per lui: e del quale rimase unico ospite. Su Contrada pesavano le dichiarazioni d’una pattuglia di quattro pentiti, poi rimpolpata da altri sei: tra loro il pentito massimo Tommaso Buscetta. L’inchiesta, che fu laboriosa e ammassò la solita montagna di fascicoli, sfociò in un processo di tribunale, presieduto da Francesco Ingargiola (lo stesso magistrato che avrebbe poi presieduto il processo contro Andreotti). Nell’aula si presentò – come detenuto – un Contrada quasi irriconoscibile: smunto, avvilito, dimagrito d’una ventina di chili almeno: molto fermo però nel respingere le accuse. Ridotto in quello stato – si disse –da due anni e passa di pena ipotetica scontata preventivamente. La procura di Palermo dimostrava, Codice alla mano, che tutto s’era svolto nel più scrupoloso rispetto della legge, e che Contrada veniva tenuto in cella perché, ammanicato com’era, avrebbe potuto inquinare le prove. Questi timori caddero tuttavia il 31 luglio 1995, dopo che l’ex funzionario era stato colto da malore in aula, e dopo che una commissione medica, chiamata a pronunciarsi sulle sue condizioni, aveva con grotteschi bizantinismi pseudo-scientifici affermato che la galera gli faceva bene, e che se fosse stato liberato il suo equilibrio psicofisico ne avrebbe risentito. Bruno Contrada tornò a casa. Quello stesso giorno la procura di Palermo e il prefetto Serra convocarono i giornalisti per dar loro notizia d’un attentato in preparazione contro Giancarlo Caselli [procuratore della Repubblica a Palermo] e contro uno dei suoi vice, Scarpinato. Qualcuno insinuò che le segnalazioni sull’attentato, piuttosto vaghe, fossero state con opportuna scelta di tempo enfatizzate per bilanciare l’impatto emotivo che l’odissea di Contrada aveva avuto sull’opinione pubblica. Sulle testimonianze e sulle prove esibite a carico di Contrada non vogliamo pronunciarci: le une e le altre appartengono alla logica dei processi per associazione mafiosa. Uno aveva saputo da un altro che un altro aveva detto, Falcone non poteva soffrire Contrada e aveva promesso «gli metterò i ferri» (ma riferito di seconda mano), il commissario Cassarà lo disistimava (dichiarato dalla vedova), alcuni dirigenti della polizia non lo potevano vedere e altri avevano invece per lui incondizionata stima: insomma un copione che in quelle aule, e con quel genere d’imputati, si ripete con triste monotonia. Non vorremmo trovarci nei panni di chi deve giudicare, e ancor meno in quelli d’un accusato. Ma per Contrada, e anche per Antonino Lombardo – ammesso e non concesso che qualche trasgressione l’abbiano commessa – valgono due considerazioni. La prima è questa: si possono applicare agli uomini della polizia e dei carabinieri, e a maggior ragione a quelli dei servizi segreti, le stesse regole morali che valgono per i comuni cittadini? il campo d’azione di questi uomini sono le fogne. C’è qualcuno capace di rimestare nelle fogne senza sporcarsi le mani e contrarne il fetore? Chi indaga sulla malavita, in tutte le sue espressioni, deve penetrare nei suoi ambienti, dove non si trovano malleverie e protezioni se non a patto di offrirne. È vero che in questo giuoco è facile perdere il senso del limite fino a diventare talvolta il complice, per farselo amico, del nemico: e non escludiamo che questo sia stato il caso di Contrada. Ciò di cui dubitiamo è che il purismo giuridico sia un metro ragionevole per valutare, senza che si commetta un’iniquità in nome della legge, gli uomini cui chiediamo di tuffarsi nel fango per farvi pesca di malavitosi: e i nostri dubbi crescono se il purismo giuridico è avallato non da prove inconfutabili o dalla parola di specchiati galantuomini, ma dalla parola d’altri malavitosi della peggiore specie che possono avere mille e una ragione per incolpare a torto. Sui Contrada devono pronunciarsi, promuovendoli o bocciandoli o cacciandoli o denunciandoli, i loro capi. Se i capi sono incapaci, vengano anche loro cacciati. I Contrada non sono al disopra della legge, ne sono ai margini: quando la legge agisce contro di loro con i suoi strumenti e i suoi criteri, li porta su un terreno che non è quello in cui s’erano dovuti avventurare, magari smarrendo la retta via. La seconda considerazione è semplice: una carcerazione preventiva che duri quanto quella inflitta a Contrada è una barbarie indegna d’un paese che pretende d’essere la culla del diritto, e che sembra avere una gran voglia d’esserne la bara.

Contrada, nessuno paga e Ingroia lo sbeffeggia. L'ex pm che lo accusò nega pure il verdetto della Cassazione: «Tutto falso, è colpevole», scrive Mariateresa Conti, Domenica 09/07/2017, su "Il Giornale". Non poteva essere condannato per un reato, il concorso esterno in associazione mafiosa, poco chiaro prima del 1994, ma è stato condannato e per otto anni, tra carcere e detenzione domiciliare, è stato privato della libertà. La pena, Cassazione dixit accogliendo il dettato della sentenza europea, era «ineseguibile», ma il verdetto è arrivato dopo che è stata eseguita e che lui l'ha scontata. Quella sentenza di condanna appena revocata dalla Suprema corte non doveva avere effetti penali, ma è stato destituito dalla Polizia, ha perso lo stipendio e gli è stato tolto il diritto di voto. Giustizia è fatta. Ma ingiustizia pure. Perché per un Bruno Contrada che ha subìto quanto riassunto sopra non c'è nessuno che paga. Sì, dopo il verdetto europeo del 2015 Contrada ha ricevuto (dallo Stato italiano) 10mila euro solo per i danni morali. Ma chi ha sbagliato come i giudici? Quelli che lo hanno condannato e quelli che hanno dichiarato inammissibile l'applicazione della sentenza europea? E i pm? Nulla. Neanche un centesimo di risarcimento. Neanche un mea culpa. Anzi, estrema beffa, la negazione della realtà. È il caso del nemico giurato di Contrada, l'ex pm Antonio Ingroia, titolare dell'accusa nel processo di primo grado. Laddove, di fronte a un flop così clamoroso dopo 25 anni, sarebbe logico prendere atto, o magari attendere le motivazioni, lui no, va all'attacco. Anche se non è più pm. E sentenzia, irriducibile, con un articolo sul Fatto: Bruno Contrada è colpevole. «Questo punto fermo - scrive - non è stato per nulla intaccato dalla sentenza della Cassazione. È bene che sia chiaro a tutti e che non si cerchi di rovesciare la realtà. Perché, come da abusato copione, l'informazione e la politica ufficiale hanno subito brandito in modo indegno quella sentenza per proclamare l'innocenza di Contrada». Altro che scuse. Ingroia si lancia in una requisitoria, bacchetta Cassazione e Cedu, e avverte: «Si rassegnino quelli che vorrebbero strumentalmente usare la sentenza della Cassazione, come già avevano tentato di fare con la pronuncia della Corte europea, per rimettere in discussione la condanna definitiva di Marcello Dell'Utri». Giustizia è fatta. Ingiustizia pure. Chi sbaglia, di solito, paga. Tranne i pm, in carica o ex. E i giudici. Nemmeno quando le sentenze dicono che no, il reato non c'era, ergo il processo non andava fatto.

Mafia, dopo la sentenza Contrada esultano i colletti bianchi di Cosa nostra. Legale Dell’Utri: “Precedente importante”. La decisione della prima sezione della Suprema corte rischia di spazzare via un quarto di secolo di condanne per concorso esterno. Chiunque sia stato ritenuto colpevole per fatti precedenti al 1994 può sperare di vedere annullata la sua condanna. A partire dall'ex senatore di Forza Italia. È la prima volta nella storia che una sentenza europea incide direttamente su una sentenza italiana passata in giudicato, scrive Giuseppe Pipitone il 7 luglio 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Adesso ci sperano anche gli altri. Sì, perché la sentenza della corte di Cassazione su Bruno Contrada apre una crepa enorme nelle condanne definitive emesse per concorso esterno a Cosa nostra. O almeno la apre per quelle che si riferiscono a fatti commessi prima del 1994. La decisione della Suprema Corte, in pratica, recepisce quanto deciso due anni fa dalla Corte Europea dei diritti umani sul caso dell’ex dirigente dei Servizi Segreti. È la prima volta nella storia – ragionano gli esperti di diritto – che una sentenza europea incide direttamente su una condanna italiana passata in giudicato, dichiarandola nulla. L’esultanza di Dell’Utri – E mentre magistrati e giuristi attendono di leggere le motivazioni della Cassazione, il primo ad esultare è l’avvocato di Marcello Dell’Utri, l’ex senatore di Forza Italia condannato a sette anni di carcere per la stessa fattispecie di reato contestata a Contrada. “Quella emessa dalla Cassazione nei confronti di Bruno Contrada è una sentenza di grande importanza che potrebbe segnare un precedente per molti altri casi. Noi, come legali di Marcello Dell’Utri, valuteremo ora i passi da fare”, dice l’avvocato Giuseppe Di Peri. Consapevole che il suo assistito è stato condannato per fatti commessi fino al 1992, infatti, il legale palermitano aveva già provato a giocarsi la carta europea due anni fa. Il reato inventato da Falcone – Era l’aprile del 2015 quando la Corte Europea dei diritti umani aveva stabilito che l’ex superpoliziotto non andava condannato per concorso esterno perché all’epoca dei fatti contestati (che vanno dal 1979 al 1988) il reato “non era sufficientemente chiaro”. Lo sarebbe diventato solo nel 1994 con la sentenza Demitry, che tipizzava per la prima volta quella inedita fattispecie nata dall’unione dell’articolo 110 (concorso) e 416 bis (associazione mafiosa) del codice penale. A “inventarsi” quel reato al tempo del pool antimafia di Palermo era stato Giovanni Falcone: occorreva un modo, infatti, per perseguire i colletti bianchi che contribuiscono continuativamente alla crescita dell’associazione mafiosa senza mai farne parte a livello organico. Il dispositivo della Corte – E ora sono proprio quei colletti bianchi a festeggiare la decisione della corte di Cassazione, che ha annullato la condanna per Contrada. Quelle cinque righe del dispositivo emesso dalla prima sezione della Corte di Cassazione nella tarda serata del 6 luglio 2017, infatti, rischiano di spazzare via un quarto di secolo di condanne per concorso esterno. “La corte suddetta annulla senza rinvio l’ordinanza impugnata e dichiara ineseguibile e improduttiva di effetti penali la condanna emessa nei confronti di Contrada Bruno”, scrivono i giudici polverizzando i dieci anni di carcere inflitti all’ex dirigente di polizia nel 2007, alla fine di un tortuoso iter giudiziario. Contrada, dopo una lunga custodia cautelare in carcere, tornò in cella e scontò tutta la pena fino al 2012. A livello pratico, dunque, gli effetti della pronuncia si ripercuoteranno solo sull’aspetto pensionistico, dato che il superpoliziotto era stato sospeso dalla pensione dopo la condanna. “Incensurato”. “Fatti restano” – “I fatti rimangono fatti, i rapporti di grave collusione con la mafia rimangono accertati nella loro esistenza e gravità. Già questo rende merito al lavoro della procura di Palermo e dei giudici che li hanno accertati”, commenta l’ex pm di Palermo Nino Di Matteo, ora alla Dna. “Di fatto con questa sentenza il mio cliente è incensurato perché tutti gli effetti penali della condanna sono stati revocati”, precisa l’avvocato Stefano Giordano. Per la verità, infatti, né la Cassazione – e nemmeno la Cedu – mettono in discussione i fatti commessi: quelli sono da considerarsi certi sia per Contrada che per gli altri. La sentenza di Strasburgo, infatti, motivava la sua decisione dell’aprile del 2015 con il principio giuridico contenuto nell’articolo 7 della Convenzione europea dei diritti umani. “Nulla poena sine lege”: nessuna pena senza una legge che la preveda. L’errore dei giuristi italiani alla Cedu – Un principio che i giudici di Strasburgo hanno potuto estendere al caso Contrada solo grazie a un errore dei rappresentati dello Stato Italiano, i giuristi Ersilia Spatafora e Paola Accardo. Tra le loro osservazioni, infatti, i due rappresentanti del nostro ministero degli Esteri non hanno obiettato nulla sulla premessa dei giudici di Strasburgo, che definiva il concorso esterno come “creazione della giurisprudenza”.  E invece il reato di concorso esterno ha “un’origine normativa”, perché scaturisce dalla combinazione tra la norma incriminatrice (l’articolo 416 bis) e l’articolo 110 che prevede il concorso nei i vari reati. Senza quella contestazione di merito, quindi, la Cedu ha potuto facilmente condannare l’Italia per il caso Contrada ravvisando la violazione dell’articolo 7 della Convenzione Europea. Un vero e proprio “autogol” dei giuristi italiani, come lo ha definito Luigi Ferrarella sul Corriere della Sera il 12 agosto del 2015. La pezza della Cassazione – Alla sentenza Cedu, infatti, la Cassazione aveva già provato a mettere una pezza proprio in quei giorni. Alcuni condannati per concorso esterno al processo Infinito avevano fatto ricorso alla Suprema corte invocando proprio la decisione di Strasburgo su Contrada. La loro istanza era stata respinta, però, dalla II sezione penale della Cassazione che aveva confutato i colleghi europei. “La stessa Corte Costituzionale – scriveva la corte presieduta da Antonio Esposito – ha ribadito che il concorso esterno non è, come postulato dalla Corte Europea dei diritti umani nella citata sentenza Contrada, un reato di creazione giurisprudenziale, ma scaturisce dalla combinazione tra l’articolo 416-bis e il 110″. Parole che in pratica cancellavano quanto stabilito dalla Cedu su Contrada. Esultano i colletti bianchi – Ma che adesso vengono neutralizzate da un’altra sezione della Suprema corte, la prima, che ha appunto annullato la condanna per l’ex numero 3 del Sisde lanciando un‘ancora di salvezza a chi ha il medesimo curriculum giudiziario di Contrada. Come Dell’Utri, appunto, o come Ignazio D’Antone, l’ex questore condannato in via definitiva per concorso esterno nel 2004: i fatti contestati al poliziotto sono stati commessi a partire dal 1983, undici anni prima che il reato venisse tipizzato. D’Antone ha scontato tutti gli otto anni di pena ed è stato scarcerato dal 2012. Liberi sono anche gli ex Dc Franz Gorgone ed Enzo Inzerillo, gli unici politici insieme a Dell’Utri ad essere stati riconosciuti colpevoli in via definitiva per concorso esterno. Il primo, ex consigliere regionale siciliano, è stato condannato a sette anni di carcere nel 2004: era accusato di aver avuto contatti con vari mandamenti mafiosi palermitani ai quali garantiva favori in cambio di appoggio elettorale. Il secondo, ex senatore, nel 2011 ha visto diventare definitiva la condanna a 5 anni e 4 mesi con l’accusa di essere stato a disposizione di Giuseppe Graviano. Se parla Graviano – Lo stesso boss di Brancaccio citato più volte nel processo Dell’Utri, che proprio di recente è stato intercettato in carcere mentre parlava a ruota libera, tirando in ballo Silvio Berlusconi come presunto mandante delle stragi del 1992e 1993. “Berlusca – dice il boss intercettato in alcuni colloqui – mi ha chiesto questa cortesia. Per questo è stata l’urgenza. Lui voleva scendere, però in quel periodo c’erano i vecchi e lui mi ha detto ci vorrebbe una bella cosa. Nel ’93 ci sono state altre stragi ma no che era la mafia, loro dicono che era la mafia”.  “Incontrai Giuseppe Graviano all’interno del bar Doney in via Veneto, a Roma. Graviano era molto felice, come se avesse vinto al Superenalotto, una Lotteria. Poi mi fece il nome di Berlusconi. Aggiunse che in mezzo c’era anche il nostro compaesano Dell’Utri e che grazie a loro c’eravamo messi il Paese nelle mani. E per Paese intendo l’Italia”, ha raccontato, invece, il pentito Gaspare Spatuzza riferendosi a un incontro del 21 gennaio 1994. Pochissimi giorni prima che i Graviano venissero arrestati. E che Silvio Berlusconi vincesse le elezioni.

Sentenza Contrada, non solo Dell’Utri. Da Nicola Cosentino all’ex sindaco Cito: gli altri che adesso sperano. La data spartiacque - La sentenza a sezioni unite del 1994 sana l’indecisione normativa, scrive Giuseppe Lo Bianco l'8 luglio 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Contrada canta vittoria a casa sua e Marcello Dell’Utri intravede un orizzonte di libertà oltre le sbarre di Rebibbia: l’intuizione giuridica del giovane avvocato Stefano Giordano, figlio del presidente del maxiprocesso a Cosa nostra, fatta propria dalla Cassazione, alimenta improvvisamente le speranze di decine di politici, professionisti e funzionari condannati per concorso esterno in associazione mafiosa, pronti ad utilizzare come precedente la decisione della Suprema Corte che salva l’impianto processuale ma cancella la pena, ammettendo per la prima volta che la giurisdizione europea modifichi un giudicato penale, a causa dell’indecisione normativa del reato di 110 e 416 bis, poi sanata dalla sentenza a Sezioni Unite Demitry nel ’94. “Il verdetto si applica a Contrada e non ai suoi fratelli minori, come Dell’Utri” precisa l’avvocato Giordano, mentre i legali del senatore di Forza Italia, che in questi giorni si definisce “prigioniero politico”, hanno probabilmente già iniziato a studiare il dispositivo in attesa di leggere le motivazioni. Saranno pronte tra qualche mese in vista della pronuncia della Corte Europea dei diritti dell’uomo a cui anche Dell’Utri ha da tempo fatto ricorso nonostante la contestazione del reato all’ex senatore risalga al gennaio ’96, ben due anni dopo della pronuncia Demitry che mise fine alle interpretazioni giurisprudenziali, almeno per ciò che riguardava la sua stabilità. “Non c’è dubbio che si tratta di casi simili, ma non bisogna dimenticare che il concorso esterno viene utilizzato già negli anni ’80, mentre l’aggravante disciplinata dall’articolo 7, ovvero il favoreggiamento mafioso, arriva nel 1991: tra i due reati che sono spesso entrati in conflitto, prevale a livello cronologico proprio il concorso” spiega l’avvocato Ingroia, ex pubblico ministero delle inchieste Contrada e Dell’Utri. A prescindere dalla data spartiacque del ’94 sono in tanti i condannati per concorso esterno ad affilare le armi giuridiche dopo la pronuncia della Cassazione, sperando in una cancellazione della pena: dall’ex collega di Contrada Ignazio D’Antone, ex capo della Criminalpol della Sicilia occidentale, condannato in via definitiva per concorso esterno nel 2004: i fatti contestati al poliziotto risalgono al 1983, undici anni prima che il reato venisse stabilizzato. D’Antone ha scontato la pena così come gli ex dc Franz Gorgone ed Enzo Inzerillo, tra i pochi uomini politici insieme a Dell’Utri ad essere stati condannati definitivamente per concorso esterno. Già deputato regionale in Sicilia, Gorgone è stato condannato a sette anni di carcere nel 2004, per l’ex senatore Inzerillo, la condanna a 5 anni e 4 mesi è diventata definitiva nel 2011 per i suoi strettissimi rapporti con il boss Giuseppe Graviano, del quale era “a disposizione”. Spera anche l’ex sottosegretario Nicola Cosentino, condannato in primo grado a nove anni di carcere, e il senatore Pino Firrarello, suocero del sottosegretario Giuseppe Castiglione coinvolto nell’inchiesta del Cara di Mineo, e l’ex sindaco di Taranto Giancarlo Cito. La decisione della Cassazione adesso offre a tutti una fiammella di speranza per vedere scontata o cancellata la pena, ma solo quella perché, come dice il pm Nino Di Matteo, “i fatti rimangono fatti, i rapporti di grave collusione con la mafia rimangono accertati nella loro esistenza e gravità. Già questo rende merito al lavoro della procura di Palermo e dei giudici che li hanno accertati”.

Marcello Dell'Utri: "Sono un prigioniero politico". Dell'Utri: "Io voglio essere trattato da persona normale, non da politico. Sono certamente un prigioniero politico", scrive Luca Romano, Mercoledì 5/07/2017, su "Il Giornale". Sono queste le parole di Marcello Dell' Utri intervistato nel carcere di Rebibbia da David Parenzo per la trasmissione In Onda su La7. L'ex senatore, condannato a sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa, di Berlusconi dice: "E' un fenomeno, ha sette spiriti come i gatti, non lo batte nessuno. Un'intesa tra Berlusconi e Renzi sarebbe auspicabile ma Paese non la capirebbe". Poi Dell'Utri è tornato a parlare della sua situazione in carcere: "Per le patologie cardiovascolari che ho c'è una palese incompatibilità. Io voglio essere trattato da persona normale, non da politico. C'e' un pregiudizio, sono un detenuto che viene dalla politica. Sono certamente un prigioniero politico". Infine su quanto detto da Dell'Utri dal carcere è intervenuto il ministro della Giustizia, Andrea Orlando: "I prigionieri politici in uno stato di diritto non esistono. Il senatore Dell’ Utri è stato processato con tutte le garanzie previste dalla Costituzione. Non c’è stata nessuna rappresaglia di carattere politico".

I dubbi della Cassazione sul caso Dell’Utri. Le parole del pg della Corte che chiese un altro processo: "Se c’è un imputato deve esserci anche un’imputazione. E qui non si trova", scrive Luca Rocca su “Il Tempo” il 10 Luglio 2017. L'ex senatore Marcello Dell'Utri è in carcere perché condannato a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa, un reato che la Corte europea dei diritti umani, esprimendosi sul caso dell'ex numero 2 del Sisde Bruno Contrada, ha considerato inesistente prima del 1994, anno della sua creazione giurisprudenziale. Ma i dubbi sulla vicenda Dell'Utri non riguardano solo l'irretroattività della legge (al fondatore di Forza Italia vengono contestati fatti precedenti al '94), ma anche la natura stessa del concorso esterno. Tanto che il 9 marzo del 2012, quando l'ex senatore era già stato condannato in appello, il sostituto procuratore generale della Cassazione, Francesco Iacoviello, chiese ed ottenne l'annullamento di quella condanna e un nuovo pro- cesso mettendo sul banco degli imputati il concorso esterno e, di conseguenza, l'intero impianto accusatorio dei pm di Palermo. Nella sua requisitoria, infatti, Iacoviello sottolineò che "nessun imputato deve avere più diritti degli altri, ma nessun imputato deve avere meno diritti degli altri. E nel caso di Dell'Utri non è stato rispettato nemmeno il principio del ragionevole dubbio". Il sostituto procuratore generale della Suprema Corte disse anche che nel processo Dell'Utri "l'accusa non viene descritta, il dolo non è provato, precedenti giurisprudenziali non ce ne sono e non viene mai citata la sentenza Mannino della Cassazione, che è un punto di riferimento imprescindibile in processi del genere". Fu la sentenza sull'ex ministro democristiano, infatti, a fare piazza pulita della insidiosa genericità del concorso esterno, stabilendo che per addebitare quel reato doveva essere dimostrato un consapevole favoreggiamento della mafia, fatti concreti, non una semplice frequentazione.

Il diritto vale anche per Marcello Dell’Utri? Scrive Piero Sansonetti l'1 luglio 2017 su "Il Dubbio". Marcello Dell’Utri è anziano. I medici dicono che la sua salute non è compatibile col carcere. Il reato che ha commesso non sta nel codice penale. Marcello Dell’Utri deve uscire di prigione. Perché? Per un mucchio di ragioni. Perché è malato, innanzitutto, e rischia di morire. Perché è anziano. Perché è stato condannato a una lunga pena sulla base di un reato che non esiste nel codice penale. Perché il codice penale dice che nessuno può essere condannato se non per un reato espressamente previsto dalla legge. Perché la Corte Europea ha accertato che quantomeno fino al 1992 il reato per il quale è stato condannato Dell’Utri non esisteva nemmeno in giurisprudenza, e i fatti ai quali si riferisce la condanna sono anteriori al 1992. Servono altre spiegazioni? No, la detenzione di Dell’Utri è un abuso. Un abuso piuttosto clamoroso. Il diritto vale anche per Dell’Utri? O è meglio che crepi in cella? Però quasi nessuno se ne occupa per la semplice ragione che molto prima che i tribunali emettessero le loro sentenze, il processo mediatico aveva già largamente condannato l’ex senatore. Per quale reato? I tribunali mediatici ne sanno poco di “concorso esterno in associazione mafiosa” (è questo il reato, non previsto dal codice, per il quale dell’Utri è detenuto) e quindi hanno trovato reati più semplici e comprensibili: avere fondato Publitalia, e poi avere fondato Forza Italia, essere stato l’uomo forte di Berlusconi e infine – non ultimo – essere siciliano. E quindi probabilmente mafioso. Questi fatti hanno creato un alone di colpevolezza intorno a lui, che è quasi impossibile disperdere. Chi prova a difendere Dell’Utri e i suoi diritti – in quanto detenuto, in quanto cittadino, in quanto persona – si trova immediatamente addosso l’accusa di amico dei mafiosi. Dell’Utri è in prigione da vari anni. Più di tre. I medici che lo hanno visitato hanno accertato che le condizioni sue di salute, in particolare una cardiopatia ischemica cronica, non sono compatibili con la vita in carcere. In aprile, i legali di Dell’Utri hanno presentato una nuova istanza al tribunale di sorveglianza per chiedere la detenzione domiciliare. La risposta è stata la fissazione dell’udienza al 21 settembre. Cinque mesi di tempo per aspettare cosa? Vedere se nel frattempo l’imputato muore e risolve il problema? Le prigioni italiane pullulano di casi di ingiustizia. Tante persone sconosciute stanno in carcere e non dovrebbero (sebbene i giornali, e parte della magistratura, insistano sul concetto che le celle sono vuote e che non esiste la certezza della pena). Molto spesso non è la certezza della pena, che manca, ma la certezza del reato. E allora perché indignarsi proprio per Dell’Utri? Non è uno come un altro? Si, è uno come un altro, ed esattamente per questo motivo io protesto. Perché Dell’Utri è al tempo stesso vittima – diciamo così – di un errore (anzi, di tanti errori), come molti altri, ma è anche vittima “privilegiata” di una sorta di accanimento. È un errore non applicare a lui la sentenza della Corte europea che lo scagiona. È un errore non tenere conto della sua età avanzata (ha quasi ottant’anni, proprio come quel detenuto che è morto giorni fa a Parma, ed era stato scarcerato solo quando era ormai in agonia), è un errore rinviare a settembre la decisione del tribunale sulle sue condizioni di salute. Ma è molto probabile che alcuni di questi errori siano stati commessi consapevolmente. Non dico con spirito di persecuzione, non credo. Dico sotto l’influenza dell’opinione pubblica, dell’antimafia professionale, del popolo viola diventato grillino, di Rosy Bindi e tanti altri. Cioè in una condizione di vera e propria intimidazione, nella quale la foga “giustizievole” supera il diritto, lo prevarica e l’umilia. A questa foga si oppongono forze molto esili. Ha alzato la sua voce il garante dei detenuti, Mauro Palma, ha alzato la sua il senatore Luigi Manconi, esponente molto combattivo della sinistra e – rara avis – esponete garantista. Il quotidiano Il Tempo ha avviato una raccolta di firme. E poi? I partiti politici osano sfidare il senso comune? Temo di no. È triste, tutto questo, molto triste. Triste per la sorte di Dell’Utri, sì, ma non solo.

«Il concorso esterno prima del '94 non c'era» Il caso gemello che dà speranza a Dell'Utri. Le vicende sono simili. La difesa dell'ex senatore: «Buona notizia, ma niente illusioni», scrive Stefano Zurlo, Sabato 8/07/2017 su "Il Giornale". Due casi gemelli, ma non per la giustizia italiana. La revoca della sentenza Contrada rappresenta una buona notizia anche per Marcello Dell'Utri, ma è presto, molto presto per cantare vittoria. Anzi, la strada si annuncia ancora lunga, in un logorante gioco dell'oca, fra ricorsi, bocciature, nuove istanze. «Sulla carta - spiega il professor Tullio Padovani, già ordinario di diritto penale alla Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa - la condanna di Dell'Utri dovrebbe essere cancellata subito, oggi stesso. Infatti nel momento in cui la Corte di Strasburgo ha fatto tabula rasa del verdetto Contrada ha affermato un principio generale che riguarda tutti quelli che si trovano nella sua posizione». E non c'è dubbio che le due storie siano perfettamente sovrapponibili: identico il reato contestato, il concorso esterno in associazione mafiosa, ma soprattutto coincidono le date. I fatti in questione non vanno oltre il 1992, un dettaglio decisivo che accomuna le due vicende e le mette, almeno sul piano logico, sotto l'ombrello di Strasburgo: la Corte ha infatti stabilito che prima del 1994 il reato non era né chiaro né prevedibile, dunque Contrada non doveva essere processato e tantomeno condannato. «Un principio di civiltà - prosegue Padovani - che vale per l'ex dirigente dell'intelligence, per l'ex parlamentare, per chiunque altro». Ma qui cominciano le frenate, i distinguo, i cavilli: per la giustizia italiana i due casi non sono cosi uguali e certi automatismi non scattano. Ci sono voluti anni perché a Contrada venissero riconosciuti i suoi diritti, anche Dell'Utri sta seguendo un percorso accidentato e irto di ostacoli. «Ci sono questioni procedurali - continua Padovani - con sconcertanti verdetti che si contraddicono l'un l'altro, e poi c'è un messaggio che filtra fra le righe delle diverse pronunce: Dell'Utri non è il fratello di Contrada. Uno può essere riabilitato, l'altro no». Almeno per ora. Dell'Utri ha chiesto aiuto a Strasburgo ma la Corte è sommersa dai dossier tricolori e ha un arretrato pauroso. La partita si gioca in Italia, fra la Sicilia e la Capitale. Finora tutte le porte si sono chiuse, ora la vittoria di Contrada dà una nuova chance al fondatore di Publitalia, in cella a Rebibbia da tre anni e con una pena complessiva di 7 anni. «Anzitutto - fa il punto lo studioso che lo assiste - per scrupolo chiederemo la revisione a Caltanissetta, anche se questo strumento non ci pare il più adatto. Ma soprattutto attraverso il cosiddetto incidente di esecuzione proporremo ancora la revoca della condanna alla corte d'appello di Palermo. Finora ci hanno sempre risposto picche ma, batti e ribatti, può darsi che alla fine ci ripensino». Se Palermo dovesse rimanere sulla linea del no, si andrà in Cassazione, come Contrada che alla fine ce l'ha fatta. «Inutile farsi illusioni - conclude il luminare - ci vorranno ancora mesi, forse anni. Contrada ha scontato tutta la pena prima che le sue ragioni fossero ascoltate, forse Dell'Utri ha in tasca qualche frammento di verità quando sostiene di essere un prigioniero politico». Che intanto è in condizioni di salute sempre più precarie. E proprio per questo potrebbe essere spedito a casa dai medici prima che dai magistrati.

Bruno Contrada innocente. E Marcello Dell’Utri? Scrive Errico Novi l'8 luglio 2017 su "Il Dubbio". La giustizia ha i suoi tempi. Certo. Andatelo a dire a un uomo di quasi 86 anni che ne ha trascorsi 10 tra carcere militare e domiciliari. Quell’uomo esiste, si chiama Bruno Contrada e vi risponderà come ha fatto ieri: «Ventiquattr’ore fa la Cassazione ha annullato senza rinvio la mia condanna a dieci anni, che era stata emessa dalla Corte d’Appello nel 2006, quindi non sono più colpevole… ma io lo dico da 25 anni che sono innocente». Chiaro? C’è voluto un quarto di secolo di supplizi giudiziari perché fosse riconosciuta l’innocenza dell’ex numero 2 del Sisde. E ci sono voluti due gradi di giudizio affinché la giurisdizione italiana recepisse la pronuncia emessa dalla Corte europea dei Diritti dell’uomo il 14 marzo 2015. Secondo i giudici di Strasburgo, Contrada era stato condannato in via definitiva per un reato, il concorso esterno in associazione mafiosa, che all’epoca dei fatti contestati ( tra il 1979 e il 1988) non era definito con chiarezza dal diritto italiano, quindi l’ex poliziotto non poteva essere processato né punito; l’altro ieri la Suprema corte ha annullato senza rinvio l’ordinanza con cui la Corte d’Appello di Palermo nell’ottobre 2016 aveva dichiarato inammissibile l’istanza di revoca della condanna del 2006, presentata dall’avvocato Stefano Giordano. Secondo il dispositivo della Cassazione, la sentenza emessa 11 anni fa dai giudici di Palermo è «ineseguibile e improduttiva di effetti penali». Vuol dire tra le altre cose che il sistema giudiziario italiano riconosce il diritto di Contrada a ottenere un maxi risarcimento per ingiusta detenzione. E, quasi certamente, anche il pagamento degli emolumenti, pensione compresa, a cui avrebbe avuto diritto come servitore dello Stato in tutti questi anni. «Chiederemo il reintegro in Polizia», annuncia infatti il suo legale. Sentenza rivoluzionaria. Perché sancisce anche nel diritto nazionale che non si può essere condannati per concorso esterno in associazione mafiosa in virtù di fatti risalenti a prima del 1994. E perché, quindi, si spalanca la possibilità di revoca della condanna anche per Marcello Dell’Utri: stesso reato contestato e analoga impossibilità di contestarlo, perché anche per lui i fatti sono antecedenti al 1994, anno in cui la giurisprudenza definì il reato. Certo, Contrada ha potuto agire con l’incidente di esecuzione sulla base di una pronuncia europea relativa al suo specifico caso. E non esiste alcun automatismo, rispetto all’applicabilità ad altre vicende giudiziarie, del principio sancito nel 2015 da Strasburgo per Contrada. Ma la possibilità che la storica pronuncia della Cassazione possa riverberarsi anche sul caso di Dell’Utri non è così remota. D’altronde le sezioni unite hanno sicuramente stabilito che se la Corte europea sancisce l’inapplicabilità di una determinata fattispecie penale a fatti di un certo periodo, tale inapplicabilità deve determinare la revoca della condanna inflitta in Italia. Del tutto ragionevole ma non tecnicamente scontato. Contrada lo sa. «Ero mentalmente predisposto ad avere l’ennesima delusione, non ero psicologicamente preparato alla revoca della condanna: non credevo più di avere giustizia», dice ora l’ex 007. Non nasconde la commozione. «Dopo 25 anni di sofferenza, mezzo secolo di dolore, sapendo di essere innocente e di avere servito con onore lo Stato, le istituzioni e la patria, arriva finalmente l’assoluzione, dall’Italia e dall’Europa», commenta a caldo. Ringrazia la moglie «che mi è stata sempre vicino». Ripete di essersi vista «devastata la vita», ma anche che «la dignità non me l’hanno mai tolta». L’ex numero 2 del Sisde quasi non ci crede ma è lucidissimo quando nel primo pomeriggio accoglie i cronisti insieme con il suo difensore. E spiega: «Non ho mai pensato di fare cadere le colpe sugli altri, amici o nemici che fossero». Poi descrive il carcere, «lo stridore della chiave nella serratura e il rumore del blindato che mi chiudeva in una cella: quello è stato un momento che non auguro neppure al mio più acerrimo nemico». Spiega che «per avere un’idea di cosa è la sofferenza del carcere bisogna averla provata: non c’è nessun trattato o libro che può descriverla». L’altro suo difensore, il professore dell’università di Bologna Vittorio Manes, evoca il principio sancito dalla pronuncia di Strasburgo: «Al momento dei fatti la legge italiana non era chiara, né certa né prevedibile, e la garanzia della chiarezza e prevedibilità della legge penale è un diritto fondamentale, che vale per tutti». Ma il pm Nino Di Matteo non la pensa così: a suo giudizio i fatti contestati continuano a rappresentare «rapporti di grave collusione con la mafia». Più o meno contemporaneamente chiedono a Contrada cosa farebbe se incontrasse Ingroia, altro suo accusatore: «Niente, mi limiterei a cambiare marciapiede». In realtà per l’ex 007 il problema della prevedibilità del rilievo penale dei suoi comportamenti non si pone neppure, perché, dice, «quando sono stato condannato in primo grado a 10 anni di reclusione nel 1996, dichiarai che qualora avessi commesso quei fatti avrei meritato non 10 anni di carcere ma la fucilazione alla schiena per alto tradimento. E oggi lo ribadisco: dico al mondo intero e di fronte alla mia coscienza che io quei fatti non li ho commessi, sono tutte invenzioni di efferati criminali pagati dallo Stato».

«Felici per Contrada. Ora liberate Dell’Utri, scrive Paola Sacchi l'8 luglio 2017 su "Il Dubbio".  Intervista con Giuseppe Di Peri, avvocato dell’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri, tuttora recluso nel carcere romano di Rebibbia. «È una sentenza importantissima. Ora valga anche per Marcello Dell’Utri quello che è stato deciso per Bruno Contrada». Parla con Il Dubbio Giuseppe Di Peri, avvocato dell’ex senatore di Forza Italia, tuttora recluso nel carcere romano di Rebibbia.

Avvocato, cosa farete dopo che la Cassazione ha revocato la condanna per concorso esterno in associazione mafiosa all’ex numero due del Sisde dopo che la Corte europea dei diritti dell’uomo si era pronunciata contro un processo per un reato che all’epoca dei fatti contestati, prima del ’ 94, non era previsto? Non è la stessa situazione di Dell’Utri?

«Addirittura Dell’Utri è stato condannato per fatti risalenti a prima del ’ 92. Intanto io sono contento per Contrada che finalmente ha avuto un riconoscimento anche dalla giurisdizione italiana di quello che aveva stabilito la Corte europea. La nostra situazione è assolutamente identica dal punto di vista giuridico, anzi oserei dire più vantaggiosa».

Perché?

«Le contestazioni che vengono fatte a Dell’Utri valgono fino al 1992, quindi addirittura due anni prima della sentenza che stabilisce lo spartiacque tra la configurabilità del concorso esterno oppure no».

E però Dell’Utri continua a restare in carcere e in gravissime condizioni di salute.

«Purtroppo. La segregazione carceraria è ancora più gravosa, più penosa proprio perché incidono le sue condizioni di salute. Il dott. Dell’Utri ha avuto quattro stent cardiaci e ha avuto altri problemi, è sicuramente una condizione di salute incompatibile con le condizioni carcerarie. Questo lo ha acclarato a chiari toni sia il direttore sanitario del carcere di Rebibbia, quindi persona che deve verificare le condizioni dei detenuti, sia il garante dei detenuti stessi che è una figura istituzionale».

Torniamo alla sentenza Contrada. In che misura può aiutare il suo assistito?

«Finalmente Contrada ha avuto un riconoscimento pieno da parte della Cassazione. E’ stato acclarato che bisogna dar luogo alle decisioni della Cedu e quindi è stata dichiarata priva di effetti giuridici la sentenza. Anche nei nostri confronti non potrà che essere acclarata la stessa cosa».

Qualche differenza però sui tempi c’è?

«Sì, perché noi abbiamo fatto un ricorso che è stato dichiarato ammissibile dalla Cedu e siamo in attesa di fissazione dell’udienza, mentre al povero Contrada gliel’hanno decisa dopo 10- 15 anni quando lui purtroppo aveva già scontato tutta la pena. Non vorremmo che questo accadesse anche a noi. Dell’Utri rischia di eseguire per intero una sentenza che la Cassazione ha definito priva di effetti giuridici in un caso assolutamente identico. Ha ancora oltre due anni da scontare, ne ha scontati già tre e in una situazione penosissima perché le condizioni di salute hanno aggravato il patema della segregazione carceraria».

Il 13 luglio è atteso il pronunciamento del Tribunale del riesame, precedentemente fissato a settembre, sulla compatibilità della condizione di salute con la detenzione.

«Noi speriamo che il collegio peritale che verrà nominato prenda atto delle sue gravi condizioni di salute».

La campagna fatta dal quotidiano Il Tempo e prima ancora da Il Dubbio, il cui direttore Sansonetti ha chiesto la grazia, ha influito?

«Certamente tutto ciò ha influito sull’anticipazione della decisione del Tribunale del riesame. Che la campagna mediatica possa incidere sulla decisione finale io non lo credo perché i giudici sono liberi di fare le proprie valutazioni. Ma credo anche che saranno in grado di giudicare Dell’Utri non per il suo nome ma per quelle che sono obiettivamente le sue condizioni di salute».

Insomma, che non venga giudicato per il suo nome e quindi per la sua storia politica che lo vede tra i fondatori di Forza Italia?

«Il suo nome è necessariamente legato alla sua storia politica».

Dell’Utri nell’intervista su “La 7” si è definito “prigioniero politico”, il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha ribattuto dicendo che questo non è possibile, perché siamo in uno stato di diritto. Che opinione ha?

«In una situazione come quella prospettata su Contrada, tenendo conto che la Corte europea induce Dell’Utri a ritenere di essere ingiustamente detenuto. Se effettivamente la Cedu anche per lui acclarerà lo stesso principio allora vorrà dire che ha scontato tre anni che non doveva fare. Allora, al di là delle esternazioni che alcune volte vanno giustificate, anche se possono apparire inopportune, io sono con il dott. Dell’Utri e contro il ministro. Perché il ministro della Giustizia dovrebbe prendere atto di quello ha deciso la Cedu su un caso assolutamente identico e si dovrebbe adoperare per dar seguito a una sentenza della Corte europea che fa parte di un trattato che l’Italia ha sottoscritto».

Addirittura dell’Utri ha detto di aver protestato perché non gli arriva “Il Fatto quotidiano”, non esattamente un giornale vicino a lui che se ne è definito “lettore e non estimatore”.

«Io credo che il dott. Dell’Utri è sopravvissuto, almeno sino a ora, a questa segregazione carceraria grazie alla sua intelligenza e alla sua perspicacia. Si mantiene in vita studiando e leggendo. Sì, anche Il Fatto quotidiano. Lo mantiene in vita il suo amore per la cultura, per la poesia».

Quali sono le sue letture preferite ora?

«Dante, la Divina Commedia, di cui è innamorato».

Si sente confinato all’inferno?

«Questo non me lo ha detto. Ma sicuramente non si sente in paradiso. Io auspico che questa campagna per il diritto alla vita di Dell’Utri venga sposata non solo da Forza Italia ma da tutti i partiti quindi anche anche dalla sinistra, perché è una questione di civiltà giuridica non di fazione politica».

Mario Mori. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Nato a Postumia Grotte il 16 maggio 1939 nell'allora Venezia Giulia italiana, oggi in Slovenia, si diploma a Roma, al liceo classico Virgilio, e, successivamente, presso l'Accademia Militare di Modena, completa gli studi e la formazione militare, fino a conseguire, nel 1965, la nomina al grado di tenente dei Carabinieri. Come primo incarico, nel 1965, assume il comando di una Compagnia del IV Battaglione carabinieri di Padova, per poi essere destinato, nel 1968, alla tenenza di Villafranca di Verona, sempre come comandante. Dal 1972, per tre anni, svolge servizio presso il SID (Servizio Informazioni Difesa), a Roma, quindi, nel 1975, con il grado di capitano, viene trasferito al Nucleo Radiomobile dei Carabinieri di Napoli, dove rimarrà per altri tre anni.

Il 16 marzo del 1978, il giorno del sequestro di Aldo Moro, Mori viene nominato comandante della Sezione Anticrimine del Reparto Operativo di Roma, cominciando un lungo periodo che lo vedrà protagonista nella lotta al terrorismo. Sulla scia dei gravissimi fatti di quell'anno, culminati con il ritrovamento del corpo dell'on. Moro il 9 maggio in via Caetani a Roma, il successivo 9 agosto, il generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa viene nominato dal governo "coordinatore delle forze di polizia e degli agenti informativi per la lotta al terrorismo". Le Sezioni anticrimine - reparti creati dall'Arma dei carabinieri per il contrasto al terrorismo e dislocati nei centri più sensibili al fenomeno - vengono a costituire la componente operativa e investigativa più efficace e specialistica nel settore. Sono numerosi gli arresti effettuati in quel periodo dalla Sezione anticrimine guidata da Mori, tra questi spiccano quelli di Barbara Balzerani, Luciano Seghetti, Remo Pancelli, Francesco Piccioni, Walter Sordi, Pietro Mutti, Fabrizio Zani e altri estremisti di destra e sinistra.

Nel 1986, con il grado di tenente colonnello, dopo due anni di servizio presso lo Stato Maggiore dell'Arma dei carabinieri, Mori assume il comando del Gruppo carabinieri Palermo 1, incarico che manterrà fino al settembre 1990. Sono anni difficili in Sicilia, anni in cui la mafia, capeggiata da Salvatore Riina, non esita a eliminare chiunque venga considerato un ostacolo per “Cosa nostra” e per le sue numerose attività illecite. Proprio in questo periodo passato a Palermo, Mario Mori incomincia a conoscere la mafia, le origini e il suo radicamento sul territorio che deriva dalla forza dell'intimidazione prodotta dal vincolo associativo che la caratterizza e da cui scaturiscono condizioni di assoggettamento e omertà per chi è costretto a conviverci. Mori capisce che contro un fenomeno di questo tipo i metodi investigativi utilizzati per disarticolare altre organizzazioni criminali, da soli, non possono essere pienamente efficaci e comunque non risolutivi. Per combattere la mafia occorre uscire dal classico schema investigativo fino al momento adottato, mirando piuttosto e soprattutto a individuare e disarticolare le connessioni e le collusioni stabilmente intrecciate da “cosa nostra” con il mondo politico-imprenditoriale. In poche parole colpire la mafia nel suo principale centro d'interesse: quello economico. Negli anni passati a Palermo, oltre a sviluppare un'approfondita conoscenza del fenomeno mafioso, il tenente colonnello Mori incontra alcuni giovani ufficiali, in quel periodo alle sue dipendenze, che si distinguono per capacità e impegno, tanto da diventare, nel vicino futuro, l'asse portante del costituendo ROS dei carabinieri.

Il ROS (Raggruppamento Operativo Speciale) nasce il 3 dicembre del 1990, e il tenente colonnello Mori ne è uno dei componenti fondativi. La struttura, individuata quale Servizio Centrale Investigativo, assume, per l'Arma dei carabinieri, la competenza a livello nazionale delle indagini nel settore della criminalità organizzata e terroristica. Affidato inizialmente al comando del generale Antonio Subranni, è Mori a curarne la definizione della struttura ordinativa e della dottrina d'impiego, assumendo anche il comando del "I Reparto", quello con competenza investigativa sulla criminalità organizzata. Il periodo passato al ROS sarà lungo, impegnativo e ricco di soddisfazioni. L'esperienza maturata nei quattro anni passati a Palermo si rivela fondamentale e le indagini, per quanto riguarda il contrasto a “cosa nostra”, già avviate in passato, proseguono con nuovo impulso, sempre orientate, come indirizzo strategico, verso il settore economico-imprenditoriale. Ne deriva così anche un'articolata informativa che, curata dall'allora capitano Giuseppe De Donno, viene consegnata, il 20 febbraio del 1992, alla Procura di Palermo. La specifica indagine, divenuta nota come “mafia e appalti”, viene inizialmente sostenuta da Giovanni Falcone e, dopo la sua morte, da Paolo Borsellino che la considera non solo un salto di qualità nella lotta a “Cosa nostra”, ma anche e soprattutto la causa scatenante della strage di Capaci, dove perdono la vita l'amico magistrato, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti di scorta. Tale indagine, tuttavia, non trova pari accoglienza nei responsabili della Procura della Repubblica di Palermo, tanto che si producono una serie di contrasti tra la Procura stessa e il Comando del ROS in merito alla conduzione delle indagini, contrasti destinati a perdurare nel tempo. In particolare le incomprensioni iniziali si riferiscono a quell'aspetto dell'indagine che prende in esame le connivenze tra “uomini d'onore” da una parte e politici dall'altra, per i quali la Procura di Palermo chiederà e otterrà l'archiviazione dell'inchiesta il 20 luglio 1992, il giorno dopo la morte di Paolo Borsellino nella strage di via D'Amelio. Da quella parte dell'informativa “mafia e appalti” sopravvissuta, scaturiscono diverse vicende investigative che portano all'arresto di una serie di imprenditori considerati molto vicini ai vertici di “cosa nostra”, come Angelo Siino, Giuseppe Li Pera, Giuseppe Lipari, Antonio Buscemi, Filippo Salamone e altri, tutti coinvolti in attività imprenditoriali illecite riconducibili a interessi mafiosi. Questa tipologia d'indagine, riproposta, d'intesa con le Direzioni Distrettuali Antimafia competenti, anche nel contrasto alle altre forme di delinquenza mafiosa, quali la 'ndrangheta, la camorra e la criminalità pugliese, confermerà la sua validità ottenendo eccellenti risultati pratici con lo smantellamento di pericolosi e agguerriti sodalizi criminali. Mori diventò poi vice comandante del ROS nell'agosto 1992, con il grado di Colonnello.

L'attività di contrasto a Cosa nostra sviluppata da parte del ROS è ovviamente consistita anche nella ricerca dei latitanti dell'organizzazione, che ne costituiscono la vera e propria spina dorsale. Il 15 gennaio 1993 il capitano Sergio De Caprio, noto anche come capitano "Ultimo", a capo di una squadra di pochi carabinieri, grazie a un'accurata attività investigativa, opera l'arresto di Salvatore Riina, capo indiscusso della mafia siciliana. Per tale episodio Mori e De Caprio verranno processati con l'accusa di favoreggiamento nei confronti di Cosa nostra, non per la mancata perquisizione dell'abitazione del Riina dopo il suo l'arresto, come i più ritengono, ma per avere omesso di informare la Procura di Palermo che il servizio di osservazione alla casa era stato sospeso. Il dibattimento si concluderà con l'assoluzione sancita dal Tribunale di Palermo perché "il fatto non costituisce reato", con sentenza del 20 febbraio 2006, non appellata dalla Procura della Repubblica di Palermo - che peraltro aveva anch'essa richiesto l'assoluzione - divenuta irrevocabile l'11 luglio 2006. Nel dettato della sentenza i giudici, prese in considerazioni tutte le testimonianze e i verbali disponibili, oltre ad assolvere Mori e De Caprio per i reati imputati, ribadiranno che “l'istruzione dibattimentale ha consentito di accertare che il latitante (Riina, ndr) non fu consegnato dai suoi sodali, ma localizzato in base ad una serie di elementi tra loro coerenti e concatenati che vennero sviluppati, in primo luogo, grazie all'intuito investigativo del cap. De Caprio”.

L'arresto di Riina non fu certamente l'unica attività di rilievo svolta dal ROS, anche se la più clamorosa. Sono numerose le indagini sviluppate, anche a livello internazionale, che hanno consentito l'arresto di pericolosi latitanti e l'eliminazione di temibili organizzazioni criminali transnazionali. Fra le numerose operazioni vanno sicuramente citate quelle conclusesi con la cattura del boss Salvatore Cancemi, di Angelo Siino, indicato quale Ministro dei Lavori Pubblici di “cosa nostra”, dell'ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino, lo smantellamento del clan dei Cuntrera-Caruana e quello di Gaetano Fidanzati e i suoi figli, veri snodi del traffico della droga tra l'Europa e le Americhe.

Nel 1998, promosso Generale di Brigata, diviene comandante del ROS. Lo resterà circa un anno.

Nel 1999, il Comando generale dell'Arma dei carabinieri decide di sostituire Mori al comando del ROS, destinandolo a comandare la "Scuola ufficiali carabinieri" di Roma. Il trasferimento del generale, seppur in un reparto non operativo, viene definita una “promozione”. Dura due anni il periodo alla Scuola ufficiali e nel gennaio del 2001 il generale Mori diventa comandante della "Regione carabinieri Lombardia" da generale di divisione, incarico che manterrà fino al 1º ottobre 2001, quando è posto in congedo dall'Arma dei Carabinieri.

Il 1º ottobre del 2001 infatti Mario Mori viene nominato prefetto e direttore del Sisde, il Servizio Informazioni per la Sicurezza Democratica, che verrà da lui diretto sino al 16 dicembre 2006. Questo periodo è caratterizzato dalla crisi originata dall'attentato alle Torri Gemelle di New York dell'11 settembre 2001 e dal conseguente accentuarsi del contrasto alle iniziative terroristiche portate essenzialmente dal fondamentalismo islamico. Il Sisde contribuisce in quel periodo e in maniera significativa a evitare che l'Italia diventi oggetto di clamorose azioni stragiste che invece colpiscono altre nazioni occidentali, individuando soggetti e organizzazioni operanti in Italia collegati con i gruppi rifacentesi ad al-Qāʿida, sventandone le iniziative illegali. Contemporaneamente il Servizio controlla il panorama criminale italiano e contribuisce in maniera determinante a frustrare, con l'operazione “Tramonto” i cui esiti vengono messi a disposizione dell'Autorità giudiziaria milanese, un tentativo di ricostituzione delle Brigate Rosse. Significativa anche la cattura all'estero, dopo una difficoltosa ricerca in diversi paesi del Nord-Africa, di Rita Algranati, esponente delle Brigate Rosse, uno degli ultimi responsabili dell'omicidio dell'on. Moro ancora in libertà.

Terminata l'esperienza al servizio segreto civile, nell'estate del 2008 fino al giugno del 2013, Mori ha svolto attività di consulenza nel settore della sicurezza pubblica per conto del Sindaco di Roma Gianni Alemanno.

Nel 2016 ha pubblicato un libro "Servizi e Segreti".

Mori è stato rinviato a giudizio dalla procura di Palermo insieme con Sergio De Caprio, ed entrambi furono poi prosciolti dall'accusa di favoreggiamento nei confronti di “Cosa nostra”. L'indagine era stata avviata dalla procura per accertare gli eventi che avevano portato alla ritardata perquisizione del "covo" di Salvatore Riina. Infatti, dopo l'arresto del boss, i carabinieri della territoriale di Palermo erano pronti a perquisire l'edificio, ma Ultimo e il ROS, ritenendo di poter proseguire l'indagine in corso e individuare le attività criminali dei fiancheggiatori del boss arrestato per disarticolare completamente l'organizzazione, chiesero la sospensione della procedura per "esigenze investigative" che fu concessa dalla procura - stando a quanto afferma l'allora procuratore Caselli - «in tanto in quanto fosse garantito il controllo e l'osservazione dell'obiettivo». Diciotto giorni dopo si scoprì che quell'osservazione era stata sospesa prematuramente dai Carabinieri, all'insaputa della Procura e senza che fosse stata effettuata alcuna perquisizione. Nel frattempo il "covo" era stato ormai abbandonato dalla famiglia di Riina e completamente svuotato. De Caprio e Mori sostennero che c'era stato un equivoco nella comunicazione con la procura poiché non avevano espresso l'intenzione di sorvegliare il covo in modo continuativo. Peraltro, come riportato nelle motivazioni della sentenza del processo, era ben chiaro dall'inizio, sia ai carabinieri sia alla procura, che decidendo di non procedere alla perquisizione, si assumeva un rischio, un rischio investigativo motivato dal raggiungimento di un obiettivo superiore. Lo stesso Tribunale di Palermo sentenzia: «Questa opzione investigativa [la ritardata perquisizione, NdR] comportava evidentemente un rischio che l'Autorità Giudiziaria scelse di correre, condividendo le valutazioni espresse dagli organi di polizia giudiziaria, direttamente operativi sul campo, sulla rilevante possibilità di ottenere maggiori risultati omettendo di eseguire la perquisizione. Nella decisione di rinviarla appare, difatti, logicamente, insita l'accettazione del pericolo della dispersione di materiale investigativo eventualmente presente nell'abitazione, che non era stata ancora individuata dalle forze dell'ordine, dal momento che nulla avrebbe potuto impedire a “Ninetta” Bagarella (moglie di Riina, ndr), che vi dimorava, o ai Sansone, che dimoravano in altre ville ma nello stesso comprensorio, di distruggere od occultare la documentazione eventualmente conservata dal Riina - cosa che in ipotesi avrebbero potuto fare anche nello stesso pomeriggio del 15 gennaio, dopo la diffusione della notizia dell'arresto in conferenza stampa, quando cioè il servizio di osservazione era ancora attivo - od anche a terzi che, se sconosciuti alle forze dell'ordine, avrebbero potuto recarsi al complesso ed asportarla senza destare sospetti. L'osservazione visiva del complesso, in quanto inerente al solo cancello di ingresso dell'intero comprensorio, certamente non poteva essere diretta ad impedire tali esiti, prestandosi solo ad individuare eventuali latitanti che vi avessero fatto accesso ed a filmare l'allontanamento della Bagarella, che non era comunque indagata, e le frequentazioni del sito.» I Carabinieri definirono la sospensione dell'osservazione una «iniziativa autonoma della quale la Procura non era stata informata». Secondo i sostenitori dell'accusa di favoreggiamento sarebbero esistiti elementi indiziari per ritenere che i capi del ROS avessero mentito alla procura facendole credere che il covo sarebbe stato sorvegliato in modo continuativo. De Caprio ha sostenuto in sua difesa: «Io non specificai se l'attività di osservazione sul complesso di via Bernini sarebbe o meno proseguita nei giorni successivi... Io non volevo fare sorveglianza... Quella lì era la casa di Riina. Per me, forse ho sbagliato le valutazioni, rimane la casa, l'abitazione del sangue di Riina, non la base logistica della latitanza di Riina. Per me non aveva valore investigativo come non lo ha oggi l'abitazione di Provenzano a Corleone dove ha la moglie e i figli». Secondo la testimonianza di alcuni collaboratori di giustizia un gruppo di affiliati alla mafia entrò indisturbato portando in salvo i parenti del boss, svuotando la cassaforte e verniciando le pareti per cancellare le impronte. Tuttavia, tali dichiarazioni, giudicate “frutto di una ricostruzione certamente autorevole, ma insufficiente per trarne definitive conclusioni” dallo stesso dr. Ingroia – il PM che ha sostenuto l'accusa nel relativo procedimento -, non sono mai state riscontrate nel corso di un vero e proprio dibattimento. Inoltre, nessuno di detti collaboratori ha mai dimostrato di aver personalmente verificato il contenuto della cassaforte o, quantomeno, di conoscere esattamente quanto conservato all'interno della stessa. Il processo si concluse con l'assoluzione “perché il fatto non costituisce reato”: infatti la corte, pur ritenendo la sussistenza di una erronea valutazione dei propri spazi di intervento da parte degli imputati, di gravi responsabilità disciplinari per non aver comunicato alla Procura la propria intenzione di sospendere la sorveglianza, pur ritenendo che “l'omessa perquisizione della casa” in cui il boss mafioso Riina aveva vissuto gli ultimi anni della sua latitanza, insieme con la sua famiglia, e “l'abbandono del sito sino ad allora sorvegliato hanno comportato il rischio di devianza delle indagini, che, difatti, nella fattispecie si è pienamente verificato, stando alle manifestazioni di sollievo e di gioia manifestate da Bernardo Provenzano e da Benedetto Spera", ha stabilito la totale estraneità di Ultimo e Mori dai fatti contestati, giungendo a un'assoluzione con formula piena. La sentenza, non appellata dalla Procura della Repubblica di Palermo - che peraltro aveva anch'essa richiesto l'assoluzione - è divenuta irrevocabile l'11 luglio 2006.

Mori il 17 luglio 2013, è stato assolto dal Tribunale di Palermo, insieme con il colonnello Mauro Obinu (condannato in primo grado a oltre sette anni di reclusione in un diverso procedimento per traffico di droga, assieme al generale Giampaolo Ganzer, succeduto a Mori alla guida del ROS), dall'accusa di aver favorito la latitanza di Bernardo Provenzano, impedendone la cattura nel 1995. Secondo il testimone d'accusa, il colonnello Michele Riccio, smentito e querelato dai denunciati, furono Mori e Obinu ad avergli impedito di catturare Provenzano in un casolare di Mezzojuso (PA), indicato dal mafioso suo confidente Luigi Ilardo, poi assassinato da "cosa nostra" subito dopo aver accettato di collaborare con la giustizia. Nel processo si è poi aggiunta la testimonianza di Massimo Ciancimino, il quale riferisce di contatti, peraltro già confermati in più sedi giudiziarie da Mori e da un altro ufficiale dei Carabinieri, con il padre Vito Ciancimino. Secondo il Ciancimino, per instaurare una trattativa con “cosa nostra” così da giungere a una sospensione della strategia stragista attuata all'epoca, secondo Mori e il suo dipendente, per acquisire notizie sull'organizzazione mafiosa e realizzare la cattura dei grandi capi mafia. Il 20 aprile 2012 i giudici del processo celebrato a Palermo contro il generale dei carabinieri Mario Mori e il colonnello dell'Arma Mauro Obinu per favoreggiamento alla mafia, hanno ammesso a deporre su richiesta dell'accusa la vedova del giudice Paolo Borsellino, Agnese Piraino Leto, e Alessandra Camassa e Massimo Russo, due ex colleghi del magistrato assassinato dalla mafia. Il 24 maggio 2013 il PM di Palermo Antonino Di Matteo ha chiesto 9 anni di reclusione per il generale Mori e 6 anni per il Colonnello Mauro Obinu, riguardo al processo sul presunto favoreggiamento aggravato a Cosa Nostra, per il mancato arresto di Bernardo Provenzano, nell'ottobre 1995. Il 17 luglio 2013 la IV Sezione Penale del Tribunale di Palermo ha pronunciato la seguente sentenza: Il Tribunale di Palermo, visti gli articoli 378 e 530 del Codice di procedura penale, assolve Mori Mario e Obinu Mauro dell'imputazione ai medesimi ascritta perché il fatto non costituisce reato. Visto l'articolo 207 del Codice di procedura penale ordina la trasmissione di copia della presente sentenza delle deposizioni rese da Ciancimino Massimo e da Riccio Michele all'ufficio del Procuratore della Repubblica in sede per quanto di sua competenza[6]. Il Tribunale ha quindi assolto con formula piena Mori e Obinu dall'accusa di aver favorito la latitanza di Bernardo Provenzano e ha ravvisato, a carico dei due principali testi dell'accusa, Massimo Ciancimino e Michele Riccio, ai sensi dell'art. 207 del Codice di Procedura Penale, indizi del reato previsto dall'articolo 372 del Codice Penale (falsa testimonianza). Immediatamente dopo la sentenza, intervistato dai numerosi giornalisti presenti, il PM Vittorio Teresi si è detto amareggiato per l'esito del processo, annunciando che la Procura proporrà appello verso una sentenza che non condivide ma che rispetta. Il 19 maggio 2016 è assolto anche in secondo grado dalla corte d'appello di Palermo.

Assolto (di nuovo) Mario Mori. C’è un “filo rosso” che attraversa i processi all’ex generale: le assoluzioni, scrive l'8 Giugno 2017 "Il Foglio". Dopo tanti anni di processi, l’assoluzione di Mario Mori, accusato di aver favorito la latitanza di Bernardo Provenzano, è definitiva. La Cassazione, come avevano già stabilito le sentenze di assoluzione in primo grado e in appello, conferma che non c’è stata una “mancata cattura” del capo dei capi. Non c’è stato quindi secondo i giudici alcun favoreggiamento o complicità dell’ex generale dei carabinieri e dal colonnello Mario Obinu con il capo di Cosa nostra.   L’ipotesi dei pm della procura...

Un film e una legge intitolati a Mario Mori a sei giorni dalla sua assoluzione. Intervista all'ex-comandante del Ros diventato un simbolo. Come Dreyfus ed Enzo Tortora, scrive Maurizio Stefanini il 14 Giugno 2017 su "Il Foglio". Un film e una legge intitolati a Mario Mori sono state presentati in contemporanea a Montecitorio: giusto a sei giorni dalla sentenza con cui la Corte di Cassazione ha assolto in via definitiva il generale dei carabinieri già protagonista della lotta al terrorismo e alla mafia, comandante del Ros e direttore del Sisde, dall’accusa di non aver arrestato il boss Bernardo Provenzano in base a quella ipotizzata “trattativa tra stato e mafia” su cui Antonio Ingroia e Antonino Di Matteo avevano costruito un teorema. Il docufilm è di Ambrogio Crespi: il fratello del Luigi già sondaggista di riferimento di Berlusconi. Anche Ambrogio è finito nel tritacarne di un certo tipo di malagiustizia, tra una girandola di accuse e detenzioni finite in assoluzioni e poi seguite da nuove accuse. Il docufilm su Mori si inserisce quindi in una sua ideale trilogia che comprende anche l’altro docufilm sul caso Tortora e “Spes contra spem”. La legge che è stata idealmente intitolata a Mori è invece partita dal movimento La Marianna. Ricorda Mori che la sua battaglia non è iniziata nel processo ma solo dopo l’assoluzione definitiva per una scelta voluta. “Io ho accettato il processo ed ho rifiutato anche la prescrizione, battendomi come imputato con gli strumenti conferiti a un imputato. Al termine ho deciso di trarre le mie conclusioni e ho iniziato questo nuovo tipo di battaglia”. Come spiega al Foglio, “il film e la legge sono ovviamente due cose distinte. Ho accettato la proposta di Crespi, ma la cosa veramente importante a mio avviso è la legge. Una legge che migliori l’approccio attuale al problema della giustizia visto dalla parte dei protagonisti: le vittime e gli imputati”. Film su Mori e legge Mori testimoniano comunque di una persona che è diventata un simbolo. Come giù fu per Dreyfus, e per Enzo Tortora. “Ero già ufficiale dei Carabinieri al tempo di Enzo Tortora, e quindi quella vicenda l’ho vissuta. Enzo Tortora fu veramente una vittima, io non ritengo di esserlo stato. Io mi sono potuto difendere bene da libero cittadino; lui si è dovuto difendere in carcere”. Perché tra il caso Tortora e il caso Morti la giustizia italiana era intanto migliorata? O semplicemente perché un generale dei carabinieri per mera esperienza professionale è già più attrezzato mentalmente per difendersi meglio? “Indubbiamente, io ero più preparato. Conoscevo tutti gli argomenti su cui verteva il processo, per cui avevo un grande vantaggio”. Quindi questa legge sarebbe a favore di chi non ha questa esperienza? “Soprattutto di chi non ha questa esperienza. Di chi non ha il tempo per difendersi bene”. Qualcuno tra il pubblico osserva: “Generale, a 78 anni lei sembra ringiovanito. Effetto dell’assoluzione?”. Mori fa un sorriso molto largo. “Devo vivere più a lungo dei miei nemici”. Come spiega per la Marianna al Foglio Giovanni Negri, “la legge Mori è una legge che prevede che al di fuori di tempi certi e garantiti, indicati per legge, scatta la decadenza dell’azione penale. Se il cittadino K non ottiene giustizia, non è processato entro X tempo in primo grado, Y tempo in secondo grado, Z tempo in terzo grado, decade l’azione penale nei suoi confronti. È chiaro che se dichiaro la decadenza dell’azione penale sic et simpliciter, apro le carceri. Per questo la legge Mori va di pari passo con uno stanziamento di risorse necessario a restituire a normalità l’attività dei palazzi di giustizia”. Insomma, bisogna che la giustizia abbia i mezzi per poter fare i processi in tempo. “Infatti la legge Mori non che è l’inizio di un percorso. Il primo incontro richiesto è con l’Associazione nazionale magistrati, proprio per quantificare le risorse che ci vogliono per restituire normalità ai tribunali. E poi, ovviamente, da oggi incontri a tutto campo con partiti, parlamentari, gruppi parlamentari, e candidati alle prossime elezioni che saranno chiamati ad esprimersi in merito alla legge Mori. Vogliamo fare della prossima legislatura la legislatura della legge Mori”. 

CINQUE QUESTIONI E UNA PROVA SU BRUNO CONTRADA. A mio parere si parla poco e male della vicenda che ha interessato Bruno Contrada, scrive il 10 luglio 2017 Paride Leporace. Per coloro che non ne siano informati. La Corte di Cassazione ha revocato la condanna a 10 anni inflitta all’ex n. 2 del Sisde Bruno Contrada, accusato di concorso in associazione mafiosa. I giudici supremi hanno accolto il ricorso dei legali di Contrada che aveva impugnato il provvedimento con cui la Corte d’appello di Palermo aveva dichiarato inammissibile la sua richiesta di incidente di esecuzione. La Cassazione ha così dichiarato «ineseguibile e improduttiva di effetti penali la sentenza di condanna». Tutto questo a 23 anni dai fatti e dopo infinito carcere scontato ingiustamente. Lo scarno dibattito ha visto rullar tamburi da chi aveva sempre espresso perplessità su questa dolorosa vicenda di ingiusta Giustizia (il Foglio in testa da sempre innocentista) e l’inalberarsi delle voce dei giustizialisti che non accettano la cassata sentenza dopo un provvedimento analogo della Corte di Giustizia di Strasburgo. Marco Travaglio in testa e i suoi seguaci urlano che Contrada è un pezzo di delinquente colluso. Ai giornalisti embedded di alcune procure dicono nulla le due sentenze avverse sul reato di Concorso esterno in associazione mafiosa non contemplato nel nostro codice e che non può essere applicato. Molti di questi cronisti sono coloro che adombrano complotti della peggior specie con teoremi che riguardano spesso Berlusconi, Renzi e Dell’Utri. Spero che Marco Travaglio, che si proclama allievo prediletto di Montanelli, abbia letto il brano del suo maestro pubblicato nella sua Storia d’Italia e ripubblicato dal Foglio in cui si legge: “Sulle testimonianze e sulle prove esibite a carico di Contrada non vogliamo pronunciarci: le une e le altre appartengono alla logica dei processi per associazione mafiosa. Uno aveva saputo da un altro che un altro aveva detto, Falcone non poteva soffrire Contrada e aveva promesso «gli metterò i ferri» (ma riferito di seconda mano), il commissario Cassarà lo disistimava (dichiarato dalla vedova), alcuni dirigenti della polizia non lo potevano vedere e altri avevano invece per lui incondizionata stima: insomma un copione che in quelle aule, e con quel genere d’imputati, si ripete con triste monotonia. Non vorremmo trovarci nei panni di chi deve giudicare, e ancor meno in quelli d’un accusato”. A questo illuminante passo vorrei aggiungere cinque questioni e una prova a riscontro.

Ho seguito da cronista il processo a Giacomo Mancini per concorso esterno in associazione mafiosa con pesante condanna di primo grado, annullamento in appello e cancellazione del reato da nuovo tribunale per conoscere in dettaglio la mostruosità creativa giuridica di un reato troppo aleatorio e sostenuto da dichiarazioni di collaboratori di giustizia non sempre attendibili. Mancini, come Contrada, si è difeso nel processo sostenuto da tutti coloro che conoscevano la sua storia e non erano interessati ad abbatterlo politicamente. A differenza di Contrada non fu arrestato ma subì un processo mediatico terribile e devastante.

Bruno Contrada venne arrestato la sera di Natale mentre si preparava ad andare a cena dal figlio. Per lui venne riaperto il carcere militare di Palermo dove per lunghi mesi fu messo in cella da solo. Un odissea giudiziaria kafkiana durata vent’anni che meriterebbe film di denuncia come è avvenuto per lo sventurato Enzo Tortora. Come cronista su Contrada ho la coscienza a posto. Ne scrissi nel 2009 nel mio libro “Toghe rosso sangue”. (Edizioni Città del Sole). Ma non su partito preso ma per la ricerca sul campo effettuata a Palermo quando andai a cercare il figlio del giudice Gaetano Costa ucciso da Cosa Nostra, Michele, testimone al di sopra di ogni sospetto, che mi fece ragionare sui terribili fatti che isolarono e uccisero quel capace magistrato tradito da autorevoli colleghi. Sono costretto a citarmi: “L’avvocato Michele Costa porta addosso la toga del padre nelle udienze. …Ma l’avvocato Costa non accetta le verità precostituite, Al pari della madre che gli strinse la mano al processo di Catania ritiene ad esempio che Bruno Contrada abbia ben operato. Lo ha affermato anche in un’intervista al Corriere della sera, Pur conoscendo Falcone, il figlio del giudice Costa non crede a quello che ha rivelato Buscetta. Storicizzando il fatto che la criminalità organizzata siciliana già ad inizio del 900 era abituata a collaborare con la giustizia per eseguire le sue vendette. La mafia buona e quella cattiva non esistono. Esiste la zona grigia invece e le carte di Costa rimaste chiuse nei cassetti che nessuno ha aperto”.

Reato fantasma per Contrada. Sequestro di Stato. La dignità di un uomo non ha prezzo e la galera per un innocente è un sequestro di Stato. L’ignavia e il silenzio del Parlamento e del Governo su una parte della magistratura dà la misura dell’intimidazione e del ricatto, scrive Vittorio Sgarbi su "Quotidiano.net" il 9 luglio 2017. La dignità di un uomo non ha prezzo e la galera per un innocente è un sequestro di Stato. L’ignavia e il silenzio del Parlamento e del Governo su una parte della magistratura dà la misura dell’intimidazione e del ricatto. Fu, tra l’altro, un magistrato dell’accusa a ribadire in dibattimento che il nostro codice non prevede il concorso esterno in associazione mafiosa. La corte di Strasburgo l’ha confermato. Per cui la condanna di Contrada è illegittima, e lo Stato si è fatto criminale. Il Parlamento umiliato ha continuato a tacere. Contrada ha già ottenuto da parte dell’Europa una condanna per l’Italia che non ha avuto la dignità di ammettere l’errore. Il vero concorso esterno è quello del parlamento e del governo con un pezzo deviato dello Stato, una magistratura che perpetua ingiustizie. Finalmente la Corte di Cassazione ha revocato la condanna a 10 anni inflitta all’ex numero due del Sisde Bruno Contrada. I giudici romani hanno accolto il ricorso del legale di Contrada, Stefano Giordano, che aveva impugnato il provvedimento con cui la Corte d’appello di Palermo aveva dichiarato inammissibile la richiesta di incidente di esecuzione. La Cassazione ha invece dichiarato «ineseguibile e improduttiva di effetti penali la sentenza di condanna». Peccato che Contrada l’abbia scontata, e sia stato prima diffamato e poi torturato, tra indagini, processi sentenze ed esecuzione, per 25 anni, da quando fu arrestato nel 1992. Oggi continua a esserlo da quei maramaldi che continuavano a insultarlo, scrivendo, fra ironie e disprezzo, che «favorì la mafia». L’unico reato vero è stato, per incredibile coincidenza, proclamato dal Parlamento giorni fa: è il reato di tortura. Per questo dovranno essere processati i magistrati che, senza prove, hanno applicato a Contrada l’inesistente teorema del «concorso esterno», esattamente come hanno fatto con Marcello Dell’Utri. Una volta condannati, applicando il loro stesso metodo, i magistrati potranno paradossalmente appellarsi alla sentenza della corte di Strasburgo che ha stabilito per Contrada che «il reato non era sufficientemente chiaro e prevedibile, e il ricorrente non poteva conoscere nello specifico la responsabilità penale che discendeva dagli atti compiuti». Naturalmente, con la beffa, dopo dieci anni di carcere. E lamentando che una legge non può avere effetti retroattivi. Qualcuno ci spiegherà, in nome di quale norma del diritto sostanziale, Contrada e poi Dell’Utri sono stati condannati? E perché non è stato ascoltato un autorevole magistrato dell’accusa, Francesco Mauro Jacoviello, che ha sostenuto l’attuale insussistenza giuridica del reato di concorso esterno, in assenza di riscontri fattuali e concreti, e con l’utilizzo di fumosi teoremi? Contrada fu tra i pochi ad aprire quei cassetti. Per chi vuole approfondire rimando al mio testo. Troverà con dovizia di particolari come il capo della Criminalpol Contrada non mollò mai la presa sul delitto Costa e su molti omicidi eccellenti come quello Mattarella. Avversò le tesi investigative del questore e prefetto di Palermo. Scrisse di sua iniziativa un rapporto sulle cosche siciliane e americane che è il quadro investigativo più realistico sull’omicidio Costa. Delitto rimasto irrisolto da un punto di vista giudiziario e senza conseguenze al Csm per magistrati che hanno avuto eccellenti carriere. Chiudo con una prova a riscontro. E’ uscito postumo, il libro di memorie del giudice, Mario Almerighi, amico personale di Giovanni Falcone e Giacomo Ciaccio Montalto. Ebbene ne “Il testimone. Memorie di un magistrato in prima linea (La nave di Teseo)” in merito alle questioni legate al delitto Costa l’autorevole magistrato in una sua nota invita ad approfondire nel libro “Toghe rosso sangue”. Considerato che Almerighi riteneva Contrada colluso posso tranquillamente concludere di aver operato con coscienza sulla disumana vicenda di Bruno Contrada.

I danni del populismo penale: si veda l'esempio delle confische di mafia. Ecco perché il dàgli al corrotto è solo una strategia politica, vuota e inutile. Il giustizialismo è cavalcato in maniera diversa da destra e da sinistra, ma il risultato è lo stesso, scrive Giovanni Fiandaca il 6 Luglio 2017 su "Il Foglio". Le forti ventate di populismo giustizialista levatesi da qualche tempo nel nostro paese, per vero in maniera trasversale agli schieramenti politici (ma con la differenza che, mentre la “destra” suole drammatizzare l’allarme per la criminalità comune, la “sinistra” tende invece a enfatizzare in misura maggiore quello per le mafie e la criminalità dei colletti bianchi), spingono sempre più a concepire modifiche legislative all’insegna del più smodato repressivismo: trascurando non solo – come ha anche ammonito Papa Francesco – che la repressione penale non è la medicina più adatta a curare e prevenire i grandi mali sociali, ma anche che non sono il rigore sanzionatorio o l’incremento delle pene strumenti da soli in grado di contrastare efficacemente i fenomeni dannosi da fronteggiare. Ma questa duplice verità, consolidata nelle cerchie degli esperti, verosimilmente risulta sgradita o sfugge per una doppia ragione di comodo: innanzitutto, assecondando la richiesta di punizioni draconiane proveniente dai settori più frustrati o indignati della pubblica opinione, i politici “pan-punitivisti” confidano di poter così lucrare maggiori quote di consenso elettorale; in secondo luogo, la risposta punitiva (o più punitiva) rappresenta in ogni caso uno strumento di intervento più semplice e meno impegnativo rispetto a soluzioni politiche ben più sofisticate ed efficaci (riforme socio-economiche, piani di sviluppo, strategie di prevenzione sociale, amministrativa o educativa ecc.), che i politici odierni non hanno la capacità di ideare o per le quali non dispongono delle risorse occorrenti. Questa ricorrente tentazione di abusare del diritto punitivo (concepito in senso lato come comprensivo sia del diritto penale, sia delle cosiddette misure di prevenzione) emerge con chiarezza, tra l’altro, a proposito di alcune modifiche del codice antimafia già approvate dalla Camera e oggetto di prossima discussione al Senato. Di che stratta? Si tratta, in particolare, della proposta di inserire nel novero delle persone potenzialmente destinatarie delle cosiddette misure di prevenzione patrimoniali anti-mafia, cioè del sequestro e della confisca di interi (o di parti di) patrimoni di origine illecita, anche i soggetti “indiziati” di aver commesso anche un solo delitto tra quelli dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione (ad eccezione soltanto, perché non espressamente menzionati, dei reati di abuso di ufficio e rifiuto od omissione di atti di ufficio): dunque, si fa riferimento all’indiziato di delitti quali il peculato, la malversazione, la concussione e l’induzione indebita, la corruzione nelle sue diverse forme. Ma, per comprendere l’effettiva portata di questa novità in discussione, è opportuno fare un passo indietro e addentrarsi in una piccola boscaglia normativa, che comporta a sua volta qualche tecnicalità un po’ ostica che il lettore vorrà perdonare. La prima cosa che i non addetti ai lavori forse non sanno, e che forse li sorprenderà, è questa: il sequestro e la confisca dei patrimoni illeciti possono essere applicati agli indiziati di uno dei suddetti delitti contro la Pubblica amministrazione già in base al diritto vigente, senza che sia necessaria al riguardo alcune riforma. Sapete perché? Perché lo consentono le prime novità normative in proposito introdotte dai due “pacchetti-sicurezza” del 2008 e del 2009, che hanno consentito l’estensione applicativa del sequestro e della confisca anche a coloro che, sulla base di elementi di fatto, debbano ritenersi “abitualmente dediti a traffici delittuosi”: questa abitualità nell’attività delittuosa, per interpretazione pressoché unanime, è infatti suscettibile di essere riferita a qualsiasi tipo di reato, inclusi – non certo ultimi – appunto reati contro la Pubblica amministrazione come la corruzione, il peculato ecc. Non a caso, nei confronti di una estensione così generale e indifferenziata delle misure patrimoniali già allora si levarono subito voci critiche, non solo in seno alla dottrina accademica ma anche tra i magistrati: ciò per un insieme di ragioni di fondo che – come fra poco vedremo – appaiono ancora più evidenti e stringenti rispetto alle novità aggiuntive contenute nella proposta in atto oggetto di vaglio parlamentare. Quest’ultima proposta, in effetti, innova rispetto al diritto vigente come or ora illustrato sotto due profili: a) include esplicitamente (senza più rendere necessaria, quindi, la deduzione interpretativa dal generico concetto di “soggetti abitualmente dediti a traffici delittuosi”), tra i potenziali destinatari del sequestro e della confisca, le persone indiziate della commissione di uno dei reati contro la Pubblica amministrazione tra quelli sopra richiamati ; b) ma, così facendo, rinuncia appunto a richiedere quale presupposto il requisito delimitativo dell’“abitualità” nel reato, accontentandosi invece della presenza di indizi relativi alla commissione anche di un solo illecito. Tutto ciò, a ben vedere, è manifestamente irrazionale alla stregua dei principi di una politica penale costituzionalmente orientata, a cominciare da quelli di ragionevolezza e proporzione. Prima di spiegare perché, si considerino questi due esempi: si ipotizzi che sussistano indizi per supporre che un vigile urbano abbia imposto ad un salumiere di consegnargli gratuitamente una certa quantità di prosciutto e di formaggio, minacciandolo che altrimenti gli avrebbe contestato violazioni in realtà inesistenti della normativa sulla conservazione degli alimenti; orbene: l’indizio della commissione di questa sola concussione potrebbe considerarsi presupposto ragionevole per confiscare al vigile, ad esempio, la casa di proprietà? Oppure, si ipotizzi un caso analogo in tema di peculato: sarebbe ragionevole confiscare tutti i beni di proprietà di un pubblico dipendente sospettato di un solo peculato del valore di qualche migliaio di euro? E’ venuto il momento, a questo punto, di spiegare la logica e le funzioni della confisca antimafia e di chiarire perché questa logica e queste funzioni non siano trasferibili automaticamente a singoli reati contro la Pubblica amministrazione. Una confisca come quella antimafia, che tecnicamente si definisce confisca “allargata”, nasce nei primi anni Ottanta dello scorso secolo come misura drastica tipicamente finalizzata alla neutralizzazione della potenza economica del crimine organizzato, e proprio in considerazione di questo importante obiettivo sono apparsi tollerabili gli affievolimenti che la sua applicazione comporta di alcuni fondamentali principi del garantismo classico (presunzione di non colpevolezza, proporzione ecc.). In particolare, la semplificazione degli oneri dell’accusa circa la prova dell’origine illecita dei compendi patrimoniali da confiscare ha, come ragione giustificatrice, un retroterra di acquisizioni criminologiche specificamente relative al settore del crimine organizzato in senso stretto: tra queste, in primo luogo la presunzione empiricamente fondata che le ricchezze accumulate da un soggetto appartenente (o indiziato di appartenere) alla criminalità organizzata siano frutto non già del singolo fatto sub iudice, bensì di una serie di attività illecite ripetute nel tempo, tali da poter fare a buon diritto presumere che l’intero patrimoni di cui il soggetto dispone si sia accumulato per effetto della continuità nell’attività criminosa. Senonché, una analoga presunzione sarebbe priva di base empirica, e perciò carente di fondamento giustificativo (e dunque sindacabile dalla Corte costituzionale!), fuori dal campo della criminalità organizzata, come appunto – tra l’altro – nel caso dei reati contro la Pubblica amministrazione: perché indizi di commissione di un singolo reato di peculato o di un singolo reato di corruzione dovrebbero essere considerati fondatamente sintomatici di una attività delinquenziale che si è protratta o che è destinata a protrarsi nel tempo? Chi lo ritiene, probabilmente, trae il suo convincimento dalla doppia convinzione oggi sempre più diffusa – ancorché tutt’altro che empiricamente riscontrata – che un reato in particolare come la corruzione abbia una natura tendenzialmente sistemica e che i fenomeni corruttivi siano spesso intrecciati con i fenomeni mafiosi. Ammesso e non concesso che le cose stiano davvero così sul piano criminologico, non ne conseguirebbero affatto però la plausibilità e la persuasività di una proposta di estensione della confisca antimafia come quella qui criticata: ben diversi da quelli oggi in discussione dovrebbero essere, in ogni caso, i presupposti tecnico-normativi idonei a rendere inattaccabile una riforma volta a estendere la logica della confisca allargata a settori criminosi diversi da quello originario del crimine organizzato.

La “casta” dei giudici sui colleghi che sbagliano. Dal caso Ricucci al caso Saguto e a quello Esposito: in tutti questi sono coinvolti dei magistrati. Pm contro pm. Il guanto di velluto sui magistrati indagati, la sanzione è un trasferimento, scrive Luciano Capone il 22 Luglio 2016 su “Il Foglio”. “Che fate, m’arrestate pe’ due carte?”, avrebbe detto Stefano Ricucci ai finanzieri che l’hanno portato in carcere. Le due carte in realtà sarebbero servite al rampante odontotecnico di Zagarolo a recuperare un credito da 20 milioni di euro che la sua società in liquidazione, la Magiste, vanterebbe con l’Agenzia delle Entrate. Almeno queste sono le accuse e più specificamente: fatture false, evasione fiscale, corruzione e rivelazione del segreto d’ufficio. Per riuscire in quest’operazione però si è servito, sempre secondo l’accusa, dell’aiuto dell’imprenditore Mirko Coppola, anch’egli arrestato, e del magistrato Nicola Russo che invece è solo denunciato a piede libero. Eppure il giudice del Consiglio di stato è una figura centrale in questa vicenda. Russo era infatti anche giudice relatore della commissione tributaria regionale che ha giudicato il credito vantato da Ricucci, dopo che la commissione provinciale aveva bocciato la richiesta dell’imprenditore. Secondo la procura, Russo sarebbe stato corrotto da Ricucci con donne e soldi per ribaltare la sentenza e comunicarne in anticipo l’esito per permettere a Ricucci, tramite un complice, di ricomprare per pochi soldi il credito da 20 milioni, che dopo la prima sentenza valeva poco o nulla. La sentenza favorevole viene fatta filtrare a Ricucci, che può raggranellare i soldi, e nel testo contiene “interi passaggi della memoria Ricucci, errori di battitura inclusi”. Le prove della corruzione sarebbero l’acquisto da parte del giudice di un’auto e di una casa dopo la sentenza e la presentazione da parte di Ricucci di una signorina con cui il giudice soggiorna in hotel. Per il gip però non c’è corruzione: a Russo viene attribuita “solo” la rivelazione del segreto d’ufficio, ma viene comunque respinta la sospensione interdittiva chiesta dai pm. Il processo deve fare il suo corso. Intanto Ricucci viene arrestato perché può ancora delinquere, mentre il giudice accusato di rivelare segreti d’ufficio resta a fare il suo lavoro. 

Il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti, intervistato dal Fatto all’epoca delle dichiarazioni del presidente dell’Anm Piercamillo Davigo sui politici ladri, diceva: “Anche tra noi ci sono corrotti e collusi, ma noi non aspettiamo che un magistrato venga condannato in Cassazione per rimuoverlo”. E invece pare che la “casta” dei magistrati riservi a sé criteri molto più laschi di quelli richiesti alla “casta” dei politici. Un esempio è quello dell’ex pm di Milano Ferdinando Esposito – nipote dell’ex procuratore generale di Cassazione Vitaliano e figlio del giudice Antonio, presidente del collegio che ha condannato Silvio Berlusconi nel processo Mediaset – condannato pochi giorni fa a 2 anni e 4 mesi per aver indotto una persona a pagargli l’affitto. Esposito era salito agli onori delle cronache perché, prima che il padre condannasse Berlusconi, si era presentato più volte ad Arcore dal Cavaliere per ottenere (senza successo) una candidatura e quando emersero le gravi accuse e il fatto che avesse vissuto per anni in un appartamento nel centro di Milano pagatogli da un imprenditore, venne punito dal Csm con un trasferimento al tribunale di Torino, dove ora fa il giudice. E lo stesso “pugno di ferro” è stato usato in quello che probabilmente è uno dei principali scandali che ha colpito la magistratura italiana, il cosiddetto “caso Saguto”, l’inchiesta in cui l’ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo Silvana Saguto è indagata per aver amministrato l’immenso patrimonio sequestrato alla mafia come una proprietà privata, assegnando profitti e consulenze a parenti, amici e amici degli amici. In quella vicenda è finito indagato anche il giudice Tommaso Virga, padre di Walter, il giovane avvocato a cui la Saguto ha affidato incarichi milionari. Di fronte a condotte ritenute gravi e ricorrenti il Csm ha punito la Saguto con la sospensione e la riduzione di un terzo dello stipendio, mentre Virga padre è stato trasferito alla Corte d’Appello di Roma, quasi un premio. Invece al giornalista Pino Maniaci, grande accusatore della Saguto e di Virga dalla sua Telejato, è stato imposto il divieto di dimora per una presunta estorsione da qualche centinaio di euro. “Te lo dico per esperienza, da figlio di magistrato – diceva in un’intercettazione Walter Virga – pure se non fossero falsità, e lo sono, fino al terzo grado di giudizio 8 mila magistrati ne difendono uno”. Sicuramente esagerava, ma non più del procuratore Roberti.

PENTITI E PENTITISMO. LA LINGUA BIFORCUTA.

La fabbrica delle ingiustizie. I giudici delle condanne vuote, scrive Riccardo Lo Verso il 15 luglio 2017 su "Live Sicilia". Prima Contrada, poi le bugie di Scarantino. La settimana nera della giustizia italiana. Due bordate in una settimana. La revoca della condanna a Bruno Contrada e l'assoluzione degli innocenti ingiustamente carcerati per la strage di via D'Amelio recidono i grappoli malsani nella vigna della giustizia. Grappoli di giudici, legati gli uni agli altri come acini. Ci sono voluti quasi tre decenni per arrivare alla conclusione che decine e decine di magistrati, inquirenti e requirenti, si erano sbagliati nella forma e nella sostanza. Nel caso dell'ex poliziotto è stata la Corte di Cassazione a dichiarare "ineseguibile e improduttiva” la sentenza che ha costretto Contrada a rimanere in carcere per dieci anni. Prima, però, è dovuta intervenire la Corte europea dei diritti dell'uomo a spiegare ai giudici italiani che non si può processare un imputato per un reato che non era “chiaro e prevedibile” quando gli è stato contestato. Nel caso del processo per l'eccidio di via D'Amelio sono stati i pubblici ministeri di Caltanissetta a smascherare le bugie dei pentiti prese per oro colato, nonostante l'olezzo dell'impostura fosse stato percepito da più parti ma non dai magistrati. Come riassumere la vicenda Contrada? Esiste una giustizia europea e una italiana. O meglio, all'italiana. La prima bacchetta la seconda perché viola la convenzione dei diritti dell'uomo che i governi si sono impegnati a rispettare. Fino a quando i giudici di Strasburgo si sono limitati a condannare l'Italia a risarcire gli imputati per gli errori commessi e per i tempi biblici dei nostri processi è filato tutto liscio. Giusto un richiamo nelle ripetitive relazioni durante la cerimonia di apertura dell'anno giudiziario. Ora che la Cassazione ha recepito la sentenza europea revocando la condanna di Contrada, lo sbirro Contrada colluso con la mafia - dunque intervenendo in un giudicato - è scoppiato il finimondo. Autorevolissimi esponenti della giustizia, non solo all'Italiana ma pure antimafia, non l'hanno presa bene. Dal “non ha capito” di Giancarlo Caselli rivolto alla Corte europea all'aggettivo “stupefacente” speso nel commento di Antonio Ingroia. Erano rispettivamente il procuratore capo di Palermo e il sostituto che misero sotto accusa Contrada, dando vita al grappolo giudiziario in una stagione fondata sull'articolo 110 del codice penale. “Quando più persone concorrono nel medesimo reato, ciascuna di esse soggiace alla pena per questo stabilita - recita l'articolo applicabile a tutte le fattispecie di reato - salve le disposizioni degli articoli seguenti”. Tre righe divenute un contenitore confortevole specie nella declinazione del concorso in associazione mafiosa. Nel frattempo le sentenze della Cassazione hanno fatto giurisprudenza e il reato che non c'era ormai c'è, anche se resta parecchio discusso e mai normato. Siamo rimasti fermi alle tre righe. Di Contrada si sono occupati una quarantina di magistrati: i pubblici ministeri che ne chiesero l'arresto, i giudici per le indagini preliminari che applicarono la misura cautelare; quelli del Riesame che lo lasciarono in cella; i giudici del Tribunale che lo condannarono e della Corte d'appello che prima lo scagionarono e poi confermarono la pena; e i giudici supremi della Cassazione che misero il bollo di definitività sull'accusa. Tutti a disquisire, nelle varie motivazioni, sul reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Ad interpretarne l'applicabilità nel caso dell'ex capo della Squadra mobile di Palermo e a concludere che il reato si cuciva perfettamente addosso al poliziotto. Nessuno che si sia accorto o abbia sollevato la questione che due decenni dopo sarebbe stata rimproverata all'Italia dai giudici europei. La convezione europea, con la firma di tutti i paesi che vi hanno aderito, recita all'articolo 7 che “nessuno può essere condannato per una azione o una omissione che, nel momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale”. Contrada è stato processato per episodi collocati tra il 1979 e il 1988, quando il reato di concorso esterno in associazione mafiosa “non era sufficientemente chiaro e prevedibile all'imputato”. “Ciò che conta per la Corte europea è innanzitutto che, al momento del compimento della condotta - spiegava il legale di Contrada, l'avvocato Stefano Giordano nei giorni in cui presentava il ricorso che poi sarebbe stato accolto - un precetto penale accessibile e conoscibile, preciso e determinato esista e che il singolo abbia la capacità di orientare il proprio comportamento in funzione di questa norma”. L'articolo 7 è un elemento essenziale dello stato di diritto sovranazionale. Lo dimostra il fatto che non sono previste deroghe “neanche in tempo di guerra o in caso di altro pericolo pubblico che minacci la vita della nazione”. La sua applicazione rappresenta “una protezione effettiva contro le azioni penali, le condanne e le sanzioni arbitrarie”. Ed ecco il cuore della questione Contrada. Salvo colpi di scena, che non dovrebbero arrivare dalla lettura della motivazione della Cassazione, il sistema giudiziario ha ricevuto uno schiaffo con la forza del diritto. Si condanna qualcuno per i reati che esistono e non per quelli ex post contestati in maniera retroattiva. Astrazioni del diritto che non fanno breccia in una parte della magistratura italiana, tanto impegnata nella lotta alla mafia da distrarsi. Sempre secondo Caselli, d'altra parte, sia la Cassazione che la Cedu “ragionano in astratto, come in vitro, come se la mafia non esistesse”. Leggendo le motivazioni delle varie sentenze che hanno riguardato Contrada emerge che il faro giurisprudenziale di tutti i giudici è stato individuato nella sentenza Demitry, dal nome di Giuseppe Demitry giudicato per concorso nell'associazione camorristica capeggiata da Carmine Alfieri e Pasquale Galasso. La sentenza, però, è del 5 ottobre 1994, sei anni dopo i fatti contestati a Contrada. È vero che del reato si era già occupata la Cassazione in altre sentenze tra il 1987 e il 1993, “tuttavia - hanno scritto i giudici europei - è solo nella sentenza Demitry, pronunciata dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione il 5 ottobre 1994, che quest'ultima ha fornito per la prima volta una elaborazione della materia controversa, esponendo gli orientamenti che negano e quelli che riconoscono l'esistenza del reato in questione e, nell’intento di porre fine ai conflitti giurisprudenziali in materia, ha finalmente ammesso in maniera esplicita l’esistenza del reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso nell’ordinamento giuridico interno”. La sentenza Demitry è stata la bussola non solo dei pignoli giudici europei, ma pure di quelli italiani che hanno giudicato Contrada. “Particolarmente controversa è stata, poi, la questione relativa alla peculiare configurabilità del concorso eventuale o esterno nel reato associativo mafioso - scrivevano - che da ultimo ha trovato positiva soluzione in una recente sentenza emessa dalle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione (la Demitry, appunto) che, per la fonte autorevole da cui promana, la massima istanza regolatrice di legittimità, e per l’ampia panoramica giurisprudenziale in essa compendiata dei diversi indirizzi ermeneutici affermatisi nel tempo, non può non costituire necessario punto di riferimento in tale materia”. Peccato che risaliva al 1994. Se non fosse stata applicata in maniera retroattiva ci sarebbe stato un grappolo di giudici in meno. Così come, con qualche “se” in meno, la giustizia italiana si sarebbe risparmiata una delle pagine peggiori della sua storia, che ha dato vita al grappolo dei grappoli. È un fatto numerico. Per la vicenda Contrada sono stati celebrati due processi (con relativi appelli e rinvii della Cassazione), mentre nel caso della strage di via D'Amelio, costata la vita a Paolo Borsellino e agli uomini di scorta, il numero dei processi definiti con sentenza irrevocabile sale a tre prima. Solo nel quarto sono state smascherate le bugie di Vincenzo Scarantino e soci. Dovendo inserire nell'elenco anche i giudici popolari, a conti fatti, più di cento persone hanno letto e riletto i verbali dei pentiti farlocchi, ascoltato in aula gli avvocati urlare che si stava alimentando un abbaglio collettivo, accettato la versione dei pubblici ministeri che a quelle bugie hanno dato la veste di pseudo prove processuali. E sono fioccati gli ergastoli, nove per la precisione. Alcuni anni fa, dopo decenni di carcere, gli imputati sono stati liberati. E dire che leggendo la sentenza del processo Ter, emessa dalla Corte d'assise allora presieduta da Carmelo Zuccaro, oggi procuratore di Catania, avrebbe dovuto suonare la sveglia. Il Ter è l'unico processo che si è salvato dalla mannaia avendo giudicato i boss della Cupola di Cosa nostra, i quali diedero il via libera alla strage. Nelle motivazioni di quella sentenza le dichiarazioni dei pentiti erano state bollate come spazzatura, altro che prove. Un “parto della fantasia”, le avevano definite i giudici, mettendo in guardia i colleghi. Niente, le condanne sono arrivate lo stesso. Nel quarto processo, avviato con coraggio dai pubblici ministeri di Caltanissetta, alcuni dei promotori della stagione inquisitoria divenuta carta straccia, hanno consegnato ai verbali di udienza balbettii e imbarazzanti “non ricordo” che ora alimentano la traiettoria infinita dei sospetti. Le dichiarazioni rese in aula sono le uniche pronunciate da quei cento e più giudici - togati e popolari - del grappolo che ha indagato, giudicato e condannato degli innocenti. Fuori dal bunker nisseno silenzio assordante. Fino al 25 maggio scorso, quando a Catania hanno preso la parola Concetta Ledda e Sabrina Gambino, sostituite procuratrici generali del processo per la revisione degli ergastoli ingiusti. "Quali rappresentanti dello Stato, ci sentiamo in dovere di chiedere scusa, nonostante - hanno detto - non siano nostre le responsabilità, per le condanne ingiuste inflitte nell'ambito del processo per la strage di Via D'Amelio". La Corte d'assise due giorni fa ne ha preso atto e ha assolto “per non avere commesso il fatto” undici imputati - compresi i pentiti delle menzogne - alcuni dei quali rimasti a lungo in cella con la prospettiva eterna del fine pena mai. È la giustizia italiana e all'italiana che ne è uscita con le ossa rotte. Quella che grida alla lesa maestà quando qualcuno a Strasburgo ricorda che la certezza del diritto non è soggetta alle interpretazioni.

Il processo dei falsi pentiti. Strage Borsellino, tutti assolti, scrive Riccardo Lo Verso Riccardo Lo Verso il 13 luglio 2017 su "Live Sicilia”. Tutti assolti per non avere partecipato alla strage di via D'Amelio. La Corte d'assise d'appello di Catania, al processo di revisione, scagiona gli imputati Natale Gambino, Giuseppe Orofino, Gaetano Scotto, Salvatore Profeta, Cosimo Vernengo, Giuseppe La Mattina, Giuseppe Urso, Gaetano Murana, Salvatore Tomasello, Salvatore Candura, Vincenzo Scarantino. Questi ultimi due sono falsi pentiti su cui si sono basati processi di cartapesta. Pubblici ministeri e magistrati hanno creduto fino in fondo alle loro bugie. Poi, è arrivato un altro pentito, Gaspare Spatuzza, a smascherare l'incredibile errore giudiziario. La procura di Caltanissetta riaprì le indagini, fece scarcerare gli innocenti, alcuni condannati all'ergastolo dopo decenni di galera, mentre la Procura generale nissena ha chiesto la revisione. “Nulla c'è da da dire - spiega il legale di Gaetano Murana, l'avvocato Rosalba Di Gregorio - quando finalmente si è di fronte a una sentenza giusta. Bisogna però ringraziare per onestà intellettuale i magistrati di Caltanissetta che hanno riaperto con coraggio il caso”. “Tomasello non può gioire – aggiunge l'avvocato Mario Bellavista – perché nel frattempo è morto. Morto sapendo di essere innocente, ma condannato nella pagina più buia della giustizia italiana”. Il "fine pena mai" era stato inflitto a Gambino, Profeta, Vernengo, La Mattina, Urso, e Murana. Candura era stato condannato solo per il furto della Fiat 126 che fu imbottita di tritolo e non per la strage. Orofino era stato ritenuto responsabile di appropriazione indebita, favoreggiamento e simulazione di reato. Resta per chi ne rispondeva, tranne per Tomasello, la condanna per mafia già abbondantemente scontata da tutti accezione di Scotto. Sarà ora la Corte d'appello di Caltanissetta a dovere rideterminare la pena, passaggio fondamentale per quantificare i risarcimenti dei danni per l'ingiusta detenzione.

Il “colossale depistaggio” e l’ombra della trattativa: i misteri sulla morte di Borsellino. Quattro processi non sono bastati a fare emergere la verità. Tra falsi pentiti, investigatori spericolati ed errori giudiziari, scrive Riccardo Arena il 21/05/2017 su "La Stampa". Il 19 luglio 1992 una Fiat 126 rubata contenente circa 90 chili di tritolo esplode in via D’Amelio 21, nel cuore di Palermo, sotto il palazzo dove viveva la madre di Paolo Borsellino, presso la quale il giudice quella domenica si era recato in visita. Perdono la vita il magistrato e i cinque agenti della scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Antonino Vullo, agente sopravvissuto all’attentato descrisse così l’esplosione: «Improvvisamente è stato l’inferno. Ho visto una grossa fiammata, ho sentito sobbalzare la blindata. L’onda d’urto mi ha sbalzato dal sedile. Non so come ho fatto a scendere dalla macchina. Attorno a me c’erano brandelli di carne umana sparsi dappertutto».  Chi depistò cosa – e soprattutto come – è il dilemma, uno dei tanti nodi ancora irrisolti, delle stragi siciliane di quel terribile 1992: la verità, soprattutto su via D’Amelio, il secondo attacco di Cosa nostra ai magistrati «nemici» e alle istituzioni, 57 giorni dopo Capaci, è ancora molto parziale e la sentenza del «Borsellino quater», pronunciata a Caltanissetta il 20 aprile, non chiude affatto il caso: questo nonostante i due ergastoli per Salvino Madonia e Vittorio Tutino, i dieci anni a testa per Francesco Andriotta e Calogero Pulci (estraneo al contesto stragista) e la dichiarazione di prescrizione per Vincenzo Scarantino, i tre falsi pentiti che avevano depistato le indagini. Venticinque anni dopo, in quattro processi le condanne a vita sono diventate 32 e per la fine di Paolo Borsellino e dei suoi cinque agenti di scorta lo Stato è arrivato a processare se stesso, riconoscendo l’errore e l’ingiustizia di sette ergastoli, fondati sulle dichiarazioni di collaboratori che avevano inventato le accuse; benché si tratti comunque di mafiosi, sono stati liberati – dopo 15 anni in cella – ed è stato avviato il giudizio di revisione. Quel che non si riesce ancora a capire, però, è se ci sia stata una vera manovra depistante o se non si sia trattato di un clamoroso errore giudiziario. Vecchia storia: è difficile chiarire, ad esempio, come sia stato possibile, nei primi tre processi per via D’Amelio, che tutti i magistrati, almeno settanta fra requirenti e giudicanti, togati e popolari, non si siano accorti dei falsi pentiti e di indagini che deviavano sulla modesta cosca della Guadagna, mandamento di Santa Maria di Gesù, anziché puntare sul molto più potente mandamento di Brancaccio, capeggiato dai fratelli Filippo e Giuseppe Graviano. E questo benché Scarantino fosse stato protagonista di ripetute ritrattazioni, una delle quali in diretta tv, tutte non credute né dalla Procura né dai giudici nisseni e neppure dalla Cassazione.  Si gridò anzi al complotto di Cosa nostra per tappargli la bocca e si andò avanti, mentre il picciotto della Guadagna veniva sbugiardato da veri pentiti – Salvatore Cancemi, Giovan Battista Ferrante – che, messi a confronto con lui, gli chiedevano chi fosse e che volesse. Tra i magistrati dell’accusa c’erano anche il procuratore Giovanni Tinebra, scomparso nei giorni scorsi, l’attuale avvocato generale di Palermo Annamaria Palma e l’allora giovanissimo Nino Di Matteo, oggi pm della trattativa: non certo gli ultimi arrivati. Per far cadere il castello delle accuse, però, dal 2008 in poi, ci vollero i pentiti Gaspare Spatuzza e Fabio Tranchina. Spatuzza aveva pure indicato i presunti «mandanti esterni» a Cosa nostra, ma le sue accuse a Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri non avevano avuto riscontri né esiti processuali. Il «colossale depistaggio», di cui aveva parlato il procuratore nisseno Sergio Lari, è al centro anche del processo di Palermo sulla trattativa Stato-mafia, in cui spicca la figura di Arnaldo La Barbera, l’ex superpoliziotto che fu collaboratore dei Servizi segreti (nome in codice «Rutilius») e che, da capo del gruppo investigativo Falcone-Borsellino, avrebbe seguito – o ispirato, secondo i suoi detrattori – le verità farlocche di Scarantino. Implicato nei fatti del G8 di Genova del 2001, La Barbera morì un anno dopo. Il depistaggio, secondo i pm di Palermo, sarebbe un tassello di un ordito fatto di attacchi allo Stato agevolati da pezzi delle istituzioni e di protezioni di alto livello, che impedirebbero di arrivare alla verità: ma finora responsabilità precise non ne sono venute fuori. La verità non è venuta a galla per intero, hanno detto gli avvocati Rosalba Di Gregorio e Giuseppe Scozzola, comunque soddisfatti per le condanne dei falsi pentiti – meno per la prescrizione su Scarantino – contro i quali sono parte civile gli ex ergastolani. Quanto però al depistaggio di Stato, il gip di Caltanissetta Alessandra Giunta lo aveva ritenuto privo di fondamento, affermando che è provato solo l’errore giudiziario. Rimangono in piedi le indagini sulla squadra di investigatori che avrebbe fatto il lavoro sporco, usando il bastone e la carota, le botte e l’indottrinamento per «istruire» Scarantino sulle accuse da muovere: ma a loro volta, da chi furono «istruiti», ispettori, sovrintendenti, assistenti, che, tirando le somme, rischiano di pagare il conto per tutti? E questo anche se la tesi del depistaggio, per «alleggerire la loro posizione», scrive il gip, era stata assecondata dagli stessi Scarantino, Andriotta e Candura. Testimoni, insomma, a cui è arduo credere. 

La verità per disguido, scrive giovedì 13 luglio 2017 "Il Post". Non è possibile che la storia delle stragi mafiose sia scritta a forza di documenti nascosti, sentenze sbagliate e sensazionalismi giornalistici (ovvero: Cos'è questo speciale). Alcune settimane fa Enrico Deaglio ha proposto al Post di raccontare di nuovo, per i 25 anni della strage di via D’Amelio, la storia più recente delle tante legate a quell’attentato e ai suoi misteri: quella di un documento investigativo rivelato per un “disguido” nel 2013 che mostrava delle cose nuove e gravi sul depistaggio con cui agenti di polizia e magistrati costruirono e portarono a sentenza una versione falsa sui responsabili della strage. La storia di quel documento era già stata raccontata, ma senza grandi attenzioni o rilievi, anche dallo stesso Deaglio, anche sul Post. Ci siamo convinti che la scarsa attenzione fosse dovuta a una generale indifferenza e stanchezza nazionale nei confronti dei grandi “misteri d’Italia”; a una retorica commemorativa benintenzionata ma in cui restano imballati e sepolti fatti, spiegazioni, ricostruzioni; a un’incapacità dei media di rinnovarli e trasmetterli, nel groviglio di versioni e processi e cose false e vere che sono stati questi 25 anni. Come se non ce ne importasse più, per umane fatica e rimozione, anche se non lo ammetteremmo mai. Così abbiamo pensato di fare su quella storia il lavoro che al Post viene più spesso riconosciuto e richiesto, quello della spiegazione, della ricostruzione, del mettere in ordine storie e informazioni daccapo. E quello che pubblichiamo in questo speciale – una serie di diversi articoli legati tra loro – è il risultato di questo lavoro che abbiamo provato a fare per mettere quella storia in un contesto che aiuti a capirla, senza sconfinare negli ambiti più estesi e approfonditi su cui hanno scritto in tanti ed esperti. Ma mentre leggevamo ricostruzioni, articoli, verbali, e ascoltavamo registrazioni di udienze, e guardavamo video di interviste o di rovine di bombe, abbiamo anche iniziato a riflettere sulla contraddizione tra la tanto ripetuta “ricerca della verità” da parte delle istituzioni e da parte delle persone, e la continua sottrazione di pezzi di verità da parte delle istituzioni e da parte delle persone. Sono passati 25 anni da quando vennero uccisi il magistrato Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta. 25 anni in cui si è chiesta mille volte “la verità” e quello che si è ottenuto è:

1. Una storia falsa spacciata per vera dal 1992 fino al 2008, col concorso di magistrati e ufficiali di polizia, su chi avesse compiuto quell’attentato: che ha prodotto, oltre a una falsificazione storica, la condanna e la detenzione per molti anni di nove persone estranee all’attentato (per le quali si è conclusa oggi la revisione del processo, con tutti gli imputati infine assolti, dopo 25 anni). Per quella falsificazione – una volta rivelata, nel 2008 – sono stati condannati solo gli imputati che avevano dichiarato il falso, malgrado siano certe le pressioni e le violenze da parte degli investigatori per ottenere quelle confessioni, confermate persino da una sentenza e da queste parole recenti del procuratore aggiunto di Caltanissetta Paci: “C’è traccia di abusi, di contatti irrituali e connivenze tra investigatori e indagati per la ricerca di elementi che sostenessero una pista investigativa che all’epoca era plausibile, ma si ignorarono i campanelli di allarme che arrivavano dalle dichiarazioni contraddittorie di Scarantino sulla strage di via D’Amelio”.

2. La ripetuta dimostrazione dell’ostilità da parte dei magistrati che avallarono e difesero quella falsificazione a prendere in considerazione le molte prove che la dimostravano tale, e i pareri in questo senso di altri magistrati.

3. Una nuova versione divenuta pubblica solo nel 2008 e che ha portato alle condanne degli organizzatori ed esecutori della strage, senza chiarire le ragioni di quello e degli altri attentati di cui la mafia fu responsabile tra il 1992 e il 1994, in una campagna di violenze unica e anomala nella storia della mafia.

4. Una serie di indizi e dichiarazioni mai riscontrati sui rapporti dei boss organizzatori delle stragi con Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, a tutt’oggi in bilico tra il credibile, l’incredibile, il molto raccontato e il poco provato.

Come si vede, su tutti questi quattro fronti nessuna “verità” è arrivata senza lasciarne altrettante da spiegare.

Chi e come ha indotto i “falsi pentiti” ad accusarsi e accusare altri falsamente, in un gravissimo e criminale depistaggio? Quali responsabilità, omissioni, intenzioni, hanno avuto i magistrati che hanno difeso con insistenza una storia falsa e fuorviante? Quali obiettivi ebbe, e quali sviluppi, la campagna di attentati tra il 1992 e il 1994? Hanno qualche fondamento le accuse contro Silvio Berlusconi? Quattro anni fa c’è stato un piccolo fatto nuovo che ha rivelato delle cose e ha fatto sospettare ce ne siano altre ancora rivelabili: un documento altrimenti “segreto” perché destinato solo alle indagini e non utilizzabile a processo, è diventato pubblico per un “disguido”, e ha svelato che Gaspare Spatuzza, il “collaboratore di giustizia” che svelò e fece smontare la falsificazione nel 2008, l’aveva già dichiarata falsa nel 1998, seppure con meno riscontri alla sua versione: ma nessuna indagine fu fatta sulle sue dichiarazioni. Quel documento è pubblico da tre anni ma è stato molto trascurato nelle ricostruzioni e nelle narrazioni, forse perché sembra certificare ulteriormente l’ostinazione dei magistrati di Caltanissetta nel proteggere la versione falsa. Ma quel documento è anche una traccia solo parziale di tutto quello che può essere stato già evocato e raccontato vent’anni fa ed è stato taciuto e mai verificato: ci sono altre cose dette in quello e in altri “colloqui investigativi” con i magistrati che continuano a essere riservate. Il Presidente del Senato Pietro Grasso, che da magistrato è stato uno dei personaggi di queste storie, ed è stato protagonista di grandi impegni giudiziari contro la mafia, ha appena pubblicato un libro sulle sue esperienze e sulla sua amicizia con i magistrati Falcone e Borsellino. Tra le altre cose, Grasso ricorda del suo auspicio, appena eletto senatore, di “una commissione parlamentare d’inchiesta sulle stragi”: Ci sono troppi profili di quel tragico disegno stragista che restano ancora oscuri. Bisogna insistere perché gli eventi vengano ricostruiti in tutte le loro implicazioni e sfaccettature. Le dichiarazioni rilasciate dal pentito e gli elementi da lui forniti alle Procure di Firenze, Caltanissetta e Palermo hanno consentito di ristabilire finalmente alcune verità sulle stragi. Occorre seguire un metodo preciso nella ricostruzione delle vicende, lo stesso metodo che ha ispirato la mia carriera di magistrato: credere solo a quello che è riscontrabile, provato, offrire elementi di conoscenza, anche piccoli, che aggiungano tasselli al quadro, senza cadere nella tentazione di dipingere scenari opinabili, anche se suggestivi, ipotetici e non dimostrabili. Se si vuole chiarezza, si deve partire da ciò che è accertato, senza smettere di sollevare interrogativi e sottolineare i punti oscuri che richiedono un’ulteriore riflessione. Grasso ha ragione su entrambe le cose: la legislazione sui collaboratori di giustizia ha prodotto risultati riconosciuti e fondamentali ma anche disastri e inganni, come ogni regola emergenziale. Il depistaggio sulla strage di via D’Amelio è frutto per prima cosa di un abuso di quelle regole, mentre il loro uso più coerente ha prodotto lo svelamento di quel depistaggio. E la confusione tra presunte verità giornalistiche e verità giudiziarie è alla base di storture quotidiane nell’amministrazione della giustizia, della politica e della società italiane. Sono tutte ragioni per essere cauti. Però Grasso ha ragione anche quando parla di “offrire elementi di conoscenza, anche piccoli, che aggiungano tasselli al quadro” (la storia del documento di cui parliamo è uno di questi) e quando chiede di continuare a “sollevare interrogativi”. La prudenza non può diventare silenzio. È già successo una volta, con un pezzo di questa storia, che informazioni utili a capire come fossero andate le cose siano state trascurate e che si sia lavorato con insistenza a una falsificazione: e se Spatuzza non avesse deciso di collaborare, visto che per 11 anni in carcere non aveva mai voluto farlo? E se non avesse potuto esibire il riscontro sulla riparazione dei freni dell’autobomba che lo ha reso credibile a processo? Sarebbero rimaste solo le sue parole del 1998, nascoste in un archivio, non indagate, ignote, rimpiazzate da una sentenza sbagliata su una delle stragi più gravi e importanti della storia italiana. Quelle parole le abbiamo conosciute poi per un “disguido”: forse è meglio che per tutte le altre che sono state dette si creino allora le condizioni per conoscerle legalmente, deliberatamente, completamente. I “segreti di Stato” sono connaturati agli stati, però non bisogna farli diventare una condizione ordinaria e permanente: ma nemmeno investire i magistrati del ruolo degli storici – idea che ha fatto già, e fa tuttora, abbastanza danni – o per contro aspettare gli storici del XXII secolo col loro utile distacco. Può darsi che debba essere la commissione Antimafia, o la commissione chiesta da Pietro Grasso, ad avere accesso a tutti i documenti e a trovare il modo di rispondere pubblicamente a quelle domande: o può darsi che chiunque sia stato protagonista del bene o del male di questi 25 anni debba decidersi a raccontare delle altre cose, con prudenza ma senza omertà. Noialtri intanto facciamole, le domande, poi facciamo il punto di quello che sappiamo, e stiamo in guardia su falsificazioni e depistaggi di ogni genere.

Pentitismo. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il pentitismo è una tendenza comportamentale umana in base alla quale un soggetto membro di un'organizzazione criminale decide di rilasciare confessioni e dichiarazioni alle autorità inquirenti. Collegate al rilascio di tali dichiarazioni – rese prima e dopo la cattura del soggetto – generalmente sono tali da permettere alle medesime di prendere misure adeguate a combattere e addirittura debellare le stesse organizzazioni; in cambio i pentiti ottengono delle riduzioni di pena e protezione da parte dello Stato.

Falcone, la verità sui pentiti, scrive Gian Carlo Caselli il 3 dicembre 2009 su "Il Fatto Quotidiano". Ci risiamo. Finché indaghi su Riina o Provenzano vai bene. Ma quando – facendo il tuo dovere – passi a occuparti, ricorrendone i presupposti in fatto e in diritto, anche di imputati “eccellenti”, devi mettere in conto che cominciano i guai. Tornano in auge vecchi ma sempre verdi ritornelli. Anzi, dischi rotti. Ma suonati talmente a lungo da trapanare le teste. La tecnica è collaudata, un classico. Si comincia con la ricerca della verità svilita a cultura del sospetto e con l’accusa di costruire teoremi invece di prove; si prosegue con l’insinuazione di uso scorretto dei pentiti e con la loro pregiudiziale delegittimazione (mediante aggressioni strumentali che nulla hanno a che vedere con la fisiologica delicatezza e complessità di questo strumento d’indagine); e si finisce con le aggressioni contro i pm: sul banco degli imputati, invece dei mafiosi e dei loro complici, finiscono i magistrati antimafia. Sulla torta così confezionata (maleodorante), ecco poi la “ciliegina”, un altro classico: arruolare arbitrariamente Giovanni Falcone per sostenere che il suo metodo di lavoro è violentato dai magistrati di oggi che osano indagare anche i potenti. Peccato che pure questa sia propaganda sleale. Perché Falcone sapeva bene che senza pentiti un’efficace lotta alla mafia è impossibile. E quando – negli anni Ottanta – era giudice istruttore a Palermo, spesso si era chiesto perché mai tardasse ad essere approvata   – nonostante le sue forti sollecitazioni – una legge sui pentiti (nota bene: la legge arriverà soltanto dopo le stragi del ’92, ed è perciò una legge impregnata del sangue delle vittime di Capaci e via D’Amelio). Le parole di Falcone sono illuminanti: “Se è vero, com’è vero, che una delle cause principali, se non la principale, dell’attuale strapotere della criminalità mafiosa risiede negli inquietanti suoi rapporti col mondo della politica e con centri di potere extra-istituzionale, potrebbe sorgere il sospetto, nella perdurante inerzia nell’affrontare i problemi del pentitismo, che in realtà non si voglia far luce sui troppi, inquietanti misteri di matrice politico – mafiosa per evitare di rimanervi coinvolti”. Quanto all’oggi, la speranza – ovviamente – è che i professionisti delle polemiche contro i pentiti e i magistrati che ne raccolgono e sviluppano le rivelazioni siano mossi da ben diverse preoccupazioni. Un altro “classico” sono le polemiche sul cosiddetto “concorso esterno”. Vi si è esercitato anche il presidente Berlusconi, per esempio nell’intervista al periodico inglese Spectator e alla Gazzetta di Rimini dell’11/9/’03, sostenendo che “a Palermo la nostra magistratura comunista, di sinistra, ha creato un reato, un tipo di delitto che non è nel codice; è il concorso esterno in associazione mafiosa”. La verità (nonostante le tecniche pubblicitarie di imbonimento organizzate per stravolgerla) è un’altra. La figura del cosiddetto “concorso esterno” risale addirittura al 1875, come provano le sentenze della magistratura palermitana sul brigantaggio. Poi fu impiegata nei processi per terrorismo alle Br e a Pl e in quelli di mafia istruiti da Falcone e Borsellino. La sua legittimità, infine, è stata ripetutamente riconosciuta dalla Corte di Cassazione, che ha anche stabilito rigorosi paletti garantisti. Allora, tutti comunisti? La Cassazione, i giudici palermitani di due secoli fa, quelli che negli anni di piombo hanno sconfitto il terrorismo, il pool di Chinnici e Caponnetto…tutti comunisti? Sostenerlo è piuttosto temerario e comunque impedisce di confrontarsi con la dura realtà dei fatti, che il pool di Falcone (pag. 429 dell’ordinanza-sentenza 17 luglio 1987 conclusiva del maxi-ter) così espone, spazzando via ogni dubbio: “Manifestazioni di connivenza e di collusione da parte di persone inserite nelle pubbliche istituzioni possono – eventualmente – realizzare condotte di fiancheggiamento del potere mafioso, tanto più pericolose quanto più subdole e striscianti, sussumibili – a titolo concorsuale – nel delitto di associazione mafiosa. Ed è proprio questa “convergenza di interessi” col potere mafioso… che costituisce una delle cause maggiormente rilevanti della crescita di Cosa Nostra e della sua natura di contropotere, nonché, correlativamente, delle difficoltà incontrate nel reprimerne le manifestazioni criminali”.      A fronte di queste parole, le note scassate dei logori ritornelli sul concorso esterno non sono altro che la replica di un film già visto. Sicuramente perdente per l’antimafia.

Pentiti di mafia: l’opinione di Giovanni Falcone, scrive Fabrizio Capecelatro il 24 Marzo 2014 su "Nano press". Giovanni Falcone fu il primo a capire che per combattere la criminalità organizzata, avendo realmente la volontà di sconfiggerla, era necessario riuscire ad avere uno sguardo all’interno dei clan. Egli, infatti, fu il primo a convincere un mafioso a collaborare con la giustizia, Tommaso Buscetta, e questo “pentimento” lo si deve proprio alle caratteristiche umane di Falcone. In una società, come quella mafiosa, dove non si riconosce lo Stato e non si ha alcune considerazione per le sue istituzioni, sono solo le persone a fare la differenza. Possiamo, quindi, dire che il primo pentito italiano decise di pentirsi proprio per la fiducia e la stima che nutriva nei confronti di Falcone. E, infatti, lo stesso magistrato siciliano nel libro “Cose di cosa nostra”, scritto a quattro mani con la giornalista Marcelle Padovani, si riconosceva questo ruolo: “Sono dunque diventato una sorta di difensore di tutti i pentiti perché, in un modo o nell’altro, li rispetto tutti, anche coloro che mi hanno deluso, [...]. Ho condiviso la loro dolorosa avventura, ho sentito quanto faticavano a parlare di sé, a raccontare misfatti di cui ignoravano le possibili ripercussioni negative personali, sapendo che su entrambi i lati della barricata si annidano nemici in agguato pronti a far loro pagare cara la violazione della legge dell’omertà”. Ma Giovanni Falcone invitava addirittura a fare di più, a provare a mettersi nei loro panni, nei panni dei pentiti: “Provate a mettervi al loro posto: erano uomini d’onore, riveriti, stipendiati da un’organizzazione più seria e più solida di uno Stato sovrano, ben protetti dal loro infallibile servizio d’ordine, che all’improvviso si trovano a doversi confrontare con uno Stato indifferente, da una parte, e con un’organizzazione inferocita per il tradimento, dall’altra”. E lui stesso provò a farlo: “Io ho cercato di immedesimarmi nel loro dramma umano e prima di passare agli interrogatori veri e propri, mi sono sforzato sempre di comprendere i problemi personali di ognuno e di collocarli in un contesto preciso. Scegliendo argomenti che possono confortare il pentito nella sua ansia di parlare. Ma non ingannandolo mai sulle difficoltà che lo attendono per il semplice fatto di collaborare con la giustizia. Non gli ho dato mai del tu, al contrario di tanti altri; non lo ho mai insultato, come alcuni credono di essere autorizzati a fare, e neppure gli ho portato dolci siciliani, come qualcuno ha insinuato. Tra me e loro c’è sempre un tavolo, nel senso proprio e metaforico del termine: sono pagato dallo Stato per perseguire dei criminali, non per farmi degli amici”. “Conoscere i mafiosi – ha proseguito poi Falcone – ha influito profondamente sul mio modo di rapportarmi con gli altri e anche sulle mie convinzioni. Ho imparato a riconoscere l’umanità anche nell’essere apparentemente peggiore; ad avere un rispetto reale, e non solo formale, per le altrui opinioni. Ho imparato che ogni atteggiamento di compromesso – il tradimento, o la semplice fuga in avanti – provoca un sentimento di colpa, un turbamento dell’anima, una sgradevole sensazione di smarrimento e di disagio con se stessi. L’imperativo categorico dei mafiosi, di “dire la verità”, è diventato un principio cardine della mia etica personale, almeno riguardo ai rapporti veramente importanti della vita. Per quanto possa sembrare strano, la mafia mi ha impartito una lezione di moralità”. “Questa avventura – concluse Falcone – ha anche reso più autentico il mio senso dello Stato. Confrontandomi con lo “Stato-mafia” mi sono reso conto di quanto esso sia più funzionale ed efficiente del nostro Stato e quanto, proprio per questa ragione, sia indispensabile impegnarsi al massimo per conoscerlo a fondo allo scopo di combatterlo”.

Da Lima al bacio di Andreotti tutte le invenzioni dei pentiti, scrive Stefano Zurlo, Sabato 28/11/2009, su "Il Giornale". L'alfa e l'omega dei pentiti. E delle bugie a distanza di tanti anni. Le storie si ripetono e si inseguono. Inquietanti, come i doppifondi che nascondono. Vincenzo Scarantino e Salvatore Candura entrano nel libro mastro dei collaboratori che hanno spacciato menzogne come, a suo tempo, Giovanni Pellegriti, uno dei primi, se non il primo in assoluto, a passare dalla parte dello Stato. Pellegriti accusa, nientemeno, Salvo Lima, a quel tempo proconsole di Giulio Andreotti a Palermo, di essere il mandante di uno dei tanti omicidi eccellenti, quello del presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella. Giovanni Falcone, sempre evocato e qualche volta pure a sproposito, corre nel carcere di Alessandria a interrogarlo e capisce subito che il pentito mente. Non sa nulla di Mattarella né dei suoi assassini. Dovrebbe far arrestare Lima e mandare un avviso di garanzia ad Andreotti, invece incrimina per calunnia Pellegriti e lo fa condannare a quattro anni. Quattro anni per aver venduto menzogne allo Stato. Un caso unico che ora potrebbe ripetersi. Tanti anni e tanti pentiti dopo. Falcone, purtroppo, non c’è più, ma c’è un nuovo dichiarante - strana crisalide sul punto di trasformarsi a tutti gli effetti in pentito doc - che porta acqua al mulino delle accuse a Silvio Berlusconi. È Gaspare Spatuzza, il killer di don Puglisi, pentito, convertito e addirittura aspirante teologo. Spatuzza riporta le confidenze dei boss di Brancaccio, Giuseppe e Filippo Graviano, sui rapporti di Cosa nostra col premier: dunque diventa importante, credibile, persino autorevole. Ma, incidentalmente, sconfessa anche Candura e Scarantino che si erano accusati di aver rubato la 126 usata per la strage di via DAmelio e la morte di Paolo Borsellino. Che fare? Tagliare a fette, come un prosciutto, il racconto di Spatuzza? No, non si può avallare lo Spatuzza che parla del premier e cancellare lo Spatuzza che riscrive via DAmelio. E allora si buttano nel cestino Scarantino e Candura, anche se i racconti dei due sono serviti per costruire una verità processuale che ha retto a tutti i gradi di giudizio. Per via DAmelio sono fioccate condanne, condanne pesantissime. Non importa. Ora la coppia Scarantino-Candura è indagata per calunnia e autocalunnia. Ma le prove dov’erano? E i riscontri? E gli elementi oggettivi a cui ancorare quelle pagine? Non c’erano, ammettono oggi i giudici. Ma ieri, con l’illustre eccezione del pm Ilda Boccassini, nessuno aveva seguito per via DAmelio il metodo Falcone. Quei verbali erano tappeti volanti che portavano i magistrati lontano, dove non sarebbero mai arrivati. E si faceva la gara per salirci sopra. Certo, era più semplice dare la parola come fosse un conferenziere, a chi raccontava e riaggiustava a ruota libera la storia d’Italia. Un innamoramento sconsiderato, come è stato spesso eccessivo, senza filtri critici, l’amore dei nostri investigatori per le nuove tecnologie scientifiche, per i test del Dna, per le elaborazioni alla Csi. Col risultato di avere un alto numero di delitti irrisolti. Il pm di Bologna Libero Mancuso ha composto una sorta di fenomenologia del pentito, o almeno di un certo pentitismo, incarnato da Angelo Izzo, lo stupratore del Circeo, uno dei più fecondi inventori di storie a cavallo di criminalità comune e criminalità organizzata: «Si intuiva la volontà di soddisfare chi lo interrogava, al di là di quello che lui sapeva. Era come se prevedesse quello che l’inquirente voleva sentirsi dire e si adeguasse a questa previsione, per far contento il magistrato». Come un cinico seduttore che ha fatto i suoi calcoli. Così è proprio Izzo a ispirare Pellegriti che però trova sulla sua strada Falcone. Altri hanno fabbricato di tutto pur di continuare a coltivare, come tanti dottor Stranamore, i propri affari criminali sotto il velo del pentimento. Per cinque anni nessuno si accorge della doppia vita del siciliano Pierluigi Sparacio che non ha mai smesso di gestire gli interessi della sua cosca. Giacomo Lauro, padrino della ndrangheta, da pentito si dedica al narcotraffico e, colto con le mani nel sacco, si giustifica candidamente: «Mio fratello Bruno non è in grado di mantenersi se non spacciando droga. Cosa dovrei fare, non dovrei aiutarlo?». Come si fa a prendere a scatola chiusa, come pure talvolta è accaduto, personaggi di questo spessore? Giuseppe Ferone fa di più: nel 96 ordina addirittura una strage vicino al cimitero di Catania. E Balduccio Di Maggio, il principe dei collaboratori, quello del bacio da fiction tra Andreotti e Riina, andrà avanti per anni a organizzare indisturbato, se non sotto protezione, attentati, estorsioni, persino consulenze per un traffico di droga. L’unica chance con i pentiti è quella di pesarli, con le loro verità e le loro menzogne, sulla bilancia dei riscontri. Come insegna una memorabile udienza del processo Andreotti, dove un grappolo di collaboratori - perché uno non basta mai - ipotizzava un abboccamento fra il sette volte presidente del Consiglio e il capo della mafia catanese Nitto Santapaola. Alla fine, messi alle strette dopo un estenuante batti e ribatti, i collaboratori indicarono la data del presunto summit. Peccato che quel giorno Andreotti avesse stretto la mano a Mikhail Gorbaciov.

Pentiti, inganni e piani segreti. Ritorna il mafia-thriller, scrive Luca Crovi, Lunedì 15/07/2013, su "Il Giornale". La stagione del pentitismo che ebbe inizio negli anni 80 in Italia ha sostanzialmente cambiato le regole della lotta alla mafia. E se dietro certe confessioni si fosse nascosto un piano diabolico? Se certe dichiarazioni fossero state fatte per cambiare definitivamente l'assetto di un certo tipo di criminalità e dare spazio a un nuovo più insidioso sistema? E se le istituzioni nel loro intento di fare giustizia fossero state usate dai criminali stessi? Sono ipotesi inquietanti quelle che mette in scena il thriller Nessuno escluso di Enzo Russo, uscito originariamente nel 1995 e ora riedito da Barion. Un romanzo che ci suggerisce che il pentitismo sia stato talora in grado di attaccare in maniera virale lo Stato Italiano dando spazio a un nuovo ordine mafioso. Al centro delle vicende di questa storia fatta di silenzi, confessioni e inganni è il commercialista Ettore Milazzo, braccio destro di un latitante che temendo per la propria vita chiede protezione alle autorità e decide di vuotare il sacco facendo i nomi di una cosca mafiosa. Ma perché Milazzo sta facendo questo? E chi è davvero questo apparente anonimo individuo che si consegna alla polizia con una valigetta piena di denaro? Quanto gli inquirenti devono fare davvero affidamento sulle sue confessioni e quanto invece queste li costringono invece ad agire seguendo uno schema studiato al tavolino? Enzo Russo è abile nel costruire una storia densa di domande e di misteri che parte dall'ipotesi del cosa sarebbe successo se la mafia avesse deciso di infiltrare il tessuto giudiziario e investigativo dello Stato. Scopriamo così quanto il sistema dell'Anti Mafia possa risultare fragile. Come spiega lo stesso Russo in una lunga intervista che è posta in appendice a Nessuno escluso: «senza il pentitismo saremmo ancora al punto di partenza. Un fenomeno che tuttavia portava in sé delle insidie non facili da identificare. Che affidamento si poteva fare su gente del genere? Eppure bisogna chiedersi: quale giustizia senza i pentiti? Quale giustizia con i pentiti?». Prima che un romanzo di tesi sociali e giudiziarie «Nessuno escluso» è però un grande thriller dove nessuno è ciò che sembra, e dove la distinguere fra bene e male è impossibile. E il pentito Ettore Milazzo è un personaggio che per molti versi ricorda la spia George Smiley de La Talpa di John Le Carrè, un criminale da tempo abituato a fingere e a trattare gli altri come burattini del suo personale teatrino.

Tra corvi e pentiti trionfa la giustizia ingiusta, scrive Luca Rocca, Sabato 20/08/2005, su "Il Giornale".  È una storia di corvi e pentiti, calunniatori e calunniati, di inquietante malagiustizia e di garantismo sepolto quella raccontata da Mauro Mellini nel suo ultimo libro (edito da Koinè) e intitolato appunto «Tra corvi e pentiti. Un caso qualsiasi anzi... speciale». Una storia di provincia ma assolutamente emblematica del clima che si è respirato negli anni Novanta nel nostro Paese e dell’uso magistralmente distorto che a lungo si è fatto dei falsi pentiti. Mellini, avvocato, ex deputato dei Radicali, componente del Csm dal 1993 al 1994, narra la vicenda di Francesco Giangualano, «semplice» consigliere e assessore nel comune di Trani nelle fila della Democrazia Cristiana. Una vita non facile, quella di Giangualano. Diventato cieco all’età di 21 anni, mai avrebbe potuto immaginare che la sua vita sarebbe presto andata incontro a guai persino peggiori. Tutto ha inizio con la sua nomina alla carica di presidente dell’Amet, l’azienda municipale dell’elettricità e dei trasporti di Trani. Un ente quasi sempre utilizzato per «fare clientela» e che Giangualano rende invece un fiore all’occhiello della città. Ed è forse questo il suo «peccato originale», perché è da quel momento che si alza il venticello della calunnia attraverso lettere anonime, delazioni e denunzie apocrife con le quali si mettono in dubbio i sistemi utilizzati da Giangualano nella direzione dell’Amet. Lettere anonime che vengono inspiegabilmente tenute in seria considerazione dai magistrati di turno e che, passate al vaglio degli inquirenti, hanno portato a un ovvio nulla di fatto, senza però risparmiare all’accusato la solita gogna mediatica. Tra un’indagine e l’altra gli inquirenti arrivano persino a chiedersi come possa un cieco avere conseguito una laurea e addirittura a mettere in dubbio la reale cecità di Giangualano. E come al solito tutto si chiarisce solo dopo che il danno è stato fatto. Ma nel bel racconto di Mellini questa è solo la prima parte della storia. Siamo negli anni Novanta, su stampa e televisione non si parla daltro che di Tangentopoli e del processo per mafia a Giulio Andreotti. E mentre il senatore a vita si difende dalle accuse di decine di pentiti poi sbugiardati dalle sentenze, anche Giangualano entra nel vortice del «gioco del pentito». Un certo Salvatore Annacondia, collaboratore di giustizia, lo accusa infatti di aver ricevuto l’incarico proprio da Giangualano e da altre tre persone (che poi diventano quattro) di ammazzare Leonardo Rinella, procuratore della Repubblica presso l’allora Pretura di Trani dal 1989 al 94, da sempre scettico sul ruolo dei pentiti ma pronto a prenderli seriamente in considerazione quando si tratta di accuse che riguardano un «magistrato scomodo», come lui stesso si definisce. Annacondia non è un pentito qualunque. È noto alle cronache anche per essere stato ascoltato dalla fallimentare Commissione parlamentare Antimafia presieduta dal diessino Luciano Violante. Le sue versioni dei fatti, e non è una novità nel mondo dei pentiti, cambiano così tante volte e si contraddicono in così tanti punti che diventa difficile, se non impossibile, capire come possano dei bravi magistrati chiedere il rinvio a giudizio di un uomo sulla base di palesi menzogne raccontate da un pluriomicida reo confesso. Menzogne che però hanno avuto delle conseguenze gravi, perché le accuse di Annacondia hanno finito per tirare in ballo anche l’allora sindaco di Trani provocando lo scioglimento del Consiglio comunale. E che si tratti solo di bugie e calunnie lo dice Giangualano, che è venuto a conoscenza dei fatti attraverso la stampa e non tramite un’informazione di garanzia; lo dice l’autore del libro, che pure rende perfettamente chiaro come ci si trovi di fronte ad assurde falsità; lo dice anche solo la logica, scettica quando ci si trova di fronte a presunte colpe senza né capo né coda. Un caso più che simbolico, dunque, dell’Italia stravolta dall’ondata giustizialista che Mellini racconta con grande maestria. Un caso da tenere in seria considerazione ogni qualvolta si parla di pentitismo.

Diceva Manzoni: «Non credete ai pentiti», scrive Piero Sansonetti il 17 Agosto 2016, su "Il Dubbio". Il tribunale del riesame ha negato la scarcerazione al senatore Caridi e agli altri esponenti della politica calabrese catturati circa un mese un fa su ordine della Procura di Reggio Calabria. Non c’è nessuno al mondo – immagino – che creda all’ipotesi che la custodia cautelare del senatore Caridi sia necessaria per i motivi previsti dalla legge (rischio di fuga, o di inquinamento delle prove o di reiterazione del reato). Ma evidentemente il tribunale del riesame ha voluto evitare di sottrarre ai Pm questo strumento di indagine, e cioè la pressione psicologica che la carcerazione preventiva esercita sull’imprigionato e che può spingerlo a parlare. E a dire eventualmente la verità, o più probabilmente a dire ciò che chi interroga vuole che dica. Dando così una qualche robustezza a una indagine che al momento robustezza non ha. In questi giorni, come sapete, stiamo pubblicando sul Dubbio, a puntate, il testo dell’opera di Manzoni intitolata Storia della Colonna Infame. Si raccontano le turpitudini commesse dai giudici del seicento, a Milano, per condannare a morte e al supplizio due poveretti, del tutto innocenti, accusati di essere untori, e cioè di spargere volontariamente per la città il morbo della peste bubbonica. E impossibile non metter a paragone la rabbia di Manzoni contro l’uso della tortura per costringere la gente a confessare fesserie, e il modo nel quale – meno sanguinosamente – oggi si adopera, illegalmente, la carcerazione preventiva. Ma nel capitolo che pubblichiamo oggi c’è qualcosa di più: Manzoni smonta come vero e proprio sopruso l’uso del pentitismo. E definisce i pentiti che parlano in cambio di un premio non solo inattendibili ma corrotti. Vi prego vivamente di leggere almeno il capitolo che pubblichiamo oggi della Colonna Infame. Manzoni ci spiega che la giurisprudenza di allora - feroce e medievale – considerava attendibile un pentito solo se parlava senza ricevere in cambio alcun premio (e dunque considerava illegali gli sconti di pena). E addirittura prevedeva che le accuse di un pentito (che comunque considerava infamia: parole sue) avessero una qualche validità silo se confermate dalla tortura. Avete capito bene? I giudici torturavano il pentito, per farlo ritrattare, e solo se non ritrattava la sua testimonianza veniva presa in considerazione, e comunque non come prova ma come indizio. Mi piacerebbe se tutti i Pm, ma anche tutti coloro che vengono eletti in Parlamento col compito di scrivere le leggi, fossero tenuti a leggere con attenzione la Colonna infame.

Il fenomeno del pentitismo: una questione sociale? Scrive Marco Arnesano su "Altri Confini" a Gennaio 2013. «Il pentito pratica un percorso che corre inesorabilmente verso il basso. Non più messia, non più Rambo, non più mattatore, il pentito è un uomo al tramonto che ha perduto i pedali, viaggia a ruota libera ed è solo in attesa di una morte naturale e violenta». [Greco G. Monda D. in Novecento Italiano raccontato da scrittori] Tra i diversi strumenti che lo Stato ha utilizzato, e continua ancora oggi ad utilizzare per contrastare l’attività della criminalità organizzata di stampo mafioso, quello più importante è l’acquisizione di quel bagaglio di conoscenze proprio dei collaboratori di giustizia (conosciuti semplicemente come “pentiti”) perché affiliati a quelle consorterie criminose basate sulla segretezza e sul vincolo dell’omertà. La rottura della compattezza interna della mafia, determinata dal pentitismo, rappresenta la condizione (oltre che per combattere) anche per conoscere il fenomeno mafioso. Per contrastare il fenomeno della “società criminale” (o “societas sceleris”), lo Stato non si accontenta di condannare gli esponenti mafiosi ma per avere di più “scende a patti” con gli adepti catturati. Chi sceglie di collaborare con la giustizia non è pentito degli atti criminali che ha compiuto, semplicemente decide di raccontarli per avere in cambio dei benefici. Tale scelta diventa “consapevole” per due motivi. Il primo è la consapevolezza che matura quando si viene catturati, alternativa rispetto al vivere il resto della propria vita rinchiusi in una cella. Il secondo è evitare di finire ammazzati per mano dei propri “amici”. Naturalmente il percorso che spinge gli affiliati delle cosche a collaborare, indipendentemente dalla motivazione, si accompagna sempre ad un processo di trasformazione dell’identità individuale. «Quella dei pentiti è una merce delicatissima, sono loro che scelgono il giudice a cui confessare, sono degli sconfitti che abbandonano un capo per servirne un altro, ma vogliono che sia affidabile, che sappia davvero usarli per colpire i loro nemici. È un do ut des che ha i suoi rischi: loro vogliono vendetta, noi giustizia». Il collaboratore di giustizia è un persona che va alla ricerca di una nuova identità, affermandosi come testimone di professione, vendicatore della legalità infranta nel tentativo di sostituire l’identità del mafioso morto con una nuova: quella di collaboratore dello Stato. I collaboratori di giustizia quindi – come riportato sul sito web della Camera – sono: «Persone che hanno un passato di appartenenza ad un’organizzazione criminale o mafiosa. Essi sottoscrivono un “contratto” con lo Stato basato sulla fornitura di informazioni che provengono dall’interno dell’organizzazione criminale, in cambio di benefici processuali penali e penitenziari, della protezione e del sostegno economico per sé e per i propri famigliari».

IL FENOMENO DEL PENTITISMO: LA GENESI, LA NORMATIVA, IL RUOLO DEI COLLABORATORI DI GIUSTIZIA. Scrive Martedì 02 Settembre 2014 "Comirap". Il tema del pentitismo, altrimenti conosciuto come collaborazionismo, è di costante attualità ed il fenomeno presenta un andamento piuttosto regolare anche se i media periodicamente hanno la capacità di sollecitare picchi di interesse riferiti a particolari personaggi. L’Italia è il più grande produttore al mondo di “pentiti” anche per la presenza, nel nostro paese, di fenomeni di criminalità organizzata endemici nel meridione (mafia, camorra, ‘ndrangheta, sacra corona unita…). La nascita del fenomeno e riconducibile al momento storico in cui grandi boss hanno cominciato a “parlare” del proprio mondo malavitoso, forse per la loro stessa intolleranza ad una criminalità senza limiti (noti i casi di Buscetta e Contorno). L’interesse dello Stato e della magistratura a conoscere il mondo impenetrabile delle cosche mafiose e similari e la necessità di proteggere i pentiti da punizioni e ritorsioni da parte di boss e nemici hanno portato alla prima legge di disciplina del sistema di protezione: legge 82 del 15 marzo 1991, che ha convertito con modifiche il DL. 8 del 15 gennaio 1991. Il fenomeno viene quindi regolamentato (benefici carcerari, sconti di pena, carceri ad hoc, nuova identità per i pentiti, aiuti economici etc.) ma ci sono taluni buchi normativi, dovuti evidentemente alla prima emergenza, e gradualmente sanati dalle leggi di modifica (legge 13 febbraio 2001 n.45). Lo Stato e la magistratura fin dall’inizio incoraggiano il fenomeno ma non ci sono fondi neri come ritenuto indebitamente da qualcuno, anzi sul fenomeno c’è una puntuale relazione semestrale al Parlamento da parte degli uffici ministeriali interessati (Direzione centrale polizia Criminale).

Gli organi del sistema di protezione: innanzitutto l’Autorità Giudiziaria, che propone il sistema di protezione per i collaboratori e decide se il soggetto e a rischio e se e quali familiari necessitino di protezione. L’organo politico, ossia la Commissione mista insediata presso il Ministero dell’Interno e presieduta dal Sottosegretario con delega alla polizia, che decide sulla ammissione della proposta. Il Servizio Centrale di Protezione (Ministero Interno) è l’organo esecutivo, presieduto da un Questore o da un Generale dei Carabinieri (alternanza triennale), controllato da governo e forze politiche, che si occupa di dare attuazione all’intero programma di protezione.

Procedura: Può nascere con l’arresto di un criminale (il caso dei fratelli Brusca, ed è l’ipotesi più comune) che decide di parlare oppure può nascere con una collaborazione spontanea indipendentemente da un arresto. L’Autorità Giudiziaria fa la proposta di “protezione” al fine di avere notizie utili, la Commissione decide sulla ammissione e gli uffici ministeriali competenti mettono in atto il programma di protezione. Il Servizio Centrale di Protezione provvede all'attuazione degli speciali programmi di protezione e di assistenza, ivi compresa la promozione delle misure di reinserimento nel contesto sociale e lavorativo dei collaboratori di giustizia e degli altri soggetti ammessi al programma, formulati dalla Commissione Centrale di cui all'art. 10 del D.L. 15.1.91 n.8. Provvede inoltre all'attuazione delle misure adottate, in casi di particolare urgenza, dal Capo della Polizia - Direttore Generale della Pubblica Sicurezza, a norma dell'art. 11 della legge n°82/91. A tal fine mantiene i rapporti con le Autorità Giudiziarie e di Pubblica Sicurezza, nazionali ed estere, nonché con i competenti organi dell'Amministrazione Penitenziaria e con tutte le altre Amministrazioni centrali e periferiche eventualmente interessate. Attraverso 14 Nuclei Operativi, con competenza regionale o interregionale, cura la diretta attuazione delle misure di assistenza economica contemplate nel programma e garantisce il necessario supporto. Con “l’intervista” il personale ministeriale prende conoscenza diretta dall’imputato della sua intera esistenza, della sua personalità, della disponibilità a collaborare etc…. Differente è lo status del testimone di giustizia (Legge 45 del 2001), ossia di colui che ha assistito ad un evento delittuoso o ne è rimasto coinvolto ed ha pari bisogno di protezione. I numeri: attualmente in Italia ci sono circa 900 collaboratori di giustizia, più 5000 familiari; 70 testimoni di giustizia più 200 familiari. Perché il criminale collabora? Quasi mai per motivi morali, sempre per i vantaggi connessi alla protezione, soprattutto in presenza di figli minori. Il collaboratore di giustizia può avere permessi premio dal Giudice di Sorveglianza e può perfino essere messo in libertà dopo aver scontato una certa misura della pena, come previsto per legge. Il pentitismo ed il collaborazionismo hanno permesso l’arresto di pericolosi boss come Toto Riina, ma il problema della gestione di circa seimila persone esiste. Ci si chiede al riguardo: la legge ed il sistema di protezione funzionano? Il fatto che la legge originaria sia ancora vigente e che sia poi stata modificata in vari punti lascia pensare di sì.

Come funziona la protezione? La prima fase è il trasferimento (di solito di notte e dal sud al centro-nord) del personaggio “pentito” e dei suoi familiari, che viene allontanato dalla sua zona di origine e residenza (i familiari possono decidere di non seguire il pentito). La seconda fase e il trapianto del nucleo familiare in una nuova realtà sociale dove sorgono, soprattutto per i minori, problemi di lingua (spesso parlano in dialetto), di rapporti umani, di amicizie, di parenti abbandonati (Sindrome da sradicamento). I benefici possono riguardare il lavoro, la scuola, l’arredamento e tutto il necessario per una vita decente, a cui si aggiungono benefici carcerari se il collaboratore deve scontare una pena. Per un inserimento morbido dei pentiti nelle nuove realtà si preferisce la tecnica della mimetizzazione (il cosiddetto lasciarli stare) per non dare visibilità al “trapianto sociale”. Il problema più grande e la mentalità dei pentiti (non sono abituati a pagare le bollette, hanno comportamenti “strani”: qualcuno ha perfino si cementato il giardino, altri stendono i panni nell’androne del palazzo). Il contributo mensile ai pentiti, che si aggiunge alla disponibilità di un appartamento dignitoso, e parametrato al nucleo familiare, all’ indice Istat sul costo della vita, alla misura degli assegni sociali etc. La “collaborazione si fonda su un contratto che viene stipulato tra lo Stato ed il collaboratore di giustizia. Le lamentele di qualche pentito (Memorabile il caso di un incatenato di fronte alla questura Genova) trova fondamento in pretese eccessive (una villa anziché un appartamento) e non concordate nel contratto. Se il pentito continua e delinquere e inadempiente dal punto di vista contrattuale. Il programma di protezione contiene tutti gli elementi necessari a proteggere il collaboratore, con la correlata gestione del nucleo familiare, che la legge tende sempre a salvaguardare, in vista di una evoluzione dello stesso grazie all’inserimento in un ambito sociale più civile. Documenti di copertura: sono necessari per creare una nuova identità del pentito (c’è un regolamento specifico in tale materia). Se la nuova identità è bruciata, ossia svelata, si crea un'altra identità, si va in un altro luogo, in un’altra casa. Viene in pratica creata un’altra esistenza (dalle vaccinazioni, alle scuole fino agli eventi più recenti); nei casi estremi sembra che si ricorra anche ad un mutamento chirurgico della faccia. Quanto dura la collaborazione? Fino a quando c’è una fattiva collaborazione e fino a che esista un rischio per il pentito (decide al riguardo l’Autorità Giudiziaria). A fine protezione, al fine di un reinserimento sociale e nell’intento di evitare che il soggetto torni a delinquere, viene a questo corrisposta una somma di denaro, previa presentazione di un progetto di reinserimento (cosa fare con i soldi della “liquidazione”, che lavoro svolgere, come gestire l’economia familiare etc.).

Pentiti di averli pentiti? Giustizia e pentitismo. Meeting di Rimini Lunedì 24 agosto 1998, ore 18.30

Relatori:

Luigi Follieri, Senatore della Repubblica Italiana, Relatore della nuova legge sui pentiti;

Franco Coppi, Avvocato;

Armando Spataro, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano.

Follieri: I collaboratori di giustizia, i cosiddetti pentiti, da circa sette o otto anni sono al centro della attenzione della pubblica opinione, perché hanno svolto un ruolo importante per la giustizia: sicuramente bisognava fare ricorso ai collaboranti per approdare a determinate verità che difficilmente potevano essere penetrate da una ordinaria attività di indagini. Nel contempo, è anche vero che dei pentiti si è fatto un uso improprio, si potrebbe dire un abuso, come è evidente da alcune cifre: in Italia vi sono circa 1600 collaboratori di giustizi, 1600 persone che ricevono la protezione - e non soltanto la protezione - da parte dello Stato per il solo fatto che hanno deciso di svelare alcuni segreti che hanno per oggetto fatti criminosi. A questo numero consistente bisogna sommare anche i familiari e altri personaggi gravitanti nell’orbita dei vari collaboranti. Proprio per questo, nel dicembre 1996, nel corso della relazione semestrale che il ministro dell’interno è obbligato a rassegnare al Parlamento, il ministro Napolitano denunziava la situazione in cui versava lo Stato per questo numero altissimo di protetti, e invitava le forze politiche a rivedere la legge del 1991: ho l’onore di essere relatore di un disegno di legge su questo problema, disegno sul quale stiamo lavorando da oltre un anno. L’intero pacchetto normativo ormai è passato in Commissione giustizia: vi sono stati degli emendamenti volti a modificare alcuni punti salienti. Il primo è quello di ridurre l’accesso alla protezione e questo lo si è fatto attraverso la riduzione dei reati rispetto ai quali è possibile accedere ad un programma tutorio: con il nuovo disegno di legge si è ristretto l’ambito di questi reati e si è stabilito che potranno accedere al programma soltanto coloro i quali riferiranno in ordine a fatti rientranti nella così detta attività criminale organizzata e riguardanti la mafia, la ’ndrangheta, la camorra. Un altro punto essenziale di questo disegno di legge è che colui il quale decide di collaborare con la giustizia, di svelare fatti noti o ignoti rispetto ai quali non sono state individuate delle responsabilità facenti il capo ai loro autori, deve entro il termine massimo di 180 giorni riferire tutto quello che sa; scaduto questo termine non potrà riferire di altri fatti e di altri episodi. Con questa disposizione si vuole evitare che il pentito riferisca un po’ alla volta fatti che gli vengono in mente o che gli possono anche essere suggeriti. Oltre a queste due finalità, il disegno di legge si caratterizza anche per un’altra peculiarità: oggi colui il quale decide di collaborare ottiene gli arresti domiciliari - o addirittura la libertà - anche se ha commesso decine e decine di omicidi. Secondo le previsioni del nuovo disegno di legge governativo, tutto questo non sarà possibile: non sarà possibile dire che il collaborante ottenga la revoca di una custodia cui è sottoposto oppure ottenga uno dei tanti benefici premiali. Questo per evitare che i pentiti ottengano, come spesso hanno ottenuto, la libertà con una facilità che non è degna di un paese civile come il nostro. Il punto critico e di arresto del disegno di legge è invece connesso a una disposizione del nostro Codice di procedura penale, che all’articolo 192, terzo comma, recita: "le dichiarazioni rese dal coimputato nel medesimo reato o da persona imputata in un procedimento connesso a norma dell’art.12 sono valutate unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità". Il legislatore aveva così dimostrato con questa formulazione una certa diffidenza nei confronti del chiamante in correità o dell’imputato connesso o collegato, tanto che la sola dichiarazione di questi soggetti processuali, se non corroborata da riscontri, non poteva e non può assurgere ad elemento di prova piena utilizzabile dal giudice. Nonostante tutto questo, la giurisprudenza è approdata ad una soluzione secondo cui i riscontri possono essere rappresentati da atti dichiarativi facenti capo a altri collaboratori di giustizia. Su questo punto si è paralizzata l’attività riguardante il disegno di legge in questione, e come tutte le problematiche più importanti è stata rinviata a settembre.

Coppi: Il problema della collaborazione con la giustizia di persone che avendo preso parte alla commissione di reati, ad un certo momento decidono di rivelare quanto essi sanno, è un problema vecchio come il mondo. Lo Stato non ha mai rinunciato a servirsi di quelli che un tempo si chiamavano i delatori e che a Roma si chiamano gli spioni o in Sicilia gli infami. La differenza rispetto al passato sta che le dichiarazioni rese dai delatori di per sé non erano prova, tanto è vero che il confidente, lo spione, era tutelato dal fatto che l’inquirente che aveva ricevuto la confidenza non era tenuto a rivelare il suo nome. Mai è avvenuto che un soggetto nel passato fosse condannato esclusivamente sulla base di una confidenza anonima. Oggi lo Stato vuole qualche cosa di più: vuole che il delatore diventi egli stesso fonte di prova. Non basta quindi che il mafioso pentito spifferi qualche notizia all’autorità giudiziaria nascondendosi poi nuovamente nell’ombra; deve comparire nel processo, deve rendere le sue dichiarazioni e diventare quindi egli stesso prova. Si tratta dunque di una differenza essenziale rispetto al passato. In Italia si è maturata l’esperienza dei pentiti all’epoca del terrorismo, e peraltro in una prospettiva completamente diversa da quella in cui deve essere collocato il problema degli attuali collaboranti - non oso e non voglio usare il termine ‘pentiti’, perché questa espressione evoca catarsi spirituali, ripensamenti e revisioni della propria visione della vita e del mondo di cui io non riesco a far credito a queste persone -: la situazione era infatti completamente diversa perché effettivamente si doveva riconoscere che il terrorista che si staccava dalla lotta armata, che rinnegava la sua vecchia visione del mondo, che si staccava dai compagni al punto tale da addirittura indicare i nomi di coloro che facevano parte del partito armato, probabilmente giungeva al termine di questo suo travaglio non certo per i vantaggi che poteva ottenere, che pure erano cospicui, ma probabilmente per un ripensamento profondo della esperienza che egli aveva vissuto. E lo Stato di questo era consapevole, tanto che in occasione del terrorismo veniva addirittura prevista la non punibilità del terrorista pentito, il quale avesse portato particolari e consistenti contributi. Quindi non solo sconti consistenti di pena, ma addirittura in certi casi la non punibilità. A questo non si è giunti con gli attuali collaboranti, forse proprio perché ci si è resi conto che in realtà dietro le forme attuali di collaborazione non c’è nessuna forma di pentimento, non c’è nessuna forma di catarsi interiore. Usare l’espressione ‘pentiti’ mi pare eccessivo, ma mi sembra che anche l’espressione ‘collaboranti di giustizia’ conceda troppo a persone le quali comunque si presentano sul proscenio molte volte senza neppure sapere quante persone hanno ucciso, perché ne hanno perso il conto o perché essendo abituati alle stragi non sanno quante persone hanno ammazzato di strage in strage. Attualmente, il problema nasce da una valutazione che risponde alla categoria dell’utile: lo Stato infatti riconosce che attraverso le notizie ricevute da membri appartenenti alle organizzazioni criminali si possono apprendere dati che altrimenti lo Stato non sarebbe in grado di raggiungere attraverso le sue forze investigative, e quindi in omaggio alla categoria dell’utile si supera qualsiasi tipo di remora di carattere etico che pure il problema presenta. Personalmente, continuo a considerare raccapricciante il fatto che lo Stato sia costretto a superare ogni problema di natura etica, soltanto in funzione della categoria dell’utile, e che quindi debba scendere a patti con queste persone, e in certi casi trovarsi anche di fronte alla umiliante situazione di collaboranti che offrono la collaborazione e in seguito la ritirano perché - lo dichiarano esplicitamente - fino a quel momento non hanno avuto dallo Stato quei vantaggi ai quali ritengono di avere diritto. Beccaria, che viene presentato come un campione dell’utilitarismo illuministico, più di 200 anni or sono, postosi il problema se fosse giusto che lo Stato scendesse a patti con i delatori, dopo aver finto retoricamente di seguire il discorso della utilità, esprime uno scatto di sdegno nei confronti di una soluzione di questo genere, perché ritiene che il patto con il delatore offenda la santa maestà della legge. Fatta comunque la scelta in funzione dell’utile, occorre verificare come questa scelta venga praticata e se questa necessità di risolvere il problema secondo la categoria dell’utile non abbia portato a delle conseguenze che non sono accettabili neppure paragonate ai vantaggi che si possono eventualmente ottenere dalla collaborazione di questi signori. Ritengo che la gestione dei pentiti abbia portato a degli effetti perversi. Si continua a ripetere che senza i pentiti non si sarebbero scoperti determinati reati, non si sarebbe potuto penetrare negli organismi di Cosa nostra: anche io lo riconosco, però ci si trova ormai di fronte ad un abuso di questa gestione, e si deve tener conto anche di altri fatti. In primo luogo, oggi noi assistiamo ad un uso spregiudicato del pentito da parte della autorità giudiziaria, uso spregiudicato che si manifesta nella attività preliminare e nella attività di indagine che viene svolta dal pubblico ministero nel segreto della sua stanza, quando egli ha di fronte a sé soltanto il pentito. Il fatto stesso che egli abbia per le mani una persona la quale aspira alla qualifica di collaborante e quindi a tutti i benefici che ne deriveranno - dalla protezione al possibile cambiamento di generalità, dallo stipendio, alla assicurazione di un lavoro per sé e per i suoi famigliari - è sufficiente perché il pentito sia necessariamente ed inevitabilmente sollecitato ad allinearsi sulla linea che gli viene indicata dall’inquirente. Si verifica quindi un inevitabile fenomeno di adeguamento del collaborante alla linea investigativa che viene proposta. La seconda considerazione che va fatta è che, o per una rivelazione maliziosa da parte dell’inquirente di notizie che egli già possiede, o perché le indagini finiscono sulla stampa e vengono inevitabilmente divulgate, o perché si tratta di temi che vengono trattati in altri processi, è facile che il collaborante sappia quali sono i temi più delicati che bollono in pentola. Anche da questo punto di vista è dunque inarrestabile il tentativo del collaborante di porsi su una certa linea che in quel momento viene praticata. La terza rilevazione è la formazione di una giurisprudenza eccessivamente lassista in tema di valutazione delle dichiarazione del collaborante. L’esperienza ha anche dimostrato che i collaboranti, oltre tutto, si incontrano fra di loro e hanno tutta la possibilità di concordare le loro strategie rivelatrici. Quindi ammettere che possa costituire riscontro ciò che dichiara un altro collaborante è un altro tema sul quale si dovrà riflettere, soprattutto se sono esatte le indicazioni che abbiamo circa alcuni progetti di riforma della materia che stiamo trattando. Si è formata, contrariamente a quello che si dichiara, una vera e propria presunzione di veridicità delle dichiarazioni del collaborante. A tutto ciò aggiungo - questo fa parte della mia esperienza di avvocato - che i collaboranti fanno quello che vogliono, i collaboranti sono liberi di uscire di casa, di incontrarsi dove quando e come credono. Noi abbiamo avuto la confessione di collaboranti i quali avevano dichiarato la loro intenzione di collaborare, e che poi si incontravano nei ristoranti e nei caselli di autostrada, concordavano fra di loro le dichiarazioni che dovevano rendere per recare aiuto a vecchi amici di Cosa nostra concordavano la ricostituzione di cosche mafiose in quegli stessi territori nei quali avevano dominato. Dunque anche i riscontri incrociati sono estremamente pericolosi se si ammette che costoro abbiano a loro disposizione automobili, telefonini e libertà di incontro e che possano fare quello che vogliono, al punto tale di arrivare la mattina a dichiarare in tribunale la loro volontà di collaborare e di raccontare quel che sanno o che si ritiene che sappiano, e il pomeriggio di ammazzare qualche persona nel quadro della ricostituzione di una nuova cosca. Ma ci sono altri rischi connessi al sistema dei collaboranti. Dobbiamo ad esempio lamentare il sistema della rivelazione a rate che non può non generare il sospetto di un continuo adeguamento del collaborante a ciò che viene a sapere e a ciò che immagina possa far piacere all’inquirente. Dobbiamo rilevare che di fatto si è realizzata una non punibilità dei collaboranti; io ho chiesto infinite volte ai collaboranti quale era la loro situazione processuale, mi hanno risposto che non lo sapevano, non sapevano se erano stati condannati o meno. Ho chiesto loro se per i reati da loro commessi e confessati si fosse proceduto e si fosse intervenuto di conseguenza alla condanna: di fronte al collaborante che confessa il delitto, il processo potrebbe infatti essere sviluppato in termini rapidissimi e la condanna per quanto tenue potrebbe essere inflitta. La risposta di costoro che non si era proceduto, che erano in attesa di giudizio e via dicendo, permette di affermare che di fatto si giunge ad una sorta di non procedibilità dell’azione penale nei confronti di costoro. Bisogna anche riflettere sulla creazione cui ormai si è giunti di un nuovo ibrido, il mafioso in attesa di pentimento. I vecchi mafiosi, entravano gelidi nelle aule del tribunale, squadravano tutto l’uditorio con uno sguardo agghiacciante e poi in perfetto siculo si avvalevano della facoltà di non rispondere: sono persone ben diverse dai giovani mafiosi, i quali continuano a commettere delitti fino al giorno in cui non sono catturati, il giorno dopo si pentono e cominciano a collaborare, il che fa pensare che abbiano fatto un calcolo di convenienza molto evidente, continuare a fare i mafiosi finché non vengono scoperti e trovare tutti i vantaggi della loro pratica mafiosa, passando poi nella schiera sempre più nutrita dei collaboranti il giorno dopo essere stati catturati. Oltre a questo ibrido, c’è il pentito eterno, uno strumento tecnico raccapricciante: i pentiti sono sempre considerati imputati di reato connesso, e siccome sono tutti mafiosi si parte dal presupposto che Cosa nostra sia una cosa unica ed eterna, quindi tutti gli imputati collaboranti sono sempre imputati del reato connesso che viene ogni volta contestato al malcapitato sottoposto a procedimento, così che costoro in quanto imputati di reato connesso godono di tutte le garanzie che spettano all’imputato. È una sorta di consulente a vita, come Buscetta: qualsiasi cosa succeda in Italia, Buscetta viene prelevato dai suoi ozi sudamericani, viene portato in Italia e gli si chiede un parere su quello che è successo. L’ultimo rischio da segnalare è che lo Stato possa diventare inconsapevolmente il braccio secolare di vendetta ai mafiosi. Il processo al senatore Andreotti, ad esempio, si è svolto in questo contesto, lo squallido scenario delle lotte fra il clan di Brusca e il clan di Di Maggio.

Spataro: Alla domanda provocatoria che dà il titolo a questo dibattito "Pentiti di averli pentiti?", la mia risposta, e sono convinto di rappresentare le convinzioni di molti magistrati e non solo di pubblici ministeri, è no: assolutamente non pentiti, forse dispiaciuti di avere contribuito con i nostri discorsi ad aver condotto molti collaboratori in un tunnel buio da cui sarà difficilissimo uscire. Lo Stato italiano purtroppo si comporta nei confronti di chi, piaccia o non piaccia, ha fatto un salto nel buio troncando legami con famiglie, con i territori, togliendo vita e futuro ai figli, in un modo che non avviene in nessuna parte del mondo. Non condivido le affermazioni di Giorgio Vittadini sul pentitismo, affermazioni secondo cui una giustizia che si basa sui pentiti per la gran parte dei cittadini non è più credibile; sono affermazioni che non tengono minimamente conto di quella che è la realtà storica, la storia della nascita dell’utilizzo delle collaborazioni processuali, e che non tengono conto delle realtà attuali a livello internazionale. Intendo spiegarmi brevemente. Non è una invenzione dei pubblici ministeri o dei magistrati italiani il fenomeno della collaborazione processuale o il pentitismo - utilizzo questi termini solo perché termini imposti dalle esigenze di sintesi, queste definizioni non alludono al pentimento interiore ma alla collaborazione processuale, ed infatti si dovrebbe dire tecnicamente ‘collaboratori processuali’ -, perché da sempre e dovunque l’utilizzo dei collaboratori processuali è non il principale ma praticamente l’unico strumento di contrasto dell’attività del crimine organizzato, specialmente quello mafioso. Già nelle sentenze delle Corti d’appello delle Calabrie del 1890 o del 1901 si diceva che "senza gli uomini di onore che solo conoscono, per far parte dell’organizzazione, i segreti e le segrete cose, senza quegli uomini non possono farsi quei processi". Ed è così anche all’estero: prendiamo ad esempio il sistema statunitense, che è quello cui si ispira il nostro di protezione e di premio. Negli Stati Uniti non esiste neppure il problema, che anzi è rovesciato: ci si preoccupa di garantire la possibilità al collaboratore di rendere dichiarazioni senza pressioni, e il pubblico ministero arriva anche a patteggiare non una diminuzione della pena, ma che non procederà contro di lui per certi reati. Esiste addirittura un sistema per cui il ministro di grazia e giustizia degli Stati Uniti può autorizzare gli agenti sotto copertura, gli undercovered agents, ad infiltrarsi nelle organizzazioni non solo e non tanto per recepire egli stesso notizie, ma per individuare all’interno delle organizzazioni i personaggi criminali che per le loro caratteristiche personali saranno valutati potenziali futuri collaboratori. Un’infiltrazione dunque finalizzata a stabilire contatti personali e amichevoli tali che un agente sotto copertura potrà invitare ad un certo punto il collaboratore a saltare il fosso. Quando negli Stati Uniti si parla delle polemiche che in Italia ciclicamente si sviluppano attorno ai collaboratori processuali, la reazione è una risata e una successiva domanda: come fareste altrimenti la lotta alla mafia? Questa è la realtà statunitense, questa è la realtà tedesca, la realtà olandese e spagnola. Ho la fortuna di far parte della delegazione del ministero di grazia e giustizia di esperti di criminalità organizzata nei famosi paesi del G8: in questa sede, esiste un comitato che si occupa di criminalità organizzata, e il sistema italiano è la guida e l’esempio, ed infatti si fanno discussioni a livello internazionale - i paesi del G8 dovrebbero essere all’avanguardia nel mondo - che riguardano progetti di legge che per noi sono oziosi, perché siamo già avanti rispetto a certi problemi. Ci sono certamente dei fatti inquietanti intorno al fenomeno dei collaboratori; è necessario però affrontare luci ed ombre della questione con grande serenità, ad evitare da un lato di essere abbagliati e dall’altro che le ombre appaiano tenebre impenetrabili. Mi sono occupato di questo fenomeno anche ai tempi del terrorismo; a partire dal mio passaggio al settore della criminalità organizzata, che è coinciso con la fine del terrorismo, mi sono occupato del fenomeno per quanto riguarda mafia, traffico di stupefacenti e criminalità organizzata in generale. Per questa mia esperienza, sento di dover subito sfatare l’affermazione che dai terroristi si poteva accettare il pentimento, perché erano spinti da un movente ideologico, dai mafiosi invece non si può accettare perché sono spinti dal proposito di trarre vantaggi o addirittura talvolta di vendicarsi. L’unica vera differenza che ho riscontrato tra un tipo di collaboratori e l’altro è il livello culturale: anche il più ignorante dei terroristi aveva una cultura frutto di lettura di testi "sacri", che gli consentiva di tenere apprezzabili discorsi in qualsiasi sede. Ma la prospettiva del vantaggio processuale era una prospettiva valida per il terrorista pentito così come è valida oggi, ed è una prospettiva di fronte alla quale nessuno può scandalizzarsi. Il Parlamento italiano ha varato delle leggi al tempo del terrorismo e oggi del tutto analoghe quanto alla riduzione della pena possibile. Anche in tema di immigrazione clandestina è stata recentemente introdotta un’attenuante che prevede una riduzione di pena a chi dia notizie sui traffici di clandestini che entrano nel paese; quindi, la scelta premiale si va allargando. Mi è capitato di conoscere e incontrare mafiosi che hanno dimostrato una umanità e capacità di pentimento reale null’affatto diverse da quelle che ho conosciuto al tempo del terrorismo, gente che ha confessato piangendo ore dinanzi a chi li interrogava, gente che al dibattimento ha lasciato i giudici popolari e i giudicanti di stucco. Per sottolineare la necessità della collaborazione si possono ricordare i grandi magistrati che hanno lottato contro la mafia. Dalla Chiesa, Falcone e Borsellino sono morti anche per questo, per la fede che avevano nella necessità di una legislazione premiale nei confronti dei collaboratori, una legislazione che assicurasse sicurezza e di reinserimento. Le bombe del 1993 sono esplose contro la legge della collaborazione processuale, le reazioni massicce che la mafia, anche con il sangue di tanti innocenti, ha realizzato, dimostrano chiaramente quanto la mafia senta mortale il pericolo che deriva dalla collaborazione degli ex adepti. Il problema di questo paese non è quello della mancanza di leggi più dure, dell’esercito nelle strade, il problema è la continua oscillazione sulle scelte di politica giudiziaria. Se salta un’autostrada o crolla un quartiere, l’unica misura che immediatamente si prende è quella della durezza di vita e di regime carcerario a favore dei pentiti; i pentiti vengono così scaraventati nella polvere, dopo essere stati posti altrettanto ingiustificatamente sull’altare. Questa campagna si scatena storicamente quando vengono individuati certi passaggi cruciali dell’attività della mafia, e questa oscillazione di senso opposto è anche favorita dai fatti inquietanti che riguardano le condotte dei collaboratori. È una progressione che passa attraverso la denigrazione morale, attraverso i riferimenti alla dolce vita che i pentiti indistintamente farebbero. Non accetto l’opinione secondo cui i pubblici ministeri e la polizia giudiziaria non farebbero più indagini e non le saprebbero più fare da quando ci sono i collaboratori. È vero il contrario, lo spunto investigativo che scaturisce dalla dichiarazione del collaboratore rende le indagini molto più approfondite: non è possibile ad esempio interpretare i flussi di denaro in una indagine bancaria senza l’input che viene dal collaboratore. Si arriva a dire che gli avvocati sono inermi, impossibilitati a muoversi nei processi in cui i pentiti si affollano: anche questo non è vero in assoluto, talvolta vi può essere anche una obiettiva difficoltà di fronte alla necessità di sostenere la difesa di persone - come ad esempio Riina - accusate in una maniera totalmente impensabile e insuperabile. Non accetto l’idea che il difensore non possa esercitare il suo mandato in presenza di questo tipo di processo, e dunque non accetto certe posizioni che esprime l’unione delle camere penali. Anche per quanto riguarda l’incriminato articolo 192 del Codice di procedura penale, la norma che consente di ritenere valido il riscontro incrociato, se questa legge sarà cambiata sarà la fine dei processi di mafia. Non voglio ovviamente negare che il trattare materialmente con questo strumento di accertamento della verità è delicatissimo e richiede grande professionalità, e non voglio neppure negare che si sono verificati da questo punto di vista dei fatti devastanti. Se un collaboratore sottoposto ad un programma di protezione commette omicidi e rapine, è un fatto totalmente inaccettabile, come è inaccettabile che fugga, come è inaccettabile che si rifiuti di rispondere una volta che ha compiuto la scelta di collaborazione. Nonostante questo, trovo assolutamente non condivisibile il punto di partenza che è stato fatto proprio dal governo quando ha deciso di varare un disegno di legge per modificare l’attuale disciplina sui pentiti. Questo punto di partenza è che i pentiti sono troppi e bisogna ridurne il numero. È falso che un migliaio di pentiti sono troppi: in un sistema in cui non solo per effetto degli studi di tipo sociologico ma per effetto delle realtà processuali la popolazione mafiosa e di area contigua è valutata a decine di migliaia di collaboratori, il problema sarebbe quello di incrementare qualitativamente e quantitativamente i collaboratori e non diminuirne il numero. Ci si ispira a questa linea di tendenza e si introducono o si rischiano di introdurre delle modifiche all’attuale sistema molto pericolose. Alcune sono totalmente condivisibili: la separazione del momento del premio da quello della protezione, la riduzione delle categorie di reati per cui è possibile ottenere la protezione, la necessità di programmare un termine entro cui rendere le dichiarazioni, anche se bisogna tener presente che talvolta questo non avviene non per frutto della cattiva volontà del collaboratore, ma per gli impegni dell’ufficio che lo interroga. Va invece criticato del disegno di legge in discussione il fatto che saranno ammessi al programma di protezione speciale solo i collaboratori che saranno stati portatori di un contributo di novità nella indagine processuale. Si prevede anche la impossibilità di sottoporre a programma di protezione i familiari non conviventi del collaboratore. Quindi si sostiene la necessità di difendere solo la famiglia intesa come nucleo stretto, come se i tanti morti in quanto parenti dei pentiti non fossero stati invece familiari non conviventi. Si prevede che il collaboratore cada dai benefici, se non rende le sue dichiarazioni entro 180 giorni così escludendo la possibilità che per esempio una pausa di queste dichiarazioni possa essere imposta dalla minaccia alle famiglie, dal rapimento di un familiare. Il collaboratore che inizia a collaborare per sei mesi, dovrà essere in totale isolamento, con divieto di colloquio personale, telefonico, telegrafico anche con i parenti: questo significa che nel momento in cui più tragica e drammatica è la scelta di collaborare, tanto da comportare la necessità che se ne parli con i parenti, il collaboratore viene sottoposto ad un regime da 41bis, che la Corte costituzionale ha ritenuto illegittimo per i detenuti non collaboratori. Si chiede che il collaboratore versi tutto quello che ha, giudicandolo quindi implicitamente equiparabile ad un soggetto pericoloso i cui beni sono soggetti a confisca: la scelta potrebbe essere condivisibile solo se si riferisse esclusivamente ai beni di provento illecito. Seguendo questo disegno di legge ci troveremmo dunque di fronte ad una situazione in cui il collaboratore deve essere isolato in carcere, ricordare tutto e subito - altrimenti perde tutto - rinunciare a far proteggere tutti i familiari, consegnare tutti i suoi beni e sperare che qualcosa gli venga riconosciuto. Il collaboratore va incontro ad un calvario: solo in questo caso effettivamente potremmo chiamarlo pentito.

Rileggere Sciascia per svelare le aporie del pentitismo, scrive il 28 marzo 2010 "Magna Carta". E Sciascia si rivoltò nella tomba. Un po’ di qui e un po’ di là. Una volta a destra e una volta a sinistra… Il 25 novembre 2009, nella seduta del Senato chiamata a discutere il caso del senatore Cosentino, indagato dalla procura di Napoli per le accuse di alcuni pentiti di camorra, lo scrittore di Racalmuto ha collezionato un vero e proprio record di citazioni in aula, al fianco di mostri sacri come Montesquieu e Robespierre. Con un’esegesi più o meno felice e una riverenza assolutamente bipartisan è stato chiamato in causa da maggioranza e opposizione, da chi chiedeva a Cosentino di dimettersi per un gesto di “moralità politica” e chi invece invocava la presunzione di innocenza e la cautela di fronte alle accuse dei pentiti. Più tardi sono venuti il “papello” e le rivelazioni di Massimo Ciancimino, il pentito Spatuzza e le insinuazioni su Dell’Utri e Berlusconi: Sciascia ha continuato ad essere il nume tutelare dell’uno e dell’altro schieramento, dei garantisti e degli assetati di giustizia, riletto e a volte travisato per esigenze di propaganda. Ma esiste, al di là delle interpretazioni e delle strumentalizzazioni politiche, uno Sciascia “autentico”? Non è facile ricostruire, anche su un tema specifico come è quello dei pentiti, la traiettoria intellettuale di uno scrittore che in nome del pensiero “onesto” rivendicava il privilegio di correggersi e di contraddirsi. Esistono commenti estemporanei, più o meno “accidentali”; interviste, articoli, dichiarazioni ispirate ai fatti di cronaca, talvolta influenzate dallo “spirito dei tempi”, dalle emergenze e dai rivolgimenti della realtà quotidiana. E poi esiste un pensiero di fondo, meditato e sedimentato, che Sciascia ha affidato ai suoi scritti e che compone un quadro quanto mai coerente di principi ideali per la comprensione e il contrasto della mafia. La mafia non si combatte senza conoscerla, senza coglierne la valenza storica e sociale, senza studiare il contesto in cui si sviluppa; e non si combatte senza violare “i santuari del potere”, senza scardinare, cioè, il sistema di protezioni, collusioni, compiacenze che la avvolge e la difende. Infine, ma non da ultimo, la mafia si combatte affermando la superiorità morale dello stato di diritto, senza indulgere a “repulisti”, ricorrere a poteri speciali e misure eccezionali, ma usando la giustizia con la precisione di un bisturi, con l’accortezza che merita uno strumento delicato e devastante. Sulla base di queste premesse la posizione di Sciascia sul pentitismo è improntata alla cautela. Il primo approccio col tema riguarda piuttosto i pentiti politici, reduci dalla stagione efferata del terrorismo, che i pentiti di mafia. Nell’ introduzione all’edizione della “Storia della colonna infame” di Manzoni, da lui curata nel, lo scrittore pone un’analogia tra il pentimento e la tortura: i condoni che si fanno ai pentiti, la promessa di impunità, giunge agli stessi effetti delle punizioni corporali. Per Sciascia il vero pentimento è un moto autonomo della coscienza e sfocia nella “conversione”. Gli episodi che lo circondavano, e si moltiplicavano con sospetta progressione nell’Italia dei primi anni ’80, erano esempi di pentimento opportunistico e strumentale. Un pentimento indotto, o addirittura “estorto”, con la promessa di sconti di pena, privilegi carcerari e, nella migliore delle ipotesi, di una nuova, insperata e immeritata libertà. Nel febbraio del 1982, mentre in Parlamento si discute la cosiddetta “legge sui pentiti”, che prevede notevoli sconti di pena per i collaboratori di giustizia, l’onorevole Leonardo Sciascia, deputato nelle file del Partito Radicale, insorge: “Mi pare che il Parlamento, votando questa legge, si metta sotto i piedi sia i principi morali sia il diritto”. A suo dire, “bisogna anche pensare alle famiglie delle vittime. La grazia si può concepire ma ci vuole sempre un certo consenso da parte di coloro che sono stati colpiti”. Con la cattura, nel 1983, del “boss dei due mondi” Tommaso Buscetta e la vicenda del suo pentimento, che si intreccia in maniera decisiva, con la preparazione del maxiprocesso di Palermo contro la mafia, l’attenzione di Sciascia si sposta inevitabilmente dal pentitismo politico a quello mafioso. Mentre i partiti e l’opinione pubblica si interrogano sulla possibilità di estendere la legge 304 (finalmente approvata nel maggio del 1982) ai pentiti di mafia, Sciascia si esercita a scavare le ragioni e il significato del pentimento di Buscetta, indirettamente pronunciandosi sulla fondatezza dell’impianto accusatorio costruito dal pool antimafia di Falcone e Borsellino. Nel libro-intervista “Cose di cosa nostra”, scritto nel 1991 con la giornalista francese Marcelle Padovani, Giovanni Falcone afferma che i mafiosi si pentono per diversi motivi e Buscetta, in particolare, aveva deciso di collaborare con la giustizia perché non condivideva i crismi della “nuova” mafia, lontana anni luce dall’ideologia e dalla nobiltà della “vecchia”. Nel primo incontro ufficiale coi giudici del pool antimafia dichiarava candidamente: “Non sono un infame. Non sono un pentito. Sono stato mafioso e mi sono macchiato di delitti per i quali sono pronto a pagare il mio debito con la giustizia”. Dalle colonne del Corriere della Sera, il 18 aprile 1986, Sciascia esprime un’idea non dissimile, ma non del tutto coincidente con quella di Falcone. Commentando la deposizione di Buscetta al maxiprocesso di Palermo, sostiene che don Masino sia semplicemente un uomo impaurito e amareggiato, “che ha visto intorno a sé cadere familiari ed amici, che sente in pericolo la sua vita e vuole dalla parte della legge trovare vendetta e riparo”. La natura opportunistica del pentimento di Buscetta sarebbe testimoniata dal suo iniziale rifiuto a collaborare e dalle sue ripetute omissioni Il pentito volontariamente tace circostanze che non può non conoscere, salta a pie’ pari il capitolo dei rapporti tra mafia e politica, incurante delle pressioni e del crescente scetticismo dell’informazione, per obbedire probabilmente ai “consigli” dei suoi protettori americani. Buscetta, avverte Sciascia, non è l’angelo sterminatore che incombe sulla mafia siciliana e internazionale. Sembra solo desideroso di far presto e tornarsene negli Stati Uniti, vuole scansare i pericoli che chi parla corre in Italia, tende a non moltiplicare il numero dei suoi nemici, e specie di quelli che ancora “possono”. Ha detto quello che sapeva, e che poteva dire, in istruttoria: sperare che aggiunga qualcosa nel processo dibattimentale è “insensato”, contrario alla prassi di tutti i processi di mafia, in cui semmai le dichiarazioni rese in istruttoria subiscono in aula una riduzione o una negazione. “La mentalità di Buscetta è perfettamente mafiosa […] dalla parte della legge continua a fare quello che avrebbe fatto dentro una famiglia ancora capace di far qualcosa: restituisce i colpi ricevuti, si vendica. Ed è appunto perciò credibile in quello che rivela”. Quanto alla fiaba della mafia di una volta, della mafia buona e della mafia cattiva, Sciascia la liquida con le stesse parole di Buscetta. All’avvocato che gli domanda perché Sindona fosse venuto in Sicilia a incontrare il boss Stefano Bontade, don Masino risponde: “Bontade mi disse che Sindona era solo un pazzo”. L’avvocato incalza: “Ma Sindona parlò di una rivoluzione. Bontade non era preoccupato di essere custode di simili segreti?”. Buscetta allora lo inchioda con una battuta: “I segreti di Sindona! Erano una piuma, in confronto ai segreti che aveva Bontade”. Poteva dirsi “buona”, si chiede Sciascia, una mafia che custodiva segreti tali da far impallidire quelli, indubbiamente compromettenti, del famigerato banchiere? Il discorso di Sciascia si dipana secondo i criteri della più rigorosa razionalità, perché è la razionalità, secondo lo scrittore, che muove i pensieri e le azioni degli uomini di mafia “In Sicilia si nascondono i cartesiani peggiori”, sosteneva Sciascia nel ricordo di Giovanni Falcone. Ma questa razionalità, formale e immorale, è piegata a uno scopo abominevole: “mangiare carne, cavalcare carne, comandare carne”, secondo la battuta fulminante di Angelo Nicosia, parlamentare della commissione antimafia negli anni ’60 e ’70. Per Sciascia il pentitismo è legato indissolubilmente alla “sicilitudine”; come la mafia, si inserisce in un preciso contesto sociale e culturale; risponde a caratteri che ne certificano l’attendibilità. Il pentito di Sciascia ha una certa mentalità, agisce e parla secondo un certo codice, è tanto più credibile quanto più “mafioso”, quanto più racconta fatti compatibili col suo rango e la sua storia personale. Al di fuori di questi criteri il pentitismo, o presunto tale, è semplice delazione, calunnia, protagonismo. L’uso giudiziario dei pentiti, i comportamenti e le precauzioni che la giustizia deve osservare nei confronti del pentitismo, costituiscono un capitolo a parte, probabilmente il più delicato della questione.  Innanzitutto la parola del pentito non può essere l’unico elemento probatorio di un’indagine né tantomeno il più consistente. Al contrario si colloca al vertice di un castello accusatorio che ha ben altre fondamenta. Nel testo di un appello rivolto nel febbraio del 1985 al Presidente della Repubblica per assicurare “elementari garanzie di giustizia” ai 640 imputati di un processo per associazione camorrista a Napoli, e da Sciascia sottoscritto come primo firmatario, si dice che “un’imputazione, quanto più è fondata sulle dichiarazioni dei pentiti, tanto più deve essere confortata da altri riscontri probatori e vagliata con assoluta oggettività”. Per evitare che quanti, al contrario di Sciascia, temono la lupara (e la cella di rigore) più della querela straparlino per rabbia o convenienza oppure al servizio di oscuri “tessitori”. Un’esigenza riproposta in maniera drammatica dal caso Tortora, che Sciascia segue con passione e autentica partecipazione umana. L’appello del 1985, peraltro, esprime riserve verso la moda dei “maxiprocessi”, grandiose campagne propagandistiche contro la malavita organizzata, che impressionano l’opinione pubblica ma difficilmente rendono giustizia ai singoli imputati. “Come può un simile processo assicurare il diritto alla difesa di 640 imputati? Come può accertare la responsabilità penale, che nel nostro sistema è sempre personale?”: Sciascia se lo domanda per primo in ossequio al suo puntiglio e al suo spirito polemico, al culmine di una battaglia garantista condotta per tutti gli anni ’80. La giustizia, dice chiaro e tondo, deve operare con zelo e nel silenzio, assicurando anche ai suoi peggiori nemici le garanzie dello stato di diritto. Pur riconoscendo l’importanza del sistema dei pentiti, che fornisce la conoscenza “interna indispensabile per combattere la mafia”, Sciascia non rinuncia a illuminarne i paradossi. In un articolo del 2 gennaio 1987 sul Corriere della Sera, riferendosi ancora una volta al terrorismo ma adombrando sullo sfondo la questione della mafia, lamenta che, grazie al “folle” meccanismo giudiziario italiano, “assassini individuati e confessi lascino felicemente il carcere dopo minima detenzione e persone che non hanno ucciso, che hanno soltanto partecipato a delle azioni più dimostrative che letali, restino invece a scontare pene che appaiono gravi ed esorbitanti”. Si tratta per lo più di “giovani che, per la loro posizione periferica rispetto alle centrali eversive, per il loro disorganizzato spontaneismo, ad un certo punto consentirono alla polizia di prenderli tutti e di non poter quindi offrire quelle delazioni che leggi e giudici considerano come vero ed efficace pentimento. Curiosa e stravolta nozione del pentimento che non solo non ha nulla a che fare con la coscienza, con l’insorgere di sentimenti umani e principi morali, ma è preciso sinonimo di delazione e in quanto tale precluso all’ultimo di una banda, a meno che non si decida a denunciare qualcuno che della banda non faceva parte”. Oltre al solito scetticismo sulla natura del pentimento come fenomeno pragmatico e giudiziario, dalle parole di Sciascia traspare, in filigrana, una posizione interessante: gli unici pentiti “preziosi”, gli unici a poter fornire informazioni rilevanti e credibili sul funzionamento piuttosto che sulle regole, le decisioni e le articolazioni della mafia, sono quelli che hanno occupato posizioni di vertice nell’organizzazione. E’ una constatazione amara, che Sciascia fa non senza compassione per i “pesci piccoli”, ma anche un netto altolà alle presunte rivelazioni, e più spesso agli abbagli, degli ultimi della banda – manovali, fiancheggiatori e collusi – che parlano per sentito dire o accostano con troppa audacia spezzoni di verità. Da un punto di vista organico, la posizione di Sciascia verso i pentiti si inserisce in un discorso più ampio sulla giustizia, accusata già all’inizio degli anni ’70, nel romanzo “Il contesto”, di essere un sistema a sé stante, distinto e avulso dalla realtà dei fatti. La sua realtà la giustizia se la costruisce da sola, ed è una realtà fittizia e formale, artificiosa e insindacabile. L’atto del giudicare, fa dire Sciascia all’immaginario giudice Riches, è “qualcosa di molto simile a quanto avviene durante la messa, quando il pane e il vino si convertono in corpo, sangue e anima di Cristo. Mai, dico mai – anche se il sacerdote è indegno – può accadere che la transustanziazione non avvenga. E così è un giudice: la giustizia non può non disvelarsi, non transustanziarsi, non compiersi”. La legge 304 del 1982, la cosiddetta legge sui pentiti, rischia di essere, agli occhi di Sciascia, un altro strumento al servizio di questa transustanziazione. Qualche autorevole giurista può spiegare che lo Stato non richiede il pentimento (e in effetti le parole “pentito” e “pentimento” non compaiono mai nella legge), che le motivazioni del gesto sono indifferenti e invece conta il comportamento esterno, fattivo, che consente di combattere la malavita. Può discettare sul fatto che gli sconti di pena (fino alla metà per i collaboratori che forniscono prove decisive per la cattura di altri autori di reati) rientrino nel concetto di “diritto premiale”, che mira a stimolare nel criminale comportamenti virtuosi tesi a limitare gli effetti del crimine compiuto o a impedire crimini analoghi nel futuro. Addirittura qualche fine ideologo può rilevare che la logica della legge 304 aderisce perfettamente alla finalità rieducativa riconosciuta alla pena dalla stessa Costituzione.

Il ragionamento non fa una grinza. Ma Sciascia non è un giurista né un ideologo. E’ invece uno scrittore, guidato dalla “ragione, l’illuministico sentire dell’intelligenza, l’umano e cristiano sentimento della vita, la ricerca della verità e la lotta alle ingiustizie, alle imposture e alle mistificazioni”. E’ un eretico che difende la propria eresia, “un uomo che tiene alta la dignità dell’uomo”. La legge sui pentiti mette in crisi la strategia del terrorismo e lui la critica, i “maxiprocessi” rivelano la mafia come organizzazione e lui invita alla prudenza. Contro l’assalto delle ondate emotive, delle mode e delle campagne politiche, Sciascia cerca di difendere la purezza e l’equilibrio dell’idea di giustizia, esercitando – a volte fino all’eccesso – il senso critico. Questa giustizia di cui Sciascia parla non scaturisce dal formalismo, dal rito di “celebrare” il processo, ma ha una dimensione sostanziale. Si rispecchia nella ragione e nella morale razionale, si fonda sul riconoscimento e sul rispetto della dignità umana. E al suo interno si contemperano la pietà per il criminale e per le vittime del crimine, il carattere “oggettivo e probatorio” degli indizi di colpevolezza, la certezza, la proporzionalità e il carattere “retributivo” della pena. In questa ottica la natura del pentimento non è irrilevante per giustificare, moralmente e umanamente, di fronte all’opinione pubblica e alle vittime di crimini spesso atroci, i benefici e gli sconti di pena. Né si possono creare, al di fuori di circostanze del tutto eccezionali, canali privilegiati per gli ex terroristi o gli ex mafiosi. Sciascia lo suggerisce sommessamente eppure con tutta la forza del suo magistero. A ben vedere l’intera opera dello scrittore siciliano (decine di libri e centinaia di articoli di una chiarezza lampante) è un monito a recuperare l’obiettività, la moralità e l’umanità della giustizia. All’ordine morale e alla realtà sostanziale il diritto deve conformarsi senza pretendere di rifondarli, ingoiarli e risputarli come un nuovo Leviatano. Magari dalla bocca di un pentito.

Sbirri e malacarne, così il pentitismo mediatico ha ribaltato verità e ruoli. “Succede che i processi, questi riti difficili che semplificano tutto, non riescono più a semplificare nulla, e anzi ingarbugliano e si ingarbugliano per sempre”. Lo dice Massimo Bordin, ex direttore di Radio radicale – voce della rassegna “Stampa e regime” – e uno degli osservatori più attenti delle vicende giudiziarie e mafiologiche d’Italia. Si riferisce alle inchieste di Caltanissetta e di Palermo, alle dichiarazioni del pentito Gaspare Spatuzza, scrive Salvatore Merlo il 28 Ottobre 2010 su "Il Foglio". “Succede che i processi, questi riti difficili che semplificano tutto, non riescono più a semplificare nulla, e anzi ingarbugliano e si ingarbugliano per sempre”. Lo dice Massimo Bordin, ex direttore di Radio radicale – voce della rassegna “Stampa e regime” – e uno degli osservatori più attenti delle vicende giudiziarie e mafiologiche d’Italia. Si riferisce alle inchieste di Caltanissetta e di Palermo, alle dichiarazioni del pentito Gaspare Spatuzza che gettano un’ombra d’infamia sull’agente dei servizi Lorenzo Narracci. Ma Bordin parla anche delle rivelazioni insinuanti di Massimo Ciancimino contro il generale Mario Mori, nuovamente accusato di fatti per i quali è già stato assolto. “In un universo ormai scardinato, i superpoliziotti di ieri sono i colpevoli di oggi, i superpolitici di ieri sono i mascalzoni di oggi, e i pentiti, anche i meno credibili, riscrivono la storia secondo un copione che ha già conquistato gli italiani”. La trattativa stato-mafia? “Secondo loro Mori avrebbe negoziato con Riina. Ma allora com’è possibile che poi, proprio lui, lo ha arrestato? Così come è stato arrestato anche Provenzano. E questo famoso ‘papello’? Non una delle richieste si è realizzata. La fantomatica trattativa non ha avuto alcun esito”. I dichiaranti pentiti sono credibili non perché in grado di provare ciò che dicono, ma perché raccontano, in modo variopinto e a volte ridicolo, quel che abbiamo nel cuore e nel cervello, dice Bordin: “Retribuiti, ridistribuiscono a piene mani la verità di un popolo senza più passato che cerca la propria comunione intorno alle aule di giustizia trasformate in ring. A dispetto della logica, della consequenzialità dei fatti, dei rapporti di causa e di effetto. Certi pentiti raccontano i rapporti tra la politica, lo stato e la criminalità secondo gli schemi della fiction cinematografica. Come fosse la ‘Piovra’”. Narracci e Mori, secondo la traiettoria che accomuna, pur con sfumature diverse, l’azione delle procure di Caltanissetta e di Palermo, e che si basa anche sulle dichiarazioni di Spatuzza e Ciancimino, avrebbero avuto un ruolo nel negoziato tra lo stato e la criminalità organizzata. Spatuzza accusa Narracci di “assomigliare” a una persona che avrebbe incontrato per pochi minuti, più di diciotto anni fa, nel corso del nauseante rituale con il quale in un garage di Palermo veniva confezionata l’autobomba che il 19 luglio 1992 ha poi ucciso Paolo Borsellino. Sono spicchi della teoria giudiziaria che disegna la “trattativa stato-mafia”. C’è chi non ci crede. “La polizia e i servizi di intelligence, in molti casi, nei rapporti con la mafia si muovono su un crinale scivoloso. Ma un negoziato con lo stato è altra roba”, dice lo storico Salvatore Lupo. “E’ sempre successo che la polizia avesse rapporti con i criminali. E’ fisiologico, o patologico, a seconda dei casi. Nell’800 non sarebbe mai successo che un magistrato decidesse di inquisire un poliziotto per questa ragione. Il primo caso credo sia stato intorno al 1870. Il giudice Diego Taini incriminò il questore di Palermo, Albanese. Come andò a finire? Il magistrato venne trasferito, ma poi si fece eleggere dall’opposizione in Parlamento e creò grande scandalo”. Dunque è possibile che ci sia stata una trattativa con la mafia negli anni Novanta? “Quando si parla di trattativa stato-mafia mi viene da sorridere. Può esserci un singolo funzionario che per qualche motivo, di servizio o per collusione, coltiva dei rapporti con una fazione della mafia. Ma lo stato cosa c’entra? I rapporti non sono mai apicali. Non lo sono mai stati. La grande politica non c’entra nulla anche se i mafiosi, persino in buona fede, credono che sia così. Credo sia vero che Stefano Bontade dicesse ai suoi uomini frasi del tipo: ‘Tranquilli, ci penserà Andreotti’. Ma questo non significa che Andreotti fosse mafioso o avesse rapporti diretti con loro. Erano semmai i mafiosi a essere andreottiani. Gente volgare, non certo stupida, ma che ragiona in maniera rozza”. Il professore esce di metafora: “Le bombe le ha messe Riina. E’ stato lui a prendere la decisione. Era funzionale alla sua strategia, che è poi quella che aveva imparato dai suoi predecessori e che lui stesso aveva già applicato in precedenza. Gli omicidi di Falcone e Borsellino non sono diversi da quelli di Dalla Chiesa e di Chinnici, due personaggi di prima grandezza. Riina era in difficoltà, puntava sull’annullamento del maxiprocesso e avviò le stragi”. Eppure la teoria giudiziaria, forse più avvincente, è un’altra. Sembrano pensarla come quel personaggio di Sciascia: “La vera mafia non dovete cercarla a Palermo, è a Roma che abita il capo di tutte le mafie”.

«Pentiti»: libro di Paolo Sidoni e Paolo Zanetov. Fondamentale per il lavoro investigativo degli inquirenti, il pentitismo è diventato nel tempo un vero e proprio fenomeno sociale, che soprattutto in Italia assume connotati particolari. Se da un lato, infatti, i pentiti hanno permesso di smantellare organizzazioni criminali e famiglie mafiose, dall'altro non sono mancate violente polemiche sul trattamento di favore riservato loro e sull'utilizzo indiscriminato delle loro confessioni, a volte alla base di veri e propri depistaggi. E l'immagine dei collaboratori di giustizia - dai protagonisti pentiti della dolorosa stagione del terrorismo nero e rosso ai mafiosi "redenti" - è spesso controversa, pur senza arrivare all'estremo dei loro ex sodali, che li considerano soltanto dei traditori o degli opportunisti. Grazie a questo libro, potremo per la prima volta conoscere da vicino una realtà poco nota, e i meccanismi giudiziari e psicologici che hanno portato a parlare alcuni dei criminali più feroci che la nostra storia recente ricordi. l pentitismo è diventato, nel tempo, un vero e proprio fenomeno sociale. In Italia, in particolare, la figura del collaboratore di giustizia ha generato polemiche e controversie. Se da un lato, infatti, i pentiti hanno permesso di smantellare organizzazioni criminali e famiglie mafiose, dall'altro sono stati, spesso, protagonisti di veri e propri depistaggi. Accusati di essere infami, traditori e opportunisti dai loro ex sodali. Esposti alle critiche feroci dell'opinione pubblica per via del trattamento di favore ricevuto e per l'utilizzo indiscriminato delle loro confessioni. Sono proprio loro, i pentiti, i protagonisti di questo libro: da quelli che hanno contribuito alla dolorosa stagione del terrorismo nero e rosso ai mafiosi "redenti". Paolo Sidoni e Paolo Zanetov ci regalano un saggio che ci mostra una realtà poco nota, e i meccanismi giudiziari e psicologici che hanno portato a parlare alcuni dei criminali più feroci del nostro tempo.

Paolo Sidoni è nato a Verona nel 1962. Saggista, documentarista e ricercatore storico, ha collaborato con l’Istituto Luce e con l’Istituto Studi Storici Europei. Ha organizzato eventi e convegni sulla storia moderna e contemporanea, e collabora con i mensili «BBC History Italia» e «Classic Rock». Ha collaborato con il quotidiano «Rinascita», i mensili «Storia in Rete», «Storia del Novecento», «Area» e il bimestrale «Storia Verità». Insieme a Paolo Zanetov, con la Newton Compton, ha pubblicato Cuori rossi contro cuori neri e Pentiti. Paolo Zanetov, nato a Roma nel 1949, laureato in lettere con una tesi sul brigantaggio politico post-unitario, continua a interessarsi al rapporto tra politica e criminalità. Già membro del consiglio di indirizzo dell’Istituto Studi Storici Europei, coordina attualmente l’osservatorio sul federalismo nazionale della Fondazione Ugo Spirito-Renzo De Felice; è presidente del Centro Studi sul brigantaggio e consulente dell’Istituto Luce, per cui ha prodotto numerosi documentari.

Paolo Zanetov, nato a Roma nel 1949, laureato in lettere con una tesi sul brigantaggio politico post-unitario, continua a interessarsi al rapporto tra politica e criminalità. Già membro del consiglio di indirizzo dell’Istituto Studi Storici Europei, coordina attualmente l’osservatorio sul federalismo nazionale della Fondazione Ugo Spirito-Renzo De Felice; è presidente del Centro Studi sul brigantaggio e consulente dell’Istituto Luce, per cui ha prodotto numerosi documentari.

Storia segreta dei criminali diventati collaboratori di giustizia. Recensione del libro. Libro presentato da Mario Bonanno. Recensione pubblicata il 20 luglio 2013. I Giuda degli anni di fango si chiamavano ‘o Pazzo, er Sorcio, ‘o Animale: prima sparavano poi parlavano e la giustizia si fidava. Le sedi di tribunale dell’Italia che se la beve (dalla strage di Portella della Ginestra in poi, in fondo, l’Italia se l’è sempre bevuta) hanno accreditato le confessioni di mentitori di professione, opportunisti, psicolabili, mafiosi, camorristi, rivoluzionari d’accatto; in altre parole collaboratori di giustizia per caso o per necessità, delatori della risma di Patrizio Peci, Angelo Epaminonda, Felice Maniero, Giovanni Pandico. Dietro ogni nome un “caso”, dietro ogni “caso” una storia, fatta di volta in volta da affiliazioni segrete, omicidi, denaro, vendette, ideali quasi mai, fino alla redenzione, allo svuotamento del sacco dei delitti con tanto di nomi e cognomi dei complici e dei covi. Bell’impresa, ma tant’è che ci sono stati stagioni che il “pentitismo” è impazzato più di “Vamos à la playa”. Nelle aule di giustizia è stata la moda del momento, guardie e ladri all’acqua di rose, come nel film con Totò e Fabrizi: io spiffero tutto (o quasi) e tu mi guardi le spalle da eventuali ritorsioni. La storia del potere giudiziario all’italiana – dalle Brigate Rosse al processo Tortora, dalla banda della Magliana alla strage di Bologna - è andata avanti e si è scritta anche in questo modo. “Pentiti” di Paolo Sidoni e Paolo Zanetov (Newton Compton, 2013) è il libro che stavamo aspettando e che mancava sull’argomento. Uno studio più che esauriente su quello che - in traslato - è possibile leggere come un vero e proprio “fenomeno” sociale, chiave d’accesso a molte zone d’ombra, blitz, diffamazioni, livori, querelle infinite. Il pentitismo è un Giano infido e bifronte: da un lato scardina dall’interno micro e macro galassie di organizzazioni criminali, dall’altro ha il naso lungo e le gambe corte, per via delle bugie, che qualche volta sfociano in depistaggi veri e propri (vedi le accuse surreali a Enzo Tortora, vedi il sospetto coinvolgimento dei terroristi Mambro e Fioravanti nella strage di Bologna). Stigmatizzato, odiato, bollato col marchio di infamia dagli ex compagni di malefatte (ma non soltanto: l’ex brigatista Patrizio Peci viene descritto da Sandro Pertini come “un uomo di poca fede, non un rivoluzionario, perché ha parlato. Vuol dire che non aveva ideali”), l’esercito articolato e trasversale dei pentiti è l’assoluto protagonista di questa inchiesta firmata Sidoni e Zanetov: un saggio accuratissimo che ha il passo narrativo del grande romanzo corale & criminale. Dentro ci passa buona parte della storia in nero della Repubblica Italiana, resa nei suoi risvolti eclatanti e meno noti, alla ricerca di quelle istanze - manifeste e più sottese - che hanno condotto, un giorno, alcuni criminali a saltare il fosso e a farsi paladini di giustizia. Con tutte le ombre (prima fra tutte quella - onnipresente - dei servizi segreti), e la diffidenza che di solito accompagnano i cambiamenti drastici e ben remunerati (leggi sconti di pena e protezione) di rotta. A quanto mi risulta, “Pentiti” è un lavoro assolutamente inedito, il consueto librone Newton Compton di quattrocento e passa pagine a prezzo stracciato: nemmeno dieci euro.

LA MAFIA NON ESISTE, ANZI, E' DI STATO!

Omicidio Dalla Chiesa, l’intervista a Sciascia: «La mafia è cambiata e nessuno lo ha ancora capito». Nell’anniversario dell’omicidio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa ripubblichiamo l’intervista a Leonardo Sciascia apparsa sul «Corriere della sera» del 5 settembre 1982. «Carlo Alberto Dalla Chiesa lo abbiamo ucciso tutti quanti noi indicandolo come l’unico che poteva combattere il terrorismo, come l’unico che poteva combattere la mafia. Ne abbiamo fatto un bersaglio cui qualcuno poi ha sparato». Comincia così il nostro colloquio con lo scrittore Leonardo Sciascia venti ore dopo l’assassinio del generale dei carabinieri. Sciascia non aveva stabili frequentazioni con il militare, ma ne era rimasto affascinato tanto da trasformarlo nel capitano Bellodi, protagonista de «Il giorno della civetta». L’incontro avviene nella casa di campagna dello scrittore a Racalmuto, poche migliaia di anime al centro del triangolo della miseria in Sicilia. Sciascia vi trascorre le vacanze in compagnia della moglie, n resto del mondo appare lontano. La notizia dell’assassinio del prefetto di Palermo Sciascia l’ha appresa solo ieri mattina, dodici ore dopo l’agguato. «Questo assassinio — dice — ha un solo significato ed è l’eliminazione di una singola persona che era diventata un simbolo. Le istituzioni sono tarlate, non funzionano più, si reggono solo sulla abnegazione di pochi uomini coraggiosi. A partire dall’assassinio del vice questore Boris Giuliano, la mafia ha deciso di eliminare questi uomini simbolo. Arrivati a Dalla Chiesa, però, mi domando, se non ci sia della follia in chi ordina questi delitti: che cosa vogliono? Qual è il loro obiettivo? Pretendono forse il governo dello Stato? In verità non riesco a capire. Vogliono forse Imporre un ordine mafioso che si sovrapponga a quello dello Stato? Ma questo è impossibile perché livello dei delitti è talmente alto da suscitare una fortissima reazione». «Io credo - continua Sciascia — che nessuna organizzazione eversiva possa gareggiare con lo Stato in fatto di violenza, anche quando lo Stato appare inefficiente. Anzi, la sua inefficienza, è direttamente proporzionale alla mancanza di funzionalità. In queste condizioni sfidarlo mi sembra un atto di napoleonismo folle. Ma tutto ciò mi preoccupa perché uno Stato inesistente è sempre capace di approvare una legge sui pentiti e di scatenare una furibonda repressione poliziesca». «Secondo me la mafia si combatte utilizzando onestà, coraggio e intelligenza e le indagini fiscali illustrate due giorni fa dal ministro Formica mi sembrano un buon inizio. Con questi strumenti la mafia si può debellare. «Per capire tale affermazione bisogna rifarsi alla tesi classica che voleva la mafia inserita nel vuoto dello Stato, mentre in realtà essa vive nel pieno dello Stato. Credo che dall’istituzione della commissione antimafia in poi, l’organizzazione abbia cominciato a sentirsi esclusa dal pieno dello Stato e ora ha assunto questa forma che potremmo definire eversiva. Ma in effetti appare come un animale ferito che dà colpi di coda». «Dalla Chiesa, forse — aggiunge lo scrittore —, non aveva intuito tale trasformazione e i pericoli che ne derivavano. Anch’io, peraltro, non credevo che si arrivasse a colpire tanto in alto. Ma in effetti noi tutti conosciamo bene solamente la vecchia mafia terriera. Per il resto tiriamo ad indovinare. Possiamo dire in ogni caso che la mafia è una forma di terrorismo perché vuole terrorizzare la gente. Ma i fini sono sostanzialmente diversi. Di comune c’è una sola cosa e cioè l’attentato alle nostre libertà». «Ma forse Dalla Chiesa — conclude Sciascia — non aveva piena coscienza di questo fenomeno. Mi meraviglio infatti della maniera con cui è stato ucciso. Quando un uomo arriva alle sue posizioni ha il dovere di farsi proteggere e di farsi scortare bene. Le manifestazioni di coraggio personale possono diventare forme di imprudenza pericolosa. Ciò nonostante mi sgomenta la incapacità della nostra polizia di prevenire. Infatti un attentato ad un uomo come Dalla Chiesa non si improvvisa in quattro e quattr’otto, ma nessuno ne aveva avuto sentore».

I nemici del generale dalla Chiesa. Non soltanto terroristi e mafiosi. «Dalla Chiesa» (prefazione di Aldo Cazzullo, Mondadori, pagine 324, euro 20). La biografia di Andrea Galli (pubblicata da Mondadori) ripercorre le vicende che portarono all’omicidio del 1982. C’è un vuoto di verità che va colmato, scrive Giovanni Bianconi il 28 agosto 2017 su "Il Corriere della Sera”. Il generale dei carabinieri Carlo Alberto dalla Chiesa (1920-1982), assassinato a Palermo da Cosa nostra. Si respira un’atmosfera da Giorno della civetta, quando un giovane capitano dei carabinieri sbarcato a Corleone il 3 settembre 1949 fa emergere a fatica i contorni di un misterioso delitto, nonostante latitanze e assoluzioni a protezione dei colpevoli. E non si fa scrupolo di denunciare le interferenze dei politici che «cercano di sopraffarsi affinché l’uno tragga vantaggi a scopi elettorali a danno dell’altro». Quel capitano — non il Bellodi creato da Leonardo Sciascia, ma l’ufficiale dell’Arma in carne e ossa Carlo Alberto dalla Chiesa — ha toccato con mano la mafia e gli intrecci che la proteggono, e sembrano inseguirlo fino a Milano, dove nella prima metà degli anni Sessanta si trova a indagare sulle propaggini lombarde della guerra fra cosche che ha rotto gli equilibri tra gli «uomini d’onore», con tanto di omicidi in trasferta. Poi dalla Chiesa, divenuto colonnello, torna sull’isola per comandare la Legione della Sicilia occidentale, ed eccolo alle prese con inchieste sui funzionari regionali legati a Cosa nostra, anticamera dei rapporti tra mafia e pubblica amministrazione; e con le calunnie di un Corvo ante litteram, impegnato a spargere veleni contro il comandante che con la sua fissazione per il rispetto delle regole rischia di mettere in pericolo il quieto vivere sul quale i boss hanno costruito il loro potere. Se ne andrà ma tornerà ancora, il carabiniere promosso generale e infine prefetto di Palermo, incaricato di guidare una battaglia che non farà in tempo neppure a cominciare: la mafia chiude i conti ammazzandolo a colpi di kalashnikov, insieme alla giovane moglie e all’inerme guardia del corpo. Era il 3 settembre 1982, trentatré anni dopo il primo incarico a Corleone. E stavolta non c’è lo sfondo arido e assolato da Giorno della civetta, bensì la determinazione cupa e sanguinaria de Il padrino. Tutto questo e molto altro, insieme alla sintesi di un lungo tratto di storia criminale e politica d’Italia, affiora dalle pagine in cui Andrea Galli ha ricostruito la vicenda del «generale dei carabinieri che sconfisse il terrorismo e morì a Palermo ucciso dalla mafia» (Dalla Chiesa, Mondadori, con prefazione di Aldo Cazzullo). Una parabola che comincia e finisce in Sicilia, ma in mezzo attraversa la lunga e drammatica parentesi della lotta armata, contro la quale lo Stato schierò dalla Chiesa due volte: prima agli albori delle Brigate rosse e poi, dopo l’inspiegabile scioglimento del suo Nucleo speciale, all’indomani del sequestro Moro. Il racconto di Galli, ricco di dettagli, suggestioni e episodi inediti o poco conosciuti, aiuta a ricordare che il capitolo più tragico del terrorismo rosso si apre e si chiude con le indagini di dalla Chiesa e dei suoi carabinieri, che tra il 1974 e il 1975 quasi arrivano a smantellare le Brigate rosse e in seguito, fra il 1978 e il 1981, avviano il percorso investigativo che porterà alla loro definitiva sconfitta. Un metodo innovativo più che una struttura organizzata, grazie al quale gli uomini del generale (un manipolo di fedelissimi selezionati e votati alla causa) riescono a infiltrare le bande armate e gli ambienti nei quali reclutano militanti, studiandone abitudini e obiettivi per anticiparne le mosse e riuscire a neutralizzarle. Fino al decisivo aiuto fornito dai terroristi «pentiti», primo fra tutti quel Patrizio Peci che proprio con dalla Chiesa decide di saltare la barricata e passare dall’altra parte. I successi del generale e del suo modo di lavorare — accompagnati dalle perplessità mai nascoste nei confronti di uno Stato che non sembra reagire compatto alla sfida del terrorismo rosso, e soprattutto non usa la stessa determinazione contro l’eversione di marca neofascista — lo trasformano in un obiettivo per i suoi avversari sul «campo di battaglia», ma determinano inquietanti preoccupazioni anche all’interno delle istituzioni, nonché gelosie e attenzioni poco benevole dentro l’Arma. Un quadro poco limpido, nel quale s’inserisce il ritrovamento del suo nome nell’elenco degli iscritti alla Loggia P2 di Licio Gelli, che accompagna la nomina di dalla Chiesa a vice-comandante dell’Arma e poco dopo, nella primavera del 1982, a prefetto di Palermo, chiamato a contrastare l’emergenza della mafia che ha sferrato un attacco senza precedenti alle istituzioni, con una raffica di «omicidi eccellenti». Lui accetta anche per provare a sfuggire all’isolamento nel quale si sente confinato con il precedente incarico «privo di contenuti», come scrive lui stesso. Pur nella consapevolezza di essere strumentalizzato: «Mi sono trovato al centro di uno Stato che usa il mio nome per tacitare l’irritazione dei partiti e non ha nessuna volontà di debellare la mafia», pronto a «buttarmi al vento non appena determinati interessi saranno o dovranno essere toccati e compressi», annota nel diario. Al generale promosso prefetto non viene concesso il tempo di verificare la sua amara profezia. I killer mafiosi entrano in azione su ordine di Totò Riina e della Cupola prima ancora che dalla Chiesa possa cominciare a incidere su quegli interessi. Un particolare che ha pesato e continua a pesare sul reale movente del delitto, come avevano già sentenziato Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e gli altri giudici istruttori del maxi-processo a Cosa nostra: «Persistono zone d’ombra sia nelle modalità con le quali il generale è stato mandato in Sicilia (praticamente da solo e senza mezzi) a fronteggiare il fenomeno mafioso, sia nella consistenza di specifici interessi, anche all’interno delle istituzioni, volti all’eliminazione del pericolo costituito dalla determinazione e dalla capacità del generale». A trentacinque anni di distanza dall’omicidio, il libro di Andrea Galli aiuta a riempire, almeno parzialmente, quel vuoto di verità.

Indagini, veleni e guai: ecco cosa sta scuotendo l'Arma dei Carabinieri. Vertici sotto inchiesta. Litigi tra ufficiali. E rapporti opachi con la politica. La Benemerita vive il suo momento peggiore. Ecco cosa sta succedendo e chi potrebbe essere il prossimo comandante generale, scrive Emiliano Fittipaldi il 22 agosto 2017 su "L'Espresso". Chiunque arriverà, «dovrà rimboccarsi le maniche. Perché troverà macerie: erano decenni che l’Arma dei Carabinieri non soffriva di una crisi così grave». Il militare che lavora al Comando Generale di Roma forse esagera, ma non è l’unico a pensare che la Benemerita stia vivendo uno dei momenti più difficili della sua storia recente. Una crisi latente da tempo, esplosa con l’indagine Consip. Uno scandalo che ha tramortito, in un domino di cui ancora non si vede la fine, tutti. Dal comandante generale Tullio Del Sette (indagato per favoreggiamento) ai capi di stato maggiore, ascoltati come testimoni; passando ai comandanti di reparti specializzati, accusati di depistaggio; e ai carabinieri iscritti nel registro per falso ideologico e materiale; per finire con la caduta di eroi simbolo dell’Arma come il colonnello Sergio De Caprio, meglio conosciuto come “Capitano Ultimo” per aver arrestato Totò Riina, allontanato su due piedi lo scorso mese da una delle nostre agenzie di intelligence perché considerato improvvisamente «non più affidabile». Leggendo le carte e le accuse dei magistrati - tutte ancora da provare - sembra che sul caso Consip l’Arma si sia spaccata a metà. Con il vertice della piramide impegnato a rovinare attraverso fughe di notizie insistite un’indagine giudiziaria che rischiava di compromettere l’immagine del Giglio magico di Matteo Renzi, e la base - rappresentata dagli investigatori del Noe - concentrata al contrario a costruire prove false pur di inchiodare Tiziano Renzi, il padre del segretario del Pd. Un cortocircuito mai visto nel Corpo, un disastro giudiziario e mediatico che ha indebolito ancor di più la posizione del numero uno Tullio De Sette, indagato dallo scorso dicembre a Roma per favoreggiamento e divulgazione di segreto istruttorio, con l’accusa di aver fatto trapelare a soggetti terzi (come l’ex presidente della Consip Luigi Ferrara) l’indagine sulla stazione appaltante dello Stato su cui stavano lavorando i pm di Napoli. Per lo stesso reato sono iscritti anche il ministro Luca Lotti e il generale Emanuele Saltalamacchia: il comandante della Legione Toscana, è stato accusato di aver spifferato informazioni segrete sia da Luigi Marroni (l’ex ad di Consip ha detto che era stato anche Saltalamacchia, suo amico, a dirgli «che il mio cellulare era sotto controllo») sia dall’ex sindaco Pd di Rignano sull’Arno Daniele Lorenzini. «Durante una cena a casa di Tiziano», ha specificato in una deposizione, «sentii Saltalamacchia» suggerire al papà dell’ex premier «di non frequentare un soggetto, di cui tuttavia non ho sentito il nome, perché era oggetto di indagine». Se gli ultimi mesi sono stati difficilissimi, va evidenziato che Del Sette, nato 66 anni fa in Umbria, a Bevagna, era inviso a pezzi dell’Arma anche prima dell’iscrizione nei registri della procura, e che fonti del Comando generale non negano come molti generali, davanti ai guai giudiziari del loro capo, non si siano certo stracciati le vesti.

Già: il comandante generale, arrivato al posto di Leonardo Gallitelli all’inizio del 2015, è infatti stato giudicato fin da subito “troppo” vicino alla politica: anche se la lunga carriera dell’Arma ne faceva un candidato autorevole, in molti non gli perdonavano (e non gli perdonano) i sette anni in cui è stato capo ufficio legislativo del ministero della Difesa, sotto governi sia di destra sia di sinistra; né la scelta, nel 2014, di accettare la chiamata del ministro Roberta Pinotti, per diventarne capo di gabinetto. Non era mai accaduto prima che un carabiniere assumesse quell’incarico fiduciario. A Del Sette viene poi contestato un carattere non facile. Se Gallitelli, mente fredda e raffinata, ha puntato su una guida inclusiva e meritocratica, seppur giudicata da alcuni troppo “curiale”, Del Sette ha preferito un comando verticistico, che per i critici ha finito con l’essere divisivo. «Del Sette è persona di grande valore, molto leale con le istituzioni. Ha lavorato bene con i ministri di ogni partito, come Martino, Parisi, anche con Ignazio La Russa. Molte delle leggi vigenti portano la sua “firma”, compreso l’accorpamento del Corpo forestale ai carabinieri», spiega chi lo stima e ha lavorato con lui al dicastero della Difesa. «Cosa lo ha penalizzato negli ultimi tempi? Su Consip credo si sia trattato di un’ingenuità, e la sua posizione sarà archiviata. Al comando generale invece, non l’ha mai aiutato il suo carattere fumantino. È un uomo capace, che però si arrabbia facilmente. Soprattutto quando si convince che il suo interlocutore non rispetta le gerarchie e i ruoli che lui ha definito». Del Sette viene definito sia dai suoi estimatori (che sono molti) sia dai suoi nemici (che sono ancor di più) un uomo schivo, persino timido, ma poco propenso alla mediazione. Appena nominato dai renziani a numero uno dei carabinieri, ha deciso in effetti di spazzare via la vecchia nomenclatura costruita in sei anni dal suo predecessore, scegliendo di andare allo scontro frontale con alcuni generali fedelissimi di Gallitelli. Molto stimati, però, dalla base dell’Arma.

Così, se il Capo di Stato maggiore Ilio Ciceri è stato sostituto da Vincenzo Maruccia (anche lui sentito come testimone dai pm di Roma per la vicenda Consip), e il generale Marco Minicucci è stato sottoutilizzato, un altro pezzo da novanta come Alberto Mosca ha dovuto cedere la poltrona di comandante della Legione Toscana a uno dei pupilli di Del Sette, proprio Saltalamacchia, dovendosi accontentare del comando della Legione Allievi Carabinieri. Clamorosa poi la scelta del colonnello Roberto Massi: l’ex comandante dei Ros considerato uno degli ufficiali più brillanti dell’Arma, e promosso da Gallitelli capo dell’ufficio legislativo nel 2014, dopo una breve convivenza con Del Sette ha preferito fare armi e bagagli e trasferirsi all’Anas nel 2016. All’ente nazionale per le strade Massi ricopre l’incarico di “responsabile della tutela aziendale”. L’unico gallitelliano che è riuscito a stringere un patto di ferro con il comandante umbro è stato Claudio Domizi, ancora influente capo del personale del primo reparto. «Le tensioni interne sono iniziate fin dal suo arrivo, ma sono peggiorate nel tempo. La crisi Consip le ha fatte solo esplodere», ragiona preoccupato un militare con le stellette, che considera i colleghi gallitelliani veri responsabili della spaccatura, perché nostalgici e incapaci di accettare il nuovo corso. Tutti, però, mettono sul banco degli imputati anche il sistema della rotazione obbligatoria degli ufficiali (che costringe pure i carabinieri più esperti e capaci a cambiare reparto dopo due anni) e l’assenza di una vera meritocrazia interna. «Qualche tempo fa a Reggio Calabria durante un giuramento a passare in rassegna i reparti, oltre agli ufficiali, è stato anche un appuntato del Cocer, il sindacato interno dei carabinieri a cui Del Sette si è molto appoggiato dall’inizio del suo mandato», racconta uno degli scontenti «Forse a voi civili sembra una sciocchezza, ma nell’Arma è una cosa inverosimile, che ha fatto accapponare moltissime divise». Ottimi rapporti con Maria Elena Boschi e lo stesso Lotti, qualche incontro con l’imprenditore renziano Marco Carrai (tra cui una cena a casa del compagno di Mara Carfagna, Alessandro Ruben, che ama invitare mimetiche e stellette nel suo salotto), Del Sette ha dovuto gestire anche la patata bollente del colonnello Sergio De Caprio, “Ultimo”. L’attivismo “anarchico” dell’ex vice comandante del Noe (che ha collaborato con il pm John Woodcock a quasi tutte le inchieste più delicate degli ultimi anni su politica e potere, da quelle sulle tangenti di Finmeccanica alla P4 di Luigi Bisignani, passando dalle tangenti della Lega Nord a quelle sulla Cpl Concordia) non è mai stato amato dai piani alti della Benemerita.

Ma la goccia che ha fatto traboccare il vaso è caduta proprio nel luglio del 2015, quando una delle intercettazioni del fascicolo sulla Cpl (una telefonata privata tra il generale della Finanza Michele Adinolfi e Matteo Renzi in cui il segretario del Pd definiva il suo predecessore Enrico Letta «un incapace») è finita in prima pagina sul “Fatto Quotidiano”. Del Sette, dopo un mese di buriane politiche e polemiche infuocate, deciderà di firmare una circolare che toglie ai vicecomandanti dei reparti le funzioni di polizia giudiziaria. Una norma considerata da molti “contra personam”. «Continuerete la lotta contro quella stessa criminalità, le lobby e i poteri forti che le sostengono e contro quei servi sciocchi che, abusando delle attribuzioni che gli sono state conferite, prevaricano e calpestano le persone che avrebbero il dovere di aiutare e sostenere», polemizzò senza mezzi termini “Ultimo” in una lettera di saluto ai suoi uomini. Poi grazie alla mediazione dell’allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Marco Minniti e del capo dell’Aise Alberto Manenti, De Caprio a fine 2016 viene distaccato ai servizi segreti. Per la precisione all’ufficio Affari interni, quello che controlla gli 007 italiani che righino dritto. Se malumori e dissapori sono una costante di ogni struttura gerarchica, la crisi dell’Arma supera i livelli di guardia a inizio del 2017. Alle indagini sulla fuga di notizie si aggiungono prima quelle sul capitano Gianpaolo Scafarto del Noe, accusato dai pm di Roma di aver falsificato le prove nell’informativa. Poi quelle al suo capo Alessandro Sessa, numero due del reparto, incolpato nientemeno per “depistaggio” per non aver detto la verità (questa l’ipotesi della procura) durante un’audizione con i magistrati. Infine il tentativo di ritrattazione dello scorso giugno di Luigi Ferrara, il manager Consip che aveva tirato in ballo Del Sette come colui che lo aveva messo sull’avviso in merito a un’indagine giudiziaria sull’imprenditore Alfredo Romeo e la stessa Consip: dopo un confuso interrogatorio, in cui probabilmente il manager ha cercato di proteggere proprio Del Sette, i pm hanno iscritto anche Ferrara nel registro degli indagati. Per falsa testimonianza.

La crisi strutturale del corpo “Nei Secoli Fedele” ha toccato nuove vette qualche giorno fa, quando i pm romani hanno scoperto che Scafarto mandava documenti riservati sull’inchiesta Consip a ufficiali ex Noe traslocati con “Ultimo” ai servizi segreti. L’ipotesi investigativa è che questi stessero ancora collaborando alle indagini su Consip portate avanti dagli ex colleghi. “Ultimo” e tutti i suoi uomini (De Caprio aveva portato con se due dozzine di fedelissimi, di cui la gran parte provenienti dal Noe) sono stati così allontanati dal nuovo incarico, e sono rientrati nell’Arma. Un allontanamento avvenuto senza accuse formali da parte della magistratura, e senza una richiesta esplicita di Manenti. È stato Marco Mancini, un alto funzionario del Dis (il dipartimento che coordina le agenzie d’intelligence) coinvolto in passato nel sequestro dell’imam Abu Omar a chiederne la testa. Dopo aver scoperto che Scafarto e gli investigatori del Noe, sempre nell’ambito dell’inchiesta Consip, lo avevano seguito e fotografato, mandando ai collaboratori di “Ultimo” all’Aise le risultanze dei loro appostamenti. L’incarico di Del Sette terminerà il prossimo gennaio. Ed è probabile che il suo successore verrà nominato non dal governo Gentiloni, ma da quello che entrerà in carica dopo le elezioni politiche, previste per la prossima primavera. In pole position ci sono il numero uno del comando interregionale Ogaden Giovanni Nistri (romano, tre lauree, giornalista pubblicista, ex comandante del comando per la Tutela del patrimonio e direttore del Grande Progetto Pompei, che ha ottimi rapporti con il Pd) e il generale Riccardo Amato, numero uno della divisione Pastrengo ed esperto di antimafia, che gode dell’appoggio del Quirinale. Subito dietro c’è Vincenzo Coppola (chiamato “il paracadutista”, una vita in prima linea nelle missioni di peacekeeping e da marzo promosso numero due dell’Arma), mentre il generale Ilio Ciceri e Riccardo Galletta, capo della Legione Sicilia, sembrano avere tutti i titoli necessari, ma meno chance. Il primo, considerato il miglior uomo macchina possibile, sconta il peccato di essere considerato un gallitelliano, mentre il secondo - all’inverso - un uomo di Del Sette. A chiunque toccherà, risollevare l’Arma non sarà impresa facile.

Il caso Saguto non finisce più. In ballo un'altra toga antimafia, scrive Riccardo Lo Verso il 20 febbraio 2017 su “Live Sicilia”. Il caso Saguto non è chiuso. Ci sono due informative che tirano in ballo un altro giudice che lavora a Caltanissetta. Con tutta probabilità il nuovo filone investigativo dovrebbe essere già approdato, per competenza, a Catania. Nelle intercettazioni dei finanzieri del Nucleo di polizia tributaria di Palermo sono finiti i dialoghi fra Giovanbattista Tona, Silvana Saguto e Carmelo Provenzano. Tona oggi è consigliere della Corte d'appello nissena, in passato da gip si è occupato anche delle stragi del '92, ed è uno dei magistrati più impegnati sul fronte antimafia. Saguto è l'ex presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo travolta dall'inchiesta nissena, il perno di un sistema che, secondo l'accusa, aveva trasformato la gestione dei beni confiscati alla mafia in un affare di famiglia. Provenzano è uno degli amministratori giudiziari che di quel sistema avrebbe fatto parte. Secondo i pm di Caltanissetta, Provenzano era stato scelto da Saguto per prendere il posto di Gaetano Cappellano Seminara, quando quest'ultimo iniziò ad essere troppo chiacchierato. Passaggi delicati di cui Tona sarebbe stato a conoscenza. L'ingresso di Provenzano nel sistema sarebbe coinciso con l'incarico nella gestione degli impianti di calcestruzzo degli imprenditori Virga di Marineo. Una procedura inizialmente assegnata a Giuseppe Rizzo che, secondo i pm, poteva contare su un big sponsor, il colonnello della Dia Rosolino Nasca. Saguto considerava Rizzo "un ragazzetto che non so come farà, adesso io devo nominare un coadiutore giusto perché sennò". E gli venne affiancato Provenzano perché "è un docente e non può dire niente nessuno". Professore alla Kore di Enna, Provenzano è finito sotto inchiesta assieme alla Saguto. Si sarebbe speso, tra le altre cose, per agevolare la carriera universitaria, laurea inclusa, del figlio del giudice. Ad un certo punto, però, la coabitazione Rizzo-Provenzano divenne impossibile. Provenzano aveva un piano per sbarazzarsi del concorrente e ne parlò con Tona. L'esautorazione di Rizzo, per essere indolore, doveva apparire come la conseguenza della sua inefficienza. Dovevano “trovare un modo per dire che lui, la minchiata l'aveva fatta così grossa che lui scatti in piedi”. Bisognava fare emergere “tutto quello che ha fatto male. Il problema non è prendere incarichi, ma uscire con onore dagli incarichi”. Lo stesso Rizzo, sentito dal pm Cristina Lucchini, ha dichiarato di avere capito che tra Saguto e Provenzano c'era un rapporto confidenziale. Era Provenzano ad avere influenza sul giudice e non viceversa, tanto che Rizzo fu costretto a mandare a casa tutti i collaboratori che aveva scelto per fare spazio a quelli del professore. Ed è nel contesto di questo rapporto di forza sbilanciato a favore di Provenzano che si inserisce la figura di Tona e le due informative consegnate dai finanzieri ai pm di Caltanissetta alla fine del settembre sorso. Vi sono annotate le registrazioni dei dialoghi fra Provenzano e Tona di cui si fa cenno nell'avviso di conclusione delle indagini notificato nei giorni scorsi a Saguto e agli altri indagati. È ipotizzabile che sia avvenuta la trasmissione di questa parte dell'inchiesta a Catania, competente quando in ballo ci sono magistrati i servizio a Caltanissetta. Tona e Provenzano erano “amici”. Sarebbe stato il giudice a indicare al professore la strategia per scalzare la concorrenza di Rizzo. E il professore lo aggiornava passo dopo passo. Dalle conversazioni trasmesse a Catania sembrerebbe emergere che il magistrato nisseno era bene informato del modus operandi dei colleghi palermitani e anche dell'operato di Cappellano Seminara.

La trattativa tra Stato e mafia comincia nel 1860, con Garibaldi in combutta con mafia e camorra, scrive Ignazio Coppola su "I Nuovi Vespri" il 7 gennaio 2017. Senza l’appoggio dei picciotti della mafia, Garibaldi e i Mille, una volta sbarcati a Marsala, avrebbero trovato grandi difficoltà. Invece, grazie ai mafiosi, trovano la strada in ‘discesa’. Idem a Napoli, dove i camorristi giravano con la coccarda tricolore. La testimonianza del boss, Joseph Bonanno. Le tesi di Rocco Chinnici. La lunga stagione dei delitti ‘eccellenti’. Fino alle stragi di Capaci e via D’Amelio, dove perdono la vita, rispettivamente, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino (e gli uomini e le donne delle rispettive scorte). Con quest’ultimo, ammazzato perché si opponeva alla trattativa tra mafia e Stato. Quando oggi parliamo di trattativa “Stato-mafia”, non possiamo non andare indietro nel tempo e riferire questo vituperato ed aborrito binomio alle origini del nostro Paese inteso nella sua accezione unitaria. In parole povere, questo sodale rapporto tra la mafia e lo Stato nasce con l’unità d’Italia o, peggio ancora, con la mala unità d’Italia che, sin dai tempi dell’invasione garibaldina in Sicilia, si servì per le sue discusse e dubbie vittorie del contributo determinante della mafia in Sicilia e della camorra a Napoli. In Sicilia in quel lontano maggio del 1860, infatti, accorsero, con i loro “famosi picciotti”, in soccorso di Garibaldi, i più autorevoli capi-mafia dell’epoca come Giuseppe Coppola di Erice i fratelli Sant’Anna di Alcamo, i Miceli di Monreale, il famigerato Santo Mele, così bene descritto  da Cesare Abba, Giovanni Corrao, referente delle consorterie mafiose che operavano a Palermo nel quartiere del Borgo vecchio e che poi, addirittura, diverrà generale garibaldino e verrà ucciso tre anni dopo, nell’agosto del 1863, nelle campagne di Brancaccio in un misterioso ed enigmatico agguato a fosche tinte mafiose. Un apporto determinante degli “uomini d’onore” di allora che farà dire allo storico Giuseppe Carlo Marino, nel suo libro Storia della mafia, che Garibaldi senza l’aiuto determinante dei mafiosi in Sicilia non avrebbe potuto assolutamente fare molta strada. Come, del resto, lo stesso Garibaldi sarebbe incorso in grandi difficoltà logistiche se, quando giunto Napoli, nel settembre del 1860, non avesse avuto l’aiuto determinante dei camorristi in divisa e la coccarda tricolore che, schierandosi apertamente al suo fianco, gli assicurarono il mantenimento dell’ordine pubblico con i loro capi bastone Tore De Crescenzo, Michele “o chiazziere”, Nicola Jossa, Ferdinando Mele, Nicola Capuano e tanti altri. Aiuti determinanti e fondamentali che, a ragion veduta, piaccia o n, a Giorgio Napolitano in testa e ai risorgimentalisti di maniera, ci autorizzerebbero a dire che la mafia e la camorra diedero, per loro convenienze, il proprio peculiare e determinante contributo all’unità d’Italia. Un vergognoso e riprovevole contributo puntualmente e volutamente ignorato, per amor di patria, dai libri di scuola e dalla storiografia ufficiale. Che la mafia ebbe convenienza a schierarsi con Garibaldi ce ne dà significativa ed ampia testimonianza il mafioso italo-americano originario di Castellammare del Golfo, Joseph Bonanno, meglio conosciuto in gergo come Joe Bananas, che nel suo libro autobiografico Uomo d’onore, a cura di Sergio Lalli, a proposito della storia della sua famiglia, a pagina 35 del libro in questione così testualmente descrive l’apporto dato dalla mafia all’impresa garibaldina: “Mi raccontava mio nonno che quando Garibaldi venne in Sicilia gli uomini della nostra tradizione (= mafia) si schierarono con le camicie rosse perché erano funzionali ai nostri obbiettivi e ai nostri interessi”. Più esplicito di così, a proposito dell’aiuto determinante dato dalla mafia a Garibaldi, il vecchio boss non poteva essere. Con l’unità d’Italia e con il determinante contributo dato all’impresa dei Mille la mafia esce dall’anonimato e dallo stato embrionale cui era stata relegata nella Sicilia dell’Italia pre-unitaria e si legittima a tutti gli effetti, effettuando un notevole salto di qualità. Da quel momento diverrà, di fatto, una macchia nera indelebile e un cancro inestirpabile nella travagliata storia della Sicilia e del nostro Paese.

Di questa metamorfosi della mafia, dall’Italia pre-unitaria a quella unitaria, ne era profondamente convinto, il giudice Rocco Chinnici, l’ideatore del pool antimafia presso il Palazzo di Giustizia di Palermo, una delle più alte e prestigiose figure della magistratura siciliana ucciso il 29 luglio 1983 davanti la sua abitazione in un sanguinoso attentato in via Pipitone Federico a Palermo. Rocco Chinnici, oltre che valente magistrato, in qualità di capo dell’ufficio istruzione del Tribunale di Palermo ed ideatore come anzidetto del pool antimafia – di cui allora fecero parte tra gli altri giovani magistrati come Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Giuseppe Di Lello – fu anche un profondo studioso e conoscitore del fenomeno mafioso e delle sue criminali dinamiche storiche. Da studioso fu relatore e partecipò a numerosi convegni organizzati in materia di mafia. In uno di questi, promosso a Grottaferrata, il 3 luglio 1978 dal Consiglio Superiore della Magistratura così, a proposito dell’evolversi della mafia in Sicilia, ebbe testualmente a pronunciarsi: “Riprendendo le fila del nostro discorso prima di occuparci della mafia del periodo che va dall’unificazione del Regno d’Italia alla prima guerra mondiale e all’avvento del fascismo, dobbiamo brevemente, ma necessariamente premettere che essa come associazione e con tale denominazione, non era mai esistita in Sicilia. La mafia nasce e si sviluppa in Sicilia – affermò Chinnici in quell’occasione a conforto da quanto da noi sostenuto – non prima, ma subito dopo l’unificazione del Regno d’Italia”. Ed ancora, in una successiva intervista rilasciata ad alcuni organi di stampa a proposito della mafia legittimatasi con la venuta e con l’aiuto determinante dato a Garibaldi e successivamente con l’Unità d’Italia, Rocco Chinnici ebbe a dire: “La mafia è stata sempre reazione, conservazione, difesa e quindi accumulazione di risorse con la sua tragica, forsennata, crudele vocazione alla ricchezza. La mafia stessa è un modo di fare politica mediante la violenza, è fatale quindi che cerchi una complicità, un riscontro, un’alleanza con la politica pura, cioè praticamente con il potere”.

Ed è questo “patto scellerato” tra mafia, potere politico e istituzioni, tenuto a battesimo prima dall’impresa garibaldina e poi, come sosteneva Rocco Chinnici, dall’unità d’Italia che dura, tra trattative, connivenze e papelli di ogni genere, senza soluzione di continuità sino ai nostri giorni. Una lunga sequela di tragici avvenimenti che, sin dagli albori dell’unità d’Italia hanno insanguinato la nostra terra per iniziare con la stessa uccisione del generale Giovanni Corrao a Brancaccio, poi i tragici e misteriosi avvenimenti de ‘I pugnalatori’ di Palermo, il delitto Notarbartolo e il caso Palizzolo, la sanguinosa repressione dei Fasci Siciliani in cui la mafia recitò il proprio ruolo, la strage di Portella della Ginestra, le stragi di Ciaculli e di Via Lazio, le uccisioni di Carlo Alberto Dalla Chiesa e di tanti servitori dello Stato e di tanti magistrati che, della lotta alla mafia, ne hanno fatto una ragione di vita e purtroppo anche di estremo sacrificio, sino alla morte. Per arrivare alle stragi di Capaci e di Via D’Amelio dove persero la vita Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Quello stesso Paolo Borsellino che, da quanto, in questi ultimi tempi e alla luce di nuove risultanze processuali che hanno fatto giustizia di ignobili e criminali depistaggi, ci è stato dato da apprendere si era opposto con tutte le sue forze ad ogni ipotesi di trattativa tra “Stato e mafia” e per questo ha pagato – per le connivenze tra mafia, servizi segreti deviati e omertà di Stato – con la vita il suo atto di coraggio. Una lunga scia di sangue e di turpitudini che ha visto da sempre protagonisti, in una sconvolgete continuità storica, un mix di soggetti: Stato, mafia, banditismo (nel caso di Salvatore Giuliano), potere politico, servizi segreti, massoneria deviata e quant’altro che hanno ammorbato e continuano ad ammorbare – da 156 anni a questa parte, in un percorso caratterizzato, troppo spesso, da una criminale politica eversiva – la vita dei siciliani onesti. Quando ce ne potremo liberare? Con l’aria che tira sarà difficile.

Rocco Chinnici, prima di Falcone e Borsellino.

Palermo, 34 anni fa l'attentato a Chinnici. Ritrovata la bobina con le minacce della mafia, scrive il 28 luglio 2017 "RepubblicaTV". La voce dell’emissario dei boss è nitida: "Volevo sapere quando lei fa il suo compito e il lavoro che è giusto fare, perché ora c'è gente che deve andare a fare il Natale a casa e dipende soltanto da lei". Il consigliere istruttore Rocco Chinnici non si scompone, lascia parlare il suo interlocutore, sta registrando quella conversazione che avviene sul telefono di casa e adesso prova a cercare una traccia per arrivare a chi negli ultimi tempi lo minaccia. Qualche giorno prima un uomo che diceva di essere "l'avvocato Russo" aveva avvertito: "Il nostro tribunale lo ha già condannato, lei entro questa settimana deve mettere fuori i ragazzi". E' il 1980, Chinnici, l'inventore del pool antimafia, sta indagando sui delitti politici di Palermo, Mattarella e Reina, è già un uomo a rischio. Il 29 luglio 1983, un'autobomba di Cosa nostra uccide il giudice, il maresciallo dei carabinieri Mario Trapassi, l'appuntato Salvatore Bartolotta e il portiere dello stabile di via Pipitone Federico, Stefano Li Sacchi. Uno dei sopravvissuti, l'autista giudiziario Giovanni Paparcuri, è oggi l'animatore del museo realizzato dall'Anm nell'ufficio bunker di Falcone e Borsellino, dentro un archivio ha ritrovato quella bobina con le minacce, una testimonianza importante dei giorni terribili a Palermo.

Via D'Amelio: la storia sofferta di una mezza verità. Sono passati 25 anni dall'attentato che tolse la vita a Paolo Borsellino e ai cinque agenti della sua scorta. Si sono succedute inchieste e processi, ma restano ancora domande senza risposta: chi sono i mandanti occulti della strage? Chi ha ordito il depistaggio che ha fatto condannare innocenti e coperto i veri responsabili? Scrive Federico Marconi il 19 luglio 2017 su "L'Espresso". Raccontare la storia dei 25 anni trascorsi dalla strage di via D’Amelio significa fare i conti con indagini e processi, mezze verità e totali bugie, false testimonianze e depistaggi. Le vicende giudiziarie sono riuscite a individuare chi fece esplodere la bomba che uccise Paolo Borsellino e gli agenti di scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Purtroppo ancora sfuggono i mandanti occulti di quel tragico delitto: perché se c’è una certezza è che Cosa Nostra non ha fatto tutto da sola.

LE CONDANNE INGIUSTE. Sicuramente con l’attentato del 19 luglio 1992 Gaetano Murana, Giuseppe Orofino, Cosimo Vernengo, Natale Gambino, Salvatore Profeta, Giuseppe La Mattina, Gaetano Scotto, Vincenzo Scarantino e Salvatore Candura non c’entrano nulla. Condannati nel gennaio del 1996 dalla Corte d’Assise di Caltanissetta nel primo troncone del processo sui fatti di via D’Amelio, i nove componenti del “mandamento” della Guadagna sono stati assolti lo scorso 13 luglio dalla Corte d’Appello di Catania. «Quali rappresentanti dello Stato, ci sentiamo in dovere di chiedere scusa, nonostante non siano nostre le responsabilità, per le condanne ingiuste inflitte nell’ambito del processo per la strage di Via D’Amelio» hanno dichiarato nelle battute finali del procedimento le due procuratrici generali di Catania. La sentenza del tribunale etneo mette fine a una vicenda cominciata il 27 settembre 1992, quando il gruppo investigativo speciale “Falcone-Borsellino” guidato dall’ex capo della mobile di Palermo (e agente del Sisde) Arnaldo La Barbera arresta Salvatore Candura e Vincenzo Scarantino. I due picciotti della Guadagna dichiarano: “abbiamo rubato la Fiat 126 fatta esplodere a via D’Amelio”. Inoltre accusano alcuni compari di mandamento: Salvatore Profeta, Giuseppe Orofino e Pietro Scotto. Le dichiarazioni di Scarantino vengono confermate da Francesco Andriotta, suo compagno di cella a Busto Arsizio, a cui il killer avrebbe confidato la storia del furto e dell’esecuzione dell’attentato. Le rivelazioni di Scarantino coinvolgevano anche Salvatore Cancelli e Gioacchino La Barbera, due collaboratori di giustizia, che da subito accusano il pentito di dire falsità nelle sue dichiarazioni. O «fregnacce pericolose» come ha affermato Ilda Bocassini nel 2014, procuratore aggiunto di Milano, tra il ’92 e il ’94 applicata alla Procura di Caltanissetta che si occupava degli attentati a Falcone e Borsellino. «Dissi che andava sospeso tutto, che dovevamo verificare» continua la Boccassini, audita nel corso del processo di revisione «anche gli investigatori nutrivano dubbi su Scarantino, ma i pm hanno deciso di andare avanti per quella strada».

IL DEPISTAGGIO. Tutto l’impianto accusatorio del “Borsellino uno”, iniziato nell’ottobre 1994, veniva retto dalla confessione di Scarantino. Ma i dubbi sulla sua affidabilità si facevano sempre più forti: gli avvocati difensori si chiedevano come fosse possibile che un balordo del genere potesse essere stato utilizzato per un’operazione complessa come l’attentato di via D’Amelio. Non solo, nel corso dei confronti i collaboratori di giustizia facevano a pezzi "Vincenzino". «Ma a questo come gli date ascolto? State attenti: è falso» dichiara ai giudici Salvatore Cancemi «non credete nemmeno a una virgola di quello che vi sta dicendo. A questo qua queste parole gliele hanno messe in bocca, gli hanno fatto una lezione e ora la sta ripetendo». Lezione che presto si stufa di ripetere. Nel luglio del 1995, in un’intervista telefonica a Studio Aperto, Scarantino ritratta: «Ho detto bugie, accusato innocenti». Ma per i pm di Caltanissetta non cambia molto. «È probabile che Scarantino stia vivendo un momento di difficoltà» ribatte il sostituto procuratore Giordano «in ogni caso, il fatto che abbia deciso di fare marcia indietro non risponde a verità». Per il pm Carmelo Petralia invece «un'eventuale ritrattazione non avrebbe alcun effetto sul processo: le indagini non sono legate solo alle dichiarazioni dei collaboranti». Il 26 gennaio 1996 il processo arriva a sentenza. Ergastolo per Profeta, 18 anni a Scarantino, 9 anni a Orofino per favoreggiamento, assolto Scotto. Le condanne verranno confermate in Cassazione. Pochi mesi dopo, il 14 maggio, inizia il “Borsellino Bis”. Alla sbarra Totò Riina, il boss della Guadagna Pietro Aglieri, Carlo Greco, Giuseppe Calascibetta, Giuseppe Graviano, Francesco Tagliavia, Salvatore Biondino, Cosimo Vernengo, Antonino Gambino, Lorenzo Tinnirello, e i latitanti Natale Gambino e Giuseppe La Mattina. Secondo l’accusa Riina e gli altri si sono riuniti agli inizi di luglio a casa di Calascibetta per «delineare le modalità di consumazione della strage». Anche questa volta l’impianto accusatorio si regge sulle accuse di Scarantino, che viene chiamato a testimoniare il 14 settembre 1998. E per la seconda volta, ritratta: «Io non c’entro nulla con l’omicidio Borsellino». «A Pianosa il carcere era durissimo, cibo scarso e con i vermi. La Barbera mi disse che in cambio delle mie accuse mi sarei fatto solo qualche anno di galera e mi avrebbe dato 200 milioni» dichiara il pentito davanti a giudici e telecamere. Ma ancora una volta la sua ritrattazione non viene creduta. A febbraio del 1999 arrivano le condanne: ergastolo per Totò Riina, Pietro Aglieri, Salvatore Biondino, Carlo Greco, Giuseppe Graviano, Gaetano Scotto e Francesco Tagliavia. Gli altri imputati sono condannati a dieci anni di reclusione per associazione mafiosa ma assolti dal reato di strage. Le condanne diventano definitive con il passaggio in Cassazione nel 2003. Durante il processo di Appello, un nuovo pentito conferma le accuse ritrattate ma comunque credute di Scarantino: Gaetano Pulci, braccio destro del boss Giuseppe Madonia. «Gaetano Murana mi ha confidato in cella di aver preso parte alla strage di via D’Amelio» le parole di Pulci, che permettono ai giudici di cementare la versione di Scarantino.

I MANDANTI OCCULTI. Pulci, in carcere per scontare una pena di 21 anni per omicidio, aveva numerose conoscenze nel mondo della politica: per questo è una fonte inesauribile di dichiarazioni eclatanti per gli inquirenti siciliani. Non solo per i giudici dell’inchiesta sulla strage di via D’Amelio, ma anche per quelli a lavoro sulla trattativa Stato-mafia e sui "mandanti occulti" delle stragi di maggio-luglio 1992. «C’erano alcuni ministri tra le persone di cui ho sentito parlare che garantivano Cosa nostra della riuscita delle stragi. Con nome e cognome, non che io presumo» afferma Pulci. Le sue dichiarazioni finiscono così nel fascicolo che la Procura di Caltanissetta aveva aperto nel 1993 per fare chiarezza sulle personalità esterne a Cosa Nostra che hanno ordinato e agevolato le stragi. Sotto inchiesta personalità di spicco nell’Italia degli anni ’90: Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri. Il fascicolo viene però archiviato nel 2003: «Gli atti dell’indagine, a prescindere dal loro valore probatorio, non potrebbero sostenere l’ipotesi accusatoria di un concorso di Berlusconi e Dell’Utri nelle stragi di Capaci e di via D’Amelio», la motivazione del Gip Giovanbattista Tona.

NUOVE CONDANNE. Le indagini non si fermano e nel 1998 ha inizio il terzo processo sulla strage di via D’Amelio, che vede imputati i boss Giuseppe Madonia, Benedetto Santapaola, Giuseppe Calò, Giuseppe Farinella, Raffaele Ganci, Antonino Giuffrè, Filippo Graviano, Michelangelo La Barbera, Giuseppe e Salvatore Montalto, Matteo Motisi, Bernardo Provenzano, Francesco Madonia, Mariano Agate, Salvatore Buscemi, Antonino Geraci, Giuseppe Lucchese, Benedetto Spera, Giovanni Brusca e Salvatore Cancemi, accusati di aver ordinato l’eliminazione di Borsellino. L’iter processuale, che durerà dieci anni, porterà alle condanne di tutti gli imputati. Nel 2003 si torna in aula. Questa volta a Catania, dove si celebra un processo unico per le stragi del 23 maggio e del 19 luglio. Nel 2006 vengono condannati all’ergastolo boss Salvatore Montalto, Giuseppe Farinella e Salvatore Buscemi ritenuti colpevoli di entrambi gli eccidi. Per la strage di Capaci l’ergastolo è inflitto a Giuseppe Montalto, Francesco e Giuseppe Madonia, mentre per via d’Amelio a Carlo Greco, Pietro Aglieri, Benedetto Santapaola, Mariano Agate, Giuseppe Calò, Antonino Geraci e Benedetto Spera. Le pene sono confermate dalla Cassazione nel 2008.

LA SVOLTA. Sempre nel 2008, la svolta. Inizia a collaborare con la giustizia Gaspare Spatuzza, U’ tignusu, killer della cosca di Brancaccio. Le rivelazioni fatte ai giudici sono eclatanti: «Sono stato io a rubare la Fiat 126 esplosa in via D’Amelio, incaricato dai fratelli Graviano». La versione di Spatuzza smentisce la testimonianza di Scarantino e degli altri pentiti su cui i giudici avevano fondato i primi tre processi. La procura di Caltanissetta riapre le indagini sulla strage e nel 2009 Scarantino e Candura dichiarano ai pm di essere stati costretti a dichiarare il falso da Arnaldo La Barbera e il suo gruppo investigativo. Ha così inizio il “Borsellino Quater”, quarto processo sulla strage del 19 luglio. «Mi massacrarono, mi fracassarono. Un poliziotto mi fece sbattere la testa a terra mentre io piangevo» dichiara nell’udienza del 10 ottobre 2013 Salvatore Candura «Io continuavo a proclamarmi innocente, ma La Barbera mi diceva "sarò la tua ossessione, ti farò dare l’ergastolo: io ho le prove"». il 1 aprile 2014 testimonia al processo anche Scarantino: !Mi hanno distrutto la vita, sono stato picchiato davanti ai miei figli e mia moglie. Ho sempre detto che della strage non so niente e che mi hanno indotto a fare le dichiarazioni». Nel corso del dibattimento si parla quindi di "depistaggio di Stato", e si cercano le responsabilità soprattutto nel gruppo investigativo di La Barbera che arrestò e gestì da subito gli interrogatori di Candura e Scarantino. Non solo, nel novembre 2014 le dichiarazioni di un nuovo pentito permettono di fare maggiore chiarezza sulla strage. Fabio Tranchina, autista del boss di Brancaccio Giuseppe Graviano, ha dichiarato ai giudici che «fu Graviano ad azionare il telecomando che fece esplodere la bomba in via D’Amelio». Le dichiarazioni contrastavano con le parole di Totò Riina di pochi mesi prima. Intercettato durante l’ora d’aria trascorsa con il mafioso Alberto Lorusso, il boss parlava «della bomba azionata da un interruttore nel citofono». I giudici del “Borsellino quater” considerano attendibili le deposizioni di Spatuzza e Tranchina, mentre nessun elemento conferma la versione del “citofono” di Riina.

LE DOMANDE SENZA RISPOSTA. Rimangono però ancora degli interrogativi: chi ha avuto interesse a deviare le indagini dai veri sicari di Paolo Borsellino? Chi ha pilotato le dichiarazioni del pentito Scarantino, ostacolando le indagini? La versione di Scarantino indicava i mandanti nella borgata della Guadagna e non nel mandamento dei Graviano nel quartiere di Brancaccio. E la differenza non è da poco: Guadagna e Brancaccio sono due mondi lontani per le loro “relazioni esterne”, per i rapporti dei rispettivi boss. I fratelli Graviano sono stati a lungo sospettati di avere instaurato un legame con Marcello Dell’Utri, oggi in carcere a Rebibbia per scontare una pena di sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa. E Gaspare Spatuzza lo dichiara davanti ai giudici: «Giuseppe Graviano mi fece i nomi di Berlusconi e Dell’Utri. Il boss aggiunse che ‘grazie alla serietà di queste persone, ci avevano messo il Paese nelle mani». A 25 anni dal 19 luglio 1992 non sappiamo ancora molto. Chi è stato l’artificiere che ha imbottito di 90 chili di esplosivo la Fiat 126? Chi è la persona esterna a Cosa Nostra che, secondo le dichiarazioni di Spatuzza, era presente quando è arrivato l’esplosivo? Che fine ha fatto l’agenda rossa di Paolo Borsellino, con gli appunti sulle sue ultime indagini? Sono domande a cui nuove inchieste giudiziarie potrebbero dare risposta. «Dobbiamo pretendere la verità utile a dare un nome e un cognome alle menti raffinatissime che con le loro azioni e omissioni hanno voluto eliminare servitori dello Stato e impedire la ricostruzione dei fatti». Ha detto Fiammetta Borsellino lo scorso 23 maggio, nel giorno del 25° anniversario della strage di Capaci, nel corso di una trasmissione su Rai1. Le “menti raffinatissime” esterne a Cosa Nostra ma che con lei spartivano affari, interessi, potere. È giusto ricordare quel che ha dichiarato la signora Agnese Borsellino ai magistrati nel settembre 2009. Il marito Paolo, giudice che nella vita aveva conosciuto mafiosi a migliaia, «ha visto la Mafia in faccia» non dopo un processo, né durante un interrogatorio di un boss. Ma dopo essere stato al Ministero degli Interni il 17 luglio 1992. Due giorni prima di morire.

“Nell’inferno di via d’Amelio un uomo dei Servizi chiedeva della valigetta di Borsellino”. Il racconto dell'ispettore Giuseppe Garofalo, fu uno dei primi poliziotti ad arrivare sul luogo della strage del 19 luglio. «Quell’uomo è un fantasma – dice – e quel pomeriggio in via d’Amelio un incubo. Per un mese non riuscì a dormire. E in tutti questi anni non sono più voluto tornarci in quei luoghi. Poi, due anni fa, mia figlia mi chiese di accompagnarla in via d’Amelio, le ho raccontato cosa avevo vissuto», scrive Salvo Palazzolo il 20 luglio 2017 su "La Repubblica". Di quel pomeriggio in via d’Amelio ricorda l’odore acre dei copertoni bruciati, le auto in fiamme, le urla. Ricorda i volti degli anziani e dei bambini che ha aiutato a uscire dai palazzi sventrati. Ricorda tanto fumo. E all’improvviso, un uomo ben vestito, con una giacca, che cosa strana un uomo con la giacca dentro quell’inferno di fumo e fiamme. «Si aggirava attorno alla blindata del procuratore Paolo Borsellino – racconta l’ispettore Giuseppe Garofalo, uno dei primi poliziotti delle Volanti ad arrivare in via d’Amelio – chiedeva della borsa del giudice, l’ho subito fermato. “Scusi, chi è lei?”. Ha risposto: “Servizi segreti”. E mi ha mostrato un tesserino. L’ho lasciato andare, capitava spesso che sulla scena dei delitti di Palermo ci fossero agenti dei Servizi, non mi sono insospettito. Ma adesso mi chiedo chi fosse davvero quell’uomo». L’ispettore Giuseppe Garofalo voleva fare l’archeologo da ragazzo. Ma ha finito per seguire le orme del padre, il maresciallo Garofalo è stato per quarant’anni una delle colonne portanti della squadra mobile di Ragusa. Fa il poliziotto anche il fratello di Giuseppe, e pure sua moglie. «Io l’università l’ho fatta alla sezione Omicidi della squadra mobile di Palermo – sussurra – anni difficili, quelli. Era il 1989. Le corse da una parte all’altra della città, a raccogliere cadaveri e misteri, troppi misteri a Palermo. E un giorno, l’incontro con il giudice Falcone, nel suo ufficio bunker al palazzo di giustizia. Alla fine, mi strinse la mano e mi disse: “In bocca al lupo per la sua carriera”». Quel pomeriggio del 19 luglio 1992, Giuseppe Garofalo è il capopattuglia della volante 32. «Potevamo essere spazzati anche noi in via d’Amelio, perché generalmente la pattuglia faceva da apripista alla scorta di Borsellino. Ma quel pomeriggio non fummo chiamati dalla centrale operativa per accompagnare il giudice a casa della madre, chissà perché». Quando un boato squarcia Palermo, alle 16,58, la questura manda subito la volante 21. «Si pensava all’esplosione per una bombola di gas. Noi eravamo a Mondello, dico all’autista di stringere. E arriviamo pochi attimi dopo la 21. Non c’è nessuno in quella strada avvolta dal fumo». Il primo pensiero è per gli abitanti dei palazzi di via d’Amelio, che sembrano i palazzi di una zona di guerra.  «Ci siamo lanciati dentro, non abbiamo pensato che potessero esserci dei crolli, c’era gente insanguinata per le scale. Ricordo che abbiamo soccorso la mamma di Borsellino. Poi, io sono sceso in strada, di corsa. Il capo pattuglia della 21 stava già accompagnando in ospedale il superstite della scorta, Antonino Vullo. Io mi aggiravo in quell’inferno. Su un muro c’erano i resti di un collega, per terra la sua mitraglietta M12 sciolta per il terribile calore dell’esplosione. Per terra, quello che restava del procuratore Borsellino». In via d’Amelio cominciano ad arrivare decine di persone che camminano sui reperti, sui resti, su tutto ciò che potrebbe costituire una traccia per arrivare agli stragisti. «All’improvviso, quasi senza accorgermene – così continua il racconto di Giuseppe Garofalo - mi ritrovo davanti quell’uomo ben vestito che chiede della borsa del giudice. E’ un attimo, un frame nella mia testa. Oggi, quell’uomo con la giacca è una persona che resta senza volto, i ricordi sono confusi». I magistrati di Caltanissetta hanno già ascoltato Garofalo, gli hanno anche mostrato diverse fotografie. Ma non è emerso nessun volto in particolare. «Quell’uomo è un fantasma – dice ora l’ispettore – e quel pomeriggio in via d’Amelio un incubo. Per un mese non riuscì a dormire. E in tutti questi anni non sono più voluto tornarci in quei luoghi. Poi, due anni fa, mia figlia mi chiese di accompagnarla in via d’Amelio, le ho raccontato cosa avevo vissuto». Giuseppe Garofalo è poliziotto ormai di esperienza, ma ancora si commuove quando rievoca i suoi giorni a Palermo. Alla Mobile, il suo dirigente fu Arnaldo La Barbera, il superpoliziotto adesso al centro della bufera sul depistaggio delle indagini sulla strage Borsellino. «Io non so quello che è successo – dice l’ispettore Garofalo – tutti siamo fallibili, ma quando io ero alla squadra mobile La Barbera era un esempio per tutti noi. Viveva praticamente in ufficio, ricordo di quando fece pulizia, qualche mese dopo il suo arrivo, buttando fuori gente che riteneva collusa o comunque avvicinabile». Un altro mistero. «Io ho fiducia che la verità un giorno la sapremo – dice Giuseppe Garofalo – dobbiamo avere fiducia nelle istituzioni, la magistratura e le forze dell’ordine, che questa verità non hanno mai smesso di cercare, per onorare i nostri morti».

"Un balordo come pentito e una procura massonica", scrive Live Sicilia il 19 luglio 2017. "Abbiamo avuto un balordo della Guadagna come pentito fasullo e una Procura massonica guidata all'epoca da Gianni Tinebra che è morto, ma dove c'erano Annamaria Palma, Carmelo Petralia, Nino Di Matteo...". Lo dice Fiammetta Borsellino, 44 anni, ultimogenita del magistrato Paolo, ucciso nella strage di via D'Amelio 25 anni fa, in un'intervista al Corriere della Sera. "Venticinque anni di schifezze e menzogne - dice Fiammetta Borsellino - All'Antimafia consegnerò inconfutabili atti processuali dai quali si evincono le manovre per occultare la verità sulla trama di via D'Amelio". "Io non so se era alle prime armi. E comunque mio padre non si meritava giudici alle prime armi, che sia chiaro''. Lo dice Fiammetta Borsellino, 44 anni, ultimogenita del magistrato Paolo, ucciso nella strage di via D'Amelio 25 anni fa, in un'intervista al Corriere della Sera, riferendosi al pm Nino Di Matteo che era tra i magistrati di Caltanissetta che si occuparono dell'inchiesta sulla strage. Alcuni giorni fa la corte di appello di Catania, nel processo di revisione, ha assolto 9 persone che erano state condannate ingiustamente per la strage. "Ai magistrati in servizio dopo la strage di Capaci - dice Fiammetta Borsellino - rimprovero di non aver sentito mio padre nonostante avesse detto di voler parlare con loro. Dopo via D'Amelio riconsegnata dal questore La Barbera la borsa di mio padre pur senza l'agenda rossa, non hanno nemmeno disposto l'esame del Dna. Non furono adottate le più elementari procedure sulla scena del crimine. Il dovere di chi investigava era di non alterare i luoghi del delitto. Ma su via D'Amelio passò la mandria di bufali". "Nessuno si fa vivo con noi. Non ci frequenta più nessuno, magistrati o poliziotti. Si sono dileguati tutti. Le persone oggi a noi vicine le abbiamo incontrate dopo il '92. Nessuno di quelli che si professavano amici ha ritenuto di darci spiegazioni anche dal punto di vista morale", aggiunge ancora Fiammetta Borsellino. E a proposito del suo intervento in tv da Fabio Fazio: "Dopo la mia esternazione non c’è stato un cane che mi abbia stretto la mano. Fatta eccezione per alcuni studenti napoletani e Antonio Vullo, l’agente sopravvissuto in via D’Amelio. Grande la sensibilità di Fazio. Ma nelle due ore successive mi sono seduta e ho ascoltato. Non sono Grasso che arriva, fa l’intervento e va". "Prendiamo molto sul serio le parole della figlia del giudice Borsellino, Fiammetta. Tanto che oggi l'ascolteremo come commissione Antimafia, come in passato abbiamo sentito la sorella Lucia e i fratelli del magistrato, Rita e Salvatore". Lo ha detto la presidente della commissione Antimafia, Rosy Bindi, ai giornalisti che le chiedevano un commento all'intervista al Corsera in cui Fiammetta Borsellino parla di responsabilità di magistrati nel mancato accertamento della verità sulla strage di via D'Amelio. "Non posso commentare le sue parole - ha aggiunto -. Aspettiamo di sentirla. Oggi ci consegnerà anche documenti processuali. Abbiamo il dovere di dare risposte alla richiesta di verità dei familiari di Borsellino. Da questo ad accertare le loro affermazioni c'è di mezzo il lavoro che la commissione antimafia dovrà svolgere". "Fiammetta ha l'autorevolezza per dire queste cose, anche perché fino adesso non ha mai detto niente, per cui quello che dice è Vangelo. La ricerca della verità si fa sempre". Lo ha detto Rita Borsellino, commentando l'intervista rilasciata al Corriere. "Parlo spesso di coriandoli di verità perché questa ricerca è diventata un tema carnascialesco - ha aggiunto Rita Borsellino -. Cosa mi aspetto? E che mi devo aspettare, che ci sia verità, abbiamo questa mania dei numeri, mi aspetto che il 26/mo anno, il prossimo, lo possiamo celebrare come l'anno della verità". "Fiammetta lo ribadisce, la ricerca della verità è un atto dovuto, dobbiamo andare avanti, non bisogna avere paura a tenere la memoria viva, occorre vivere nel rispetto delle diversità e nella legalità". Lo ha detto la ministra dell'Istruzione, Valeria Fedeli, in via D'Amelio, a Palermo, commentando l'intervista al Corsera di Fiammetta Borsellino, il magistrato assassinato, con gli agenti della scorta, 25 anni fa. "Sono contento che adesso i figli di Paolo abbiano deciso di parlare, finora hanno tenuto un profilo riservato, lo capisco, la loro vita è stata stravolta e sono loro ad avere sofferto più di tutti, prima e dopo la morte di Paolo. Fiammetta ha deciso di iniziare a parlare e io ne sono felice, anche perché non so per quanto ancora potrò continuare a gridare e chiedere giustizia". Lo ha detto Salvatore Borsellino, fratello del magistrato ucciso nella strage di via D'Amelio, commentando l'intervista di Fiammetta Borsellino al Corsera. "Sono stati 25 anni di depistaggi, di macigni messi sulla strada della giustizia, 25 anni di muri di gomma - ha aggiunto Salvatore Borsellino, presente in via D'Amelio - chiedere giustizia non dovrebbe essere un compito solo dei familiari delle vittime, tutti dovrebbero scuotersi dalla loro indifferenza, tutti gli italiani devono chiedere e hanno diritto alla verità. Il nostro Paese oggi sarebbe diverso se non ci fossero state quelle stragi. Spero nei giovani, forse loro chiederanno in massa verità e giustizia, come sperava Paolo e anche io fondo la mia speranza su quella di Paolo". "Memoria e lotta per me sono intrecciate, non voglio sentire parlare di ricordo - ha poi concluso - perché il ricordo si fa una sola volta l'anno". "Chiedo scusa, anche pubblicamente e anche per conto di chi non l'ha fatto e avrebbe dovuto, per uno dei più colossali errori giudiziari commessi. Chiedo scusa a innocenti che sono stati condannati all'ergastolo". Lo ha detto Fiammetta Borsellino, al termine dell'audizione all'Antimafia parlando dei depistaggi delle indagini sull'attentato in cui morì suo padre. (ANSA)

Borsellino, lo sfogo della figlia: «I suoi colleghi non ci frequentano». Fiammetta: «Le indagini a Caltanissetta? Era una Procura massonica». Intervista di Felice Cavallaro del 18 luglio 2017 su “Il Corriere della Sera”. Stavolta il suo 19 luglio non lo passa a Pantelleria, lontana dai riflettori, per ricordare il padre con una messa solitaria nella chiesetta di contrada Khamma. Perché Fiammetta Borsellino, dopo due clamorosi passaggi tv e Internet con Fabio Fazio e Sandro Ruotolo, si prepara oggi a una audizione in Commissione antimafia, a Palermo. Per tuonare contro «questi 25 anni di schifezze e menzogne».

Cosa dirà alla commissione presieduta da Rosi Bindi?

«Più che dire consegnerò inconfutabili atti processuali dai quali si evincono le manovre per occultare la verità sulla trama di via D’Amelio», spiega la più piccola dei tre figli del giudice Borsellino, 44 anni.

Si riferisce ai quattro processi di Caltanissetta?

«Questo abbiamo avuto: un balordo della Guadagna come pentito fasullo e una Procura massonica guidata all’epoca da Gianni Tinebra che è morto, ma dove c’erano Annamaria Palma, Carmelo Petralia, Nino Di Matteo, altri...».

Sottovalutazione generale?

«Chiamarla così è un complimento. Mio padre fu lasciato solo in vita e dopo. Dovrebbe essere l’intero Paese a sentire il bisogno di una restituzione della verità. Ma sembra un Paese che preferisce nascondere verità inconfessabili».

Di Matteo, il pm della «trattativa», era giovane allora.

«So che dal 1994 c’è stato pure lui, insieme a quell’efficientissimo team di magistrati. Io non so se era alle prime armi. E comunque mio padre non si meritava giudici alle prime armi, che sia chiaro».

Che cosa rimprovera?

«Ai magistrati in servizio al momento della strage di Capaci di non avere mai sentito mio padre, nonostante avesse detto di volere parlare con loro».

E poi?

«Dopo via D’Amelio, riconsegnata dal questore La Barbera la borsa di mio padre pur senza l’agenda rossa, non hanno nemmeno disposto l’esame del Dna. Non furono adottate le più elementari procedure sulla scena del crimine. Il dovere di chi investigava era di non alterare i luoghi del delitto. Ma su via D’Amelio passò la mandria dei bufali».

Che idea si è fatta della trama sfociata nella strage?

«A mio padre stavano a cuore i legami tra mafia, appalti e potere economico. Questa delega gli fu negata dal suo capo, Piero Giammanco, che decise di assegnargliela con una strana telefonata alle 7 del mattino di quel 19 luglio. Ma pm e investigatori non hanno mai assunto come testimone Giammanco, colui che ha omesso di informare mio padre sull’arrivo del tritolo a Palermo...».

Giammanco o altri si sono fatti vivi con voi?

«Nessuno si fa vivo con noi. Non ci frequenta più nessuno. Né un magistrato. Né un poliziotto. Si sono dileguati tutti. Le persone oggi a noi vicine le abbiamo incontrate dopo il ’92. Nessuno di quelli che si professavano amici ha ritenuto di darci spiegazioni anche dal punto di vista morale».

Compresi i magistrati?

«Nessuno. E con la morte di mia madre, dopo che hanno finito di controllarci, questo deserto è più evidente».

Ha suscitato grande emozione il suo intervento la sera del 23 maggio durante la diretta di Fabio Fazio.

«Dopo la mia esternazione non c’è stato un cane che mi abbia stretto la mano. Fatta eccezione per alcuni studenti napoletani e Antonio Vullo, l’agente sopravvissuto in via D’Amelio. Grande la sensibilità di Fazio. Ma nelle due ore successive mi sono seduta e ho ascoltato. Non sono Grasso che arriva, fa l’intervento e va. C’erano giornalisti, uomini delle istituzioni, intellettuali palermitani. Da nessuno una parola di conforto».

L’orrido Paese di Fantozzi, scrive Mattia Feltri il 4/07/2017 su “La Stampa”. Non bisogna lasciarsi abbindolare: era tutto bello perché era tutto uno schifo. Non c’era via di scampo, non c’erano gli innocenti, non c’erano vittime ma soltanto persecutori che si contendevano il ruolo. Il ragionier Fonelli, che in gioventù era stato uno scadente quattrocentista, cercava di organizzare le olimpiadi aziendali, ma i colleghi della megaditta erano interessati soltanto al «lancio dello stronzo», cioè del medesimo Fonelli che finiva spianato sul marmo dell’atrio. Poi, raccontava la voce fuori campo del ragionier Ugo Fantozzi, attraverso spiate, ricatti, adesioni alla mafia, alla camorra, alla P2, e a quattro abbonamenti a vita a Famiglia Cristiana, Fonelli era improvvisamente salito a megadirettore naturale, aveva assunto il nome di Cobram II e finalmente indetto le gare d’atletica leggera; e tutti si erano untuosamente iscritti. Poi, è vero, in ogni film Fantozzi aveva uno scatto d’orgoglio, entra nella stanza all’Olimpo del diciottesimo piano dove i bambini sono accolti uno per volta in occasione del Natale da megadirettori naturali e laterali, che si scambiano regali faraonici, panettoni d’oro massiccio a ventiquattro carati con zaffiri e ametiste al posto dei canditi e brindano con champagne riserva 1612; ed entra mentre la bruttissima figlia Mariangela - la bambina, la babbuina - è arrampicata sull’attaccapanni intanto che i blasonati le tirano noccioline. Tragico silenzio di colpa. «Comunque a tutti loro i miei più servili auguri per un distinto Natale e uno spettabile anno nuovo». La frase è cortigianesca, ma il tono no, è grave. Nessuno dice nulla. Viene da esplodere in un urlo esultante e liberatorio, e però Fantozzi è il padre che subisce conati di vomito ogni volta che guarda la piccola, al circo la scambia con uno scimpanzé, non si salva niente, nemmeno l’idea che ogni scarrafone sia bello agli occhi dei genitori. Ed è davvero meraviglioso perché non c’è astio né rancore, c’è un pessimismo lucido e cinico, irreparabile, non c’è tesi e antitesi, i padroni sono padroni, sulle porte degli uffici hanno targhe con scritto Gran. Figl. di Putt. Lup. Mann., quelli con predisposizioni progressiste vogliono gli impiegati a tavola con loro e li chiamano «cari inferiori», ma i rivoluzionari sono come il dottor Riccardelli che, non avendo potere sulla vita lavorativa della massa impiegatizia, infieriscono sul tempo libero: la sera di Inghilterra-Italia, prima leggendaria vittoria a Wembley, (Fantozzi celebra con frittatona di cipolle e Peroni familiare gelata) sono tutti convocati a vedere un film cecoslovacco con sottotitoli in tedesco, tocca andare per non passare da reazionari borghesi. Diventerà la sera della Corazzata Potëmkin («una cagata pazzesca») e Riccardelli sarà sequestrato e obbligato ad assistere a Giovannona coscia lunga inginocchiato sui ceci. Oppure sono come il mitico Folagra, esiste davvero, sta in un sottoscala della megaditta e parla di formazioni di gruppi spontanei, di collettivi urbani, di cogestione proliferante. Falci in pugno e bla bla bla compagno. Poi ieri qualcuno celebrava l’epopea del dipendente col posto fisso, l’articolo 18 e niente Jobs Act, ma Fantozzi e i suoi colleghi sono assenteisti, furbetti del cartellino, giocano a battaglia navale, vanno a prendere il sole sul tetto, Paolo Villaggio, iperbolico e impietoso, dirà che «l’unico sistema vero sarebbe quello di stanarli puntando sulle spie, i delatori che si annidano in tutti gli uffici d’Italia. Assoldare le carogne, insomma. Dopodiché, per i fannulloni, che rubano lo stipendio per non far nulla, arriva la punizione. Bastonarli, anzi no, meglio frustarli. La soluzione, infatti, non è farli andare fisicamente a lavorare perché pure se ci vanno, non fanno nulla. La loro esperienza fannullona è invincibile». Sono opportunisti, leccapiedi, ammazzerebbero il vicino di scrivania per uno scatto di stipendio, hanno meschine tendenze fedifraghe, quelli che ce la fanno, come il Fonelli citato all’inizio, sono immemori della vecchia condizione di sfruttati e si tramutano in sfruttatori sempre più implacabili. Capitalisti, ecclesiastici, rivoluzionari, popolo, ognuno pronto a sgraffignare quel che può, a esercitare senz’anima il potere concesso, poco o tanto, per il momento affiancati da un’abissale ignoranza, profeticamente avvinghiati a congiuntivi oggi così rampanti, «dichi», «facci», «batti lei». È questa l’Italia di Fantozzi, una globale e castale associazione per delinquere. Saperlo, e riderci sopra, è il primo atto di ottimismo.

IL NOSTRO CUPO FUTURO, scrive Mattia Feltri de “La Stampa”, nel suo post dell’8 luglio 2017 su facebook. La sentenza della Cassazione su Bruno Contrada non dovrebbe essere un semplice atto d'accusa contro la magistratura, o contro la politica, ma un atto d'accusa sul nostro modo di ragionare e di reagire ai problemi. Gran parte della legislazione antimafia è emergenziale, e dunque uno strappo alla regola dello stato di diritto. Il 41bis, e cioè il carcere duro per i mafiosi, è un esempio. Un esempio di palese tortura, per la precisione, che abbiamo deciso di accettare, o di non vedere, in nome di una lotta d'emergenza a un problema eccezionale, la mafia. E' già abbastanza interessante che queste leggi eccezionali durino da decenni, diventando così ordinarie, e facendo dell'Italia uno stato che ha in parte rinunciato alla sua Costituzione e allo stato di diritto, e lo ha fatto stabilmente. Non vado oltre, non voglio discutere le leggi antimafia perché si passa immediatamente per fiancheggiatori ideologici della criminalità organizzata. Le leggi emergenziali furono varate, con successo, negli anni del terrorismo rosso e nero, e servirono per combatterlo e vincerlo. Da allora se ne fa uso, qua e là, oltre la mafia. L'ultima legge approvata al Senato, chiamata codice antimafia, estende il sequestro cautelativo dei beni ai casi di corruzione se ci sia associazione per delinquere. Traduco: se uno è sospettato (semplicemente sospettato) di corruzione in associazione con altri, gli si possono sequestrare i beni. Quelli della famiglia, l'azienda, tutto. Con questa legge (per fortuna non ancora definitiva) nel biennio 92-93 lo Stato avrebbe potuto sequestrare il 70-80 per cento delle grandi aziende italiane, dalla Fiat in giù, cancellando dalla faccia dell'Italia l'impresa privata. E farlo prima di una sentenza di condanna. Tutto questo ha una spiegazione e una conseguenza. La spiegazione è che, disarmati davanti alla plateale illegalità dell'intero paese (non soltanto mafia e corruzione, ma evasione fiscale, assenteismo, truffe delle e alle banche, truffe delle e alle assicurazione, noi siamo una specie di associazione per delinquere fatta di sessanta milioni di italiani) non sappiamo che reagire con una smania repressiva montante, dilagante, fatta di inasprimento delle pene e leggi emergenziali. La conseguenza è che stiamo disarticolando lo stato di diritto, attribuendo alla magistratura un potere sterminato (così che poi gli errori giudiziari diventano sempre più devastanti), ma soprattutto stiamo fornendo armi formidabili a un governo che domani, o dopodomani, ispirato da sentimenti illiberali, avrebbe gioco più facile di instaurare una dittatura. Ora, noi pensiamo che la democrazia sia incrollabile e non lo è. Già oggi l'Italia non è più psicologicamente democratica, e lo si evince dalla furia e scorrettezza del dibattito pubblico. Le dittature non sono mai arrivate annunciate, ma di colpo, e quando era troppo tardi. Non buttiamoci giù. E' sabato. C'è il sole.

Metodo Clouseau, scrive l'8/07/2017 Mattia Feltri su “La Stampa”. Fermi tutti e tenetevi forte. Quella di Bruno Contrada non è la solita questione di malagiustizia, è un capolavoro allucinogeno. Seguite il labiale. Bruno Contrada, già numero due del Sisde (servizi segreti), viene arrestato il 24 dicembre del 1992 mentre affetta il cappone. È accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. Condannato in primo grado, assolto in appello, assoluzione respinta in Cassazione, nuovo appello e nuova condanna (a dieci anni), che stavolta la Cassazione conferma. Fra carcere e domiciliari, Contrada sconta la pena. Nel 2015 la corte europea dei diritti dell’uomo dice che Contrada non doveva essere né condannato né processato perché, quando lo commise (se lo commise), il reato di concorso esterno non era abbastanza definito perché lui sapesse di commetterlo. Con questa sentenza, vincolante, Contrada va a chiedere la ripetizione del processo prima a Catania e poi a Palermo (non chiedete dettagli sul pellegrinaggio, è troppo), ma riceve due rifiuti. Arriva infine in Cassazione, che non concede un nuovo processo, ma si inventa una terza via. E cioè, fin qui c’erano sentenze di condanna e di assoluzione; ora c’è la sentenza che dichiara «ineseguibile e improduttiva di effetti» la sentenza precedente. Cioè, Contrada non può dirsi innocente, ma ha la fedina penale pulita. Cioè, ancora, la condanna esiste ma non va eseguita e non deve produrre effetti. Anche se è già stata eseguita e di effetti ne ha prodotti: dieci anni di detenzione. Se non siete ancora svenuti, buona giornata.

Sequestro di senatore, scrive il 07/07/2017 Mattia Feltri su “La Stampa”. Conoscete la storia dei fratelli Cavallotti? I fratelli Cavallotti avevano ereditato dal padre un’azienda a Belmonte Mezzagno, Palermo, e l’avevano ampliata fino a contare 400 dipendenti. Tanti erano quando, a fine Anni Novanta, tre dei fratelli finiscono in carcere per mafia. Si fanno due anni e mezzo e poi sono assolti. Segue l’appello, la Cassazione, e in capo a dieci anni la loro innocenza diventa definitiva. Intanto però l’azienda (con l’intero patrimonio di famiglia) è stata sequestrata preventivamente. L’amministratore giudiziario combina qualche pasticcio, diciamo così. Oggi l’azienda non c’è più e i quattrocento operai sono disoccupati. Non è una storia rara. Magari meno eclatanti, magari più trascurate, ma di storie così ce ne sono. Questa la si racconta perché ieri il Senato ha esteso le regole antimafia all’anticorruzione. Significa che basterà essere sospettati di associazione a fini corruttivi per vedersi sequestrare tutto. Poi, se assolti, come i Cavallotti, tanti auguri. Non solo la mafia, pure la corruzione è un’emergenza, ha spiegato il ministro Anna Finocchiaro. Anche lo stalking è un’emergenza, ha detto la senatrice Lo Moro (dalemiana). Quindi il sequestro si farà anche ai sospetti stalker. E ai sospetti terroristi. Hanno scordato l’emergenza vaccini, l’emergenza incendi, l’emergenza migranti, l’emergenza Xylella e l’emergenza pitbull, e tante altre emergenze. Poi, al primo politico cui faranno un sequestro preventivo, scopriremo l’emergenza sequestri preventivi (e sarà colpa dei magistrati).  

Se tutto è mafia, niente è mafia, scrive Piero Sansonetti il 5 luglio 2017, su "Il Dubbio". L’idea che invece si possa estendere a macchia d’olio le leggi di emergenza applicandole persino a banalissimi episodi di corruzione o di truffa trasforma un nobile ideale nello strumento per un riassetto dei poteri della magistratura. Le leggi d’emergenza in genere violano lo “stato di diritto” in nome dello “stato d’eccezione”. Ed è lo stato d’eccezione la fonte della loro legittimità. Quando termina lo stato di eccezione – che per definizione è temporaneo – in una società democratica, torna lo Stato di diritto e le leggi d’emergenza si estinguono. La mafia in Italia ha avuto un potere enorme, e una formidabile potenza di fuoco, dagli anni Quaranta fino alla fine del secolo. È stata sottovalutata per quasi quarant’anni. I partiti di governo la ignoravano, e anche i grandi giornali si occupavano assai raramente di denunciarla, e in molte occasioni ne negavano persino l’esistenza. Parlavano di malavita, di delitti, non riconoscevano la presenza di una organizzazione forte, articolata, profondamente collegata con tutti i settori della società e infiltrata abbondantemente in pezzi potenti dello Stato. È all’inizio degli anni Ottanta che in Italia matura una nuova coscienza che mette alle strette prima Cosa Nostra, siciliana, poi le altre organizzazioni mafiose del Sud. Ci furono due novità importanti: la prima fu un impegno maggiore e molto professionale della magistratura, che isolò le sue componenti “collaborazioniste” e mise in campo alcuni personaggi straordinari, come Cesare Terranova, Gaetano Costa, Rocco Chinnici, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, uccisi uno ad uno nell’ordine – tra il ‘ 79 e il ‘ 92. La seconda novità fu l’emergere di una componente antimafiosa nello schieramento dei partiti di governo e in particolare nella Dc. Che spinse settori ampi dello schieramento politico, che negli anni precedenti avevano rappresentato una zona grigiastra tra Stato e mafia, a scendere in campo contro la criminalità organizzata. Questo spezzò la linearità che fino a quel momento aveva caratterizzato i rapporti tra mafia e politica. Fu proprio a quel punto che scattò l’emergenza. Perché i due contendenti alzarono il tiro. Lo Stato ottenne dei clamorosi successi, soprattutto grazie all’azione di Giovanni Falcone; la mafia, per reazione, iniziò a colpire durissimo, con una strategia di guerra, fino alla stagione delle stragi, nel 1992- 1993. Ma anche nel decennio precedente la sua capacità militare, non solo in Sicilia, era mostruosa. Negli anni Ottanta a Reggio Calabria c’erano in media 150 omicidi all’anno (oggi i delitti si contano sulle dita della mano). Per combattere la mafia, in questa situazione di emergenza, tra gli anni Ottanta e i Novanta, vengono varate varie misure eccezionali che si aggiungono a quelle che erano state predisposte per la lotta al terrorismo. Tra le altre, il famoso articolo 41 bis del regolamento penitenziario (il carcere duro), che era stato previsto come un provvedimento specialissimo che avrebbe dovuto durare pochi anni, e invece è ancora in vigore un quarto di secolo dopo. Oggi la mafia che conosciamo è molto diversa da quella degli anni Ottanta e Novanta. I suoi grandi capi, tranne Matteo Messina Denaro, sono in prigione, o morti, da molti anni. Il numero degli omicidi è crollato. Alcuni investigatori notano che c’è stato un cambio di strategia: la mafia non uccide più ma si infiltra nel mondo degli affari, dei traffici, della corruzione, della droga. E questo – dicono – è ancora più grave e pericoloso. Ecco: io non ci credo. Resto dell’idea che una organizzazione che ruba è meno pericolosa di una organizzazione che uccide. Il grado di pericolosità della mafia è indubbiamente diminuito in questi anni, in modo esponenziale, e questa è la ragione per la quale le leggi speciali non reggono più. Molti se ne rendono conto, anche tra i magistrati. I quali infatti chiedono che le leggi antimafia siano allargate ad altri tipi di illegalità. Per esempio alla corruzione politica, che – almeno sul piano dei mass media, e dunque della formazione dell’opinione pubblica – sta diventando la forma di criminalità più temuta e più biasimata. Questo mi preoccupa. Il fatto che, accertata la fine di un’emergenza, non si dichiari la fine dell’emergenza ma si discuta su come estendere questa emergenza ad altri settori della vita pubblica. La misura d’emergenza non è vista più come una misura dolorosa, eccezionale, ma inevitabile dato il punto di rottura al quale è arrivato un certo fenomeno (mafia, terrorismo, o altro). Ma è vista come un contenitore necessario e consolidato, voluto dall’opinione pubblica, dentro il quale, di volta in volta, si decide cosa collocare. La giustizia a due binari che evidentemente è la negazione sul piano dei principi di ogni forma possibile di giustizia – cioè quella costruita per combattere l’emergenza mafiosa, diventa il modello di un nuovo Stato di diritto (in violazione della Costituzione) dove lo Stato prevale sul diritto e lo soffoca. La specialità della legislazione antimafia si basava sul principio – scoperto e affermato proprio da quei magistrati che elencavamo all’inizio – secondo il quale la mafia non è una delle tante possibili forme di criminalità, né è un metodo, una cultura, una abitudine, ma è una organizzazione ben precisa – “denominata Cosa Nostra”, amava dire Falcone riferendosi alla mafia siciliana – con sue regole, suoi obiettivi, suoi strumenti criminali specialissimi e specifici. E va combattuta e sconfitta in quanto organizzazione criminale particolare e unica. E dunque con strumenti particolari e unici. Questa è la motivazione – discutibile finché vi pare, ma è questa – di una legislazione speciale e di una giustizia con doppio binario. L’idea che invece si possa estendere a macchia d’olio sia il reato di mafia sia la legislazione antimafia, applicandola persino a banalissimi episodi di corruzione o di truffa, cancella quell’idea, persino la offende, e trasforma un nobile ideale nello strumento per un riassetto dei poteri della magistratura. E infatti a queste nuove norme antimafia si oppongono anche pezzi molto ampi, e sani, della magistratura. Forse occorrerebbe un passo di più: avviare un moderno processo di superamento delle norme antimafia, prendendo atto del fatto che lo Stato d’eccezione è finito. E riconoscere la fine dello Stato di eccezione non significa rinunciare alla lotta alla mafia. Mentre invece procrastinare lo stato d’eccezione – si sa – è l’anticamera di tutte le azione di scassinamento della democrazia e del diritto.

Flick con Cantone: «Il Codice antimafia così non funziona», scrive Errico Novi il 4 luglio 2017 su "Il Dubbio". Parla il presidente emerito della Corte costituzionale alla vigilia del voto al Senato: «Basta la natura associativa dei reati per colpire la proprietà privata? Rischiamo il no di Strasburgo». «Sono molto preoccupato». Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte costituzionale, scandisce le parole, le pesa ma non per questo le attenua. «Riguardo all’estensione delle misure patrimoniali previste per la criminalità organizzata ad altri reati, e in particolare a quelli di corruzione, sono molto preoccupato per una ragione di metodo: in particolare perché vedo l’utilizzo sistematico dell’emergenza come strumento ordinario di risposta al crimine». Il professor Flick, che è stato anche ministro della Giustizia, sa bene di far precipitare la propria valutazione in un giorno particolare. Quello in cui il Senato si appresta ad approvare in seconda lettura il Codice antimafia con i sequestri preventivi ai corrotti, ovvero il cosiddetto doppio binario trapiantato nel campo dei reati contro la pubblica amministrazione. A Flick non interessa «sollevare polemiche», anche se il tema è fin troppo divisivo e delicato per pensare che se ne possa fare a meno.

Perché un presidente della Corte costituzionale arriva a dirsi preoccupato per le nuove norme?

«Mi perdoni, ma la domanda è mal posta. Io non entro nella valutazione di specifici aspetti di una decisione del Parlamento. Ci penseranno eventualmente la Corte costituzionale o la Corte europea dei Diritti dell’uomo. Mi dico preoccupato per una tendenza che riguarda la legislazione nell’intero campo del diritto penale».

Da quale punto di vista?

«Riguardo all’estensione ad altri campi di norme e misure eccezionali, in modo da normalizzarne l’utilizzo. È una strategia che non può funzionare, come contrasto sistematico delle attività illecite. Ciò che è pensato per essere eccezionale dovrebbe rimanere tale. Non mi riferisco solo a misure come i sequestri. Il paradigma è stato offerto dall’ordinamento penitenziario: penso all’applicazione sempre più ampia del 41 bis e dell’articolo 4 bis, ossia la norma che prevede l’esclusione degli autori di determinati reati dalle misure alternative e dunque da un modello trattamentale fedele al dettato dell’articolo 27 della Costituzione. Tale esclusione inizialmente riguardava solo la criminalità di stampo mafioso, poi è stata estesa a un ventaglio di reati disomogeneo e disorganico che avevano un comune denominatore: suscitare un forte allarme sociale».

Si pensa di dover placare un’ansia diffusa e si ricorre per tutti i tipi di reato alla stessa soluzione.

«Sì, c’è la forte spinta a percorrere la strada dell’emergenza come risposta che in apparenza dovrebbe tranquillizzare, assicurare una risposta securitaria. Ma si tratta di contromisure dall’efficacia più apparente che reale».

Cosa pensa del contesto associativo come condizione necessaria per applicare i sequestri a reati come il peculato?

«Guardi, il tentativo di limitare l’applicazione di determinate norme può essere lodevole, come appunto in questo caso, ma è sbagliato il sistema. Mi chiedo: il concorso nel commettere un reato può davvero giustificare l’introduzione di questi strumenti patrimoniali?»

Cantone teme che allargare il ricorso ai sequestri preventivi possa indurre la Corte di Strasburgo a dichiarare non conformi alla Convenzione dei Diritti umani gli stessi sequestri agli indiziati di mafia.

«Siamo riusciti a mettere in confusione persino la Corte europea. Neppure a Strasburgo riescono più a comprendere se si tratta di sanzione o di prevenzione, se vogliamo rispondere alla pericolosità del reato, o della persona che lo commette, o del bene come profitto di reato che ha un’autonoma pericolosità e che va quindi confiscato anche agli eredi. Sono confuse le categorie in cui iscrivere il sequestro e la confisca. E prima o poi potrebbe arrivare da Strasburgo una pronuncia che metta in discussione lo strumento in sé. Finora la stessa Corte si è trovata di fronte a una specificità italiana qual è la necessità di contrastare la criminalità mafiosa, che giustifica interventi di carattere emergenziale. Ebbene, non so se la normalizzazione di questi interventi possa essere accettata».

Sulle norme di cui si discute in questi giorni potrebbero arrivare pronunce sfavorevoli dalla Corte costituzionale?

«No, mi stia a sentire: non si possono fare pronostici, la Corte europea e la Corte costituzionale eventualmente valuteranno. Si tratta non di misure cautelari personali ma patrimoniali: ebbene, va determinato quali limiti le misure repressive possano imporre al principio della proprietà privata».

Non un dilemma da poco.

«In singoli episodi il sequestro preventivo può essere legittimo, ma è il quadro che emerge ad essere preoccupante. Soprattutto perché il legislatore ha scelto di normalizzare l’emergenza, ripeto, e certi automatismi producono delle assurdità».

Il quadro normativo attuale regola già i sequestri in base a indizi di corruzione?

«Posso dire che la legislazione attuale prevede un campo d’applicazione fin troppo ampio per misure come sequestri e confische. Vorrei anche ricordare che il principio di tali misure discende dalla circostanza che una certa ricchezza sia frutto di reato. Un fatto che suscita allarme perché si tratta di un inquinamento economico. Ma se il ricorso a tali misure viene agganciato soltanto al tipo di reato commesso e non al comportamento del soggetto che ne è autore o alla natura del profitto, si capisce bene come le conseguenze che ne possono discendere siano completamente diverse: sino ad arrivare al diritto penale di autore o del nemico. Comunque a una forma indeterminata di ablazione. Mi pare lo stesso processo di estensione impropria avvenuto appunto con la norma dell’articolo 4 bis nell’ordinamento penitenziario».

Perché colpire un arricchimento frutto di attività illecita non è sempre e comunque appropriato, visto che si tratta in ogni caso di un inquinamento?

«Un conto è andare a Strasburgo e dire "ricorriamo a determinate misure per contrastare un fenomeno del tutto extra ordinem come la mafia", ben altro è trasformare un sequestro preventivo in strumento generale a cui ricorrere sempre. D’altronde non credo di essere il solo a ritenere inadeguate le attuali forme di contrasto della corruzione».

A cosa si riferisce?

«A quanto hanno detto il presidente e il procuratore generale presso la Corte dei Conti in sede di presentazione del rendiconto generale dello Stato la settimana scorsa. Il primo ha parlato di un sistema devastante di corruzione. Il procuratore generale ha descritto un sistema di contrasto basato su una pluralità di controlli, affidati a soggetti diversi, dalla stessa Corte alle autorità indipendenti, articolato come una serie di sottosistemi che, insieme, non formano alcunché di unitario. Fino a generare costi complessivi a cui non corrisponde adeguata utilità. Alla luce di questo, non so quanto la repressione attraverso l’asporto del denaro sia davvero strumento sufficiente per bloccare la corruzione. Al di là del suo valore di proclamazione- manifesto».

Mafia e corruzione sono oggi due volti dello stesso fenomeno?

«Sono due fenomeni che possono sovrapporsi. Ma restano distinti: della prima è caratteristica la violenza, della seconda l’accordo. E per questo pensare di usare contro la corruzione gli stessi strumenti adottati contro le mafie non mi sembra la strada giusta. Quando i due fenomeni si sovrappongono, si dovrebbe ricorrere sia agli strumenti di contrasto propri dell’uno che a quelli concepiti per l’altro».

L'ultima lezione di Falcone: la Superprocura spiegata dal suo inventore. Lunedì 19 giugno, nell'aula Foscolo dell'università di Pavia, un incontro con Pietro Grasso per celebrare il 25esimo delle stragi e ricordare le parole del giudice in quella stessa aula, dieci giorni prima di morire a Capaci, scrive Anna Dichiarante il 18 giugno 2017 su "La Repubblica". Il 13 maggio 1992, nell'aula Foscolo dell'università di Pavia, Giovanni Falcone partecipava al suo ultimo incontro pubblico. Dieci giorni più tardi, sarebbe stato fermato da 500 chili di esplosivo sull'autostrada tra Punta Raisi e Palermo. Invitato dal professor Vittorio Grevi, studioso di procedura penale tra i più autorevoli in Italia, Falcone tenne una lezione dedicata al tema del coordinamento delle indagini nei procedimenti per delitti di criminalità organizzata. La sua ultima lezione, quasi un testamento per affidare alle giovani generazioni di giuristi la cura di quella che, forse, fu la sua principale intuizione: una Superprocura per le indagini sulla mafia. Simbolicamente, lunedì 19 giugno alle 11, in quella stessa aula storica dell'ateneo pavese, "la lezione di Falcone" rivivrà nelle parole di Pietro Grasso, oggi presidente del Senato, ex procuratore nazionale antimafia, giudice a latere del primo maxiprocesso a Cosa nostra, collega e amico del magistrato ucciso a Capaci. Un evento, organizzato dal dipartimento di Giurisprudenza e dal Collegio Ghislieri, che vuole onorare la ricorrenza del venticinquesimo anniversario dalle stragi e che si colloca proprio a metà di quei 57 giorni che dividono la strage di Capaci (23 maggio) da quella di via D'Amelio (19 luglio), in cui morirono Paolo Borsellino e i cinque agenti della sua scorta. Oggi l'esistenza della Direzione nazionale antimafia (e antiterrorismo) con i suoi compiti di coordinamento e supporto alle procure distrettuali create nei capoluoghi di corte d'Appello è una realtà consolidata, che nessuno immaginerebbe di mettere in discussione. Anche perché, insieme alla parallela struttura della Direzione investigativa antimafia, questo modello di organizzazione degli apparati inquirenti rappresenta un unicum a livello mondiale. Qualcosa che, in tempi di lotta al terrorismo, molti altri ordinamenti cercano di imitare e rimpiangono di non avere. All'inizio degli anni Novanta, però, la battaglia che Falcone condusse per veder concretizzato il suo progetto, e soprattutto per convincere della sua bontà magistratura, politica e opinione pubblica, fu durissima. E infatti, in quei mesi di lavoro come direttore degli Affari penali al ministero della Giustizia, il giudice venne attaccato, accusato di aver abbandonato il suo ruolo operativo in Sicilia per cedere alle lusinghe del potere, infamato come un vanesio in cerca di gloria e isolato. L'incontro di Pavia fu una delle occasioni per respingere le critiche e ribadire le ragioni di quelle scelte e, nonostante le rigide misure di sicurezza a cui Falcone era sottoposto in ogni spostamento, fu fortemente voluto da Grevi. Proprio al professore, tra i sostenitori più strenui dell'istituzione della cosiddetta Superprocura, Falcone aveva confidato durante un appuntamento romano di nutrire speranze: "Ce la stiamo facendo", gli disse in vista della conversione in legge del decreto che aveva istituito la Dna. E rileggere ora gli atti della conferenza in aula Foscolo è come sentir spiegare di nuovo, dalla voce di chi l'ha inventata, che cos'è davvero la Superprocura. Il principio da cui partiva Falcone - usando le parole che lui stesso pronunciò quel giorno - era quello di "fronteggiare le organizzazioni criminali attraverso l'organizzazione delle indagini", evitando che i fascicoli si disperdessero tra procure diverse. Perché senza un quadro globale degli elementi raccolti non si possono comprendere i meccanismi complessi con cui agiscono le cosche, abituate a muoversi e a fare affari "in sede transnazionale". La creazione della Direzione nazionale antimafia e delle procure distrettuali, quindi, ha messo fine alla frantumazione delle competenze e ha reso efficiente il coordinamento investigativo, prima affidato alla spontanea iniziativa dei pm. Superate le gelosie e la paura di fughe di notizie, la Superprocura, così come pensata da Falcone, è diventata una "struttura servente" per le altre procure: non svolge direttamente indagini, ma si occupa di tutto ciò che gli uffici sul territorio non possono sbrigare, presi dalle incombenze quotidiane. Non un modo per tornare alla logica dell'emergenza nella lotta alla mafia né un organo che con la sua attività si sovrapponga agli altri magistrati. Un modello lontano anni luce da quello fallimentare e stantio dell'Alto commissariato antimafia. Come spiegava Falcone a Pavia, il tentativo di limitare i maxiprocessi, visti da molti come la tomba delle garanzie difensive, non si doveva tramutare nell'impossibilità di istruire "maxiindagini". Le accuse di voler adottare un espediente per assoggettare i pm al potere esecutivo, compromettendone l'indipendenza e l'autonomia, sono state smentite dai fatti. Nessun principio costituzionale è stato leso dall'istituzione della Dna e delle Dda. Semmai, si è trattato dell'unica via per dare vita a una "rete molto complessa" di pm, per "l'esigenza assolutamente reale di scambio e comunicazione tra magistrati". Additato come amico dei potenti e come insabbiatore di indagini sul conto di politici, Falcone fu ucciso proprio per il motivo contrario: perché cercava le tracce della mafia ai livelli più alti e insospettabili, ne seguiva i fiumi di denaro all'estero e sin dentro le banche, rispettava in maniera scrupolosa le norme e attendeva con prudenza di avere tutti gli elementi necessari per sostenere le accuse in giudizio contro qualcuno. A proposito di Superprocura, poi, Falcone teneva a sottolineare la necessità di prevedere due correttivi. Innanzitutto, la limitazione delle competenze delle procure antimafia a pochi e ben determinati reati: l'associazione di tipo mafioso, il sequestro di persona, l'associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti e i cosiddetti reati-mezzo o reati-fine, cioè quelli commessi avvalendosi delle condizioni in cui operano le associazioni mafiose o per favorire le stesse. Una restrizione che si è persa nel tempo, perché a quell'elenco si sono aggiunte varie fattispecie di reato, non sempre a ragione. Il secondo accorgimento, invece, è stato quello di mantenere la celebrazione dei processi davanti ai giudici ordinari: le indagini delle procure antimafia, in pratica, arrivano a dibattimento nei tribunali e nelle corti che decidono anche sugli altri reati. Nessun giudice speciale, quindi. "L'atmosfera dell'università è quella più idonea per confrontarsi sui temi che sono al centro di vivaci polemiche", diceva Falcone, aprendo il suo intervento in aula Foscolo. La sua ultima lezione, grazie alla quale l'Italia sta tuttora vivendo di rendita in tema di contrasto alla criminalità organizzata. Una lezione che lo stesso professor Grevi conservava come ricordo indelebile, con la locandina gialla di quel 13 maggio appesa nello studio, e trasmetteva ai suoi studenti. E che rievocò anche nel suo ultimo dibattito pubblico, poche settimane prima della scomparsa nel dicembre 2010. L'insegnamento è rimasto e adesso è indispensabile che si continui a passare il testimone.

In memoria di Giovanni Falcone e degli immemori. Un certo modo di cercare la verità sulle stragi di Capaci e via D'Amelio offende gli stessi Falcone e Borsellino, scrive Fuori dal Coro Fabio Cammalleri su "La Voce di New York" il 23 Maggio 2016. Le ipotesi storico-critiche sono legittime. Anzi. Solo che sono cosa diversa dalle imputazioni. Passare direttamente dalle une alle altre è pretenzioso e, soprattutto, inutile. I fatti sono noti, ma è sempre bene ricordarli. Proprio oggi che è un giorno di memoria e di memorie. E, forse, anche di immemori. A corrente alternata, ma con sostanziale continuità, a cominciare dall’inchiesta “Sistemi criminali”, aperta da Giancarlo Caselli a ridosso del suo insediamento quale Procuratore della Repubblica di Palermo, negli ultimi venti e più anni un’ipotesi ha aleggiato, e forse tutt’ora aleggia, sulla strage di Capaci e su quella di Via D’Amelio: che non siano state solo crimini di Mafia, e che su di esse si siano spese losche quanto altolocate convergenze. Da allora si cerca una sentenza che queste ipotesi avvalori. E, da allora, la ricerca risulta vana. In questa ricerca si sono spesi a turno, e quasi ossessivamente, alcuni gruppi editoriali. Nuovi e meno nuovi. Con varie propaggini e coordinazioni anche in ambito televisivo.  Ora, non è che le ipotesi storico-critiche non siano legittime. Anzi. Solo che sono cosa diversa dalle imputazioni. Passare direttamente dalle une alle altre è pretenzioso e, soprattutto, inutile. Sicchè, a proposito dell’odierno anniversario della strage di Capaci, si possono fare delle considerazioni. Solo per ricordare alcuni “corsi e ricorsi storici”, e per nutrire così, come si diceva un tempo, lo spirito critico. Leoluca Orlando, Sindaco di Palermo. Nel corso di una “storica” diretta televisiva, accusò Falcone di insabbiare le indagini sui delitti Mattarella, La Torre e altri, vale a dire sui c.d. delitti politico-mafiosi. La diretta era di Santoro. L’incauta invettiva si alimentava del rancore suscitato in quegli ambiti dall’incriminazione per calunnia mossa da Falcone a carico di un collaboratore che aveva accusato Lima di essere mafioso. Anziché prendere atto delle decisione dell’autorità giudiziaria (cioè di Falcone) si preferì l’insinuazione. Le cose peggiorarono quando Egli decise, accettando la proposta del socialista Claudio Martelli, allora ministro della Giustizia, di assumere il ruolo di Direttore generale degli Affari Penali. Nel Gennaio del 1992, quattro mesi prima di essere ucciso, La Repubblica lo accusò, con un articolo dal titolo “Falcone, che peccato” a firma di Sandro Viola, non proprio l’usciere di Piazza Indipendenza, di “febbre da presenzialismo”; di essere perciò dominato “dal più indecente dei vizi nazionali” (cioè il presenzialismo); aggiungendo irridente che, al punto in cui era giunto spinto da questo terribile vizio, forse Falcone “non potrebbe placarsi con un paio di interviste l’anno”; e che, anche dalle pagine del suo “Cose di Cosa Nostra”, si avvertiva “l’eruzione di una vanità…come se ne colgono nelle interviste del ministro De Michelis e dei guitti televisivi”; concludendo indignata (attributo della Casa) che “nessun paese civile ha mai lasciato che si confondessero la magistratura e l’attività pubblicistica”. Così Repubblica. Questa è un’opinione, per carità. Magari “un filino” infelice, ma è un’opinione. Ma non solo il Gruppo-Espresso-Repubblica.

Il 12 marzo 1992, l’Unità pubblica un editoriale a quattro colonne “Falcone superprocuratore? Non può farlo, vi dico perchè”. Firma Alessandro Pizzorusso, che scrive: “Il principale collaboratore del ministro non dà più garanzie di indipendenza…se nella vicenda attuale le sue qualità professionali non dovessero essere premiate come meritano, ciò non sarebbe dovuto solo alla malvagità del fato o a subdole iniziative dei suoi avversari”. Pizzorusso non era un semplice magistrato, in quel periodo, ma il membro laico, eletto dal Pci, del Consiglio Superiore della Magistratura. L’articolo non era isolato: ma esprimeva un’azione corale e convinta, diciamo così. Lo scopo era isolare, non solo politicamente, Falcone, ed impedirgli di essere designato come c.d. Superprocuratore.

Corrado Augias, a Falcone in studio disse: “Non voglio dire che lei ci abbia deluso, ma ultimamente, da quando è al Ministero, è un po’ cambiato… Lei nel suo libro, scandaloso, arriva a dire delle cose gravi… lei scrive testualmente che la mafia ha sostituito lo Stato in Sicilia…”.

Il 2 dicembre 1991 l’intera magistratura aveva scioperato: “contro Cossiga, Falcone e la sua superprocura”, scrisse Liana Milella. Giacomo Conte, che assunse funzioni anche di Giudice Istruttore nello stesso Ufficio di Falcone e Borsellino, il 6 giugno 1991 definì il progetto della superprocura “quanto di più deleterio sia stato pensato in tempi recenti”. Nel notiziario trimestrale di Magistratura democratica, nel dicembre 1991, la nuova Direzione Nazionale Antimafia veniva invece definita come “una grave lesione alle prerogative del Parlamento e all’indipendenza della magistratura”, dunque si prospettava un “disegno di ristrutturazione neoautoritaria”.

E molti altri, de cuyo nombre no quiero acordarme. Non è questo però il punto. Nè certi aggettivi, così corrivamente ricorrenti.

Persino Paolo Borsellino, in una famosa lettera, firmata anche da numerosi altri Colleghi (fra i quali Caselli e Caponnetto) sottoscrisse una critica: “Ci accomuna la convinzione che lo strumento proposto sia inadeguato, pericoloso e controproducente… fonte di inevitabili conflitti e incertezze”.

Il punto è che se tutto fosse stato pulito, come fu per Borsellino, per esempio, se quelle opinioni su Falcone fossero state limpide si potrebbe oggi forse ridiscuterne, oppure no, chi lo sa. Ma una circostanza rende opache quelle uscite. L’articolo di Repubblica è stato cancellato dagli archivi di “Repubblica”, come ogni altro di quel periodo che si poneva in termini analoghi su Falcone. Gli altri, sono reperibili, ma con difficoltà. Inoltre, e soprattutto, le critiche così cariche e verbose non hanno mai condotto ad una memoria costante di quei conflitti. Ad una seria valutazione delle reali ragioni di quell’animosità. Che erano di ordine politico-ideologico; di potere. Falcone è con Craxi: questo, in compendio, il senso di questa lunga teoria di anatemi. Qualche mese dopo, sarebbe scoppiata Mani Pulite, e Craxi ne sarebbe stato il maggior bersaglio. In questi anni, qua e là, due righe, giusto per mettere a posto gli archivi, e poter sostenere, in contesti distratti e superficiali, di aver “riconosciuto l’errore”; ma un adeguato riconoscimento dell’astiosità ideologica, del metodo maledicente o ostile, quello mai. Forse perchè, quello stesso metodo, sarebbe stato utile negli anni a venire. Da qualche tempo si avverte un certo “garantismo di ritorno”, infìdo e pernicioso, nella misura in cui confida nell’altrui dabbenaggine. Perciò la memoria abbia anche un effetto diserbante. Si coltiva l’oblio per raccogliere potere. Lo fanno in molti. Pure questa è un’ipotesi, naturalmente.

Ogni 23 maggio i giornali commemorano l’assassinio di Giovanni Falcone, ma quest’anno si sono mossi con anticipo perché ricorre il 25ennale, scrive di Filippo Facci il 21 maggio 2017. Un quarto di secolo, tuttavia, non è bastato a far riporre la faziosità più smaccata neppure a personaggi che potrebbero permetterselo: Gian Carlo Caselli sul Fatto Quotidiano ha elencato una serie di boicottaggi ai danni di Falcone prima che fosse ucciso: e ha citato Lino Jannuzzi, Salvatore Scarpino, Ombretta Fumagalli Carulli, il Giornale di Napoli, il Giornale di Sicilia, il Giornale e basta, tutti con una caratteristica: non essere di sinistra, diciamo così. E sta bene, è tutto vero: ma è l’intera storia, dottor Caselli? Come si fa a non ricordare quando il Csm gli preferì un collega per la nomina a consigliere istruttore? Come si fa a non citare Leoluca Orlando, che accusò Falcone di voler proteggere Andreotti e che, durante una puntata di Samarcanda, disse che il giudice teneva imboscati dei documenti sui delitti eccellenti? Come si fa a non citare, due mesi prima che Falcone saltasse in aria, il corsivo dell’Unità scritto da un membro pidiessino del Csm e titolato «Falcone non può fare il superprocuratore»? La stessa Unità, poco tempo prima, aveva titolato «Falcone preferì insabbiare tutto». Poi ci sono i dubbi di Magistratura democratica, la malfidenza del Pool di Milano raccontata da Ilda Boccassini, un sacco di cose: fanno parte di tutta la storia, perché raccontarla a metà? Quanto tempo dovrà ancora passare? “Sono responsabile della morte del piccolo Giuseppe Di Matteo, ho commesso e ordinato oltre 150 delitti, ho strangolato parecchie persone, ho sciolto i cadaveri nell’acido muriatico, e, prima di farlo, molti li ho carbonizzati su graticole costruite apposta”. Parole di Giovanni Brusca, il mafioso che esattamente 15 anni fa, il 23 maggio 1992, fece saltare in aria Giovanni Falcone e tutta la sua scorta. Brusca ha messo queste cose messe a verbale e nel 1999 le ha pure raccontate al collega Saverio Lodato. “Il mio risentimento nei confronti di Falcone era identico a quello di tutti gli affiliati a Cosa Nostra: era il primo magistrato, dopo Chinnici, che era riuscito a metterci seriamente in difficoltà. Era riuscito a entrare dentro Cosa Nostra, sia perché ne capiva le logiche, sia perché aveva trovato le chiavi giuste. Lo odiavamo, lo abbiamo sempre odiato”. Non erano i soli. Sin da quando giunse a Palermo nel 1978, chiamato dal consigliere istruttore Rocco Chinnici, Falcone fece poco per rendersi simpatico. A Palermo era stato appena assassinato il giudice Cesare Terranova, e “mafia” era una parola che si pronunciava ancora malvolentieri. “Prendemmo la decisione iniziale di ucciderlo, per la prima volta, alla fine del 1982” racconta Brusca: “Non tramontò mai il progetto di uccidere Falcone, di eliminare lui e tutti i nostri avversari: quelli che ci avevano tradito, quelli che erano stati amici e ci erano diventati nemici, e mi riferisco agli uomini politici che spesso si trinceravano dietro lo scudo dell’antimafia per rifarsi una verginità. Per esempio quelli che ormai realizzavano tutto ciò che chiedeva Falcone: le sue leggi, i suoi provvedimenti, le sue misure restrittive. Giulio Andreotti per ripulire la sua immagine ci provocò danni immensi: Salvo Lima e Ignazio Salvo sono stati uccisi per questo”. Falcone non era simpatico neppure ai vicini di casa. Alcuni condòmini del giudice, in via Notarbartolo, stesso stabile dove ora c’è “l’albero Falcone”, scrissero al Giornale di Sicilia nel timore che un attentato potesse tirarli in mezzo. Dopo l’apertura del maxiprocesso nell’aula bunker, nel febbraio 1986, Ombretta Fumagalli Carulli, purtroppo sul Giornale, giunse a scrivere così: “Il vero nodo del contrasto sta in un fenomeno allarmante che solo ora, dopo le notizie intorno alle coperture date da Falcone al costruttore Costanzo, comincia a essere percepito”. Così, quando il 16 dicembre 1987 la Corte d’assise di Palermo comminò 19 ergastoli, le polemiche non calarono: tutti si attendevano che il nuovo consigliere istruttore di Palermo dovesse essere lui, Falcone: ma il Csm, il 19 gennaio, 1988, scelse Antonino Meli seguendo il criterio dell’anzianità. Cominciarono a voltargli le spalle in tanti. Leoluca Orlando, tuonando contro gli andreottiani, era diventato sindaco e aveva inaugurato una cosiddetta “primavera di Palermo” che auspicava un certo gioco di sponda tra procura e istituzioni, anzi “una sinergia” come aveva detto Falcone stesso. Durerà fino all’estate del 1989, quando il pentito Giuseppe Pellegriti accusò il democristiano Salvo Lima di essere il mandante di una serie di delitti palermitani, ma Falcone fiutò subito la calunnia: Orlando si convinse che il giudice volesse proteggere Andreotti. Fu durante una puntata di Samarcanda che Orlando scagliò l’accusa: Falcone ha una serie di documenti sui delitti eccellenti, disse, ma li tiene chiusi nei cassetti. Accusa che verrà ripetuta a ritornello da molti uomini del movimento di Orlando: Carmine Mancuso, Nando Dalla Chiesa e Alfredo Galasso. E’ di quel periodo, peraltro, un primo e sottovalutato attentato a Falcone: il comunista Gerardo Chiaromonte, defunto presidente della Commissione Antimafia, circa la bomba ritrovata nella casa al mare di Falcone, all’Addaura, scriverà così: “I seguaci di Orlando sostennero che era stato lo stesso Falcone a organizzare il tutto per farsi pubblicità”. E la voce circolò. Così, quando Falcone accettò l’invito del ministro della Giustizia Claudio Martelli a dirigere gli Affari penali, la gragnuola delle accuse non potè che aumentare. L’obiettivo di Falcone era creare strumenti come la procura nazionale antimafia, ma in sostanza fu accusato di tradimento. Si scagliò contro di lui il Giornale di Napoli: “Dovremo guardarci da due «Cosa Nostra», quella che ha la Cupola a Palermo e quella che sta per insediarsi a Roma”. Così Sandro Viola su Repubblica: “Non si capisce come mai Falcone non abbandoni la magistratura… s’avverte l’eruzione d’una vanità, d’una spinta a descriversi, a celebrarsi, come se ne colgono nelle interviste dei guitti televisivi”. L’Unità, due mesi prima che Falcone saltasse in aria, fece scrivere un corsivo al membro pidiessino del Csm Alessandro Pizzorusso: “Falcone superprocuratore? Non può farlo, vi dico perché”. E’ la stessa Unità che poco tempo prima aveva titolato così: “Falcone preferì insabbiare tutto”. Cosa Nostra aveva già deciso di saldare il conto: la Cassazione, infatti, il 30 gennaio aveva confermato gli ergastoli del maxiprocesso. Mentre Roma discuteva su come impedire la nomina di Falcone, Giovanni Brusca stava facendo dei sopralluoghi sull’autostrada Palermo-Punta Raisi. Poi, a macerie fumanti, il tentativo di sfruttare la morte di Falcone per portare acqua all’inchiesta Mani pulite resterà uno degli episodi più disgustosi della storia del giornalismo italiano. Piero Colaprico, su Repubblica, definì Antonio Di Pietro “il Falcone del Nord”, e inventò che “si è saputo solo ieri che Falcone seguiva da vicino l’inchiesta sulle tangenti, ma adesso una tonnellata di tritolo ha spezzato per sempre il suo contributo all’indagine milanese”. L’Unità scrisse: “A Milano i magistrati hanno considerato la strage anche un avvertimento per quanti vogliono smascherare i signori di Tangentopoli”. Solo Ilda Boccassini, e gliene si faccia onore, ebbe la forza di urlare nella aula magna del Tribunale di Milano, rivolta ai colleghi di Magistratura democratica: “Voi avete fatto morire Giovanni, con la vostra indifferenza e le vostre critiche; voi diffidavate di lui; adesso qualcuno ha pure il coraggio di andare ai suoi funerali”. Due giorni dopo la strage di Capaci, su l’Unità, anche Piero Sansonetti ebbe un sussulto di dignità: “Questo giornale, negli ultimi mesi, e più di una volta, ha criticato Giovanni Falcone per la sua nuova amicizia con i socialisti e per la sua scelta di lasciare Palermo. E ha osteggiato la sua candidatura alla direzione della superprocura. In queste ore terribili una cosa l’abbiamo capita tutti, credo: Giovanni Falcone era un uomo libero. Abbiamo invece fatto prevalere il dubbio politico: forse non è uno dei nostri. Forse è politicamente ambiguo. Forse è il cavallo di Troia. E così abbiamo giudicato la sua scelta tattica una sorta di abbandono. Siamo stati faziosi”. E’ la sola autocritica, in quindici anni, messa nero su bianco da sinistra. Dopodiché fare la nostra parte, strattonare Falcone a nostra volta, tutto sommato sarebbe facile anche per me. Basterebbe ricordare di quando l’Unità (12 marzo 1992) spiegava che Falcone non doveva fare il procuratore antimafia, mentre La Repubblica esaltava Leoluca Orlando. E’ facile, strattonare Falcone. Quando si riparlerà di separazione delle carriere, rilanceremo l’articolo de La Repubblica (3 ottobre 1991) in cui Falcone si diceva favorevole a una riforma in questa direzione; quando ci sarà da sostenere l’inesistenza del Terzo livello mafioso, ritroveremo l’articolo della Stampa (30 luglio 1989) in cui Falcone lo riteneva inesistente; per le critiche alla politicizzazione della magistratura ci soccorrerà un’intervista a Falcone de La Stampa (6 settembre 1991) mentre per le critiche alle correnti del Csm ci basterà ancora La Repubblica (20 gennaio 1990) e insomma: nello schifo a cui è ridotto il giornalismo, fare la mia parte sarà un attimo.

Prima di Capaci, scrive Filippo Facci il 23 maggio 2013 su "Il Post". C’erano le lettere al Giornale di Sicilia scritte dai vicini di casa di Giovanni Falcone (in via Notarbartolo, dove ora c’è «l’albero Falcone») che nell’aprile 1985 lamentavano il fastidio delle sirene e il timore che un attentato potesse coinvolgerli. C’erano gli articoli di Vincenzo Vitale, Vincenzo Geraci, Lino Iannuzzi, Guido Lo Porto, Salvatore Scarpino e Ombretta Fumagalli Carulli (Giornale di Sicilia, Giornale, Il Roma, Il Sabato) che in tutti i modi possibili attaccarono il maxiprocesso che dal febbraio 1986 si celebrò nell’aula bunker di Palermo. Ha raccontato Paolo Borsellino al Csm il 31 luglio 1988: «Io e Falcone fummo chiamati dal questore che ci disse che lo stesso giorno dovevamo essere segregati in un’isola deserta con le nostre famiglie: perché se l’ordinanza sul maxi-processo non la facevamo noi, se ci avessero ammazzati, non la faceva nessuno. Io protestai, ma mi fu risposto in malo modo che i miei doveri erano verso lo Stato e non verso la mia famiglia. Dopo 24 ore scaricarono me, Falcone e le famiglie in quest’isola. Tutta questa vicenda ha provocato una grave malattia a mia figlia, l’anoressia psicogena, e mi scese sotto i 30 chili. Siamo stati buttati all’Asinara per un mese e alla fine ci hanno presentato il conto, ho ancora la ricevuta». Poi, il 16 dicembre 1987, quando la Corte d’assise comminò a Cosa Nostra 19 ergastoli, ci furono gli attacchi democristiani e socialisti che giunsero ad accusare Falcone di filo-comunismo per come aveva affrescato i rapporti tra mafia e politica; l’incriminazione dell’ex sindaco democristiano Vito Ciancimino non migliorò le cose. Poi, il 19 gennaio 1988, mentre tutti attendevano la nomina di Falcone a nuovo consigliere istruttore di Palermo, ci fu lo sfregio del Csm che gli preferì Antonino Meli seguendo il criterio dell’anzianità: i consiglieri di destra e di sinistra votarono tutti contro di lui a eccezione di Giancarlo Caselli. Dirà Francesco Misiani, storico esponente di Magistratura democratica: «Falcone non fu compreso a sinistra, lui che era l’unico che aveva percepito realmente la mafia come un’articolazione dello Stato». Tra gli affossatori di Falcone si distinse Elena Paciotti, futuro presidente dell’Associazione magistrati nonché europarlamentare Ds. Poi, progressivamente, ci fu lo scioglimento del pool antimafia, così che le istruttorie tornarono all’età della pietra: parcellizzate, annacquate, eterodirette, banalizzate. Per Falcone fu una delegittimazione terribile, proveniente dai livelli più alti: di lì in poi i nemici spunteranno come scarafaggi. Poi ci fu il primo attentato, quello dell’Addaura: era il 20 luglio 1989 e il magistrato si trovava nella sua casa al mare, presa in affitto. Verso mezzogiorno la scorta ritrovò in spiaggia una borsa con 58 candelotti di esplosivo. Al di là di una rinnovata e fumosissima inchiesta della Procura di Caltanissetta, sull’attentato si è già espressa la Cassazione il 19 ottobre 2004: condanne varie (a 26 anni per Totò Riina, tra altri) e responsabilità attribuita a Cosa Nostra, punto. Le pagine della Cassazione mettono nero su bianco anche quello che viene definito «l’infame linciaggio» di Falcone, che in buona sostanza fu accusato di essersi piazzato la bomba da solo. Gerardo Chiaromonte, comunista e defunto presidente dell’Antimafia, scrisse che «i seguaci di Leoluca Orlando sostennero che era stato lo stesso Falcone a organizzare il tutto per farsi pubblicità». La sentenza della Cassazione fa anche altri nomi: tra questi i giudici Domenico Sica, Francesco Misiani e il colonnello dei carabinieri Mario Mori: chi più e chi meno, misero tutti in dubbio un attentato che in molti cercarono di derubricare a semplice avvertimento. Poi, appunto, ci fu il voltafaccia orribile di Leoluca Orlando, che abbiamo già raccontato domenica scorsa: il sindaco di Palermo s’inventò che Falcone proteggeva Andreotti e disse pubblicamente, soprattutto a Samarcanda di Michele Santoro, che il giudice teneva nascosta nei cassetti una serie di documenti sui delitti eccellenti. Falcone dovrà addirittura discolparsi davanti al Csm dopo un esposto sempre di Orlando. Secondo un racconto di Cossiga, Falcone ne uscì in lacrime. Poi ci fu Falcone che decise di accettare l’invito del Guardasigilli Claudio Martelli per dirigere gli Affari penali al Ministero. L’obiettivo del magistrato – la creazione di nuovi strumenti come la procura nazionale antimafia – gli valse l’accusa di tradimento e megalomania da parte degli stessi ambienti che oggi commemorano Falcone come un vessillo di loro proprietà. Non aiutò che Falcone – come dimostra il libro La posta in gioco, interventi e proposte, da poco ristampato – si dimostrasse disponibile a discutere di separazione delle carriere dei magistrati e indisponibile invece a sostenere l’esistenza di un fatidico terzo livello mafioso. Scrisse amaramente Gerardo Chiaromonte ne I miei anni all’antimafia: «Falcone divenne, da amico del Pci, amico di Andreotti, con Claudio Vitalone che faceva da tramite». Furono i suoi colleghi a scagliarsi per primi contro Falcone. Il 2 dicembre 1991 l’intero corpo dei magistrati scioperò «contro Cossiga, Falcone e la sua superprocura», scrisse efficacemente la cronista Liana Milella, ai tempi amica del magistrato. Giacomo Conte, già componente del pool antimafia di Palermo, il 6 giugno 1991 definì il progetto della superprocura «quanto di più deleterio sia stato pensato in tempi recenti». Nel notiziario trimestrale di Magistratura democratica, nel dicembre 1991, la nuova Direzione Nazionale Antimafia veniva invece definita come «una grave lesione alle prerogative del Parlamento e all’indipendenza della magistratura», dunque si prospettava un «disegno di ristrutturazione neoautoritaria». La vera coltellata fu però la pubblica lettera – indirizzata teoricamente al Guardasigilli – che annoverava, tra i primi firmatari, colleghi e amici come Antonino Caponnetto e Giancarlo Caselli e persino Paolo Borsellino: «Ci accomuna la convinzione che lo strumento proposto sia inadeguato, pericoloso e controproducente… fonte di inevitabili conflitti e incertezze». Seguivano 60 firme di colleghi in data 23 ottobre 1991. Poi c’erano i giornalisti, c’erano gli articoli del Giornale di Napoli: «Dovremo guardarci da due Cosa Nostra, quella che ha la Cupola a Palermo e quella che sta per insediarsi a Roma». C’era Raitre con Corrado Augias, che si rivolse a Falcone ospite in studio: «Non voglio dire che lei ci abbia deluso, ma ultimamente, da quando è al Ministero, è un po’ cambiato… Lei nel suo libro, scandaloso, arriva a dire delle cose gravi… lei scrive testualmente che la mafia ha sostituito lo Stato in Sicilia…». C’era Repubblica con questo incredibile commento di Sandro Viola del 9 gennaio 1992: «Falcone è stato preso da una febbre di presenzialismo. Sembra dominato da quell’impulso irrefrenabile a parlare, quella smania di pronunciarsi, di sciorinare sentenze sulle pagine dei giornali o negli studi televisivi, spingendoli a gareggiare con i comici del sabato sera… Ecco quindi il magistrato Falcone, oggi a uno dei posti di vertice del ministero di Grazia e giustizia, divenuto uno dei più loquaci e prolifici componenti del carrozzone pubblicistico… non si capisce come mai il dr. Falcone, se proprio tiene tanto al suo nuovo ruolo, non ne faccia la sua professione definita, abbandonando la magistratura. Scorrendo il suo libro-intervista, s’avverte l’eruzione d’una vanità, d’una spinta a descriversi, a celebrarsi, come se ne colgono nelle interviste del ministro De Michelis o dei guitti televisivi. La fatuità fa declinare la capacità d’autocritica. Solo così si spiegano le melensaggini del suo libro». E c’era l’Unità con Alessandro Pizzorusso, 12 marzo 1992: «Falcone superprocuratore? Non può farlo… Fra i magistrati è diffusa l’opinione secondo cui Falcone è troppo legato al ministro per poter svolgere con la dovuta indipendenza un ruolo come quello di procuratore nazionale antimafia». Sul Resto del Carlino, nello stesso giorno, si giunse a sostenere che secondo il Csm «la sua fama di magistrato antimafia è semplicemente usurpata». Poi, purtroppo, contro Falcone c’era persino la mafia. Ha raccontato Giovanni Brusca nel libro Ho ucciso Giovanni Falcone, scritto con Saverio Lodato nel 1999: «Sono responsabile della morte del piccolo Giuseppe Di Matteo, ho strangolato parecchie persone, ho sciolto i cadaveri nell’acido muriatico, e, prima di farlo, molti li ho carbonizzati su graticole costruite apposta… Il mio risentimento nei confronti di Falcone era identico a quello di tutti gli affiliati a Cosa Nostra: era il primo magistrato, dopo Rocco Chinnici, che era riuscito a metterci seriamente in difficoltà. Era riuscito a entrare dentro Cosa Nostra, sia perché ne capiva le logiche, sia perché aveva trovato le chiavi giuste. Lo odiavamo, lo abbiamo sempre odiato… Prendemmo la decisione iniziale di ucciderlo, per la prima volta, alla fine del 1982». I vicini di casa, i colleghi magistrati, persino gli amici, poi i giornalisti, persino i mafiosi. Parrà strano, ma dopo tutto questo, e prima della strage di Capaci, Giovanni Falcone era ancora vivo.

Falcone 25 anni dopo: i siciliani hanno visto e hanno ragione. L’Anniversario sul palco, la morte sulla strada. Come sempre in Sicilia, scrive Fuori dal Coro Fabio Cammalleri su "La Voce di New York" il 22 Maggio 2017. L’omicidio a Palermo di un uomo d’onore “di spicco”, Giuseppe Dainotti, alla vigilia delle celebrazioni per i 25 anni della Strage di Capaci in cui furono assassinati il magistrato Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli uomini di scorta, scuotono la retorica, e scoprono un vuoto grave, anzi gravissimo. Naturalmente, nessuno sa niente. E non nel senso in cui certo facile sussiego, certo impavido senso civico conto terzi, certa aneddotica da cabaret di quart’ordine, di fronte ad un omicidio in Sicilia, sempre allude, e spesso accusa, censura, disprezza. Nessuno sa niente dell’omicidio di Giuseppe Dainotti, uomo d’onore di rango, secondo quanto assicurano sentenze definitive, (condannato all’ergastolo per l’omicidio, nel 1983, del Capitano dei Carabinieri di Monreale, Emanuele Basile), perché gli investigatori che ancora possiedono arnesi del mestiere: fiuto, qualche contatto, occhio vigile e analisi di luoghi, tempi e modi dell’azione, come si dice propriamente, sono al lavoro da poche ore, e perciò, ammesso che abbiano un’idea, la tengono per sè. Ma una cosa noi la sappiamo già, il giorno prima del venticinquesimo anniversario della Strage di Capaci: e più che saperla, la sentiamo. Il grumo allo stomaco è tornato. Quello. Si può sperare che sia tornato per poco: ma è tornato. Una memoria criminosa antica; due colpi, asciutti, “puliti”, sparati da uno scooter, o forse una motocicletta, ad un obiettivo che andava in bici; in pieno giorno, in pieno centro, risuonano sordi e ridestano cupe inquietudini fra le donne e gli uomini che vivono in Sicilia. E’ possibile che l’imminente ricorrenza sia solo una coincidenza, oppure no. Certo amplifica, e il clamore supplementare, o segna precise volontà, ignote, e perciò, preoccupanti; o segna indifferenza, quindi ritrovata sicurezza: e sarebbero ancora più preoccupanti. Chi osserva, per ora rimane (e ce ne sarebbe comunque d’avanzo) di fronte ad un interrogativo di metodo, diciamo. Quel grumo allo stomaco subito avvertito (per chi lo ha avvertito) suggerisce che l’Apparato Antimafia ha ragione? Che l’estensione di indagini e di processi in direzioni sempre più rarefatte, alla ricerca di “aree” incruente, ma ritenute perniciose quanto le prime (e anzi più); che l’assidua dedizione a campi d’intervento storico-investigativo; la diffidenza sistematica verso le forme e i modi della politica democratica, costantemente stimate (cioè disistimate) a rischio di essere possedute, e soggiogate da forze vaste quanto indefinite, sia la giusta via? O, invece, quel grumo, ci dice che l’Apparato Antimafia, proprio in quanto fattosi Apparato, ha torto; che la fissazione di priorità, auto qualificate culturali, all’insegna di conflittualità di tipo bellico: presentate come “attività”, “fenomeno”, “presenza”, e non come azione delittuosa, volta a volta attaccata ad una traccia empiricamente riconoscibile, e sostenibile da un ragionamento, non estenuata in assidue sublimazioni ermeneutiche, in sintassi per pochi, in linguaggio veritativo cifrato e incontrollabile, di cui potersi solo “fidare” o “non fidare”, rispetto al quale potersi dire solo “fedeli” o infedeli”, ha torto? Temo che quel grumo dica che l’apparato Antimafia, così come si è venuto configurando dopo le Stragi, abbia torto. Torto marcio. Non ci si deve illudere. Gli uomini e le donne che vivono in Sicilia hanno visto; pure se quello che hanno visto non interessa (non si vuole che interessi) i talk show, gli “esperti”, i cultori di una omertà di Stato su cui, invece, ogni velo non è mai di troppo. Hanno visto i maneggi, parentali, amicali, “relazionali”, sui sequestri, sulle confische, nati nei Palazzi di Giustizia: a Palermo, ma non solo. Hanno visto portatori di Nomi nobili della Repubblica, come Franco La Torre, figlio di Pio, espulso per SMS dall’Alma Mater dell’associazionismo antimafia, Libera, dire, quanto a Palermo, a quelle Misure di Prevenzione, di cui poco i suoi associati avevano sentito: “si sturino le orecchie”. Hanno visto noti esponenti “Antiracket”, come Roberto Helg, già Presidente della Confcommercio, prendere quello che non dovevano. Vedono tutt’ora altri e nuovi esponenti di un qualche altro “Antiracket”, intesservi rigoglio professionale, vigoroso e giovanile slancio politico. Hanno visto processi, come il Borsellino uno e bis, infliggere la pena dell’ergastolo ad imputati che erano innocenti, perché la delazione, nei secoli sfuggente e infida, è diventata oggetto di “gestione”, delegata come materia seriale e protocollare a burocrazie potenti e sempre in grado di rendersi impersonali, inafferrabili, di fronte a responsabilità, a scelte, ad errori. Hanno visto investigatori di prim’ordine, che si sono calati nella palude per noi, andando in avanscoperta in anni bui, quando agire nei quartieri non comportava indennità speciali, ma solo rischi, finire dileggiati, additati, anche formalmente, alla collettiva riprovazione, come traditori: e se non morti tragicamente, assolti una volta, accusati, una seconda; e assolti una seconda, accusati una terza, e così consumare un’irriconoscenza costruita su equivoci sorti, probabilmente, da suggestioni liceali mal digerite: che ignorano Eschilo e leggono Ciancimino. Hanno visto le loro sofferenze anonime, quelle stesse ridestate da quel grumo di nuovo addensatosi oggi, alimentare un basso mercimonio paraletterario, diritti d’autore, intrattenimento, predicatori lustri di soldi facili, ammantati di barbette hipster, che parlano o scrivono di Zia Lisa (Palermo), di Fortino (Catania), di valle dello Jato, di Madonie, perché lo leggiucchiano sull’I-Pad: ma sempre saccenti, sempre sicuri di poter spiegare la mafia, i livelli, gli scambi, gli appalti, l’economia, tutto immancabilmente criminale, come in un fumetto mal riuscito. Perché loro sanno, e gli altri no. E mai fermarsi a discernere quanto, in una faticosa e complessa transizione storica ad una libertà di negozi e di merci, dopo otto secoli di latifondo (formalmente estinto solo nel 1950), imporrebbe di distinguere, di graduare, e non di appiattire sotto un’unica sferza: intollerante, comoda, pigra, vile e sterilizzante. Hanno visto, le donne e gli uomini che vivono in Sicilia; e hanno sentito gli spari di stamattina; e hanno paura. E molti non andranno alla “Commemorazione del quarto di secolo”; perché non si fidano più di chi pretende di insegnargli a stare al mondo, ingrassando per questo: impinguandosi, di carriere, di stipendi e trattamenti di quiescenza, di parcelle e consulenze principeschi. In nome della legge, e della legalità: vecchi, immarcescibili arnesi del Palazzo, lui eslege, e sopraffattore. Hanno visto. E si sentono ad un passo dall’essere, dal ritornare ad essere considerati, come sempre, per naturale privilegio, tutti mafiosi o mezzi mafiosi, tutti omertosi o mezzi omertosi; e così, senza indennità speciali, generosamente ammessi a vivere da eterni alunni somari dell’altrui civiltà. Non si fidano più degli Apparati prepotenti, ciarlatani, e che non chiedono mai scusa. E hanno ragione.

Antimafia Connection.

Senza la mafia, cosa sarebbe l’antimafia?

Falcone diceva: “segui i soldi e troverai la Mafia”.

Ora avrebbe detto: “fai Antimafia e troverai i soldi...” 

Le storture di un sistema sinistroide che si inventa l’espropriazione proletaria illegittima di beni privati ed il foraggiamento statale di Onlus per mantenere amici e parenti, nascondendosi dietro la demagogia della legalità.

Lunga intervista-inchiesta al dr Antonio Giangrande per capire in esclusiva con verità indicibili cosa si nasconda dentro un apparato di sistema e dietro la liturgia delle ricorrenze. Antonio Giangrande, scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, autore controcorrente che sull'argomento ha scritto “Mafiopoli. L’Italia delle Mafie”; “Massoneriopoli. Mafia e Massoneria”; “Castopoli. Mafia, Caste e Lobbies”; “Usuropoli e Fallimentopoli; ed infine “La Mafia dell’Antimafia.”.

Dr. Antonio Giangrande lei su quali basi può essere ritenuto un fine conoscitore della materia?

«Anni di studi, approfondimenti e ricerche per guardare il risvolto nascosto della medaglia. Per questo posso dire che la parola antimafia è lo specchio per gli allocchi, per subornare gli ingenui per fare proselitismo politico e speculazione economica. La Mafia siamo noi, se non accondiscendenti con il potere, mentre l’Antimafia è solo lo Stato (Sic!). L’antimafia è un’entità composita con finalità politiche e speculative. Se la mafia è quella che ci propinano, allora la mafia non esiste. La mafia siamo noi tutti: i politici che mentono o colludono, le istituzioni che abusano, i media che tacciono, i cittadini che emulano. Se questo siamo noi, quindi mai nulla cambierà».

Dr Antonio Giangrande, le scuole non la invitano, in quanto il motto "La mafia siamo noi" non è accettato dai professori di Diritto, che sono anche, spesso, avvocati e/o giudici di pace e/o amministratori pubblici, sentendosi così chiamati in causa per corresponsabilità del dissesto morale e culturale del paese. Come se lo spiega?

«In un mondo dove sono tutti ciottiani e savianiani per convenienza, pronti a spartirsi il ricavato, mi onoro di essere il solo ad essere sciasciano e come lui processato dai gendarmi dell'antimafiosità».

A proposito delle vittime della mafia e la solita liturgia antimafia che nasconde il malaffare. In virtù degli scandali, gli Italiani dalla memoria corta, periodicamente scoprono che sui bisogni della gente e dietro ad ogni piaga sociale (mafia, povertà ed immigrazione, randagismo, ecc.) ci sono sempre associazioni e cooperative di volontariato che vi lucrano. Cosa ha da dire?

«Un sistema politico sostenuto da una certa stampa e foraggiato dallo Stato. Stato citato dalle grida sediziose dei ragazzotti che gridano alle manifestazioni organizzate dal solito sistema mafioso antimafioso. Cortei che servono solo a marinare la scuola ma in cui si grida: “Fuori la mafia dallo Stato”. Poveri sciocchi, se sapessero la verità, capirebbero che, se ottenessero quello che chiedono, nessuno rimarrebbe dentro a quello Stato, compresi, per primi, coloro che sono a capo di quei cortei inneggianti»

La scusa delle piaghe sociali non è che serve ad una certa sinistra comunista per espropriare la proprietà dei ricchi o percepire finanziamenti dallo Stato al fine di ridistribuire la ricchezza, senza che si vada a lavorare e queste manifestazioni pseudo antimafia, non è che sono propaganda per non far cessare il sostentamento?

«E' difficile cambiare la situazione, tenuto conto degli interessi in campo. "I nemici principali di Giovanni furono proprio i suoi amici magistrati”. Lo ha detto Maria Falcone in un'intervista a Soul, il programma-intervista di Tv2000, condotto da Monica Mondo. E dietro la coperta giudiziaria c’è la speculazione. Libera. Gli attivisti dell'associazione creata da Don Ciotti promuovono il riuso sociale dei beni confiscati alla mafia. Alcuni di loro gestiscono in prima persona aziende agricole e agriturismi nati su terreni che un tempo erano nelle mani dei più potenti boss di Cosa nostra».

Come si diventa associazione antimafia?

«Scrive Federica Angeli l'8 settembre 2014 su "La Repubblica", Ma chi si nasconde dietro le associazioni antimafia? E chi controlla che dietro questo business non ci sia l'ombra della malavita? Nessuno. Il difetto sta alla radice. Il percorso per avere il bollo di antimafia è infatti identico a quello che segue un circolo ricreativo. Per aprire un "club" antimafia ci sono diverse strade: quella della costituzione di un'associazione, che nella stragrande maggioranza diventa onlus, quello delle attività di promozione sociale e quello delle fondazioni. Nel primo caso basta un semplice atto costitutivo che ne sancisca la nascita e lo scopo, uno statuto che stabilisce regole e organizzazione del gruppo. Quindi si deposita il contratto d'associazione presso l'ufficio del registro competente e si fa richiesta di iscrizione all'albo regionale delle organizzazioni di volontariato, al registro provinciale delle associazioni e all'anagrafe comunale delle associazioni. Poi ci sono le attività di promozione sociale: queste associazioni presentano uno statuto e devono essere iscritte presso la presidenza del Consiglio dei ministri, dipartimento per gli Affari Sociali e sono iscritte a un registro nazionale del ministero del Lavoro e delle politiche sociali. In Italia ce ne sono 174 e come associazione antimafia riconosciuta c'è solo Libera, il faro di tutte le realtà che fanno concretamente antimafia sul territorio nazionale. Infine, le fondazioni: una volta redatto l'atto costitutivo e depositato da un notaio lo statuto, chiedono un riconoscimento presso la prefettura di competenza se operano a livello nazionale, o presso la Regione se sono attive soltanto in un territorio circoscritto. Sull'ultima modalità si è di recente espresso Raffaele Cantone, presidente dell'Autorità anticorruzione, gettando più di un dubbio sul grado di trasparenza della gestione di alcune fondazioni: "La maggior parte delle attività politiche si è spostata fuori dai partiti, contenitori non sempre pieni, e si svolge nelle fondazioni che dovrebbero essere trasparenti". Scandagliando i registri di Regioni, Province e Comuni, in Italia si tocca quota 87mila di associazioni. Di queste 49.801 sono diventate onlus, si sono iscritte al registro dell'Agenzia delle entrate e hanno fatto richiesta di ricevere il 5 per mille dei contributi Irpef degli italiani. Oltre 2.000 dovrebbero essere antimafia a giudicare dal nome di battesimo che hanno scelto, legato ai personaggi che attraverso la lotta alla mafia hanno fatto grande il nostro paese. Così si trovano associazioni nate nel nome di Borsellino, di Falcone e di tanti altri. Molte rievocano intestazioni da codice penale "416bis" o "41bis". Poi ci sono altre, tantissime altre associazioni che agiscono all'ombra di quelle grandi e piccole organizzazioni virtuose e realmente operative. Prendendo soldi dagli iscritti all'associazione (contributi volontari si legge negli statuti, laddove sono pubblicati), oppure dallo Stato con richieste di alloggi o di progetti da finanziare. Tradotto in soldi: migliaia e migliaia di euro che non si sa dove finiscono, visto che moltissime di queste associazioni non hanno mai pubblicato in rete i loro bilanci. Eppure, nei vari territori in cui operano, si continuano a spacciare per comitati o coordinamenti "contro tutte le mafie"».

Prendono e non dichiarano. Quanto è grande quest'arcipelago dei No Profit antimafia?

«Non profit: i tanti Don Ciotti che battono la Mafia Spa, scrive Marco Crescenzi l'1 settembre 2014 su "Il Fatto Quotidiano". Il settore non profit è più forte economicamente e “fattura” più delle Mafie (leggi l’accurata trattazione e le fonti citate da Mario Centorrino e Pietro David in Il fatturato di Mafia Spa, Lavoce.info, ilfattoquotidiano.it. Vedi anche Bankitalia 2012), con un volume di entrate stimato di 67 miliardi di euro con un’incidenza del 4,3% sul Pil (2012), simile a quello agricolo e in deciso aumento rispetto ai dati Istat del 2001 che attestavano tale cifra a 38 miliardi. Una economia “civile” e partecipativa, con una occupazione in aumento negli ultimi 20 anni che impiega stabilmente oltre 1 milione di persone – superiore al 3% degli occupati in Italia, prevalentemente giovani, prevalentemente donne, al nord come al sud. Dati ancor più significativi se accompagnati da una quantificazione del risparmio sociale derivante dalle ore di lavoro messe gratuitamente a disposizione dai quattro milioni di volontari. Il non profit è quindi un potente motore culturale e di economia civile. E’ sul territorio, può controllare il territorio. In ogni caso, come diceva Falcone: "Gli uomini passano, le idee restano. Restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini". Già camminare...Pensi che per farvi fare i cento passi che separavano la casa di Peppino Impastato all'abitazione del suo carnefice, l’antimafia si fa pagare 60 euro. 60 centesimi a passo…In questo modo Falcone e Borsellino si rivolterebbero nella tomba e questo ti fa rimanere l’amaro in bocca.».

L’amaro in bocca?

«Sì. Perché c’è in atto un accanimento mediatico/politico atto ad instillare nei ragazzi delle scuole la convinzione che l’antimafia di sinistra è portatrice di verità e legalità e chi non è antimafioso come loro, allora si è mafiosi. E tutta questa propaganda è sostenuta dai contribuenti italiani».

Lei che conosce tutto il materiale probatorio, spieghi come fa la lotta politica a speculare sul fenomeno mafioso.

«Sin dalla morte di Falcone e Borsellino si è tentato di tenere fede ai loro insegnamenti: segui i soldi…troverai la mafia. Il fatto è che proprio l’ingordigia dei soldi ha fatto degenerare i buoni intenti. E si sono inventati tutti i tipi di sistemi per fare cassa, dietro il paravento della lotta alla mafia.

Costituzione delle ONLUS. Tante scatole cinesi vuote che però fanno capo ad associazioni di rilevo sostenuti da media e sinistra. Mafia onlus, scrive Barbara Di su “Il Giornale” il 16 maggio 2017. La mafia va dove c’è ampio margine di guadagno. Da sempre hanno un fiuto per gli affari impareggiabile. Che sia droga, prostituzione, usura, scommesse o pizzo, quando c’è da guadagnare tanto loro non mancano mai. D’altronde sono ambiti dove l’evasione fiscale è inevitabile e sistematica per cui il guadagno è triplo rispetto ai tartassati italiani. Non puoi mica far fattura per la cocaina. Ma di certo sono decenni che non si accontentano delle loro attività illecite tradizionali e spaziano dove possono trovare guadagni facili con la minima spesa. E guarda caso ci sta sempre di mezzo il denaro pubblico.

Le Onlus e la speculazione sui migranti. Migranti: le Ong tra volontariato e business. Quali sono le differenze e i compiti delle non governative, come si distinguono dalle "sorellastre" governative e da quelle criminali, scrive Nadia Francalacci il 4 maggio 2017 su "Panorama". Le parole di Zuccaro all'Antimafia. Il 9 maggio 2017 Zuccaro, procuratore di Catania, è stato convocato in Commissione Antimafia. "È sbagliato ritenere che la mafia operi dovunque, perché così rischiamo di aumentare l'aurea di onnipotenza", ha detto. "Non ritengo ci siano rapporti diretti tra le organizzazioni criminali che controllano il traffico di migranti e le nostre mafie locali", ma "c'è una massa di denaro destinata all'accoglienza che attira gli interessi delle organizzazioni mafiose e dico questo sulla base di risultanze investigative". Appunto. Mafia Capitale, Buzzi: “Con immigrati si fanno molti più soldi che con la droga”. Uno dei settori in cui la "cupola" era più influente era quello delle politiche sociali: Luca Odevaine, membro del Tavolo di coordinamento nazionale sull'immigrazione, al telefono spiega: "Avendo questa relazione continua con il Ministero, sono in grado un po’ di orientare i flussi". Il braccio destro di Carminati: "Tu c'hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati?" Scrive Marco Pasciuti il 2 dicembre 2014 su "Il Fatto Quotidiano". I clandestini? Valgono 20 milioni. Succede a Isola Capo Rizzuto, dove c'è il centro d'accoglienza più grande d'Italia. Ora ha 1500 posti, con la ripresa estiva degli sbarchi diventeranno 2000. Aumentando il business che gira intorno ai migranti, scrive Gianfrancesco Turano l'11 aprile 2013 su "L'Espresso". Cantone e migranti: nei Cara bandi costruiti per escludere concorrenza. Il presidente dell'autorità anti corruzione in commissione racconta anni di lavoro, situazioni in cui false onlus create da pregiudicati ospitavano migranti in cantine. Considerare l'accoglienza un'emergenza è ridicolo, è questione di organizzazione", scrive Caterina Pasolini il 18 maggio 2017 su "La Repubblica". "Quello per il Cara di Mineo "ci sembrò un bando costruito per escludere la concorrenza", era "il classico bando costruito su misura", addirittura "mancava soltanto che indicassero anche il nome del vincitore" e "quando sollevammo i dubbi ci fu un vero e proprio fuoco di sbarramento contro il nostro provvedimento, che fu oggetto anche di attacchi in alcune audizioni parlamentari. Valuteremo l'ipotesi di commissariamento del Cara di Crotone". Lo ha detto il presidente dell'Autorità nazionale anti corruzione, Raffaele Cantone, in audizione presso la commissione parlamentare di inchiesta sul Sistema di accoglienza, di identificazione ed espulsione. "Attualmente il bando è ancora commissariato, non ce n'è uno nuovo", ha aggiunto facendo un quadro della situazione nazionale, passando da realtà regionali che hanno visto coinvolti appalti, situazioni mafiose, sfruttamento di lavoratori, organizzazioni del terzo settore. E ripete come ci sia bisogno di fare appalti divisi per capitoli per evitare situazioni "patologiche" e la necessità di controlli ". Parla con puntualità, del lavoro fatto dall'Autorità anti corruzione. Racconta delle ispezioni al Cara di Catania che ancora prima di Mafia Capitale avevano evidenziato "che il settore servizi sociali, medaglia di quel volontariato così forte in Italia, era stato macchiato da interessi. 'Ndrangheta, assalto ai fondi Ue e all'affare migranti; 68 arresti. Coinvolti un sacerdote e il capo della Misericordia. Operazione della Dda di Catanzaro contro il clan Arena che controllava il Cara più grande d'Europa. Le accuse: associazione mafiosa, estorsione, porto e detenzione illegali di armi, malversazione ai danni dello Stato, truffa aggravata, frode in pubbliche forniture. Al sacerdote 132 mila euro in un anno per "assistenza spirituale", scrivono Alessia Candito e Fabio Tonacci il 15 maggio 2017 su "La Repubblica". Don Scordio, da eroe antimafia alle manette. Il prete simbolo della lotta ai clan prendeva 132mila euro per assistere i migranti, scrive Andrea Cuomo, Martedì 16/05/2017, su "Il Giornale". Quando Gratteri elogiava don Scordio, scrive Stefano Arduini il 16/05/2017, su "Vita". Il magistrato che ha lanciato l'operazione Jonny contro il clan Arena che controllava il Cara di Crotone nell'ottobre del 2013 dava alle stampe un libro sui rapporti fra chiesa e 'ndrangheta nel quale fra i religiosi citati come esempi positivi compariva don Edoardo Scordio oggi fermato e accusato di crimini gravissimi insieme all'ex governatore della Misericordia di Isola Capo Rizzuto.

La gestione dei beni confiscati. Beni che spesso sono stati illegittimamente sottoposti a confisca e mai restituiti. Libera, da gestione dei beni confiscati a finanziamenti alle coop, ecco tutti i fronti della guerra interna all’Antimafia. L'attacco del pm anticamorra Catello Maresca all'associazione fondata da Don Ciotti è solo l'ultimo capitolo di una lunga querelle. Al centro della polemica c'è la torta da 30 miliardi dei beni sequestrati alle associazioni criminali: l'accusa di Maresca, che ricalca quella del prefetto Giuseppe Caruso, è che vengono amministrati dalla galassia legata a Libera "in regime di monopolio", scrive Giuseppe Pipitone il 19 gennaio 2016 su "Il Fatto Quotidiano". L’ultimo attacco è arrivato da Catello Maresca, stimato pm anticamorra, che ha accusato Libera di aver acquisito “interessi di natura economica”. “Gestisce i beni attraverso cooperative non sempre affidabili. Io ritengo che questa antimafia sia incompatibile con lo spirito dell’antimafia iniziale”, è stato il j’accuse del magistrato, che ha ricevuto a sua volta la promessa di una querela da parte di don Luigi Ciotti. Due mesi prima l’associazione guidata dal sacerdote torinese era invece finita sotto il fuoco incrociato delle polemiche dopo l’addio di Franco La Torre, il figlio di Pio, il senatore del Pci assassinato da Cosa nostra, ideatore della legge che introduce la confisca dei beni ai boss mafiosi. “Mi hanno cacciato con un sms, don Luigi è un personaggio paternalistico, a tratti autoritario”, aveva detto La Torre, lamentando una carenza di democrazia dentro Libera, dove “qualcosa non va nella catena di montaggio”. Sono solo gli ultimi due fronti aperti intorno all’associazione fondata nel 1995 dal leader del Gruppo Abele, ma sono anche gli ultimi due episodi di una violenta guerra intestina esplosa nel mondo dell’Antimafia. Il casus belli? 30 miliardi di beni confiscati a Cosa nostra – Prima ci sono state le querelle tra la stessa Libera e il Movimento 5 Stelle per la questione della spiaggia di Ostia, le dimissioni da direttore dell’associazione di Enrico Fontana a causa di un incontro con due politici finiti nell’inchiesta su Mafia Capitale, le indagini che hanno colpito alcuni tra i principali presunti frontman delle legalità tra magistrati e imprenditori e una torta da trenta miliardi di euro che sembra essere diventata il vero casus belli della faida a colpi di accuse e veleni che ha travolto la galassia dell’antimafia. A tanto ammonta il valore che hanno oggi i beni sequestrati dallo Stato alle associazioni criminali: un vero e proprio tesoro, che immesso nel mondo delle coop e delle associazioni antimafia sembra averlo corroso dall’interno. Appena un anno fa, il ministro Angelino Alfano aveva nominato Antonello Montante tra membri del comitato direttivo dell’Agenzia nazionale dei beni confiscati, che gestisce 10.500 immobili, più di 4.000 beni mobili e circa 1.500 aziende. Poi dopo essere finito indagato per concorso esterno a Cosa nostra, il numero uno di Confindustria Sicilia si è autosospeso dalla carica. Ed è proprio all’interno dell’Agenzia dei beni confiscati che si consuma il primo strappo sul fronte della lotta a Cosa nostra: è il 5 febbraio del 2014 e il prefetto Giuseppe Caruso, all’epoca al vertice dell’Agenzia, viene ascoltato dalla commissione Antimafia. E in quella sede ribadisce le sue accuse agli uomini d’oro, e cioè gli amministratori giudiziari, sempre gli stessi, nominati dal tribunale per gestire i beni sequestrati in cambio di parcelle a sei zeri. “Queste sono affermazioni gravi. Se non sono sue, signor prefetto, lei deve fare una smentita ufficiale molto seria e vedersela con il giornale e con i giornalisti”, lo redarguì la presidente di San Macuto Rosi Bindi, accusandolo di delegittimare le istituzioni con le sue affermazioni. La rivincita per Caruso arriverà solo un anno e mezzo dopo, quando l’inchiesta della procura di Caltanissetta su Silvana Saguto, l’ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, svela l’effettiva esistenza di un cerchio magico fatto di favori e prebende all’ombra dei beni confiscati ai boss. In quei giorni era stato lo stesso Luigi Ciotti a lanciare l’allarme: “L’antimafia – aveva detto – è ormai una carta d’ identità, non un fatto di coscienza. Se la eliminassimo, forse sbugiarderemmo quelli che ci hanno costruito sopra una falsa reputazione”. Adesso, invece, è proprio Libera ad essere finita al centro delle polemiche, con la Bindi che anche in questo caso ha difeso a spada tratta il sacerdote torinese, definendo “ingiuriose” le parole di Maresca. Una è l’accusa principale che viene rivolta a Libera: essersi trasformata da associazione nata per guidare la riscossa della gente perbene contro Cosa nostra a holding che gestisce bilanci milionari, progetti, incarichi, finanziamenti. E in effetti, basta dare uno sguardo ai numeri per rendersi conto che oggi Libera è molto cresciuta: a vent’anni dalla sua fondazione, è ormai una galassia che raccoglie oltre 1.500 associazioni, gestisce 1.400 ettari di terreni confiscati ai boss e ha un fatturato che supera i 5 milioni di euro all’anno. “È stata un’importante associazione antimafia. Ma oggi mi sembra un partito che si è auto-attribuito un ruolo diverso. Gestisce i beni sequestrati alle mafie in regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale. Personalmente sono contrario alla sua gestione: la ritengo pericolosa”, è uno dei tanti passaggi della discussa intervista del pm Maresca».

Ma è la mancanza di fondi economici per operare a far sì che l’antimafia tende a delinquere per sostenersi? Cosa si inventa l’apparato di sinistra per sostenere l’antimafia per speculare economicamente e politicamente sulla mafia?

«L’antimafia è un pozzo senza fondo dove la politica di sinistra arraffa a mani basse. Pioggia di milioni sull’antimafia. Non sono i valori morali che li spingono, ma quelli monetari. Ed i migranti sono uno strumento per arraffare ancora di più. Antimafia s.p.a. Gli espedienti di approvvigionamento economico sono: I Pon Sicurezza, la gestione dei beni confiscati, i finanziamenti alle Coop, i finanziamenti privati e pubblici, il 5Xmille. Così la legalità è diventata un business. Centinaia di migliaia di euro per organizzare manifestazioni anti criminalità. Soldi per le associazioni. Soldi per chi si costituisce parte civile. Perfino soldi per campi di calcetto “antimafia”. La lotta per la legalità è (anche) una enorme lotta ad accaparrarsi danari pubblici, scrivono Lidia Baratta e Luca Rinaldi il 13 Maggio 2016 su "L’Inkiesta". I più gettonati sono i nomi di Falcone e Borsellino. Per costituire un’associazione antimafia intitolata ai magistrati uccisi da Cosa Nostra non serve impegnarsi molto. Si sceglie un nome, solitamente quello di una vittima della criminalità organizzata. Si aggiungono magari le parole mafia, mafie o legalità. Si compilano uno statuto e un atto costitutivo, e ci si iscrive nei registri locali. Secondo il libro Contro l’antimafia di Giacomo Di Girolamo, in Italia le associazioni antimafia iscritte nei registri dei comuni e delle regioni sono circa 2mila. A queste poi si aggiungono le fondazioni, i comitati e gli enti di promozione sociale. Il fenomeno, negli anni, è esploso. Sul modello di “Libera” (l’unica associazione antimafia iscritta nel registro nazionale del ministero del Lavoro per le attività di promozione sociale), che coordina a sua volta 1.500 associazioni, da Nord a Sud sono spuntati nomi e sigle di ogni tipo. Una galassia di onlus che accedono al cinque per mille, comitatini e coordinamenti, attraverso i quali circolano milioni e milioni di euro. Distribuiti in mille rivoli, tra finanziamenti nazionali e locali, bandi e progetti nelle scuole. E la rendicontazione delle spese, spesso, è tutt’altro che trasparente. Così come i bilanci delle associazioni: introvabili nella maggior parte dei casi. In nome dei progetti antimafia si aprono porte e portoni, si elargiscono soldi per convegni e manifestazioni. Accanto alle associazioni serie che l’antimafia la fanno seriamente, sono nati gruppi e comitati che si fanno guerra per accaparrarsi un finanziamento pubblico o andare a parlare tra i banchi delle scuole. Così la legalità diventa un brand. «Spesso si fa entrare nelle scuole gente improbabile, che nasce dal nulla inventandosi un profilo da persona che combatte la mafia, magari dopo aver fatto da maggiordomo a qualche magistrato, facendosi vedere con lui per un paio di mesi. Iniziando a girare per le scuole si intrufola, si inventa un mestiere e comincia a chiedere dei soldi», ha raccontato la scorsa estate il neoprocuratore di Catanzaro Nicola Gratteri durante una manifestazione a Villa San Giovanni. «Ai politici, regionali, provinciali e comunali dico di non dare soldi alle associazioni antimafia: mettetevi in rete, create un fondo comune, fate dei protocolli con i provveditori agli studi e predisponete delle graduatorie degli insegnanti precari... Mi si dice che per far questo c’è bisogno di soldi. Ma i soldi ci sono, so di progetti costati 250.000 euro. Non è etico, non è morale, non è giusto. In nome di gente che è morta, che è stata uccisa, non è giusto che si spendano 250.000 euro per una manifestazione antimafia». Solo dal Programma operativo nazionale sicurezza (Pon) del ministero dell’Interno, finanziato dall’Europa, tra il 2007 e il 2013 sono arrivati tra Calabria, Campania, Puglia e Sicilia più di 538 milioni di euro da destinare alla “diffusione della legalità”. Di cui oltre 122 milioni finiti nella costruzione di case dei diritti e centri di aggregazione, ma soprattutto di campi da calcio a cinque e “campi polivalenti”. A suon di dotazioni da mezzo milione di euro, si finanziano prati e porte anche nei paesini più piccoli del meridione. A quanto pare non c’è miglior arma del calcio per combattere le mafie. Sul fronte del miglioramento dei beni confiscati, dal Viminale sono arrivati invece quasi 70 milioni di euro, e poco più di 14 milioni sono andati nel contrasto al racket. E per 2014-2020 il Pon legalità disporrà di altri 377 milioni di euro. Poi ci sono i fondi Por, quelli regionali. Solo in Calabria, tra il 2012 e il 2015, quasi 8 milioni di euro sono stati distribuiti alla voce “legalità”. Altra fonte da cui attingere è il fondo per le vittime di mafia del Viminale. Nel 2015 sono arrivate 1.106 istanze di accesso – il 13% in più rispetto all’anno precedente. Nella relazione annuale, dal ministero fanno notare l’incremento delle richieste arrivate da associazioni ed enti: 497 in tutto, il 45 per cento del totale. Un’inversione di tendenza, si legge, che «ha generato una riflessione al fine di realizzare finalità di trasparenza e affidabilità dei potenziali beneficiari». Solo dalla Sicilia in un anno sono partite 822 richieste, con un incremento di quasi il 40% rispetto all’anno passato. Non tutte le istanze vengono accettate, è chiaro. Ma solo nel 2015 sono state adottate 645 delibere per un importo complessivo di oltre 56 milioni di euro. La somma più alta degli ultimi anni. Ma anche i processi per mafia sono diventati una macchina per incassare soldi. Come? Costituendosi parte civile, e quindi puntando ai lauti risarcimenti. Ci sono associazioni che lo fanno per mestiere, magari collezionando sedi in tutta Italia per incassare qualche gruzzolo nei processi che si celebrano da Nord a Sud. Solo nel processo “Mafia Capitale” di Roma, 41 richieste sono state bocciate e 23 accolte. La stessa Federazione antiracket italiana di Tano Grasso, rappresentata in aula dall’avvocato Francesco Pizzuto, al processo “Infinito” di Milano dalla costituzione parte civile ha portato a casa 50mila euro, finiti nelle casse dell’associazione per finanziare le attività che svolge. La Fai, come altre associazioni, gira l’Italia dei tribunali per verificare se gli imputati dei processi abbiano arrecato “un danno effettivo e rilevante subito in qualità di associazione da anni presente ed attivamente operante sul territorio contro le mafie”. Tra le tante c’è anche Libera, che dalla nota integrativa del bilancio 2015 sull’anno 2014 riporta il maxi risarcimento ottenuto a Reggio Calabria al termine del processo “Meta”: 500mila euro confermati dalla sentenza passata in giudicato il 12 febbraio 2015. Denari che l'ufficio legale, si legge sempre nella nota integrativa «vengono reimpiegati per l’assistenza legale ai familiari delle vittime di mafia e ai testimoni di giustizia». Il problema, però, è che in molti casi il mafioso imputato di turno non ha conti in banca né grandi proprietà a lui intestate (basta pensare che in alcuni casi ricorrono al gratuito patrocinio), e quindi a pagare i risarcimenti è lo Stato, attraverso il fondo per le vittime di mafia. Ma anche i processi per mafia sono diventati una macchina per incassare soldi. Come? Costituendosi parte civile, e quindi puntando ai lauti risarcimenti. Di soldi, insomma, nell’antimafia ne circolano molti. E non sempre finiscono alla lotta contro i boss. Prima del caso di Pino Maniaci, direttore dell’emittente antimafia Telejato indagato per estorsione, un altro duro colpo per l’antimafia civile era arrivato dalla vicenda di Rosy Canale. Diventata un nome e un volto noto della lotta alla ‘ndrangheta per le sue campagne (poi diventate anche spettacoli teatrali) in favore delle donne di San Luca, è stata condannata a quattro anni di carcere per aver fatto un uso «personale» dei fondi destinati al movimento. Anziché utilizzare i soldi ricevuti per creare opportunità sociali e lavorative per le donne nel piccolo paese reggino da sempre nella morsa della ‘ndrangheta, con quei quattrini la Canale avrebbe comprato due macchine, una per sé e una per la figlia, e prenotato vacanze. Quando la madre le dice al telefono «Figlia mia, stai attenta a come spendi quei soldi, non sono tuoi ma dell’associazione», Rosy Canale risponde «Me ne fotto». Nell’ordinanza di custodia cautelare, il giudice scrive: «Fa certo riflettere che persone che si presentano come paladini della giustizia finiscano con l’utilizzare scientemente l’antimafia per malversazioni di denaro pubblico e vere e proprie attività fraudolente. Non controllare simili ambiti del sociale è forse peggio che rimanere scarsamente attivi nel contrasto alla criminalità mafiosa». Ma non è l’unico caso. A Reggio Calabria, i magistrati stanno indagando anche sulle spese di Claudio La Camera, fondatore e per molto tempo anche presidente dell’associazione Antigone-Museo della ‘ndrangheta, e in quanto tale destinatario tra il 2007 e il 2012 di circa 800mila di euro di finanziamenti pubblici. Secondo gli inquirenti questi soldi sarebbero finiti a finanziare progetti e spese private. Comprese mollette per il bucato, oggetti di modellismo e un pollo di gomma per cani. Con La Camera sono finiti sul banco degli indagati anche i dirigenti regionali, compreso l’ex governatore Giuseppe Scopelliti, e gli assessori della sua giunta, che hanno firmato le delibere con cui sono stati elargiti i soldi pubblici. Lo scorso febbraio, poi, il Corriere della Calabria ha spulciato tra i conti del Coordinamento nazionale Riferimenti, nota associazione calabrese guidata da Adriana Musella, figlia di Gennaro, l’ingegnere salernitano saltato in aria a Reggio Calabria nel maggio del 1982 insieme alla sua auto. Tra soldi pubblici e donazioni private, solo nel 2011 nelle casse dell’organizzazione promotrice del simbolo della gerbera gialla sarebbero entrati oltre 270mila euro. Dalle carte, secondo quanto riporta il giornale calabrese, emergerebbero acquisti di magliette in numero spropositato, fiori costati migliaia di euro, compensi a figli e parenti, rimborsi per viaggi, alberghi e ristoranti, spese in cellulari, ma soprattutto poche attività sul territorio, se non qualche convegno istituzionale sulla ‘ndrangheta e una “settimana bianca dell’antimafia” a Folgaria, in Trentino. La presidente ha smentito tutto e minacciato querele, ma alla richiesta de Linkiesta di consultare i bilanci, l’associazione non ha risposto. Anche la Corte dei conti più di una volta ha messo il naso nei conti dell’antimafia, denunciandone la scarsa trasparenza. Solo a Napoli, da gennaio 2014 i giudici contabili stanno passando al vaglio l’assegnazione, definita «arbitraria», di oltre 13 milioni fondi pubblici a favore di un gruppo di associazioni antiracket che sarebbero state privilegiate a discapito di altre. Quando la madre le dice al telefono «Figlia mia, stai attenta a come spendi quei soldi, non sono tuoi ma dell’associazione», Rosy Canale risponde «Me ne fotto». L’altro tesoretto dell’antimafia sono i beni sequestrati ai boss. Un pacchetto di 10.500 immobili in tutta Italia e circa un migliaio di aziende, che fa gola a molti. E il cui recupero e ridestinazione, una volta confiscati, è un processo costellato di opacità. Dai fondi Pon è arrivata anche la somma che sta finanziando il nuovo cervellone informatico dell’Agenzia nazionale dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata: un sistema da 13 milioni di euro che inizia a mostrare le crepe nel processo di gestione dei beni. Anzitutto, non si conosce il valore economico di case e aziende appartenute ai malavitosi. Un dato su cui, fanno sapere dal ministero della Giustizia, si è in cerca «di una soluzione». La pubblica amministrazione, da parte sua, sconta molte opacità nella gestione, o quantomeno nella comunicazione dell’uso reale di questi beni da parte dei comuni. Il ministero della Giustizia se ne lamenta nella relazione che ha presentato al Parlamento lo scorso febbraio. Basta dare un occhio ai numeri: su 552 beni destinati a finalità istituzionali, ben 293 sono stati classificati dagli enti locali come “altro”, nonostante una nutrita possibilità di scelta da ambiti che spaziano dalle emergenze abitative agli uffici comunali, passando per scuole, infrastrutture, uffici giudiziari e perfino canili. Un deficit di trasparenza che rende complicato comprendere il vero ruolo che questi beni ricoprano una volta finiti sotto il controllo degli enti ocali. D’altronde, proprio il 12 maggio, i Carabinieri di Licata hanno sequestrato un terreno confiscato alla mafia e assegnato da anni allo stesso Comune: sul terreno erano stati abbandonati rifiuti speciali. Senza dimenticare che i beni confiscati spesso e volentieri restano pure nelle mani boss. Secondo un’indagine a campione della Direzione investigativa antimafia (Dia), più di 1.300 immobili confiscati in via definitiva risultano occupati. In trecento di queste case abita ancora il mafioso o la sua famiglia. Per non parlare dell’inchiesta che coinvolge Silvana Saguto, ex presidente della sezione delle misure di prevenzione del tribunale di Palermo, quella che si occupa di nominare gli amministratori giudiziari delle aziende confiscate. Dalle mani del magistrato, per anni simbolo della buona gestione, negli anni sarebbero passati beni tra i 40 e 60 miliardi di euro. Secondo la procura di Caltanissetta, la Saguto però avrebbe attuato una «gestione a uso privato dei patrimoni sotto sequestro», affidandoli al solito giro di amministratori vicini. Compreso il marito. Una vicenda che tra l’altro ha fatto emergere un’altra falla nel sistema: il fantasma dell’albo degli amministratori giudiziari dei beni confiscati alla mafia, istituito nel 2009 e di fatto mai entrato a regime. Secondo la procura di Caltanissetta, il magistrato Silvana Saguto avrebbe attuato una «gestione a uso privato dei patrimoni sotto sequestro», affidandoli al solito giro di amministratori vicini, compreso il marito. Fino a qualche tempo fa, però, non si andava oltre la punzecchiatura. Associazioni più o meno grandi e piccole, in lizza per accaparrarsi finanziamenti e beni confiscati, si colpivano a vicenda. Poi le schermaglie politico-economiche e le accuse di veri e propri cartelli per la gestione dei beni e la destinazione di fondi sono arrivate anche nel campo dell’antimafia. E a inizio anno sono scesi in campo i pesi massimi della lotta al crimine organizzato, in toga e non. Nel novembre 2015 Franco La Torre, figlio di Pio La Torre, all’assemblea di Libera aveva fatto notare l’assenza di posizioni dell’associazione su “Mafia Capitale” e soprattutto sulle indagini che avevano coinvolto il presidente regionale di Confindustria Sicilia, Antonello Montante, ex paladino dell’antimafia indagato per concorso esterno in associazione mafiosa, e il magistrato Silvana Saguto. Poi a gennaio La Torre viene «cacciato con un sms». «Se don Luigi Ciotti (fondatore di Libera, ndr) non la pensa come me, allora», specificava La Torre, «dobbiamo confrontarci, anche litigando se necessario, ma il confronto diretto è fondamentale per la democrazia». Un confronto che non è mai arrivato. A inizio anno ha rincarato la dose il pm di Napoli Catello Maresca. In un’intervista rilasciata a Panorama parlò di «monopolio» di Libera sulla gestione dei beni confiscati. Don Luigi Ciotti non la prese bene: «Noi questo signore lo denunciamo: le sue dichiarazioni a Panorama sono sconcertanti», disse. «È in atto una semplificazione che vuole demolire il percorso di Libera con la menzogna». D’altronde che l’associazione di don Ciotti, nata nell’ormai lontano 1995 abbia fatto il pieno dei beni confiscati non è un mistero. Il conto aggregato di tutte le associazioni “figlie” di Libera, in tutto sei, tocca i 10 milioni di euro, e una gran parte dei beni e dei terreni confiscati sono finiti a cooperative affiliate. La difesa di Libera è arrivata in una delle prime audizioni del ciclo che la commissione parlamentare antimafia ha dedicato, sembra quasi un paradosso, al tema dell’antimafia: «Libera non gestisce le cooperative, ma le promuove». Cooperative e sponsor che non sempre sono stati irreprensibili. Un caso su tutti, che mostra un gigantismo difficile da gestire, è stata la vicinanza della Cpl Concordia, che nel luglio 2015 ha visto il presidente finire in manette in seguito a un’inchiesta proprio della Dda partenopea. E la mafia non se ne sta a guardare, mentre i quattrini dell’antimafia circolano indisturbati per costruire campetti da calcio, ristrutturare ville e organizzare convegni. Ci sono associazioni che, spenti i riflettori, fanno affari con le cosche. E politici che la sera sfilano in nome dell’antimafia e il mattino dopo stringono accordi elettorali con le ‘ndrine. Come l’ex sindaco di San Luca, Sebastiano Giorgi, paladino della lotta alle cosche che sarebbe stato eletto proprio con i voti della ‘ndrangheta. Lo racconta anche il pentito Luigi Bonaventura: «La ‘ndrangheta studia a tavolino, in modo scientifico, la possibilità di creare o avvicinare le associazioni antimafia esistenti per continuare i propri interessi. È una strategia». Lo stesso senatore Pd Stefano Esposito, membro della Commissione antimafia, nella sua relazione sulla presenza della criminalità a Ostia ha parlato di «sedicenti associazioni antimafia» i cui «membri sono quantomeno sospetti nel loro modo di svolgere l’attività». Con «modalità operative simili, nei modi e nei comportamenti, alle famiglie malavitose»».

Vediamo per favore le voci d'incasso. Una per una?

«I PON SCUOLA. Punto forte del proselitismo antimafioso di sistema. Il regime elargisce fondi per far parlare, nelle aule ai ragazzi ingenui, oratori omologati e conformati. L’antimafiosità non si può permettere di inculcare nei giovani la verità sullo stato delle cose e farli evolvere nel futuro. Per gli “onesti” di sinistra bisogna crescere automi, affinchè ideologie vetuste siano sempre contemporanee. Quanto costa la scuola d'antimafia. I finanziamenti del ministero, scrive Salvo Toscano Giovedì 16 Giugno 2016 su Live Sicilia. Follow the money, diceva Gola Profonda in Tutti gli uomini del Presidente. Segui i soldi, una lezione che i grandi investigatori in prima linea contro la mafia fecero propria tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta, per infliggere colpi durissimi ai boss. Oggi, quasi per un beffardo contrappasso, il tema del “seguire i soldi” torna d'attualità, tra le polemiche, quando si parla d'antimafia. Soldi, tanti soldi piovuti su un sottobosco variopinto che sotto diverse forme ha beneficiato di un ingente flusso di denaro pubblico. Stanziato di certo con le migliori intenzioni. Un tema, quello della “antimafia spa”, di cui s'è parlato non solo nei commenti e negli editoriali che predicano il ritorno all'antimafia “scalza” (la definizione è di Claudio Fava), ma anche nelle sedi istituzionali. La commissione Antimafia dell'Ars, ad esempio, ha avviato un'indagine sui contributi statali, regionali ed europei incassati dalle associazioni antiracket e antiusura in questi anni per capirne meglio l'utilizzo. Un'indagine “per verificare i contributi pubblici percepiti, il fatturato delle aziende confiscate gestite e l'utilizzo dei fondi del Pon sicurezza” che è ancora alle prime battute, spiega il presidente Nello Musumeci. Ma anche l'Antimafia nazionale ha affrontato il tema. La commissione parlamentare presieduta da Rosy Bindi da tempo ha avviato una serie di audizioni per scandagliare il variegato mondo dell'antimafia. Tra le altre audizioni quella del giornalista Attilio Bolzoni, che, sentito dai commissari di San Macuto, dopo essersi a lungo soffermato sulla Confindustria siciliana analizzando criticamente la sua svolta “legalitaria”, ha allargato il discorso al “mondo associativo e all'antimafia sociale”, che “sopravvive fra liturgie e litanie e soprattutto grazie a un fiume di denaro – diceva Bolzoni ai commissari –. Tutto ciò che conquista lo status di antimafia certificata si trasforma in milioni o in decine di milioni di euro, in finanziamenti considerevoli a federazioni antiracket, in uno spargimento di risorse economiche senza precedenti e nel più assoluto arbitrio”. Lo “spargimento di risorse economiche” passa, spiegava il giornalista, anzitutto dai Pon, i Programmi Operativi Nazionali di sicurezza del Ministero dell'interno. E poi dal Ministero dell'istruzione, che, ha “distribuito milioni e forse anche decine di milioni a scuola e che poi smistava quelle somme ad associazioni sul territorio sulla base di legami e patti”, diceva Bolzoni. Proprio quell'audizione ha spinto il Ministero dell'Istruzione a rispondere con una dettagliata missiva inviata alla Commissione Antimafia dal direttore generale Giovanna Boda, in cui veniva descritta nel dettaglio l'attività di sostegno economico a iniziative per diffondere la cultura della legalità nelle scuole. Tanta roba, più di quattro milioni all'anno. Destinati a iniziative di grande respiro come le commemorazioni del 23 maggio ma anche a piccoli progetti portati avanti dalle scuole. Somme che sono però poca cosa rispetto alle più ingenti risorse gestite con analoghe finalità dal ministero dell'Interno, tra le quali, appunto, quelle del Pon Legalità che per la programmazione 2014-2020 ha una dotazione di 377 milioni. Insomma, tra Roma e Palermo l'Antimafia istituzionale vuole vederci chiaro sull'ombra del business che si è affacciata sull'antimafia dei movimenti, una galassia che in questi anni è cresciuta a dismisura, assumendo in certi casi le sembianze della holding, dell'ufficio di collocamento o magari della claque per l'icona del momento. La prima puntata del viaggio nel mondo del denaro destinato all'antimafia parte quindi proprio dal Ministero dell'Istruzione, che sul tema offre tempestivamente informazioni precise e molto dettagliate. E utili a evitare generalizzazioni. I soldi alle scuole. In totale per l'anno scolastico appena concluso il Ministero della Pubblica Istruzione ha stanziato più di quattro milioni. Di questi, 3,4 milioni sono stati erogati attraverso un bando pubblico per il finanziamento di 1.139 progetti educativi sul tema della promozione della cittadinanza attiva e della legalità realizzati su tutto il territorio nazionale. La media degli stanziamenti quindi è di circa 3mila euro per progetto. L'anno precedente per questa stessa voce c'era ancora di più: 4 milioni e 200mila euro. La parte del leone la fanno le scuole siciliane che quest'anno si sono accaparrate più del 16 per cento delle risorse disponibili (seconda la Campania). I soldi vanno alle scuole che a loro volta li utilizzano per le attività finalizzate a diffondere la cultura della legalità, che magari coinvolgono vari attori del territorio – è qui che possono entrare in scena varie associazioni antimafia, antiracket e via discorrendo –, sotto il monitoraggio e il controllo del Miur. I progetti sono i più svariati e riguardano argomenti legati alla promozione della legalità con il coinvolgimento degli studenti. Le stesse scuole possono attingere a loro volta, oltre che ai fondi del Miur, anche a finanziamenti di altri ministeri (come il Viminale) o regionali o degli enti locali (per quelli che ancora hanno qualche spicciolo da spendere). I bandi. A questi 3 milioni e mezzo si aggiungevano nel 2015 altri 840mila euro che attingono a un altro capitolo di bilancio. Di questi, 100 mila euro hanno finanziato un altro bando pubblico per sostenere attività in accordo con associazioni impegnate sul campo dell’educazione alla legalità in tutta Italia, assegnando a ciascuna delle realtà selezionate piccoli stanziamenti compresi tra i quattro e i settemila euro. Tra i beneficiari le fondazioni Rocco Chinnici e La Città Invisibile (7.200 euro per creare un'orchestra che coinvolge i bambini delle aree a rischio dell'hinterland catanese), l'Auser di Augusta e l'Acmos (7.470 euro per attivare laboratori didattici sul gioco d'azzardo all'interno di beni confiscati). I restanti 740 mila euro di questa voce (“Spese per iniziative finalizzate a promuovere la partecipazione delle famiglie e degli alunni alla vita scolastica. Spese per il sostegno del volontariato sociale”) vanno alle attività di interesse nazionale organizzate dalla Fondazione Falcone (490mila euro) e Associazione Libera (250). Queste le cifre del 2015, quest'anno il contributo alla Fondazione Falcone è sceso a 400mila euro e quello a Libera a 150mila euro. I protocolli d'intesa. Le somme impegnate dal ministero per le attività realizzate insieme a Fondazione Falcone e Libera (740mila euro nel 2015, 550mila nel 2016) sono stanziate in base alle convenzioni che danno attuazione ai protocolli d'intesa sottoscritto dal Miur con questi due soggetti. La convenzione con Libera, l'associazione fondata da don Luigi Ciotti, finanzia la Giornata della Memoria delle vittime delle mafie, che si celebra ogni anno in una città diversa il 21 marzo con partecipazioni da tutta Italia e la presenza di migliaia di studenti. I fondi per la Fondazione Falcone finanziano le iniziative del 23 maggio e gli altri eventi analoghi organizzati per tenere viva la memoria del magistrato ucciso a Capaci (quest'anno oltre a Palermo erano coinvolte altre sei “piazze” in Italia). “Facile dunque comprendere che non si tratta di generose elargizioni a favore di Associazioni che non hanno alcun obbligo di rendicontazione”, ha scritto al riguardo il Ministero alla Commissione Antimafia. “Come vengono dunque spesi i soldi? Per assicurare l’organizzazione, la sicurezza, il ristoro di tutti i partecipanti – si legge nel documento del Miur –. Se si calcola quindi circa 20.000 partecipanti (per il 23 maggio, ndr) lo stanziamento prevede un costo persona pari a circa 25 euro (analogo il costo per persona per l'iniziativa di Libera, ndr) che devono coprire rimborsi spese, pranzo e merenda, allestimenti stand, palchi, sicurezza, stampe, eccetera”. Le manifestazioni del 23 maggio hanno coinvolto negli anni decine di migliaia di studenti italiani avvicinando generazioni alla conoscenza dei valori incarnati da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. “Abbiamo cercato di portare avanti un movimento culturale che coinvolga tutti i giovani d'Italia – spiega Maria Falcone, sorella di Giovanni e da sempre anima della Fondazione - per portare avanti i valori nei quali hanno creduto Giovanni, Francesca, Paolo. Ai ragazzi il messaggio della legalità arriva più forte grazie all'accostamento di queste figure. E il ministero ha sempre creduto in questo lavoro, a prescindere dal colore politico”. E lo stesso ministero ricorda nel documento sopra citato come Falcone e Borsellino si fossero espressi sulla sfida “culturale” che la mafia impone alla società. Le altre attività nelle scuole. Il ministero della Pubblica Istruzione, inoltre, realizza altre attività per diffondere la cultura della legalità nelle scuole in forza di convenzioni sottoscritte con vari soggetti, dal Csm all'Autorità Anticorruzione, dalla Federazione Nazionale della Stampa all'Anm. Sulla base di queste carte d'intenti, gli esperti dei partner del ministero vanno gratuitamente nelle scuole per parlare agli studenti di legalità. Anche le convenzioni possono avere dei costi: il Miur nella sua lettera all'antimafia allega a titolo d'esempio la convenzione con l'Università di Pisa per la realizzazione di un “piccolo Atlante della Corruzione”, progetto che ha un costo di 35mila euro.

I PON SICUREZZA. La pioggia di milioni sull'Antimafia. Ecco i fondi del Pon Sicurezza, scrive Domenica 17 Luglio 2016 Salvo Toscano su "Live Sicilia". Seconda puntata del viaggio sui finanziamenti destinati all'antimafia. La fetta più grossa è quella gestita dal ministero dell'Interno. Una valanga di soldi. Che innaffiano il prato sempre verde dell'antimafia. Un campo diventato ricco negli ultimi anni. Grazie a diverse fonti di finanziamento. Tra le quali spiccano le ingenti risorse del Pon sicurezza gestito dal ministero dell'Interno. Che in questi anni ha finanziato con quelle somme, oltre a diversi interventi per potenziare la sicurezza del territorio, anche, indirettamente, la galassia dell'antimafia organizzata, quella dell'associazionismo. Con le ingenti risorse del Pon, infatti, oltre a campetti da calcio e piscine, si sono finanziate iniziative legate all'utilizzo dei beni confiscati, vini, cartoni animati, botteghe della legalità, fiere. Un mese fa avevamo intrapreso il viaggio nel vasto mondo dei soldi dell'antimafia partendo da quelli erogati dal ministero dell'Istruzione. La seconda puntata si affaccia ora su risorse ben più cospicue. Quelle, saldamente nelle mani del ministero dell'Interno guidato da Angelino Alfano, del Programma Operativo Nazionale per la Sicurezza. Per il quale è in rampa di lancio la nuova programmazione settennale. Per questa nuova tornata in ballo ci sono 377 milioni di euro. A tanto ammonta la dotazione del Pon Legalità 2014/2020, che è stato presentato nel marzo scorso. Un tesoro che sarà gestito dal Viminale. Così come quello ancora più cospicuo della precedente programmazione. Ottenere informazioni dal ministero dell'Interno sul tema non è stato facile. Sono state necessarie un paio di email, altrettante telefonate e una lunga attesa per riuscire a sapere, alla fine, dall'ufficio stampa che le informazioni sul Pon si possono trovare sul sito Internet del Pon (sicurezzasud.it). Punto. Un flusso di informazioni menofluido rispetto al ministero dell'Istruzione che ha messo tempestivamente a disposizione di Livesicilia in tempi stretti tutti i dettagli delle somme stanziate per le iniziative su legalità e antimafia che coinvolgono gli studenti (leggi l'inchiesta). Per le ben più abbondanti somme gestite dagli Interni, che hanno distribuito a soggetti istituzionali una pioggia di finanziamenti destinati anche al variegato universo delle sigle "legalitarie" e antimafia, bisogna quindi districarsi tra i tanti documenti pubblicati sul ricco sito Internet del Pon Legalità 2007-2013. Il programma ha portato in dote per Calabria, Campania, Puglia, Sicilia addirittura 852 milioni, tra fondi europei e nazionali. L'ultimo rapporto annuale di esecuzione pubblicato è quello relativo al 2013. Al 31 dicembre di quell'anno il totale delle spese ammissibili certificate sostenute dai beneficiari del Programma, che sono tutti soggetti istituzionali, ammontava a poco meno di 500 milioni, che corrispondono al 58% della dotazione finanziaria complessiva. Gli ultimi rilevamenti della scorsa primavera, scriveva a marzo il Sole24Ore, davano gli impegni di spesa all'86,3 per cento, un po' indietro rispetto alla media dei fondi strutturali. I fondi sono destinati a finanziare una serie di voci legate alla legalità, tra cui anche quelle che mirano a tutelare la sicurezza dei cittadini o quelle che puntano a “realizzare iniziative in materia di impatto migratorio” (ad esempio a Ragusa a marzo di quest'anno sono partite le attività all’interno del Centro Polifunzionale d’informazione e servizi per migranti finanziato dal Pon con un importo di 1.950.000 euro) o ancora quelle rivolte ai giovani per diffondere la cultura legalità. Per questa voce, ad esempio, è stato varato negli scorsi anni un programma specifico rivolto alla Sicilia con un milione e mezzo a disposizione, che ha finanziato tra l'altro il progetto “In campo per la legalità” per creare un cento di aggregazione giovanile a Catania (oltre 800mila euro l'investimento), due centri analoghi sui Nebrodi a Torrenova e San Fratello (nel locale che ospita la biblioteca intitolata al nonno di Bettino Craxi), la manutenzione straordinaria di un campo polifunzionale e della piscina comunale di Racalmuto (372mila euro, l'impianto non è ancora entrato in attività) e nello stesso comune dell'Agrigentino la “valorizzazione e ampliamento della capacità ricettiva del teatro comunale "Regina Margherita" (intervento effettuato ma il teatro ancora non funziona perché mancano una serie di misure sulla sicurezza della struttura). Tra le attività realizzate nel 2012 il rapporto mette in evidenza la partecipazione ai campi estivi nei beni confiscati di Libera, la partecipazione al Prix Italia, la partecipazione con uno stand alle celebrazioni del 23 maggio a Palermo. Sempre nel 2012 è stato finanziato con poco meno di 100mila euro un progetto per dare vita a un centro di aggregazione giovanile a Lentini (Siracusa) per contrastare fenomeni di dipendenza. Tra i beneficiari istituzionali dei finanziamenti c'è l’Ufficio del Commissario straordinario antiusura ed antiracket, che sostiene la galassia di associazioni antipizzo proliferate negli ultimi anni in giro per l'Italia. Sul sito del Viminale l'ufficio del Commissario antiracket ne accredita 120, e quasi la metà ha sede in Sicilia. Una per esempio ha visto la luce nel 2014 a Castelvetrano, in provincia di Trapani, nel paese d’origine di Matteo Messina Denaro. Un battesimo sostenuto dal Pon attingendo alle ricchissime risorse messe a disposizione per questo genere di iniziative. Nel giorno del battesimo dell'associazione di Castelvetrano ne nasceva un'altra a Ragusa e pochi mesi prima ne erano sorte altre due, a Vittoria e Niscemi. Per il solo progetto “Consumo critico antiracket: diffusione e consolidamento di un circuito di economia fondato sulla legalità e lo sviluppo” c'è un tesoretto da un milione e mezzo: beneficiario è l’Ufficio del Commissario straordinario del governo per il coordinamento delle iniziative antiracket e antiusura in partenariato con l’associazione Addiopizzo. È attingendo a questi fondi ad esempio che si finanzia la Fiera del consumo critico di Palermo. Ma gli interventi finanziati nell'ambito del Pon spaziano da quelle relative al vino prodotto sui beni confiscati e gestiti da Libera Terra alla coproduzione di un cartoon sulla vita di Padre Puglisi. E ancora al riutilizzo dei beni confiscati. Come quello nel centro storico di Corleone un tempo appartenente alla famiglia Provenzano in cui nel 2010 è stata inaugurata la Bottega della Legalità, dove commerciare i prodotti delle cooperative che lavorano nei terreni confiscati alla mafia. Per l'inaugurazione si fecero vedere a Corleone i ministri Alfano e Maroni, vertici delle forze dell'ordine, sottosegretari e l'immancabile Don Ciotti. Ora si apre la stagione dei nuovi fondi. La prima dopo la crisi d'immagine dell'antimafia organizzata, che proprio sull'utilizzo dei ricchi fondi di cui ha beneficiato ha collezionato pagine imbarazzanti. Tanto da attrarre su di sè l'attenzione delle commissioni Antimafia di Roma e Palermo.

Hanno il monopolio e dettano legge. Le ultime parole famose. Parla il leader della Fai: "La normativa per costituirle non va bene". Il Commissario straordinario: "Alcune non ci convincono. C'è chi ci marcia". Antiracket, rischi truffe per le associazioni. Grasso: "I controlli sono insufficienti", scrive Francesco Viviano l'1 novembre 2007 su "La Repubblica". "Alcune associazioni antiracket non ci convincono molto e sono sotto osservazione". La traduzione di questa affermazione, fatta dal Prefetto Raffaele Lauro, Commissario straordinario del Governo per il coordinamento delle iniziative antiracket ed antiusura, è che attorno ad alcune di queste associazioni "c'è chi ci marcia". Perché il business è davvero grosso. Basti pensare che tra gennaio ed agosto scorso il Commissario straordinario antiracket ha erogato 17 milioni e 431 mila euro per le vittime dell'usura e del racket. Ma c'è un altro dato che fa riflettere. Sempre da gennaio ad agosto scorso, più della metà delle domande presentate da "vittime" del racket e dell'usura, sono state respinte. Su 214 richieste, 111 hanno avuto risposta negativa. Non solo ma alcune associazioni antiracket sono nel mirino delle magistratura. Un esempio per tutti, quella di Caltanissetta il cui presidente, Mario Rino Biancheri si è dovuto dimettere per un ammanco di 100 mila euro dalle casse dell'associazione. E la Procura ha avviato un'indagine indagando Mario Rino Biancheri. Il boss Antonino Rotolo, per esempio, nelle conversazioni intercettate dalla polizia, suggeriva ad un estorto di iscriversi all'antiracket così non avrebbe avuto problemi. 

Tano Grasso, che sta succedendo dentro e fuori le associazioni antiracket? I fondi fanno gola a molti e qualcuno ci specula sopra. E' così? 

"Il punto è che è inadeguata la normativa per il riconoscimento delle associazioni; oggi la norma prevede che cinque o sei persone si mettono assieme e fanno un'associazione purché non abbiano precedenti penali e chiedono il riconoscimento in prefettura". 

Qual è il ruolo delle associazioni e quali "vantaggi" hanno? 

"Nel sud Italia sono 80, complessivamente circa 200 e chi ottiene il riconoscimento viene iscritto nell'albo prefettizio e questo consente di accedere a dei fondi per iniziative e progetti. Però il problema è che l'associazione antiracket è una cosa delicatissima perché è una struttura che dovrebbe gestire la speranza e la sicurezza delle persone perché sono nate per garantire la sicurezza. Tutti quelli che hanno denunciato non hanno mai subito un atto di rappresaglia". 

Ma, come teme il prefetto Lauro, c'è qualcosa che non va in alcune associazioni? 

"Ripeto, la norma per la loro costituzione è assolutamente inadeguata, non basta un controllo formale sui requisiti personali, un'associazione ha senso solo se tu muovi le denunce, li accompagni dalle forze dell'Ordine e li assisti in tribunale". 

Invece? 

"Io posso parlare per quelle che aderiscono alla Fai (Federazione Antiracket Italiane) di altre non so anche se ho sentito dire che alcune associazioni, almeno fino ad ora, si occupano di fare convegni ed altre attività... Bisogna vedere cosa fanno le associazioni, quante costituzioni di parte civile hanno fatto, quante persone hanno fatto denunciare. Sono elementi di valutazione importantissime". 

Ci sono associazioni che fanno pagare un po' troppo l'iscrizione agli associati, alle vittime del racket, alcune anche 400 euro. 

"Le associazioni che aderiscono alla Fai sono composte tutte di volontari e le nostre fanno pagare quote veramente minime, dai 10 ai 30 euro ma tutti i servizi sono gratis e molte nostre associazioni non navigano certo nell'oro. La Fai, per esempio, ha un bilancio di 5-6 mila euro l'anno". 

Il rischio della truffa c'è? Ci sono vittime od associazioni che non sono del tutto trasparenti? Il numero delle richieste di risarcimento da parte di presunte vittime che è stato respinto dal Commissario per l'Antiracket è superiore di quelle accolte. Questo lascia pensare che non tutto è perfettamente in regola. 

"Il rischio della truffa potrebbe esserci ma il controllo, e lo dimostrano appunto le richieste di risarcimento respinte, è minimo". 

Ma la realtà è un'altra. Palermo, un audio scuote i 5 stelle: "Forello dettava legge sui soldi di Addiopizzo". Un ex socio del comitato racconta a Nuti e ad altri deputati di parcelle e affari. La registrazione finisce sul web. L'ira del candidato: "Solo falsità", scrivono Emanuele Lauria e Claudio Reale l'8 maggio 2017 su "La Repubblica". Un audio di trenta minuti che mette in circolo nuovi veleni nella campagna elettorale dei 5 stelle. Viene rilanciato da alcuni profili Twitter, finisce su YouTube, riaffiora in un numero imprecisato di punti dell’universo del web. Dentro, ci sono accuse pesanti nei confronti del candidato sindaco Ugo Forello e del suo modo di gestire Addiopizzo, l’associazione da lui presieduta sino all’anno scorso. C’è il racconto della vita di una delle organizzazioni antimafia più attive, fatto da un insider, da un ex socio fuoriuscito con altre 18 persone nel 2009. A parlare è Andrea Cottone, attuale componente dello staff della comunicazione di M5S alla Camera. E attorno a lui, in una stanza di Montecitorio, ci sono Riccardo Nuti e i deputati palermitani a lui vicini. Siamo nel luglio del 2016, i cosiddetti “monaci” sono già in allarme per la possibile candidatura di Forello. E chiedono a Cottone dettagli (e documenti) sull’attività dell’avvocato leader di Addiopizzo. Il giornalista è puntiglioso. Parla dell’influenza che, nella fase iniziale, sul movimento avrebbe esercitato l’ex commissario antiracket Tano Grasso ("Un fantasma che muove tutte queste persone"), parla soprattutto dei compensi che Forello e un paio di legali a lui vicini avrebbero percepito nei processi innescati dalle testimonianze degli imprenditori taglieggiati. Parla di "un circuito meraviglioso" per il quale "si convincono gli imprenditori a denunciare, si portano in questura e gli avvocati diventano automaticamente uno fra Forello e Salvatore Caradonna". Poi Addiopizzo si costituisce parte civile "e viene difesa da quell’altro". Poi come parte civile i vertici dell’associazione chiedono i rimborsi "e se li liquidano loro stessi". "Geniale", commenta la deputata Chiara Di Benedetto. Gli altri deputati annuiscono, mostrano di trovare conferma ai loro sospetti. Al centro di quello che sembra una specie di interrogatorio di Cottone da parte dei parlamentari finisce anche la gestione definita “poco trasparente” dei fondi (un milione di euro) del Pon Sicurezza. E quel presunto conflitto di interessi degli esponenti di Addiopizzo, presenti sia nel comitato del ministero degli Interni che gestisce il fondo per i risarcimenti agli imprenditori estorti sia appunto nei collegi difensivi degli imprenditori stessi: una doppia presenza che era già stata avvistata in commissione antimafia nel 2014 e che farà poco più avanti parte di una denuncia pubblica del deputato Francesco D’Uva. "Nessuno ha pensato di denunciare queste cose? Perché Addiopizzo non si può toccare", dice Giulia Di Vita. Il clima, fra i “nutiani” è di insofferenza crescente. E diventa rovente con la considerazione che gli esponenti di Addiopizzo avevano nel frattempo invaso M5S: "Noi rappresentiamo un involucro da riempire", commenta Nuti. E quasi con sorpresa, durante il dibattito, i deputati “scoprono” di avere molti rappresentanti di Addiopizzo nei propri staff. "È un fatto molto grave", ancora Nuti. "Siamo stati scalati", fa notare Cottone. L’ex capogruppo si mostra preoccupato per il fatto che, di lì a poco, l’assemblea dei grillini palermitani avrebbe scelto Forello o uno del suo gruppo come candidato sindaco. Ecco l’invito a Grillo a intervenire per bloccare l’assemblea e procedere invece con il voto online. La situazione sarebbe esplosa in autunno, con il caso delle firme false, l’inchiesta e le sospensioni di Nuti, Di Vita e Claudia Mannino. La campagna elettorale di M5S è partita con un movimento spaccato. Ora, qualcuno, ha messo in rete l’audio che imbarazza Forello e il suo gruppo. Chi l’ha registrato? Chi l’ha diffuso? La seconda domanda ha una risposta: fra coloro che l’hanno pubblicato c’è Alessandro Ventimiglia, iscritto al meet-up “Il Grillo di Palermo”, storica roccaforte dei “monaci”. Ieri la notizia della registrazione aleggiava sull’iniziativa di Forello per lanciare i candidati nelle circoscrizioni. A margine della kermesse, il candidato sindaco sbotta: «Un mucchio di falsità». Valerio D’Antoni, uno degli avvocati di Addiopizzo, entra più nel merito: "Pur avendo ottenuto il riconoscimento del risarcimento, Addiopizzo non ha mai incassato un euro. È stata riconosciuta solo la compensazione delle spese legali, stabilita dalle sentenze". Solo bugie, insinuazioni, mascariamenti? Di certo per i 5 stelle è un’altra grana in piena campagna elettorale.

Antiracket, i conti non tornano, scrive Arnaldo Capezzuto il 19 gennaio 2014 su "Il Fatto Quotidiano". Progetti teleguidati. Bandi sartoriali. Contratti di lavoro per gli amici. Incarichi solo su segnalazione. Consulenze a compagni di merenda. Assegnazione di fondi e finanziamenti pubblici su preciso mandato. Creazione di scatole vuote per l’affidamento e poi il propedeutico assegnazione dei beni confiscati. Centri studi che non si sa cosa studino. Strani consorzi. Associazioni di associazioni. Federazioni di associazioni. Cooperative di associazioni. E’ proprio un vero e proprio guazzabuglio il variegato mondo dei professionisti dell’anticamorra. Per non parlare di sportelli e sportellini, vacue campagne di sensibilizzazione come sagre di paese e poi i dibattiti a chili, le iniziative, gli anniversari con lacrime incorporate, l’editoria di promozione, le segreterie organizzative, gli uffici e le tante sedi distaccate. E’ chiaro che la trasparenza è un termine sconosciuto nel mondo dei professionisti della legalità. Mai e dico mai troverete in questa giungla uno straccio di bilancio, di nota spese, di un computo analitico sulle entrate e uscite, un rendiconto dei contributi pubblici. Impossibile trovarne traccia. Non si conoscono i criteri di come si utilizzino i denari dell’anticamorra. Tutto è nascosto, tutto è segreto, tutto è gestito nell’ombra. Accade a Napoli ma è come dire Italia.

Non è la prima volta e non sarà l’ultima che la Corte dei Conti di Napoli, ovvero i giudici contabili, stigmatizzano questo modus operandi o quanto meno una pratica alquanto disinvolta nell’affollato mondo dei professionisti della legalità. I giudici – a più riprese- vagliando corpose documentazioni con atti formali chiedono, interrogano, dispongono approfondimenti, delucidazioni alle pubbliche amministrazioni quali erogatori: dalla Ue, ai Ministeri, alla Regione, alla Provincia, ai Comuni. Capita spesso che i giudici della Corte dei Conti debbano smascherare consulenze ad personam accordate a Tizio, Caio e Sempronio accreditati come esperti di “Camorrologia” come puro scambio di favori. Gli importi sono fissati da un prezzario segretamente in vigore, i zeri sono svariati. Prendo spunto dall’ultimo accertamento della Corte dei Conti di Napoli, di cui ha dato notizia solo Corriere.it. Nel mirino dei giudici partenopei è finito il mondo dell’antiracket e dell’usura. Mi sembra che dopo i casi clamorosi di Rosy Canale e dell’ex sindaco di Isola Capo Rizzuto Carolina Girasole mi sembra – a naso – davvero di trovarci di fronte ad un’altra storiaccia. Al centro delle indagini sono finiti i Pon-Sicurezza cioè il Programma Operativo Nazionale finanziato dalla Comunità Europea per contrastare gli ostacoli allo sviluppo del nostro Mezzogiorno. Pare che il F.A.I. (Federazione delle Associazioni Antiracket e Antiusura), che raggruppa una cinquantina di associazioni antiracket e facente capo a Tano Grasso abbia ottenuto finanziamenti per 7 milioni di euro. Una cifra – secondo le indagini – sproporzionata in considerazione delle tante realtà operanti in Italia e che si occupano da anni di lotta al racket e all’usura. Il sospetto è che l’iter per l’assegnazione di questa pioggia di denaro pubblico non sia stata molto trasparente. La Corte dei Conti di Napoli insomma sospetta un illecito amministrativo che avrebbe provocato un danno erariale. Gli accertamenti sono stati avviati grazie all’esposto della “Lega per la Legalità” ed “S.O.S. Impresa” dove in una lettera denunciavano la “mercificazione” dell’attività contro il pizzo, l’esistenza di una “casta dell’antiracket” e, addirittura, alcuni casi di nomine ‘politiche’ ai vertici di associazioni antimafia diventate a parere dei firmatari della missiva mera merce di scambio, in una logica di premi e promesse elettorali. C’è un ampio spazio dove Tano Grasso saprà documentare e chiarire la posizione del Fai. Ma desta qualche perplessità – sinceramente – la nascita di una newsletter quindicinale “Lineadiretta” dove il Fai ha stanziato per la copertura di dodici mesi di pubblicazione la somma di centomila euro. L’unica certezza è che i giudici della Corte dei Conti di Napoli sapranno scrivere una parola di verità a tutela dei tanti che lottano in silenzio la camorra. 

Corte dei Conti di Napoli indaga sull'assegnazione «arbitraria» di fondi Ue ad associazioni antiracket. Presunte violazioni nel trasferimento di circa 13,5 milioni a favore di poche associazioni antiracket che sembrano aver ricevuto i fondi senza un bando pubblico. Alcune delle associazioni escluse avevano già denunciato in una lettera alla Cancellieri la “mercificazione” dell’attività contro il pizzo, scrive Angela Camuso il 14 gennaio 2014 su “Il Corriere della Sera”. Un nuovo scandalo investe i professionisti dell’Antimafia. Dopo i casi clamorosi di Rosy Canale e dell’ex sindaco di Isola Capo Rizzuto Carolina Girasole, arriva la notizia che la Corte dei Conti di Napoli sta indagando su un corposo trasferimento di fondi pubblici a favore di un pugno di associazioni antiracket le quali, secondo i giudici contabili, sarebbero state privilegiate a discapito di altre, in violazione della legge sugli appalti. La posta in gioco è alta: 13 milioni e 433 mila euro stanziati da Bruxelles che fanno parte del cosiddetto Pon-Sicurezza, ovvero il Programma Operativo Nazionale finanziato dalla Comunità Europea con la finalità di contrastare gli ostacoli allo sviluppo del nostro Mezzogiorno. I soldi sono arrivati da Bruxelles solo agli inizi del 2012, ma registi dell’operazione, concepita a partire dal 2008 con l’approvazione dei singoli progetti poi finanziati dal Pon, furono l’allora sottosegretario all’Interno Alfredo Mantovano; l’allora commissario antiracket Giosuè Marino, diventato in seguito assessore in Sicilia della giunta dell’ex Governatore Lombardo indagato per mafia; nonché l’allora presidente dell’autorità di gestione del Pon-Sicurezza e al contempo vicecapo della polizia Nicola Izzo, il prefetto travolto dallo scandalo sugli appalti pilotati del Viminale. Da quanto ad oggi ricostruito dal sostituto procuratore generale della Corte dei Conti della Campania Marco Catalano, fu questo l’asse che selezionò i pochi partners a cui destinare i fondi secondo quelli che sembrano essere criteri arbitrari, visto che molte altre associazioni analoghe – tra cui ad esempio la nota “Libera” - risulterebbero avere i medesimi requisiti di quelle prescelte e dunque avrebbero potuto anch’esse ricevere i finanziamenti su presentazione di progetti, se solo ci fosse stato un bando pubblico di cui invece non c’è traccia. Nell’albo prefettizio, per il solo Mezzogiorno, risultano attive oltre cento associazioni antiracket. Tuttavia i fondi del Pon sono stati destinati soltanto a: “Comitato Addio Pizzo” (1.469.977 euro); Associazione Antiracket Salento (1.862.103 euro) e F.A.I. (Federazione delle Associazioni Antiracket e Antiusura), che pur raggruppando una cinquantina di associazioni ha ottenuto finanziamenti per 7 milioni di euro in qualità di soggetto giuridicamente autonomo. Altri 3.101.124 euro sono infine andati a Confindustria Caserta e Confindustria Caltanissetta. La F.A.I., il cui presidente è il popolare Tano Grasso, ha sede a Napoli ed è per questo, essendo competente in quel territorio, che il fascicolo di indagine è finito sul tavolo della Corte dei Conti della Campania. L’istruttoria infatti è partita la scorsa estate a seguito di un esposto in cui si evidenziavano le presunte violazioni. Così il sostituto procuratore Catalano ha iniziato a lavorare, prima acquisendo una serie di documenti, presso il ministero dell’Interno e presso la prefettura di Napoli. Successivamente, sono stati escussi a sommarie informazioni diversi funzionari della stessa prefettura a vario titolo responsabili dell’erogazione dei fondi e dei presunti mancati controlli. Alla Corte dei Conti questi funzionari, secondo quanto trapelato, avrebbero confermato di aver agito su indicazione del Ministero e ora l’indagine è nella sua fase conclusiva e cruciale. Si prospetta l’esistenza di un illecito amministrativo che potrebbe aver prodotto un danno erariale sia in termini di disservizi sia in termini di sprechi visto che, paradossalmente, molte delle associazioni escluse dai finanziamenti continuano a svolgere, supportate dal solo volontariato, attività identiche, per qualità e quantità, a quelle messe in pratica da chi ora può contare su contributi pubblici erogati in deroga a ogni principio di trasparenza. Per questi motivi, già a marzo del 2012, le associazioni “La Lega per la Legalità” ed “S.O.S. Impresa” avevano inviato una lettera al ministro Cancellieri, denunciando la “mercificazione” dell’attività contro il pizzo, l’esistenza di una “casta dell’antiracket” e, addirittura, alcuni casi di nomine politiche ai vertici di associazioni antimafia diventate a parere dei firmatari della missiva mera merce di scambio, in una logica di premi e promesse elettorali. “Prendiamo il caso di Maria Antonietta Gualtieri, presidentessa dell’Antiracket Salento e già candidata a Lecce sei anni fa nella lista civica di Mantovano…” insinua Lino Busà, presidente di S.O. S Impresa. La lettera al Ministro e le successive polemiche furono oggetto l’anno scorso di pochi articoli comparsi sulla stampa locale ma poi sulla vicenda calò il silenzio. Ora l’indagine della Corte dei Conti sembra dimostrare che la questione va al di là di una lotta fratricida. Le decisioni che presto prenderanno i giudici contabili preludono infatti a nuovi inquietanti sviluppi. Una volta chiusa questa prima istruttoria, gli atti potrebbero essere trasferiti in procura. Se ciò avverrà, sarà il tribunale penale a dover accertare se il presunto illecito amministrativo sia stato commesso per errore o se, invece, nella peggiore delle ipotesi, la violazione della legge sugli appalti sia stata dolosa e dunque funzionale a un drenaggio sottobanco di soldi pubblici, negli interessi di qualcuno.

Lecce, truffa sui fondi per le vittime: presa la presidente di un'associazione antiracket Maria Antonietta Gualtieri. Arrestato un funzionario comunale. Trentadue le persone indagate: fra loro c'è anche l'assessore comunale ai Lavori pubblici, Attilio Monosi. Al setaccio una convenzione del 2012 con il Viminale, scrive Chiara Spagnolo il 12 maggio 2017 su "La Repubblica”. Una bufera giudiziaria si abbatte sull'amministrazione comunale di Lecce nel giorno in cui si avvia la presentazione delle liste elettorali per le elezioni dell'11 giugno. Un'inchiesta della guardia di finanza su presunti illeciti in alcune attività dello Sportello antiracket ha portato all'arresto della presidente dell'associazione, Maria Antonietta Gualtieri, e di un funzionario dell'ufficio Patrimonio del Comune di Lecce, Pasquale Gorgoni (già coinvolto nell'inchiesta sulle assegnazioni delle case popolari). Le ipotesi di reato - contestate nell'ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip Giovanni Gallo su richiesta dei sostituti procuratori Massimiliano Carducci e Roberta Licci - sono corruzione e truffa e riguardano le azioni di un presunto sodalizio criminale che sarebbe capeggiato proprio da Gualtieri. Un provvedimento di interdizione dai pubblici uffici è stato emesso nei confronti dell'assessore comunale ai Lavori pubblici, Attilio Monosi, candidato al consiglio comunale in una delle liste che sostengono il candidato sindaco del centrodestra Mauro Giliberti. Proprio nelle ore in cui la guardia di finanza stava notificando le ordinanze del gip, a Palazzo Carafa era in programma la presentazione ufficiale dei candidati. In totale sono quattro le ordinanze di custodia cautelare (tre in carcere e una ai domiciliari) disposte dal gip, sette le misure interdittive dai pubblici uffici e 32 sono le persone indagate. Sequestrato anche l'equivalente di somme indebitamente percepite dal ministero dell'Interno, pari a 2 milioni di euro. Secondo la ricostruzione degli investigatori, nel 2012 Gualtieri avrebbe stipulato convenzioni con il Viminale per istituire tre Sportelli antiracket a Lecce, Brindisi e Taranto. Le indagini hanno accertato che tali strutture in realtà non sono mai state operative, avendo come unico obiettivo l'indebita percezione dei fondi pubblici destinati alle vittime di racket e usura. Documentati la fittizia rendicontazione di spese per il personale impiegato; l'utilizzo di fatture per operazioni inesistenti afferenti l'acquisizione di beni e servizi; la rendicontazione di spese per viaggi e trasferte in realtà mai eseguite; la falsa attestazione del raggiungimento degli obiettivi richiesti dal progetto in termini di assistenza ai nuovi utenti e numero di denunce raccolte. Un altro capitolo dell'inchiesta ha riguardato le presunte collusioni con pezzi dell'amministrazione comunale di Lecce. A partire dal funzionario Gorgoni, che avrebbe fatto carte false per far sì che alcuni lavori di ristrutturazione dell'ufficio dello Sportello antiracket venissero pagati dal Comune anziché dal commissario Antiracket. L'obiettivo - secondo la tesi investigativa - era agevolare il costruttore che ha effettuato i lavori e che avrebbe poi avuto un occhio di riguardo per il funzionario pubblico per altri interventi eseguiti nella sua abitazione. Anche le ristrutturazioni eseguite all'ufficio dello Sportello antiracket di Brindisi sarebbero state viziate da anomalie, relative a false certificazioni di interventi mai ultimati da parte di dipendenti comunali. Ad aggravare ulteriormente la situazione di Gualtieri c'è il fatto che avendo appreso che alcuni suoi collaboratori erano stati convocati dalla finanza per gli interrogatori, li avrebbe istruiti sulle versioni da fornire al fine di cercare di nascondere i numerosi illeciti commessi al fine di ottenere indebitamente i soldi del Fondo antiracket, sottraendoli al loro legittimo utilizzo.

Il Quotidiano di Puglia scrive: Gli arrestati finiti in carcere sono Maria Antonietta Gualtieri, presidente dell'associazione antiracket di Lecce, Giuseppe Naccarelli, ex dirigente del settore finanziario del Comune di Lecce, e Lillino Gorgoni, funzionario di Palazzo Carafa. Agli arresti domiciliari è finita invece Simona Politi, segretaria dell'associazione antiracket. Tra le sette misure interdittive c'è il divieto di ricoprire cariche pubbliche per l'attuale assessore al Bilancio del Comune di Lecce Attilio Monosi, in procinto di candidarsi alle elezioni amministrative con Direzione Italia, e che proprio alcuni giorni fa aveva inaugurato il suo comitato elettorale. Stessa misura per l'avvocato Marco Fasiello, uno dei legali dell'associazione antiracket. 

IL BUSINESS DELLE COSTITUZIONI DI PARTE CIVILE E LE DENUNCE INVENTATE. Le convenzioni con il Viminale ed i fondi elargiti dal PON-Sicurezza sono parametrati a seconda degli obbiettivi raggiunti e richiesti dal progetto in termini di assistenza ai nuovi utenti e numero di denunce raccolte. Da qui le storture e la speculazione sui procedimenti penali attivati dalle associazioni antimafia per poter godere dei benefici: più denunci più incassi dal Fondo POR e dalle relative costituzioni di parte civile nei processi attivati.

IL POZZO SENZA FONDO DEL 5XMILLE ALLE ONLUS AMICHE. Da Wikipedia. Il PM anticamorra Catello Maresca e il prefetto Giuseppe Caruso hanno duramente criticato le attività di Libera, sostenendo che esse, aldilà della parvenza di legalità e onestà, siano semplicemente mirate alla spartizione dei proventi che derivano dal sequestro dei beni mafiosi. Secondo alcuni infatti, Libera si è trasformata da associazione antimafia a holding economica che gestisce bilanci milionari, progetti e finanziamenti in regime di monopolio. Anche il modo con cui vengono amministrati i beni sottratti alla mafia è stato criticato per la sua scarsa trasparenza e per il fatto che i progetti vengono vinti dalle solite associazioni legate a Libera. Questa cosiddetta Holding economica ha i suoi contatti politici e sindacali a sinistra. E da sinistra si attingono maggiormente i proventi del 5xmille anche su intervento dei CAF o in base ad una massiccia campagna promozionale mediatica e di visibilità. L’associazione "Libera" è un coordinamento nazionale di tante associazioni e comitati locali. Queste, spesso hanno sede presso la CGIL, sindacato di sinistra, come a Taranto. Libera, Bilancio Consuntivo al 31/12/2015: 5 per mille € 700.237».

Come si spendono i soldi ricevuti dallo Stato e pagati dai contribuenti italiani?

«La giornalista Alessia Candito, sotto scorta e minacciata dalla 'Ndrangheta, ha pubblicato sul Corriere della Calabria la contabilità dal 2011 al 2014 dell'associazione della Musella, legata al Liceo Piria di Rosarno, salito alle cronache nazionali grazie al libro "Generazione Rosarno" di Serena Uccello. Nell'articolo della Candito si parla di "Magliette in numero sufficiente a vestire un reggimento, fiori costati quanto lo stipendio annuale di un impiegato di discreto livello, compensi e rimborsi a familiari, e poi hotel, viaggi, ristoranti e qualche gadget elettronico di troppo di cui è oggettivamente difficile spiegare la continenza". E si conclude scrivendo che: "Analizzando la contabilità, gonfiata dalle iniezioni di liquidi degli enti, ma che in quattro anni fa registrare meno di una decina di donazioni di soci, non si può non notare come la maggior parte dei finanziamenti arrivati nel corso degli anni sia stata spesa in viaggi, hotel e ristoranti"».

Come si può concludere questa lunga intervista-inchiesta?

«Che l’antimafia può deviare in palesi illegalità. Ma è il loro mantenimento legale che dà da pensare e riflettere su come l’illegalità si purifichi in base all’ipocrisia generale. Non è che non bisogna combattere la mafia. Il problema è che è marcio il Sistema. Per speculare, inoltre, non bisogna vedere la mafia dove non c’è e criminalizzare un intero popolo: il meridione in Italia; l’Italia all’estero. Alla fine bisogna dire una cosa. L’antimafia deve essere di Stato. Se lo Stato abdica è volontariato. Il volontariato se tale è, necessariamente deve essere gratuito. Ergo: non vi può essere volontariato di Stato».

Cordiali e rassicuranti, ecco come riconoscere i nuovi mafiosi, scrive Francesco Alberoni, Domenica 30/04/2017 su "Il Giornale". Per molto tempo ho pensato che il mafioso fosse solo colui che appartiene alla delinquenza organizzata. Poi ho conosciuto e studiato meglio alcune persone e mi sono reso conto che esiste una mentalità mafiosa non solo in Sicilia o in Calabria e non solo nel mondo della malavita ma anche nel campo professionale. Puoi trovare medici, avvocati, professori universitari, politici e amministratori con questa mentalità. Io sono convinto che si tratti di un tipo umano preciso e riconoscibile. Tanto per cominciare il mafioso è un uomo d'onore. Egli si presenta sempre come il massimo della integrità morale e della più calda affettuosa, sincera generosità. È una figura cordiale, rassicurante, pronta a farvi favori senza chiedere nulla in cambio. Almeno subito, perché nel momento in cui li accettate ai suoi occhi contraete un debito di riconoscenza che potrà esigere quando vuole e nella misura che vuole. Una cambiale in bianco che può essere pesantissima. Il mafioso è caratterizzato da una infinita volontà di dominio. Non vuol realizzare un progetto, un sogno, il suo scopo è acquistare sempre nuove cariche e quindi sempre nuovo potere su altri uomini che poi tratterà come burattini, come servi. Questo tipo umano si è addestrato a mentire, a dissimulare le sue emozioni. Prepara a lungo i suoi tranelli ed è difficile scoprire il suo inganno prima che abbia colpito. Può vivere per anni, come amico, a fianco della persona che ha già deciso di distruggere. Di solito non ostenta. Nel film Il padrino parte II il più potente di tutti i capi mafia, Hyman Roth, vive poveramente in una casetta anonima nei sobborghi di Miami. E anziché nascondere il suo precario stato di salute, ne parla apertamente per dare l'impressione di apparire ormai impotente, quindi non pericoloso. Perché non ha altri valori che il potere, non ha altro interesse che il potere. Tutto per lui, morale, religione, cultura, amicizia, sentimenti, politica, tutto è mezzo. Quando governa una istituzione gode nell'incutere terrore ed instaura un clima di paura e di odio. Prima si sbarazza dei migliori e poi opprime, senza freni, i suoi prigionieri impotenti.

Paolo Mieli: “La trattativa Stato-mafia comincia con l’Unità d’Italia”, scrive Antonella Sferrazza il 3 novembre 2016 su "I nuovi Vespri". Nel nuovo libro dello storico, nonché ex direttore del Corriere e della Stampa, due capitoli dedicati ai fatti risorgimentali e al Sud Italia. Un tentativo di ripulire la storia da mistificazioni e pregiudizi perché “ad ogni stagione, la politica cerca di tirare la storia dalla sua parte”. “Chi studia il passato e cerca una conferma a quello che pensava prima è una persona intellettualmente disonesta”. “La prima trattativa tra Stato e mafia è di centocinquant’anni fa. Anzi di più. A dicembre del 1861, pochi mesi dopo la morte di Cavour, parlando alla Camera de Deputati, il parlamentare Angelo Brofferio sostiene che «la maggior parte dei disordini che succedono in Italia è da attribuire a forze della pubblica sicurezza in combutta con bande illegali»… “Pezzi di Stato che «non hanno rossore di trattare con i malviventi»”. Comincia così il secondo capitolo del nuovo libro di Paolo Mieli intitolato In guerra con il passato. Le falsificazioni della storia (Rizzoli, euro20) che in 280 pagine ripercorre eventi storici -non solo italiani -con l’obiettivo di ripulirli da mistificazioni, pregiudizi e strumentalizzazioni. L’ex direttore del Corriere e de la Stampa che ha dedicato gran parte della sua vita allo studio e alla divulgazione della storia, spiega così il senso del suo ultimo lavoro: “Per vincere le guerre del presente e del futuro dobbiamo prima regolare un conto bellico con il passato. Dobbiamo eliminare molte menzogne. Ad ogni stagione la politica cerca di tirare la storia dalla sua parte. Ogni storico deve muoversi a smentire la versione che ha già in testa, non deve cercare conferme. Chi studia il passato e cerca una conferma a quello che pensava prima è una persona intellettualmente disonesta”. Insomma, come sempre, Paolo Mieli (tra i pochissimi intellettuali italiani, ricordiamo, a parlare con onestà dei danni prodotti al Sud dal Risrgimento, sotto un video in proposito), si tiene ben lontano dalla palude degli storici ‘salariati’ senza temere “sorprese e delusioni”. “Se vogliamo essere in pace con il passato – dice Mieli- dobbiamo essere disposti a rivedere qualcosa di importante, anche pezzi della memoria collettiva cui siamo legati”. Nel volume si passano al setaccio eventi quali la Rivoluzione francese, la storia di Israele, personaggi come Stalin e Hitler, ma anche i falsi martiri della fede, Cicerone, Lincoln, D’Annunzio, i primi scandali dell’Unità d’Italia per un totale di 27 piccoli saggi. Tornando al secondo capitolo intitolato “La vera trattativa tra Stato e mafia”, Mieli, oltre alle dichiarazioni del parlamentare Brofferio, cita anche La mala setta di Francesco Benigno che descrive come “Destra e Sinistra storica (e quest’ultima forse ancora di più della prima) intrattennero rapporti con la malavita organizzata fin dalla fondazione del nostro Stato Unitario. Anzi, Destra e Sinistra quasi incoraggiarono mafia e camorra a trasformarsi in quello che sarebbero diventate un secolo dopo”. La storiografia non ha mai voluto approfondire questi nessi, “una reticenza che dai testi dell’epoca è transitata nelle pagine degli storici”. Mieli aggiunge che di camorristi e mafiosi si parlava già prima del 1861, “si trattava però di malavitosi di infimo rango al servizio di più padroni, la cui attività era confinata nelle carceri e nei quartieri più malfamati delle città meridionali. Nella Palermo liberata da Garibaldi qualche contatto improprio venne addebitato a Giuseppe La Farina, emissario di Cavour”. Lo stesso avvenne a Napoli con Silvio Spaventa: “Questi, che pure aveva avviato una campagna di disinfestazione dai camorristi promossi e legittimati da Garibaldi, a un certo punto venne accusato dalla stampa democratica di usare metodi illegali non troppo diversi da quelli usati dalla famigerata polizia borbonica”. Ma l’uomo simbolo di questa stagione resta Liborio Romano che “garantì il passaggio dal regime borbonico a quello garibaldino garantendo l’ordine pubblico grazie ad un esplicito accordo con i principali boss della malavita organizzata”. E, ancora, il fenomeno del brigantaggio e “l’intento propagandistico di inquadrare in quella categoria tutto ciò che che accadde nel Sud Italia dal 1861 al 1865”. Particolarmente interessanti le parole di Diego Tajani, Procuratore del re a Palermo, secondo il quale, come si legge nel volume, “la mafia è temibile non tanto perché pericolosa in sé ma in quanto strumento di governo e perciò fonte di una rete invisibile di protezione”. Interessantissimo anche il capitolo dedicato alla corruzione – intesa come latrocini- dei nuovi politici dello Stato unitario e della stampa al loro servizio. Così come i successivi che offrono una lettura della storia come non l’abbiamo mai letta e che non esita a fare scendere dal piedistallo personaggi celebratissimi (lo stesso Cicerone pare abbia un tantino ‘abusato’ della storia del proconsole Verre in Sicilia “che era un politico in fase di declino”). Va da sé che il volume è un raggio di sole tra le nebbie che avvolgono in particolar modo la vera storia del Sud Italia e del Risorgimento.

La trattativa tra Stato e mafia comincia nel 1860, con Garibaldi in combutta con mafia e camorra, scrive Ignazio Coppola il 7 gennaio 2017 su "I Nuovi Vespri". Senza l’appoggio dei picciotti della mafia, Garibaldi e i Mille, una volta sbarcati a Marsala, avrebbero trovato grandi difficoltà. Invece, grazie ai mafiosi, trovano la strada in ‘discesa’. Idem a Napoli, dove i camorristi giravano con la coccarda tricolore. La testimonianza del boss, Joseph Bonanno. Le tesi di Rocco Chinnici. La lunga stagione dei delitti ‘eccellenti’. Fino alle stragi di Capaci e via D’Amelio, dove perdono la vita, rispettivamente, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino (e gli uomini e le donne delle rispettive scorte). Con quest’ultimo, ammazzato perché si opponeva alla trattativa tra mafia e Stato. Quando oggi parliamo di trattativa “Stato-mafia”, non possiamo non andare indietro nel tempo e riferire questo vituperato ed aborrito binomio alle origini del nostro Paese inteso nella sua accezione unitaria. In parole povere, questo sodale rapporto tra la mafia e lo Stato nasce con l’unità d’Italia o, peggio ancora, con la mala unità d’Italia che, sin dai tempi dell’invasione garibaldina in Sicilia, si servì per le sue discusse e dubbie vittorie del contributo determinante della mafia in Sicilia e della camorra a Napoli. In Sicilia in quel lontano maggio del 1860, infatti, accorsero, con i loro “famosi picciotti”, in soccorso di Garibaldi, i più autorevoli capi-mafia dell’epoca come Giuseppe Coppola di Erice i fratelli Sant’Anna di Alcamo, i Miceli di Monreale, il famigerato Santo Mele, così bene descritto  da Cesare Abba, Giovanni Corrao, referente delle consorterie mafiose che operavano a Palermo nel quartiere del Borgo vecchio e che poi, addirittura, diverrà generale garibaldino e verrà ucciso tre anni dopo, nell’agosto del 1863, nelle campagne di Brancaccio in un misterioso ed enigmatico agguato a fosche tinte mafiose. Un apporto determinante degli “uomini d’onore” di allora che farà dire allo storico Giuseppe Carlo Marino, nel suo libro Storia della mafia, che Garibaldi senza l’aiuto determinante dei mafiosi in Sicilia non avrebbe potuto assolutamente fare molta strada. Come, del resto, lo stesso Garibaldi sarebbe incorso in grandi difficoltà logistiche se, quando giunto Napoli, nel settembre del 1860, non avesse avuto l’aiuto determinante dei camorristi in divisa e la coccarda tricolore che, schierandosi apertamente al suo fianco, gli assicurarono il mantenimento dell’ordine pubblico con i loro capi bastone Tore De Crescenzo, Michele “o chiazziere”, Nicola Jossa, Ferdinando Mele, Nicola Capuano e tanti altri. Aiuti determinanti e fondamentali che, a ragion veduta, piaccia o n, a Giorgio Napolitano in testa e ai risorgimentalisti di maniera, ci autorizzerebbero a dire che la mafia e la camorra diedero, per loro convenienze, il proprio peculiare e determinante contributo all’unità d’Italia. Un vergognoso e riprovevole contributo puntualmente e volutamente ignorato, per amor di patria, dai libri di scuola e dalla storiografia ufficiale. Che la mafia ebbe convenienza a schierarsi con Garibaldi ce ne dà significativa ed ampia testimonianza il mafioso italo-americano originario di Castellammare del Golfo, Joseph Bonanno, meglio conosciuto in gergo come Joe Bananas, che nel suo libro autobiografico Uomo d’onore, a cura di Sergio Lalli, a proposito della storia della sua famiglia, a pagina 35 del libro in questione così testualmente descrive l’apporto dato dalla mafia all’impresa garibaldina: “Mi raccontava mio nonno che quando Garibaldi venne in Sicilia gli uomini della nostra tradizione (= mafia) si schierarono con le camicie rosse perché erano funzionali ai nostri obbiettivi e ai nostri interessi”. Più esplicito di così, a proposito dell’aiuto determinante dato dalla mafia a Garibaldi, il vecchio boss non poteva essere. Con l’unità d’Italia e con il determinante contributo dato all’impresa dei Mille la mafia esce dall’anonimato e dallo stato embrionale cui era stata relegata nella Sicilia dell’Italia pre-unitaria e si legittima a tutti gli effetti, effettuando un notevole salto di qualità. Da quel momento diverrà, di fatto, una macchia nera indelebile e un cancro inestirpabile nella travagliata storia della Sicilia e del nostro Paese. Di questa metamorfosi della mafia, dall’Italia pre-unitaria a quella unitaria, ne era profondamente convinto, il giudice Rocco Chinnici, l’ideatore del pool antimafia presso il Palazzo di Giustizia di Palermo, una delle più alte e prestigiose figure della magistratura siciliana ucciso il 29 luglio 1983 davanti la sua abitazione in un sanguinoso attentato in via Pipitone Federico a Palermo. Rocco Chinnici, oltre che valente magistrato, in qualità di capo dell’ufficio istruzione del Tribunale di Palermo ed ideatore come anzidetto del pool antimafia – di cui allora fecero parte tra gli altri giovani magistrati come Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Giuseppe Di Lello – fu anche un profondo studioso e conoscitore del fenomeno mafioso e delle sue criminali dinamiche storiche. Da studioso fu relatore e partecipò a numerosi convegni organizzati in materia di mafia. In uno di questi, promosso a Grottaferrata, il 3 luglio 1978 dal Consiglio Superiore della Magistratura così, a proposito dell’evolversi della mafia in Sicilia, ebbe testualmente a pronunciarsi: “Riprendendo le fila del nostro discorso prima di occuparci della mafia del periodo che va dall’unificazione del Regno d’Italia alla prima guerra mondiale e all’avvento del fascismo, dobbiamo brevemente, ma necessariamente premettere che essa come associazione e con tale denominazione, non era mai esistita in Sicilia. La mafia nasce e si sviluppa in Sicilia – affermò Chinnici in quell’occasione a conforto da quanto da noi sostenuto – non prima, ma subito dopo l’unificazione del Regno d’Italia”. Ed ancora, in una successiva intervista rilasciata ad alcuni organi di stampa a proposito della mafia legittimatasi con la venuta e con l’aiuto determinante dato a Garibaldi e successivamente con l’Unità d’Italia, Rocco Chinnici ebbe a dire: “La mafia è stata sempre reazione, conservazione, difesa e quindi accumulazione di risorse con la sua tragica, forsennata, crudele vocazione alla ricchezza. La mafia stessa è un modo di fare politica mediante la violenza, è fatale quindi che cerchi una complicità, un riscontro, un’alleanza con la politica pura, cioè praticamente con il potere”. Ed è questo “patto scellerato” tra mafia, potere politico e istituzioni, tenuto a battesimo prima dall’impresa garibaldina e poi, come sosteneva Rocco Chinnici, dall’unità d’Italia che dura, tra trattative, connivenze e papelli di ogni genere, senza soluzione di continuità sino ai nostri giorni. Una lunga sequela di tragici avvenimenti che, sin dagli albori dell’unità d’Italia hanno insanguinato la nostra terra per iniziare con la stessa uccisione del generale Giovanni Corrao a Brancaccio, poi i tragici e misteriosi avvenimenti de ‘I pugnalatori’ di Palermo, il delitto Notarbartolo e il caso Palizzolo, la sanguinosa repressione dei Fasci Siciliani in cui la mafia recitò il proprio ruolo, la strage di Portella della Ginestra, le stragi di Ciaculli e di Via Lazio, le uccisioni di Carlo Alberto Dalla Chiesa e di tanti servitori dello Stato e di tanti magistrati che, della lotta alla mafia, ne hanno fatto una ragione di vita e purtroppo anche di estremo sacrificio, sino alla morte. Per arrivare alle stragi di Capaci e di Via D’Amelio dove persero la vita Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Quello stesso Paolo Borsellino che, da quanto, in questi ultimi tempi e alla luce di nuove risultanze processuali che hanno fatto giustizia di ignobili e criminali depistaggi, ci è stato dato da apprendere si era opposto con tutte le sue forze ad ogni ipotesi di trattativa tra “Stato e mafia” e per questo ha pagato – per le connivenze tra mafia, servizi segreti deviati e omertà di Stato – con la vita il suo atto di coraggio. Una lunga scia di sangue e di turpitudini che ha visto da sempre protagonisti, in una sconvolgete continuità storica, un mix di soggetti: Stato, mafia, banditismo (nel caso di Salvatore Giuliano), potere politico, servizi segreti, massoneria deviata e quant’altro che hanno ammorbato e continuano ad ammorbare – da 156 anni a questa parte, in un percorso caratterizzato, troppo spesso, da una criminale politica eversiva – la vita dei siciliani onesti. Quando ce ne potremo liberare? Con l’aria che tira sarà difficile.

I visionari che raccontano le mafie, scrive lo scrittore Roberto Saviano il 31 gennaio 2017 su “La Repubblica”. Dov’è oggi la mafia? Come facciamo a riconoscerla? Letizia Battaglia è stata l’occhio che ha raccontato al mondo, forse più di chiunque altro, rendendolo archetipo, il concetto complicatissimo di mafia. Attraverso immagini: bambini che giocano con armi, corpi dilaniati dalla lupara, volti sfigurati dalle urla, silenziosi drappi neri. La sua arte, mostrare senza fare scempio, descrivere senza creare distanza. Erano gli anni '80 e la mafia non esisteva, anzi, per esprimere meglio il concetto: non doveva esistere. Oggi chiudiamo un cerchio durato quasi quarant’anni e costato la vita a centinaia di persone. Oggi, come agli albori della lotta alla mafia, la mafia è tornata a non esistere. Chi ne parla è visionario, la vede ovunque, si arricchisce parlandone, scrivendone, raccontandola. Chi ne parla diffama, rovina nel mondo l’immagine dell’Italia. Della mafia non bisogna parlare e non solo per volontà della mafia, ma per preservare carriere politiche. Quando sentiamo dire che chi parla di mafie diffama, in realtà il sottotesto è: chi parla di mafie mette in pericolo la credibilità politica di chi amministra territori a rischio; chi parla di mafie, ed è ascoltato oltre i confini dell’Italia, mina la credibilità di governi deboli, che non considerano la lotta alle mafie una priorità. Dov’è oggi la mafia? E' la domanda che Letizia Battaglia, dopo averla raccontata per anni, ha fatto ad Attilio Bolzoni per il suo Blog "Mafie" su Repubblica.it. A me questa domanda la fanno spessissimo i giornalisti stranieri quando vengono in Italia, quando vanno a Palermo, a Reggio Calabria, a Bari o a Napoli e non riescono a riprendere o a essere testimoni di aggressioni o sparatorie. Quando non riescono a vedere da vicino come funziona il racket, quando non si accorgono della violenza che modella interi quartieri e che non si può sovrapporre a quella mostrata da un film o da una serie televisiva che condensa tutto, che sceglie una prospettiva. Chi non vede le mafie oggi, forse, non le sta cercando o non le sta cercando nel modo giusto. Prima mafia era sinonimo di povertà e degrado, oggi in parte è ancora così nei suoi luoghi d’elezione, ma altrove la mafia è imprenditoria, è appalti, è speculazione economica, è infiltrazione di aziende, è scalata a colossi bancari. Oggi è difficile vedere la mafia perché è simile a tutto il resto. Generazioni che hanno visto la mafia, da fenomeno sconosciuto al mondo, diventare centrale, conosciuto, affrontato, raccontato, persino cercato come fonte inesauribile di racconto, oggi devono mutare il proprio sguardo e capire che cercare la mafia dove si spara vuol dire osservare solo un segmento, vuol dire magari provare a raccontarlo e a fermarlo senza individuare la vena che lo alimenta. Oggi la mafia non è invisibile, è solo che non viene più cercata. E non viene più cercata anche perché ci siamo convinti di averla trovata, vista, conosciuta. E quindi finiamo per fare come i giornalisti stranieri, che alzano le braccia e dopo una settimana a Napoli, se non hanno ripreso una sparatoria, pensano di non aver portato a casa il lavoro. Di dover abbandonare l’argomento e, in ultima istanza, si convincono che in fondo la mafia non esiste davvero, che ormai è solo un’invenzione letteraria, qualcosa che nel passato c’era ma che la modernità ha debellato. Senza lupara diventa complicato raccontare. Eppure la lupara c’è e ci sono i morti a terra, e c’è sangue, innocente o colpevole, che lorda e non chiede più vendetta. Se muori per sbaglio, arrivano promesse di telecamere, di maggiore controllo e poi la realtà è che interi quartieri a Napoli per le forze dell’ordine sono off limits. Se muori da pregiudicato, sei nato e cresciuto in un territorio che spesso non dà scelta, non in determinate condizioni, “uno in meno”, questo si ripete per non affrontare il fallimento. E allora si segue la regola cinica che molti hanno scelto di darsi, di mafia si può parlare, ma solo in tre casi: quando ci sono morti eccellenti (Falcone diceva, provocando, che ci vogliono due morti eccellenti l’anno per combattere la mafia); quando ci sono molti, moltissimi morti (nell’ordine di due, tre al giorno, uno a settimana non basta); oppure quando l’argomento mafia viene utilizzato per raccontare il potere, quando l’opinione pubblica mette immediatamente in connessione la criminalità organizzata e il governo in carica. E non si creda che sia più facile raccontare laddove si spara: non è stato così per anni, per decenni. Pur essendoci stati morti e processi, pur essendoci stati martiri, comunque non si arrivava oltre la pagina locale, l’informazione era considerata marginale dall’opinione pubblica nazionale e internazionale. Questo vale per il Messico, per l’Italia, per l’Albania e vale ancora di più per Paesi come l’Inghilterra, la Spagna, la Francia, che hanno sul loro territorio organizzazioni criminali assai complesse che tuttavia, anche quando ci sono morti, non riescono a essere raccontate, per impreparazione culturale e per i limiti di certo giornalismo. I morti in Inghilterra vengono ascritti a un problema minore; i morti in Francia mai collegati alla mafia. Si usano parole che abbiano un impatto diverso, che creino meno preoccupazione, meno allarme: e allora a sparare sono gang e non organizzazioni criminali strutturate, dedite al narcotraffico e che tengono sotto il loro giogo interi quartieri. In tutto questo l’Italia è vittima di un cortocircuito: invece di essere fiera di poter vantare la più forte antimafia del pianeta, capace di raccontare le mafie in tutto il mondo, si è vergognata e ha associato la parola mafia a una sintassi di delegittimazione. Ci siamo vergognati e ci nascondiamo dietro la giustificazione: non siamo solo mafia. E invece proprio non raccontandola si diventa un territorio fatto di corruzione nel quale non c’è spazio per alcuna distanza da questi mondi. E il cerchio si chiude: la Democrazia Cristiana per anni ha utilizzato un’espressione terrificante, omertosa, per fermare qualsiasi tipo di narrazione sulle mafie: stai parlando male dell’Italia. Oggi è esattamente quello che si sente dire chiunque parli di mafie a Napoli, a Palermo, a Bari, a Milano, a Reggio Calabria, a Modena, a Torino: stai parlando male e ti arricchisci con le mafie. Un mantra democristiano usato oggi da chiunque abbia interesse personale nel bloccare un racconto. Come se parlare di cancro, come se dare informazioni su come affrontare la malattia, facesse ammalare. Come se a chi analizza i nostri mari e trova le coste piene di fecalomi e cadmio (merda e veleno) si dicesse: stai insultando il nostro mare che è stato solcato dai Greci e che è la meraviglia della nostra terra. E attenzione a ritenere questo atteggiamento superficialità o orgoglio nazionale, non è né l’una, né l’altro, ma calcolo e omertà. Non stupiamoci, la parola mafia, per molto tempo impronunciabile, è tornata a esserlo. Parola per la quale ci si è battuti per farla esistere e che ora si è consumata, consumata dall’abuso non dall’uso: dove tutto è mafia, niente è mafia. Allora per capire dove sono le mafie oggi bisogna aguzzare la vista e strizzare gli occhi. I morti a terra ci sono ancora, ma non sono della quantità giusta e nei luoghi giusti per farli diventare morti d'interesse. Quindi, a ben vedere, non è solo la mafia ad essersi camuffata, a essersi capitalistizzata; non è solo la mafia ad essersi imborghesita: è il capitalismo che si è mafiosizzato; è la borghesia che si è mafiosizzata. Il comportamento che prima era evidentemente espressione di un DNA criminale oggi è espressione dell'economia tutta. E allora dov'è la mafia? Londra è la città del pianeta in cui si ricicla più denaro. Dov'è la mafia? Il Presidente Trump non avrebbe potuto avere vantaggio nell'edilizia senza la famiglia Genovese e la famiglia Gambino. Ma tutto questo ormai non conta più, perché per la comunicazione la criminalità organizzata, in ogni sua forma, è meno spaventosa delle teste mozzate e dei teatri in cui si sparge sangue. Salvo poi ignorare che quello che spacciano per radicalismo islamico non è altro che l’ennesima declinazione di organizzazioni criminali tradizionali, dedite alla produzione di sostanze stupefacenti, al narcotraffico, al contrabbando, all’estorsione. La differenza: Isis ha studiato, lavorato e scelto come presentarsi al mondo e, soprattutto, come farsi raccontare.

Lo Stato e la “roba”, scrive l'1 febbraio 2017 Attilio Bolzoni su "La Repubblica". Alla periferia di Roma, fino a qualche tempo fa, c'era una discoteca dove lavoravano dieci ragazze romene. Erano le uniche dipendenti, ufficialmente assunte con un contratto da ballerine da una società che è diventata uno dei 150 mila beni sequestrati alle mafie in Italia. In realtà, ogni notte, quelle ragazze non si esibivano su un palco ma più intimamente all'ombra dei privé. Questa storia, che è raccontata nelle pagine dell'ultimo libro – I Tragediatori, la fine dell'antimafia e il crollo dei suoi miti - dell'ex presidente della Commissione parlamentare antimafia Francesco Forgione, sollecita istintivamente una domanda: ma lo Stato, può gestire un bordello? Materia assai complicata e dibattuta, la questione dei beni sequestrati o confiscati alle mafie rivela come una legislazione contraddittoria e lacunosa non consenta – a parte alcuni esempi virtuosi -  di custodire e valorizzare un tesoro che gli esperti stimano intorno ai 30 miliardi di euro. Per non parlare delle aziende che arrivano nella disponibilità dello Stato, quasi sempre svuotate da ogni capacità operativa e inevitabilmente destinate alla bancarotta. Tante le cause. Un'Agenzia nazionale per l'amministrazione e la destinazione dei beni - istituita nel 2010 – che opera senza mezzi e risorse. La lentezza esasperante del passaggio fra sequestri e confische. L'impossibilità dei Comuni e degli altri enti locali, per mancanza di soldi in cassa, di badare ai terreni o ai palazzi loro assegnati. Poi si è anche abbattuta la tempesta sul Tribunale di Palermo, con la conduzione “familiare” e drammaticamente grottesca del giudice Silvana Saguto e di altri magistrati e amministratori giudiziari. Un caso estremo, che però ha messo ancora più sott'accusa tutto il sistema. C'è molto da rivedere nella gestione della “roba” tolta ai boss, superando rigidità e dogmi. Partendo da un piccolo caso come quello delle ballerine romene, siamo proprio sicuri che per i beni mafiosi la sola soluzione sia quella del loro riutilizzo sociale? E' giusto venderli? O è un pericolo? Di certo, sulle sorti di queste ricchezze, si gioca molto della credibilità dello Stato nella guerra contro le mafie.

I beni mafiosi e il tabù della vendita, scrive Francesco Forgione, Scrittore, ex Presidente della commissione parlamentare antimafia, l'1 febbraio 2017 su “La Repubblica”. La trama fra la dimensione sociale e repressione alle mafie è la sfida da vincere per superare l’esclusività della dimensione giudiziaria nella lotta alla mafia e uscire dalla crisi di identità e di credibilità che investe il movimento antimafia. La confisca e il riutilizzo dei beni mafiosi sono il terreno sul quale le istituzioni, la magistratura e una pluralità di soggetti sociali dovrebbero davvero misurare la coerenza delle proprie scelte. Si tratta di un’immensa ricchezza spesso abbandonata a se stessa: milioni assorbiti dal Fondo unico per la giustizia senza alcuna ricaduta sull’uso e la destinazione dei beni; comuni strangolati dal patto di stabilità impossibilitati a sostenere qualsiasi progetto di riutilizzo o di promozione sociale; istituzioni prima servili verso i mafiosi e di colpo solerti nell’ostacolare le attività economiche sottratte alle mafie; le banche controparti ostruzionistiche delle amministrazioni giudiziarie. Eppure la redistribuzione della ricchezza accumulata illegalmente è il solo banco di prova per dimostrare la convenienza della legalità. Soprattutto per la gestione delle aziende, con l’affermarsi di un lavoro pulito e redditizio anche in attività nate in un circuito economico-finanziario condizionato dal riciclaggio di capitali mafiosi. E’ questa la sfida da vincere senza ideologismi e fondamentalismi, ponendo anche fine al tabù della vendita dei beni senza il timore che gli appelli di Saviano e Camilleri blocchino ogni discussione. Pena, il subire l’onta infamante di voler riconsegnare i beni ai mafiosi. Ci sono beni inutilizzabili. Perché non rivenderli? Ci sono immobili fatiscenti e antieconomici per qualunque progetto di recupero; che farne? E che fare di centinaia di auto, camion, barche di lusso? Ci sono aziende rette su base famigliare, ma appena la “famiglia” viene esclusa dalla gestione (tutta in nero e alimentata da soldi riciclati) non possono sopportare i “costi” legali dei contratti di lavoro e delle forniture esterne al circuito di distribuzione precedente. Si tratta di decine di negozi, ristoranti, alberghi, piccole aziende. Bisogna essere onesti intellettualmente e discuterne. Lo devono fare anche le associazioni che su questi temi hanno rapporti privilegiati con prefetture e Agenzia. Il silenzio è solo ipocrisia, oppure serve al mantenimento di posizioni lobbistiche funzionali ad orientare progetti, destinazione e assegnazione dei beni. Il timore dell’accusa di voler riconsegnare i beni alle mafie ha impedito ogni discussione. E così ci si ferma alla propaganda, mantenendo uno status quo che si dice di voler cambiare, a partire dal ruolo dell’Agenzia nazionale che, al di là delle persone, è più un ostacolo che uno strumento per affermare una dimensione socialmente utile della lotta alla mafia.

Stragi di mafia chi sono i veri mandanti? Grasso riapre il “fascicolo”, scrive Paolo Delgado il 31 gennaio 2017 su "Il Dubbio”. Secondo il presidente del Senato ed ex procuratore Cosa nostra è stata il braccio armato di interessi economici “legati agli appalti pubblici”. Un alone di mistero circonda la fine della prima Repubblica, come del resto molti dei suoi passaggi cruciali. E’ stato il presidente del Senato Piero Grasso, intervistato dal Corriere della Sera, ad aggiungere il suo sassolino di dubbio alla già alta muraglia di sospetti legati alla presunta trattativa tra Stato e Cosa nostra in quella cruciale fase politica. Grasso però pensa a tutt’altro: «S’intuisce che Cosa nostra possa essere stata il braccio armato di altri interessi: di una strategia politica; di tipo economico legati agli appalti pubblici; o di entità deviate rispetto alle proprie funzioni istituzionali». Più ermetica di così neppure la celebrata prosa di don Binnu Provenzano. E tuttavia, anche senza cadere nelle diaboliche tentazioni della dietrologia imperante, è probabile che qualche ragione il secondo cittadino della Repubblica ce l’abbia. È difficile immaginare che tra la politica della prima Repubblica, nell’anno della sua repentina e del tutto imprevista fine, e la sanguinosa offensiva di Cosa nostra non ci siano state correlazioni, magari periferiche e non determinanti. Già all’epoca del resto, nei palazzi assediati, circolavano voci chissà quanto tendenziose sulla singolare sincronicità tra i due eventi, di fatta assai diversa, che minarono le fondamenta del potere di Giulio Andreotti: l’uccisione di Salvo Lima in Sicilia e il ‘ tradimento’ di Vittorio Sbardella, per amici e nemici ‘ lo Squalo’, nel Lazio. Non erano due capibastone qualsiasi ma i perni del potere andreottiano nel Paese. L’assassinio di Lima e l’improvvisa defezione di Sbardella misero il divo Giulio in ginocchio. Né si può dimenticare che l’anno del declino della prima Repubblica fu anche quello in cui si misero in moto, in seguito alla crisi esplosa nella seconda parte di quell’anno, movimenti economici e finanziari di immensa portata, con l’avvio delle privatizzazioni. Anche senza ridurre don Totò a un braccio armato, è senz’altro possibile che coincidenze di interesse si siano verificate, anche se, come lo stesso Grasso ammette, si tratta al momento solo di fantasia e immaginazione. L’annus horribilis della politica italiana, quello che si sarebbe rivelato come tombale per la prima Repubblica, cominciò 25 anni fa, e iniziò con una vittoria dello Stato: la prima sezione della Corte di Cassazione confermò la sentenza d’appello nel maxiprocesso contro Cosa nostra, istruito dal pool della procura di Palermo a partire dalle dichiarazioni del grande pentito Tommaso Buscetta. Su 474 imputati i con- dannati furono 360. Tra i 19 condannati all’ergastolo c’era il vertice della mafia al potere dopo il golpe dei corleonesi dei primi anni ‘ 80: Totò Riina, Binnu Provenzano, Michele Greco il papa. Quella sentenza diede fuoco alla miccia. Cosa nostra non se l’aspettava. La procura di Palermo la temeva. A presiedere sarebbe dovuto essere Corrado Carnevale, l’Ammazzasentenze. Pignolo e garantista sino all’esasperazione, buttava giù una sentenza dopo l’altra senza mai chiudere gli occhi sui vizietti di forma che molti colleghi ritenevano invece trascurabili. Nell’Italia di quegli anni era famosissimo e circondato da un’aura di sospetto, che si concretizzò infine nel rinvio a giudizio, con tanto di sospensione da carica e stipendio. Assolto in primo grado nel 2000, condannato a 6 anni per concorso esterno l’anno seguente, fu infine assolto con formula piena e senza rinvio dalla Cassazione nell’ottobre 2002. Non se ne accorse nessuno. Restò sospeso altri sei anni. Fu Giovanni Falcone a mettere per primo le mani avanti promuovendo una sorta di ‘ monitoraggio permanente’ sulle sentenze della Cassazione. Una pressione forse inaudita ma efficace: la Corte decise che i processi di mafia sarebbero stati attribuiti a rotazione a tutti i presidenti di sezione e non più solo a quello della prima sezione. Al posto di Carnevale fu Armando Valente a presiedere per la sentenza sul maxi, e forse anche per questo le condanne furono confermate. Riina reagì dichiarando guerra. Non la solita ammazzatina eccellente, ma una guerra totale, su tutti i fronti, non solo colpendo politici e magistrati ma anche sparando nel mucchio. Il primo a cadere fu, meno di due mesi dopo la sentenza, Salvo Lima, l’uomo di Andreotti in Sicilia: punito per non aver saputo garantire a Cosa nostra la protezione attesa e forse promessa. Poi fu il turno dei giudici e delle loro scorte, Falcone a Capaci il 23 maggio, Borsellino in via D’Amelio a Palermo il 19 luglio, e infine, il 17 settembre a essere ammazzato fu Ignazio Salvo, anche lui un perno del potere andreottiano in Sicilia legato a Cosa nostra. Lo stesso Grasso sarebbe dovuto cadere poco dopo. Riina aveva già dato l’ordine. Dovette soprassedere per ‘ problemi tecnici’. La strategia del colpire nel mucchio con le stragi indiscriminate fuori dalla Sicilia iniziò invece solo nel 1993, dopo l’arresto di Riina il 15 gennaio. Gli intrecci tra la vicenda della politica e quella della guerra di mafia sono in alcuni casi oggettivi. Il 25 maggio 1992 l’elezione di Oscar Luigi Scalfaro alla presidenza della Repubblica, dopo uno stallo lunghissimo, fu una conseguenza diretta della strage di Capaci, ma l’offensiva mafiosa contribuì in buona misura a delegittimare una classe dirigente politica già messa in ginocchio da tangentopoli. Nel marzo 1993 la sospensione del 41bis per 140 mafiosi a opera del ministro della Giustizia Giovanni Conso fu quasi certamente una conseguenza dell’offensiva di Cosa nostra, che mirava tra le altre cose proprio a ottenere la soppressione del carcere duro. Ma è probabile che, in vista di elezioni politiche imminenti dalle quali sarebbe uscito il quadro dirigente della nuova Repubblica, le grandi manovre in una regione decisiva come la Sicilia siano andate ben oltre. Solo che, come in tutte le vicende di questo genere che costellano la storia della prima Repubblica il confine tra legittimo sospetto e lavoro di fantasia è tanto labile da rendere obbligatoria massima circospezione. Altrimenti diventa fortissimo il rischio di cadere nella favole fiorite intorno al rapimento di Aldo Moro, confondendo invece di chiarire e rendendo la verità storica non più vicina ma irraggiungibile.

Stragi di mafia, l'altra verità sui veri piani della 'ndrangheta. La malavita organizzata calabrese insieme a Cosa Nostra siciliana nell'attacco allo Stato. Ma solo per pochi mesi: poi gli interessi e le strategie sono cambiate. Ecco cosa svela un'inchiesta che riscrive il passaggio alla Seconda Repubblica, scrive Gianfranco Turano il 26 gennaio 2017 su "L'Espresso". La strategia stragista della ’ndrangheta dura appena due mesi: dicembre 1993, gennaio 1994. Il 2 febbraio è tutto finito». Parla Federico Cafiero de Raho, procuratore capo di Reggio Calabria. Non c’è altro che il magistrato possa dire riguardo all’inchiesta di importanza colossale sui tre attentati contro i carabinieri risalenti a 23 anni fa che, secondo quanto risulta all’Espresso, sta per giungere alla conclusione. Partita come una sorta di “cold case” dalle intuizioni di investigatori etichettati come visionari ed emarginati per la loro determinazione ad andare in fondo, questa indagine è diventata la chiave d’accesso ai misteri d’Italia nei sessanta giorni che portano alla Seconda Repubblica. È una rilettura che investirà posizioni di potere e personaggi rimasti attivi per decenni e, fino a oggi, nella zona d’ombra dove i confini fra crimine organizzato e istituzioni non esistono più per una tragica tradizione del potere in Italia iniziata ai tempi della strategia della tensione, quasi mezzo secolo fa. Il lavoro che ha preso forma a Reggio è frutto di un impegno collettivo durato anni fra Calabria e Sicilia perché alla fine si è capito che la distinzione fra ’ndrangheta e Cosa nostra ha senso solo a livello territoriale o mandamentale e non nella componente riservata, quella legata con filo diretto alla politica in una fase di passaggio delicatissima quale è stata la lunga e cruenta transizione dalla Prima Repubblica, fra discese in campo e spinte autonomistiche estese dal Lombardo-Veneto alle due regioni più a sud d’Italia. Sui nomi interessati dall’inchiesta il riserbo è ovviamente assoluto. Ma il quadro può essere delineato ricostruendo le attività di magistrati come Vincenzo Macrì e Gianfranco Donadio, ex aggiunti della Dna, o come Francesco Curcio, attuale sostituto alla direzione nazionale antimafia, e Giuseppe Lombardo, pm reggino titolare dei fascicoli più delicati del rapporto ’ndrangheta-politica confluiti da poco nel maxiprocesso battezzato Gotha.

Tassello dopo tassello le parole dei pentiti, fra i quali Gaspare Spatuzza, Consolato Villani e suo cugino Antonino “il Nano” lo Giudice, potrebbero comporre lo scenario chiaro e definitivo nel quale la cosiddetta ’ndrangheta ha agito come tecnostruttura terroristica, per citare un’espressione di Donadio, in compartecipazione con gli apparati dello Stato.

Il primo attentato avviene il 2 dicembre 1993. Dal punto di vista criminale, è un fallimento. Il commando apre il fuoco contro una pattuglia di carabinieri in servizio nei quartieri della periferia sud di Reggio Calabria ma non centra il bersaglio. Il fatto rimane nelle cronache locali.

Il secondo episodio è un salto di qualità terrificante sotto il profilo militare. Il 18 gennaio 1994, poco dopo le feste natalizie, gli appuntati scelti Vincenzo Garofalo, 33 anni di Scicli, sposato con due figli, e Antonino Fava, 36 anni di Taurianova, capoequipaggio, anch’egli sposato con due figli, scortano fino al tribunale di Palmi un magistrato in arrivo dalla Sicilia. Attendono di riaccompagnarlo ma l’incontro negli uffici giudiziari si prolunga e la centrale operativa manda l’Alfa 75 dell’Arma in pattugliamento sull’autostrada. Una decina di chilometri a sud di Palmi, in un tratto in discesa e con varie gallerie fra gli svincoli di Bagnara e Scilla, i carabinieri notano un’auto sospetta. Prima che possano intervenire, vengono affiancati da un’altra macchina e investiti lateralmente da decine di colpi di Beretta M12, un’arma automatica. L’Alfa 75 finisce contro il guard rail. Gli assassini scendono e sparano ancora, stavolta frontalmente, dal parabrezza. Infieriscono con una valanga di piombo a compensazione del fallimento del 2 dicembre.

Una telefonata rivendica l’azione. Si saprà dopo che a chiamare è Villani, autista del commando. Pentito del clan De Stefano, Villani ha dichiarato al processo Meta otto mesi fa: «Dovevamo fare come la Uno bianca». Il riferimento è alla catena di delitti commessi dai fratelli Savi, poliziotti, a Bologna e dintorni. Il massacro dell’A3 provoca un effetto enorme. A Reggio arriva il comandante dell’Arma Luigi Federici e annuncia la mobilitazione generale. Il cronista di Repubblica scrive senza mezzi termini che il massacro dell’autostrada è «il tassello di un disegno criminale terroristico-mafioso». Ci vorranno anni perché la definizione trovi riscontro giudiziario. E lo trova in Sicilia nell’autunno 2009, grazie alle dichiarazioni rese dal pentito Gaspare Spatuzza a Caltanissetta. «Spatuzza aveva notizie frammentarie sulle operazioni contro i carabinieri desunte da colloqui con il suo boss Graviano», dice Antonio Ingroia che da pubblico ministero ha raccolto le parole del pentito insieme al collega Nino Di Matteo e che oggi da avvocato è difensore di parte civile delle vedove di Fava e Garofalo. «Sa però che il duplice omicidio dell’autostrada fa parte di una reazione concertata contro l’Arma». Dopo il massacro di Scilla Graviano dice a Spatuzza che i calabresi si erano mossi e che adesso toccava a loro. Inizia così la preparazione della strage dell’Olimpico, dove un’autobomba deve esplodere in una domenica di calcio vicino a un pullman dei carabinieri. Una prima versione, definita dal procuratore antimafia Piero Luigi Vigna, fissa l’attentato al 31 ottobre 1993 durante Lazio-Udinese, dunque prima delle operazioni in Calabria. Successive indagini spostano la data al 9 gennaio 1994 (Roma-Genoa) e infine al 23 gennaio (Roma-Udinese). L’attentato non va a segno per un malfunzionamento del telecomando dell’autobomba. L’operazione non sarà ripetuta perché i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano vengono arrestati il 27 gennaio 1994, quattro giorni dopo la partita di Roma e circa un anno dopo Totò Riina. Il 26 gennaio 1994, mercoledì, Silvio Berlusconi annuncia in televisione la sua discesa in campo con Forza Italia, il partito-azienda organizzato in pochi mesi da Marcello Dell’Utri.

Ma in Calabria non è ancora finita. Alle 20.35 del primo di febbraio 1994 una pattuglia in servizio sulla tangenziale di Reggio, nei pressi dello svincolo di Arangea, nota una macchina ferma. È l’ora di punta e il veicolo in sosta è un rischio per la circolazione. I militari, Bartolomeo Musicò e Salvatore Serra, scendono per un controllo e vengono accolti da una tempesta di proiettili: fucile a canne mozze e machine pistol Beretta M12, la stessa dei delitti precedenti. Feriti in modo grave, i carabinieri si salvano soltanto perché i killer, a differenza di quanto accaduto a gennaio sull’autostrada semideserta, non possono fermarsi per il colpo di grazia. Rischiano di finire incastrati nel traffico. I due soldati si salveranno. L’Arma non tarda a reagire. Il 5 maggio 1994 vengono arrestati per gli assalti ai carabinieri Giuseppe Calabrò, Consolato Villani, ancora minorenne, e i presunti armieri. Calabrò e Villani incominciano a collaborare. In sostanza, confessano. Hanno sparato loro ed erano solo loro due quella notte d’inverno sull’autostrada: Villani guidava, Calabrò sparava. Ma operano una sostituzione del movente che condizionerà l’esito del processo: l’assassinio di Fava e Garofalo sarebbe stata la reazione d’impulso per evitare un controllo a un’altra auto di mafiosi che trasportava un carico di armi da guerra prelevate a Gioia Tauro. Gli investigatori seguono la pista del M12. Si scoprirà che la mitraglietta è un’arma prodotta per esigenze sceniche del cinema o della tv, senza marchio né matricola. Esce dalla catena di montaggio devitalizzata e viene rimessa in condizioni di normale funzionamento senza troppo sforzo dagli armieri delle ’ndrine. Pochi mesi dopo il massacro, gli uomini della Dia di Milano trovano anche il deposito dal quale provengono le armi sceniche. È in un capannone in Val Trompia nel bresciano, nel distretto produttivo della Beretta. Poi la traccia viene abbandonata. Le acque si calmano, salvo gli ultimi fuochi della banda della Uno bianca che arriva al capolinea con gli arresti di Roberto e Fabio Savi nel mese di novembre. Il 7 dicembre 1994 viene inaugurata a Reggio la scuola allievi carabinieri, intitolata a Fava e Garofalo. Le due vedove ritirano la medaglia d’oro al valor militare. Oltre quindici anni dopo sarà Donadio a riprendere la pista delle armi sceniche con l’aiuto di Francesco Piantoni e Roberto De Martino, i colleghi della procura di Brescia che si sono occupati della strage di piazza della Loggia.

Villani ha 17 anni. È un debuttante del crimine ma la sua famiglia ha solide tradizioni di ’ndrangheta ed è imparentata con i Lo Giudice, un clan di Reggio nord schierato con i Condello-Imerti-Serraino e contro i De Stefano-Tegano-Libri nella guerra da 700 morti finita nell’estate 1991, a ridosso dell’omicidio del giudice Antonino Scopelliti. Calabrò, che al tempo ha 22 anni, ha invece già una storia di sangue alle spalle. Si propone come uomo d’armi alla cosca di Reggio sud Ficara-Latella, schierata con il clan De Stefano-Tegano-Libri nella guerra. Viene accettato con riluttanza perché ha un profilo poco ortodosso. Gli piace esibire la sua mafiosità. Ama ’ndranghetiare, come si dice in Calabria. In compenso ha il grilletto facile tanto che viene soprannominato “Scacciapensieri” per la leggerezza d’animo con la quale esegue gli incarichi dei capi. Senza troppe domande ha sparato quindici colpi in pieno giorno e in centro per ammazzare un vigile urbano, Giuseppe Marino. Qualche giorno prima Marino aveva osato multare l’auto di un boss per divieto d’accesso alla zona pedonale del corso Garibaldi. La cosca tiene Calabrò a distanza di sicurezza perché lo considera instabile, come il fratello Francesco, coinvolto anch’egli nell’assalto ai carabinieri, pentito e subito bollato come psicopatico da una perizia ad hoc. Quando il processo inizia, Giuseppe Calabrò collabora. Il tribunale decide che è credibile quando si accusa ma non è credibile quando accusa gli altri. Il verdetto (febbraio 1997) condanna all’ergastolo il killer mentre Villani viene affidato al giudice del tribunale dei minori Domenico Santoro, poi gip nel processo Mammasantissima. Nel 1998 Calabrò viene spedito agli arresti domiciliari a Bologna. Lì evade e in mezzo alla folla del Natale ammazza due bangladeshi che, secondo lui, avevano stuprato la sua ragazza due anni prima. Il processo chiarirà che nel 1996 le vittime non erano neppure in Italia. Condannato all’ergastolo, stavolta in via definitiva, nel 2011 Calabrò pubblica il libro-memoriale “Una scia di sangue” con la prefazione di uno dei giudici più potenti del tribunale di Reggio, Giuseppe Tuccio, allora garante dei diritti dei detenuti su nomina del governatore regionale Giuseppe Scopelliti. Quando esce il libro di Calabrò, il fratello Francesco, che nel frattempo è diventato imprenditore, è già scomparso da cinque anni (2006). I suoi resti saranno trovati ad aprile del 2013, dentro una Smart gialla affondata nel porto di Reggio. Anche il primo cugino di Giuseppe Calabrò, Giovanni detto “il marchese”, diventerà un imprenditore, ma di notorietà internazionale con appoggi in Russia, Kazakhistan e un rapporto diretto con il presidente turco Tayyip Erdogan. Amico del governatore della Liguria Giovanni Toti e debitore del Comune di Roma per 36 milioni di euro, Calabrò ha fatto parlare di sé l’anno scorso grazie al tentato acquisto del Genoa calcio da Enrico Preziosi, prima di essere condannato in secondo grado a sei anni per la bancarotta dell’Algol dal tribunale di Busto Arsizio nell’aprile del 2016.

A cavallo fra il 1993 e il 1994 matura un mutamento politico di grande importanza a livello nazionale. È in arrivo Forza Italia, che troverà in Calabria il suo coordinatore in Amedeo Matacena junior, oggi latitante a Dubai per sfuggire a una condanna definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa e per le sue frequentazioni con il clan De Stefano, ribadite di recente in aula dal pentito Nino Fiume. Di qua e di là dello Stretto, stanno crescendo le proposte autonomistico-secessioniste con le Leghe del Sud. L’ipotesi investigativa è che l’attacco all’Arma sia inquadrato in un’ipotesi di autonomismo eversivo. A decidere la strategia è una commissione ristretta dove i siciliani, autori delle stragi del 1992 (Giovanni Falcone e Paolo Borsellino) e del 1993 (Roma, Firenze, Milano) concordano la linea con i rappresentanti dei due principali clan calabresi: i De Stefano di Reggio e i Piromalli di Gioia Tauro. Dopo gli assalti ai carabinieri, però, le famiglie della ’ndrangheta chiedono una riunione plenaria di tutta la provincia nel luogo dove per tradizione si svolge questo tipo di summit: il santuario della Madonna della Montagna a Polsi, in Aspromonte. Il dissenso delle altre famiglie verso la strategia stragista è netto ed esplicito. La ’ndrangheta ha interesse a crescere e a prosperare economicamente, non a guerreggiare con la Repubblica italiana. Bisogna smetterla subito di attaccare l’Arma per rientrare nei ranghi e amministrare il nuovo potere all’orizzonte dall’interno, come la vera mafia ha sempre fatto, individuando referenti politici nell’ordine emerso dalle elezioni politiche del 28 marzo 1994 dove, fra gli altri, è eletto anche Matacena. La mozione di maggioranza è accolta, e forse con sollievo, anche da parte di chi aveva iniziato a seguire i siciliani sulla via dello scontro totale.

I Piromalli e i De Stefano non sono gente nuova al protagonismo politico. Già nel 1970, con i Moti per Reggio capoluogo, hanno strumentalizzato la rivolta popolare in parallelo con l’estrema destra del golpista Junio Valerio Borghese (Fronte nazionale) e del fondatore di Avanguardia nazionale Stefano Delle Chiaie. Ma anche lì hanno saputo tirarsi indietro quando i finanziamenti statali sono piovuti su Reggio città e su Gioia Tauro per il centro siderurgico, poi diventato il porto. Dal febbraio 1994, il crimine calabrese tornerà sott’acqua per diventare in pochi anni l’organizzazione più ricca e potente del mondo. Che poi sia davvero ’ndrangheta è una questione nominalistica. Il boss Pasquale Condello “il Supremo”, al momento del suo arresto nel 2008 ha dichiarato: «Chiamatela come volete: ’ndrangheta, se siamo in Calabria. Ma se eravamo in Svezia si chiamava in un altro modo». E Giuseppe De Stefano, erede al 41 bis del clan reggino protagonista dei Moti e di due guerre da mille morti, ha affermato in udienza al processo Meta: «Noi non siamo ’ndrangheta». E non voleva dire: siamo pacifici cittadini. Intendeva: siamo ben altro, siamo molto di più.

Il caso dei carabinieri rimane chiuso dalla sentenza del 1998 fino al 2011, quando in Dna lavora come aggiunto Macrì, poi sostituito dall’altro reggino Alberto Cisterna. Macrì è il primo e forse il più acuto analista dei legami fra la ’ndrangheta e lo Stato. È lui a inquadrare la figura di Calabrò nel contesto dei legami fra la cosiddetta ’ndrangheta e gli apparati dello Stato. In questo ambito sta già prendendo forma l’intuizione investigativa di Donadio, anch’egli alla Dna, su “Faccia da mostro”, il poliziotto coinvolto nell’omicidio del collega Antonino Agostino. Prima delle ferie estive del 2012, l’aggiunto di Reggio Michele Prestipino manda in Dna un’informativa con una lettera anonima che inquadra gli assalti ai carabinieri del 1993-1994 in una riedizione dell’eterna strategia della tensione italiana. Il 18 settembre 2012 un ex compagno di cella di Calabrò dice che la lettera è del killer. L’11 ottobre Donadio interroga in carcere Villani che, alla fine di un colloquio senza sostanza, mentre il magistrato sta uscendo dalla stanza, lo ferma: «Dottore, non ve ne andate». E racconta i fatti allineandosi ai contenuti della lettera. Calabrò viene interrogato a Bollate il 27 novembre 2012. Esordisce dicendo a Donadio: «So perché mi avete contattato». Conferma il contenuto della lettera, ammette che è sua ma si blocca quando sente parlare dei De Stefano. Un terzo collaboratore entra in scena. È Nino Lo Giudice. Le sue prime dichiarazioni (14 dicembre 2012) sono fondamentali per identificare Faccia di mostro ossia il poliziotto Giovanni Aiello, che si gode la pensione dello Stato a Montauro Lido, poco a nord di Soverato. Il Nano dice fra l’altro di essere in contatto con il capocentro del Sismi (i servizi militari) Massimo Stellato e che Aiello gli è stato presentato dal capitano dei carabinieri Saverio Spadaro Tracuzzi, uomo della Dia arrestato a dicembre del 2010 per concorso esterno in associazione mafiosa e condannato in secondo grado a 10 anni nel maggio del 2016 insieme a Luciano Lo Giudice, fratello di Nino il Nano. Consapevole del rischio che corre, Lo Giudice si dà malato al colloquio successivo, fissato prima di Natale, poi scrive alcuni memoriali dove calunnia Donadio, Cisterna, Prestipino, lo stesso procuratore capo del tempo Giuseppe Pignatone, e a giugno 2013 scompare dalla località delle Marche in cui vive sotto il programma di protezione. Il caos organizzato di Lo Giudice ottiene risultati notevoli. Il 6 settembre 2013, il nuovo procuratore capo della Dna, Francesco Roberti, entrato in carica da un mese, ritira le deleghe a Donadio che, sotto procedimento disciplinare, si trasferisce alla Commissione Moro. Ma l’indagine procede a Reggio con Cafiero e Lombardo che lavorano su un arco temporale molto ampio. I primi risultati si vedono nel 2016, quando gli avvocati Giorgio De Stefano e Paolo Romeo, già condannati come Matacena per concorso esterno, tornano in carcere con nuove accuse che non configurano un ne bis in idem. Lo stesso accade con il fascicolo sulle stragi dei carabinieri. Condannati gli esecutori materiali, l’inchiesta riparte dai mandanti e dai moventi reali, molto diversi dalle follie individuali di un pistolero. «Siamo stati manipolati», conclude il pentito Villani. Stavolta sono i traditori dentro lo Stato a tremare.

Quello scambio infame dietro l’uccisione del giudice Antonino Scopelliti. La nuova indagine della procura di Reggio Calabria potrebbe portare a una svolta. A motivare l'omicidio, una trama eversiva e un patto tra cosche, scrive Giovanni Tizian il 26 gennaio 2017 su "L'Espresso". Un omicidio eccellente, ancora irrisolto. Forse il prezzo che i calabresi dovevano pagare a Totò Riina e alla sua Cosa nostra stragista per la mediazione che ha pacificato una città in guerra. Oppure il motivo è un altro? E lo potrà chiarire solo la nuova indagine della procura di Reggio Calabria, che sembra vicina a una svolta. Dietro l’uccisione del giudice Antonino Scopelliti c’è una trama eversiva. Interessi torbidi, che convergono in un patto criminale tra mafiosi siciliani e calabresi che si è manifestato dieci mesi prima del 23 maggio ’92, giorno della strage di Capaci in cui morì Giovanni Falcone con la moglie e gli uomini della scorta. Per l’uccisione di Scopelliti nessun colpevole, solo due processi alla commissione regionale di Cosa nostra, che sono finiti con l’assoluzione in Appello. Alla sbarra erano finiti prima Riina e poi Provenzano. Per questo motivo, visto che i vertici della mafia siciliana sono stati già processati, c’è chi sostiene che la nuova inchiesta possa guardare anche oltre la pista già battuta finora del favore tra mafie. E puntare tutto sulle responsabilità della ’ndrangheta. Un’ipotesi, certo. Restando alle carte, però, numerosi pentiti hanno indicato lo scambio di "cortesie” tra padrini. Oppure il movente è da ricercare nelle parole pronunciate davanti ai giudici dal pentito Umberto Di Giovine. Il collaboratore sostiene che il boss Nino Imerti, a capo della zona in cui è stato ucciso Scopelliti, avrebbe incontrato il giudice nel 1989 subito dopo l’omicidio di Ludovico Ligato intimando al magistrato che se per quel delitto fosse stato indagato il cognato avrebbe ucciso i giudici che si erano occupati dell’inchiesta. Sono più numerosi i pentiti che invece riconducono l’omicidio Scopelliti al favore che la ’ndrangheta ha fatto a Cosa nostra per aver messo fine alla carneficina in riva allo Stretto. La condanna a morte del magistrato calabrese è stata eseguita nel tardo pomeriggio dell’8 agosto ’91 a Villa San Giovanni, in località Piale. Piale, un dettaglio importante. La zona in cui è avvenuto l’agguato, in certi territori, è come un marchio di fabbrica. Qui Scopelliti è stato assassinato dai proiettili di due sicari mentre guidava l’auto sulla strada che l’avrebbe riportato a Campo Calabro, il suo paese di origine alle porte di Reggio Calabria. Città all’epoca insanguinata da un’interminabile guerra di mafia. Mille morti, raccontano le cronache. Numeri da conflitto bellico. Il giudice in quei giorni era inquieto. Nonostante fosse in ferie stava studiando i faldoni del maxi processo a Cosa nostra. Sarebbe toccato a lui sostenere l’accusa nell’ultimo grado del processo istruito dal pool antimafia di Palermo contro la cupola siciliana di Riina e "compari”. «Si era fatto inviare le carte fino in Calabria, poi la sera prima dell’agguato disse a mia madre che avrebbe anticipato la partenza per Roma», ricorda la figlia Rosanna. Il territorio, forse, aveva iniziato a emettere suoni ostili. Rosanna Scopelliti ci confida un altro particolare: il clan di Campo Calabro era d’accordo con la scelta di ucciderlo. Ma contando poco nello scacchiere, ha dovuto accettare la decisione dei vertici provinciali. Dopo l’agguato una telefonata arriva all’Ansa: è la rivendicazione della Falange Armata. La sigla ritornerà puntuale a ogni delitto eccellente, anche nel periodo delle stragi firmate dai Corleonesi. Ventisei anni dopo alla procura antimafia di Reggio Calabria guidata da Federico Cafiero De Raho non si danno per vinti. E all’orizzonte si intravede un punto di svolta. I magistrati hanno in mano qualcosa di concreto. Due nuovi collaboratori, che avrebbero indicato i presunti assassini. Pentiti che hanno saputo da altri affiliati i nomi dei sicari del magistrato di Cassazione. E non è escluso, al momento, che almeno uno dei due killer si trovi già in carcere, finito nella rete della procura per altre inchieste antimafia. Da qualche mese, poi, una figura di peso dei clan di Villa ha deciso di collaborare. Custodisce molti segreti, dicono i detective che conoscono il suo spessore. A lui sicuramente i pm chiederanno notizie sul caso Scopelliti. Il fascicolo è nell’ufficio del sostituto Giuseppe Lombardo. Che ci siano elementi nuovi, del resto, era chiaro già a metà dicembre. I media locali, infatti, avevano rilanciato la dichiarazione del procuratore capo Federico Cafiero De Raho: «Troveremo chi ha ucciso Antonino Scopelliti». Una frase pronunciata durante la conferenza stampa in occasione dell’operazione "Sansone”, che ha portato in cella i vertici dei clan che controllano Villa San Giovanni. Area strategica, Villa. Governata da due famiglie, un tempo nemiche, ma che dopo la fine della seconda guerra di mafia condividono il territorio in armonia. Una guerra che inizia proprio a Villa nel 1985 con l’attentato al Riina calabrese, Nino Imerti detto il "Nano feroce”. E sempre nel regno degli Imerti termina con l’omicidio del giudice Scopelliti. Un caso? Oppure un messaggio: dove la tragedia aveva avuto inizio deve avere fine. Le chiavi per decifrare con esattezza questo delitto le forniscono le ultime inchieste sul vertice "segreto” della ’ndrangheta. L’impasto che lega pezzi di Stato deviato ai mammasantissima ha un ingrediente indispensabile e inodore: la massoneria. Una cupola, a lungo invisibile, il cui profilo, ora, è impresso in migliaia di pagine di verbali. Il maxi processo per 78 persone, tra cui compaiono avvocati-padrini, boss-imprenditori, sacerdoti collusi e persino un senatore della Repubblica, è vicino. Dagli stessi atti affiorano i dettagli di un’amicizia tra ’ndrine e cosche siciliane, negli anni diventata una sinergia stabile e decisamente pericolosa per la democrazia di questo Paese. Un’alleanza dai tratti, in un certo momento storico, eversivi. Per comprendere le ragioni dell’omicidio Scopelliti è necessario immergersi in queste sabbie mobili della Repubblica dove insospettabili capi mafia stringono la mano di uomini delle istituzioni. E dove la parola d’ordine è trattare. Trattative utili a mantenere l’ordine, a bandire il caos. Per farlo l’organizzazione calabrese sfrutta ogni pedina. Il pentito Antonino Lo Giudice, per esempio, racconta di un complice - colonnello dei carabinieri già condannato per concorso esterno - che nel porto di Gioia Tauro incontrava agenti della Cia, «dove avevano un ufficio». Anche di queste insospettabili particelle è fatto il dna della ’ndrangheta che ha ucciso il magistrato. Ai funerali di Scopelliti c’era anche Giovanni Falcone. Andava ripetendo che il prossimo obiettivo sarebbe stato lui. Una previsione inquietante, soprattutto perché pronunciata dal magistrato che fin dall’inizio aveva visto nel delitto del collega commesso in Calabria qualcosa di enorme. Aveva intuito, Falcone, che esisteva tra Sicilia e Calabria un network tra le due mafie più potenti. Una rete di cosche che parlano dialetti diversi. Disposte, però, a scambiarsi favori, a progettare azioni comuni, a investire insieme. Sinergie criminali. Il pentito Nino Fiume è stato un ingranaggio essenziale della famiglia De Stefano. I padroni di Reggio, la cui storia si intreccia a cinquant’anni di misteri italiani. Sullo sfondo destra eversiva, logge coperte, servizi deviati e capi bastone. I De Stefano sono un clan dall’anima nera, con menti raffinatissime. Fiume è stato uno dei primi, nel 2015, a dare un nome al tavolino comune tra le mafie, che lui chiama "il Consorzio”: «Prendeva le decisioni che riguardavano le azioni criminose più delicate. Per consumare gli omicidi eccellenti si verificavano anche scambi di killer tra le varie strutture criminali consorziate». Ma c’è di più. E lo spiega ai pm calabresi un’altra gola profonda: «Ci si consultava, ci si scambiava favori, anche omicidi. Quando Cosa nostra chiedeva un favore ai referenti calabresi o campani, partecipava in prima persona con propri uomini all’esecuzione dei delitti». L’agguato al pm di Cassazione, però, segna un altro punto di svolta. Fino all’8 agosto ’91 la regola generale impediva ai clan calabresi di uccidere uomini delle istituzioni. In cambio gli ’ndranghetisti avrebbero ottenuto aiuto da persone «di un certo livello, che pur essendo esclusi dai poteri legislativi avevano le capacità economiche per poter entrare in determinate situazioni» ha spiegato un altro collaboratore. Questi rispettabilissimi rappresentanti della borghesia cittadina erano coloro che Paolo De Stefano, il "Nero” dello Stretto, chiamava «intoccabili». L’omicidio di Scopelliti, dunque, viola quei patti. Poi, grazie anche al ruolo di alcune toghe «garanti della pax mafiosa», la lacerazione si è ricomposta. Si ristabilivano così gli accordi validi prima della morte del magistrato. Saltati, forse, perché Cosa nostra aveva chiesto un favore. E la ’ndrangheta non poteva rifiutare. Doveva essere riconoscente al gotha mafioso siciliano che si era mosso per portare la pace nella città calabrese. Con Riina, in missione a Reggio nei panni inediti di uomo di pace. Visita avvenuta, dice il pentito Consolato Villani, prima dell’agguato al magistrato. Un’azione eclatante che non trova d’accordo tutti i generali dei clan. Per dirla con le parole di un ex colonnello del crimine, «ad alti livelli bisogna essere amici dello Stato, non nemici». Mafia calabrese e siciliana, dunque, unite nella lotta, negli affari, nella strategia politica. In questo senso anche un altro delitto eccellente fornisce ulteriori tasselli per ricomporre il puzzle. L’assassinio, il 26 giugno ’83, del procuratore di Torino Bruno Caccia. Ucciso su mandato di un capo bastone della ’ndrangheta piemontese, Domenico Belfiore. Diversi collaboratori siciliani dei "Catanesi”, guidati dal gruppo di Jimmy Miano, ammettono di essere stati preallertati dell’imminente agguato al magistrato. Ciò che contava per Belfiore è che gli alleati con cui divideva il territorio torinese sapessero a chi dovevano dire grazie per l’eliminazione del "nemico comune”. E questo fatto, peraltro accertato da un tribunale, conferma quanto rivelato, a distanza di anni, dall’indagine sulla cupola segreta della ’ndrangheta: il capo dei Catanesi-Torinesi, Jimmy Miano, è lo stesso indicato dal pentito Nino Fiume quale membro del "Consorzio”. Accanto a questo, c’è poi una pista - archiviata ma sulla quale la famiglia del giudice difesa dall’avvocato Fabio Repici insiste e chiede nuove verifiche - che conduce al Casinò di Saint Vincent. Il procuratore Caccia stava indagando sul riciclaggio di quattrini mafiosi nella casa da gioco. Un giro di cui anche la ’ndrangheta avrebbe fatto parte. E dove compare un nome, Rosario Pio Cattafi, in passato indagato, e poi prosciolto, con Paolo Romeo, l’avvocato della cupola reggina in quota De Stefano. Un dettaglio ulteriore: l’assassinio di Caccia sarà rivendicato dalle finte Br. Per Scopelliti furono i "falangisti armati” a depistare. In questo senso i delitti Caccia e Scopelliti, gli unici magistrati uccisi dalle cosche calabresi, rivelano molto più di quanto è stato raccontate. C’è poi un ex capo mafia di Messina, Gaetano Costa, al corrente di altri particolari sul patto siglato tra le due mafie: «I legami fra Cosa nostra e ’ndrangheta erano strettissimi. Si arrivò anche a progettare e a dare forma (parliamo del periodo successivo alle stragi di Falcone e Borsellino) a una super-struttura che comprendeva le due organizzazioni: la Cosa Nuova, questa serviva anche a inserire in modo più organico nel tessuto del crimine organizzato siciliano e calabrese persone insospettabili, collegamenti con entità politiche, istituzionali e massoniche». Costa fa i nomi di alcuni padrini col grembiulino. Nomi pesanti: Giuseppe Mancuso e Giuseppe Piromalli. Che è per caratura come dire Riina o Messina Denaro. «La manifestazione più cruenta di questa alleanza è l’omicidio di Scopelliti», conclude. Non tutti dalla sponda calabrese erano, però, d’accordo su come era stata gestita la vicenda. Per questo i clan si spaccano sull’ulteriore proposta di Riina, che invita la ’ndrangheta a partecipare alla mattanza stragista. In Calabria solo tre mammasantissima condividono la volontà suicida, i De Stefano sono tra questi. In due mesi, tra ’93 e ’94, si manifesta qualche timido tentativo. Poi il ritorno alle origini. In silenzio ricostruiscono le basi per il futuro. Mettono in pratica la teoria dell’inabissamento. E abbandonano i Corleonesi al loro destino.  

Leonardo Sciascia, polemista "A futura memoria". Leonardo Sciascia (1921-1989) prese posizioni eretiche. Talvolta fino all’abbaglio (non solo su Borsellino, anche su Pertini). Ma con ironia, senza esibizionismi. I suoi scritti politici e civili tornano ora a dimostrarlo, scrive Simonetta Fiori il 13 marzo 2017 su “La Repubblica”. «Questo libro raccoglie quel che negli ultimi dieci anni io ho scritto su certi delitti, certa amministrazione della giustizia; e sulla mafia. Spero venga letto con serenità». Così nel novembre del 1989 Leonardo Sciascia si accomiatava dalla raccolta dei suoi scritti politici e civili A futura memoria – titolo tipicamente sciasciano, inclusa la parentesi scettica che lo completa (se la memoria ha un futuro). È il suo ultimo libro. Gliel’aveva proposto Mario Andreose, il direttore editoriale di Bompiani – una scelta degli articoli usciti prevalentemente sull’Espresso e sul Corriere della Sera – e Sciascia acconsentì, ma a condizione che fosse l’editore ad occuparsi della ricerca: a lui mancavano già le forze. E così avvenne. L’apporto dello scrittore fu minimo, ma paradossalmente ancora più che in altri lavori la sua personalità affiora da ogni rigo, da ogni ragionamento analitico, da ogni invettiva impastata di ironia. L’autore non fece a tempo a vedere il volume stampato, ma di quegli scritti conosceva bene gli argomenti condotti spericolatamente sulla linea di confine. Le critiche al prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa. La campagna contro i «professionisti dell’antimafia». I protratti attacchi alla «casta intoccabile» dei magistrati, lasciati impunemente liberi nella «irresponsabilità».  E oggi la preghiera messa alla fine dell’introduzione – leggetemi con serenità – appare come una delle sue ultime provocazioni, nella consapevolezza del fuoco polemico che la silloge sprigionava. Perché la sua, in fondo, era una voce perennemente contro. Contro «l’astrale stupidità» della sinistra che aveva combattuto anche dalle file del Partito radicale. Contro «luoghi comuni» e «conformismi» da lui ricondotti al perbenismo forcaiolo della gauche intellettuale.  E forse perfino contro lo stesso Sciascia, grazie al quale moltissimi italiani avevano imparato cos’era la mafia. Quasi trent’anni dopo – in occasione della nuova edizione adelphiana per la preziosa cura di Paolo Squillacioti – l’appello alla serenità non può che essere accolto. Anche in omaggio a una formidabile tipologia che oggi appare quasi del tutto smarrita, l’intellettuale civile che non esita a mettere la faccia su fatti di cronaca e scelte della politica, sui fenomeni sociali e fondamentali questioni del diritto. Per dieci anni – dal 1979 al 1989, una decade tumultuosa nella storia italiana – Sciascia non esitò a dire la sua sulla giustizia ingiusta e sugli omicidi di mafia (Cesare Terranova, Piersanti Mattarella oltre che il generale dalla Chiesa). A differenza di Pier Paolo Pasolini che amava ricorrere alle metafore, negli interventi politici resta essenzialmente uno scrittore di cose, secco, asciutto, impregnato di letterarietà ma mai incline alla fantasia poetica dinanzi all’urgenza quotidiana. Antimonumentale per scelta, chissà come avrebbe accolto oggi gli incensamenti di chi ne vuole fare il profeta infallibile, anticipatore del degrado che tinge di mafia l’antimafia. A lui piaceva quel film di Duvivier, ambientato in una casa di riposo per attori, dove alla morte di un ospite l’amico più caro si fa prendere dall’enfasi celebrativa – «interprete inarrivabile», «straordinario protagonista...» – per fermarsi all’improvviso «no, non posso dire questo». E solo allora – annota Sciascia – «dalla verità sorge l’elogio più vero e commovente». Verità. Bussare alle porte della verità: un’immagine che si trova di frequente nei suoi scritti. Vi è sempre riuscito Sciascia? Sicuramente ci ha provato, con esiti alterni. Appena morto Carlo Alberto dalla Chiesa, ucciso da un kalashnikov della mafia il 3 settembre del 1982, sul Corriere della Sera lo scrittore ne lamenta leggerezza nella difesa – per non pesare sulla giovane moglie, avrebbe aggiunto – e scarsa comprensione del nuovo fenomeno mafioso. Dinnanzi alla reazione del figlio Nando – trentatré anni, spinto dallo sperdimento e dal dolore a dire anche cose molto sbagliate – Sciascia non sembra conoscere temperanza verso quel «piccolo mascalzone», «privo di intelligenza» e «carico di ambizione-abiezione»: certo ferito dalle accuse ingiuste, ma privo della pietas che si deve a un orfano a cui hanno appena ammazzato il padre. Ma l’acme polemico viene raggiunto cinque anni dopo, il 10 gennaio del 1987, con il celebre articolo sui «professionisti dell’antimafia», espressione che non compare nel testo ma è frutto dell’invenzione di un abile titolista del Corriere (successivamente fatta propria da Sciascia). Partendo da un saggio di Christopher Duggan sulla mafia in Sicilia sotto Mussolini, Sciascia rileva come all’epoca la lotta contro la criminalità fosse diventata uno «strumento di potere» nella lotta tra fazioni all’interno del fascismo. Un rischio – aggiungeva – ancora presente nel regime democratico. I sintomi di questa degenerazione? I comportamenti di due personaggi, in particolare. Un sindaco troppo impegnato in esibizioni antimafiose per potersi occupare dell’amministrazione di Palermo (non lo cita, ma è Leoluca Orlando) e un magistrato promosso procuratore della Repubblica a Marsala non per anzianità ma per meriti acquisti nella sua lotta contro la delinquenza mafiosa – con la conseguenza che dell’incarico veniva privato il legittimo candidato, il dottor Alcamo (si tratta di Paolo Borsellino, questa volta apertamente citato). Conclusione dell’articolo: «I lettori comunque prendano atto che nulla vale più in Sicilia per fare carriera nella magistratura del prendere parte a processi di stampo mafioso». Borsellino era allora uno dei componenti (insieme a Falcone) del pool antimafia creato da Antonino Caponnetto, giudice istruttore del maxiprocesso che avrebbe messo fine all’impunità di Cosa Nostra. La frase di Sciascia cadde come una grandinata sui giudici impegnati in trincea e sull’opinione pubblica che guardava con speranza al dibattimento palermitano. Con Borsellino si sarebbero poi chiariti: splendide foto scattate l’anno successivo a Marsala li ritraggono allegri e conviviali. Disse la verità allora Sciascia? Oggi si tende a celebrarne la carica premonitrice, riferendo le sue analisi a chi fa carriera grazie alla retorica e al mantra vittimario, allo spettacolo malinconico di nobili paladini dell’antimafia inquinati dalla mafia. Ma allora? Anche Borsellino dedito all’«eroismo che non costa nulla»? Anche lui «eroe della sesta giornata», come a Milano viene bollato chi si prende il merito a cose fatte? Il grande merito di Sciascia è che fino all’ultimo non spense mai sulla mafia il lume dell’opinione pubblica, denunciandone le connivenze con la politica, la capacità di infiltrazione, i silenzi omertosi della Chiesa.  E invocando costantemente l’indagine fiscale e patrimoniale come strumento risolutore del crimine. Così come non arretrò mai di un millimetro nelle sue battaglie autenticamente garantiste contro la retorica delle manette e contro la cattiva amministrazione della giustizia, di cui rinvenne un simbolo in Enzo Tortora, da lui sostenuto fin dalle prime accuse – e qui sì, voce solitaria e lungimirante nella canea scatenata contro il conduttore. All’accusa di vanità mossa una volta da Eugenio Scalfari, si ritrasse con un passo di George Bernard Shaw: «I negri prima li si costringe a fare i lustrascarpe e poi si dice che sanno fare solo i lustrascarpe. Così prima mi si attacca poi mi si fa rimprovero di essere attaccato». In realtà quella del polemista fu una vocazione più che una costrizione. E della sua biografia di eretico, pronto a immolarsi sugli altari dell’inquisizione progressista, gli piaceva farsi vanto. «Io ho dovuto fare i conti, da trent’anni a questa parte, prima con coloro che non credevano o non volevano credere all’esistenza della mafia, e ora con coloro che non vedono altro che mafia. Di volta in volta sono stato accusato di diffamare la Sicilia o di difenderla troppo; i fisici mi hanno accusato di vilipendere la scienza, i comunisti di avere scherzato su Stalin, i clericali di essere un senza Dio; e così via. Non sono infallibile; ma credo di aver detto qualche inoppugnabile verità». Non cercò mai la popolarità a buon mercato, la simpatia esibita lo irritava. A tal punto che neppure davanti a un personaggio seduttivo come Sandro Pertini riuscì ad ammorbidire la sua scontrosità (che «può apparire perfino come arroganza, ma non è che timidezza e discrezione», corresse nell’introduzione di A futura memoria).  L’episodio del loro incontro viene rievocato nelle prime pagine e colpisce una frase messa tra parentesi, cassata nell’edizione Bompiani forse per eccesso di prudenza verso l’ex presidente ancora vivo: «Il popolarissimo Pertini; ma quanti uomini rappresentativi sono stati popolarissimi in Italia e poi sono apparsi, se non nefasti, apportatori di guai?». Una domanda che, seppur mossa da un bersaglio sbagliato, ha il sapore amaro – questa volta sì – della profezia.

I gendarmi dell’antimafia processarono Sciascia, scrive Valter Vecellio il 10 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Il 10 gennaio di trent’anni fa. Il Corriere della Sera pubblica un lungo articolo di Leonardo Sciascia, redazionalmente intitolato “I professionisti dell’antimafia” (e sarà questo titolo a provocare lo scandalo e non il contenuto, che con molto anticipo, come sempre quando si tratta di Sciascia, mette in guardia da rischi e pericoli che puntualmente poi si avverano e verificano). Quell’articolo viene accolto da una quantità di polemiche animate da tanti, in cattiva, pessima fede; e da qualcuno (pochissimi, invero) in buona fede. E culmina con l’insulto, l’accusa, scagliati con cattiveria: Sciascia è diventato un “quaquaraquà”. La lascio per ultima, la domanda. Di tempo ne è trascorso, ma ho timore di riaprire una ferita che non si cicatrizza. La donna che mi siede davanti, gentile, minuta, che parla con a bassa voce e ricorda nel tratto il suo grande padre, è Annamaria Sciascia; e sono nel salotto della sua casa di Palermo. La risposta la immagino, la telecamera ronza, l’operatore attende. Ecco, lo dico: Leonardo suo padre è stato spesso al centro di tante polemiche, alcune hanno comportato la insanabile rottura con amicizie consolidate. Quel è stata la polemica che a lui, ma anche a voi della famiglia vi ha maggiormente ferito? «L’ultima: quella sui professionisti dell’antimafia», risponde Anna Maria. «Ed è una polemica che continua a tormentarci, non si è mai sopita, non finisce mai: c’è sempre qualcuno che la ritira fuori, strumentalmente; questo è il dolore e il dispiacere più grande: vedere la malafede e non poter fare nulla. Nella lettera che mio padre ci lasciò prima di morire lui ci raccomandava di non perdere tempo a difendere la sua memoria; e quindi quando vedo mio marito o i miei figli agitati per queste polemiche dico loro di tenere conto di quanto ci ha raccomandato, che è tempo perso, perché un familiare che difende è un po’ patetico. Però fa male, questa è una polemica che gli ha avvelenato sicuramente gli ultimi anni, perché lo hanno accusato in modo volgare, meschino». Non meritava (e non merita) assolutamente la caterva di insulti che Sciascia ha dovuto subire. Ricordiamola quella polemica, a costo di rinnovare pena e dolore; perché di certe cose, di certe affermazioni è doveroso serbare memoria, non dimenticare. E’ il 10 gennaio di trent’anni fa. Il Corriere della Sera pubblica un lungo articolo di Leonardo Sciascia, redazionalmente intitolato “I professionisti dell’antimafia” (e sarà questo titolo a provocare lo scandalo; non il contenuto, che con molto anticipo, come sempre quando si tratta di Sciascia, mette in guardia da rischi e pericoli che puntualmente poi si avverano e verificano). Quell’articolo viene accolto da una quantità di polemiche animate da tanti, in cattiva, pessima fede; e da qualcuno (pochissimi, invero) in buona fede. E culmina con l’insulto, l’accusa, scagliati con cattiveria: Sciascia è diventato un “quaquaraquà”. Apro una parentesi, prima di continuare il racconto di quella vicenda: si tratta di un consiglio: procuratevi “La storia della mafia” di Leonardo Sciascia, qualche anno fa meritoriamente pubblicata dalle edizioni Barion. Si tratta di uno smilzo volumetto di una settantina di pagine; il testo di Sciascia è accompagnato da “Io, Nanà e i don”, di Giancarlo Macaluso, e impreziosito da una postfazione di Salvatore Ferita. Un testo, quello di Sciascia che, a distanza di anni è ancora di utile, preziosa lettura. Perché questo «consiglio»? Perché quella «storia della mafia» dice tanto, tutto dell’impegno politico, culturale, civile, umano di Sciascia; come lo dicono i suoi articoli pubblicati su Il Giorno, L’Ora e Mondo nuovo negli anni Sessanta; e come, infine dice “Il giorno della civetta”: romanzo che parla all’Italia per la prima volta di una cosa che si chiama mafia. Sapete, sembra incredibile: Sciascia è il primo scrittore siciliano che parla di mafia. Prima di lui non lo ha fatto Luigi Pirandello, non lo ha fatto Giovanni Verga, Luigi Capuana, Tomasi di Lampedusa… nessuno. Il 10 gennaio del 1987 lo scrittore civile e anti- mafioso, buono e coraggioso scopre di essere una sorta di Gregorio Samsa, il protagonista delle kafkiane Metamorfosi, che si corica uomo, e si sveglia il mattino dopo scarafaggio. E’ “colpevole” di aver posto, quel mattino, con quell’articolo, un problema essenziale, che ancora oggi ci si deve porre (e che molto spesso la cronaca conferma di grande attualità). L’essenza di quell’articolo è che non si può derogare dal diritto; che non si può piegare una legge, una norma a seconda della contingente convenienza: se quella legge o quella norma sono sbagliate, inefficaci, non le si può aggirare, magari pensando di usarle in altra, conveniente, occasione. Le leggi e le regole sbagliate si cambiano; e fino quando non si cambiano, si applicano. Non ci può essere: fingere che la norma non ci sia quando si tratta di attribuire un (meritato) vertice di procura a Marsala, a Paolo Borsellino; è contemporaneamente farsi forte di quella norma, in altra occasione, per impedire a Giovanni Falcone di ricoprire un incarico apicale a palazzo di Giustizia di Palermo, e che certamente meritava e avrebbe ricoperto in maniera eccellente. Parte da un libro, Sciascia, dello storico inglese Christopher Duggan e che tratta della ma- fia negli anni del fascismo; parlandone Sciascia ammonisce che l’antimafia, facilmente, si può trasformare in strumento di potere; e lo può benissimo diventare anche in un sistema democratico, «retorica aiutando, e spirito critico mancando». Si fa poi il caso di un sindaco, Leoluca Orlando, leader allora di un movimento di marcata venatura giustizialista; molto attivo nell’azione agitatoria anti- mafiosa, molto meno efficace nell’azione di amministratore della città. Allora come ora, del resto. E, giusto per ricordare, l’impegno anti- mafioso, suo, di Alfredo Galasso e Carmine Mancuso è giunto al punto di denunciare Giovanni Falcone al Consiglio Superiore della Magistratura, con l’accusa di occultare la verità sui delitti politico- mafiosi nei cassetti della sua scrivania. Ma questa come si dice, è altra storia. Scritto quello che Sciascia voleva scrivere, si sono aperte le cataratte degli sdegnati indignati sdegnosi. Impossibile citarli tutti. Diamone qui qualche assaggio. Il coordinamento antimafia di Palermo definisce Sciascia un “quaquaraquà”. Giampaolo Pansa sostiene di non riconoscere più Sciascia, facendo l’operazione più disumana che si può fare nei confronti di una persona: negarla. Sciascia viene additato come una sorta di responsabile dell’isolamento di Borsellino e Falcone, quasi un responsabile degli attentati in cui vengono uccisi. Anni dopo, quando le polemiche del momento sono sopite, nella prima puntata di “Vieni con me”, Roberto Saviano sposa questa “scuola di pensiero”. Ma tantissimi altri con lui, prima e dopo. Procedo ora per ricordi. Oreste del Buono, per altro mite e gentile direttore di Linus e mille altre cose ancora. Accusa Sciascia, di essere un poco mafioso, e conseguentemente di lanciare “avvertimenti” (mafiosi, beninteso) verso chi dissente dal tripudio generale nei suoi confronti. Il già ricordato Pansa prova per «il nuovo Sciascia una gran pena. A me pare che Sciascia si è messo a combattere con Sciascia. Sciascia contro Sciascia. Impegnato a demolire articolo dopo articolo, l’immagine di se stesso». Claudio Fava dipinge un «Leonardo Sciascia, ormai travolto dagli anni e da antichi livori…»; Nando Dalla Chiesa, che sostiene di averci pensato a lungo, e di essere giunto «… alla conclusione che Il giorno della civetta è uno splendido libro sulla mafia, una fotografia perfetta, ma non uno strumento di lotta contro la mafia». Arrivano poi gli attacchi e le volgarità postume. Pino Arlacchi su La Repubblica sostiene che Sciascia non può essere considerato un maestro, «perché gravissimi furono i suoi silenzi, mentre altri sfidavano le cosche; II giorno della civetta in realtà fa l’apologia di Cosa Nostra». Testuale: «Una storia ben narrata della sconfitta della giustizia dello Stato e dei suoi rappresentanti di fronte a un delitto di mafia». Trascurabile il fatto che ciò che viene raccontato nel libro era quello che in quegli anni accadeva; irrilevante che sia stato grazie a Sciascia e al suo libro che se ne è avuta, finalmente percezione e conoscenza. Tutto ciò, per Arlacchi diventa una sorta di complicità. E, infatti: «Dei due maggiori personaggi del racconto, il capitano dei carabinieri e il capobastone locale, è il secondo che colpisce sovrasta». Conclusione: «Sciascia stregato dalla mafia». Un livello di polemica che indigna il compianto Tullio De Mauro, il cui fratello Mauro, giornalista de L’Ora impegnato in inchieste di mafia, scompare un giorno del 1970, mai più ritrovato. Dice De Mauro: «I libri di Sciascia ci hanno aiutato ad aprire gli occhi sul fatto che la mafia non era un fenomeno folcloristico siciliano. E Sciascia si è sempre esposte in prima persona. Io sono stato coinvolto amaramente nel 1970 dalla scomparsa di mio fratello. A Palermo, dove insegnavo, gli amici, i colleghi, gli studenti, per strada non mi salutavano. Le persone che frequentavano la mia famiglia si contavano sulla punta delle dita. E Leonardo era lì, come in una serie di innumerevoli circostanze. Un sociologo [Arlacchi, ndr] dovrebbe valutare queste cose, come dovrebbe aver capito che Sciascia aveva intuito perfettamente la struttura internazionale della mafia e i suoi stretti rapporti con il mondo della politica». Non solo Arlacchi. Interpellato dal Corriere della Sera, il filosofo Manlio Sgalambro dice che «Sciascia era uno scrittore civile, un maestro di scuola che voleva insegnarci le buone maniere sociali. Ma a rivisitarlo oggi è come rileggere Silvio Pellico, la sua funzione è esaurita, Sciascia non ci serve più». E come non ricordare Andrea Camilleri, che pure di Sciascia si professa amico? Anche lui a dire che Il giorno della civetta fa l’apologia della mafia, dimostrando così che si può essere bravi romanzieri la cui parola è più veloce del pensiero. Pochi, a fianco di Sciascia, come spesso accadeva: Marco Pannella, i radicali, Rossana Rossanda, qualche socialista come Claudio Martelli; altri ce ne saranno stati, ma non molti. Anche loro sommersi dal coro violento e protervo degli inquisitori, flebile, allora, la loro voce, a fronte degli schiamazzanti crucifige. A questo punto, prendiamo il toro cui ad un certo punto si legge: “Non può essere consentito al giudice lo stravolgimento delle regole probatorie da applicare solo ai processi di mafia; necessita sempre un serio e rigoroso controllo di tutti gli elementi del reato: le prove devono assumere carattere di certezza e gli indizi devono essere concordanti ed univoci; non c’è ingresso nel processo penale ai semplici sospetti e alle generiche opinioni. La lotta concreta al crimine potrà essere fatta solo con la seria utilizzazione degli strumenti normativi”. Parole che credo nessuna persona onesta e intelligente rifiuterebbe di sottoscrivere». Il sottolineato è mio: «Richiamo alle regole… modalità della sua nomina che mi sono apparse e mi appaiono preoccupanti». Siamo all’oggi. Ha solo qualche mese di “vecchiaia” un agile libretto scritto da Francesco Forgione, già parlamentare di Rifondazione Comunista, vice- presidente della passata commissione antimafia. Nulla so di Forgione, mi basta quello che scrive nel suo “I tragediatori, la fine dell’antimafia e il crollo dei suoi miti” (Rubbettino). Si può cominciare con un brano della prefazione scritta dall’ex magistrato Giuseppe Di Lello, a suo tempo, stretto collaboratore di Giovanni Falcone nel pool antimafia: «… Lo scopo dichiarato del libro di Forgione è analizzare i motivi profondi di una svolta rovinosa, individuando tutti i pericoli di un’antimafia opportunista e di facciata. Siamo infatti in una fase in cui tutto appare confuso e, per le tante ambiguità di molti protagonisti di vicende che interessano la lotta alla mafia, sembra difficile capire dove si situa il confine tra un’azione di contrasto seria ed efficace e comportamenti che, con il paravento dell’antimafia, sconfinano a volte nell’illiceità o quantomeno nel malcostume…». Ognuna delle 120 pagine del libro di Forgione è una conferma di quel monito contenuto in quell’articolo di Leonardo Sciascia sui “professionisti dell’antimafia”. Nella montagna di ritagli che ingombrano il mio tavolo di lavoro, uno del 7 aprile di quest’anno, è un editoriale di Paolo Mieli, prima pagina del Corriere della Sera. Comincia così: «Adesso dovremmo per le corna, vediamo che fondamento può mai avere quest’accusa. «Non c’è nulla che mi infastidisca quanto l’esser considerato un esperto di mafia, o come si usa dire, un mafiologo», scrive Sciascia sul Corriere della Sera del 19 settembre 1982 (“Mafia: così è, anche se non vi pare”). «Sono semplicemente uno che è nato, vissuto e vive in un paese della Sicilia occidentale e ha sempre cercato di capire la realtà che lo circonda, gli avvenimenti, le persone. Sono un esperto di mafia così come lo sono in fatto di agricoltura, di emigrazione, di tradizioni popolari, di zolfatara; a livello delle cose vissute e in parte sofferte». Quell’“in parte sofferte” è indicativo. C’è il ricordo del sindaco mafioso di Racalmuto, si chiamava Baldassarre Tinebra, ucciso nel corso principale del paese, tutti sanno chi è l’assassino, nessuno parla, in galera ci finisce uno che il delitto non l’ha commesso; c’è il ricordo del nonno, capo- mastro in una zolfatara, «uomo dal polso fermo che riusciva a governare la miniera senza consentire intromissioni a sgherri e gregari delle cosche, arginando le vessazioni…». Non era un mafiologo, Sciascia; ma di mafia capiva, vedeva, sapeva. Al punto da darne esatta rappresentazione e definizione, quando disse con fulminante battuta e amarissima ironia che dal giorno della civetta si era arrivati al giorno dell’avvoltoio. Il 14 gennaio 1987 Sciascia pubblica sempre sul Corriere della Sera dove replica alle accuse: «Il comunicato del cosiddetto Coordinamento antimafia è la dimostrazione esatta che sulla lotta alla mafia va fondandosi o si è addirittura fondato un potere che non consente dubbio, dissenso, critica. Proprio come se fossimo all’anno 1927. Nel mio articolo del 10 gennaio, c’era in effetti soltanto un richiamo alle regole, alle leggi dello Stato, alla Costituzione della Repubblica: e questo cosiddetto Coordinamento – frangia fanatica e stupida di quel costituendo o costituito potere – risponde con una violenza che rende più che attendibili le mie preoccupazioni, la mia denuncia. Ne sono soddisfatto: si sono consegnati all’opinione di chi sa avere un’opinione, nella loro vera immagine. Ed è chiaro che non da loro né da chi sta dietro di loro – e ne è riconoscibile (si dice per dire) lo stile – verrà una radicale lotta alla mafia. Loro sono affezionati alla “tensione”, e si preoccupano che non cada. Ma le “tensioni” sono appunto destinate a cadere: e specialmente quando obbediscono a giochi di fazione e mirano al conseguimento di un potere. In quanto al dottor Borsellino, non ho messo in discussione la sua competenza, che magari può essere oggetto di discussione per i suoi colleghi; sono le modalità della sua nomina che mi sono apparse e mi appaiono preoccupanti. Ed è proprio nella sentenza di un processo che mi pare sia stato appunto istruito dal dottor Borsellino, sentenza pronunciata dalla Corte d’Assise di Palermo, seconda sezione, il 10 novembre dell’anno scorso, che trovo la migliore ragione, perché non ci si acquieti agli intendimenti del cosiddetto Coordinamento. Una sentenza che ha mandato assolti gli imputati e in tutti riconoscere che il pericolo era stato ben intravisto trent’anni fa da Sciascia per quanto è ormai evidente che il malaffare siciliano ha adottato il codice di camuffarsi dietro le insegne dell’antimafia…»; e via così, per tre- quattromila parole. Viene lapidato, Sciascia, per averci messo in guardia dai disastri che proliferano, letali, «retorica aiutando, e spirito critico mancando». Trent’anni fa, ma sono bacilli di una “peste” sopita. Forse. Una melassa uniforme che incombe su tutti, e tutto avvolge. Una minaccia totalitaria, la cui cifra è costituita dall’assenza di memoria, di conoscenza, di “sapere”; una minaccia fatta di certezze, di assenza di dubbio.

La profezia avverata di Sciascia sui professionisti dell’antimafia. Quello appena concluso è stato l’anno della caduta di alcuni «miti», in particolare personaggi simbolo della lotta alla criminalità finiti sotto processo, scrive Felice Cavallaro l'8 gennaio 2017 su “Il Corriere della Sera”. Adesso che dal palcoscenico di un’antimafia di facciata rotola uno stuolo di “professionisti” travestiti da politici, imprenditori, giornalisti, preti, magistrati “duri e puri”, la profezia di Leonardo Sciascia viene spesso richiamata e condivisa anche da chi contestò lo scrittore eretico di Racalmuto. A trent’anni dalla pubblicazione del famoso e discusso articolo. Tanti ne sono trascorsi dal 10 gennaio 1987, quando nelle edicole e nella vita pubblica irruppe il provocatorio titolo del Corriere della Sera sui “professionisti dell’antimafia”. Con la sua profetica lungimiranza, senza che nessuno potesse allora immaginare la deriva dei nostri giorni, in tempi recenti segnata perfino dall’assalto di famelici magistrati ed avvocati sulla gestione dei beni confiscati, Sciascia, dal suo buen retiro di Contrada Noce, dalla casa di campagna a dieci minuti dai Templi di Agrigento, provava a smascherare i rischi dell’impostura, di una antimafia da vetrina. E ne aveva titolo, lui che la mafia l’aveva fatta diventare caso nazionale negli anni Sessanta con saggi e romanzi, sbattendola in faccia ad una opinione pubblica distratta, ad una classe dirigente spesso connivente, indicando la strada da perseguire, quella dei soldi, delle banche, delle tangenti. Trent’anni dopo l’impostura è drammaticamente confermata dalla “caduta dei miti”, come la definisce l’ex presidente dell’Antimafia Francesco Forgione nel suo libro “I tragediatori”. E’ il caso di Silvana Saguto, la magistrata dei beni confiscati, del presidente della Camera di commercio Roberto Helg, beccato con una tangente da 100 mila euro accanto allo sportello antiracket intitolato a Libero Grassi. Incriminati il direttore di TeleJato Pino Maniaci per estorsione e un altro giornalista di Castelvetrano come prestanome di boss. Mentre non si placa la lite interna a Libera fra Don Ciotti e il figlio di Pio La Torre. E si è in attesa di una estenuante definizione dell’inchiesta tutta da chiarire dopo due anni sul presidente di Confindustria Sicilia Antonello Montante. Ma, quando ancora la trincea di Palermo era insanguinata dall’attacco dei boss e mentre qualche buon risultato già arrivava dal maxi processo di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, nel 1987 quel titolo scatenò una reazione scomposta. Animata anche da un gruppo di giovani (e meno giovani) costituiti in “Comitato antimafia”, decisi a rovesciare addosso allo scrittore un nomignolo coniato ne “Il giorno della civetta”. Si, lo definirono “quaquaraquà”. Prendendo spunto dalla classificazione dell’umanità richiamata nel confronto fra il padrino di quel libro, don Mariano Arena, e l’uomo dello Stato, il capitano Bellodi. Molti lo difesero, ma scattò una delegittimazione di Sciascia, criticato anche da Pino Arlacchi, Eugenio Scalfari, Nando Dalla Chiesa, Giorgio Bocca, Giampaolo Pansa, pronti a protestare contro un articolo interpretato come un attacco a Leoluca Orlando e a Paolo Borsellino. Il riferimento all’allora sindaco di Palermo c’era davvero. Stimolo, diceva Sciascia, per evitare di ridurre l’amministrazione della cosa pubblica al solo rafforzamento dell’“immagine” personale. Una spinta a far prevalere scelte concrete sugli imbellettamenti superficiali della città. Spunto per spiegare che pesano di più i fatti e non le parole, che “vera antimafia è un acquedotto in più, anche a costo di un convegno in meno”. E, forse, Orlando ha anche apprezzato l’indicazione, con gli anni. Il secondo bersaglio non era Borsellino. Come Borsellino capì. Nel mirino c’era il massimo organo di autogoverno della magistratura, il Csm, che, avendo fissato delle regole per le carriere interne, non le applicava. Come accadde quando, per la poltrona di procuratore a Marsala, fu scelto lo stesso Borsellino al posto di un suo collega, virtualmente con più titoli, stando a quelle regole. Borsellino capì che non era un attacco a lui e lo disse a Racalmuto nel 1991 presentandosi ad un convegno nel paese di Sciascia, insieme con Falcone e con l’allora ministro della Giustizia Claudio Martelli: “Chiarimmo con Sciascia. L’uscita mirava ad altro. Ma fu sfruttata purtroppo all’interno di una pesante corrente corporativa della magistratura che sicuramente non voleva quei giudici e quei pool”. E, un anno dopo l’articolo, se ne ebbe conferma. Perché quella stessa elastica interpretazione fu utilizzata all’interno della magistratura per impedire a Falcone di guidare l’Ufficio Istruzione. A distanza di trent’anni, tanti pensano ancora che in quell’occasione sarebbe stato preferibile eliminare dall’articolo ogni margine di equivoco. Proprio per evitarne un uso strumentale. E Sciascia ebbe modo di parlarne con Borsellino, a Marsala, fra testimoni come Mauro Rostagno, il regista Roberto Andò, il suo amico Aldo Scimè. Si scatenò però un attacco astioso all’uomo, perdendo di mira la questione posta, e mischiando così le carte con quel nomignolo. Come ammettono oggi tanti di quei giovani coinvolti nel Comitato antimafia. Un po’ pentiti. E’ il caso di studenti come Pietro Perconti e Costantino Visconti. Il primo oggi prorettore a Messina, il secondo professore di diritto penale, un’autorità in materia antimafia con il suo maestro Giovanni Fiandaca, autore di un libro fresco di stampa, “La mafia è dappertutto. Falso!”. Una mazzata agli impostori caduti da quel palcoscenico, commenta: “L’antimafia si è fatta potere”. Ed ancora: “Lui guardava con le lenti della profezia, più avanti, noi calati nel presente fino ai capelli eravamo una sparuta minoranza. Non potevamo prevedere gli effetti connessi ad una antimafia che si faceva essa stessa potere”. Riflessioni fatte proprie da un altro leader di quel Comitato, Carmine Mancuso, poliziotto, figlio dell’agente di scorta caduto con il giudice Cesare Terranova, ex senatore: “Una lucidità profetica, quella di Sciascia”. Stessa posizione di Angela Lo Canto, la pasionaria del Comitato, poi consigliera comunale con Orlando, adesso ben lontana dal sindaco: “Sciascia vide dove nessun altro poteva vedere. In quel momento storico considerammo l’uscita infelice. Ma quel ‘quaquaraquà’ ci scappò di mano...”. Vergato da un giovane racalmutese, Franco Pitruzzella, poi arruolato nel gruppo dei collaboratori dei magistrati impegnati nel processo contro Andreotti. Forse l’unico non pentito. A differenza di altri due studenti oggi dirigenti di polizia a Palermo, Giuseppe De Blasi, allora da 110 e lode, adesso in questura, e Giovanni Pampillonia, capo della Digos. Entrambi ormai da tempo faccia a faccia con le nuove imposture che ogni volta fanno pensare alla profezia.

La lettera dimenticata sugli amici del boss di Cosa Nostra. Un'informativa sulla rete di fiancheggiatori di Matteo Messina Denaro mai consegnata all'autorità giudiziaria. I personaggi di spicco del trapanese che aiutavano la latitanza dell'ultimo grande capo mafia latitante, scrive Francesco Viviano su “La Repubblica” il 2 novembre 2016. L'ultimo identikit fatto dalla polizia del latitante Matteo Messina Denaro PALERMO -  Due primari ospedalieri, un commercialista, tre imprenditori, un gioielliere, personaggi potenti ed insospettabili del trapanese, costituirebbero la rete segreta di protezione del capo mafia Matteo Messina Denaro, latitante da 23 anni. Con alcuni di loro, sarebbe andato a cenare abitualmente in un ristorante di Santa Ninfa, sempre armato assieme a tre suoi fidatissimi guardiaspalle perché non voleva farsi catturare vivo. Nomi e cognomi, indirizzi, età e professioni dei favoreggiatori dell'ultimo grande boss di Cosa Nostra sono contenuti in una informativa dei carabinieri da dieci anni, una informativa incredibilmente mai trasmessa all' autorità giudiziaria, rimasta chissà in quale cassetto, e soltanto da poche settimane riapparsa e consegnata alla procuratrice aggiunta Teresa Principato (che coordina il gruppo interforze di carabinieri, polizia e 007 dell' Aisi che danno la caccia a Matteo Messina Denaro) e al sostituto procuratore Nino Di Matteo, pm del processo per la presunta "trattativa" Stato-mafia. Dopo avere fatto terra bruciata attorno al boss, arrestando decine di familiari e di fiancheggiatori delle cosche del trapanese senza però essere riusciti a stanarlo, gli inquirenti puntano ora agli anelli più alti di quella catena che continua a garantire la latitanza di Messina Denaro. E l'informativa, venuta fuori ora, suggerisce nomi di personaggi finora mai finiti nel mirino degli investigatori. Alcuni di loro si sarebbero anche prestati a fare da "postini" che farebbero la spola tra Castelvetrano (il paese del latitante) ed altri centri della Sicilia per fare arrivare o ricevere i "pizzini" con gli "ordini" e le "raccomandazioni" di Matteo Messina Denaro ad altri boss siciliani. Tra i "postini" più attivi due insospettabili, una donna e un pensionato delle ferrovie dello stato. Informazioni fornite da una fonte ritenuta "attendibilissima" - si legge nell' informativa- che suggeriva ai carabinieri di non coinvolgere nelle indagini le forze dell'ordine che allora operavano nella provincia di Trapani per evitare fughe di notizie ed informazioni che sarebbero potute arrivare proprio al boss Matteo Messina Denaro che probabilmente disponeva di qualche "talpa" tra gli investigatori trapanesi. La scottante informativa dei carabinieri che Repubblicaha potuto leggere ha provocato sconcerto e stupore nella Procura di Palermo, che ha avviato una indagine e una serie di accertamenti anche per ricostruire come e perché quell'informativa così importante sia rimasta nascosta per tanto tempo. Le due pagine dell'informativa sono state consegnate nelle settimane scorse alla Procura di Palermo dal generale in pensione dei carabinieri Nicolò Gebbia, che fu tra l'altro comandante della compagnia dei carabinieri di Marsala (che indagava anche su Matteo Messina Denaro) e poi comandante provinciale dei carabinieri di Palermo. Interrogato nei giorni scorsi dal pubblico ministero Nino Di Matteo il generale ha svelato di avere avuto quell'informativa poco prima di lasciare il comando provinciale di Palermo per assumere quello di Venezia e di averla consegnata - ha dichiarato a verbale -  al generale Gennaro Niglio allora comandante della Regione Carabinieri Sicilia, morto in un incidente stradale assieme al suo autista, il 9 maggio del 2004 mentre tornava a Palermo da Caltanissetta. Ma da allora di questa informativa nessuno ha saputo più niente. Nell'informativa si fa riferimento a un altro dei misteri siciliani, il sequestro dell'esattore Luigi Corleo, suocero di Nino Salvo, rapito il 17 luglio 1975 dai corleonesi e il cui corpo non è stato mai ritrovato. Il documento inedito svela ora che il suo cadavere sarebbe sepolto in una campagna di proprietà di uno dei favoreggiatori della latitanza di Matteo Messina Denaro. Un sequestro che provocò uno scontro tra i corleonesi e i boss Stefano Bontate e Gaetano Badalamenti (amici dei cugini Salvo) che reagirono uccidendo 17 mafiosi alleati dei corleonesi che avevano partecipato al sequestro di Corleo.  Il generale Gebbia ha anche rivelato di avere appreso che pochi giorni dopo il sequestro di Corleo Nino Salvo telefonò a Giulio Andreotti, a quel tempo Presidente del Consiglio, "ordinandogli" di dare un permesso al boss Gaetano Badalamenti che si trovava al confino nel nord Italia, per rientrare per qualche mese in Sicilia per aiutarlo a liberare il suocero. Il permesso non fu concesso ed i Salvo "si adirarono molto" con Giulio Andreotti.

Mafia Capitale. Una Repubblica Ricattabile. I segreti della lista Carminati. Il ricatto alla Repubblica parte nell'estate del 1999 quando Massimo Carminati penetra nel caveau della banca a palazzo di Giustizia di Roma, e sceglie 147 cassette eccellenti. Adesso l'Espresso rivela la lista. E i suoi segreti. È un furto su commissione diretto a ricattare qualcuna delle vittime. Fra loro si contano almeno 22 magistrati. Quasi tutti con ruoli di vertice: presidenti di sezioni civili o penali del tribunale o della corte d’appello, magistrati dirigenti del ministero della giustizia, giudici e sostituti pg della Cassazione. E poi avvocati. Sono persone connesse con i più grandi misteri d’Italia: dalla strage di Bologna alla P2, dal delitto Pasolini all’omicidio Pecorelli, dalla Banda della Magliana a Cosa nostra. Sullo sfondo si staglia l'ombra di Andreotti. E così nasce un potere che fa ancora paura. Di Lirio Abbate il 20 ottobre 2016 su Espresso TV

Il ricatto di Massimo Carminati: ecco la lista dei derubati nel furto al caveau del 1999. Il Cecato svuotò 147 cassette, colpendo magistrati, avvocati, funzionari della Giustizia. Connessi con i più grandi misteri d'Italia: dalla strage di Bologna alla P2, dal delitto Pasolini all'omicidio Pecorelli, dalla Banda della Magliana a Cosa nostra. Sullo sfondo si staglia l'ombra di Andreotti. E così nasce un potere che fa ancora paura, scrivono Lirio Abbate r Paolo Biodani il 24 ottobre 2016 su "L'Espresso". Il colpo del secolo, era stato definito. Ma non era solo un furto clamoroso: il movente era un grande ricatto. Allo Stato e alla Giustizia. Nelle sentenze definitive i giudici scrivono di un bottino "eccezionale": «Almeno 18 miliardi di vecchie lire», mai recuperati. Sottolineano «l’audacia» di un’azione criminale «spettacolare»: un commando di banditi che riesce a svaligiare in tutta calma il caveau della banca più sorvegliata d’Italia, senza sparare, senza forzare neppure un lucchetto, senza far scattare il doppio sistema d’allarme. Vanno a colpo sicuro: hanno in mano una lista selezionata di cassette di sicurezza da svuotare. È un furto «pluriaggravato» che spinge i magistrati di ieri e di oggi a evidenziarne la «carica intimidatoria». Per «la valenza simbolica del luogo violato»: il palazzo di giustizia di Roma, in piazzale Clodio, presidiato giorno e notte da militari armati. Per «l’inquietante capacità di penetrazione corruttiva fin dentro l’Arma dei carabinieri». Per la qualità delle vittime: decine di alti magistrati, avvocati, cancellieri, consulenti, professionisti e imprenditori. E per il «potere di ricatto» che, secondo le sentenze, era il vero obiettivo di quell’assalto al cuore della giustizia italiana. Organizzato e diretto da Massimo Carminati, l’ex terrorista nero che proprio da allora diventa «un intoccabile». Un «boss carismatico» che, mentre è sotto processo con Giulio Andreotti per l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli, svuota le cassette di sicurezza di una lista di magistrati e avvocati romani di cui vuole spiare i segreti. La genesi di "mafia Capitale" si concretizza nell’estate 1999, con questo grande colpo, mentre l’Italia s’illude di aver chiuso il libro nero della Prima Repubblica. Stragi di destra, terrorismo di sinistra e guerra fredda sono ricordi sbiaditi. A capo del governo c’è Massimo D’Alema, il primo premier post-comunista. Mentre Carminati s’infila di notte nel caveau, sul Paese c’è l’ombra della crisi e del "governo tecnico": D’Alema è preoccupato per il rinascere di un Grande centro che possa spingere la sinistra all’opposizione. Dopo decenni di debito pubblico, crisi e svalutazioni, i conti sono in ordine e l’euro alle porte sembra annunciare un’Europa forte e unita. L’economia cresce, l’euforia spinge i capitani coraggiosi della finanza a scalare ex monopoli statali come Telecom. Perfino Tangentopoli pare archiviata: nonostante le oltre mille condanne per corruzione e fondi neri del 1992-94, l’intesa bicamerale con la destra di Berlusconi ha partorito una riforma costituzionale, ribattezzata «giusto processo», in grado di annientare perfino i verbali d’accusa già raccolti dalla magistratura. Che non era mai arrivata così in alto: a Milano si processano anche i giudici corrotti della capitale, a Roma i boss impuniti della Banda della Magliana, tra Palermo e Perugia siede sul banco degli imputati addirittura il senatore a vita Giulio Andreotti per mafia e omicidio. L’attacco alla fortezza giudiziaria della capitale si consuma nella notte tra venerdì 16 e sabato 17 luglio 1999. La "città giudiziaria" è interamente recintata da alte mura sorvegliate notte e giorno da carabinieri. All’interno c’è l’agenzia 91 della Banca di Roma. Carminati e i suoi complici arrivano dopo le 18, dentro un furgone identico a quello in uso ai carabinieri, che in questo modo evita i controlli. A mezzanotte e mezza almeno otto banditi entrano nel caveau sotterraneo, senza scassinare nulla, usando le chiavi e le combinazioni fornite da un complice: un impiegato della banca rovinato dai debiti. A guidare il commando è Carminati in persona. In mano ha un foglio di carta con una lista di nomi, scritti a penna, in rosso: sono magistrati, avvocati, cancellieri. «Queste cassette sono roba mia», intima ai complici, tutti scassinatori molto esperti. «Tutto il resto è vostro» aggiunge il "Cecato". Le sentenze spiegano che Carminati, con quel colpo, «è alla ricerca di documenti per ricattare magistrati» e «aggiustare processi»: su 900 cassette ne vengono aperte solo 147. Aperture su indicazione. Gli altri banditi puntano ai soldi: sventrano intere file di cassette, arraffano contanti, gioielli e riempiono una quindicina di borsoni sportivi. Carminati invece ha «una mappa con i numeri delle cassette»: sono quelle che gli interessano, ritrovate aperte «in ordine sparso, a macchia di leopardo». Di fronte ai carabinieri, i criminali comuni scappano. L’ex terrorista nero invece ne ha corrotti almeno quattro, reclutati da un sottufficiale cocainomane: tre accompagnano la banda nel caveau, il quarto spalanca il cancello esterno della cittadella fortificata. Alle 4 di notte la razzia è terminata: i banditi se ne vanno con calma, sul furgone con i colori dei carabinieri, con un bottino pari a oltre nove milioni di euro, di cui verranno recuperati meno di 150 mila euro. Alle 6.40 di sabato 17 luglio l’addetta alle pulizie dà l’allarme. I primi agenti di polizia trovano nel caveau gli attrezzi da scasso e un caotico cumulo di cassette svuotate. Le prime notizie raccontano di una refurtiva miliardaria, tra oro, gioielli e denaro contante, ma anche di due chili di cocaina, di cui però negli atti del processo non c’è traccia. La Roma che conta trema: le cassette di sicurezza servono a custodire non solo gioielli, ma anche pacchi di denaro nero, che è rischioso depositare sui normali conti bancari. E spesso nascondono documenti e foto scottanti. Tra i clienti di quella banca ci sono decine di magistrati, avvocati e dipendenti del tribunale. L’elenco completo non era stato mai reso pubblico. Le indagini dei pm di Perugia ipotizzano che il colpo abbia subito un’accelerazione. Quella banca restava aperta anche di sabato. Se Carminati ha agito venerdì notte, significa che aveva fretta. C’è il fondato sospetto che l’ex terrorista avesse saputo che qualche cliente eccellente, la mattina seguente, progettava di ritirare qualcosa di molto importante. I giudici dei successivi processi, celebrati a Perugia proprio «per la massiccia presenza di magistrati tra le vittime», concludono che un furto del genere era sicuramente «finalizzato alla sottrazione di documenti scottanti, utilizzabili per ricattare la vittima o terzi». Le indagini non sono riuscite a chiarire se Carminati abbia raggiunto il suo obiettivo, soprattutto perché «nessuno ha denunciato la sottrazione di documenti». Il tribunale però non ci crede, osservando che «quanti per avventura avessero detenuto siffatto materiale, ben difficilmente sarebbero poi disposti a denunciarne con entusiasmo la scomparsa». Oltre al buon senso, un indizio è il ritrovamento, tra i resti fracassati delle cassette, di lettere e altre carte private, abbandonate dai banditi sul pavimento del caveau perché appartenevano a cittadini qualunque. Quindi anche quel caveau custodiva documenti. E un mare di contanti di oscura provenienza. L’assicurazione della banca ha risarcito solo il bottino documentabile: cinque miliardi di lire su un totale di «almeno 18». Eppure a Perugia nessuna vittima si è costituita parte civile nel processo a Carminati. Quel furto nasconde un quadro criminale che le sentenze definiscono «inquietante». Proprio l’identità delle vittime giudiziarie può misurare la capacità intimidatoria di chi oggi è accusato di essere il capo di Mafia Capitale. Ciò nonostante, neppure i magistrati riuscivano a ritrovare l’elenco completo dei derubati, mentre le sentenze finali citano solo pochi nomi, pur chiarendo che la banda del caveau ha svuotato le cassette di almeno 134 persone. Adesso "l’Espresso" ha recuperato le copie degli atti più importanti, da cui emergono dati e fatti rimasti inediti e così a distanza di diciassette anni dal furto vengono svelati. Sono atti che identificano due categorie opposte di vittime. Da una parte giudici onestissimi, rigorosi, preparati, spesso con ruoli di vertice nelle corti e nei ministeri, insieme a grandi avvocati, impegnati anche come difensori di parti civili in processi per mafia o terrorismo nero, compresi casi in cui era imputato lo stesso Carminati. Dall’altra, magistrati e legali con un passato imbarazzante, in qualche caso addirittura arrestati e condannati per corruzione. La toga più famosa è il titolare della cassetta svaligiata numero 720: «Domenico Sica, magistrato, prefetto». Per tutti gli anni Settanta e Ottanta, Sica è stato il più importante pm italiano, preferito a Giovanni Falcone come primo Alto commissario antimafia. Per i giudici amici era "Nembo Sic", l’attivissimo magistrato che ha guidato tutte le indagini più scottanti della procura di Roma, dal terrorismo politico agli scandali economici. I detrattori invece lo chiamavano "Rubamazzo", da quando una sua indagine parallela permise di sottrarre ai giudici di Milano l’inchiesta sulla P2 di Licio Gelli, chiusa a Roma dopo un decennio con risultati nulli. Sica è morto nel 2014, senza che nessuno pubblicamente lo avesse mai segnalato come vittima di Massimo Carminati. È stato lui ad occuparsi anche dell’omicidio Pecorelli, del caso Moro, dell’attentato al Papa e della scomparsa di Emanuela Orlandi. Giorgio Lattanzi, intestatario con la moglie di un’altra cassetta svuotata, oggi è il vicepresidente della Corte costituzionale. Per anni è stato uno dei più autorevoli giudici della Cassazione: come presidente della sesta sezione penale, in particolare, guidava i collegi chiamati a rendere definitive (o annullare) tutte le condanne per corruzione emesse in Italia. Contattato dall’Espresso, il giudice Lattanzi, tramite un portavoce, conferma di «aver denunciato subito il fatto» e precisa che «all’epoca non aveva nessun elemento per ipotizzare qualcosa di diverso da un semplice furto, anche perché in quel periodo non trattava processi di particolare rilevanza e nella cassetta non custodiva alcun documento, mentre il reato gli causò un danno economico molto rilevante, poi risarcito dall’assicurazione». Tra i legali spiati e derubati spicca Guido Calvi, ex senatore del Pds-Ds dal 1996 al 2010, quando fu eletto al Csm. Calvi è stato avvocato di parte civile in molti processi contro il terrorismo di destra: il suo nome compare anche nell’ultimo ricorso in Cassazione contro l’assoluzione di Carminati per il più grave depistaggio dell’inchiesta sulla strage di Bologna (2 agosto 1980, 85 vittime), organizzato per evitare la condanna definitiva di Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, come lui neofascisti dei Nar. Calvi è stato avvocato di Massimo D’Alema e ora presiede un comitato per il No. Il suo studio legale è parte civile nel processo a mafia Capitale. «Che il furto al caveau avesse una finalità ricattatoria è qualcosa di più che un sospetto», spiega l’avvocato Calvi, il quale aggiunge: «Il colpo al Palazzo di giustizia era chiaramente finalizzato a colpire avvocati e alti magistrati, a trovare carte segrete... Nella mia cassetta però tenevo solo gioielli di famiglia, nessun documento. Mi manca soprattutto la mia collezione di penne, di valore solo affettivo: sono un avvocato di sinistra, difendo anche clienti poveri, che poi per sdebitarsi mi regalano una Montblanc con il mio nome inciso. Erano i più bei ricordi della mia carriera. Lo dico sempre all’avvocato Naso: almeno le penne il tuo cliente potrebbe restituirmele...». Giosuè Naso è il difensore di Carminati. Il furto al caveau ha colpito anche altri prestigiosi avvocati, come Nino Marazzita, amico di Guido Calvi, che ricorda: «Abbiamo lavorato più volte insieme, anche contro la destra romana. Con Nino presentammo la prima denuncia per riaprire l’inchiesta sull’omicidio di Pier Paolo Pasolini, dove ero stato parte civile, nel tentativo di identificare i complici neofascisti di Pino Pelosi». Alla domanda se ritenga possibile che Carminati, con il colpo al caveau, abbia raggiunto l’obiettivo di intimidire qualche giudice, l’avvocato Calvi risponde così: «I processi sulle stragi nere e sui depistaggi dei servizi, da piazza Fontana a Bologna, sono pieni di assoluzioni assurde firmate da magistrati collusi o intimiditi. Prima del maxiprocesso di Falcone e Borsellino, anche i processi di mafia finivano sempre con l’insufficienza di prove». I primi rapporti di polizia identificano, tra le vittime del furto, 17 magistrati, 55 avvocati, 5 cancellieri, altri 17 dipendenti del tribunale, un carabiniere e un perito giudiziario. I principali danneggiati sono quattro imprenditori romani che si sono visti rubare l’equivalente in lire di 500 mila euro e un milione ciascuno. Decine di denunce risultano però presentate in ritardo, dagli effettivi proprietari di beni custoditi in cassette intestate ad altri: familiari o amici fidati. Negli atti completi, quindi, si contano almeno 22 magistrati. Quasi tutti con ruoli di vertice: presidenti di sezioni civili o penali del tribunale o della corte d’appello, magistrati dirigenti del ministero della giustizia, giudici e sostituti pg della Cassazione. Nella procura di Roma, competente a indagare su Carminati, la banda del caveau ha preso di mira tra gli altri l’aggiunto Giuseppe Volpari, capo dei pm di Tangentopoli nella capitale, spesso in contrasto con i magistrati milanesi di Mani Pulite. Stando agli atti risulta forzata ma non aperta anche la cassetta di sicurezza di Luciano Infelisi, il controverso ex pm che incriminò i vertici della Banca d’Italia, Paolo Baffi e Mario Sarcinelli, che nel 1979 si rifiutarono di salvare Michele Sindona, il banchiere della mafia e della P2, poi condannato per l’omicidio dell’"eroe borghese" Giorgio Ambrosoli: uno scandalo giudiziario ricostruito nel processo Andreotti. Il giudice della stessa istruttoria era Antonio Alibrandi: il padre del terrorista nero Alessandro Alibrandi, uno dei fondatori dei Nar (con Fioravanti e Carminati), ucciso nel 1981 in una sparatoria con la polizia. Tra le vittime del furto ci sono poi diversi avvocati della banda della Magliana (ormai divisa) e altri legali collegati alla P2, come Gian Antonio Minghelli, registrato nella loggia segreta di Gelli insieme al padre, un generale della Pubblica sicurezza. Oltre a derubare giudici e avvocati integerrimi, la banda di Carminati ha svuotato le cassette di magistrati già allora inquisiti. Come Orazio Savia, pm di alcune tra le più contestate indagini romane, come il caso Enimont o il misterioso suicidio nel 1993 del dirigente ministeriale Sergio Castellari. Savia nel 1997 è stato arrestato e condannato per corruzione. Svaligiati anche due forzieri di Claudio Vitalone, ex pm romano, poi senatore e ministro andreottiano, defunto nel 2008, e una terza cassetta intestata al fratello Wilfredo, avvocato, che ha presentato diverse denunce a Perugia. Al momento del furto, Carminati attendeva la sentenza di primo grado del processo per l’omicidio di Mino Pecorelli, insieme ad Andreotti, lo stesso Claudio Vitalone e tre boss di Cosa nostra. Due mesi prima, i pm di Perugia avevano chiesto l’ergastolo. Il giornalista che conosceva i segreti della P2 era stato ucciso nel 1979 con speciali pallottole Gevelot, dello stesso lotto di quelle poi sequestrate nell’arsenale misto Nar-Magliana, allora gestito proprio da Carminati. Sembrava incastrato da tre pentiti della Magliana, in grado di riferire le rivelazioni di Enrico De Pedis, il boss sepolto nella basilica di Sant’Apollinare, e Danilo Abbruciati, ammazzato a Milano mentre tentava di uccidere Roberto Rosone, il vicepresidente del Banco Ambrosiano. La sentenza su Pecorelli viene emessa a settembre, due mesi dopo il furto: tutti assolti. In appello addirittura la corte condanna Andreotti (poi assolto in Cassazione), ma non Carminati. Negli stessi mesi l’ex terrorista nero ha un’altra emergenza giudiziaria: è imputato di aver fornito a due ufficiali piduisti del Sismi (già condannati con Licio Gelli) il mitra e l’esplosivo che i servizi segreti fecero ritrovare su un treno, per depistare l’inchiesta sulla strage di Bologna, fabbricando una falsa «pista internazionale». Per questa vicenda nel giugno 2000 Carminati viene condannato a nove anni di reclusione. Ma nel dicembre 2001 i giudici d’appello di Bologna lo assolvono con una motivazione a sorpresa: è vero che ha prelevato dal famoso arsenale un mitra Mab modificato, ma non è certo fosse proprio identico a quello usato per il depistaggio, per cui il reato va considerato prescritto. Tutte le sentenze meritano rispetto perché il codice impone che vengono confermate o smentite dalla Cassazione. Ma in questo caso non succede. La procura generale di Bologna non ricorre contro l’assoluzione di Carminati. L’avvocatura generale, che all’epoca rappresenta il governo Berlusconi, non si presenta in udienza. Contro Carminati rimane solo il ricorso dei familiari delle vittime, ma la Cassazione lo dichiara «inammissibile»: i parenti possono piangere i morti, ma «non hanno un interesse giuridico» a contestare i depistaggi, anche se organizzati per garantire l’impunità agli stragisti. Per il furto al caveau, Carminati viene arrestato il 29 dicembre 1999, grazie alle confessioni di tre carabinieri corrotti, e torna libero il 18 gennaio 2001, con il suo bottino ancora intatto. Da quel momento c’è uno spartiacque nei suoi processi. Nel marzo 2001, prima dell’assoluzione di Bologna, la Cassazione annulla le condanne per mafia inflitte in primo e secondo grado alla Banda della Magliana. Carminati si vede dimezzare la pena, interamente scontata con la detenzione per le altre accuse ormai cadute. A Roma la mafia, almeno per la Cassazione, non c’è più. Anzi non c’è mai stata. A Perugia, nel 2005, a conclusione di un dibattimento che riserva udienza dopo udienza molte sorprese a favore dell’imputato, il boss nero viene condannato a quattro anni per il furto al caveau e la corruzione dei carabinieri. Le sentenze denunciano reticenze dei testimoni, rifiuti di deporre, depistaggi, falsi alibi accreditati perfino da un notaio e dal capo della gendarmeria di San Marino. Salta fuori che i carabinieri avevano interrogato il noleggiatore del furgone un mese prima della polizia, senza essere titolari dell’indagine e senza dire niente alla procura. Tre alti ufficiali dell’Arma vengono indagati per omessa denuncia: il tribunale di Perugia osserva «con stupore» che si sono rifiutati di testimoniare «benchè già archiviati». In aula l’unico scassinatore che aveva confessato, Vincenzo Facchini, interrogato dal pm Mario Palazzi, si rifiuta perfino di pronunciare il nome di Carminati: «Io questo signore non lo conosco, non lo voglio conoscere», risponde terrorizzato. E poi aggiunge: «Con questa domanda lei mi mette la testa sotto la ghigliottina!». La condanna per il colpo al caveau diventa definitiva il 21 aprile 2010. Ma Carminati evita il carcere grazie all’indulto Prodi-Berlusconi, che gli cancella tre anni di pena. Quindi ottiene l’affidamento nella cooperativa sociale di Salvatore Buzzi. E, secondo l’accusa, fonda Mafia Capitale.

Lista Carminati, l'elenco delle vittime del furto. Avvocati, magistrati, dipendenti del tribunale, carabinieri e ctu. Per la prima volta l'Espresso è in grado di rivelare di chi erano le cassette di sicurezza violate dal Cecato nel colpo al palazzo di Giustizia del 1999, scrive L'Espresso" il 24 ottobre 2016.

NOME – PROFESSIONE - NUMERO CASSETTA

Aldo Ambrosi Avvocato 188

Virginio Anedda Magistrato 274

Maria Luisa Arzilli Cancelliere 379

Giuseppe Altobelli Dipendente Tribunale 691

Mirella Antona Dipendente Tribunale 714

Silvio Bicchierai Commercialista 90

Giuseppina Bragagnolo Commercialista 115

Giulia Brizzi Dipendente Tribunale 125

Luigi Bartolini Cancelliere 191

Marisa Bondanese Dipendente Tribunale 985

Gualtiero Cremisini Avvocato 393

Francesco Caracciolo di Sarno Avvocato 421

Guido Calvi Avvocato 445

Giuseppe Castaldo Dipendente Tribunale 718

Enzo Carilupi Avvocato 721

Michele Caruso Avvocato 113

Silvia Castagnoli Magistrato 123

Claudia Cannarella Dipendente Tribunale 133

Giuseppe Crimi Avvocato 137

Annamaria Carpitella Avvocato 145

Maurizio Calò Avvocato 174

Cesare Romano Carello Avvocato 177

Leonardo Calzona Avvocato 233

Dario Canovi Avvocato 240

Giovanni Casciaro Magistrato 261

Antonio Cassano Magistrato 282

Carla Cochetti Dipendente Tribunale 382

Francesco De Petris Avvocato 30

Anna Maria Donato Avvocato 127

Giovanni De Rosis Morgia Avvocato 189

Lucio De Priamo Avvocato 192

Francesco d'Ajala Valva Avvocato 237

Assunta Bruno De Santis Dipendente Tribunale 385

Generoso Del Gaudio Dipendente Tribunale 693

Serapio De Roma Avvocato 713

Alessandro Fazioli Avvocato 52 e 212

Maria Frosi Avvocato 120

Torquato Falbaci Magistrato 209

Giuliano Fleres Avvocato 255 e 257

Efisio Ficus Diaz Avvocato 285

Giorgio Fini Avvocato 692

Maria Grappini Avvocato 15

Ivo Greco Magistrato 235

Giuseppe Cellerino Magistrato 126

Adalberto Gueli Magistrato 141

Aurelio Galasso Magistrato 213

Giuseppe Gianzi Avvocato 259

Francesco Giordano Avvocato 391

Vito Giustianiani Magistrato 403

Angelo Gargani Dipendente Tribunale 543

Fabrizio Hinna Danesi Magistrato 715

Michele Imparato Cancelliere 248

Maria Elisabetta Lelli Ctu 114

Stefano Latella Carabiniere 121

Giorgio Lattanzi Magistrato 215

Antonio Liistro Magistrato 258

Mauro Lambertucci Avvocato 324

Michelino Luise Avvocato 741

Antonio Loreto Avvocato 65

Vanda Maiuri Dipendente Tribunale 35

Simonetta Massaroni Avvocato 183

Nicola Mandara Avvocato 277

Antonio Minghelli Avvocato 280

Caterina Mele Avvocato 297

Luigi Mancini Avvocato 333

Giancarlo Millo Magistrato 378

Alberto Oliva Avvocato 446

Bruno Porcu Avvocato 12

Liliana Pozzessere Dipendente Tribunale 202

Francesco Palermo Avvocato 343

Enrico Parenti Magistrato 368

Valeria Rega Cancelliere 74

Bruno Riitano Avvocato 110

Agostino Rosso Di Vita Avvocato 178

Filomena Risoli Dipendente Tribunale 394

Domenico Ruggiero Avvocato 451

Gisella Rigano Dipendente Tribunale 738

Francesco Rizzacasa Avvocato 743

Antonietta Sodano Avvocato 149

Domenico Sica Magistrato 720

Vincenzo Taormina Avvocato 94

Cesare Testa Avvocato 181

Wilfredo Vitalone Avvocato 81

Claudio Vitalone Magistrato 304 e 306

Bruno Villani Avvocato 164

Fortunato Vitale Avvocato 50

Giuseppe Volpari Magistrato 281

Paolo Volpato Avvocato 380

Umberto Zaffino Avvocato 199

Edmondo Zappacosta Avvocato 236 e 322

Maurizio Zuccheretti Avvocato 252 

Per ricattare magistrati e avvocati in cambio di alleggerimenti di sentenze o sconti di pena. Furto al caveau del tribunale. A caccia di soldi e documenti. E i pm perugini adesso accusano: "I carabinieri non hanno collaborato", scrive il 10 luglio 2000 “La Repubblica. Perquisizioni e arresti per il furto nel caveau della filiale della Banca di Roma, all'interno del tribunale della capitale. In una notte, quella tra il 16 e il 17 luglio scorso, vennero saccheggiate 147 cassette di sicurezza di "proprietà" di dipendenti del palazzo. Un furto che apparve come uno schiaffo: a una banca e nel cuore del tribunale. Ma anche un colpo non semplice da mettere a segno, riuscito grazie a una infinita serie di complicità dentro e fuori il Palazzo di giustizia. E con più di un obiettivo: ricavare soldi ed entrare in possesso di documenti compromettenti per poi ricattare magistrati e avvocati. Una trama sulla quale per un anno hanno indagato la Procura della repubblica di Perugia e la Squadra mobile della capitale, che stamattina hanno dato il via a una serie di arresti e perquisizioni. Un'indagine che ha messo in luce l'esistenza di una banda a più teste: carabinieri, ex della banda della Magliana, esponenti dell'estrema destra, dipendenti dell'istituto di credito e del tribunale. E il furto nel caveau assume contorni diversi: ladri alla ricerca di soldi e gioielli ma anche di documenti compromettenti da usare come armi di ricatto verso i clienti dell'istituto, per lo più magistrati e avvocati. Un'indagine, si apprende adesso, che sarebbe andata avanti più velocemente se l'esito degli accertamenti compiuti dai carabinieri della capitale fosse stato comunicato per tempo. Questa almeno è l'accusa dei pm perugini che esprimono anche diverse "perplessità" per alcuni atti svolti dei militari. Nella loro ordinanza si parla infatti di "mancati approfondimenti investigativi" sulle notizie acquisite dai militari e la "mancata comunicazione" delle stesse alla procura del capoluogo umbro. Nonostante la mancata cooperazione, tuttavia, sotto accusa è finito Marco Vitale, 51 anni, reduce della banda della Magliana, già in carcere. Complice del furto anche un dipendente della Banca di Roma, Orlando Sembroni, 49 anni. Nella banda anche Lucio Smeraldi, 61 anni, gestore dell'edicola interna del tribunale. Gli arresti riguardano poi altri "cassettari", ricettatori, complici e basisti. Confermato, anzi aggravato, il ruolo di quattro carabinieri in servizio a Piazzale Clodio (Mercurio Digesu, di 41, Feliciano Tartaglia, di 37, Adriano Martiradonna, di 48, Flavio Amore di 30 anni, mentre un quinto militare, Roberto Cozzolino è accusato solo di concorso in furto aggravato). Il tramite con l'Arma dei carabinieri era il capo dei "cassettisti" storici romani, Stefano Virgili, 49 anni, apparentemente uscito dal giro e boss dei parcheggiatori dell'Eur con la società Mutua Nova. Nei guai un esponente dell'estrema destra Massimo Carminati, 42 anni, anch'egli interessato al contenuto delle cassette di sicurezza. Tra gli arrestati un dipendente della Corte d'appello di Roma, Reginaldo Velocchia, 64 anni. Insieme a un avvocato penalista romano Antonio Iuvara (sottoposto alla misura dell'obbligo di dimora) avrebbe fatto pressione su un presidente della Corte d'appello di Roma Tommaso Figliuzzi con un preciso motivo: alleggerire in secondo grado la condanna di Vitale nel processo per la banda della Magliana. Ottenendone magari la scarcerazione, perché proprio il Vitale avrebbe partecipato dal carcere all'operazione "cassette di sicurezza". La banda dei "cassettieri" (trenta persone coinvolte, venti arrestate e dieci indagate), cercava così di arrivare al controllo del palazzo di giustizia e stavano organizzando un nuovo colpo, secondo quanto dichiarato dagli inquirenti. Questa volta l'obiettivo era l'ufficio corpi di reato della Procura della repubblica di piazzale Clodio, dove sono custoditi i reperti sequestrati nell'ambito delle indagini giudiziarie: armi e droga. Materiale che sarebbe servito sia per ricavare denaro (dalla vendita di droga), sia per compiere azioni criminali. 

Mafia Capitale, Carminati e i dossier scomparsi nel 1999. Il misterioso furto al caveau della Banca di Roma del Tribunale di Roma fa da sfondo all'inchiesta capitolina, scrive l'11 dicembre 2014 Sabino Labia su "Panorama". In una delle ultime intercettazioni relative all’inchiesta di Mafia Capitale si sente Massimo Carminati parlare il 27 gennaio 2012, con un’altra persona, del Procuratore Capo di Roma Giuseppe Pignatone e dei rischi del suo arrivo alla Procura romana per tutta l’organizzazione perché avrebbe buttato all’aria Roma visto che in Calabria ha capottato tutto e non si fa inglobà dalla politica. Tra il finto stupore generale e lo sgomento che sta provocando questa inchiesta, c’è anche l’anomala, per usare un eufemismo, vicenda di come Carminati, un personaggio dall’oscuro passato, sia uscito sempre indenne da tutte le inchieste che lo hanno coinvolto. Per quale motivo il Guercio si preoccupa proprio dell’arrivo di un giudice completamente estraneo al mondo romano e, soprattutto, dal curriculum di vero servitore dello Stato? E’ sufficiente rileggere la cronaca di qualche anno fa per avere un’idea. C’è una strana storia a fare da sfondo a tutta questa sporca vicenda e che suscita una certa inquietudine. Risale al 1999 e traccia in maniera precisa e inequivocabile il ruolo di Carminati a Roma. E’ il 16 luglio ed è un venerdì, intorno alle 18un furgone blu con il tetto bianco, simile a quelli usati dai carabinieri, ma con la differenza che si tratta di un comune furgone preso a nolo e ridipinto, supera uno dei cancelli del Tribunale della Capitale. Scendono tre uomini e con naturalezza si confondono tra le tantissime persone che in quel momento affollano la cittadella della Giustizia che dispone di quattro palazzi di cinque piani e di quattro ingressi. Alle 14 i due accessi laterali vengono regolarmente chiusi. Alle 20 gli addetti alla sicurezza chiudono l’entrata principale di Piazzale Clodio; a quel punto rimane aperto un solo varco, sul retro, in via Varisco, dove staziona un carabiniere di guardia. Tutti i visitatori, nel frattempo, sono usciti tranne i tre uomini che sono riusciti a nascondersi chissà dove. Passano tre ore e, alle 23, muniti di torce escono dal nascondiglio e si dirigono verso lo sportello della Banca di Roma che si trova nel corridoio della Pretura Penale e che dista soltanto 70 metri dal Commissariato di Polizia interno al Tribunale dove staziona sempre un poliziotto di guardia. Nel giro di quindici minuti i tre, muniti di chiavi false, aprono la porta blindata della banca e con un by-pass elettronico disinnescano il sistema d’allarme collegato al 113 e a un istituto di vigilanza privato. Si dirigono al cancello che dà accesso a due rampe di scale, scendono velocemente e arrivano a un’altra porta blindata, la aprono ed entrano nel caveau. All’interno ci sono 997 cassette di sicurezza, ma l’obiettivo dei tre sono solo 197 cassette segnate con una crocetta rossa da qualche complice che si è preoccupato di svolgere il proprio compito in precedenza. Con una grossa pinza le aprono e trasferiscono il contenuto di 174 cassette in 25 borsoni che si erano portati dietro. Le altre 23 cassette aperte rimangono intatte, forse non interessava il contenuto. Dopo due ore di operazione i tre escono dal caveau e attendono nascosti che alle 3 arrivi il quarto complice con l’auto all’uscita laterale di via Strozzi, un’entrata chiusa da oltre un mese per motivi di sicurezza e utilizzata solo dai magistrati; rompono il lucchetto ed escono. Si fermano a un bar per fare colazione e subito dopo si disperdono nel caldo della notte romana. Alle 6,40 di sabato 17 la donna delle pulizie dà l’allarme. I primi poliziotti che accorrono trovano alcuni pezzi dell’attrezzatura: guanti, piedi di porco e cacciaviti. Manca solo l’estrattore, l’attrezzo utilizzato per scardinare le cassette. Fino a quel momento il caveau della Banca di Roma situato all’interno del Tribunale era considerato una sorta di Fort Knox per la sua sicurezza ma, nel giro di poche ore, è diventato il luogo più insicuro al mondo situato nell’ormai famoso porto delle nebbie (il nome dato al Tribunale della Capitale per come molte inchieste finivano insabbiate tra gli anni ’70 e gli anni ’90). E anche questa storia sembra subire la medesima sorte. Le prime notizie raccontano di un bottino composto da documenti, due chili di cocaina, gioielli per cinquanta miliardi, cinque quintali d’oro e soldi per dieci miliardi di lire. Quello che più inquieta è che i proprietari delle cassette erano magistrati, avvocati e dipendenti del Tribunale. Le prime reazioni sono tra il comico e il grottesco, ma nessuno immagina quello che si scoprirà di lì a qualche mese. A occuparsi dell’inchiesta è, per competenza, la Procura di Perugia che a dicembre dello stesso anno traccia le prime conclusioni. Secondo i magistrati umbri Silvia Della Monica e Mario Palazzi il palazzo di Giustizia romano era, da almeno un anno e mezzo, in mano a Massimo Carminati, (che nel frattempo è stato arrestato, e che in quei giorni era anche accusato di essere l’autore materiale dell’omicidio di Mino Pecorelli poi assolto), e altri tre complici esperti nell’apertura di cassette di sicurezza. Nel corso di questo arco di tempo il Guercio, che secondo i giudici era più interessato ai documenti che al contante, aveva avuto libero accesso oltre che al caveau anche ad alcuni uffici, compresi quelli del sesto piano dove si trovano le sale d’ascolto per le intercettazioni. A fare queste rivelazioni sono due carabinieri che confessano di essere stati i complici della banda. Passano i giorni e la storia del furto si tinge sempre più di giallo. A un anno di distanza i giudici scoprono che non si sarebbe trattato di un semplice furto di una banda di ladri, anche perché di banche a Roma c’è l’imbarazzo della scelta, ma di un preciso colpo su commissione realizzato per ricattare alcuni personaggi. I protagonisti della vicenda sono carabinieri corrotti, esponenti della Banda della Magliana, un cassiere di banca, un impiegato del Ministero della Giustizia, un avvocato massone e, perché non manca mai, un collaboratore dei Servizi Segreti. Detto che di quel bottino e di quei documenti non si è avuta più traccia, a quindici anni di distanza Massimo Carminati si è preoccupato dell’arrivo di Pignatone a Roma perché avrebbe messo ordine soprattutto al porto delle nebbie.

Mafia Capitale, Massimo Carminati svaligiò la superbanca per ricattare i giudici, scrive l'08/06/2015 "Giornalettismo". Una delle rapine più misteriose della capitale d'Italia venne commessa proprio dal "Cecato": Salvatore Buzzi sa tutto, o quasi. Quali i mandanti? Quali le coperture politiche? Mafia Capitale, così Massimo Carminati svaligiò il caveau della Banca di Roma a Piazzale Clodio, una delle filiali più inespugnabili della Capitale d’Italia e meno frequentate dai “cassettari” dell’Urbe proprio per l’alto rischio necessario a “trattarla”. Ma Carminati, nel lontano 1999, riuscì a svuotare le cassette di sicurezza: per rapinare valori, oro, gioielli? No, o meglio, anche: ma principalmente documenti. Documenti importanti che potevano essere utili per ricattare proprio i giudici del Palazzaccio. Questo fu l’unico crimine per cui Massimo Carminati, detto il “cecato”, fu effettivamente condannato. La storia del colpo la racconta Salvatore Buzzi, sodale di Massimo Carminati nell’organizzazione criminale che le inchieste del Mondo di Mezzo stanno portando alla luce, nelle intercettazioni riportate dal Messaggero. Vennero svaligiate 147 cassette di sicurezza su 900. A distanza di anni, dopo indagini, arresti e tre gradi di giudizio, sono gli atti dell’inchiesta Mafia capitale a confermare quella che è sempre sembrata l’unica vera ragione del colpo: acquisire documenti per ricattare giudici e avvocati. È proprio Salvatore Buzzi, che del Nero conosce fama e misteri, a tirare in ballo la vecchia storia, mentre con l’ex brigatista Emanuela Bugitti discute su quale sia il modo più rapido per recuperare atti riferibili alla locazione di un complesso immobiliare, di nuova costruzione, a Nerola. La chiave di tutto è ancora una volta Carminati, a lui nessuno è in grado di dire di no. Ricorda Buzzi: «Lui fa na…na rapina alle cassette di sicurezza della…(furto al caveau della Banca di Roma, ndr)…trovano de tutto e de più». Aggiunge Bugitti: «Sono i giudici che mettono le cose». Allora Buzzi spiega: «Eh, qualcuno è ricattabile. Secondo te perché non è mai stato condannato. A parte questo reato, tutto il resto sempre assolto…». Sempre assolto, Carminati, tranne che nel 1999: quattro anni di galera, più volte indultati. Dal colpo la banda di Carminati porta via ingenti quantità d’oro che prova a piazzare, raccontano testimoni e pentiti interrogati dai magistrati. [Parla] Giuseppe Cillari, le cui vicende giudiziarie sono legate all’omicidio Casillo e alle attività della Banda della Magliana. «Una sera – riferì ai pm – vennero da me Pasquale Martorello, Piero Tomassi e Stefano Virgili che volevano disfarsi dell’oro. È avvenuto dopo l’arresto dei carabinieri». All’incontro erano presenti l’ex cassettaro e neo-imprenditore Virgili, che di lì a poco verrà colpito da mandato di cattura, e altri complici del colpo. Ricorda ancora Cillari: «Mi hanno parlato di 5 quintali d’oro da piazzare e io ho detto che quell’oro valeva il prezzo di mercato meno il dieci per cento. Complessivamente 50 miliardi. Mi è stato detto che c’erano anche altri 5 miliardi di certificati, più un miliardo e 200 milioni in contanti. L’oro è stato sepolto prima nei pressi di Viterbo, poi a Montalto di Castro. Martorello sa dov’è». Ma a nessuno interessa l’oro di Carminati, men che meno al “Nero” della banda della Magliana. La rapina nel caveau della Banca di Roma di Piazzale Clodio ha tutt’altra ragione. Una storia oscura, fatta di mandanti nella Roma bene e di intrecci con i servizi segreti, secondo le testimonianze. Il vero scopo – rivela il ricettatore – non erano i soldi, ma i documenti che valgono molto più dei gioielli. So che hanno documenti importanti. Il motivo per cui è stato fatto il furto è stato quello di prendere dei documenti che potessero servire a ricattare i magistrati e so che i documenti sono stati trovati. Mi è stato riferito che il furto sarebbe stato commissionato a Virgili da alcuni avvocati, due romani. So che l’interesse era rivolto a documenti di magistrati, in modo da poterli ricattare per la gestione dei processi importanti che hanno su Roma. Uno di questi si trova a Montecarlo con Tomassi e tale Giorgio Giorgi, dei servizi segreti. Ed è proprio riguardo i presunti mandanti di Carminati che il terreno per i testimoni, o comunque per chi sceglie di parlare, si fa immediatamente scivoloso. Su Carminati e presunti ispiratori “politici”, poi, nessuno ha voluto aggiungere nulla. Nemmeno Vincenzo Facchini, uno dei complici nel colpo che ha scelto di collaborare. Davanti a quel nome ha manifestato addirittura un atteggiamento ostruzionistico, e al pm Mario Palazzi che gli ha chiesto dei suoi rapporti con il Nero, ha risposto: «Dottore, questa domanda mi mette sotto la ghigliottina. Io questo signore non lo conosco e non lo voglio conoscere».

Un paese fondato sui dossier. Le liste di Sindona, Gelli, Calvi, le rivelazioni a sfondo sessuale. Così ricattare è stato, nella storia d’Italia, un modo di comandare, scrive Bruno Manfellotto su "L'Espresso" il 24 ottobre 2016. Non c’è cronista della mia generazione che non abbia sognato di mettere le mani sulla mitica lista dei 500 esportatori di capitali della Finabank di Michele Sindona, amorevolmente salvati e rimborsati dalla super andreottiana Banca di Roma un attimo prima che la bancarotta li travolgesse. Almeno toccarli, quei fogli, darci un’occhiata... Niente. Anche perché la lista è esistita, certo, ma non c’è più, solo pochi l’hanno letta, e comunque qualcuno l’ha fatta sparire. Di Ferdinando Ventriglia, dominus della Banca di Roma e della politica economica dalla metà degli anni Settanta, si raccontava addirittura che non l’avesse nemmeno voluta vedere, anzi che se la fosse letteralmente data a gambe quando gliene parlarono. Chissà. Comunque, che spettacolo vedere sulla scena il meglio di politici, imprenditori, alti prelati, barbe finte (molti riempiranno la P2 di Licio Gelli) impegnati a difendersi minacciando. Storia finita però in un nulla di fatto, senza colpevoli e senza verità, come tante altre sordide faccende di veline. E di generale omertà. Ma in fondo, quel che conta per chi alimenta le centrali della diffamazione, non è come va a finire, ma cosa succede nel frattempo, cioè dopo che la bomba è esplosa. E il dopo dura sempre molto. Una Repubblica fondata sul ricatto. Con radici antiche. Giolitti e Crispi, fine Ottocento, si fecero la guerra minacciando rivelazioni intorno al crac della Banca Romana; Fanfani e Piccioni, anni Cinquanta, si giocarono la successione a De Gasperi al vertice della Dc a colpi di memoriali sul caso di Wilma Montesi, trovata morta sul litorale di Torvajanica; i primi vagiti del centrosinistra, anni Sessanta, furono accompagnati dalle 157 mila schedature del Sifar del generale De Lorenzo, quello del “tintinnar di sciabole” di un colpo di Stato sventato. E del resto, molti anni prima, anche Mussolini aveva fatto largo uso degli archivi dell’Ovra, e li temeva perfino per se stesso e per la sua Claretta. Poi sfornare dossier è diventato abitudine, dall’artigianale agenzia “Op” di Mino Pecorelli agli otto computer di Pio Pompa, l’agente del Sismi ingaggiato contro i nemici del Cav. A ciascuno il suo dossier. Una lista pronta all’uso finiscono per farsela in casa pure Diego Anemone, cricca degli appalti pubblici, e perfino il Madoff dei Parioli. Non si sa mai. Gli argomenti cari ai fabbricanti di ricatti sono sempre le banche, cioè i soldi, e il sesso, eterno metronomo della politica. Al primo appartiene, appunto, la lista dei 500 resa nota perché chi doveva sapere sapesse quanti erano gli amici potenti alla corte di Sindona. Per arrivare al processo ci vorranno dieci anni, ma la lista non si troverà più e chi l’aveva nascosta non sarebbe stato perseguibile per intervenuta amnistia. Amen. Poi c’è il romanzo dello Ior, da Marcinkus a Gotti Tedeschi, passando per Calvi, Mennini e Pazienza, e pure la banda della Magliana di Renatino De Pedis, ogni volta con larga diffusione di carte e allusioni. E naturalmente ci sono le cassette di sicurezza del Palazzo di Giustizia di Roma opportunamente svuotate da Massimo Carminati, boss di Mafia Capitale, di cui racconta qui Lirio Abbate. Non può mancare Piero Fassino crocifisso (e poi assolto) per un’intercettazione - «Abbiamo una banca» - arrivata, ma guarda un po’, nelle mani di Berlusconi che, felice, esclama rivolto al suo pusher: «Come posso sdebitarmi per questo prezioso regalo?». Poi c’è il sesso, e funziona, anche se Roma non è Washington. E qui Berlusconi e il suo cerchio magico danno il meglio. La memoria corre ai dossier che costringono alle dimissioni il direttore di Avvenire Dino Boffo, reo di eccesso di critiche al Cav.; alla incredibile vicenda di Piero Marrazzo, vigilia delle primarie del Pd, sorpreso tra coca e trans da carabinieri-agenti provocatori che filmano un video offerto poi alla Mondadori per 200mila euro, che B. sfrutta da par suo: «Se fossi in te, Piero, cercherei di farlo sparire...»; all’odissea di Stefano Caldoro, candidato poco gradito alla guida della Regione Campania (il Pdl voleva il più potente Nicola Cosentino), al quale Denis Verdini, allora indimenticabile factotum berlusconiano, fa sapere che circolano brutte notizie sulle sue abitudini sessuali... Ma nel buco nero era finito anche Silvio Sircana, portavoce di Romano Prodi premier, paparazzato in una strada popolata di prostitute; per Gianfranco Fini, in rotta di collisione con il Capo, era bastato evocare antiche vicende “a luci rosse”; di Veronica Lario, moglie umiliata che osa ribellarsi, sono spuntate dal nulla foto a seno nudo e allusioni su un amante... La macchina del fango non si ferma mai. Oggi la cronaca ci regala il milione e 700 mila euro in un controsoffito dell’appartamento di Fabrizio Corona: arrestato per qualcosa che assomiglia all’evasione fiscale. Forse nell’Italia dei ricatti è l’unico finito in galera. In attesa del prossimo condono...

Di Lello: «C'era un teorema: la mafia non esiste. Noi lo smontammo». Intervista di Giulia Merlo del 19 ottobre 2016 su "Il Dubbio. «Nessuno si accorse che Buscetta aveva cominciato a parlare. Si venne a sapere solo dopo, perché ad un certo punto i boss si resero conto che era sparito nel nulla». «Con quel processo smontammo la retorica de "La mafia non esiste"». A dirlo è Giuseppe Di Lello, uno dei quattro giudici istruttori del pool di Falcone e uno dei protagonisti del maxiprocesso di Palermo Sono passati trent'anni da quel 10 febbraio 1986, dal teorema Buscetta e dai 260 imputati condannati in primo grado. Un processo che ancora anima i dibattiti e che ha visto - sulle pagine di questo giornale - contrapposte le tesi dell'ex procuratore aggiunto della Dna Alberto Cisterna e Tiziana Maiolo.

«La storia del maxiprocesso è anche la storia di una relazione nuova tra giustizia e informazione», ha scritto Cisterna. Da parte in causa, condivide?

«Condivido il fatto che il processo di Palermo è stato un punto di incontro tra stampa e giudici. Per la prima volta, infatti, c'è stata una vera e propria divulgazione mediatica degli eventi processuali. Niente a che vedere con il rapporto di oggi, però».

In che senso?

«Tanto per cominciare, non abbiamo mai fatto una sola conferenza stampa. Né, tantomeno, c'è mai stata una fuga di notizie dagli uffici di noi giudici istruttori. Pensi che il pentito Buscetta parlò in segreto con Falcone per tre mesi interi e nessuno, dico nessuno, ne era al corrente».

Nessuna soffiata alla stampa?

«Assolutamente no, si venne a sapere solo dopo, perché ad un certo punto la mafia si rese conto che Buscetta era come sparito nel nulla, dopo l'arresto in Brasile. Non lo trovavano né in carcere né in ospedale e allora capirono».

Oggi sarebbe assolutamente impensabile...

«Oggi, se un pentito parla, come per magia lo sanno tutti il giorno dopo e leggono tutti i dettagli sulle pagine dei giornali».

Si è anche scritto che, in quel processo, si processò la Mafia con la M maiuscola, prima ancora che i singoli individui. Lei è d'accordo?

«All'epoca era necessario stabilire, per la prima volta nel nostro ordinamento, se l'associazione mafiosa esisteva in sé, al di sopra dei reati commessi dai singoli individui. Non dimentichiamo che alcuni, in quel periodo, continuavano a ripetere che la mafia non esisteva».

Eppure, Tiziana Maiolo ha sostenuto che sia stato un errore «pensare che il processo non sia solo il luogo dove confermare l'ipotesi accusatoria nei confronti del singolo imputato, ma l'arma con cui si combattono fenomeni sociali trasgressivi». Avete davvero processato la Mafia e non i mafiosi?

«Che assurdità. Per noi era assolutamente necessario stabilire il contesto in cui si svolgevano i fatti, non bastava vagliare solo i singoli reati. Dovevamo individuare preliminarmente se il fenomeno mafioso e il contesto in cui prendeva forma davano vita ad una associazione per delinquere. Certo, è ovvio che al banco degli imputati sedevano i singoli mafiosi, ma per ottenere il risultato dovevamo prima di tutto affermare o smentire il principio della mafia come associazione per delinquere».

Oggi la mafia come la avete conosciuta e combattuta voi è ancora presente in Sicilia?

«La mafia è fatta di tradizione, continuità e innovazione. Queste tre caratteristiche fanno sì che il fenomeno non sia più identico a quello che abbiamo conosciuto trent'anni fa».

Diversa ma non sconfitta?

«Oggi la mafia è sicuramente indebolita: tutti i boss - con eccezione di Matteo Messina Denaro - sono in carcere con la pena dell'ergastolo. Inoltre ormai è una costante il fatto che i beni proventi di mafia vengano sequestrati. Questo è un colpo durissimo, ma attenzione: Cosa Nostra non è ancora vinta».

Immagina, oggi, che si possa istruire un processo come quello di Palermo?

«Non credo sia pensabile, anzitutto perché è cambiato il rito da inquisitorio ad accusatorio. Inoltre i mafiosi da processare sono molti meno, si pensi soprattutto al fatto che da allora non si è più ricostituita una vera e propria "cupola" come quella di Riina, Provenzano, Greco e Pippo Calò».

E quindi dove e come germina oggi la mafia?

«La mafia continua ad essere molto pervasiva sul territorio ed ha grande connessione soprattutto con i singoli poteri locali. Sottolineo però anche il grande lavoro di repressione portato avanti dallo Stato e dalle forze dell'ordine che operano nelle aree più a rischio».

Oggi il concetto di "antimafia" viene utilizzato nei contesti più diversi e in alcuni casi si è rivelata un paravento per situazioni opache. Come considera l'utilizzo di questo termine?

«Certo, esiste il pericolo che l'antimafia venga brandita come arma contundente, ma io ritengo che vadano sempre fatti i dovuti distinguo».

Vi racconto quel maxi-processo di 30 anni fa, scrive Alberto Cisterna il 15 ottobre 2016 su "Il Dubbio". La lotta a Cosa Nostra: a Palermo andò in scena il capolavoro giudiziario di Falcone. Fu tutto il bene e tutto il male della magistratura. Trent'anni dall'inizio del maxiprocesso di Palermo. Alla sbarra quasi 500 imputati. I rappresentanti ed i gregari dei più importanti mandamenti della mafia siciliana. Un'impresa costata la vita a tanti servitori dello Stato, ed a Falcone e Borsellino tra i primi. Un'impresa osteggiata dentro e fuori la magistratura italiana. I nemici esterni ed interni del maxiprocesso furono tanti e questo resta ancora un capitolo oscuro di una storia che ha ormai i contorni di un'epopea. Portare alla sbarra, tutti insieme, centinaia di mafiosi, mentre si andavano spegnendo nel Paese i bagliori di sangue del terrorismo, era più che celebrare un processo. Era un progetto "politico", lungimirante ed ambizioso, per ribaltare le sorti della Sicilia e spezzare il giogo delle cosche nel Sud che, Falcone riteneva, avrebbero finito per minacciare la democrazia e le sue regole. Negare la natura "politica", ossia etica, della scelta di Falcone e i suoi di sconfiggere per sempre la mafia raccogliendo in un unico processo le dozzine di indagini, prima spezzettate in un nugolo di micro inchieste, equivarrebbe (forse) a negare il nucleo morale più denso del segnale che si voleva dare con quella intuizione così dirompente e innovativa. Sia chiaro nella storia del Paese non erano mancati processi a carico di decine e decine di imputati, anche in Sicilia e soprattutto negli anni '60. Non era in discussione, solo, un dato numerico. Per la prima volta si voleva processare la Mafia e, con essa, coloro che ne facevano parte. Un'operazione che definire solo giudiziaria, ripeto, sarebbe poca cosa. E poiché si doveva far comprendere alla mafia ed alla Nazione la portata di quella rivoluzione, i protagonisti di quella stagione adoperarono, per la prima volta, la comunicazione mediatica come strumento sistematico per rafforzare il consenso sulle proprie tesi, per far comprendere i risultati delle proprie acquisizioni e per condividere le scoperte costate il sangue di tanti. Ecco la storia del maxiprocesso è, anche, la storia di una relazione nuova, sofisticata verrebbe da dire, tra giustizia ed informazione. I vecchi cronisti di "giudiziaria" vennero poco a poco soppiantati nelle redazioni da un ceto di intellettuali, spesso raffinati, che si votarono a scrivere in modo nuovo della mafia ed elaborarono linguaggi efficaci e mai sperimentati prima. La spiccata prudenza, l'agiografia poliziesca, cedettero il passo ad analisi più profonde e radicali. Le leggi dell'economia, della politica, della sociologia, della cultura vennero indirizzate per sostenere e confermare le tesi di Falcone e del pool. L'esistenza della "Cupola", della piramide mafiosa, il cosiddetto teorema Buscetta costituirono, probabilmente, il primo caso in cui verità sociologiche e comportamentali uscirono dal recinto tecnico e grigio dei processi per spandersi nella società civile come categorie di interpretazione della realtà. Leonardo Sciascia stesso, il più fine ed integro intellettuale del tempo, restò spiazzato da un'operazione che non era solo, e non era più, una buona strategia processuale, ma soprattutto il mezzo per rendere egemone nella società italiana (e non solo) l'interpretazione della mafia e dei suoi meccanismi di potere e sangue. Ci sarà la polemica strumentale, alimentata da alcuni superficiali, dei "professionisti dell'antimafia", e poi cancellata da Giovanni Falcone con la prefazione del suo libro "Cose di cosa nostra" dedicato proprio a Sciascia. Dopo tre decenni non deve essere considerato un caso che le prime due cariche della Repubblica, il presidente Mattarella e il presidente Grasso, abbiano indissolubilmente legato le proprie esistenze a quella stagione. E' forse la vittoria più grande di quella strategia geniale del pool palermitano. Il consenso sociale che si è coagulato su queste vite spese dalla parte dello Stato è la dimostrazione più evidente che non si trattato solo di un maxiprocesso, ma di una fine intuizione "politica", ossia della consapevole realizzazione di un contesto entro cui costruire e sorreggere la convinzione che la mafia sarebbe stata sconfitta anche fuori dalle aule di giustizia. A dispetto di un fatalismo prossimo alla complicità. Di questa enorme eredità restano, come detto, segnali contraddittori. Lo strumento del maxiprocesso è stato man mano piegato ad esigenze particolari, se non personali, per dare lustro a qualche attività di polizia. Per carità cose importanti, ma che nulla hanno a che fare con quella stagione e con quella visione "alta" della società e della magistratura. Lo stesso giornalismo, nel progressivo esaurirsi della parabola straordinaria di un ceto colto e lungimirante, appare, troppe volte, la mera cassa di risonanza di indagini e di atti giudiziari destinati, abbastanza velocemente, ad essere dimenticati. Dopo 30 anni quella lezione "politica" ed etica ha ceduto il passo alla furbizia dei carrierismi e dei protagonismi individuali, mandando in fumo il senso profondo di quell'aula gremita di centinaia di mafiosi sperduti e vocianti. Come in un quadro di Salvador Dalì il tempo di quel processo appare consunto, misurato da orologi non più capaci di stare in piedi, ma solo adagiati, svuotati di senso, su rami spogli ed erosi. Visto dalla prospettiva di questa decadenza utilitaristica lo strumento del maxiprocesso appare desueto, se non addirittura denso di minacce. La bulimia del processo monstre fagocita fatti e persone, adoperando talvolta legami deboli, pregiudizi, feticci ideologici o sociologici (si pensi solo all'appeal mediatico della cosiddetta zona grigia, rimasta priva di apprezzabili conferme processuali). Esattamente l'opposto dell'ambizioso progetto del pool palermitano che puntava al nucleo centrale della mafia evitando di selezionare comportamenti, abitudini, relazioni che erano proprie dell'antropologia siciliana e meridionale in generale. Falcone ed i suoi non immaginavano alcuna contaminazione o contagio dei mafiosi verso un'immaginifica società civile, pura e innocente, preda degli appetiti dei picciotti, ma mostrarono piuttosto di avere sempre ben chiaro il punto di separazione tra la callida collusione e la succube connivenza delle collettività siciliane con la mafia. Ebbero l'ambizione di processare le cosche e non la società palermitana o un indistinto sistema di potere. Per questo, a distanza di 30 anni, appare ancora più opaca la posizione di chi scelse di fermarli o di schierarsi contro. Il maxiprocesso rappresentò una straordinaria manifestazione di forza e di efficienza di una parte della magistratura e delle forze di polizia e questo dovette allarmare non solo la mafia.

Chiedo scusa se parlo male di Falcone e del maxiprocesso..., scrive Tiziana Maiolo il 18 ottobre 2016 su "Il Dubbio". Volle passare alla storia come colui che, da magistrato, sarebbe arrivato là dove la Politica non aveva potuto o voluto arrivare: alla sconfitta della Mafia. Il Maxiprocesso di Palermo fu il Maxierrore di Giovanni Falcone. Lo fu sul piano giudiziario, politico e mediatico. Ma ancor di più da un punto di vista "psicologico", perché Falcone volle trasformare quelle indagini e quel processo in terra di Sicilia in qualcosa di eroico, in gesto epico. E volle passare alla storia come colui che, da magistrato, sarebbe arrivato là dove la Politica non aveva potuto o voluto arrivare, alla sconfitta della Mafia. E qui sta l'errore di politica giudiziaria che disvela una cultura poco laica della giustizia: il pensare cioè, che il processo non sia semplicemente il luogo dove si confermi o si bocci l'ipotesi accusatoria nei confronti di ogni singolo imputato, ma invece l'arma con cui si combattono i fenomeni sociali trasgressivi e illegali come il terrorismo o la criminalità organizzata. Una cultura, in un certo senso quasi religiosa, sicuramente da Stato etico, che mi pare appartenga anche al magistrato Alberto Cisterna, che ha scritto su questo giornale un autorevole commento nel quale, valorizzando la politicità del maxiprocesso, così esulta: «per la prima volta si voleva processare la Mafia», con la emme maiuscola. Quasi si trattasse di una signora imputata che di cognome faceva Mafia, per l'appunto. Va ricordato, solo a parziale comprensione dell'iniziativa (e della cultura di cui fu vittima) di Giovanni Falcone, che erano gli anni in cui la discussione sulle norme che regolavano il processo penale e il codice Rocco del ventennio non aveva ancora portato alla riforma, che entrò in vigore il 24 ottobre 1989, a cavallo tra la sentenza di primo e quella di secondo grado del maxiprocesso. Quando si passò da un sistema inquisitorio (quello anche della "caccia alle streghe", non dimentichiamolo mai) a uno almeno "tendenzialmente" accusatorio, la cultura di molti magistrati non era ancora pronta allo strappo. Falcone lo sarebbe invece stato, se non lo avesse accecato quel sogno eroico di dare, attraverso un processo, una svolta di legalità e di pacificazione alla sua Sicilia. Purtroppo la storia andò diversamente. Ma va anche ricordato come andarono le cose dal punto di vista giudiziario e come entrarono in scena anche la politica e addirittura un governo. Il fascicolo degli indagati da Falcone si chiamava "Abbate Giovanni più 706", ottomila pagine. Più di settecento persone che avrebbero costituito, secondo il collaboratore di giustizia Buscetta (bravo a denunciare i nemici, ma mai gli amici mafiosi) una cosca con organizzazione verticistica. Da questo gruppo mafioso 231 persone uscirono subito indenni, neppure rinviate a giudizio e altre 114 assolte dalla sentenza di primo grado (che comunque aveva accolto la tesi di Buscetta) del 16 dicembre 1987. I condannati nel processo di primo grado rimangono 260. Siamo già oltre il dimezzamento della cosca così come descritta da Buscetta e avallata dal dottor Falcone. È questo anche il momento della polemica con Leonardo Sciascia che dalle colonne del Corriere della sera lancia l'allarme: "Nulla vale di più, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso". Ma Falcone e il "pool antimafia" (un magistrato non dovrebbe mai essere "anti" o "pro" qualcosa o qualcuno) hanno ormai troppo potere per poter essere scalfiti. Infatti, come ricorda ancora Alberto Cisterna, "i protagonisti di quella stagione adoperarono, per la prima volta, la comunicazione mediatica come strumento sistematico per rafforzare il consenso sulle proprie tesi?". E così il cerchio si chiude, manca solo la benedizione del Papa. Nonostante il successo mediatico, nelle aule di giustizia le cose andarono in seguito diversamente, e la Corte d'appello fece a pezzetti il "teorema Buscetta", negando il fatto che la struttura verticistica influenzasse ogni singolo atto criminoso, esaminando ogni caso individualmente e ridando una sorta di laicità al processo. Vennero così cancellati 7 ergastoli su 19 e altri 86 imputati vennero assolti. E così siamo a due terzi di innocenti sui famosi 707 dell'esordio. La storia sarebbe finita in questo modo, molto ordinario e poco eroico di un processo di criminalità organizzata, se non fosse entrata in scena la politica. Un magistrato abile e intelligente come Falcone sapeva bene che un processo costruito a quel modo, puntato solo sulla parola dei "pentiti" e con tutte quelle assoluzioni, pur con grande consenso mediatico, avrebbe potuto diventare il suo fallimento, il suo "maxierrore" qualora non avesse superato lo scoglio della Cassazione. E la prima sezione presieduta da un giudice preparato e pignolo come Corrado Carnevale era proprio quella cui venivano assegnati i processi sulla criminalità organizzata. Magistrati attenti e scrupolosi, rigorosi sulle procedure, avrebbero potuto mettere in discussione qualche superficialità, qualche approssimazione nella verifica dei riscontri alle parole dei "pentiti". Lo stesso ruolo di Buscetta avrebbe potuto uscire ridimensionato da una sentenza rigorosa. La Cassazione era sotto gli occhi di tutti, in quei giorni, e Falcone non poteva perdere quella battaglia. Fece di tutto per vincere. Aveva lasciato da un anno il palazzo di giustizia di Palermo, dopo aver subito uno schiaffo che ancora gli bruciava perché il Csm aveva privilegiato l'anzianità del collega Meli alla presidenza dell'ufficio istruzione, ed era al ministero di Giustizia quale direttore generale degli affari penali. La situazione politica era più che traballante (le camere furono sciolte il successivo 2 febbraio) e una vittoria, almeno giudiziaria, sulla mafia deve esser parsa a un governo debolissimo una piccola rivincita sulle proprie incapacità. Così il ministro di Giustizia Martelli, probabilmente su suggerimento di Falcone, ma anche sollecitato dal presidente della commissione bicamerale antimafia Luciano Violante, mise nel mirino il giudice Carnevale. Ai monitoraggi sull'attività della prima sezione di Cassazione, da cui l'alto magistrato uscì trionfante (il quotidiano La Repubblica titolò "Carnevale ha ragione"), si accompagnò la fanfara mediatica sull'"ammazzasentenze" per sottrarre il maxiprocesso alla prima sezione della Cassazione. O almeno al suo presidente. E così fu. Carnevale fece domanda per il ruolo di presidente di Corte d'appello a Roma. E il 30 gennaio, senza neppure una camera di consiglio, una sentenza frettolosa e impaurita incoronò il "teorema Buscetta" come verità politica e giudiziaria. Che importa se da quel momento la mafia, ancor più feroce, insanguinò la Sicilia e l'Italia con le sue stragi? E che importa se quella decisione, e tutte le leggi speciali che ne seguirono (ancor oggi paghiamo con l'ergastolo ostativo le conseguenze dello sciagurato decreto Scotti- Martelli) uccisero lo Stato di diritto? Importa, certo che importa. Ma forse non a tutti.

Martelli: «Falcone? Era solo, i magistrati lo avevano isolato», scrive Paola Sacchi il 23 maggio 2016 su "Il Dubbio". «Giovanni doveva diventare capo dell’Ufficio Istruzione di Palermo e invece il Csm gli preferì Antonino Meli. Venne a lavorare con me quando in Sicilia era delegittimato». Claudio Martelli, già vicepresidente del Consiglio dei ministri e titolare del dicastero di Grazia e Giustizia, racconta a Il Dubbio chi era Giovanni Falcone e perché nel 1991 lo prese a lavorare con sé in Via Arenula. L’ex delfino di Bettino Craxi, l’autore della relazione “Meriti e bisogni”, racconta chi era “il giudice più famoso del mondo, che non usava gli avvisi di garanzia come una pugnalata”.

Onorevole Martelli, quando Falcone arrivò da lei si scatenarono molte polemiche. Perché?

«Le polemiche arrivarono dopo, quando soprattutto emerse il disegno di creare oltre alle Procure distrettuali anche una Procura nazionale Antimafia, che poi venne battezzata la Super-procura. Lì si infiammarono gli animi e in alcuni casi si intossicarono».

Gli animi di chi?

«Di chi dirigeva l’Associazione nazionale magistrati. Era Raffaele Bertoni che arrivò a dire letteralmente: di una Procura nazionale Antimafia, di un’altra cupola mafiosa non c’è alcun bisogno…»

Addirittura?

«Sì. E ci furono esponenti del Csm, in particolare il consigliere Caccia, il quale disse che Falcone non dava più garanzie di indipendenza di magistrato da quando lavorava per il ministero della Giustizia. Io dissi che questa era un’infamia. Lui mi querelò, ma alla fine vinsi. Venne indetto anche uno sciopero generale della Anm contro l’istituzione della Procura nazionale Antimafia. Uno sciopero generale, dico!»

Oggi suona come roba dell’altro mondo…

«Sì, ma questo era il clima. La tesi di fondo era che Martelli intendeva ottenere la subordinazione dei Pm al ministro della Giustizia. Questa era la più grande delle accuse. Poi c’erano quelle a Giovanni e al suo lavoro».

Il Pci e poi Pds non fu neppure tanto tenero. O no?

«Erano in prima linea i comunisti. E gli esponenti della magistratura che ho citato erano tutti di area comunista. L’Unità faceva grancassa, dopo aver osannato Falcone in passato, aveva cambiato atteggiamento già prima che Falcone venisse al ministero».

Quando?

«Quando si rompe il fronte anti-mafia e alcuni di quegli esponenti a cominciare dal sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, incominciano ad attaccare Giovanni».

Che successe?

«La polemica tra Orlando e Falcone sorge quando Giovanni indagando sulla base di un rapporto dei Carabinieri in merito a un appalto di Palermo osserva che con Orlando sindaco, Vito Ciancimino era tornato a imperare sugli appalti di Palermo. A quel punto il sindaco perde la testa e come era nel suo stile temerario e sino ai limiti dell’oltraggio accusa Falcone di tenere nascosti nei cassetti i nomi dei mandanti politici degli assassini eccellenti di Palermo. Cioè quelli di Carlo Alberto Dalla Chiesa di Piersanti Mattarella».

Eravamo arrivati a questo punto?

«Sì, non contento Orlando fa un esposto firmato da lui, dall’avvocato Galasso e da altri, al Csm sostenendo che Falcone aveva spento le indagini sui più importanti delitti di mafia. Il Csm convoca Falcone nell’autunno del ’91 e lo sottopone a un interrogatorio umiliante, contestandogli di non aver mandato avvisi di garanzia a tizio, caio o sempronio. Giovanni pronuncia frasi che secondo me dovrebbero restare scolpite nella memoria di tutti i magistrati italiani».

Le più significative?

«Disse Giovanni: non si usano gli avvisi di garanzia per pugnalare alla schiena qualcuno. Si riferiva in particolare al caso del costruttore siciliano Costanzo. Falcone sostenne che si mandano quando si hanno elementi sufficienti. Ancora: non si rinviano a giudizio le persone se non si ha la ragionevole convinzione e probabilità di ottenere una sentenza di condanna. Le procedure penali per Giovanni non erano un taxi e quindi non vanno a taxametro».

Ritiene che l’insegnamento di Falcone sia stato poi seguito, in passato e nei nostri giorni?

«Sì, ci sono per fortuna magistrati che hanno seguito il suo metodo molto scrupoloso nelle indagini. E quando otteneva la collaborazione dei pentiti era molto attento a verificare le loro dichiarazioni».

Faccia un esempio.

«In un caso palermitano, un pentito, tal Pellegriti, dichiarò che il mandante degli assassini di Piersanti Mattarella era l’on. Salvo Lima. Falcone gli chiese da chi, come e quando l’avesse saputo. Fa i riscontri e scopre che in quella data Pellegriti era in galera. Dopodiché lo denuncia per calunnia. Ma siccome questo pentito era già diventato un eroe dei tromboni dell’anti-mafia, quelli delle tavole rotonde…»

Intende dire gli stessi che celebrano Falcone?

«Sì, dopo ci arriviamo…allora, stavo dicendo che questi si inviperirono contro Falcone perché aveva rovinato loro il giocattolo. E quindi dopo questo episodio e quanto ho raccontato prima, lo denunciano al Csm che “processa” Falcone. Il quale a un certo punto perde la pazienza e dice: se mi delegittimate, io ho le spalle larghe, ma cosa devono pensare tutti i giovani procuratori, ufficiali di polizia giudiziaria? Falcone in quel momento era il giudice più famoso al mondo».

Ci ricordi perché.

«Era quello che aveva fatto condannare in primo grado e in appello la cupola mafiosa dei Riina, Greco e Provenzano. Grazie a lui gli americani avevano condotto l’operazione Pizza connection…. Era così autorevole e famoso che una volta in Canada un giudice di tribunale volle che si sedesse in aula posto suo. Ma poi arrivò la stagione del corvo di Palermo: le lettere anonime nelle quali si infangavano Falcone e De Gennaro».

Un clima ostile, quasi da brivido con il senno di poi…

«Ora se a questo si aggiunge che Giovanni doveva diventare capo dell’Ufficio Istruzione di Palermo e invece il Csm gli preferì Antonino Meli, e che poi si candidò al Csm e venne bocciato, e infine a procuratore capo di Palermo gli preferirono Pietro Giammanco, si può ben capire il clima attorno a lui. Che giustifica una frase di Paolo Borsellino dopo la strage di Capaci: lo Stato e la magistratura che forse ha più responsabilità di tutti ha cominciato a far morire Falcone quando gli preferirono altri candidati. Venne a lavorare con me quando a Palermo era ormai isolato, delegittimato, messo sotto stato di accusa».

È vera la leggenda che per sdrammatizzare quando arrivava in ufficio dopo pranzo alle segretarie chiedesse scherzoso: neppure oggi Kim Basinger ha chiamato per me?

«Sì, l’ho sentito anche io. Lui aveva anche una grande ironia e la faceva anche su stesso, amava molto la vita. Credo che Giovanni a Roma visse uno dei periodo fu sereni della sua esistenza, perché era messo in condizioni di lavorare».

Come vede le polemiche di oggi tra magistratura e politica?

«Certe cose con Falcone non c’entrano niente. Lui sosteneva la necessità di separare le carriere dei magistrati tra Pm e giudici. Perché il giudice deve essere terzo, imparziale, come dice la Costituzione.

Cosa pensa delle accuse indiscriminate di Piercamillo Davigo, presidente della Anm, ai politici?

«Davigo veniva definito da Antonio Di Pietro il nostro “ragioniere”. Ma io gli riconosco il merito di aver sbaragliato nel congresso dell’Anm tutte le correnti. E poi non è vero che lui accusa indiscriminatamente i politici. Dice che i politici di oggi sono peggio di quelli di ieri».

Quanto piacciono le grandi opere alla mafia. I clan hanno lavorato in quasi tutti i cantieri d'Italia. Piccoli e grandi. Da Sud a Nord. Expo, Tav, autostrade. E persino per le opere propedeutiche al ponte sullo Stretto. Una storia italiana che si lega all'inchiesta "Corruzione in corso" su l'Espresso, scrive Giovanni Tizian il 18 novembre 2016. Expo, Salerno-Reggio Calabria, Alta velocità. E persino le opere preliminari per il ponte sullo Stretto. Grandi opere, grandi affari. Per pochi, non per tutti. In questa fortunata cerchia rientrano le aziende delle cosche. E dato che le vie del riciclaggio sono infinite, seguirle conduce spesso a indirizzi che non ti aspetti. In fondo, è ciò che ha fatto la procura antimafia di Roma: sentendo puzza di denaro sporco col timbro dei clan di 'ndrangheta, ha illuminato quei canali ritrovandosi a un certo punto del viaggio nel bel mezzo dei cantieri delle grandi opere italiane. La scintilla dell'ultima inchiesta "Amalgama" è proprio questa, un tremendo puzzo di quattrini lerci che ha portato gli inquirenti sulla pista di un sistema in cui i protagonisti principali della storia sono manager dei più importanti colossi delle costruzioni, ingegneri esperti di direzione lavori, imprenditori che collezionano subappalti nelle grandi opere. Al centro di tutto c'è lei: la signora Mazzetta. Che da Tangentopoli in poi ha subito un'evoluzione costante, fino a trasformarsi in un do ut des fatto non tanto di scambi di denaro liquido, ma di favori in cambio di appalti, consulenze, incarichi. Sull'Espresso in edicola da domenica l'inchiesta "Corruzione in corso" mostra, attraverso documenti inediti, il Sistema che si arricchisce, in maniera illecita, lucrando con le infrastrutture strategiche per il Paese. Riciclaggio mafioso, dicevamo. I clan, nel settore delle costruzioni, hanno sempre detto la loro. Difficile trovare una grande o piccola opera in cui direttamente o indirettamente le imprese dei boss non abbiano lavorato. La storia dei cantieri italiani è costellata di padrini in doppio petto e con la partita iva che si sono inseriti nel business del calcestruzzo. Talmente normale, che anche i media non ci fanno quasi più caso. È notizia di pochissimi giorni fa, per esempio, la retata che ha portato in carcere l'estesa rete di fiancheggiatori del boss di Reggio Calabria Domenico Condello, detto "Micu u pacciu". Un'inchiesta durata alcuni anni che, oltre ad azzoppare il livello militare, ha svelato il network di aziende della galassia Condello. E proprio una di queste ha lavorato - agli atti c'è persino il numero di contratto stipulato - per il consorzio Eurolink, il gruppo di società composto in primis da Salini-Impregilo, Società Condotte d'Acqua e Cmc, che dovrà realizzare il ponte sullo Stretto. Eurolink ha affidato nel 2010 l'esecuzione di alcuni lavori alla cordata costituita da Teknosonda, Calabrese Pasquale e Calabrese Antonio per un valore, stimano gli investigatori, di oltre 1 milione di euro.La commessa riguarda la cosiddetta "Variante ferroviaria di Cannitello", un lavoro propedeutico alla grande opera dello Stretto. Non è raro che aziende sospette riescano a bucare i controlli, insinuandosi persino laddove esistono protocolli antimafia, all'apperenza molto severi, in pratica facili da aggirare. Sempre nella stessa indagine della procura antimafia di Reggio Calabria guidata da Federico Cafiero De Raho, il Ros dei carabinieri ha individuato altre imprese legata al clan Condello all'interno dei cantieri della Salerno-Reggio Calabria. In particolare nel sesto macrolotto, che arriva fino a Campo Calabro. Lo stesso pezzettino al centro delle inchiesta romana "Amalgama" sulle grandi opere. Anche in questo caso il general contractor era composto da Salini-Impregilo e Società Condotte d'Acqua. Se lasciamo la Calabria, direzione Lombardia, Milano, la situazione non migliora. Anzi. Per l'Expo 2015, è stato accertato come la 'ndrangheta abbia realizzato numerosi lavori. Dai padiglioni a lavorazioni legate al maxi appalto della Piastra sulla quale poi sono stati montati i vari stand del mondo. Anche sull'Esposizione universale la magistratura ha indagato. I pm di Milano per quel che riguarda il filone delle tangenti, Reggio Calabria per le infiltrazioni mafiose. Ancora una volta corruzione e mafia si mostrano per quello che sono: due facce della stessa medaglia in un Paese esausto e la cui crescita è bloccata da un mercato che privilegia i furbetti e non i più competenti. Persino nel cantiere militarizzato della Torino-Lione, il Tav che taglierà in due la Val di Susa, le 'ndrine sono riuscite a infilare i propri uomini. Emerge, per esempio, dall'indagine del Ros dei carabinieri e della procura antimafia di Torino. Mafia ad alta velocità, non esattamente una novità. Stesso copione lo ritroviamo nelle tratte Torino-Milano, Bologna-Parma, Napoli-Roma. Imprenditori delle organizzazioni che si sono occupati principalmente di lavorazioni specifiche, movimento terra in particolare ma non solo. Dell'intreccio tra mafie e corruzioni, ne ha di recente parlato la procura nazionale antimafia. Nella sua ultima relazione ha denunciato quanto le organizzazioni mafiose siano ormai dentro i sistemi corruttivi. E che al piombo, i padrini preferiscono la mazzetta quale principale strumento di entrata nei circuiti che contano. Insomma, prima provano a comprare il dirigente, il tecnico, il manager e, in caso di rifiuto, rispolverano i vecchi arnesi del mestiere. Ma è l'inchiesta della procura di Roma coordinata dal pm Giuseppe Cascini che rivela ancora una volta la saldatura tra i due mondi: corrotti e mafiosi sulla stessa barricata. Nelle informative dei carabinieri della Capitale c'è più di qualche indizio. Come per esempio il passaggio in cui Giampiero De Michelis, l'ingegnere dai mille incarichi, detto anche il "Mostro" dai manager dei general contractor, fa riferimento a un suo collaboratore. Tale Pasquale "Lillo" Carrozza. Chi è "Lillo"? È un geometra, «già dipendente della Società Condotte d'Acqua con la qualifica di capo cantiere presso i lavori di costruzione della Salerno-Reggio Calabria. Tratto in arresto dall'antimafia reggina nel 2012 per associazione mafiosa, truffa, frode nelle pubbliche forniture». Ecco cosa dicono di lui De Michelis e un altro intercettato: "Lillo", in pratica, accompagnava alcuni boss della 'ndrangheta in Anas e agli stessi capi bastone forniva le proprie utenze telefoniche per fare chiamte riservate. Ma, stando al racconto dei due, Carrozza era considerato «l'intermediario tra la società Condotte e la 'ndrangheta». De Michelis è un professionista stimato. Non per niente era dentro la società di ingegneria Sintel, di Giandomenico Monorchio, figlio del più noto Andrea, ex ragioniere generale dello Stato, poi in Infrastrutture Spa e ora ingaggiato da Salini Spa come presidente del collegio sindacale. Anche di questo e dei legami tra le varie indagini e personaggi coinvolti nelle grandi opere parlerà l'Espresso.

Tangenti, narcotraffico, pizzo: per l'Italia anche il 2016 è stato un altro anno di mafia. La mafia è ancora viva. Sta bene e continua a comandare su interi territori. Spesso nel silenzio generale. Gli ultimi dodici mesi raccontati attraverso gli eventi che hanno fatto più discutere e quelli meno visibili, scrive Giovanni Tizian il 29 dicembre 2016 su "L'Espresso". Il 2016 è stato un anno di mafia. Come l'anno prima e quello prima ancora. La differenza è che il Paese, oggi, sembra praticamente assuefatto dallo scorrere delle notizie che riguardano le nostre quattro grandi aziende criminali: camorra, 'ndrangheta, cosa nostra e mafia pugliese. L'abitudine crea dipendenza: così la convivenza con il potere criminale è diventata la normalità. Nell'accettazione di ciò che normale non è, abbiamo perso di vista i danni reali alle persone, alle cose, all'ambiente, che le cosche provocano con i loro business. Non sempre ci sono i morti ammazzati, anche se questi non mancano, a ricordarci che le mafie sono vive e vegete. Spesso si tratta di imprenditori strozzati dall'usura, dal pizzo, o cittadini disperati per le perdite alle slot machine. Spesso, insomma, i corpi dilaniati di questa eterna guerra contro le cosche non si vedono, ma esistono eccome. Certo, il sangue sul marciapiede fa più effetto che il fallimento di imprenditori onesti che non hanno accettato di pagare tangenti e per questo sono rimasti fuori dai giochi dei grandi appalti. Un mondo dove troppe volte ritroviamo aziende partner delle organizzazioni mafiose. Oppure pensiamo ai giornalisti che quotidianamente vengono intimiditi durante il loro lavoro. Anche nell'anno che sta finendo non sono mancati sindaci, assessori, parlamentari arrestati per complicità con le cosche. Così come tanti altri municipi sono stati sciolti per il condizionamento dei boss: l'associazione Avviso Pubblico ne ha contati 213 dal 1991 a oggi. Molte volte queste notizie non le abbiamo lette perché relegate alle pagine locali dei quotidiani di provincia. Ecco, messi assieme questi eventi forniscono il quadro inquietante di quanto ancora il Paese sia ostaggio dei clan. Organizzazioni criminali che, come ha sottolineato all'inizio del 2016 il procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti, utilizzano sempre di più la corruzione come metodo per imporsi nel mercato. La mazzetta strumento delle cosche, al pari delle pistole. Mafie, in particolare la 'ndrangheta, che oltre a corrompere e a infettare l'economia sana, continuano a essere leader nel narcotraffico in Europa. Questi fatti e i numeri impressionanti di operazioni, arresti, sequestri e confische (nell'ultimo anno solo la Dia di Reggio Calabria ha sottratto beni per il valore di 1 miliardo) dovrebbero proiettare la questione in cima all'agenda del governo. Ma siamo certi che neppure nel 2017, la lotta alle mafie sarà tema di discussione. Né da parte della maggioranza né della minoranza.

QUARTO GATE. Il 2015 è agli sgoccioli quando scoppia la prima vera grana giudiziaria in casa Cinquestelle. Deflagra in Campania, a Quarto, dove da sei mesi l'amministrazione è pentastellata. Tutto parte da un tentativo di estorsione ai danni del sindaco Rosa Capuozzo. L'autore indagato dalla procura antimafia di Napoli è un consigliere comunale grillino, Giovanni De Robbio, sotto inchiesta per voto di scambio, aggravato dall'aver agevolato il clan di camorra Polverino. De Robbio avrebbe minacciato il sindaco Capuozzo lasciando intendere alla collega del movimento di essere a conoscenza dell'abuso edilizio nell'abitazione del marito. Perché il segreto rimanesse tale avrebbe chiesto l'affidamento della gestione del campo di calcio a imprenditori da lui segnalati nonché la nomina di assessori, funzionari e di un consulente. Se i fatti emergono alla fine dicembre, la valanga di polemiche continuerà per mesi. Dal Pd al centrodestra un unico coro: dimissioni e commissariamento. Nel frattempo il consigliere De Robbio era stato già espulso dal movimento per aver violato il codice etico. E da lì a poco Beppe Grillo avrebbe levato il simbolo dalla giunta di Quarto. La sindaca, interrogata dai pm ma non indagata, ha spiegato che le pressioni di cui è stata vittima non le ha mai denunciate per salvare il Comune. Quarto in passato era stato sciolto per infiltrazioni della camorra. Uno dei 213 Comuni chiusi per mafia dal 1991. Nel 2016 i consigli comunali sciolti sono stati ben sei. Storie rimaste sotto traccia, piccoli paesi di cui nessuna parla e dove la democrazia è stata sospesa per l'ingerenza delle mafie.

AEMILIA. L'undici gennaio si è alzato il sipario sul maxi processo alla 'ndrangheta emiliana. Settantuno imputati hanno scelto il rito abbreviato. Processati nell'aula allestita alla fiera di Bologna, l'unica in grado di ospitare così tanti imputati. È un momento storico per l'Emilia Romagna, che per la prima volta è costretta a confrontarsi con la dimensione reale del fenomeno mafioso. Un'infiltrazione che in trenta e passa anni è diventato radicamento. Clan, cioè, che hanno scelto la regione più ricca d'Italia come base stabile dei propri affari. Alla sbarra boss, gregari, professionisti, politici e imprenditori. La cosca sotto accusa è quella dei Grande Aracri, originaria di Cutro, provincia di Crotone. L'abbreviato si è concluso con quasi tutte condanne. Destino diverso per i due politici: uno assolto, l'altro prescritto. Il 23 marzo, invece, inizia a Reggio Emilia il dibattimento del maxiprocesso: 143 imputati, centinaia di testimoni chiamati dall'accusa e dalle difese. E numerosi pentiti da ascoltare. Il processo è ancora in corso. Il 20 aprile, in seguito all'inchiesta da cui sono scaturiti i processi alla 'ndrangheta Emiliana, è stato sciolto il consiglio comunale di Brescello, il paese di Peppone e don Camillo. È il primo municipio dell'Emilia a subire un provvedimento di questo tipo. È sempre in questo periodo che spunta un nuovo collaboratore di giustizia, Pino Giglio, che con le sue aziende lavora da anni tra Modena e Reggio Emilia. Arrestato con l'accusa di far parte del clan Grande Aracri, ha deciso di vuotare il sacco. Dichiarazioni che hanno riempito pagine e pagine di verbali, molti dei quali ancora top secret.

IL PALADINO. Il 22 gennaio scattano le perquisizioni nelle abitazioni e negli uffici di Antonello Montante, presidente di Confindustria Sicilia e delegato nazionale per la legalità di Confindustria. La notizia dell'indagine sul capo degli industriali siciliani era stata data un anno prima da Repubblica: «C'è un pezzo grosso dell'Antimafia dell'ultima ora che è finito sotto inchiesta per mafia» scrivevano Attilio Bolzoni e Francesco Viviano. Uno scoop che he aperto per la prima volta uno squarcio nel muro di ipocrisia dell'antimafia di facciata. Nel capo di incolpazione la procura di Caltanissetta contesta a Montante: «Per avere concorso nelle attività dell'associazione mafiosa mettendo in modo continuativo a disposizione in particolare di Vincenzo e Paolino Arnone (consigliere e reggente della famiglia mafiosa di Serradifalco, ndr) la propria attività imprenditoriale consentendo al clan di ottenere l'affidamento di lavori e commesse anche a scapito di altri imprenditori, nonché assunzioni di persone segnalate dagli stessi, ricevendone in cambio il sostegno per il conseguimento di incarichi all'interno di enti e associazioni di categoria, la garanzia in ordine allo svolgimento della sua attività imprenditoriale in condizioni di tranquillità, senza ricevere richieste di estorsioni e senza il timore di possibili ripercussioni negative per l'incolumità propria e dei beni aziendali, nonché analoghe garanzie per attività riconducibili a suoi familiari e a terzi a lui legati da stretti rapporti». Delitto che Montante avrebbe commesso a partire dal 1990.

LA MONTATURA. «Forse non siamo stati chiari. Lo Sporting Locri va chiuso». La minaccia ricevuta dall'allora presidente della squadra di calcio a 5 femminile, che milita nella massima serie, aveva fin da subito attirato l'attenzione dei media. Peraltro lo stesso presidente Ferdinando Armeni, d'accordo con tutta la dirigenza, aveva annunciato l'azione più eclatante: ritiro della squadra, causa intimidazioni in stile mafioso. Locri è una piccola realtà, uno di quei luoghi, purtroppo, che pochi conoscono se non per fattacci di cronaca. Così il drammatico annuncio ha provocato una reazione di solidarietà a catena. Mondo dell'antimafia mobilitato, federazione calcio con Carlo Tavecchio pronto a intervenire per salvare quel gruppo che in effetti si era dimostrato essere una vera sorpresa nel panorama sportivo. Una realtà di grandi speranze per il territorio che suo malgrado è finita stritolata in una montatura orchestrata ad arte. I riflettori sul caso di spengono a gennaio, dopo la partita contro la Lazio. Tra il pubblico, oltre a cronisti di tutta Italia, c'era anche Carlo Tavecchio. Attestati di solidarietà, retorica antimafia e sermoni sulla legalità, per poi scoprire che in realtà la 'ndrangheta in questa vicenda non c'entra proprio nulla. Anzi, la procura di Locri ha chiesto l'archiviazione ad aprile. Il procuratore di Locri Luigi D'Alessio ha definito una montatura tutta la vicenda.

NARCOITALIA. Nel 2016 inizia il processo Columbus. Alla sbarra i narcos delle 'ndrine calabresi. L'indagine dell'antimafia reggina e dei poliziotti dello Sco ha svelato la nuova piazza affari della cocaina: New York. E qui che la 'ndrangheta con i suoi uomini tratta le partite di droga con i cartelli colombiani e messicani. Nella Grande Mela le cosche calabresi sono le prime interlocutrici delle famiglie siciliane, che rappresentano la cosa nostra americana, ben raccontata in decine di pellicole cinematografiche. Nel frattempo il flusso di polvere bianca non si è arrestato. Nei porti di Gioia Tauro ma anche in quelli di Rotterdam e Anversa, i narcos calabresi continuano a fare arrivare tonnellate destinate al mercato europeo. È sufficiente leggere le brevi sui sequestri settimanali per capire di che numeri parliamo: solo nel porto calabrese e solo nel 2016 sono stati bloccati 1500 chili. Una tonnellata e mezzo, tutta questa droga venduta al dettaglio può produrre profitti per miliardi di euro. Non solo coca. Il Gico della guardia di finanza di Palermo in un'operazione che dura ormai da due anni è riuscito a tracciare il flusso del traffico di hashish dal Marocco. Un traffico che riguarda sia cosa nostra e che la 'ndrangheta. In tre anni sono state intercettare 120 tonnellata di hashish, il cui valore complessivo al dettaglio è stimabile in circa 1,2 miliardi di euro. Il sospetto è che dietro al traffico internazionale di hashish ci possano essere gruppi della jhiad.

PASCOLI CRIMINALI. «E’ stato un agguato sono stato bloccato mentre tornavo da una manifestazione a Cesarò. A un tratto abbiamo trovato dei grossi sassi sulla strada. Neanche il tempo di capire cosa è successo che siamo stati crivellati dalle pallottole. Un uomo della scorta si è buttato su di me, e a salvarci la vita è stato il vice questore Manganaro che per caso era dietro di noi su una volante. Sparando ha messo in fuga gli assalitori». È il racconto che Giuseppe Antoci fa a Repubblica, nelle ore successive all'agguato subito sui Nebrodi. Lui, presidente del parco dei Nebrodi, non ha dubbi: «Sono certo di chi siano i mandanti, sono i mafiosi dei Nebrodi ma anche la 'ndrangheta, perché il protocollo che abbiamo messo in atto qui in Sicilia sarà applicato anche in Calabria». Già da tempo Antoci vive sotto scorta. I clan di quelle zone lo vogliono morto. La sua colpa? Far rispettare la legge in un'area dove la legge l'ha sempre imposta la mafia. La mafia dei pascoli, per la precisione. Quelle cosche, cioè, che sugli ettari ottenuti in maniera illegale incassavano pure finanziamenti europei. Con i protocolli firmati da Antoci oltre 5 mila ettari sono stati sottratti ai boss, e sono arrivate i primi provvedimenti delle prefetture per bloccare i mafiosi che volevano inserirsi nel business.

INVISIBILI. Il 15 luglio è un giornata particolare. Il the day after della strage di Nizza per mano dell'Isis e il giorno del tentativo di colpo di Stato in Turchia. Intanto è in quelle ore che la procura antimafia di Reggio Calabria ottiene l'arresto della componente “riservata” della 'ndrangheta. Chi sono costoro? Uomini dei clan, alcuni dentro le istituzioni altri esterni ma in grado di condizionarle. Sono gli invisibili, così li definiscono alcuni pentiti. In questa inchiesta il pm Giuseppe Lombardo delinea l'ultimo livello ancora nascosto della 'ndrangheta. Un livello composto da professionisti, dirigenti pubblici e politici. Come il senatore Antonio Caridi: «dirigente ed organizzatore della componente "riservata" della ‘Ndrangheta». Così il giudice per le indagini preliminari nell'ordinanza con cui viene chiesto l'arresto del politico calabrese. Caridi, quindi, punto di riferimento nazionale, di quella che la procura, guidata da Federico Cafiero De Raho, definisce una struttura segreta- impastata di massoneria- e di vertice dell'organizzazione criminale. Un'accusa pesantissima per il parlamentare ex Ncd. Caridi finirà in carcere solo dopo il voto favorevole all'arresto espresso dal Senato. La componente riservata, dicevamo. Un'entità che assomiglia molto a una super loggia massonica. E, del resto, in tempi non sospetti è stato uno dei padrini più influenti della regione a spiegare, intercettato, la mutazione genetica della mafia calabrese: «La ‘ndrangheta fa parte della massoneria» esclamava con il suo sodale qualche tempo fa Pantaleone Mancuso, sovrano di Vibo Valentia.

VIOLENZA E SILENZI. Una ragazza costretta a fare sesso, violentata da un branco, il cui capo era il figlio del boss del paese. Siamo a Melito Porto Salvo, provincia di Reggio Calabria. La vicenda ha commosso l'Italia. E ha spinto persino la presidente della Camera Laura Boldrini, insieme a Rosy Bindi della commissione antimafia, ad andare a Reggio Calabria per la manifestazione di solidarietà. Una storia di abusi che ci fornisce una certezza: i mafiosi non sono uomini men che meno d'onore. Stuprano, ammazzano donne e bambini. Chi vi dice il contrario racconta favole, leggende utili a santificare i padrini. Non è la prima volta che accade. Purtroppo tante ragazzine hanno dovuto subire violenza dagli 'ndranghetisti in erba. Ragazze rovinate per sempre. Che in qualche modo hanno provato a ribellarsi. Nonostante l'omertà che le circondava. E nonostante quel potere che tutti rispettano in religioso silenzio.

MAFIA CAPITALE. Il 2016 è l'anno del processo di mafia Capitale. Le udienze procedono a ritmo spedito E non sono mancate le sorprese. Per esempio, abbiamo scoperto che la deputata del Pd Micaela Campagna ha la memoria cortissima. La parlamentare- ex moglie di Daniele Ozzimo, assessore Pd alla Casa e coinvolto nella stessa inchiesta e già condannato a due anni per corruzione- con i troppi “non ricordo” sui rapporti con Salvatore Buzzi (il ras delle coop) ha fatto infuriare la presidente della Corte, Rossana Ianniello: «Le ripeto per la quarta volta, mentire sotto giuramento è un reato molto grave» le ha fatto notare la giudice. È probabile che di questa vicenda ne sentiremo parlare anche nell'anno nuovo. Infatti la procura di Roma potrebbe indagarla con l’accusa di falsa testimonianza. Ma detto del comportamento «reticente» della Campagna, è stato, senza dubbio, l'anno di Massimo Carminati. Per la prima volta ha parlato in aula. Per dire che, sì, il furto al caveau a piazzale Clodio, sede del tribunale, l'ha fatto e che probabilmente tra i tanti soldi c'era pure qualche documento. Questa confessione è la conferma che il potere del “Nero”, così come sosteneva la procura, viene proprio da quel furto, non solo di denaro ma anche di carte con un forte potere di ricatto. “L'Espresso” ha dedicato una copertina a questa vicenda dal titolo "Ricatto alla Repubblica" la settimana prima dell'annuncio di Carminati in aula. Lirio Abbate e Paolo Biondani hanno pubblicato per la prima volta i nomi delle vittime di quel furto. Magistrati, avvocati, professionisti vari, che qualche modo erano legati ai misteri d'Italia. Il 2016 è anche l'anno del patteggiamento di Luca Odevaine, l'altro grande protagonista del mondo di mezzo di Carminati. Odevaine era tirato in ballo soprattutto per il business dell'accoglienza nel centro più grande d'Europa a Mineo, provincia di Catania. Per questi fatti, qualche settimana fa, la procura di Catania ha chiuso la seconda tranche, tra gli indagati compare il nome di Giuseppe Castiglione, sottosegretario in quota Ncd, il partito di Angelino Alfano.

GRANDI OPERE. Il traffico di mazzette è cambiato, come il modo di versarle. Dalle valigette ai politici si è passati a consulenze, prestanomi e affidamento lavori. Un nuovo sistema basato su triangolazioni e più difficile da smantellare

Expo, Terzo Valico, Torino-Lione, Salerno-Reggio Calabria, ponte sullo Stretto, ricostruzioni post terremoto. Un lungo elenco, interminabile, di opere pubbliche dove le aziende legate a mafia e 'ndrangheta sono riuscite e penetrare. L'anno che se ne va lascia in carico un'indagine ancora in corso, solo in parte svelata: la procura di Roma e quella di Genova hanno mostrato come veniva gestiti i lavori dai general contractor nei cantieri più importanti in Italia. Al centro un imprenditore sospettato di connessioni evidenti con le cosche calabresi. Sull'Expo, invece, le inchiesta hanno certificato ciò che alcune inchieste giornalistiche avevano già ipotizzato: il 70 per cento dei lavori è stato fatto dalle 'ndrine e la mafia siciliana ha contribuito a realizzare alcuni padiglioni. Insomma, l'Esposizione universale ha portato quattrini nelle casse non solo dello Stato ma anche in quelle delle organizzazioni mafiose.

TRATTATIVA STATO MAFIA. A maggio viene assolto anche in Appello il generale Mario Mori. Insieme a lui imputato per la mancata cattura di Bernardo Provenzano anche l'ex colonnello Mauro Obinu. Un processo parallelo a quello principale sulla Trattativa, ma tassello essenziale. Perché una delle ipotesi è che in cambio della cessazione della strategia stragista sarebbero stati garantiti da pezzi dello Stato benefici di varia natura a Cosa nostra. E la latitanza di Provenzano – proseguita per undici anni dopo il fallito blitz di Mezzojuso – sarebbe stata il frutto di questo accordo. In pratica Provenzano era ritenuto il garante dell’accordo tra cosa nostra e lo Stato. Il processo principale sulla Trattativa è ancora in corso. In quest'ultimo un anno prima era stato assolto Calogero Mannino. La procura ha presentato appello. Intanto il dibattimento che vede politici, militari e boss mafiosi accusati di violenza o minaccia a corpo politico o istituzionale dello Stato, prosegue.

LA 'NDRANGHETA PADANA. Il 2016 è l'anno delle sentenze che confermano l'esistenza della 'ndrangheta al Nord. Tra maggio e giugno la Cassazione mette la parola fine su due inchieste che hanno mostrato il potere criminale delle cosche calabresi fuori dai confini regionali. Lombardia e Piemonte, succursali antiche della mafia calabrese. Queste due sentenza diventate definitive sanciscono inoltre l'unitarietà dell'organizzazione. Esiste cioè un vertice, chiamato “Crimine”, a cui tutte le famiglie 'ndranghetiste devono fare riferimento. Sia che queste si trovino in Australia, in Canada, in Germania, a Milano, a Torino o a Bologna, sia che si trovino in Calabria. È una rivoluzione per l'antimafia giudiziaria. Perché da ora non sarà più necessario dimostrare in ogni processo che la 'ndrangheta esiste, ripartendo così ogni volta da capo. Questi due verdetti definitivi, insomma, hanno lo stesso valore di quello sul maxiprocesso a cosa nostra istruito dal pool di Palermo.

IN MEMORIA DEL BOSS. L'anno si chiude con la polemica sulla messa in ricordo del boss ucciso a Montreal, in Canada, a maggio scorso. Rocco Sollecito, del clan Rizzuto di cosa nostra, è stato ucciso in una guerra che ormai va avanti da anni. Sollecito era originario di Grumo Appula, provincia di Bari. E' qui che il parroco decide a sette mesi della sua morte, in occasione della visita del figlio, di organizzare una cerimonia in memoria del padrino. A questo si sono poi aggiunti i manifesti in giro per il paese in cui invitava i cittadini a recarsi a messa per celebrare il boss. La polemica, per fortuna, ha bloccato l'iniziativa del parroco. La messa è saltata e il sindaco del paese ha chiesto al parroco di andare via da Appula.

Grandi opere: corruzione in corso. Così gli appalti diventano il regno delle tangenti. Il traffico di mazzette è cambiato, come il modo di versarle. Dalle valigette ai politici si è passati a consulenze, prestanomi e affidamento lavori. Un nuovo sistema basato su triangolazioni e più difficile da smantellare, scrivono Paolo Biondani e Giovanni Tizian il 29 novembre 2016 su "L'Espresso". Corruzione, affari miliardari, omertà e ricatti. Che diventano un sistema. Il noir del calcestruzzo è servito. La trama si ripete in decine di cantieri delle grandi opere. Gli appalti più ricchi d’Italia. Quelli che codici e protocolli per la legalità avrebbero dovuto rendere impermeabili alle mazzette e ai favoritismi privati. Invece proprio i lavori dichiarati strategici, dalle nuove autostrade all’alta velocità ferroviaria, finanziati con fiumi di denaro pubblico, sembrano un suk del malaffare. Proprio come negli anni neri di Tangentopoli. Vent’anni fa, le inchieste milanesi di Mani Pulite fecero esplodere, con centinaia di arresti e oltre mille condanne definitive, il vecchio sistema della corruzione diretta: soldi ai politici (o ai manager pubblici nominati dai partiti) in cambio di appalti d’oro per le aziende privilegiate. Oggi le nuove indagini, da Firenze a Genova, da Roma a Reggio Calabria, mostrano che la grande corruzione continua, con un’evoluzione della tecnica. Il nuovo sistema disegnato dagli atti d’accusa scorre su tre livelli. Ora come allora i colossi italiani delle costruzioni, rappresentati da manager di altissimo livello, stringono accordi illeciti con i tecnici che gestiscono gli appalti. In cambio, devono pagare consulenze a certi studi professionali o cedere subappalti ad altre imprese private, che giocano di sponda: i titolari sono prestanome o complici che si dividono i soldi con i corrotti. Una Tangentopoli modernizzata, più difficile da smascherare. Anche perché i pochi che conoscono i segreti del sistema hanno un fortissimo potere di ricatto.

L’Italia della Banda Bassotti. Dall'Expo al Mose, dalla Pedemontana al tunnel del Brennero: viaggio tra le infrastrutture che dovrebbero modernizzare il Paese. E che invece sono diventate la mangiatoia di politici e tangentisti

Ettore Pagani è uno dei 35 arrestati, il 27 ottobre scorso, nelle indagini collegate di Roma e Genova sulle grandi opere. Come manager del gruppo Salini-Impregilo, è diventato vicepresidente del Cociv, il consorzio privato (composto da Salini-Impregilo Condotte e Civ) che gestisce gli appalti pubblici della Tav Milano-Genova. Ed è uno dei protagonisti dell’intercettazione più eloquente: l’azienda di «zio Pietro», cioè Salini, vuole soldi dalla società pubblica Italferr, che Pagani chiama «zio Paperone». E a fare da tramite è il tecnico che dovrebbe vigilare sull’appalto, Giampiero De Michelis, (anche lui agli arresti) che assicura di essersi mobilitato, testualmente, «con tutta la banda Bassotti». Con la coppia controllore-controllato è finito in carcere anche Michele Longo, top manager per l’Italia di Salini-Impregilo e presidente del Cociv. Le cimici piazzate nei loro uffici hanno svelato la spartizione di decine di appalti, compresa la Salerno-Reggio Calabria. Pagani, lamentandosi dell’avidità dei tecnici, parla di un sistema che dura da anni: «Siamo stati noi ad aver abituato questa gente ad operare in un certo modo», spiega il dirigente della Salini, che aggiunge: «In passato lo abbiamo fatto su Cavet. E poi sulla Salerno-Reggio... E da altre parti ancora». Cavet è il consorzio dell’alta velocità in Emilia e Toscana. Salini-Impregilo è il più grande gruppo italiano di costruzioni, con 6 miliardi di fatturato, e guida anche la cordata Eurolink (insieme a Condotte) per il Ponte sullo stretto di Messina, rilanciato dal premier Matteo Renzi a fine settembre, alla festa per i 110 anni di vita dell’azienda romana. Che nel maggio scorso ha designato come presidente di Eurolink proprio Longo, il manager ora sotto accusa sia a Roma che a Genova.

Il “mostro” e l’amico calabrese. Il primo beneficiario del nuovo sistema corruttivo, secondo l’accusa, è Giampiero De Michelis, ingegnere, che da anni colleziona ruoli di “direzione lavori”, cioè controllore pubblico (in teoria) degli appalti. In realtà De Michelis chiude gli occhi sui ritardi, non denuncia l’uso di materiali scadenti e pericolosi (come il «cemento che sembra colla») e certifica furbi «stati di avanzamento lavori» per sbloccare i soldi statali per la nuova Tav (valico dei Giovi) e per l’autostrada Salerno-Reggio. In cambio i manager della Salini gli promettono, e in parte versano, milioni «sotto forme di commesse in favore di società a lui riconducibili». Diventato così «una pedina in grado di fare il gioco del consorzio privato», come lo definiscono i pm, l’ingegner De Michelis si sente sempre più forte. E nel 2015 si mette in proprio: dirotta i subappalti-tangente a un suo prestanome conosciuto nei cantieri della Salerno-Reggio. Un imprenditore calabrese, Domenico Gallo, sospettato di frequentazioni mafiose. Quei subappalti a rischio preoccupano un manager della Salini, che accampa ostacoli legali: «Ho già un elenco di società che hanno partecipato alla gara precedente...». Ma De Michelis tiene duro: «L’incarico può essere anche ad personam». «Sì, lo so, lo so», acconsente il manager, che con gli altri capi-azienda si lamenta dell’ingegnere: «Abbiamo creato un mostro». Alla fine è proprio la voce di “Mimmo” Gallo a descrivere l’impasto che governa le grandi opere: «Tra chi fa il lavoro, la stazione appaltante e i subappaltatori deve crearsi l’amalgama. Se ognuno tira e l’altro storce non si va più avanti». «Amalgama» è diventato il nome dell’inchiesta della procura di Roma e del nucleo investigativo dell'Arma della Capitale: le tangenti tra controllori e controllati sono il cemento della spartizione di soldi pubblici.

Il figlio dell’uomo di Stato. Quando è finito in cella, De Michelis era ancora uno dei tecnici della Sintel Engeneering, una società privata che ha diretto decine di opere pubbliche. Fa capo a Giandomenico Monorchio, figlio di Andrea, l’ex ragioniere generale dello Stato, poi diventato presidente di Infrastrutture Spa, la società pubblica per il rilancio delle grandi opere, ora assorbita dalla Cassa depositi e prestiti. Intanto Monorchio senior è passato al privato: è presidente del consiglio sindacale della Salini spa. Il figlio Giandomenico invece è agli arresti. Monorchio junior aveva capito la logica del sistema: «La gente deve sapere stare al mondo... se ormai le cose sono divise, sono divise per tutti», si lascia scappare in un’intercettazione. Che sembra riassumere la regola base di un codice parallelo, non scritto, dei lavori pubblici: l’equa spartizione. La coppia Monorchio-De Michelis puntava pure alla nuova stazione di Firenze per l’alta velocità, affidata al consorzio Nodavia, di cui fa parte la società Condotte. Volevano inserire un amico loro come direttore lavori: «un uomo nostro», che risponde al nome di Giovanni Fiordaliso, tecnico dell’Anas. Per l’azienda statale delle strade, peraltro, Fiordaliso ha fatto il direttore lavori in un tratto della Salerno-Reggio Calabria finito sotto sequestro per «gravi difetti strutturali». Ma quando è nato il sistema? La Sintel era regina degli appalti già da molti anni. Come confermano i colloqui registrati dai carabinieri di Firenze nel 2014, con l’indagine che ha scalzato due protagonisti: Stefano Perotti, super consulente pubblico-privato, ed Ettore Incalza, responsabile delle grandi opere e braccio destro dell’allora ministro ciellino Maurizio Lupi, costretto alle dimissioni per i regali ricevuti. Rilette oggi, quelle intercettazioni mostrano che le società di Monorchio junior e di Perotti avevano ottenuto insieme, dal Cociv, la direzione lavori per il Terzo valico. «Senti, ma la novità di ’sto cazzo di contratto?», chiedeva il primo. Dopo l’arresto di Perrotti, la Sintel è rimasta da sola a dirigere la Milano-Genova. Una grande opera che deve molto a Monorchio senior: nel 2005 fu l’ex ragioniere a imprimere il bollo definitivo su quella tratta della Tav, finanziata dallo Stato (Cipe) con 4,7 miliardi, poi lievitati a più di 6. Un altro esempio di convergenza sono le telefonate tra Ettore Incalza e Giandomenico Monorchio, preoccupato che si perdano i finanziamenti pubblici alla statale 106, arteria strategica per la Calabria. Incalza lo rassicura, in un dialogo che i carabinieri definiscono «molto cordiale», e lo saluta così: «Ciao bello!».

Lunardi e la legge obiettivo. Pietro Lunardi è l’imprenditore ed ex ministro del governo Berlusconi a cui è intitolata la legge del 2002 sulle grandi opere. Una contro-riforma che ha sottratto le infrastrutture strategiche alle regole europee: niente gare, niente concorrenza. A gestire i soldi pubblici è un consorzio privato, il “general contractor”. La norma affida alle stesse aziende perfino la nomina del direttore dei lavori: i magistrati osservano che «in nessun paese del mondo è il controllato a scegliersi il controllore». Oggi tra gli indagati a Roma c’è anche Giuseppe Lunardi, il figlio dell’ex ministro, che guida il gruppo di famiglia, Rocksoil. Per ottenere un incarico dalla Cociv, anche Lunardi junior, secondo l’accusa, avrebbe dovuto promettere consulenze e subappalti alla coppia De Michelis-Gallo.

La mangiatoia di Venezia. L’odore di sistema diventa ancora più forte analizzando la composizione dei consorzi. In cordata con Salini-Impregilo, per molti degli appalti ora incriminati, compaiono due grandi società romane: Fincosit e Condotte. Entrambe fanno parte anche del club dei privilegiati del Mose: le dighe mobili che dovrebbero salvare Venezia dall’acqua alta. L’opera è già costata allo Stato più di quattro miliardi, dopo vent’anni non è ancora finita e il preventivo di spesa finale è salito a 5,6. Nel 2014 i magistrati di Venezia hanno arrestato decine di imprenditori e politici per una corruzione colossale. Il sistema Mose si è rivelato il modello (peggiorativo) delle legge obiettivo. A Venezia, infatti, non si è mai fatta nessuna gara, neppure per scegliere il general contractor; per cui tutti i soldi pubblici sono finiti direttamente al consorzio privato. Che per oltre un decennio ha avuto un solo problema: corrompere i politici, tra cui spicca l’ex governatore veneto ed ex ministro forzista Giancarlo Galan (condannato). Anche i manager di Mazzi-Fincosit e Condotte sono stati arrestati e condannati a Venezia. Stessi protagonisti, altro sistema. O forse solo un altro pezzo di un super sistema.

Milano tra Expo e Mose. L’uomo forte del consorzio per il Mose, prima degli arresti di Venezia, era Piergiorgio Baita, manager e azionista della Mantovani spa. Incarcerato già nel 2013, Baita confessa un decennio di reati veneti, patteggia la sua condanna e rientra nelle grandi opere a Milano, con la piastra dell’Expo: un appalto da 272 milioni, vinto con un ribasso record del 40 per cento, cancellato però dalle prevedibili varianti per finire in tempo i lavori. Questa indagine milanese è stata riaperta. E il segreto sulle intercettazioni ambientali più scottanti è caduto. In una di queste Baita spiega il sistema ad Angelo Paris, l’ex responsabile tecnico di Expo. Lo stesso Paris poi arrestato insieme a tre big della Tangentopoli storica: l’imprenditore vicentino Enrico Maltauro, il compagno Primo Greganti e l’ex parlamentare berlusconiano Gianstefano Frigerio. Tutti condannati per le mazzette su alcuni appalti dell’Esposizione e della Città della Salute (un ospedale da 323 milioni). Il colloquio tra Mr. Mose e Mr. Expo è stato registrato dalla Guardia di Finanza il 24 aprile 2014. Baita esordisce vantando uno stretto rapporto con Antonio Rognoni, il super ingegnere delle grandi opere lombarde nell’era Formigoni, e rassicura Paris, che aspira a prenderne il posto. Rognoni è stato ammanettato pochi giorni prima, per l’inchiesta sulla corruzione dei consulenti legali che preparano le gare d’appalto. Anche Paris sta per essere arrestato, ma non lo sa, e chiede a Baita a cosa puntino i magistrati. «Non credo che si siano accontentati di questo», gli risponde il signore del Mose, che aggiunge: «C’è un’altra indagine molto importante in corso... Sulla Pedemontana Lombarda, sulla gara del secondo lotto... Che ha vinto Strabag». Paris: «Qual è il problema? Perché ha vinto Strabag?». Baita, a voce bassa: «Perché Impregilo, che aveva vinto il primo lotto, non ha rispettato alcuni impegni... rispetto a delle persone che erano garanti di Podestà e Formigoni». Paris: «Rispetto a delle persone... cosa vuol dire?». Baita: «Che loro si erano impegnati a dare del lavoro e probabilmente altre utilità... a degli intermediari di varia natura». Paris: «Non è stato fatto. E quindi sono stati puniti». Baita: «Esatto».

L’autostrada dimezzata. La Procura di Milano indaga da allora proprio sulla Pedemontana lombarda, sopra Milano. Una grande opera cara alla Lega, che però è ferma a meno di metà tracciato. Per cui quella superstrada da 4,2 miliardi resta semivuota, come la gemella Brebemi. Il primo tratto l’ha vinto Impregilo (con Astaldi, Gavio e Pizzarotti), dopo una gara rocambolesca. Il responsabile dell’appalto, Giuliano Lorenzi, fa finire il tracciato a 800 metri dallo svincolo, in aperta campagna. Per cui il pezzo mancante viene «riassegnato ex post» proprio a Impregilo. Creando così un contenzioso legale da tre miliardi con gli esclusi. Oggi l’ingegner Lorenzi è tra gli arrestati con l’accusa di aver truccato gli appalti ferroviari in Liguria. Con il secondo lotto, vinto a sorpresa nel 2011 dal colosso austriaco Strabag, la procedura è ancora più bizzarra: al mattino il Tar conferma l’appalto; nel pomeriggio l’allora presidente di Pedemontana, Bruno Soresina, corre a firmare il mega-contratto, che il giorno dopo viene bocciato dal Consiglio di Stato. Però ormai i giudici, in base alla legge obiettivo, non possono più annullarlo, ma solo imporre un risarcimento di 22 milioni alla società pubblica Pedemontana. Oggi questo secondo lotto è ancora fermo. E la Pedemontana rischia il fallimento. Il governatore Roberto Maroni l’ha affidata all’ex pm Antonio Di Pietro, che lancia l’allarme: i soldi sono finiti, la società ha un anno di sopravvivenza. Dalle carte di Firenze, arrivate anche a Milano, risulta che come direttore dei lavori per la Pedemontana è stato scelto un ingegnere dello studio Spm, quello di Perotti. Mentre il progetto «free flow» porta la firma di Corinne Perotti, la figlia dell’architetto arrestato nel 2015.

I big agli atti. Nelle nuove inchieste di Roma e Genova compaiono anche i proprietari dei colossi delle costruzioni. Duccio Astaldi è indagato per turbativa d’asta: un appalto da 68 milioni che secondo l’accusa fu truccato per favorire la società Condotte, di cui è capo azienda, alleata con la cooperativa emiliana Ccc. Astaldi in luglio progettava di quotare in Borsa il suo gruppo, che con 1,3 miliardi è terzo per fatturato in Italia, due gradini sotto Salini-Impregilo. Le due società romane sono alleate in molti appalti e i titolari frequentano lo stesso circolo canottieri Aniene. Anche Pietro Salini è citato nelle intercettazioni. Due anni fa parlava con Incalza di «problemi per l’autostrada in Libia» e di «finanziamenti per il valico dei Giovi dell’alta velocità». Oggi i tecnici della «banda Bassotti» lo chiamano «zio Pietro». E i carabinieri, intercettando il manager Longo, sentono Pietro Salini che gli chiede, con tono perentorio, di «non far vincere appalti alla Salc», che è «la società di suo cugino».

Ricatto al sistema. A indebolire «l’amalgama» è solo l’ambizione di De Michelis di gestire da sé le tangenti. A quel punto Giandomenico Monorchio vorrebbe cacciarlo, ma l’ingegnere contrattacca: minaccia di rivelare a Firenze i segreti del sistema. E per queste «manovre ricattatorie» ora è accusato anche di tentata estorsione. L’inchiesta però documenta che De Michelis ha incontrato davvero, più volte, un maresciallo della Guardia di Finanza. In un passaggio i carabinieri scrivono: «De Michelis afferma che anche un soggetto appellato “il professore” sarebbe coinvolto negli illeciti. Dal prosieguo della conversazione si comprende che intende riferirsi ad Andrea Monorchio, padre di Giandomenico». Secondo De Michelis, “il professore” avrebbe sollecitato lo sblocco dei finanziamenti per il terzo lotto della Salerno-Reggio Calabria, l’autostrada dove ha trovato lavoro la società del figlio. De Michelis, intercettato, assicura anche di aver denunciato i retroscena del mega-appalto per il tunnel del Brennero: un’opera da 8 miliardi, che coinvolgerebbe «anche un sottosegretario». E sulla Tav, minaccia Salini in persona: «Io devo fare arrivare un messaggio a Pietro, perché le cose stanno diventando molto, molto pericolose». A fine agosto, due mesi prima dell’arresto, il tecnico si sente sicuro che lo scandalo sarà enorme: «Ci stanno gli ordini di servizio, le fotografie, c’è pure che la rendicontazione è sbagliata: hanno dovuto far cambiare la legge apposta». Un’altra sua frase, che allude a tre società-chiave (del gruppo Gavio, di Perotti e di Monorchio), è già trascritta nella richiesta d’arresto firmata a Roma dal pm Giuseppe Cascini: «Io c’ho una lettera in cui la Sina, la Spm e la Sintel si spartiscono i lavori...». Parola di Mostro delle grandi opere.

Gli avvisi di Carminati e i segreti ancora potenti. Cosa vuole dire e a chi parla il boss di mafia Capitale sotto processo a Roma, scrive Lirio Abbate il 28 novembre 2016 su "L'Espresso". Massimo Carminati sembra ossessionato dalle inchieste dell’Espresso. Un chiodo fisso che lo porta a svelare segreti mai confessati prima. Così, al tavolo giudiziario attorno al quale si sta giocando la partita processuale di mafia Capitale, il “re di Roma” ha calato il jolly: la vicenda dei documenti riservati rubati nel caveau della Banca di Roma nel 1999. Per 17 anni Carminati non ne aveva parlato: ha deciso di farlo dopo l’inchiesta di copertina dell’Espresso, “Ricatto alla Repubblica”. Nella notte tra venerdì 16 e sabato 17 luglio 1999 il “nero” guidò un commando nel sotterraneo blindato della filiale di piazzale Clodio, all’interno della cittadella giudiziaria di Roma, svaligiando 147 cassette di sicurezza, selezionate da 900, con la complicità di alcuni carabinieri di sorveglianza. Mai nessuna delle vittime ha denunciato la sottrazione di quei documenti, perché - come scrivono i magistrati nella sentenza con cui è stato condannato Carminati - era difficile che qualcuno in possesso di questo materiale riservato fosse disposto a denunciarne la scomparsa. Eppure uno dei temi del processo che si è svolto a Perugia su quel furto era questo: il colpo di Carminati e soci poteva servire proprio ad acquisire documenti segreti. Da quasi due anni Carminati è in carcere. Ora parla in aula e ammette per la prima volta di aver rubato quei documenti. "È ovvio dal 2002 da dove proviene la mia disponibilità economica. Se c'erano tutti questi dubbi sulla mia partecipazione al colpo del caveau a piazzale Clodio (avvenuto nel luglio del 1999 ndr) potevano dirlo subito così mi assolvevano invece di condannarmi. C'erano tanti documenti in quel caveau, ma anche tanti soldi e io qualche soldo l'ho preso". Carminati è uomo attento e meticoloso. È uno stratega. Proprio come lo sono i boss delle mafie tradizionali. Per questo motivo martedì 22 novembre non gli possono essere sfuggite per caso frasi che rimandano a ricatti e intimidazioni. Ha detto espressamente: «È vero, c’erano molti documenti, e così fra un documento e l’altro ho preso pure qualche soldo». Un’affermazione che serve solo in apparenza a spiegare l’origine del suo patrimonio («qualche soldo»): il riferimento importante è invece quello ai documenti. In un dibattimento nel quale accusa e difesa si stanno scontrando sul sistema Carminati: sul fatto se sia o no mafia. Sono in molti ad ascoltare le parole di Carminati. Ma pochissimi danno il giusto peso a questa affermazione del “nero” sui documenti. Eppure proprio in questo passaggio è nascosta la “nuova mafia” romana. Meglio, il metodo mafioso. Oggi abbiamo la certezza che in alcune delle cassette aperte c’erano documenti importanti su cui Carminati voleva mettere le mani, grazie a questa ammissione fatta in aula. Il nostro titolo era “Ricatto alla Repubblica”, appunto. Perché il “nero” ha potuto godere a lungo di protezione grazie anche a queste carte. Oggi la storia può essere diversa perché diverse da allora sono le persone nei posti chiave della magistratura e delle istituzioni. Ma c’è sempre la possibilità che qualcuno abbia qualcosa da temere da quelle carte. Ed è per questo motivo che in aula Carminati ora ricorda di aver preso tanti documenti scottanti. Si tratta di un avviso ai naviganti. A quei marinai che con lui hanno solcato i mari in tempesta. E adesso stanno a guardare. I boss mafiosi come Riina e Bagarella non hanno bisogno di impugnare una pistola per incutere terrore: a loro basta uno sguardo, un gesto, una parola, per minacciare e intimidire. È ciò che accade anche con Carminati. Aver ricordato adesso i documenti sottratti durante il “furto del secolo”, come venne definito nel 1999, è un gesto di minaccia tipico della mafia e del metodo mafioso, ma anche un segnale che mostra il salto di qualità di questa mafia romana. Non accade per caso, ma alla vigilia di una importante sentenza - e dopo la nostra inchiesta che tanti fastidi ha provocato al “cecato”. Ora abbiamo la conferma che siamo davanti a una persona in grado di parlare a pezzi del Paese che ancora non conosciamo. E lo fa attraverso annunci che consegnano messaggi precisi a chi sa. Questo è il metodo, ed è mafioso.

Contro i boss in ordine sparso. Gli ultimi fatti di cronaca hanno spezzato il fronte dell'Antimafia. Ecco cosa è accaduto, scrive Lirio Abbate il 20 gennaio 2016 su "L'Espresso". L’antimafia nell’ultimo anno si è disgregata facendo emergere azioni di facciata operate da esponenti della politica, dell’imprenditoria, della magistratura e della società civile. Alla vigilia di Natale il presidente del Senato, Pietro Grasso, ha fatto appello «al mondo dell’antimafia» sottolineando che «si vedono crepe troppo profonde» e per questo ha voluto lanciare «un grido di dolore» per «una profonda riflessione al proprio interno» per evitare «di prestare il fianco a chi cerca di cavalcare i singoli scandali per delegittimare una lunga storia di riscatto sociale e morale che va invece difesa con orgoglio».

Il presidente degli industriali siciliani Antonello Montante, delegato nazionale di Confindustria per la legalità, è stato indagato per fatti di mafia. I pm, in base alle dichiarazioni di pentiti, lo accusano di aver intrattenuto relazioni con esponenti di Cosa nostra negli anni precedenti alla sua azione di legalità intrapresa con Confindustria Sicilia. Montante si è dichiarato estraneo ai fatti contestati: «Mai avrei pensato di dovermi trovare un giorno in una situazione simile dopo anni trascorsi in trincea, insieme a tanti altri imprenditori, sempre al fianco delle istituzioni». La notizia deflagra nell’antimafia e come le tessere del domino fa cadere altri “paladini” della legalità.

Il giudice Silvana Saguto, presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, viene indagata per corruzione nella gestione dei beni sequestrati. Suscita clamore a Napoli il coinvolgimento nell’inchiesta sui casalesi dell’ex senatore Ds Lorenzo Diana, ex componente della Commissione antimafia: avrebbe fatto ottenere appalti in cambio di favori personali.

Pochi giorni fa il pm di Napoli Maresca ha accusato Libera e don Ciotti. In precedenza c’era stato dentro Libera un polemico addio di Franco La Torre, il figlio del parlamentare ucciso a Palermo, liquidato da don Ciotti via sms dopo le critiche mosse durante un incontro pubblico. Maresca accusa Libera di albergare «persone senza scrupoli» e di aver acquisito «interessi di natura economica». Ciotti ha risposto con la querela: «Quando viene distrutta la dignità di migliaia di giovani è dovere ripristinare verità e chiarezza».

Lettera di Carla Raineri al "Fatto Quotidiano" (pag. 10) 17 febbraio 2017. Rilevo che il Dott. Cantone riferisce nell'articolo del Fatto Quotidiano di mercoledì di essersi recato in Campidoglio su richiesta della Raggi il 24 agosto; anzi di essersi graziosamente "offerto" di andare in Campidoglio con due suoi collaboratori "come avevo fatto in passato con Marino e Tronca". Non so cosa il dott. Cantone abbia fatto ai tempi della consiliatura di Marino, ma mai nel periodo in cui io sono stata al fianco del Prefetto Tronca ho avuto il piacere di vedere il dott. Cantone in Campidoglio. E stupisce davvero una così zelante disponibilità: tre esponenti di Anac, fra cui il vertice in persona, che si precipitano dalla Raggi in un giorno di fine agosto! Tuttavia il Dott. Cantone non ricorda che nelle interviste rese al Sole 24 Ore ed al Corriere in data 7 settembre 2016 riferì di essersi recato in Campidoglio nel primo pomeriggio del 29 agosto e non il 24 agosto come afferma, invece, nella intervista al Fatto dello scorso mercoledì (e le date non sono irrilevanti!), mentre apprendo con sconcerto che a quella riunione, oltre a Frongia, era presente Marra. Ma, evidentemente, il Dott. Cantone non si è preoccupato né in quell`occasione, né successivamente, di acquisire la mia versione, nonostante la decisione riguardasse la mia nomina. Sulla erroneità delle valutazioni effettuate dall'ANAC ha già fatto giustizia il provvedimento della Corte dei Conti; ma il punto principale è che Cantone si è arrogato una competenza che non gli spettava né per legge, né per regolamento, sulla nomina del Capo di Gabinetto ed ha reso il parere con sorprendente rapidità, senza effettuare alcuna istruttoria, disattendendo tutti i precedenti specifici in materia e facendolo consegnare "invia riservata" con un pony express. Sul parere richiesto dalla sindaco su Salvatore Romeo, giova evidenziare che il quesito è stato inoltrato dal Campidoglio all'Anac il 26 agosto; il parere dell'Anac è stato reso il 7 settembre (il mio in 24 h) e la Raggi lo ha poi protocollato 22 giorni dopo, cioè il 29 settembre (mentre quello che mi riguardava lo ha postato su facebook la notte del 31 agosto). Singolare, poi, è il fatto che si concluda con un dispositivo così vago e possibilista che ha consentito di lasciare Salvatore Romeo esattamente al suo posto, seppure con una lieve riduzione del suo stipendio, peraltro neppure sollecitata dall'Anac. Peccato che Cantone non abbia ravvisato nella delibera di nomina di Salvatore Romeo posta alla sua attenzione - come invece io ed altri ravvisammo all`epoca, tanto che non vi apposi il visto - una evidente ipotesi di abuso d`ufficio. Ipotesi ora contestata dalla Procura. Non posso, infine, che compiacermi del sollecito intervento di Anac sul conflitto di interessi rilevato nella nomina di Renato Marra ed auspico che il Presidente Cantone possa riflettere anche sui possibili conflitti di interesse in riferimento agli incarichi di suo fratello, l'avv. Bruno Cantone, che, come è emerso dalle recenti indagini condotte dalla procura di Napoli sul caso Consip di cui ha riferito la stampa, assiste aziende ed imprese partecipanti a gare di appalti pubblici (fra cui la Romeo Gestioni di Alfredo  Romeo) soggette, in quanto tali, alla vigilanza di Anac.

MERIDIONALI: MAFIOSI PER SEMPRE.

Mafia, quei padrini nella nebbia della Padania. Per anni ho raccontato come giornalista l’invasione delle cosche al nord. Ora la giustizia conferma una verità che nessuno voleva vedere, scrive Giovanni Tizian il 6 marzo 2017 su "L'Espresso". La nebbia della pianura padana è un mantello naturale sotto il quale nascondere intrallazzi e imbrogli. Alibi perfetto per chi vuole fingersi cieco. «Ciechi che pur vedendo non vedono», rifletteva così il protagonista di “Cecità”, capolavoro del premio Nobel José Saramago. Benché il romanzo si riferisse all’indifferenza di cui è intrisa la nostra società, il concetto si adatta benissimo ai tanti seguaci della filosofia del “non vedo, non sento, non parlo”. Le tre scimmiette dell’omertà mafiosa hanno risalito la penisola. Hanno seguito la linea della palma. Come aveva profetizzato Leonardo Sciascia quando paragonava l’avanzata culturale e finanziaria della mafia verso i ricchi territori del Nord al fenomeno climatico propizio alla coltivazione della palma che, secondo gli scienziati, saliva verso nord di 500 metri ogni anno. Una voce rimasta inascoltata, quella dello scrittore siciliano, da alcuni giudicata fin troppo allarmistica. Lo stesso giudizio guardingo e superficiale riservato ai cronisti che hanno raccontato i focolai mafiosi sparsi lungo la penisola. Chi scrive e parla di mafie conosce bene questi silenzi istituzionali. Ostacoli insidiosi. Generano confusione, disorientano i cittadini e isolano i giornalisti, colpiti sempre più spesso da querele temerarie, che sanno di messaggio minatorio. Fin dai primi articoli che ho scritto sulla Gazzetta di Modena ho provato, insieme ai colleghi, a sbriciolare quel muro di reticenza e inconsapevolezza che circondava la provincia. Dapprima nessuna reazione. Solo la curiosità di qualche cittadino e l’attenzione delle associazioni antimafia. Poi arrivò l’ironia di alcuni politici, in difesa del “buon nome” della regione. Il tribunale di Bologna ha riconosciuto il metodo mafioso applicato da un'organizzazione che dal Ravennate operava in tutta l'Emilia Romagna. E per questo motivo i giudici hanno condannato gli imputati per associazione mafiosa. Una sentenza con pochissimi precedenti nella Pianura Padana, soprattutto per il fatto che questo gruppo finito alla sbarra non è collegato direttamente alla 'ndrangheta calabrese, ma come tale si comporta. Questo è il metodo mafioso che il pm Francesco Caleca ha sostenuto nel suo impianto accusatorio, riconosciuto in sentenza. E non ha importanza se questo processo sia stato chiamato "Black Monkey" e non compaia la parola mafia nella sua denominazione. Ciò che prevale è che per il tribunale questa è associazione mafiosa. E come tale si è comportata anche quando uno degli imputati ha minacciato di morte il nostro collega Giovanni Tizian che sulle pagine della Gazzetta di Modena aveva denunciato questi affari mafiosi intrecciati con il business delle slot machine. Oggi insieme alla giustizia ha vinto anche la buona informazione. Ha vinto il coraggio di Giovanni. Il mio giornale di allora, e così oggi L’Espresso, mi hanno sempre sostenuto. E siamo andati avanti. Fino a quando due di quelle inchieste mi sono costate un pezzo di libertà: inquietanti minacce di morte e l’assegnazione di una scorta. Sono trascorsi quasi sei anni dall’intercettazione di quella telefonata, «gli spariamo in bocca», che ha cambiato all’improvviso la mia vita e quella della mia famiglia. Gli articoli che avevano disturbato il boss legato alla ’ndrangheta sono finiti agli atti del processo Black Monkey. Tre anni di dibattimento in tribunale a Bologna per stabilire se l’organizzazione al cui vertice stava Nicola “Rocco” Femia fosse associazione mafiosa. Tra le tante parti civili, insieme all’Ordine dei giornalisti, c’ero anch’io. Il 22 febbraio scorso la corte ha pronunciato il verdetto di primo grado: il gruppo Femia è mafia e dovrà risarcire il giornalista, sia me sia l’Ordine. I giudici hanno certificato, dunque, l’esistenza in Emilia Romagna di una cosca autonoma e moderna. E non meno importante, hanno riconosciuto nell’informazione un valore democratico da tutelare dalle ingerenze del potere criminale. A queste latitudini, dove ormai la palma cresce rigogliosa, i padrini sono al vertice di organizzazioni poco militari e molto imprenditoriali. Corrompono e solo se strettamente necessario sparano. Spesso sono nuclei autonomi nelle decisioni e nelle strategie. Condizionano la politica, l’economia, la pubblica amministrazione, il mondo delle professioni, le forze dell’ordine e anche pezzi di informazione. Per anni chi ha provato a denunciare la complessità di tale groviglio di interessi è stato etichettato come un folle speculatore e, perché no, pure incosciente. Intanto alcuni prefetti negavano, qualche sindaco riveriva i capi ’ndrina e inveiva contro la stampa. Assessori, consiglieri e candidati vari replicavano immagini note al Sud: in fila dai boss per elemosinare qualche voto. Fino ad arrivare ai consigli comunali sciolti per mafia. Più noi cronisti individuavamo le ferite sul corpo malandato della pianura padana, più le risposte oscillavano tra l’indifferenza, lo scherno, la negazione e le querele. Poi sono arrivate le intimidazioni. E qui qualcuno ha suggerito che sarebbe stato forse necessario chiedere aiuto a un medico specialista per farsi prescrivere una cura antibiotica. La speranza è che gli antibiotici facciano effetto al più presto. Prima che sia troppo tardi. Per chiudere con la stagione dello stupore e inaugurare il tempo della consapevolezza. Tra la nebbia cercano riparo ancora troppi complici insospettabili. Stanare i mafiosi e i loro manutengoli non può essere compito esclusivo dei magistrati o delle forze dell’ordine. Né di qualche visionario giornalista.

"La mia vita a metà per aver denunciato la 'ndrangheta al Nord". "Nel 2011 un boss intercettato al telefono disse che voleva spararmi in bocca perché avevo scritto nei miei articoli dei suoi affari. Ora il tribunale di Bologna gli ha dato 26 anni in primo grado. E ha riconosciuto che nelle regioni settentrionali la mafia è ormai radicata". Parla il nostro cronista, scrive Giovanni Tizian il 23 febbraio 2017. Oltre la linea Gotica c'è una mafia silente. Per niente rumorosa, accorta a non apparire, abile nel penetrare nei tessuti sani della società. E se invece questi tessuti non fossero così sani? Il sospetto è che nei territori del Nord ci sia una forte richiesta di mafia, dei suoi metodi e strumenti. La chiamano voglia di clan. Imprenditori, professionisti, politici, servitori dello Stato, che nati e cresciuti nelle regioni ricche hanno scelto di stare dalla parte del crimine. Indizi e sentenze recenti, degli ultimi anni, hanno trasformato il dubbio in certezza. Spesso anche nel minacciare l'accento è misto: nel mio caso quando boss e faccendiere, progettavano di eliminarmi, il piemontese si mescolava all'accento calabrese. La telefonata intercettata risale al 2011. E non smetterò mai di ringraziare quegli uomini e quelle donne della guardia di finanza che hanno ascoltato e segnalato d'urgenza il fatto alla procura antimafia di Bologna. Da lì il procuratore dell'epoca Roberto Alfonso, insieme al pm Francesco Caleca che seguiva l'inchiesta sul gruppo Femia, chiese alla prefettura di Modena di mettermi sotto scorta. Così iniziò una vita diversamente libera. Un'esistenza vissuta nell'equilibrio tra fragilità, insicurezze, paure, ma anche tra l'amore di chi in questi quasi sei anni mi è stato vicino, sopportando un vita di certo non facile. Poi, ieri, a distanza di così tanto tempo, il tribunale di Bologna ha riconosciuto l’esistenza di un clan mafioso che in Emilia aveva messo radici. L'esistenza di quella cosca che voleva bloccare l'informazione locale immaginando persino di usare il piombo per raggiungere l'obiettivo. Il tribunale di Bologna ha riconosciuto il metodo mafioso applicato da un'organizzazione che dal Ravennate operava in tutta l'Emilia Romagna. E per questo motivo i giudici hanno condannato gli imputati per associazione mafiosa. Una sentenza con pochissimi precedenti nella Pianura Padana, soprattutto per il fatto che questo gruppo finito alla sbarra non è collegato direttamente alla 'ndrangheta calabrese, ma come tale si comporta. Questo è il metodo mafioso che il pm Francesco Caleca ha sostenuto nel suo impianto accusatorio, riconosciuto in sentenza. E non ha importanza se questo processo sia stato chiamato "Black Monkey" e non compaia la parola mafia nella sua denominazione. Ciò che prevale è che per il tribunale questa è associazione mafiosa. E come tale si è comportata anche quando uno degli imputati ha minacciato di morte il nostro collega Giovanni Tizian che sulle pagine della Gazzetta di Modena aveva denunciato questi affari mafiosi intrecciati con il business delle slot machine. Oggi insieme alla giustizia ha vinto anche la buona informazione. Ha vinto il coraggio di Giovanni. Il capo Nicola Femia e i suoi figli, Nicolas e Guendalina, sono stati condannati a pene pesanti: Nicola detto "Rocco" a 26 anni, Nicolas a 15 e la figlia a 10. E per la prima volta viene riconosciuta l’intimidazione all’informazione. Per questo i giudici hanno stabilito che il clan Femia dovrà risarcire il giornalista che firma questo articolo e l’Ordine dei giornalisti. Risarcimento per le minacce ricevute. «O la smette o gli sparo in bocca», diceva il faccendiere Guido Torello (condannato a 9 anni) al boss Femia che si lamentava dei ripetuti articoli che avevo pubblicato sulla Gazzetta di Modena. Risarcimento per aver minacciato la libertà di stampa, non solo la mia vita. Anche per questo il verdetto di primo grado del processo "Black Monkey" è un punto di rottura nella storia dell’antimafia del Paese. Che serve a tutta la categoria. E spero possa far sentire meno soli quei colleghi che senza scorta e in trincea scrivono dei poteri criminali nelle province d'Italia. Lo spero, nonostante il dibattimento che si è concluso ieri a Bologna si sia svolto nel silenzio. Sebbene la mafia come tema di dibattito pubblico non abbia più l’appeal di un tempo. Alla fine questa sentenza rappresenta uno spartiacque. Perché da ora in avanti le organizzazioni mafiose che pensavano di farla franca nei territori del Centro-Nord dovranno rassegnarsi a essere giudicate con la stessa severità che gli viene riservata dai tribunali del Sud, allenati da decenni di violenza e lotta antimafia. In questi anni vissuti sotto protezione ho maturato una convinzione: il mestiere di informare è un servizio. Un servizio per i lettori, che sono cittadini. A loro proviamo a dare gli strumenti per leggere ciò che accade nella comunità in cui vivono. Un’informazione corretta, insomma, che sia un argine al veleno delle forze criminali. Sono trascorsi cinque anni e mezzo dal 22 dicembre 2011, da quando, cioè, la Questura di Modena mi comunicò che da quel giorno avrei vissuto sotto scorta. Non avevo la minima idea di cosa significasse. Non sapevo esattamente quali cambiamenti avrebbe portato nella mia vita. Avevo 29 anni. Le lacrime della mia compagna, il divieto di informare persino i parenti stretti, i primi due agenti che mi aspettavano sotto casa: mi istruirono in fretta su ciò che potevo fare e soprattutto su cosa non avrei più potuto fare da quel momento in poi. Ero come un bambino che imparava a muovere i primi passi in una nuova vita. Una vita a metà. I momenti di intimità familiare sarebbero diventati una rarità di cui godere appieno. Non posso però neanche scordare le voci di chi bollava il tutto come una strumentalizzazione per procurarmi notorietà e attenzione. Non ho mai risposto. Non mi ha mai appassionato la ferocia del dibattito social. Preferisco scrivere, raccontare, indagare. Guardare negli occhi, scrutare ciò che a prima vista non si vede, entrare nelle storie. Prendermi il tempo per interpretare la verità. Che cammina sempre piano. C’è voluto tempo anche per la sentenza del processo Black Monkey, ma è un verdetto storico. Merito di una procura guidata all’epoca da Roberto Alfonso (oggi procuratore generale di Milano) e di un pm, Francesco Caleca, che ha descritto alla perfezione la mafia moderna senza alcun protagonismo. Ma un ringraziamento speciale va a chi ogni settimana, sacrificando il proprio tempo, ha riempito l’aula 11 del tribunale: studenti, tantissimi; ai loro docenti; agli amici; alle associazioni che si sono costituite parte civile, da Libera a Sos Impresa; per finire agli enti locali che hanno ottenuto il risarcimento per i danni di un clan che ha ucciso un pezzo di economia. Perché questo fanno le mafie 2.0, ammazzano imprese sane e uccidono la buona economia.

Toscani shock: «Niente selfie, sei calabrese...», scrive Simona Musco il 21 ottobre 2016, su "Il Dubbio". Antonio Marziale, Garante per l'infanzia e l'adolescenza: «Nel 2007 non ha avuto remore a prendersi i soldi per la campagna pubblicitaria della regione». «Non vedo il motivo per cui dovremmo farci una foto. Per quanto ne so, potresti essere un mafioso». Sono queste le parole con le quali Oliviero Toscani ha negato una fotografia a Vittorio Sibiriu. Lui ha solo 18 anni e una faccia pulita. Un'intelligenza vivida e la passione per l'arte. Quella che lo ha spinto, giovedì, al Valentianum di Vibo Valentia, per assistere alla lectio magistralis del fotografo e alla sua mostra "Razza Umana". Una mostra, ha spiegato lo stesso Toscani, che rappresenta uno studio antropologico sulla morfologia degli esseri umani, «per vedere come siamo fatti, che faccia abbiamo, per capire le differenze». Parole che associate alla storia di Vittorio riportano alla mente il concetto di "razza maledetta" dal sapore lombrosiano. Toscani era «un mito», fino a due giorni fa, quando ha rifiutato l'invito del ragazzo. «Anche Matteo Messina Denaro non ha la faccia da mafioso eppure lo è», avrebbe spiegato, come se quelle parole fossero del tutto normali. A raccontarlo è lo stesso giovane, studente della quinta classe del liceo scientifico di Vibo. «Ho seguito la conferenza stampa e ho aspettato il mio turno per fare una foto - ci racconta -. C'era una degustazione di vini e altra gente che si avvicinava a lui per qualche scatto. Ho aspettato un po' per non disturbarlo, poi gli ho chiesto di poter fare una foto. Al suo no stavo andando via, quando mi ha fermato per spiegarmi, come se fosse del tutto normale, che potrei essere uno 'ndranghetista». Vittorio, figlio di una poliziotta e di un carabiniere, non è riuscito ad avere alcuna reazione. È andato via, portando con sé l'amica rimasta con il cellulare in mano, pronta ad immortalare quel momento. «Lo consideravo uno dei più grandi non solo come artista, ma anche come persona. Beh, ora so che di certo come persona non lo è», aggiunge. Nessuno ha reagito alle parole di Toscani. Nessuno è intervenuto in difesa di Vittorio, che solo il giorno dopo è riuscito a metabolizzare la rabbia e l'indignazione, scrivendo un messaggio indirizzato al famoso fotografo, colui che già nel 2007, ingaggiato dalla Regione Calabria per una campagna promozionale, aveva partorito, alla modica cifra di 3,8 milioni la frase - tra le altre - "Mafiosi? Sì, siamo calabresi". «Vorrei ricordare al signor Toscani che la principale qualità di un artista dovrebbe essere l'umiltà, cosa che a quanto pare non rientra tra i termini del suo vocabolario. E vorrei dire che l'unica cosa che il suo atteggiamento provoca in me è lo sdegno - scrive Vittorio -. Mi dispiace molto di averla conosciuta e di aver perso due ore della mia vita ad ascoltare le sue parole definite "anticonformiste" e usate "per lanciare messaggi contro i pregiudizi", ai miei occhi adesso appaiono solamente come poco coerenti». Commenti al vetriolo sono arrivati da Antonio Marziale, Garante per l'infanzia e l'adolescenza della Regione Calabria. «Se le cose stanno così - ha dichiarato -, Toscani farebbe bene a spiegarci se ha avuto le stesse remore a prendersi i soldi per la campagna pubblicitaria del 2007. Come si fa a fare una battuta del genere ad un ragazzo? La sua è la generazione che più patisce il fatto di aver consentito alla 'ndrangheta di proliferare in questo territorio. Lui senza provocazione sarebbe un fotografo qualunque, la sua arte è opinabile, le sue provocazioni non portano nulla. Anche perché la provocazione deve essere saggia e commisurata al soggetto che la riceve. Questa storia, purtroppo, conferma il masochismo dei calabresi - conclude -. Continuiamo ad acclamare gente che ci insulta, come Vasco Rossi o Antonello Venditti. Dico una cosa a Vittorio: non sentirti offeso, Toscani è il vuoto».

Magalli: “Mai insultato i calabresi”, la replica del conduttore sulla polemica con un video del 18/11/2016 su "La Stampa”. «Mi piacerebbe mettere la parola fine a questa polemica inutile che si sta trascinando sulla Calabria indignata. A me dispiace moltissimo che i calabresi si siano dispiaciuti per qualcosa che in realtà io non ho detto. Lo voglio chiarire: i calabresi sono ottime persone, ho passato anni di vacanze in Calabria, ho amici calabresi e conosco i loro innumerevoli pregi e conosco anche il loro principale difetto che è quello di essere permalosi». Così Giancarlo Magalli si difende dopo le accuse piovutegli addosso per la frase pronunciata il 15 novembre scorso durante I fatti vostri su Rai2, dopo la mancata risposta al telefono del telespettatore estratto, di Casignana, in provincia di Reggio Calabria. «Siete permalosi a torto perché avete giudicato qualcosa senza vederla o sentirla - prosegue -. Tutti quelli che si sono indignati e sono tanti, si sono indignati non per quello che hanno visto, ma per quello che hanno letto. Quando uno legge robaccia tipo l’Huffington Post: Magalli virgolette «I calabresi scippano le vecchiette», hanno ragione ad indignarsi. Solo che io non ho mai detto nulla del genere. Un giornale ha scritto: Magalli offende i meridionali. Io non ho mai parlato dei meridionali. Faccio questo lavoro da trent’anni, se avessi qualcosa contro i meridionali sarebbe già venuto fuori, no?» «Il problema - spiega ancora - è la cosa originaria che non era riferita a Casignana, a niente, era solo una frase detta a cavolo, dicendo: vi lamentate che non vi telefoniamo per il gioco e poi non ci siete quando vi telefoniamo, ma dove andate? A scippare le vecchiette? Una battuta, certamente cretina, ma non riferita né a Casignana, né alla Calabria, né al Meridione. Solo che chi l’ha sentita l’ha capita, tanti non l’hanno sentita e commentano il commento di un altro. Vorrei che questa cosa finisse, anche perché sta raggiungendo toni inconsulti. Speriamo che si raggiunga questa tranquillità perché ci sono cose più serie a cui pensare».

L'antimeridionalismo qualunquista di Vecchioni & company, scrive "Infoaut Palermo" il 6 Dicembre 2015. Siamo chiaramente di parte; è normale: lo siamo sempre stati. E anche meridionali - beh - come è ovvio, lo siamo sempre stati: ci siamo nati al Sud. Ci siamo cresciuti in quest'isola chiamata Sicilia; ci stiamo vivendo; ci stiamo lottando. E onestamente nella merda, a volte, anche tutt'ora, un po' ci siamo sentiti. Nella merda non perché, oggettivamente parlando, la Sicilia sia un'isola di merda; e neanche perché ogni giorno ci troviamo a dover guardare orde barbare di “senzacasco” sfrecciare per le nostre strade; o manipoli di “posteggiatori della sedicesima fila” aggravare lo storico problema del traffico palermitano. Un po' nella merda ci troviamo a sguazzare letteralmente per altri motivi. Ma su questo ritorneremo fra un attimo. “Chi sa fa, chi non sa insegna” - ecco un vecchio detto (a dire il vero forse un po' ingeneroso verso le professioni dell'insegnamento) a cui la mente ci riporta leggendo le ultime dichiarazioni del professor Roberto Vecchioni. Professore intellettuale (o almeno così considerato da molti) che, invitato qualche giorno fa all'università di Palermo a parlare di rapporti figli-genitori, ha brillantemente deciso di lasciarsi andare ad alcuni spiacevoli commenti sulla terra in cui si trovava in visita: la Sicilia. Ecco, il professore intellettuale pare abbia sentito il dovere morale di “provocare” sostenendo la tesi secondo cui la Sicilia “è un'isola di merda” andando poi a chiarire meglio il senso della provocazione: “una forzatura per smuovere le coscienze di siciliani che si accontentano di vivere tra assenza di caschi, macchine mal posteggiate, abusivismo edilizio etc.” Insomma, la Sicilia è secondo il professore “una merda” perché “incivile”. Pare anche che Vecchioni si sia lasciato andare ad un paragone non proprio di buon gusto tra una Palermo che “col cazzo che avrebbe potuto...” ed una Milano che invece ha ospitato l'Expo e i suoi 25 milioni di visitatori: e i soldi, secondo il professore, non c'entrerebbero proprio nulla. Questione di inciviltà!!! La polemica è così scatenata, il dibattito aperto. La rabbia si diffonde, ovviamente, tra la maggioranza dei siciliani; ma non fra tutti. Un altro professore, per esempio, seguito da una folta schiera di istruiti pensatori (spesso “di sinistra”), Leoluca Orlando sindaco di Palermo, si schiera a difesa dell'intellettuale milanese arrivando a sostenere che le parole di Vecchioni sarebbero “un atto di amore verso la Sicilia” perché coraggiose e realistiche. Altri, nello stesso fronte, si limitano ad apprezzare la denuncia della questione sollevata in quel discusso intervento: l'inciviltà! Ecco un primo grosso (grossissimo) problema di cui, forse, i meridionali dovrebbero assolutamente liberarsi: l'accusa di inciviltà. Che poi è quella (anche se cambiano i toni) che ci sentiamo e portiamo dietro dai tempi dell'unità italiana. Cerchiamo di valutare allora, usufruendo dello stesso vocabolario di una certa retorica dominante, cosa sia civile e cosa no. Se a Vecchioni le macchine in doppia fila e i motociclisti senza casco appaiono come grande segno d’inciviltà, un tantino più incivili ci sembrano la devastazione ambientale e umana nei nostri territori tramite petrolchimici o basi militari; d'inciviltà ci parlano le statistiche su disoccupazione giovanile e conseguente emigrazione a cui sono costretti i siciliani, o quello che è uno dei tassi percentuale di morti sul lavoro più alti d’Europa; oppure che i cittadini di Messina, Gela, Agrigento, etc, rimangano senza acqua corrente per settimane. Ospedali che chiudono, cavalcavia autostradali che crollano, collegamenti marittimi con le isole minori interrotti per settimane, decine di migliaia di precari della pubblica amministrazione continuamente a rischio reddito, insomma, “d’inciviltà” su cui il nostro intellettuale dell’ultim’ora poteva concentrarsi ce n’è parecchia in Sicilia; e ricondurre un sistema di estremo sfruttamento delle risorse umane e territoriali (che ci racconta in due parole quella che è la storia dell’imposizione italiana al meridione), a una semplice “questione culturale”, non fa di certo onore alla sua nomea d’intellettuale(?). Quello che invece in maniera tutt’altro che provocatoria, vogliamo e ci sentiamo di rintracciare anche nella citata inciviltà vecchioniana, è un atteggiamento contro le regole e le regolamentazioni che inconsciamente però, esprime un grado di rifiuto: ieri alla costrizione a un determinato sistema economico e a certi modelli di vita e di condotta sociale, oggi all’assenza totale di servizi, tutele, garanzie sociali, e di una precarietà che si fa esistenziale, e di cui la nostra regione detiene sicuramente il primato in Italia. Quindi ci chiediamo ancora: come si misura il grado di civiltà di un popolo? Dal numero di caschi? O dal numero di gente che, pur e soprattutto nei suoi tessuti più indigenti, conosce cooperazione e solidarietà molto più che in tanti luoghi civili!? Dalle auto in doppia fila o dal numero di persone che, senza casa, muoiono per le strade notturne di grandi città del nord!? Cosa c'è poi di civile nell'avere come presidente della Regione un razzista come Maroni!? O cosa ci sarà mai di civile in quel grande partito del nord come la Lega, che fa di razzismo e xenofobia i suoi manifesti politici!? A Vecchioni la parola (per la verità non ci interessa molto la sua risposta…). A questo punto non possono che tornarci alla mente le recenti polemiche televisive su altri due interventi molto discussi: quello di Massimo Giletti sull' “indecenza” di Napoli; e sempre a proposito di Napoli, il recentissimo dibattito scaturito dall'appellativo scelto da Enrico Mentana (direttore del TgLa7) per richiamare in una trasmissione calcistica un collega giornalista napoletano: “Pulcinella”. A occhi attenti, l'antimeridionalismo paternalistico ha ormai pieno titolo su media e main stream, soprattutto se sei considerato un intellettuale. Da quando poi Renzi quest’estate ha nuovamente riportato in auge la “questione meridionale” (con la solita narrazione del sottosviluppo per silenziare l’incapacità governativa di porre rimedio alle problematiche sociali ed economiche dell’Isola), sembra che chiunque (evidentemente confondendo “lo spettacolo” e l’opinionismo da tv con le analisi e le valutazioni storiche e politiche) possa permettersi di dire qualsiasi cretinata, basta che poi le facciano seguire un qualsiasi complimento sulla storia e le grandi tradizioni di un popolo per pulirsi la faccia. Come del resto Vecchioni ha già fatto con una lettera al Corriere della Sera, in cui il professore però - oltre al pulirsi la faccia - si lascia nuovamente andare in stereotipi stigmatizzanti e assai pregiudizievoli sulla “pigrizia dei meridionali” e anche che quanti non lo hanno capito sono “pusillanimi e mafiosi”. Finalmente! Ci chiedevamo come la parola mafiosi non fosse stata pronunziata dal professore nel grande logos intellettuale dei luoghi comuni. Le decine e decine di studenti e non solo che hanno abbandonato l'aula durante il suo intervento... saranno mafiosi?! Cretinate e cretini a parte, quello a cui assistiamo è il diffondersi di nuove (perchè mai abbandonate e tralasciate nelle retoriche del sottosviluppo, o della mancata modernità del sud, etc) forme di razzismo antimeridionale. Razzismo antimeridionale che tanto fa comodo alle governance, locali e nazionali, perché utili a distrarre l’opinione pubblica da quello che è il vero trattamento riservato al sud: un neocolonialismo petrolifero e di estrazione e sfruttamento di risorse e materie prime da far invidia a quello dell’epoca dell’unità d’Italia, a fronte di una continua scarsità di accesso a reddito, servizi e diritti sempre più negatici e sottrattici con commissariamenti e istituzionalizzazione dello stato d’emergenza. Come dire, i siciliani sapranno pure quali sono i problemi della loro quotidianità e della loro terra, in alternativa…possono chiedere a Vecchioni. Sicuramente molti siciliani si sentono offesi dalle parole del caro professore, ma non scriviamo queste righe per unirci al coro dell'indignazione: speriamo soltanto di proporre l'individuazione di vecchie/nuove forme di razzismo che finiscono per diventare anche forme di controllo delle condotte, libertà di manovra capitalistica sui territori, commissariamenti politici e repressione di classe. Perché i problemi veri non sono i “senzacasco” ma i senzacasa; e non il modo di parcheggiare ma l'assenza di servizi sociali e come detto, di accesso al reddito. E persino dell'acqua corrente!!!! e questo, a nostro modo di vedere, è la vera inciviltà. A cui i siciliani dovrebbero ribellarsi senza bisogno di professori che diano lezioni di dignità: non ne abbiamo bisogno. Infoaut Palermo

Sei parente di un mafioso? Sei un mafioso pure tu... Così chiudono le aziende, scrive il 27 ottobre 2016 “Il Dubbio”. L'intervento di Carlo Giovanardi, componente della Commissione Giustizia del Senato. Il codice antimafia stabilisce che tentativi di infiltrazione mafiosa, che danno luogo all'adozione dell'informazione antimafia interdittiva, possono essere concretamente desunti da:

a) Provvedimenti giudiziari che dispongono misure cautelari, rinvii a giudizio, condanne, ecc.;

b) Proposta o provvedimento di applicazione delle misure di prevenzione ai sensi della legge 575 del 1967;

c) Degli accertamenti disposti dal Prefetto.

Con alcune piccole recenti modifiche che cambiano soltanto marginalmente la normativa. Il punto c) come si vede dà ampi poteri discrezionali ai prefetti che in tutti i provvedimenti assunti sul territorio nazionale motivano sempre l'interdittiva con queste premesse: «Atteso che, come più volte riportato dalla dottrina e dalla giurisprudenza, il concetto di "tentativo di infiltrazione mafiosa", in quanto di matrice sociologica e non giuridica, si presenta estremamente sfumato e differenziato rispetto all'accertamento operato dal giudice penale, "signore del fatto" e che la norma non richiede che ci si trovi al cospetto di una impresa "criminale", né si richiede la prova dell'intervenuta "occupazione" mafiosa, né si presuppone l'accertamento di responsabilità penali in capo ai titolari dell'impresa sospettata, essendo sufficiente che dalle informazioni acquisite tramite gli organi di polizia si desuma un quadro indiziario che, complessivamente inteso, ma comunque plausibile, sia sintomatico del pericolo di un qualsivoglia collegamento tra l'impresa e la criminalità organizzata. Considerato che, per costante giurisprudenza, la cautela antimafia non mira all'accertamento di responsabilità, ma si colloca come la forma di massima anticipazione dell'azione di prevenzione, inerente alla funzione di polizia di sicurezza, rispetto a cui assumono rilievo, per legge, fatti e vicende anche solo sintomatici e indiziari, al di là dell'individuazione di responsabilità penali (T. A. R. Campania, Napoli, I, 12 giugno 2002 nr. 3403; Consiglio di Stato, VI, 11 settembre 2001, nr. 4724), e che, di conseguenza, le informative in materia di lotta antimafia possono essere fondate su fatti e vicende aventi un valore sintomatico e indiziario, poiché mirano alla prevenzione di infiltrazioni mafiose e criminali nel tessuto economico-imprenditoriale, anche a prescindere dal concreto accertamento in sede penale di reati». Vediamo ora di capire come la preoccupazione del legislatore di difendere le aziende dalle infiltrazioni mafiose sia stata completamente stravolta dalle interpretazioni giurisprudenziali e dalla prassi delle prefetture, andando ben al di là del rispetto formale e sostanziale dei principi costituzionali e anche del buon senso, con un meccanismo infernale che massacra le aziende, le fa fallire e distrugge migliaia di posti di lavoro. Bisogna tener conto infatti che all'impresa colpita da interdittiva antimafia vengono immediatamente risolti i contratti in essere, bloccati i pagamenti, impedito di acquisire nuovi lavori, ecc. a tempo indeterminato, fino a che cioè, non venga meno un plausibile, sintomatico pericolo di un qualsivoglia collegamento tra l'impresa e la criminalità organizzata. E da cosa si può dedurre questo pericolo che le forze di polizia comunicano al Prefetto? Incredibilmente anche da semplici rapporti di amicizia o di parentela o di affinità con i titolari o i dipendenti della impresa ma anche con persone che con le imprese non c'entrano assolutamente nulla. Due recenti casi modenesi spiegano la follia di questa procedure. Un'impresa locale con titolare originario di Napoli, felicemente sposato con una palermitana conosciuta mentre era militare in Sicilia nell'ambito dell'operazione Vespri Siciliani, dalla quale ha avuto tre figli, assunse a suo tempo, con l'autorizzazione del giudice tutelare e l'approvazione dei servizi sociali, cognato e suocero usciti dal carcere a Palermo dopo aver scontato una condanna per attività mafiosa. Sulla base di questa circostanza all'impresa è stata negata l'iscrizione alla white list ed è scattata l'interdittiva antimafia. L'imprenditore ha immediatamente licenziato cognato e suocero ma per la Prefettura questo non era sufficiente e l'ha invitato a rivolgersi al Tar dell'Emilia-Romagna che a sorpresa ha confermato l'interdittiva con la stupefacente motivazione che malgrado il licenziamento permaneva il rapporto di parentela (semmai affinità, sic. ndr). Soltanto recentemente, dopo questa surreale decisione, il Consiglio di Stato ha finalmente riconosciuto le buone ragioni dell'imprenditore escludendo che il semplice rapporto di affinità possa essere sufficiente per mantenere una interdittiva. Nel frattempo sempre a Modena un altro imprenditore di origine campana si è visto applicare l'interdittiva, in base a precedenti penali del fratello, con il quale non ha rapporti di nessun tipo da tantissimi anni, con inevitabile fallimento e rovina per moglie e figli, decisione confermata dal Tar dell'Emilia-Romagna perché "non si esclude", pur non essendoci attualità di una situazione di pericolo, che il passato oscuro del fratello, comparso in una lista di componenti di un clan di casalesi, arrestati per ordine della Procura, possa nascondere futuri tentativi di infiltrazione. Bisogna aggiungere, per chiarezza espositiva, che diversamente dai procedimenti penali dove c'è possibilità di difesa e contraddittorio, l'imprenditore a cui viene rifiutata l'iscrizione alla white list non viene ascoltato dalla Prefettura e neppure può prendere visione egli atti che lo riguardano, che sono secretati. Di fronte a questa situazione, essendo in discussione in commissione Giustizia del Senato la riforma del Codice Antimafia, sono stati sentiti in audizione il prefetto Bruno Frattasi, attuale comandante dei Vigili del Fuoco, per anni responsabile dell'Ufficio legislativo del Ministero degli Interni, i Prefetti di Milano, Palermo, Napoli, Reggio Calabria, Modena, ecc., illustri avvocati, docenti di diritto amministrativo e rappresentanti delle associazioni imprenditoriali. Ad eccezione dei Prefetti sul territorio, che hanno sostenuto di vivere nel migliore dei mondi possibile e non si sono accorti di nessuna criticità, da Frattasi, i professori, gli avvocati e le associazioni degli imprenditori sono state sottolineate le incongruenze e i limiti di questo sistema ed indicate soluzioni come l'obbligo di sentire l'imprenditore, fare verificare i provvedimenti interdittivi da un giudice terzo, accompagnare l'azienda colpita da interdittiva a superare lo stato di pericolo prima che possa giungere il fallimento. Con una consapevolezza che è emersa chiaramente: la criminalità organizzata non viene minimamente scalfita da questi provvedimenti che viceversa per la loro assoluta arbitrarietà e disprezzo per l'economia reale non possono che creare disaffezione e rancore verso le istituzioni. 

Se non sai che il parente del tuo amico è mafioso sei mafioso anche tu…, scrive Tiziana Maiolo il 21 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Il politico patrocinò la festa paesana dello stacco organizzata da un parente di un presunto ndranghetista. Colpevole di “inconsapevolezza”, l’assessore va rimosso. Ci mancava solo Rosy Bindi nel caravanserraglio di quanti hanno preso di mira il Comune milanese di Corsico e il famoso (mancato) “Festival dello stocco di Mammola”, per saldare vecchi e nuovi conti politici. La Commissione bicamerale Antimafia è arrivata a Milano giovedì con un programma ambizioso: audizioni dei massimi vertici della magistratura (il procuratore generale Alfonso, il procuratore capo Greco e la responsabile della Dda Boccassini) e discussione sulla presenza di spezzoni di ‘ ndrangheta al nord, e in particolare nelle inchieste su Expo e il riciclaggio. Ma tutto è rimasto sbiadito in un cono d’ombra illuminato prepotentemente dal caso del merluzzo, il famoso stocco di Mammola, che viene festeggiato ogni anno da 38 anni in Calabria con il patrocinio dell’ambasciata di Norvegia, ma che non si può evidentemente esportare nel milanese. La Presidente Rosy Bindi è stata perentoria: l’assessore alle politiche giovanili Maurizio Mannino, che nell’ottobre dell’anno scorso aveva dato il patrocinio alla Festa dello stocco a Corsico senza rendersi conto del fatto che il promotore dell’evento era il genero di una persona indagata per appartenenza alla ‘ ndrangheta, deve essere subito rimosso. Altrimenti verrebbero avviate, per iniziativa di una serie di zelanti parlamentari del Pd, le procedure per arrivare al commissariamento del Comune di Corsico. Certo, dice la stessa Presidente dell’Antimafia, il sindaco era inconsapevole, ma “l’inconsapevolezza per essere innocente deve essere dimostrata”. Inversione dell’onere della prova, al di là e al di fuori da qualunque iniziativa giudiziaria, dunque. Il concetto è questo, in definitiva: se anche tu non sai con chi hai a che fare (cioè uno colpevole di essere parente di un altro), sei a tua volta colpevole a prescindere. E la cosa grave è che su questa vicenda di Corsico si soni mossi parlamentari del Pd (la famosa nuova generazione dei “garantisti”) come Claudio Fava e Franco Mirabelli e persino il mediatico promotore di libri nonché procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri. Tutti compatti contro il sindaco Filippo Errante, colpevole di “tradimento”, perché da ex sindacalista e assessore di una giunta di sinistra, ha osato non solo allearsi con il centrodestra, ma addirittura portarlo alla vittoria dopo sessanta anni di governo ininterrotto di sinistra. Un capovolgimento politico che brucia ancora, dopo oltre un anno. Il che è comprensibile, soprattutto per la candidata sconfitta, l’ex sindaco Maria Ferrucci. La quale un risultato a casa l’ha portato, quello di riuscire a fare annullare la festa dello stocco e di conseguenza di indebolire la figura del neo- sindaco. Il quale sarà costretto oggi anche a rinunciare a un suo assessore di punta. Indebolendosi sempre più. Ma c’è da domandarsi se sia di grande soddisfazione politica per l’ex sindaco e per il suo partito essere costretti a denunciare per simpatia con le mafie una persona come il sindaco Errante che un tempo militava nelle loro fila. E cercare di sconfiggere per via burocratica e tramite i prefetti e le commissioni antimafia (neanche per via giudiziaria, non essendoci inchiesta alcuna all’orizzonte) chi ha vinto le elezioni. Democraticamente e non con un colpo di stato.

Storia di Pino Maniaci su Cnn: «Ha perseguitato la mafia, ora è lui il bersaglio», scrive il 26/12/2016 “La Sicilia”. La celebre rete televisiva americana dedica al direttore di Telejato, recentemente indagato per estorsione, un ampio servizio sulle sue pagine on line. "Pino Maniaci è stato uno dei pochi ad avere avuto il coraggio di denunciare la mafia in Sicilia". La Cnn dedica al direttore di Telejato un lungo servizio pubblicato sulle sue pagine on line, un servizio dove ricostruisce la vicenda di Maniaci finito sotto inchiesta a sua volta per estorsione ai danni di un amministratore locale. "He goes after the mob; now he’s the target", ha perseguitato la mafia, ora è lui il bersaglio, scrive il reporter Joel Labi, in una lunga inchiesta nella quale compare anche una intervista video intitolata "The Mafia Hunter", "Il Cacciatore di mafiosi". "Il reporter Pino Maniaci - scrive la Cnn - è stato una delle poche persone a denunciare pubblicamente la mafia in Sicilia". Maniaci, sottolinea l’influente emittente televisiva statunitense, "ha usato la sua piccola televisione fatta in casa per combattere il crimine organizzato" da allora "è diventato bersaglio a sua volta".

Parola anche ad Antonio Ingroia, legale di Maniaci: "non ho mai visto niente di simile nei miei vent'anni come magistrato e avvocato", afferma l’ex pm. "Si sta utilizzando un video (quello delle intercettazioni ambientali, ndr) per distruggere un uomo di televisione...". Non è la prima volta che la storia di Maniaci finisce sulla stampa internazionale. In passato anche The Guardian e l’Economist hanno dedicato spazio al direttore di Telejato.

Caso Maniaci, Ingroia: “Ci voleva la CNN per ricordare un processo surreale”, scrive "Telejato" il 26 dicembre 2016. “C’è voluta la CNN per ricordare che in Italia sta per cominciare un processo surreale come quello a carico di un giornalista coraggioso come Pino Maniaci. Pur avendo milioni di notizie da dare, la più grande tv del mondo ha deciso di raccontare con un lungo articolo sulla homepage del suo sito internet la storia di un’indagine basata sul nulla, costruita dalla Procura di Palermo su accuse infondate o su fatti per i quali Maniaci ha fornito ampia e puntuale spiegazione”. Così l’avvocato Antonio Ingroia, difensore con l’avvocato Bartolomeo Parrino di Pino Maniaci. “Dovrebbe far riflettere – aggiunge – com’è stato trattato il caso in Italia, dove la gran parte della stampa ha già processato e condannato mediaticamente Maniaci, con superficialità e approssimazione, dando per certa la tesi della Procura. Una dimostrazione di sconcertante conformismo, un conformismo confermato anche dalla reazione di alcuni organi di stampa nazionali, subito pronti a criticare la CNN con l’accusa di aver dimenticato di dare la notizia dell’uccisione dei cani di Maniaci e della reazione che Maniaci ebbe. Una circostanza non rilevante ai fini del processo e di cui comunque Maniaci ha ampiamente dato spiegazione nelle sedi opportune. Ma tant’è – conclude Ingroia – c’è chi ha già emesso la sua sentenza e non vuole sentirsi dire che forse si è sbagliato”.

Lettera aperta di Pino Maniaci ai colleghi giornalisti, scrive il 28 settembre 2016 "Telejato". «Cari colleghi, sin dal primo giorno in cui vi è stata data la notizia, il video e le intercettazioni delle vicende in cui la Procura di Palermo ha deciso di “impallinarmi”, assieme a nove mafiosi di Borgetto che con me non c’entravano niente, a nessuno di voi è venuto il minimo dubbio che ci fosse qualcosa che non quadrava. Conosco il vostro rapporto con i magistrati: sono loro che vi passano le notizie e il materiale per integrarle, quindi nessuno di voi oserebbe mettere in discussione l’operato di chi, alla tirata delle somme, offre gli elementi per mandare avanti il proprio lavoro, di chi vi fa campare. Tutti avete emesso, in partenza la sentenza di condanna, sia perché quello che dice la Procura non si discute, sia perché rispetto a voi io non sono un giornalista, non merito questa etichetta e, addirittura, diffamo la vostra categoria. Ad alcuni non è parso vero di potere dilatare la macchina del fango messa in moto nei miei confronti. Altri hanno sottilmente distinto l’aspetto penale, per la verità molto fragile, da quello “morale” o etico, arrivando alla conclusione che se i risvolti penali di ciò di cui ero accusato erano irrilevanti, dal punto di vista morale io ero condannato e condannabile perché le intercettazioni che abilmente erano state confezionate e vi erano state date in pasto, mettevano in evidenza una persona senza scrupoli e senza rispetto per i valori minimi della convivenza e della morale comune: come potevo io fare la predica agli altri, quando non avevo rispetto per le istituzioni, per la magistratura e la legalità da essa rappresentata, per i politici, per il Presidente della Repubblica e persino per la mia famiglia? Anche adesso che, dopo essere stato finalmente ascoltato, alcune cose sono state chiarite, molti di voi sono rimasti fermi alla prima devastante impressione che vi è stata offerta e che escludeva addirittura qualsiasi personale rivalsa da parte di quei settori del tribunale di cui avevo messo in luce la vergognosa gestione. Sono stati ignorati, da parte vostra, che pur li conoscevate bene, anni d’impegno, di denunce, di servizi a rischio, di documentazione di attività sociali, culturali, religiose. È stato ignorato il ruolo di una redazione in costante rinnovo, ignorata la presenza di scolaresche, associazioni, volontariato, sincera collaborazione, il tutto senza un minimo di risvolto o di vantaggio economico. Cosa aggiungere? Che nessuno di voi, diversamente da quanto posso io fare, ha la piena libertà di scrivere ed esprimere i propri giudizi, dal momento che questi si uniformano a quelli di chi vi paga o vi dà le informazioni? La libertà di stampa non è acqua fresca e lo si nota giornalmente dal modo in cui vengono confezionati giornali e telegiornali e dalla scarsa capacità di chi vede e ascolta, di maturare un proprio giudizio e di notare subito dove sta il trucco o lo stravolgimento della notizia. Che aggiungere? Il regime non è finito, anzi sta cercando di rafforzarsi sia con lo stravolgimento dei principi costituzionali su cui andremo a votare, sia con le minacce di coloro che da sempre hanno agito indisturbati, sia con gli avvertimenti mafiosi, sia con il reato di diffamazione a mezzo stampa, che non si ha nessuna voglia di cambiare per agevolare il nostro lavoro. La titolare della Distilleria Bertolino una volta lo disse con chiarezza: “Una volta c’era la pistola, adesso basta la denuncia”. Oppure un buon servizio giornalistico. Una volta che la pietra è stata buttata ritirarla diventa difficile, anzi impossibile.»

Xylella, Trentino contro la Puglia: «Causa vostra, giù export di mele», scrive Marco Mangano il 20 novembre 2016 su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. La Xylella Fastidiosa spacca l’Italia ortofrutticola. Il batterio killer degli ulivi, oltre ad assestare colpi violenti al paesaggio, al territorio, all’immagine della Puglia, arreca «danni collaterali» (mutuando il titolo del famoso film interpretato da Arnold Schwarzenegger) anche alla parte dell’economia agricola del tutto estranea alla batteriosi. La Giordania esige dagli esportatori certificati in cui si assicuri l’assenza della patologia. Ciò, oltre ad avvenire per l’uva pugliese, si verifica per le mele trentine. Ed è qui che casca l’asino: i produttori della Val di Non puntano l’indice contro la Puglia: sostengono che se non fosse stato per loro non avrebbero subito alcun calo nell’export verso la Giordania. Un danno riflesso alla zona delle mele d’eccellenza.  «Stiamo incontrando problemi di ordine burocratico poiché la Giordania chiede ai produttori pugliesi di dichiarare sul certificato fitosanitario che i prodotti sono esenti da Xylella», afferma Giacomo Suglia, presidente pugliese dell’Apeo (associazione produttori ed esportatori ortofrutticoli) nonché vicepresidente nazionale di FruitImprese. «Ritengo - osserva - che il ministero delle Politiche agricole debba intervenire per fare chiarezza: intendo dire che sarebbe opportuna una campagna attraverso cui i Paesi importatori potessero essere rassicurati circa l’impossibilità che prodotti come l’uva, le mele e molti altri possano essere colpiti dal batterio. I frutti sono estranei alla patologia e, pertanto, non possono arrecare alcun danno alla salute, né trasferire la patologia». Insomma, la Xylella diventa una questione di politica agricola, per nulla trascurabile. La Puglia deve difendersi non soltanto dagli attacchi della sputacchina, l’insetto vettore che spadroneggia fra gli uliveti, assicurando notti insonni agli olivicoltori del Barese (dove si produce l’altissima qualità), ma anche dalle accuse del Nord. Diamo un’occhiata all’avanzata del batterio: dopo essere sbarcato a Ostuni e a Martina Franca (come anticipato in entrambi i casi dalla Gazzetta), la situazione pare incontrollabile. E non soltanto sul piano dell’espansione batterica. I nervi vengono messi a dura prova: abbiamo già riferito del conflitto fra Cia e Anas. Lo scorso 20 ottobre, in seguito all’individuazione di un focolaio a Ostuni, in una stazione di servizio all’altezza dei villaggi turistici «Monticelli» e «Rosa Marina», la Regione firmava un’ordinanza di sradicamento non solo dell’ulivo colpito dalla batteriosi, ma anche delle piante ospiti. Venivano, però, abbattuti l’albero ammalato e le piante che si trovavano nel raggio di cento metri dall’ulivo, ma non quelle (oleandri) che - nello stesso raggio di 100 metri - ricadevano e ricadono in aree di pertinenza dell’Anas. La confederazione sostiene che queste piante siano pericolose e che non abbia senso limitare lo sradicamento solo ad alcuni alberi. La Cia scrive all’Anas, sollecitandola a procedere nel più breve tempo possibile allo sradicamento.

La leggenda assurda della mafia che incendia i boschi e i monti, scrive Alberto Cisterna il 27 Agosto 2017 su "Il Dubbio". Sia chiaro uno può anche sbagliare. Ma ad occhio e croce saranno vent’anni che circola la storia che ad incendiare i boschi ed a devastare le colline della Calabria, della Sicilia o della Campania siano ndrangheta, mafia e camorra. La leggenda assurda della mafia che incendia i boschi e i monti. Tuttavia, a memoria, non ci si ricorda di uomini delle cosche che siano stati arrestati e men che meno condannati per barbarie del genere. Non è un’esclusiva della Calabria dove la tesi circola da maggiore tempo. In Sicilia e in Campania si sentono le stesse cose da altrettanti anni. Tra squinternati, giovinastri, villeggianti incauti, pastori in cerca di pascoli, vigili del fuoco esaltati, il panorama (il bestiario) degli incendiari è composito e multiforme, ma di mafiosi non si vede neanche l’ombra. La qualcosa, alla lunga, non può restare priva di ricadute. O gli inquirenti sono degli inetti che non riescono a venire a capo della questione oppure, in genere, le mafie non c’entrano nulla. E poiché occorre scartare la prima ipotesi, tenuto conto del livello delle forze antimafia nel paese, la seconda prospettiva comincia a prendere piede in modo sostanziale. Non è una questione da poco. Un conto è teorizzare una strategia mafiosa volta a depredare e deturpare il territorio, altro è dare la caccia ai portatori di microinteressi e microbisogni, quando non a dei veri e propri teppisti e mascalzoni. Si tratta di adottare strategie del tutto diverse, ricorrere a strumenti investigativi completamente nuovi. Ad esempio qualche drone gioverebbe più di cento intercettazioni. Nel frattempo, invece, è tutto un teorizzare, ipotizzare, allarmare in vista di tenebrose trame mafiose che, alla fine, è il caso di dire, risultano fumose e prive di riscontri. D’altronde bruciano la California, la Spagna, la Francia, la Grecia, il Portogallo, ed in modo anche più devastante che in Italia, e nessuno si azzarda a lanciare l’idea che le mafie italiane, espandendosi per il mondo, si siano messe a dar fuoco alle foreste di mezzo globo come se fossero in Aspromonte. E’ all’incirca una sciocchezza e, come tutte, le superstizioni ha una matrice tutta italica. Il sillogismo è semplice: la mafia controlla il territorio in modo capillare, il territorio brucia, la mafia incendia il territorio. Naturalmente, come tutte le aberrazioni logiche, anche questa parte da un postulato opinabile, anzi da due. Non è più vero, e per fortuna da un paio di decenni, che le mafie controllino il territorio in modo così asfissiante e meticoloso, come in passato. Hanno strategie ed obiettivi diversi e il controllo è costoso e poco redditizio ormai. In secondo luogo il fatto che i boschi brucino non realizza alcun evidente interesse delle mafie che, difatti, nessuno indica con un minimo di precisione. Piuttosto, per molti decenni, i più importanti esponenti della ndrangheta amavano essere additati come i «re della montagna». Si facevano chiamare così i più pericolosi ras della ndrangheta reggina, tutti direttamente impegnati nell’industria boschiva che ha costituito, almeno nella Calabria aspromontana, la prima forma di imprenditoria mafiosa. Dalla montagna e dal suo controllo la ndrangheta ha ricavato vantaggi enormi, si pensi soltanto alla stagione dei sequestri di persona e alle fasi iniziali dello stoccaggio della cocaina. In montagna, in fosse scavate nel terreno, la ndrangheta ci nascondeva persino il denaro. E poi è vero o no che i picciotti hanno invocato per decenni la protezione della Madonna della Montagna a Polsi? Basterebbe rileggere con attenzione il capolavoro di Gioacchino Criaco, Anime nere, per rendersi conto di quale rapporto ancestrale, interiore, anzi intimo leghi la gente di ‘ndrangheta (come tanti calabresi perbene) alla montagna e sbarazzarsi, così, di una certa allure che nasconde, da qualche tempo, le proprie inefficienze dietro lo spettro di una mafia purtroppo, a suo dire, imbattibile. Sia chiaro, non si sono mai viste neppure coppole iscritte al WWF o versare contributi ad Italia Nostra, ma qui parliamo di interessi, di denaro, di progetti di egemonia che dovrebbero indurre i boss ad appiccare incendi qui e là in giro per il Mezzogiorno d’Italia. Tra parecchie dozzine di pentiti e decine di migliaia di intercettazioni, che nulla raccontano in proposito, gli unici a farsi beccare al telefono a parlare di fuoco e fiamme sono stati i vigili volontari di Ragusa per intascare dieci euro l’ora. Siccome la storia prosegue, come detto, da troppo tempo è forse giunta l’ora di chiedere le prove a chi sostiene cose del genere. La pubblica opinione è ormai alluvionata dai “ragionamenti” degli inquirenti, avrebbe diritto anche alla dimostrazione di ciò che si sostiene. Se davvero ci fossero le cosche dietro la distruzione piromane sarebbe un fatto gravissimo, un vero e proprio attentato alla Repubblica. Un atto di guerra e, come ricordava Georges Benjamin Clemenceau, «La guerra è una cosa troppo seria per lasciarla in mano ai militari», figuriamoci ad altri. 

MAFIA COMUNISTA. IL RACKET DELLE OCCUPAZIONI ABUSIVE DEGLI IMMOBILI.

Non mi sento italiano…ma per fortuna o purtroppo lo sono…A proposito dello sgombero dell’immobile occupato abusivamente da stranieri a Roma: Perché gli organi di informazione ideologizzati, che hanno perso ogni forma di credibilità, esaltano una frase detta sotto pressione e tensione da un solo poliziotto e sottacciono le violenze a danno degli altri agenti di polizia? E perché gli scribacchini si indignano dello sgombero di un immobile occupato abusivamente e pagato con i fondi pensione dei cittadini italiani, mentre tacciono spudoratamente, quando ad essere cacciati di casa sono quei cittadini italiani vittime di sfratti o esecuzioni forzate, frutto di usure bancarie impunite o di sentenze vendute?

Immobili occupati illegalmente. Il Governo catto comunista, anziché ristabilire l’ordine, spiega che prima dello sgombero, bisogna pensare a trovare una casa agli occupanti criminali. Si pensa di assegnare ai mafiosi occupanti le case confiscate (spesso illegalmente) ai mafiosi o presunti tali. Un vero esproprio proletario a danno dei cittadini onesti italiani (chi mafioso non è ma si vede confiscato un bene e chi, cittadino onesto indigente non occupante, che non si vede assegnare una casa di cui ha diritto.

Clandestini occupanti abusivi: Italia spaccata. Abbiamo paura perfino dei cinghiali…scrive "Blitz Quotidiano" il 28 agosto 2017. C’è del comico nella vicenda degli sgomberi e dei migranti clandestini e occupanti abusivi. Sarebbe da ridere se non fosse da piangere, scrive Cronaca Oggi. Siamo in piena confusione mentale, abbiamo paura anche di offendere i cinghiali. A Savona hanno persino fatto una battuta anticinghiali senza armi per allontanarli dalle spiagge e spingere verso le colline il branco di cinghiali che da settimane raggiunge il litorale savonese seminando terrore fra i bagnanti. Intanto l’ex sindaco di Sestri levante, Lavarello si è scontrato in moto con un branco di cinghiali e si è ferito. Ha ragione Laura Boldrini quando dice che stiamo dando una “pessima immagine del nostro paese”. Però non nel senso che intende lei. La pessima immagine è quella di un Paese e di un Governo incapaci persino di affrontare un problema di ordine pubblico relativamente modesto come quello del palazzo occupato abusivamente a Roma da un gruppo di immigrati, clandestini e no, in forte odore di illegalità e violenze. Nel palazzo dei migranti, subaffitti a irregolari a 10 euro.

Il racket delle occupazioni: nel palazzo soldi, estorsioni violenze. Minniti sperava nel gran colpo e ha mandato i poliziotti a sgomberare. Come giustamente dice Roberta Lombardi del M5s, “la reazione della polizia fa parte della gestione dell’ordine pubblico ed era tutto sommato prevedibile davanti alla resistenza”. Il Movimento 5 stelle è diviso fra i sostenitori di Luigi DI Maio che difende Virginia Raggi e Roberto Fico, in corsa per la leadership. Le reazioni sono state forti, da dentro il Pd e dal Vaticano, per non parlare del coro delle Boldrini. Così Minniti cambia le regole: niente sgomberi degli abusivi se non hanno casa. I prefetti potranno requisire edifici. Si studia utilizzo beni delle mafie. Il dietro front, se tale è, costituirebbe fonte di imbarazzo anche per Paolo Gentiloni, che poche ore prima della clamorosa rivelazione aveva fatto sapere di essere totalmente a fianco di Minniti sulla linea della fermezza. L’unica, bisogna ricordare, che può fare sperare al Pd un minimo di tenuta elettorale.

Hanno aspettato 4 anni. e hanno combinato un bel pasticcio fra Prefetto e Comune. Ora ci spiegano che Prefetto, donna e Sindaco, donna, non corre buon sangue nemmeno si parlano. Francesco Grignetti sulla Stampa di Torino scrive di “manifesta incomunicabilità tra prefetto Paola Basilone e sindaco Virginia Raggi, le due primedonne di Roma, al Viminale è considerata come il vizio d’origine di questa storia”. Virginia Raggi si affida alla Stampa. Si fa intervistare e rivela che metà degli sgomberati non ha accettato le sistemazioni proposte dal Comune. Conferma il Messaggero. Preferiscono stare accampati in strada. Vogliono vedere prima le fotografie degli alloggi.

Ma il cupio dissolvi che corrode l’anima della sinistra da quando è morto il Pci sta minando le basi. Il presidente del Pd Matteo Orfini parla per tutti: “Quello che è accaduto a Roma in questi giorni non è normale. E non lo deve diventare. Non si può continuare a pensare che un dramma sociale possa essere ridotto a questione di ordine pubblico». E ancora: «A essere inadeguata è stata anche la gestione da parte delle forze dell’ordine. Non si esegue uno sgombero con quelle modalità e non lo si fa senza una adeguata soluzione alternativa. Soprattutto, non si risponde alla povertà con le cariche e con gli idranti”. La povertà giustifica ogni illegalità. È la via italiana al socialismo. Ditelo a Stalin. Sullo sfondo il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, che sfrutta l’occasione per un po’ di visibilità, dopo avere lanciato l’allarme bufala di bloccare l’acqua a Roma perché un lago sembrava prosciugato. C’è un po’ meno acqua, è vero, ma il lago è ancora quasi tutto lì.

Il racket delle occupazioni, riprende Giorgio dell’Arti su "Il Corriere della Sera" un articolo de "La Gazzetta dello Sport del 27 agosto 2017. Ieri un cinquemila persone hanno sfilato per le vie di Roma, tra piazza dell’Esquilino e piazza Santa Maria di Loreto (piazza Venezia) per reclamare il diritto alla casa. La manifestazione era stata indetta da tempo dai comitati per il diritto all’abitare, ma i fatti di piazza Indipendenza di giovedì scorso l’hanno improvvisamente caricata d’ansia. Gli organizzatori hanno pensato bene di dare un posto d’onore, nel corteo, a etiopi ed eritrei che stavano nel palazzo di via Curtatone. La polizia, a sua volta, ha imposto controlli rigidissimi: niente aste, niente bastoni, niente bottiglie di vetro. Striscioni: «Via Curtatone, Indipendenza, siamo rifugiati non terroristi», «Vogliamo un tetto», «Vogliamo una casa», «Vogliamo vivere come i romani», «Libertà. Libertà». I manifestanti hanno marciato con il conforto delle parole pronunciate dal segretario di Stato vaticano, Pietro Parolin. Le immagini dell’azione di polizia in piazza Indipendenza, ha detto il monsignore, «non possono che provocare sconcerto e dolore, soprattutto dalla violenza che si è manifestata. E la violenza non è accettabile da nessuna parte. Però credo che, da quello che ho visto e da quello che ho letto, ci sia la possibilità di fare le cose un po’ meglio, fare le cose bene, perché ci sono le regole. Adesso, per esempio, ho visto che ci sarà questo impegno a trovare per queste persone delle abitazioni alternative prima di arrivare a questi estremi».

Sì? Minniti non parla, ma il senatore Manconi, che presiede la commissione Diritti umani, ha fatto sapere che, per quanto ne sa lui («non posso virgolettarlo»), «il ministro dell’Interno Minniti non autorizzerà altri sgomberi a Roma senza che vi siano pronte soluzioni abitative». Un’altra fonte del Viminale, anonima, conferma: «La prossima settimana scriveremo nuove linee guida per effettuare gli sgomberi ordinati dai giudici, e le invieremo a tutti i prefetti d’Italia. Tra le disposizioni ci sarà sicuramente quella di non autorizzarli se prima non è stata concordata una sistemazione dove alloggiare chi ne ha diritto. È una regola di buon senso, e non sarà l’unica». Il ministero, sempre in via ufficiosa, fa sapere di non avere avuto alcun ruolo nello sgombero di giovedì scorso, e richiama l’articolo 11 del decreto Minniti-Orlando sul decoro urbano, decreto convertito in legge a febbraio (Disposizioni in materia di occupazioni arbitrarie di immobili). L’articolo in questione prevede «la tutela dei nuclei familiari in situazioni di disagio economico e sociale» e stabilisce che in ogni caso i livelli assistenziali «devono essere garantiti dalle Regioni e dagli enti locali». Alla fine si afferma che «il sindaco, in presenza di persone meritevoli di tutela, può dare disposizioni in deroga a quanto previsto a tutela delle condizioni igienico-sanitarie». Per il nostro gusto c’è troppa gente coinvolta nelle decisioni da prendere. Ma tant’è. Gli uomini di Minniti stanno preparando la circolare da inviare ai prefetti con le linee guida di applicazione della legge. La Raggi e il governatore della Regione Lazio intanto si scambiano accuse per i fatti di giovedì scorso.

Che succede se io offro una casa al povero rifugiato occupante via Curtatone e il povero rifugiato la rifiuta? E già, è quello che è successo, e il rifiuto rende il rifugiato un po’ meno rifugiato di prima. Sospetta è anche l’esibizione delle donne incinte e dei bambini infelici, decorazioni simili a quelle che esibiscono le mendicanti che si mostrano col bambino in braccio per intenerirci il cuore. Il fatto è che la palazzina di via Curtatone era soprattutto un problema di malavita.

Vale a dire? Gli interni erano stati trasformati in alloggi piuttosto confortevoli, camere da letto, televisori anche al plasma, divani e frigoriferi, tavoli e poltrone, quadri alle pareti, immagini della Madonna e del cuore di Gesù (etiopi ed eritrei sono in genere cattolici) col solo problema delle cucine, per farle funzionare bisognava far ricorso alle bombole del gas. Gli appartamenti così ricavati venivano affittati a 10, 15 o persino 30 euro al giorno, a seconda dello spazio impegnato e della durata del soggiorno. La polizia ha trovato pacchi di ricevute che rendono inequivocabile lo sfruttamento del palazzo. Si spacciava droga, si dava ospitalità a trafficanti di uomini, si vendevano le aree-soggiorno anche per dodicimila euro. La resistenza ad andare da un’altra parte nasce dal desiderio di riconquistare via Curtatone, così centrale e conveniente. Calmate le acque, proveranno di certo a rioccuparlo.

C’è un racket dietro tutto questo? Naturalmente. Per esempio, un Comitato di lotta per la casa, capeggiato da una cinquantottenne Maria Giuseppa Vitale, detta Pina, messo sotto inchiesta dalla Procura risultò composto da gente che, qualificandosi come antagonista e schierata in difesa dei poveri, costringeva in realtà i poveri a occupare edifici, poi estorceva loro denaro o prestazioni lavorative gratuite «utilizzando il Comitato come uno strumento di potere proiettato a ottenere profitti».

È una situazione solo romana o il caso è nazionale? A Roma i palazzi da liberare sono cento, con una top list di quindici edifici indicata dall’ex sindaco Alemanno. A occupare sarebbero almeno 4.000 persone. Federcasa sostiene che gli alloggi detenuti illegalmente in tutta Italia sono 48 mila, in gran parte di proprietà pubblica. Di questi 48 mila, 40 mila sono stati occupate a forza, gli altri sarebbero abitati da gente a cui è scaduto il contratto e che non se ne va. Può in questa terra di nessuno annidarsi anche il pericolo di uno sviluppo dell’azione jihadista? Purtroppo, sì. È vero che allo sgombero di via Curtatone s’è proceduto in tutta fretta per la preoccupazione determinata dai fatti di Barcellona? Al ministero negano, ma la voce corre e con una certa forza.

Immigrati liberi di occupare. Il disagio sociale è sicuramente un problema, ma il Far West è assai più pericoloso, soprattutto se benedetto dal ministro dell'Interno, scrive Alessandro Sallusti, Domenica 27/08/2017, su "Il Giornale". Il ministro Minniti ha dimostrato di sapersi muovere con fermezza e buon senso e gliene abbiamo sempre dato atto. Ma sulla gestione del dopo sgombero degli immigrati di Roma qualche cosa si è inceppato al vertice del ministero dell'Interno e della polizia. Peggio del «non fare» c'è solo il fare e poi pentirsi di averlo fatto. Così come a disorientare i soldati sono i generali che danno ordini e contrordini creando solo caos, così i cittadini rimangono disorientati da uno Stato che smentisce se stesso. Qualcuno deve avere pur deciso - per fortuna e finalmente diciamo noi - di intervenire per sloggiare gli abusivi di piazza Indipendenza. E quel qualcuno doveva pur sapere che uno sgombero è una operazione in sé violenta, anche se condotta in guanti bianchi. Perché a volte fare rispettare la legge è cosa violenta. Sono violente le cartelle di Equitalia, lo sono i pignoramenti, lo sono un avviso di garanzia e un arresto preventivo, lo è una sentenza di divorzio che toglie l'agibilità dei figli a uno dei due genitori. La democrazia è violenta perché deve imporre a tutti, senza distinzioni di censo, sesso e credo, il rispetto delle regole e l'unico spartiacque è se qualcuno, investito dell'ingrato compito, abusa di questo enorme e delicato potere. Non risulta - salvo un eccesso verbale rimasto senza seguito - che a Roma i poliziotti abbiano commesso abusi. Anzi, semmai è stato documentato il contrario. Minniti, quindi, si sta pentendo non di un fatto ma del fatto: «Mai più sgomberi senza prima aver individuato soluzioni alternative». Che è come dire: la legge va fatta rispettare solo quando è possibile e il farlo non crea complicazioni. Quindi - il ministro mi passi la semplificazione - se non trovo parcheggio posso lasciare la macchina in divieto di sosta, se non ho soldi non pagare le tasse, se ho fame rubare. Il disagio sociale è sicuramente un problema, ma il Far West è assai più pericoloso, soprattutto se benedetto dal ministro dell'Interno. Che, come purtroppo tutti i politici, nel momento critico diventa culturalmente succube di tre giornali, quattro opinionisti salottieri e qualche vescovo che gli danno del fascista. Mi perdoni, signor ministro, non si lasci intimidire: violento è chi, immigrato o no, le case le occupa, non lei che, per una volta, aveva deciso di liberarle come prevedono le legge e la Costituzione.

La mossa shock del Governo: così potranno rubarci casa. Con le nuove norme addio sgomberi. E chi occupa può anche chiedere la residenza e allacciare luce e gas, scrive Antonio Signorini, Lunedì 28/08/2017, su "Il Giornale".  Se occupi un immobile il massimo del rischio sarà che le istituzioni ti trovino casa. Oppure - versione più estrema e improbabile - che il proprietario dell'immobile occupato debba trasformarsi in agente immobiliare per trovarti un'alternativa.

Il presidente di Confedilizia Giorgio Spaziani Testa ha già detto che valuterà se impugnarla. Oggi il vertice del ministro dell'Interno e forse chiarirà un po' i dettagli, ma è già chiaro che si tratterà di un contentino alla sinistra, sull'onda emotiva dello sgombero di Roma. Un'altra stratificazione di norme e intralci burocratici che renderà più difficile e pesante per un proprietario di immobile tornare in possesso del suo bene. Una norma irrazionale, che allungherà ancora i tempi biblici della giustizia civile italiana. Ma anche senza la direttiva, basta la normativa in vigore a tutelare chi viola la legge e penalizzare il legittimo proprietario di un immobile. Ad esempio la norma approvata pochi mesi fa, dentro il decreto «sicurezza delle città» del ministero dell'Interno (decreto 14 del 2017), più volte segnalato da Confedilizia come un grimaldello pro occupazioni. In sintesi il decreto non prevede direttamente che si debbano trovare alternative abitative per gli occupanti. Ma stabilisce che siano i prefetti e i sindaci gli arbitri del come e del quando i proprietari di immobili potranno rientrare in possesso dei loro beni. Se il giudice ordina uno sgombero, da aprile scorso, si deve passare dal prefetto per renderlo esecutivo. Sta a lui decidere, tenendo conto di «possibili turbative dell'ordine e la sicurezza» se mandare le forze dell'ordine. Un incentivo per i movimenti di lotta per la casa (ex autonomia operaia) a minacciare disordini. Più difficile fare intervenire le forze dell'ordine. Il prefetto deve decidere tenendo conto della «tutela dei nuclei familiari in situazioni di disagio economico e sociale». Comuni e regioni devono farsi carico di garantire «livelli assistenziali». Contro le decisioni del prefetto si potrà fare ricorso. Ma il massimo che si potrà ottenere è fare procedere con lo sgombero. Nella legge, insomma, ci si premura di evitare cause civili dei proprietari. Che saranno presumibilmente tante. Un regalo agli occupanti, arriva anche attraverso i sindaci. I caso di «presenza di persone minorenni o meritevoli di tutela» oppure per motivi di tutela delle condizioni igienico sanitarie, i primi cittadini potranno non applicare il decreto Legge 47 del 2014. È la legge Lupi che stabiliva il divieto di alloggiare le utenze di energia, acqua, gas e anche telefonia a chi occupa abusivamente. I sindaci potranno anche decidere di riconoscere agli occupanti il diritto a stabilire la residenza nell'immobile occupato oppure di avere una casa assegnata dal comune. Magari la stessa che hanno sottratto a chi ne aveva diritto, se si trattava di edilizia popolare, Prima del decreto c'era un divieto espresso. Insomma, una mano consistente agli squatter organizzati. Dietro chi occupa per bisogno, come noto, ci sono organizzazioni che traggono illegalmente vantaggio, sia in termini di proselitismo sia economico, come dimostrato dalle ricevute trovate nell'immobile liberato dagli occupanti a Roma. Il decreto era già il risultato di compromessi tutti politici e attenzione nulla al merito della policy. Quella delle occupazioni - più o meno politiche - è una piaga che le cifre ufficiali non riescono a fare emergere. È uno dei tanti casi che rendono l'Italia un paese poco competitivo per gli investimenti esteri. Bruxelles punta il faro da anni sui tempi lunghissimi della giustizia civile italiana e sulla impossibilità per i privati di avere giustizia. Il decreto, e probabilmente la successiva direttiva, peggioreranno questa situazione.

E Veltroni pagava l'affitto al "Salam Palace" nel nome del filo rosso tra okkupanti e Pd. Da D'Erme a «Tarzan» Alzetta, gli antagonisti sbarcati al governo di Roma, scrive Massimo Malpica, Lunedì 28/08/2017, su "Il Giornale". C'è sempre stato un filo rosso, talvolta occulto, talvolta palese, tra le giunte romane di centrosinistra - almeno fino a Walter Veltroni - e i movimenti capitolini di lotta per la casa. Che a Roma erano già attivi con Francesco Rutelli al Campidoglio, ma che moltiplicano sigle e attività quando è il futuro fondatore del Pd che, nel 2001, comincia a governare la Città eterna. Non è un caso che proprio nel 2002 comincia un'ondata di «okkupazioni» alcune delle quali ancora in essere, ormai «storiche», come la caserma del Porto fluviale, a Ostiense, da qualche anno decorata dal coloratissimo murales dello street artist Blu. O il celebre «Salam Palace» all'Anagnina. Quest'ultimo, diventato poi un (imbarazzante) caso internazionale per le precarie condizioni in cui vivono gli occupanti, tra i quali numerosi stranieri con lo status di rifugiato, era stato persino «legittimato» da Veltroni, che nel 2006 decise di contattare la proprietà - l'Enasarco - e di cominciare a pagare con i soldi del Campidoglio, quindi dei romani, affitto e bollette all'ente. Il tentativo di «alleanza» non finì comunque bene, perché quando l'anno successivo il comune di Roma propose lo sgombero con contestuale trasferimento degli ospiti in altre sistemazioni, quasi tutti si guardarono bene dal fare armi e bagagli, restando nell'edificio - che infatti è ancora occupato, come dimostra la sua presenza nella top 15 delle sgomberi della prefettura - nonostante il ritorno del degrado e, va da sé, del totale abusivismo. Quelli furono anche gli anni in cui, appoggiandosi alla sinistra radicale che, a sua volta, sosteneva la maggioranza in Campidoglio, si affacciarono alla politica e nelle istituzioni i leader del movimento di lotta per la casa. Se ora uno dei volti noti è quello di Luca Fagiano (già agli onori delle cronache perché secondo il decreto di sgombero del palazzo di via Curtatone era stato tra gli organizzatori della clamorosa okkupazione), è difficile per i romani dimenticarsi di Nunzio D'Erme, primo consigliere comunale arrivato al governo della città partendo dai movimenti antagonisti, nel 2006. E ancora più difficile è non ricordarsi di Andrea Alzetta, detto «Tarzan», che si candidò nelle liste di Rifondazione (ma nel segno di Action) con tanto di cover di «Tarzan lo fa», ovviamente modificata nel testo per adattarsi alla lotta per la casa, e che si ritrovò nel 2008 in consiglio comunale con la rispettabile dote di 2.192 preferenze, il più votato della lista. «Tarzan» ci riprovò nel 2013, risultando eletto nuovamente con poco meno di 2mila preferenze salvo, poi, essere il primo dichiarato «non proclamabile» secondo la legge Severino che era appena entrata in vigore, per una condanna per scontri di piazza passata in giudicato, e respinto sulla soglia dell'Aula Giulio Cesare nonostante il ricorso al Tar, che gli diede torto.

Festival no global illegale e fuochi d'artificio abusivi. Per l'evento-beffa dei centri sociali a San Siro il «gran finale» è uno spettacolo pirotecnico, scrive Alberto Giannoni, Martedì 18/07/2017, su "Il Giornale". Un finale col botto per i centri sociali di San Siro. Uno spettacolo pirotecnico non autorizzato ha concluso il festival dell'illegalità nel cuore del quadrilatero che vanta il poco invidiabile record degli alloggi occupati abusivamente. E in piazzale Selinunte ormai sembra abusiva anche la speranza, visto che altri cinque alloggi sono stati presi di mira dal racket delle occupazioni. È il consigliere comunale Alessandro De Chirico (Fi) a denunciare il finale-beffa di questa vicenda surreale. E ne ha parlato anche in Consiglio comunale, il vice capogruppo di Forza Italia, preannunciando un'interrogazione, che arriva dopo giorni e giorni di segnalazioni sue. E denunce, finora inascoltate. Tutto è iniziato il 13 luglio, quando in piazza Selinunte è partita l'ottava edizione del «San Siro Street Festival» una manifestazione che viene organizzata dal centro sociale «Il Cantiere», l'ala dura del movimento anarchico antagonista che ha base in piazzale Stuparich. De Chirico riferisce di aver ricevuto numerose segnalazioni sulla vendita di alcolici nel corso dell'evento, «senza autorizzazione né rilascio di ricevuta fiscale». E ancora; «Imbrattamento di muri di una palazzina privata, musica a tutto volume fino alle 4.30 del mattino, fuochi d'artificio in violazione delle norme comunali». «Se vietano i bastoni per i selfie in Darsena - spiega - non penso che possa fare fuochi d'artificio il primo che passa, anche per evidenti ragioni di sicurezza». Il 10 luglio, in occasione della presentazione dei vigli di quartiere proprio in piazzale Selinunte, De Chirico ha parlato con il sindaco Sala «per avvisarlo - dice - dell'organizzazione di tale festival e l'11 luglio ho presentato un esposto presso il commissariato Bonola di Polizia dello Stato». De Chirico nell'interrogazione ricorda anche che «la mattina del 13 luglio i vigili di quartiere posizionati in piazzale Selinunte con unità mobile, assistevano al montaggio delle strutture per la manifestazione», mentre «operai di Unareti spa (A2A, ndr) hanno allacciato a una colonnina elettrica gli impianti». Non è tutto: «Nella mattina di sabato 15 luglio, un centinaio di attivisti No sgomberi inscenava un corteo per le vie di San Siro per manifestare contro gli sgomberi degli alloggi indebitamente occupati». E, per marcare la coerenza fra idee e azioni, nelle stesse ore vengono occupati abusivamente alcuni alloggi Aler fra piazzale Selinunte, via Maratta e via Gigante. De Chirico ora chiede al sindaco la richiesta e l'autorizzazione rilasciata al festival, domanda se è vero «che l'autorità comunale abbia richiesto a Unareti l'allacciamento elettrico» e vuol sapere «chi ha sostenuto le spese per l'occupazione di suolo pubblico, per la luce elettrica e la pulizia del piazzale e delle vie limitrofe». E pensando ai militanti di estrema destra denunciati pochi giorni fa per aver manifestato senza autorizzazione davanti a Palazzo Marino, De Chirico si chiede e chiede se, in questa Milano, «con Sala qualcuno è più non autorizzato di altri».

COSTRETTI A PAGARE PER LE STANZE. LE «FATTURE» DEL RACKET. Di Ilaria Sacchettoni per "Il Corriere della Sera" del 26 agosto 2017. Pagava Jodit. E pagava Mohamed. Alla fine pagavano tutti. Perché nella città delle emergenze abitative si paga anche per occupare un alloggio. Dieci euro a persona ogni giorno. Che alla fine, moltiplicato per circa 700 persone, quanti erano (a pieno regime) gli occupanti di via Curtatone, fa settemila euro al giorno. A chi andavano quei soldi? Tra i documenti agli atti degli investigatori c' è anche un plico leggero ma importante che ieri la Sea srl, assistita dall' avvocato Carlo Arnulfo, ha sottoposto ai carabinieri. Una massa di ricevute firmate dai profughi alloggiati nel palazzo. Fogli su cui spiccano cifre e sigle. Dieci euro. Trenta euro. Venti. Cinquanta. Soldi versati ad altri immigrati, a quanto pare, intermediari di cui non sono chiari ruolo e contatti. Una somma discreta per garantire che cosa? Che a Jodit e alle centinaia di disperati precariamente alloggiati in quegli spazi non se ne aggiungessero altre? Erano legati a qualche frangia dei movimenti di occupazione? Non si può escludere. Possibile che qualcuno sfruttasse l'ennesima emergenza cittadina. Non sarebbe una novità. Grande è la confusione riguardo alle fughe di informazioni che precedono le occupazioni in città. Mentre alcune inchieste - e fra tutte quella sull' ex centro sociale «Angelo Mai» (poi rinato) - hanno dissipato una serie di dubbi sullo sfruttamento della categoria «immigrati» da parte di movimenti e politici. Era il 2014. E lo stesso reparto della Digos che oggi indaga sullo sgombero di piazza Indipendenza, rintracciò in casa di alcuni leader dei movimenti di occupazione banconote per migliaia di euro, ricevute e, soprattutto, l'elenco di nomi e delle somme versate dalle famiglie in occupazione. L' inchiesta andò oltre fotografando un quadro di «desolante e diffusa illegalità, con profili di responsabilità di carattere non esclusivamente penale e civile ma anche amministrativo, sociale e politico» per usare le parole del gip Riccardo Amoroso. Uno scenario in cui erano anche diffusi «contatti e rapporti con esponenti politici per individuare alloggi da occupare».

IL BUSINESS DELLA CASA: 2000 EURO AL MESE AGLI ORGANIZZATORI. Di Camilla Mozzetti e Adelaide Pierucci per " Il Messaggero" del 26 agosto 2017. Dieci euro per coricarsi una notte nel palazzo occupato. Anche se su giacigli improvvisati o su brande accatastate in stanzette e corridoi. Sulla pelle dei disperati c'era chi provava a fare fortuna. Poteva fruttare migliaia di euro al mese il palazzo occupato da migranti e rifugiati sgomberato giovedì, in via Curtatone in piazza Indipendenza, dopo una mattinata da guerriglia urbana, chiusa con centinaia di sfollati e cinque arresti, con gli occupanti, per lo più rifugiati, che lanciavano bombole, sedie, bottiglie e sassi agli agenti in tenuta antisommossa. Durante le fasi di sgombero sono state trovate delle ricevute con tariffe anche giornaliere. «Tre giorni al quinto piano, stanza 22. Trenta euro». A conti fatti per ogni famiglia, il gruppo di stranieri che per primo ha occupato l'edificio nel lontano 2013 richiedeva ad ogni nucleo familiare in cerca di sistemazione, anche temporanea, dieci euro al giorno. Ogni mese, con questo sistema, il gruppo non ancora identificato, riusciva a guadagnare una cifra variabile ma comunque compresa tra i 1.500 e i 2.000 euro. La documentazione è stata ritrovata durante lo sgombero. Al momento il materiale è nella mani dei carabinieri. Che da ieri si sono messi a caccia dei primi riscontri. Una ricevuta è intestata a un certo Gebru e risale all'aprile del 2016. La firma di chi ha incassato è illeggibile. I giorni di occupazione tassata è di tre. Due, tre e quattro aprile. Il pagamento all'uscita. Non una novità in città. Dove all'opera ci sono gruppi di finti benefattori che mascherano associazioni a delinquere organizzate allo scopo di compiere occupazioni abusive di immobili e quindi estorsioni ai bisognosi collocati. Come quella capeggiata da una leader storica del Comitato di lotta per la casa Maria Giuseppa Vitale, 58 anni, nota come Pina. In questo caso accusata di «aver pianificato ed attuato l'occupazione» di uno stabile in via Terme di Caracalla trasformato nel centro sociale Angelo Mai, dell'ex scuola Amerigo Vespucci e dell'ex clinica San Giorgio. Un'accusa pesante a cui vanno aggiunte le contestazioni di furto di risorse energetiche, di estorsione, violenza privata, ingiuria, e minacce. Secondo la procura infatti i rappresentanti del Comitato avevano messo in piedi un'associazione che, con la scusa di trovare un alloggio per i bisognosi, «li costringeva a occupare gli edifici, per poi estorcergli denaro e prestazioni lavorative gratuite, sotto minacce, ingiurie e violenze». Nel palazzo di via Curtatone, nove piani un tempo sede della Federconsorzi, intanto, si contano i danni. Nell'immobile di proprietà del Fondo Omega Immobiliare, gestito dalla SeA, Servizi Avanzati srl, i lavori di restauro potrebbero durare mesi. Le finestre al primo piano vanno messe in sicurezza. Gli infissi pericolanti rimossi. L'impianto elettrico con una serie di allacci volanti realizzati dagli occupanti va ripristinato. I lavori d'urgenza, in attesa del dissequestro, sono stati sollecitati ieri in procura dal legale della SeA, l'avvocato Carlo Arnulfo, che nella richiesta di autorizzazione ha parlato di «lavori indifferibili». Provvedimento ora al vaglio del procuratore aggiunto Francesco Caporale. Il decreto di sequestro preventivo era stato emesso nel dicembre 2015 dal gip Monica Ciancio, su richiesta del pm Eugenio Albamonte. Ma lo sgombero era sempre slittato. Il palazzo, soggetto a vincolo della soprintendenza dei beni architettonici, era stato «invaso», come aveva scritto il gip nel provvedimento, «il 12 ottobre 2013 da Luca Fagiano», altro leader del Coordinamento Cittadino di Lotta per la Casa, «insieme ad altre duecento persone», che a stretto giro sono raddoppiate, fino a triplicarsi. Il sequestro preventivo avrebbe dovuto evitare «il progressivo deterioramento dell'immobile». Interrotto di fatto solo l'altra mattina. Il Campidoglio ora prova a correre ai ripari. Il primo atto riguarda i migranti sloggiati dal palazzo occupato. È stata firmata una dichiarazione di intenti con la stessa SE.A che metterà a disposizione sei villette a Gavignano Sabina, in provincia di Rieti, per i rifugiati politici, anche con bambini al seguito. «Per ottemperare alla necessità di accoglienza di sei mesi», ha sottoscritto l'atto l'assessore alle politiche abitative Rosalia Alba Castiglione. La domanda potrebbe suonare retorica, ma per quale motivo una società che prova a recuperare un edificio occupato riesce dopo anni a riaverlo offre poi gratuitamente al Comune di Roma altri alloggi?  «Il Comune spiega l'avvocato Arnulfo, rappresentante la Sea, ci ha chiesto un contributo di solidarietà. Le villette sono a disposizione per sei mesi e sono emerse dopo che in passato era stata rifiutata dagli occupanti una sistemazione in un'altra struttura che la Sea gestisce senza esserne proprietaria a Tivoli».

GLI ERITREI CACCIATI SONO PIÙ RICCHI DI TANTI ITALIANI. Di Franco Bechis per "Libero Quotidiano" del 26 agosto 2017. Nemmeno dopo tutto quel che è accaduto il Fondo Omega di Idea Fimit ha potuto riprendere possesso del palazzo di sua proprietà occupato da più di 500 eritrei dal 2013. Le chiavi non sono ancora state restituite al legittimo proprietario perché lo sgombero non è ancora terminato: fino al tardo pomeriggio di ieri erano ancora asserragliate dentro alcune donne incinte, e la polizia non ha voluto ovviamente forzare la mano. Donne e bambini sono stati più volte utilizzati sia dagli occupanti che dalle associazioni per il diritto alla casa e da alcune onlus che non raramente li hanno manovrati, ed è probabile che siano esposti in prima fila oggi nel corteo di protesta ad altissimo rischio organizzato alle 16,30 a Roma, con partenza in piazza dell'Esquilino in una città blindata per l'occasione con paura di nuovi scontri. Movimenti antagonisti e ong che sono spuntati come funghi durante lo sgombero per cavalcare anche politicamente la vicenda degli scontri con la polizia hanno arringato fin dai primi giorni gli occupanti perché rifiutassero le soluzioni abitative loro proposte sia dall' assessorato ai servizi sociali di Roma che dalla società Sea che quell'immobile dovrebbe prendere in affitto dal Fondo Omega appena liberato. Per altro quella soluzione provvisoria (alcune villette a Forano, in provincia di Rieti) è stata sbarrata dal sindaco Pd del paese, Marco Cortella, che ieri non ha voluto sentire ragioni. «Sono contrario», ha detto Cortella, «perché siamo il comune nella provincia di Rieti con il numero più alto di richiedenti asilo. Ne abbiamo già 40 su 3168 cittadini, oltre la percentuale del 3 per mille per ogni Comune prevista dal Ministero dell'Interno. Invece di gratificarci, ci mortificano». Al momento gli sfollati dall' immobile di via Curtatone si sono dispersi per la città, alcuni convogliati da alcune associazioni (Baobab in testa) in ricoveri di emergenza, altri andati in una sorta di rifugio provvisorio vicino alla stazione Tiburtina, altri ancora presi comunque in gestione dalle strutture comunali. E tutti pronti a tornare appena verrà allentata la tensione e la vigilanza in quel palazzo dove ormai si erano insediati da anni. C' è un rarissimo video - girato nel novembre scorso da Rete Zero, una tv privata di Rieti- che in pochi minuti fa capire come si svolgeva la vita all' interno del palazzo occupato, e che tipo di sistemazione avevano trovato gli eritrei. Ormai non era un accampamento come ci si potrebbe immaginare, ma un ufficio trasformato in un vero e proprio palazzo residenziale. Nell' androne interno chi vi abitava lasciava in modo ordinato biciclette, passeggini e carrozzine. Poi lungo le scale si arrivava ai corridoi degli uffici che erano stati unificati e trasformati in veri e propri alloggi, con tutto l'arredamento che era necessario. L' unica cosa artigianale - mancando gli allacciamenti al gas - erano le cucine, con i forni alimentati da quelle bombole al Gpl che avevano tanto preoccupato i vigili del fuoco nell' unica parziale ispezione fatta. In casa non mancava nulla: parte giorno e parte notte, letti e divani, tavoli, poltrone, tende per difendere la propria privacy, quadri e immagini religiose (crocifissi e madonnine, perché erano quasi tutti cristiani gli abitanti). Poi frigoriferi, lavatrici, elettrodomestici vari (forni a micro onde, macchine per il caffè) e in non poche abitazioni anche televisori al plasma di grande dimensioni e decoder per ricevere la tv satellitare collegati alle parabole installate dagli stessi migranti sul tetto dell'edificio. Entrando in quel palazzo occupato si ha dunque l'impressione di un certo benessere di chi vi abitava, e che gli eritrei fossero ben al di sopra della soglia di povertà si capisce bene anche dalle immagini scattate sia nel giorno degli scontri che ieri quando sono tornati lì vicino a spiegare la loro protesta alla stampa: molti hanno in mano smartphone di ultima generazione del valore di centinaia di euro. Avevano uno stile di vita compatibile anche con una abitazione regolarizzata da un affitto a Roma, magari non in zone così centrali. Che non fossero poveri in canna viene confermato informalmente dai rappresentanti della comunità eritrea in Italia che abbiamo sentito in queste ore, che confermano l'esistenza di lavori regolarmente retribuiti per buona parte degli occupanti. Altri elementi informativi invece fanno capire che non poche fossero le infiltrazioni in quel palazzo, anche di tipo criminale. Non tutti quelli che vi abitavano erano eritrei: molti etiopi, qualche somalo. Eritrei si sono tutti dichiarati al momento dello sbarco in Italia proprio per potere godere della protezione internazionale, e non avendo documenti per molti di loro l'attesa delle verifiche è stata talmente lunga da potersi imboscare con facilità. Dentro il palazzo - secondo le stesse fonti ufficiali della comunità eritrea in Italia - accanto a una vita normale ce ne era una parallela, con cui ci si arrangiava e si otteneva qualche guadagno extra. La più banale veniva dalla sistemazione di alcune stanze con il minimo necessario che venivano affittate a 15 euro a notte agli eritrei di passaggio a Roma. Una sorta di bed and breakfast. Esisteva anche un altro tipo di commercio: quello delle abitazioni permanenti ricavate in quegli uffici. Se qualcuno di loro trovava regolare sistemazione in città, vendeva i diritti di abitazione in via Curtatone per cifre di una certa importanza, "anche 12 mila euro". Le forze di polizia erano già intervenute all' interno in poche occasioni per stroncare altri tipi di commercio assai più irregolari: sette inquilini arrestati per traffico di migranti, e altri identificati e fermati per traffico di stupefacenti.

Roma, «Vuoi occupare una casa abusivamente? Devi fare la tessera dell’associazione». Così funziona il mercato delle occupazioni abusive. E il Comune costruisce case che lascia vuote, scrive il 10 febbraio 2016 Antonio Crispino su Corriere TV. Tre giorni dopo la sentenza di sfratto si sono presentati a casa i soliti due italiani. La signora Norma gli ha aperto, li ha fatti accomodare e offerto il caffè. Dicevano di avere una soluzione al suo problema. A 73 anni, con nessun parente ad aiutarla, senza soldi (se non la pensione da 600 euro), le è sembrata manna dal cielo. Del resto la proprietaria diventava sempre più insistente: «Devi lasciare la casa, è un anno che non paghi». E poco le importavano gli acciacchi fisici che impediscono a Norma di lavorare ancora, dopo 40 anni a servizio come badante. I due italiani con accento calabrese le dicono che non deve più preoccuparsi, avrebbero trovato una sistemazione nel giro di due giorni. Le danno appuntamento fuori a un bar per vedere la zona in cui si trova la sua nuova casa, al Quarticciolo. Ma è sempre chiusa, non si può mai entrare. Perché si tratta di un appartamento da occupare. Un dettaglio che i due italiani le dicono solo in un secondo momento. All’alba del giorno dopo sarebbero venuti, avrebbero sfondato la porta e sarebbero entrati. Anche al trasloco avrebbero pensato loro. Le chiedono 5mila euro subito, poi mille euro al mese per circa un anno. In totale fanno diciassettemila euro. Di casi come questi ce ne segnalano tanti. Tutti accomunati da un particolare: le visite di queste persone avvengono sempre dopo qualche giorno dalla sentenza di sfratto. «Abbiamo notizie di un fiorente racket delle occupazioni abusive - denuncia Fabrizio Ragucci, dell’Unione Inquilini di Roma -. Si va dai diecimila ai cinquantamila euro per occupare una casa. La gente paga con la speranza di un condono o una sanatoria». Il Comune stima che le case occupate in questo modo siano circa 750. E non ci sarebbero solo quelle dell’edilizia residenziale pubblica ma anche quelle di proprietà del Campidoglio. Il sistema delle occupazioni a Roma è ben organizzato. Va dai procacciatori che sono fin dentro i tribunali e arriva ai manovali, disposti a sfondare porte in cambio di pochi euro. «Mi proposero 400 euro per aiutarli ad aprire una porta, erano magrebini, si occupavano della zona di Centocelle. A Roma ogni quartiere ha la sua gestione» racconta Gianni, un ragazzo rom che la casa l’ha occupata per sé. E’ in una palazzina in via Santa Croce di Gerusalemme, a due passi dalla basilica di San Giovanni in Laterano. Era dell’Inpdap, abbandonata dal 2006. Oggi l’ingresso è presidiato 24 ore su 24. Quelli che una volta erano uffici sono diventati monolocali per 180 famiglie. «Quando siamo arrivati c’era una guardia giurata, l’abbiamo mandata via e poi ci siamo preoccupati di ripristinare acqua ed energia elettrica. In questi anni di crisi economica sono state colpite tante famiglie di muratori, elettricisti, idraulici che hanno perso casa. Ci hanno aiutato. Ognuno ha offerto la propria competenza». Un vero e proprio “caso” quello di Action che ha attirato anche l’attenzione del Santo Padre, come racconta Paolo Perrini, tra i responsabili del movimento: «Non solo ci ha incoraggiati ad andare avanti ma ci ha anche inviato la benedizione apostolica. Ormai non siamo più illegali ma un esempio». Insomma è tutt’altra cosa rispetto al racket di Primavalle. Nel popolare quartiere romano, cosa si deve occupare e chi deve farlo è stabilito dai clan. E quasi tutti sono fiancheggiatori e affiliati, come emerso lo scorso marzo in occasione dell’arresto, tra gli altri, di Massimiliano Crea, il boss di Stilo (Reggio Calabria) che, secondo gli inquirenti, ha il controllo di questo mercato. Ma anche nei casi dei movimenti con scopi sociali resta poco chiaro il sistema delle assegnazioni degli spazi occupati. Una sorta di paradosso. Chi occupa lo fa perché non è riuscito a entrare nelle graduatorie comunali. A sua volta, nel girone parallelo illegale, deve attrezzarsi per risultare in cima alla lista di quelli che andranno a occupare abusivamente una casa al prossimo turno. E l’elenco delle famiglie in attesa è altrettanto lungo. «La precedenza viene data a chi ha fatto la tessera dell’associazione. Inoltre si vede la partecipazione ai cortei, alle manifestazioni, ai picchetti, ai comizi». E’ la risposta di uno dei tanti capi dei movimenti quando ci presentiamo a chiedere una residenza. La rilevanza non è data tanto dal costo della tessera (pochi euro) ma dalla strumentalizzazione politico-elettorale. Non è un caso, infatti, che ogni movimento abbia il proprio consigliere, assessore, onorevole di riferimento. Ne fece un elenco Sergio Marchi quando fu candidato alla presidenza del Municipio Roma I per La Destra: «Action ha fatto eleggere in Campidoglio un campione dell’occupazione abusiva, Andrea Alzetta, detto Tarzan… L’estrema sinistra con il presidente del X Municipio Sandro Medici ha occupato gli alloggi dismessi degli enti pubblici… Andrea Catarci nel XI Municipio ha capitanato l’occupazione dell’ex deposito Atac sull’Appia Nuova». Dimenticandosi però di citare quelli ad opera della parte politica opposta, come Casapound che in via Napoleone III non solo ha occupato un intero edificio ma ci ha fatto la sede nazionale del partito. Eppure le case vuote a Roma ci sono. Le andiamo a vedere in via San Giovanni Reatino. Sono bei caseggiati ma quasi tutti vuoti. Tant’è che il Campidoglio è stato costretto a installare degli allarmi anti-intrusione. Da anni si attendono le assegnazioni. “Ho aspettato diciassette anni per avere questa casa, feci domanda nel ’95, avevo tre figli piccoli, ora ho quattro nipoti” ci dice una delle poche residenti. Nella scala dove abita ci sono dodici appartamenti, la metà è vuota. Ha la figlia nei cosiddetti residence, ossia i centri per l’assistenza alloggiativa temporanea. “Sono undici anni che mia figlia sta lì e non si sa che fine farà”, si sfoga la signora. E ha ragione, perché sono veri e propri tuguri. Tant’è che la settimana scorsa il commissario Francesco Paolo Tronca ha disposto la chiusura di sette centri su ventisei. “Il Comune ha sostituito i residence con i bonus casa. Nella sostanza è una buona idea ma nella pratica è fallimentare perché i proprietari dovrebbero essere pagati non dall’inquilino ma dal Comune. Nessuno si fida della pubblica amministrazione, ritengono che sia un cattivo pagatore e per questo non danno in fitto le case” chiosano dall’Unione Inquilini. Il sindacato di base Asia Usb, invece, stima che ogni anno si liberano dai 1000 ai 1300 alloggi che però non vengono riassegnati, motivo per il quale le graduatorie non avanzano. Nel 2014 la Regione stanziò 192 milioni di euro per reperire abitazioni libere ma, secondo il prefetto Gabrielli “ci furono divergenze tra gli uffici regionali e comunali sul come darvi attuazione”. Intanto i più disperati occupano qualunque cosa. Andiamo in via Tor de’ Schiavi. Ci accoglie Roudi, un etiope che parla benissimo l’italiano. Ci porta a vedere quello che era uno spogliatoio per gli operai dell’Acea (società per le forniture di acqua, luce e gas). Era in disuso da quasi dieci anni. “Quando entrammo la prima volta c’era l’erba talmente alta che non si vedeva niente”. Sono tutti stranieri: badanti, muratori, agricoltori. Tutti lavorano in nero. I tetti sono in amianto. Le pareti in cartongesso. Le stanze talmente piccole che fatichiamo a entrare con la telecamera. Per ottimizzare gli spazi hanno creato dei soppalchi con materiali di fortuna. Ci vivono intere famiglie, anche di sette persone. Tra loro incontriamo un rifugiato dalla Colombia: “Avevo una casa in campagna. I guerriglieri me l’hanno incendiata e sono scappato”. Ci mostra la stanza da letto, la divide con la compagna. Si deve salire su una scala in legno su un soppalco malfermo. Non si riesce a stare in piedi tanto è basso, non ci sono finestre o bocche d’aria. Lui è sorridente. “Non potrei chiedere di meglio, non mi manca niente, ho un posto dove mettere la testa e dormire”.

Case occupate, i numeri del fenomeno in Italia. Non solo Roma. Nel Paese ci sono 48 mila alloggi detenuti illegalmente. Specialmente da extracomunitari. A Milano ne viene preso uno ogni due giorni. Racket, danno economico, rischio per i privati: i dati, scrive Carlo Terzano su Lettera 43 il 25 agosto 2017. Il giorno dopo la guerriglia urbana di Roma, rimangono a terra i segni degli scontri tra gli occupanti e la polizia. Sull'asfalto e nelle aiuole giacciono gli stracci con i quali i disperati avevano provato a costruire delle tende di fortuna, le assi di legno brandite per difendersi dalle cariche, resti di cibo. Sembra una periferia degradata, invece è piazza Indipendenza, a 300 metri dalla centralissima stazione Termini e ad altrettanti dal ministero dell'Economia. E mentre ci si indigna per le frasi pronunciate da un agente, ci si chiede quanti altri palazzi di via Curtatone esistano in tutta Italia, quante altre battaglie per la casa saranno inscenate in autunno, quanti altri feriti finiranno in ospedale.

L'ex sede romana di Federconsorzi e Ispra di via Curtatone era occupata dal 2013. Il piano per lo sgombero è scattato sabato 19 agosto 2017, a stretto giro dagli attentati di giovedì 17 a Barcellona e Cambrils. Il prefetto della capitale, Paola Basilone, la definisce «operazione di cleaning», ma resta il dubbio che i fatti spagnoli abbiano spinto le autorità romane ad agire quasi di impulso, senza prima predisporre altre strutture di accoglienza e rischiando che l'intera azione di polizia si risolvesse in quei tafferugli ripresi dalle telecamere. Nell'enorme palazzo grigio, in una situazione di assoluto degrado, vivevano 800 persone (dimezzate nelle ultime settimane, ma 40 di loro dovrebbero trovare una nuova sistemazione), quasi tutte eritree e somale. La situazione andava avanti da così tanto tempo che molti si erano iscritti alle Asl e i bambini dello stabile frequentavano normalmente la scuola del quartiere. Perché l'ordine di sgombero è arrivato all'improvviso? Perché, di colpo, si è avvertita l'urgenza di ripristinare la legalità? Se le autorità temono che in posti simili possa annidarsi il germe jihadista, quanti altri palazzi di via Curtatone esistono in tutta Italia?

Per l'ex sindaco Gianni Alemanno «a Roma c'è una situazione insostenibile, una bomba sociale che rischia di esplodere in qualsiasi momento: ci sono troppi immigrati che nessuno sa dove mettere e che stanno diventando sempre più incontrollabili e aggressivi». Il prefetto oggi minimizza, ma ammette dalle pagine del Corriere che nella capitale ci sono altri 15 palazzi da sgomberare con altrettanta urgenza (parla infatti di una «top list 15») su di un totale di 100, nella medesima situazione. Gli occupanti, per la prefettura, sarebbero 4 mila. Il prefetto chiosa: «Mi fa una certa impressione [parlare di numeri tanto grandi, ndr] perché quando ero a Torino di palazzi occupati ce n'era uno solo». In realtà la situazione è cambiata anche a Torino. E la sensazione è che ora i prefetti delle più grandi città italiane lottino contro il tempo per evitare che interi quartieri diventino territori di nessuno, in cui possano germinare l'odio per la società occidentale o addirittura il jihad, come è accaduto nelle banlieue parigine. Pare impossibile, eppure non esiste un “catasto delle abitazioni occupate”. Molte infatti appartengono all'edilizia pubblica, una minima parte sono invece di privati, e questo ha reso più difficile censirle. Ci si deve affidare ai singoli dati nelle mani dei vari enti. Nel 2016 Federcasa, in collaborazione con Vpsitex e Nomisma, ha promosso un’analisi sul tema delle occupazioni abusive delle case popolari in Italia: gli alloggi dell'Erp (Edilizia residenziale pubblica) occupati sono circa 48 mila, su di un totale di oltre 750 mila. Il 6,4% delle abitazioni gestite dagli Enti associati a Federcasa. Di queste 48 mila, 40 mila (l'81%) sarebbero state occupate con la forza, mentre 9 mila sarebbero detenute da soggetti cui è venuto meno il titolo (scadenza del contratto).

Secondo i dati, il fenomeno è progressivamente aumentato negli ultimi anni: +20,9% tra il 2004 e il 2013. Le aree maggiormente interessate sono il Mezzogiorno (53,4%) e il Centro Italia (36,5%).

Dopo l'emergenza del 2014, sembrava terminato il periodo degli sgomberi a Milano. Invece le occupazioni hanno ripreso ad aumentare. Secondo i dati di giugno, sono circa 3.500 gli appartamenti detenuti in modo illegale, su di un totale di 38 mila che fanno capo ad Aler. L'emergenza si è spostata dal quartiere Giambellino – che resta, assieme a Corvetto e Lorenteggio, uno dei fronti caldi - a San Siro. Una omologa milanese della palazzina romana di via Curtatone si trova in via Civitali, a due passi dallo Stadio Meazza. Aler denuncia che è occupata quasi per intero da egiziani: una coincidenza un po' strana per non destare qualche sospetto, che rivela il tam tam tra le varie comunità, soprattutto nordafricane, che avviene quando si individua un possibile alloggio. Il danno economico è enorme: la sola morosità (ammontare degli affitti non pagati) nel quartiere di San Siro supera i 14 milioni di euro. A fine 2015 gli immobili occupati erano 3.010; a fine 2016 3.263: questo vuol dire che a Milano l'occupazione selvaggia procede al ritmo di oltre un appartamento ogni due giorni. Il 5 giugno 2017, durante una commissione consiliare congiunta Casa e Periferie, il presidente di Aler, Angelo Sala, ha spiegato: «Ad agire sono bande criminali, agenzie immobiliari gestite dal racket che fanno arrivare gente dall'estero perché a Milano troveranno la casa». Rispetto a qualche anno fa, si è infatti invertita la tendenza: «Oggi non c'è più l'occupazione d'urgenza dell'italiano, ma è un'occupazione degli immigrati, e difatti le richieste regolari per entrare in graduatoria da parte degli stranieri diminuiscono».

A Torino, dopo gli sgomberi dell'ex quartiere operaio Falchera, resta aperta la questione dell'ex villaggio olimpico, che versa in una situazione di totale abbandono ed è occupato da circa un migliaio di persone. Le quattro palazzine, che un tempo ospitavano atleti di tutto il mondo, sono detenute da 4 anni da extracomunitari, molti dei quali in Italia regolarmente.

Nel 2017 sono state attaccate da un gruppo di ultras. Per evitare ciò che è successo a Roma, prima di procedere con lo sgombero, l’amministrazione ha scelto la via dell'integrazione: contratti di lavoro nei cantieri navali di Fincantieri in Liguria, Veneto e Friuli per chi collaborerà. Molti hanno già aderito e stanno lavorando.

Visti i numeri, sarebbe sbagliato credere che chi occupa lo faccia con le sue sole forze e gratuitamente. Negli anni si è infatti sviluppato un racket che fornisce un servizio completo: forzare le porte, montare nuove serrature e provvedere agli allacci abusivi nel caso vengano disattivate le utenze. Si fanno chiamare “mediatori” e, come gli enti per l'edilizia popolare, stilano una lista di possibili inquilini. Come per gli enti che operano alla luce del sole, danno la precedenza ai più bisognosi: extracomunitari, famiglie con bambini o anziani disabili. Non per carità cristiana, ma perché si tratta di soggetti più facilmente ricattabili e le loro condizioni sono utili a rallentare la giustizia civile.

Il racket delle occupazioni non si ferma davanti a niente e da tempo ha preso di mira anche gli alloggi dei privati. Come difendersi dunque da una occupazione abusiva? A rispondere è l'avvocato Andrea Brunelli, del Foro di Genova: «Se al ritorno dalle ferie trovate la vostra abitazione occupata da sconosciuti è sconsigliabile risolvere la questione con la forza. Il rischio è una denuncia per esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle cose (art. 392 c.p.) o sulle persone (art. 393)». Quindi come comportarsi? «La strada maestra è quella di azionare un giudizio civile, chiedendo al giudice di tutelare il nostro “possesso” dell’immobile occupato con un’azione possessoria, più rapida della causa civile ordinaria. Il magistrato valuterà se l’immobile è nel legittimo possesso del ricorrente e ordinerà agli abusivi di lasciare l’edificio, disponendo l’uso della forza pubblica per procedere allo sgombero». Quanto tempo occorre prima di rientrare in possesso dell'immobile? «Purtroppo le tempistiche, che variano da tribunale a tribunale a seconda del carico di lavoro da smaltire, e i costi - che verosimilmente rimarranno in capo a chi ha ragione, in quanto l’abusivo difficilmente avrà beni aggredibili - fanno sembrare tutto questo procedimento come una “beffa” per il danneggiato. Si può allora aggiungere anche una denuncia penale per “invasione di terreni o edifici” (art. 633 c.p.) e cercare almeno la soddisfazione, quasi esclusivamente di principio, di veder condannato penalmente l’abusivo».

Case popolari solo a stranieri? Magari non è proprio così ma basta farsi un giro in certe zone per rendersi conto che la realtà sembra sempre di più penalizzare gli italiani. Il record delle case popolari. Una su due va agli stranieri. Ecco le graduatorie per avere accesso agli alloggi di edilizia residenziale. Più del 50% delle domande vengono da immigrati. E i milanesi aspettano, scrive Chiara Campo su “Il Giornale”. Ci sono Aba Hassan, Abad, Abadir. Ventisette cognomi su ventisette solo nella prima pagina (e almeno 17 idonei). Ma scorrendo il malloppo delle 1.094 pagine che in ordine alfabetico formano le graduatorie per accedere alle case popolari del Comune, almeno il 50% dei partecipanti è di provenienza straniera. Basta leggere i primi dieci fogli per avere l'impressione che, tra gli Abderrahman e gli Abebe, gli italiani siano dei «panda» in estinzione. Le graduatorie pubblicate da Palazzo Marino si riferiscono al bando aperto fino a fine giugno 2013 a chi ha bisogno di appartamenti di edilizia residenziale. Chi entra nell'elenco non ha automaticamente la casa perché la lista d'attesa è lunga, ma tra i criteri per avanzare in classifica ci sono ovviamente reddito (basso) e numero di figli (alto). Le proteste dei leghisti sono note: «Gli immigrati lavorano in nero e fanno tanti figli». Nel 2012 (sono dati del Sicet) su 1190 assegnazioni nel capoluogo lombardo 495, quasi la metà 455, sono state a favore di immigrati. A vedere gli elenchi l'impressione è che la percentuale possa alzarsi ancora, a scapito di tante famiglie milanesi che probabilmente versano tasse da più tempo e nella crisi avrebbero altrettanto bisogno di una casa a basso costo. «Sono per l'integrazione - commenta Silvia Sardone, consigliera Pdl della Zona 2 - ma questa non si può realizzare con una potenziale discriminazione per gli italiani. Probabilmente il sistema di costruzione delle graduatorie ha bisogno di essere reso più equo». Ci tiene a sottolineare: «Non sono razzista, non lo sono mai stata e non lo sarò. Non sono nemmeno perbenista né figlia di un buonismo di sinistra cieco della realtà. Ho molto amici italiani con cognomi stranieri, hanno un lavoro ed un mutuo sulla casa». Ma «nella prime pagine degli elenchi in ordine alfabetico si fa fatica a trovare un cognome italiano e complessivamente sono tantissimi i cognomi stranieri. Indipendentemente da chi ha studiato i criteri di partecipazione e assegnazione e di quando siano stati creati penso che oggi, nel 2013, debbano essere rivisti. Perché sono stanca di pagare delle tasse per servizi che spesso godono gli altri». Anche il capogruppo milanese della Lega torna a chiedere agli enti (Regione per prima) di rivedere i criteri di accesso, alzando ad esempio i 5 anni d residenza minima: «Serve una norma che difenda la nostra gente da chi, si dice, porta ricchezza, ma invece rappresenta un costo».

Laddove l’alloggio non viene assegnato, si occupa (si ruba) con il beneplacito delle Istituzioni.

Quando si parla di case occupate abusivamente o illegalmente, in genere la mente è portata a collegare tale fenomeno a quello dei centri sociali, scrive “Mole 24”. Un tema che di per sé sarebbe da approfondire, perché esistono centri sociali occupati da autonomi, altri da anarchici, altri ancora dai cosiddetti “squatter”, termine che deriva dall’inglese “to squat”, che non è solo un esercizio per rassodare i glutei ma significa anche per l’appunto “occupare abusivamente”. Ma l’occupazione abusiva delle case è in realtà un fenomeno assai nascosto e taciuto, praticamente sommerso. Un’anomalia che pochi conoscono, ancor meno denunciano o rivelano, essenzialmente perché non si sa come risolvere. Le leggi ci sono, o forse no, e se anche esistono pare proprio che le sentenze più attuali siano maggiormente orientate a tutelare gli interessi dell’occupante abusivo piuttosto che quelli del proprietario che reclama i suoi diritti da “esautorato”, sia che si parli del Comune in senso lato sia che si parli di un qualsiasi fruitore di case popolari che si ritrova il suo alloggio occupato da “ospiti” che hanno deciso di prenderne il possesso. Il fenomeno si riduce spesso ad essere una guerra tra poveri. Parliamo, per fare un esempio non così lontano dalla realtà, di un anziano pensionato costretto ad essere ricoverato in ospedale per giorni, settimane o anche mesi: ebbene, questo anziano signore, qualora fosse residente in un alloggio popolare, una volta dimesso potrebbe rischiare di tornare a casa e non riuscire più ad aprire la porta d’ingresso. Serratura cambiata, e l’amara sorpresa che nel frattempo alcuni sconosciuti hanno preso possesso dell’abitazione. Un problema risolvibile? Non così tanto. Anzi, potrebbe essere l’inizio di un lungo iter giudiziario, e se il nuovo o i nuovi occupanti, siano essi studenti cacciati di casa, extracomunitari, disoccupati o famiglie indigenti, dimostrano di essere alle prese con una situazione economica insostenibile o di non aver mai potuto accedere a bandi di assegnazione alle case popolari per vari motivi (ad esempio: non ne sono stati fatti per lunghi periodi), l’anziano in questione potrebbe rischiare di sudare le proverbiali sette camicie. Trattandosi di case popolari, la proprietà non è di nessuno ma del Comune. Questo vuol dire che quando qualcuno non è presente, fra gli altri bisognosi scatta una vera e propria corsa a chi arraffa la casa. Ci sarebbero sì le graduatorie per assegnare gli immobili, ma non mai vengono rispettate. Nel sud, affidarsi alla criminalità organizzata, pagando il dovuto, è il metodo più sicuro per assicurarsi una casa popolare. Chi pensa che questo sia un fenomeno di nicchia, si sbaglia di grosso. Le cifre infatti sono clamorose, anche se difficilmente reperibili. L’indagine più recente e affidabile da questo punto di vista è stata realizzata da Dexia Crediop per Federcasa sul Social Housing 2008. E parla di ben 40.000 case popolari occupate abusivamente in tutto lo Stivale, che se venissero assegnate a chi ne ha diritto permetterebbero a circa 100.000 persone di uscire da uno stato di emergenza.

L’onestà non paga. Ti serve una casa? Sfonda la porta e occupa, scrive Arnaldo Capezzuto su “Il Fatto Quotidiano”. L’appartamento di edilizia residenziale è abitato da una famiglia legittima assegnataria del diritto alla casa ottenuto attraverso un regolare quanto raro bando pubblico con relativo posto in graduatoria? Chi se ne fotte. Li cacci a calci in culo. E se non vogliono andare via, aspetti che escano e ti impossessi dell’abitazione. Con calma poi metti i loro mobili, vestiti e effetti personali in strada. Se malauguratamente qualcuno di loro ha la pazza idea di contattare le forze dell’ordine per sporgere denuncia, niente problema: li fai minacciare da qualche “cumpariello” inducendoli a dichiarare che quelle persone sono amici-parenti. Onde evitare però sospetti, con calma fai presentare un certificato di stato di famiglia dove i “signori occupanti” risultano dei conviventi. Il trucco è palese. Non regge l’escamotage dell’appartamento ceduto volontariamente. Certo. Gli investigatori non dormono. Questo è chiaro. Il solerte poliziotto esegue l’accertamento. I nodi alla fine vengo al pettine. La denuncia scatta immediata. La giustizia è lenta ma implacabile. Lo Stato vince. Gli occupanti abusivi in generale ammettono subito che sono abusivi. Quindi? Nei fatti c’è un organismo dello Stato – i verbali delle forze dell’ordine, le lettere di diffida degli enti pubblici gestori degli appartamenti – che certifica che a decorrere dal giorno x, dal mese x, dall’anno x, l’abitazione che era assegnata a tizio, caio e sempronio ora con la violenza e il sopruso è stato occupata da pinco pallino qualsiasi. La malapolitica trasversalmente e consociativamente per puri e bassi calcoli elettoralistici e non solo mascherati da esigenze sociali, di povertà, di coesione sociale e stronzate varie compulsando e piegando le istituzioni si attivano e varano con il classico blitz leggi, norme, regolamenti che vanno a sanare gli abusivi. Chi ha infranto la legge, chi ha prevaricato sul più debole, chi ha strizzato l’occhio al camorrista e al politiconzolo di turno, chi non mai ha presentato una regolare domanda di assegnazione, chi neppure ha i requisiti minimi per ottenere alla luce del sole un’abitazione si ritrova per "legge" un alloggio di proprietà pubblica a canone agevolatissimo. Accade in Campania e dove sennò in Africa?

Martedì 7 maggio 2013 è stato pubblicato sul Burc la nuova sanatoria per chi ha assaltato le case degli enti pubblici. La Regione Campania guidata dal governatore Stefano Caldoro ha varato all’interno della finanziaria regionale un provvedimento che regolarizza e stabilisce che può richiedere l’alloggio chi lo ha occupato prima del 31 dicembre 2010. Si badi bene che lo scorso anno era stato deciso con una legge simile che poteva ottenere la casa chi l’aveva assaltata entro il 2009. L’interrogativo sorge spontaneo: se puntualmente ogni anno varate una sanatoria per gli abusivi ma perché allora pubblicate i bandi di assegnazione con graduatoria se poi le persone oneste sono destinate ad avere sempre la peggio? Misteri regionali. C’è da precisare però che la nuova sanatoria contiene delle norme “innovative” e “rivoluzionarie” a tutela della legalità (non è una battuta!) per evitare che tra gli assegnatari in sanatoria ci siano pregiudicati e che le occupazione siano guidate dalla camorra. A questo punto c’è davvero da ridere. Le norme per entrare in vigore – però – hanno bisogno del “si” degli enti locali. Ecco il Comune di Napoli – ad esempio – ha detto “no”. Non è pragmatismo ma è guardare negli occhi il mostro. A Napoli non è solo malavita ci sono casi davvero di estrema povertà. Ma è facile adoperare, manipolare e nascondersi dietro questi ultimi per far proliferare camorra e fauna circostante. A Napoli i clan hanno sempre gestito le case di edilizia pubblica. Ad esempio a Scampia chi vive nei lotti di edilizia popolare sa bene che la continuità abitativa dipende dalle sorti del clan di riferimento. Chi perde la guerra, infatti, deve lasciare gli appartamenti ai nuovi padroni. Un altro esempio è il rione De Gasperi a Ponticelli. Qui il boss Ciro Sarno – ora fortunatamente dietro le sbarre a scontare diversi ergastoli – decideva le famiglie che potevano abitare negli appartamenti del Comune di Napoli. Una tarantella durata per decenni tanto che il padrino Ciro Sarno era soprannominato in senso dispregiativo ‘o Sindaco proprio per questa sua capacità di disporre di alloggi pubblici. Stesso discorso per le case del rione Traiano a Soccavo, le palazzine di Pianura, i parchi di Casavatore, Melito e Caivano.

Di cosa parliamo? Alle conferenze stampa ci si riempie la bocca con parole come legalità, anticamorra, lotta ai clan. Poi alla prima occasione utile invece di mostrare discontinuità, polso duro, mano ferma si deliberano norme che hanno effetti nefasti: alimentano il mercato della case pubbliche gestite dai soliti professionisti dell’occupazione abusiva borderline con i clan. Circola in Italia una strana idea di legalità, scrive Antonio Polito su “Il Corriere della Sera”. I suoi cultori chiedono alle Procure di esercitare il ruolo improprio di «controllori» ma non appena possono premiano l'illegalità, per demagogia o per calcolo elettorale. È il caso di Napoli, città-faro del movimento giustizialista visto che ha eletto sindaco un pm, dove è stata appena approvata, praticamente all'unanimità, la sanatoria degli occupanti abusivi delle case comunali. Nel capoluogo partenopeo si tratta di un fenomeno vastissimo: sono circa 4.500 le domande di condono giunte al Comune per altrettanti alloggi. Per ogni famiglia che vedrà legalizzato un abuso, una famiglia che avrebbe invece diritto all'abitazione secondo le regole e le graduatorie perderà la casa. Non c'è modo migliore di sancire la legge del più forte, del più illegale; e di invitare altri futuri abusivi a spaccare serrature e scippare alloggi destinati ai bisognosi. Ma nelle particolari condizioni di Napoli la sanatoria non è solo iniqua; è anche un premio alla camorra organizzata. È stato infatti provato da inchieste giornalistiche e giudiziarie che «l'occupazione abusiva di case è per i clan la modalità privilegiata di occupazione del territorio», come ha detto un pubblico ministero. In rioni diventati tristemente famosi, a Secondigliano, Ponticelli, San Giovanni, cacciare con il fuoco e le pistole i legittimi assegnatari per mettere al loro posto gli affiliati o i clientes della famiglia camorristica è il modo per impadronirsi di intere fette della città; sfruttando le strutture architettoniche dell'edilizia popolare per creare veri e propri «fortini», canyon chiusi da cancelli, garitte, telecamere, posti di blocco, praticamente inaccessibili dall'esterno e perfetto nascondiglio per latitanti, armi e droga. Non che tutto questo non lo sappia il sindaco de Magistris, che a Napoli ha fatto il procuratore. E infatti ha evitato di assumersi in prima persona la responsabilità di questa scelta. L'ha però lasciata fare al consiglio comunale, Pd e Pdl in testa, difendendola poi con il solito eufemismo politico: «Non è una sanatoria. Io la chiamerei delibera sul diritto alla casa». E in effetti è una delibera che riconosce il diritto alla casa a chi già ce l'ha, avendola occupata con la forza o l'astuzia.

E gli alloggi di proprietà?

Le Iene, 1 ottobre 2013: case occupate abusivamente.

23.40. L’associazione Action organizza occupazioni di case: prima erano per lo più extracomunitari, ora sempre più spesso esponenti del ceto medio che non riesce più a pagare il mutuo e viene sfrattata. Occupano così case vuote o sfitte. O, peggio, entrano in case abitate, cambiano la serratura e addio (un incubo per molti). Una signora, però, ha rioccupato la casa da cui è stata sfrattata.

23.48. Si racconta la storia di una ragazza non ancora trentenne, fiorista, che ha occupato una casa comprata da una famiglia, che ha acceso un mutuo e che ora si trova con un immobile svalutato e un ambiente ben diverso da quello residenziale che avevano scelto per far crescere i propri figli. “Si è scatenata una guerra tra poveri” dice una signora che vive qui ‘legalmente’, che va a lavorare tutti i giorni per pagare un mutuo per una casa che non rivenderà mai allo stesso prezzo. E’ truffata anche lei.

L’occupazione abusiva degli immobili altrui e la tutela delle vittime.

In sede civile, scrive Alessio Anceschi, chi si veda abusivamente privato del proprio immobile può certamente adire l’autorità giudiziaria al fine di rientrare nella disponibilità di esso da coloro che lo hanno illegittimamente occupato. In tal senso, potrà proporre l’azione di rivendicazione (art. 948 c.c.), oppure, entro i termini previsti dalla legge, l’azione di reintegrazione (art. 1168 c.c.). Il legittimo proprietario o possessore dell’immobile potrà anche agire al fine di ottenere il risarcimento dei danni sofferti, i quali si prestano ad essere molto ingenti, sia sotto il profilo patrimoniale, che esistenziale. In tutti i casi, tuttavia, in considerazione della lunghezza del procedimento civile e soprattutto del procedimento di esecuzione, il legittimo proprietario o possessore dell’immobile si trova concretamente privato della propria abitazione (e di tutti i beni che in essa sono contenuti) e quindi costretto a vivere altrove, da parenti o amici, quando và bene, in ricoveri o per la strada quando và male.

Sotto il profilo penale sono ravvisabili molti reati. Prima di tutti, il reato di invasione di terreni od edifici (art. 633 c.p.), ma anche altri reati contro il patrimonio funzionalmente collegati all’occupazione abusiva, quali il danneggiamento (art. 635 c.p.) ed il furto (artt. 624 e 625 c.p.). Il secondo luogo, colui che occupa abusivamente un immobile altrui commette il reato di violazione di domicilio (art. 614 c.p.). Anche in questo caso, tuttavia, la tutela postuma che consegue alla sentenza non si presta a tutelare adeguatamente la vittima. Infatti, il reato di cui all’art. 633 c.p., unica tra le ipotesi citate ad integrare un reato permanente, non consente l’applicazione né di misure precautelari, né di misure cautelari. Lo stesso vale per gli altri reati sopra indicati, soprattutto quando non vi sia stata flagranza di reato. La vittima dovrà quindi attendere l’interminabile protrarsi del procedimento penale ed anche in caso di condanna, non avrà garanzie sulla reintegrazione del proprio bene immobile, posto che l’esiguità delle pene previste per i reati indicati e le mille vie d’uscita che offre il sistema penale, si presta a beffare nuovamente la povera vittima, anche laddove si sia costituita parte civile. Laddove poi l’abusivo trascini nell’immobile occupato la propria famiglia, con prole minorenne, le possibilità di vedersi restituire la propria abitazione scendono drasticamente, in virtù dei vari meccanismi presenti tanto sotto il profilo civilistico, quanto di quello penalistico.

La mancanza di tutela per la vittima è evidente in tutta la sua ingiustizia. Essa diventa ancora più oltraggiosa quando le vittime sono i soggetti deboli, soprattutto, come accade spesso, gli anziani. Che fare? Nell’attesa che ciò si compia, ove si ritenga che il nostro “Sistema Giudiziario” sembri tutelare solo i criminali, può osservarsi che esso può tutelare anche le vittime, laddove siano costrette a convertirsi, per “necessità” di sopravvivenza e per autotutela. In effetti, occorre osservare che, il nostro ordinamento penale, che di recente ha anche ampliato la portata applicativa della scriminante della legittima difesa nelle ipotesi di violazione di domicilio (art. 52 c.p., come mod. l. 13.2.2006 n. 59), non consente che una persona ultrasettantenne possa subire una misura custodiale in carcere (artt. 275 co. 4° c.p.p. e 47 ter, l. 354/1975). Conseguentemente, solamente laddove l’anziano ultrasettantenne, spinto dall’amarezza, trovasse il coraggio di commettere omicidio nei confronti di tutti coloro che, senza scrupoli, lo abbiano indebitamente spogliato della propria abitazione, potrebbe rientrare immediatamente nel possesso della propria abitazione, con la sicurezza che, il nostro sistema giudiziario, gli garantirebbe una doverosa permanenza in essa attraverso gli arresti o la detenzione domiciliare. Contraddizioni di questa nostra Italia !!!

"Esci di casa e te la occupano… e alla Cassazione va bene così" ha titolato un quotidiano commentando una sentenza della Cassazione che avrebbe di fatto legittimato l'occupazione abusiva degli alloggi. L'articolo riportava le affermazioni di un sedicente funzionario dell'ex Istituto autonomo case popolari (Iacp) che consigliava all'assegnatario di un alloggio di mettere una porta blindata perché "Se sua mamma e suo papa vanno in ferie un paio di settimane, poi arrivano degli abusivi, quelli sfondano, mettono fuori i mobili, ci mettono i loro, e nessuno ha il potere di sgomberarli… Non ci si crede, ma è così". Ed infatti non bisogna credergli… Non è così, scrive “Sicurezza Pubblica”. Gli ipotetici abusivi di cui sopra commettono il reato di violazione di domicilio, e la polizia giudiziaria deve intervenire d'iniziativa per "impedire che venga portato a conseguenze ulteriori" (art. 55 cpp) allontanando (anche con la forza) i colpevoli dai locali occupati contro la legge. Il secondo comma dell'art. 614 cp commina (cioè minaccia) la pena della reclusione fino a tre anni a chiunque si trattenga nell'abitazione altrui o in un altro luogo di privata dimora, o nelle appartenenze di essi, contro la volontà espressa di chi ha il diritto di escluderlo, ovvero vi si trattiene clandestinamente o con inganno. La pena è da uno a cinque anni (arresto facoltativo, dunque) e si procede d'ufficio se il fatto è commesso con violenza sulle cose o alle persone, o se il colpevole è palesemente armato. Il reato è permanente. Perciò possiamo andare tranquillamente in ferie perché se qualcuno viola il nostro domicilio forzando la porta o una finestra, la polizia giudiziaria è obbligata a liberare l'alloggio ed il colpevole può essere arrestato. Quali potrebbero essere le responsabilità della polizia giudiziaria, che eventualmente omettesse o ritardasse l'intervento? Secondo l'art. 55 c.p.p. la p.g. deve (obbligo giuridico) impedire che i reati vengano portati a ulteriori conseguenze, mentre secondo l'art, 40 comma 2 del c.p.: "Non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo". Perciò le ulteriori conseguenze dell'occupazione potrebbero essere addebitate ai responsabili del ritardo o dell'omissione.

Cosa ha veramente la Cassazione?

L'equivoco è nato dalla errata lettura della sentenza 27 giugno - 26 settembre2007, n. 35580, in cui la suprema Corte ha trattato il caso di una persona che, denunciata per aver occupato abusivamente un alloggio ex Iacp vuoto, aveva invocato l'esimente dello stato di necessità previsto dall'art. 54 cp, ma era stata condannata. La Corte non ha affatto legittimato il reato, ma si è limitata ad annullare la sentenza d'appello con rinvio ad altro giudice, ritenendo che fosse stata omessa la dovuta indagine per verificare se l'esimente stessa sussistesse o meno. Nulla di rivoluzionario dunque, ma applicazione di un principio: quando il giudice ravvisa l'art. 54 cp, il reato sussiste, ma "non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona". In quest'ottica, giova rammentare la sentenza 9265 del 9 marzo 2012, che ha definitivamente fatto chiarezza (qualora ce ne fosse stato bisogno). La Cassazione ha respinto il ricorso di una 43enne contro la sentenza del giudice di merito che aveva ritenuto la donna colpevole del reato di cui agli articoli 633 e 639 bis Cp per avere abusivamente occupato un immobile di proprietà dello Iacp di Palermo. La seconda sezione penale, confermando la condanna, ha escluso lo stato di necessità precisando che in base all’articolo 54 Cp per configurare questa esimente (la cui prova spetta all’imputato che la invoca), occorre che «nel momento in cui l’agente agisce contra ius - al fine di evitare un danno grave alla persona - il pericolo deve essere imminente e, quindi, individuato e circoscritto nel tempo e nello spazio. L’attualità del pericolo esclude quindi tutte quelle situazioni di pericolo non contingenti caratterizzate da una sorta di cronicità essendo datate e destinate a protrarsi nel tempo». Nell' ipotesi dell’occupazione di beni altrui, lo stato di necessità può essere invocato soltanto per un pericolo attuale e transitorio non certo per sopperire alla necessità di risolvere la propria esigenza abitativa, tanto più che gli alloggi Iacp sono proprio destinati a risolvere esigenze abitative di non abbienti, attraverso procedure pubbliche e regolamentate. In sintesi: una precaria e ipotetica condizione di salute non può legittimare, ai sensi dell’articolo 54 Cp, un’occupazione permanente di un immobile per risolvere, in realtà, in modo surrettizio, un’esigenza abitativa.

Sequestro preventivo dell'immobile occupato abusivamente.

La sussistenza di eventuali cause di giustificazione non esclude l'applicabilità della misura cautelare reale del sequestro preventivo. D'altronde la libera disponibilità dell'immobile comporterebbe un aggravamento o una protrazione delle conseguenze del reato, che il sequestro preventivo mira invece a congelare. (Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza n. 7722/12; depositata il 28 febbraio). Il caso. Due indagati del reato di invasione e occupazione di un edificio di proprietà dell'Istituto Autonomo Case Popolari ricorrevano per cassazione avverso l'ordinanza del Tribunale del Riesame di Lecce, che confermava il sequestro preventivo dell'immobile disposto dal GIP. A sostegno della loro tesi difensiva, gli indagati introducevano un elemento afferente il merito della responsabilità penale, sostenendo come fosse documentato lo stato di assoluta indigenza in cui versavano, tale da averli costretti ad occupare l'immobile per la necessità di evitare un danno maggiore alla loro esistenza e salute. In sostanza, invocavano lo stato di necessità che, secondo la tesi difensiva, avrebbe non solo giustificato l'occupazione, ma che avrebbe potuto determinare una revoca del provvedimento cautelare disposto…non opera per le misure cautelari reali. La Suprema Corte esamina la censura, ma la rigetta perché, nel silenzio della legge, non può applicarsi la regola - prevista dall'art. 273 comma 2 c.p.p. per le sole misure cautelari personali - che stabilisce che nessuna misura (personale) può essere disposta quando il fatto è compiuto in presenza di una causa di giustificazione, quale appunto l'invocato stato di necessità. L'ordinanza impugnata ha chiarito che i due indagati hanno abusivamente occupato un alloggio già assegnato ad altra persona, poi deceduta, e ha correttamente rilevato che è del tutto irrilevante la circostanza che nel lontano 1983 il B. sia stato assegnatario di un altro alloggio del cui possesso sarebbe stato spogliato. Se queste sono le circostanze di fatto non è ravvisabile alcuna violazione di legge, ma solo una diversa valutazione dei fatti stessi non consentita in questa sede di legittimità, per di più con riferimento a misure cautelari reali (art. 325, comma 1, c.p.p.). Per quanto concerne la sussistenza della dedotta causa di giustificazione, se è vero che, in tema di misure cautelari personali, ai sensi dall'art. 273, comma 2, cod. proc. pen., nessuna misura può essere applicata se risulta che il fatto è stato compiuto in presenza di una causa di giustificazione, l'applicabilità di una analoga normativa con riferimento alle misure cautelari reali, in assenza di espressa previsione di legge, deve tenere conto dei limiti imposti al Tribunale in sede di riesame, nel senso che la verifica delle condizioni di legittimità della misura cautelare reale da parte del tribunale del riesame non può tradursi in anticipata decisione della questione di merito concernente la responsabilità della persona sottoposta ad indagini in ordine al reato oggetto di investigazione, ma deve limitarsi al controllo di compatibilità tra la fattispecie concreta e quella legale (per tutte: Sez. U, n. 7 del 23/02/2000, Bocedi, Rv. 215840). È evidente, pertanto, che una causa di giustificazione può rilevare nell'ambito del procedimento relativo a misure cautelari reali solo se la sua sussistenza possa affermarsi con un ragionevole grado di certezza. Anche sulla sussistenza del periculum in mora l'ordinanza impugnata, espressamente pronunciandosi sul punto, afferma che la libera disponibilità da parte degli indagati dell'immobile in questione comporterebbe un aggravamento o una protrazione delle conseguenze del reato commesso. Al rigetto del ricorso consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Condotta e dolo specifico.

L'articolo 633 cp stabilisce che "Chiunque invade arbitrariamente terreni o edifici altrui, pubblici o privati, al fine di occuparli o trame altrimenti profitto è punito a querela della persona offesa, con la reclusione fino a due anni o con la multa. Si procede d'ufficio se il fatto è commesso da più di cinque persone, di cui una almeno palesemente armata, o da più di dieci persone anche senz'armi". Si procede altresì d'ufficio (art. 638 bis c.p.) se si tratta di acque, terreni, fondi o edifici pubblici o destinati ad uso pubblico. Perché sussista il reato, occorre che l'agente penetri dall'esterno nell'immobile (anche senza violenza) e ne violi l'esclusività della proprietà o del possesso per una apprezzabile durata, contro la volontà del titolare del diritto o senza che la legge autorizzi tale condotta. Questo reato non consiste nel semplice fatto di invadere edifici o terreni altrui, ma richiede il dolo specifico, cioè la coscienza e volontà di invaderli al fine di occuparli o trame altrimenti profitto. Non occorre neppure l'intenzione dell'occupazione definitiva, anche se essa deve avere una durata apprezzabile. In caso di immobile già invaso, è possibile il concorso successivo di persone diverse dai primi autori dell'invasione (Cass. pen., Sez. Il, sent. 22 maggio 1975, n. 5459). Quanto al reato di violazione di domicilio, previsto dall'art. 614 del C.P., esso è ravvisabile anche "nella condotta di abusiva introduzione (o abusiva permanenza) nei locali di una guardia medica fuori dell'orario ordinario di apertura al pubblico per l'assistenza sanitaria. Infatti, se nell'orario ordinario di servizio la guardia medica è aperta al pubblico, nell'orario notturno l'acceso è limitato a quelli che hanno necessità di assistenza medica e che quindi sono ammessi all'interno dei locali della stessa. Pertanto in questo particolare contesto l'ambiente della guardia medica costituisce un'area riservata che può assimilarsi a quella di un temporaneo privato domicilio del medico chiamato a permanere lì durante la notte per potersi attivare, ove necessario, per apprestare l'assistenza sanitaria dovuta" (Cass. pen. Sez. III, sent. 6 giugno - 30 agosto 2012, n. 33518, in Guida al diritto n. 39 del 2012, pag. 88).

Flagranza e procedibilità d'ufficio.

Il reato d'invasione di terreno o edifici ha natura permanente e cessa soltanto con l'allontanamento del soggetto dall'edificio, o con la sentenza di condanna, dato che l'offesa al patrimonio pubblico perdura sino a che continua l'invasione arbitraria dell'immobile. Dopo la pronuncia della sentenza, la protrazione del comportamento illecito da luogo a una nuova ipotesi di reato, che non necessita del requisito dell'invasione, ma si sostanzia nella prosecuzione dell'occupazione (Cass. pen., Sez. Il, sent. 22 dicembre 2003, n. 49169). Nella distinzione tra uso pubblico e uso privato, una recente pronuncia ha affermato che "l'alloggio realizzato dall'Istituto autonomo delle case popolari (lacp), conserva la sua destinazione pubblicistica anche quando ne sia avvenuta la consegna all'assegnatario, cui non abbia ancora fatto seguito il definitivo trasferimento della proprietà. Ne deriva che, in tale situazione, l'eventuale invasione ad opera di terzi dell'alloggio medesimo è perseguibile d'ufficio, ai sensi dell'art. 639 bis cp" (Cass. pen., Sez. Il, 12 novembre 2007, n. 41538). In caso di invasione arbitraria di edifici costruiti da un appaltatore per conto dell'ex lacp e non ancora consegnati all'Istituto, la persona offesa, titolare del diritto di querela è l'appaltatore. Ai fini della procedibilità d'ufficio del reato di cui all'art. 633 c.p., l'uso della disgiuntiva nell'art. 633-bis (edifici pubblici o destinati a uso pubblico) pone il carattere pubblico come di per sè sufficiente a configurare la procedibilità d'ufficio, nel senso che è sufficiente che l'edificio sia di proprietà di un ente pubblico. A tal fine, si devono considerare pubblici, secondo la nozione che il legislatore penale ha mutuato dagli articoli 822 e seguenti del Cc, i beni appartenenti a qualsiasi titolo allo stato o a un ente pubblico, quindi non solo i beni demaniali, ma anche quelli facenti parte del patrimonio disponibile o indisponibile degli enti predetti. Mentre, sempre per la procedibilità d'ufficio, sono da considerare "destinati a uso pubblico" quegli altri beni che, pur in ipo0tesi appartenenti a privati, detta destinazione abbiano concretamente ricevuto (Corte Appello di Palermo, sent. 20-22 giugno 2011, n. 2351 in Guida al diritto n. 46 del 19 novembre 2011).

L'art. 634 c.p. - Turbativa violenta del possesso di cose immobili.

Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo 633 c.p., turba, con violenza alla persona o con minaccia, l'altrui pacifico possesso di cose immobili, è punito con la reclusione fino a due anni e con la multa da euro 103 a euro 309. Il fatto si considera compiuto con violenza o minaccia quando è commesso da più di dieci persone. La maggior parte della dottrina ritiene che l'unica distinzione possibile sia quella che fa perno sull'elemento soggettivo: mentre nell'art. 633 è previsto il dolo specifico, per l'art. 634 è sufficiente il dolo generico. Di conseguenza si dovrà applicare l'art. 634 qualora vi sia un'invasione non qualificata dal fine di occupare i terreno e gli edifici o di trarne altrimenti profitto. Viceversa sussisterà la fattispecie di cui all'art. 633 anche nel caso di invasione violenta finalizzata all'occupazione o al profitto. La turbativa di cui all'art. 634 postula un comportamento minimo più grave della semplice introduzione (art. 637) e meno grave dell'invasione (art. 633). La nozione di turbativa deve intendersi come una non pregnante compromissione dei poteri del possessore. La semplice violenza sulle cose, che non sia usata per coartare l'altrui volontà, non basta ad integrare il reato. Peraltro il comma 2 dell'art. 634, parifica alla violenza alla persona e alla minaccia, la presenza di un numero di persone (che commettono il fatto) superiore a dieci. Si discute se si tratti di un delitto istantaneo o permanente. Prevale l'opinione che ritiene trattarsi di reato istantaneo, potendo assumere connotazione permanente allorchè la perturbazione richieda l'esperimento di una condotta prolungata nel tempo, sostenuta da costante volontà del soggetto agente (Manzini).

Come agire?

Il delitto di violazione di domicilio è permanente ed ammette l'arresto facoltativo in flagranza (art. 381, lett. f-bis c.p.p.) Anche il delitto di invasione al fine di occupazione (art. 633 c.p.) è permanente: la condotta criminosa perdura per tutto il tempo dell'occupazione e deve essere interrotta dalla polizia giudiziaria, che anche di propria iniziativa deve impedire che i reati vengano portati a ulteriore conseguenze (art. 55 cpp). Non appena i titolari del diritto sull'alloggio danno notizia dell'avvenuta invasione agli organi di pg questi ultimi, se dispongono delle forze necessarie, debbono procedere allo sgombero, senza necessità di attendere il provvedimento dell'Autorità. In ambedue i casi spetta al giudice valutare poi l'esistenza di eventuali esimenti.

Inerente l'occupazione abusiva di un immobile, pare opportuno inserire una breve digressione sulle azioni a tutela dei diritti di godimento e del possesso. Il panorama si presenta alquanto vario; troviamo, infatti, le azioni concesse al solo proprietario, quelle esperibili dal titolare di un diritto di godimento su cosa altrui o dal possessore in quanto tale. Tali azioni vengono qualificate come reali, in quanto offrono tutela per il solo fatto della violazione del diritto.

L'azione di rivendicazione, rientrante fra le azioni petitorie, tende ad ottenere il riconoscimento del diritto del proprietario sul bene e presuppone la mancanza del possesso da parte dello stesso; è imprescrittibile e richiede la dimostrazione del proprio diritto risalendo ad un acquisto a titolo originario.

L'azione negatoria è concessa al proprietario al fine di veder dichiarata l'inesistenza di diritti altrui sulla cosa o la cessazione di turbative o molestie; in questo caso al proprietario si richiede soltanto la prova, anche in via presuntiva, dell'esistenza di un titolo dal quale risulti il suo acquisto.

L'azione di regolamento di confini mira all'accertamento del proprio diritto nel caso in cui siano incerti i confini dello stesso rispetto a quello confinante; in tale ipotesi la prova del confine può essere data in qualsiasi modo. Nell'azione di apposizione di termini, al contrario, ciò che si richiede al Giudice è l'individuazione, tramite indicazioni distintive, dei segni di confine tra due fondi confinanti.

L'azione confessoria è volta a far dichiarare l'esistenza del proprio diritto contro chi ne contesti l'esercizio, e a far cessare gli atti impeditivi al suo svolgimento.

A difesa del possesso incontriamo le categorie delle azioni possessorie e di enunciazione: le prime si distinguono nell'azione di reintegrazione, che mira a far recuperare il bene a chi sia stato violentemente o clandestinamente spogliato del possesso, da proporsi entro un anno dallo spoglio, e l'azione di manutenzione, proposta al fine di far cessare le molestie e le turbative all'esercizio del diritto.

L'azione di manutenzione, al contrario di quella di reintegrazione, ha una funzione conservativa, poiché mira alla cessazione della molestia per conservare integro il possesso, e una funzione preventiva, poiché può essere esperita anche verso il solo pericolo di una molestia. Diversamente dalle azioni a difesa della proprietà, che impongono la prova del diritto, il possessore ha soltanto l'onere di dimostrare il possesso (in quanto questo prescinde dall'effettiva titolarità del diritto). Le azioni di enunciazione, con le quali si tende alla eliminazione di un pericolo proveniente dal fondo vicino, si distinguono nella denunzia di nuova opera e di danno temuto; esse, infatti, vengono qualificate come azioni inibitorie, cautelari, che possono dar luogo a provvedimenti provvisori.

 IL RACKET DEI TURISTI NORDISTI.

La notte del terremoto di Ischia: non volevano pagare il ticket dell’aliscafo, dopo aver dimenticato…di pagare l’albergo! Scrive il 27 agosto 2017 "Il Corriere del Giorno". Un gesto miserabile dei turisti la notte del terremoto di Ischia: oltre 400 mila euro di conti non pagati. Un comportamento al livello di quelli sciacalli che predano le case distrutte dal terremoto approfittando del fuggi fuggi. Mentre si discute dell’abuso edilizio, e mentre si parla delle vittime degli abusi, emerge lo squallore l’abuso nella maestria della truffa. Lo ha reso noto l’Associazione Albergatori di Ischia svelando il comportamento truffaldino di persone che con la scusa dell’emergenza hanno scelto la via della fuga dagli hotels senza pagare il conto. Un gruppo senza dignità di squallide persone hanno fatto i bagagli con la scusante della paura, approfittando della tragedia per evitare di aprire il proprio portafoglio. I racconti giornalistici del giorno dopo della scossa di terremoto sull’ Isola di Ischia, ci avevano riferito dei diecimila turisti in vacanza sull’isola durante il terremoto, che avevano preferito fare un rapido ritorno nelle loro case d’origine, la mattina dopo la scossa sismica. La ragione, scriveva la stampa, ignara, sembrava comprensiva. In molti se ne erano andati annullando la vacanza, facendo in realtà anche danno a se stessi, o almeno così era sembrata. Ma l’associazione albergatori di Ischia ha reso noto che questi “turisti-vigliacchi-truffatori”, se ne sono andati lasciando oltre 400.000 euro di conti non saldati nei loro alberghi e residences turistici ove alloggiavano. Quindi non siamo di fronte ad un caso isolato dunque, non si è trattato di una dimenticanza dettata dalla fretta o dalla paura, ma un comportamento collettivo, quasi un comune intento truffaldino. Con le forze dell’ordine completamente impegnate nei soccorsi e nello sgombero dalle aree maggiormente colpite, e contando anche sull’immancabile clima di confusione generale, per tanti turisti-truffatori l’esodo anticipato di qualche giorno ha fornito l’alibi perfetto per abbandonare senza pagare anche le case prese in fitto per le vacanze di agosto. O quanto meno, senza completare il pagamento, dopo aver versato solo la caparra all’arrivo. Non si sono riuniti per concordare un’azione comune, ma in tanti hanno pensato e fatto la stessa cosa. Si son detti “per fortuna che ci sono le macerie, così non si accorgeranno che me ne vado senza essere scoperto, e soprattutto senza pagare il conto”. Dei veri e propri vigliacchi-truffatori quindi per minimo due motivi: Primo. Si sono comportati come i predoni-avvoltoi che rubano nelle case distrutte dal terremoto approfittano di una condizione necessità per trarne profitto. Secondo. Solo dei miserabili mentre si discute degli abusi edilizi, e mentre si parla delle vittime degli abusi, fanno dell’abuso il loro stile di vita, e manifestando la loro “maestria” nella truffa. La vicenda dei fitti non pagati fa il paio con quella relativa alla pretesa, avanzata sempre l’altra notte dai tanti in fuga dall’isola, di non pagare il biglietto del traghetto, perchè “evacuati dal terremoto” “L’altra notte si sono pure presi a botte sulle banchine pur di trovare un posto sulle navi, e adesso sappiamo perché. Non era il panico per nuove scosse di terremoto, quanto piuttosto la paura di non riuscire a scappare in tempo senza aver pagato il conto” raccontano non senza ironia i poliziotti in servizio presso il Commissariato P.S. di Ischia, dove alla fine qualcuno dei creditori beffati e truffati si è rivolto. La prima furbizia è andata bene. Ma dopo il lauto pranzo gratis, i soliti furbi almeno il caffè sono stati costretti a pagarlo. Le compagnie marittime infatti si sono fatte pagare regolarmente il trasporto e al massimo hanno convertito senza costi di transazione i biglietti prenotati per fine agosto, anticipandoli alla data dell’altra notte. Non è questa certamente la prima volta che villeggianti o clienti d’albergo in vacanza a Ischia, si dileguano prima di aver saldato il conto della vacanza. È sicuramente però la prima volta che i furbetti della vacanza hanno trovato nel terremoto un complice che ne ha avallato la fuga.  Fredda, seppure sconsolata e rabbiosa la considerazione di Ermando Mennella, presidente della Federalberghi delle isole di Ischia e Procida. “La quantificazione non si regge su basi scientifiche, è ovvio, ma su una serie di fattori comunque chiari. Sono cinquemila le persone che hanno lasciato le strutture alberghiere prima della conclusione della vacanza, in seguito alla paura generata dalla scossa. E altrettante sono andate via dalle seconde case, dalle abitazioni di proprietà o da quelle prese in affitto per questo periodo. Poi bisogna aggiungere un migliaio di pendolari della nuotata che non stanno più affollando traghetti e aliscafi secondo lo schema classico del mordi e fuggi”. Un turista, una famiglia di turisti, che se ne vanno dagli alberghi senza pagare il conto, in un’isola come Ischia che vive di turismo, che è stata letteralmente messa in ginocchio da una catastrofe naturale, secondo noi è paragonabile ad una persona che trovandosi sul luogo di un incidente d’auto, vedendo una vittima a terra, ferita, gli si avvicina -, ma non per prestarle soccorso, ma solo con il fine vergognoso di rubarle il portafogli.

Questi sono dei veri e propri miserabili. Ora sono tornati nelle proprie case, staranno contando i soldi risparmiati, ma non sanno che rischiamo di essere inseguiti dalla sfortuna. E’ noto che quello che la vita regala, per un destino fatale, prima o poi la vita toglie…

La meta del turista fai da te che arriva in Salento è il mare, il sole, il vento ma è stantio a metter mano nel portafogli e nell’intelletto. C’è tanta quantità, ma poca qualità. Il turista fai da te che arriva nel Salento è come un profugo in cerca spasmodica di benessere gratuito. Crede nei luoghi comuni e nei pregiudizi, nelle false promesse e nelle rappresentazioni menzognere mediatiche. Con prenotazione diretta last minute, al netto dell’agenzia, prende un appartamento con locazione al ribasso e con pretesa di accesso al mare. Si aggrega in gruppo per pagare ancora meno. Ma a lui sembra ancora tanto. Poi si meraviglia della sguaiatezza di ciò che ha trovato. Tutto l’anno fa la spesa nei centri commerciali e pretende di trovarli a ridosso del mare. Non vuol fare qualche kilometro per andare al centro commerciale più vicino, di cui i paesi limitrofi son pieni, e si lamenta dei prezzi del negozietto stagionale sotto casa. Durante l’anno non ha mai mangiato una pizza al tavolo e quando lo fa in vacanza se ne lamenta del costo. Vero è che il furbetto salentino lo trovi sempre, ma anche in Puglia c’è la legge del mercato: cambia pizzeria per il prezzo giusto. Il turista fai da te tutto l’anno vive in palazzoni anonimi, arriva in Salento e si chiude nel tugurio che ha affittato con poco e poi si lamenta del fatto che in loco non c’è niente, nonostante sia arrivato nel Salento, dove ogni dì è festa di sagre e rappresentazioni storiche e di visite culturali, che lui non ha mai frequentato perché non si sposta da casa sua. Comunque una tintarella a piè di battigia del mare cristallino salentino è già una soddisfazione che non ha prezzo. Il turista fai da te si lamenta del fatto che sta meglio a casa sua (dove si sta peggio per cognizione di causa) e che qui non vuol più tornare, ma, nonostante il piagnisteo, ogni anno te lo ritrovi nella spiaggia libera vicino al tuo ombrellone. Si lamenta della mancanza di infrastrutture. Accuse proferite in riferimento a zone ambientali protette dove è vietato urbanizzare e di cui egli ne gode la bellezza. A casa sua ha lasciato sporcizia e disservizi, ma si lamenta della sporcizia e della mancanza di servizi stagionali sulle spiagge. Intanto, però, tra una battuta e l’altra, butta cicche di sigaretta e cartacce sulla spiaggia e viola ogni norma giuridica e morale. La raccolta differenziata dei rifiuti, poi, non sa cosa sia. Ogni discorso aperto per socializzare si chiude con l’accusa ai meridionali di sperperare i soldi pagati da lui. Lui, ignorante, brutto e cafone, che risulta essere, anche, evasore fiscale. Il turista fai da te lamentoso è come il profugo: viene in Salento e si aspetta osanna, vitto e alloggio gratis di Boldriniana fattura. Ma nel Salento accogliente, rispettoso e tollerante allora sì che trova un bel: Vaffanculo…

Quando il turista malcapitato viene a San Pietro in Bevagna, a Specchiarica o a Torre Colimena dice: “qua non c’è niente e quel poco è abbandonato e pieno di disservizi. Non ci torno più!” Al turista deluso e disincantato gli dico: «Campomarino di Maruggio, Porto Cesareo, Gallipoli, Castro, Otranto, perché sono famosi?» “Per il mare, per le coste, per i servizi e per le strutture ricettive” risponde lui. «Questo perché sono paesi marinari a vocazione turistica. Ci sono pescatori ed imprenditori e gli amministratori sono la loro illuminata espressione» chiarisco io. «E Manduria perché è famosa?» Gli chiedo ancora io. “Per il vino Primitivo!” risponde prontamente lui. Allora gli spiego che, appunto, Manduria è un paesone agricolo a vocazione contadina e da buoni agricoltori, i manduriani, da sempre i 17 km della loro costa non la considerano come una risorsa turistica da sfruttare, (né saprebbero come fare, perché non è nelle loro capacità), ma bensì semplicemente come dei terreni agricoli non coltivati a vigna ed edificati abusivamente, perciò da trascurare e da mungere tributariamente. 

Antonio Giangrande, turismo e risorse ambientali: “Ci vogliono brutti, sporchi e cattivi”. 19 settembre 20016. Dibattito pubblico a Otranto, in Puglia, sul tema: “Prospettive a Mezzogiorno”. Il resoconto del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Nel Salento: sole, mare e vento. Terra di emigrazione e di sotto sviluppo economico e sociale dei giovani locali. Salentini che emigrano per mancanza di lavoro…spesso con un diploma dell’istituto alberghiero. Salentini che perennemente si lamentano della mancanza di infrastrutture per uno sviluppo economico e che reiteratamente protestano per i consueti disservizi sulle coste e sui luoghi di cultura. Salentini con lo stipendio pubblico che si improvvisano ambientalisti affinchè si ritorni all’Era della pietra. Salentini con la sindrome di Nimby: sempre no ad ogni proposta di sviluppo sociale ed economico, sia mai che i giovani alzino la testa a danno delle strutture politiche padronali. Il fenomeno, ben noto, si chiama “Nimby”, iniziali dell’inglese Not In My Backyard (non nel mio cortile), ossia la protesta contro opere di interesse pubblico che si teme possano avere effetti negativi sul territorio in cui vengono costruite. I veti locali e l’immobilismo decisionale ostacolano progetti strategici e sono il primo nemico per lo sviluppo dell’Italia. Le contestazioni promosse dai cittadini sono “cavalcate” (con perfetta par condicio) dalle opposizioni e dagli stessi amministratori locali, impegnati a contenere ogni eventuale perdita di consenso e ad allontanare nel tempo qualsiasi decisione degna di tale nome. La fotografia che emerge è quella di un paese vecchio, conservatore, refrattario ad ogni cambiamento. Che non attrae investimenti perché è ideologicamente contrario al rischio d’impresa. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, è la tendenza allo stallo. Quella che i sociologi definiscono “la tirannia dello status quo”, cioè dello stato di fatto, quasi sempre insoddisfacente e non preferito da nessuno. Salentini che dalla nascita fin alla morte si accompagnano con le stesse facce di amministratori pubblici retrogradi che causano il sottosviluppo e che usano ancora il metro di misura dei loro albori politici: per decenni sempre gli stessi senza soluzione di continuità e di aggiornamento.

Presente al convegno Flavio Briatore, fine conoscitore del tema, boccia il modello turistico italiano, partendo proprio dalla Sardegna del suo Billionaire. Intanto per il caro trasporti: «Hanno un’isola e non lo sanno – dice Briatore alla platea del convegno – pensano che la gente arrivi per caso. La gente arriva o via mare o via aerea: sono due monopoli, per cui fanno i prezzi (che vogliono). Se tu vai da Barcellona a Maiorca, quattro persone sul traghetto spendono 600 euro. Da Genova ad Alghero ne spendono 1600. L’80 per cento degli amministratori – aggiunge ancora Briatore – non ha mai preso un aereo. Come si fa a parlare di turismo senza averlo mai visto?».

Briatore è poi passato alla Puglia, dove nell’estate 2017 aprirà il Twiga Beach di Otranto grazie a una cordata di imprenditori locali ed ha criticato l’offerta turistica del territorio, sottolineando in particolare la mancanza di servizi adeguati alle esigenze dei turisti più facoltosi, sorvolando sulla mancanza di infrastrutture primarie: «Se volete il turismo servono i grandi marchi e non la pensione Mariuccia, non bastano prati, né musei, il turismo di cultura prende una fascia bassa di ospiti, mentre il turismo degli yacht è quello che porta i soldi, perché una barca da 70 metri può spendere fino a 25mila euro al giorno. Masserie e casette, villaggi turistici, hotel a due e tre stelle, tutta roba che va bene per chi vuole spendere poco – ha affermato Briatore – ma non porterà qui chi ha molto denaro. Ci sono persone che spendono 10-20mila euro al giorno quando sono in vacanza, ma a questi turisti non bastano cascine e musei, prati e scogliere – ha continuato l’imprenditore – io so bene come ragiona chi ha molti soldi: vogliono hotel extralusso, porti per i loro yacht e tanto divertimento». Non poteva essere altrimenti: Briatore ha puntato il dito sulle mancanze di infrastrutture a sostegno di quelle strutture turistiche mancanti ad uso e consumo di un’utenza diversificata e non solo mirata ad un turismo di massa che non guarda alla qualità dei servizi ed alla mancanza di infrastrutture. Una semplice analisi di un esperto. Una banalità. Invece…

Sulle affermazioni di Briatore si è scatenato un acceso dibattito, in particolare sui social: centinaia i commenti, quasi tutti contro.

I contro, come prevedibile, sono coloro che sono stati punti nel nerbo, ossia gli amministratori incapaci di dare sviluppo economico e risposte ai ragazzi che emigrano e quei piccoli imprenditori che con dilettantismo muovono un giro di affari di turismo di massa a basso consumo con scarsa qualità di servizio.

L’assessore regionale Sardo Maninchedda: «A parole stupide preferisco non rispondere».

Francesco Caizzi, presidente di Federalberghi Puglia replica alle parole dell’imprenditore: «La Puglia non è Montecarlo, Briatore si rassegni. La Puglia ha hotel che vanno dai 2 stelle ai 5 stelle, dai bed & breakfast agli affittacamere. Sono strutture per tutte le tasche e le esigenze, ma con un unico denominatore comune: rispettano l’identità del luogo. Questo significa che non ci si può aspettare un’autostrada a 4 corsie per raggiungere una masseria. È probabile che si dovrà percorrere un tratto di sterrato, ma nessuno ha mai avuto da ridire su questo. Anzi, fa parte del fascino del luogo».

Loredana Capone, assessore imperituri (governo Vendola per 10 anni e con il Governo Emiliano), che ha concluso da poco un lavoro di diversi mesi sul piano strategico del turismo, ha illustrato il punto di vista di un eterno amministratore pubblico: «Dobbiamo partire da quello che abbiamo per puntare ai mercati internazionali. Come stiamo nei mercati? Prima di tutto evitando qualsiasi rischio di speculazione e abusivismo. È puntando sulla valorizzazione del patrimonio, residenze storiche, masserie, borghi, che saremo in grado di offrire un turismo di qualità, capace di portare ricchezza. Non i grandi alberghi uguali dappertutto, modelli omologati e omologanti. Anche gli investimenti internazionali puntano al recupero più che alla nuove costruzioni».

La visione di Briatore proprio non piace a Sergio Blasi, altro esponente eterno del Pd che si è detto disponibile a concorrere alla primarie del centrosinistra a Lecce: «Briatore punta alla creazione di non-luoghi riservati all’accesso esclusivo di una élite economica ad altissima qualità di spesa, nei quali conta chi sei prima di entrare e non quello che sarai diventato alla fine del tuo viaggio o della tua vacanza. Io la ritengo una prospettiva poco interessante per il Salento. E lo dico da persona che ha criticato fortemente la svolta “di massa” di alcune attrazioni, che a furia di sbandierare numeri sempre più alti finiscono per rovinare più che per valorizzare le opportunità di crescita. Ma esiste un mezzo – ha proseguito nel suo post l’ex segretario regionale del Pd – nel quale collocare un’offerta turistica che sia in grado di valorizzare le potenzialità inespresse, e sono tante, garantendo al contempo una “selezione” non in base al ceto sociale quanto agli interessi e alle aspettative del turista. Noi dobbiamo guardare ad un turismo che apprezza la cultura, anche quella popolare, la natura e il paesaggio. Che apprezza i musei e i centri storici tanto quanto il buon vino e il buon cibo. Che sia in grado di apprezzare e rispettare la terra che visita e di non farci perdere il rispetto per noi stessi».

Per Albano Carrisi: “La Puglia piace così!”

Naturalmente l’Italia degli invidiosi, che odiano la ricchezza, quella ricchezza che forma le opportunità di lavoro per chi poi, senza quell’occasione è costretto ad emigrare, non ha notato la luna, ma ha guardato il dito. Il discorso di Briatore non è passato inosservato sul web dove alcuni utenti classisti, stupidi ed ignoranti hanno manifestato subito il loro disappunto. “Tranquillo Briatore, i parassiti milionari che viaggiano e non pagano non ce li vogliamo in Puglia”, ha commentato un internauta, “Noi vogliamo musei e prati perché vogliamo gente che ami cultura e natura. Gli alberghi di lusso fateli a Dubai”, ha ribattuto un altro.

Ci vogliono brutti, sporchi e cattivi. E’ chiaro che il Salento quello ha come risorsa: sole, mare e vento. E quelle risorse deve sfruttare: in termini di agricoltura, ma anche in termini di turismo, essendo l’approdo del mediterraneo. E’ lapalissiano che le piccole e le grandi realtà turistiche possono coesistere e la Puglia e il Salento possono essere benissimo l’alcova di tutti i ceti sociali e di tutte le esigenze. E se poi le grandi strutture turistiche incentivano opere pubbliche eternamente mancanti a vantaggio del territorio, ben vengano: il doppio binario, strade decenti al posto delle mulattiere, aeroporti, collegamenti ferro-gommati pubblici accettabili per i pendolari ed i turisti, ecc.. Ma il sunto del discorso è questo. Salento: sole, mare e vento. Ossia un luogo di paesini e paesoni agricoli a vocazione contadina con il mito tradizionale della “taranta” e della “pizzica”. E da buoni agricoltori, i salentini, da sempre, la loro costa non la considerano come una risorsa turistica da sfruttare, (né saprebbero come fare, perché non è nelle loro capacità), ma bensì semplicemente come dei terreni agricoli non coltivati a vigna od ulivi ed edificati abusivamente, perciò da trascurare. Ed i contadini poveri ed ignoranti, si sa, son sottomessi al potere dei politicanti masso-mafiosi locali.

Stesso discorso va ampliato in tutto il Sud Italia. Gente meridionale: Terroni e mafiosi agli occhi dei settentrionali, che invidiano chi ha sole, mare e vento, e non si fa niente per smentirli, proprio per mancanza di cultura e prospettive di sviluppo autonomo della gente del sud: frignona, contestataria e nel frattempo refrattaria ad ogni cambiamento e ad una autonoma e propria iniziativa, politica, economica e sociale.

Allora chi è causa del suo mal, pianga se stesso.

ITALIANI. MAFIOSI PER SEMPRE.

Mafia, un brand di successo, scrive il 4 agosto 2017 Attilio Bolzoni su "La Repubblica". E' la parola italiana più conosciuta al mondo. Più di pizza, più di spaghetti. La troviamo in tutti i dizionari e in tutte le enciclopedie di ogni Paese, dal Magreb all'Australia, dall'America Latina al Giappone. Ha la sua etimologia probabilmente nell'espressione araba "maha fat”, che pressappoco vuol dire protezione o immunità. Quando un italiano - e soprattutto un siciliano - va all'estero, la battuta è sempre una, immancabile: «Italia? Mafia. Italiano? Mafioso». E poi giù una risata. Come se l'argomento fosse divertente. La parola mafia non ha sempre avuto lo stesso significato. Un secolo fa rappresentava una cosa, un'altra negli Anni Cinquanta e Sessanta, un'altra ancora dopo le uccisioni di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Ogni epoca ha avuto la sua mafia. Ufficialmente esiste dal 25 aprile del 1865 - quando il termine "Maffia", scritto con due effe, apparve per la prima volta in un rapporto ufficiale inviato dal prefetto Filippo Antonio Gualterio al ministro dell'Interno del tempo - ma ha avuto la sua incubazione almeno un secolo prima. Nel Regno delle Due Sicilie c'erano sette e unioni e "fratellanze" con a capo un possidente, un notabile e spesso anche un arciprete. Fenomeno tipico della Sicilia e delle regioni meridionali - in Campania è camorra e in Calabria 'ndrangheta - secondo i funzionari governativi di quegli anni «era incarnata nei costumi ed ereditata col sangue». Per letterati e studiosi delle tradizioni popolari come Giuseppe Pitrè «il mafioso non è un ladro, non è un assassino ma un uomo coraggioso...e la mafia è la coscienza del proprio essere, l'esagerato concetto della propria forza individuale». Dal 9 settembre del 1982 essere mafioso in Italia è reato. Dal 30 gennaio del 1992 - sentenza della Corte di Cassazione sul maxi processo a Cosa Nostra - la mafia è considerata un'associazione criminale e segreta. Ma nonostante ciò la parola mafia è diventata un "marchio" di qualità, un brand di successo. Nel febbraio del 2014 sono andato in Spagna per realizzare un reportage su una catena di 34 ristoranti che si chiamano "La Mafia se sienta a la mesa", la mafia si siede a tavola.  Ai loro clienti offrono una carta fedeltà e una "zona infantil" riservata ai bambini con speciali menu. Per fortuna la presidente della commissione parlamentare antimafia Rosy Bindi ha portato avanti una battaglia attraverso il ministero degli Esteri e, dopo un paio d'anni, l'Ufficio Marchi e Disegni dell'Unione Europea ha censurato i proprietari della catena di ristoranti spagnoli accogliendo un ricorso dell'Italia «per l'invalidità del marchio». In Austria hanno pubblicizzato un "panino Falcone", nome del giudice grande nemico dei boss ma che «purtroppo sarà grigliato come un salsicciotto». In Sicilia si vendono da sempre gadget inneggianti ai mafiosi, pupi con la lupara, tazze con il profilo del Padrino-Marlon Brando, magliette e adesivi che fanno il verso a Cosa Nostra. In Germania ha grande mercato da qualche anno la musica della mafia, spacciata anche da alcuni miei colleghi tedeschi come «autentica cultura calabrese». Ho ascoltato una canzone "dedicata" all'uccisione del prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa. Comincia così: «Hanno ammazzato il generale/non ha avuto neanche il tempo di pregare...». Oscenità smerciate come tradizione popolare.

MAFIA. CACCIA ALLE STREGHE? NO! CACCIA ALLE ZEBRE...

Se la sinistra giustizialista vuole arrestare anche la Juve. L'Antimafia indaga sulle infiltrazioni delle cosche in curva: «Interroghiamo Agnelli», scrive Stefano Zurlo, Mercoledì 8/02/2017, su "Il Giornale". La zona grigia. Non quella classica, fra società civile e cosche. No, quella più evoluta e sofisticata che separa i grandi club del calcio dalla grande criminalità. Finora, allo Juventus Stadium, si era visto solo il gioco a zona, ma sul terreno. Ora gli occhi vigili dell'Antimafia, e dei suoi corifei della sinistra giustizialista, puntano gli occhi su quel che accade più in alto, fra le tribune e la curva. Terreno, in verità, di scorribande da parte di ceffi poco raccomandabili. Un'informativa della Digos di Torino, anticipata ieri dalla Gazzetta dello sport, tratteggia un quadro inquietante sui pregiudicati, dal curriculum corposissimo, o loro parenti che attraverso gli ultrà e i loro gruppi hanno messo le mani sul business del bagarinaggio. Un'inchiesta, Alto Piemonte, ha svelato le infiltrazioni della 'ndrangheta nel Torinese e addirittura nel tempio del football, ci sono stati 18 arresti e 23 rinvii a giudizio. Il processo è alle porte. E la vicenda si porta dietro anche il giallo di un suicidio, quello di Raffaello Bucci, presunto anello della catena. La Juventus però non è coinvolta, almeno sul piano penale. E i suoi dirigenti non sono indagati, anche se è stranoto che molte società, non solo i campioni d'Italia, nel tempo hanno cercato di gestire il malaffare che albergava sui gradoni proponendo patti non proprio pedagogici ai capi delle tifoserie: pace in cambio di biglietti su cui lucrare. Perfetto. Ma ora l'antimafia militante ascolta i pm titolari del fascicolo, Monica Abbatecola e Paolo Toso, poi invade il campo con dichiarazioni di guerra. Attacca Marco di Lello, appena transitato nel Pd: «Secondo la procura la Juve non è parte lesa e neanche concorre nel reato, dunque c'è una grande zona grigia su cui la commissione ha il dovere di indagare e di proporre soluzioni normative». Insomma, si dà il calcio d'inizio a una nuova partita, con i parlamentari ruota di scorta delle procure, anzi pronti a rilanciare sospetti e accuse spingendosi ben oltre la cornice del codice. Ancora Di Lello: «Per un processo occorrono elementi che i pm non hanno ravvisato. È una valutazione che rispettiamo». E ci mancherebbe. Può darsi che l'abnegazione degli onorevoli impantanati nella zona grigia finisca lì, ma pare di no. Claudio Fava (Sel) che dell'Antimafia è vicepresidente, allarga il raggio della sua inchiesta e sale su, su fino alla vetta: «Appaltare la sicurezza negli stadi a frange di ultrà infiltrati da elementi della criminalità organizzata è cosa irrituale e preoccupante. È grave aver permesso che a gestire il bagarinaggio su biglietti e abbonamenti della Juve fosse l'esponente di una solida e nota famiglia di 'ndrangheta». Per la cronaca l'imputato chiave di Alto Piemonte è Rocco Dominello, leader di due sigle ultrà, e legato alla cosca Pesce-Bellocco di Rosarno. Fava non agita ancora le manette, non chiede ancora l'arresto del club bianconero in blocco, ma fa di meglio: «Per tutto questo chiederò che in commissione venga audito anche il presidente Andrea Agnelli». C'è posto pure per lui nelle nebbie della zona grigia.

Alleanze e giri d'affari. Nelle curve di serie A la mafia è senza colori. Strani legami tra capi ultrà di Milan e Juve schierati contro i club per gestire i biglietti, scrive Luca Fazzo, Mercoledì 15/02/2017, su "Il Giornale".  «I colori non cancellano l'amicizia - Loris libero». Il lungo striscione bianco apparve nel cuore della Curva Sud di San Siro la sera del 22 ottobre del 2006, poco prima che iniziasse Milan-Palermo. Sono passati più di dieci anni, ma nulla è cambiato. Perché di quello striscione si ritorna a parlare ora, nelle carte dell'indagine che scuote il mondo del calcio, l'inchiesta sui rapporti tra la Juventus e una tifoseria ultrà legata a doppio filo al crimine organizzato. Lo striscione «Loris libero» racconta che il problema non si ferma allo Juventus Stadium, che un filo lega ormai tifoserie di opposte sponde, e che si tratta di un filo criminale: obiettivo, da Nord a Sud, prendere possesso delle curve, del business del bagarinaggio, taglieggiare le società. Nel milieu criminale, i colori delle bandiere contano poco. Di striscioni in difesa di arrestati e diffidati, le curve ne espongono in continuazione. Ma il lenzuolo che i milanisti appendono a San Siro quella sera di ottobre ha una particolarità: non è dedicato a un milanista. «Loris» è Loris Grancini, capo dei Viking, uno dei club più potenti della curva della Juventus. Altra particolarità: pochi giorni prima della partita Grancini è finito in galera non per un reato «da curva», ma per un regolamento di conti da Far West in una piazza milanese, quando fa sparare a un piccolo balordo che gli aveva mancato di rispetto. A eseguire l'ordine di Grancini, un ragazzotto che di cognome fa Romeo, e che - si legge nella sentenza di condanna - è «figlio di un affiliato alla 'ndrangheta». E allora, viene da chiedersi, perché il 22 ottobre 2006 la curva rossonera prende le difese di un rivale finito in galera per un delitto da gangster? La risposta si trova in un rapporto che la Squadra Mobile di Milano invia in Procura nove giorni prima: «Nel corso degli ulteriori sviluppi investigativi, emergeva il probabile coinvolgimento nel delitto di un ulteriore personaggio identificato per Lombardi Giancarlo, potente leader del gruppo ultrà milanista Guerrieri Ultras e legato da uno stretto vincolo di amicizia con Grancini Loris nonostante la diversa fede calcistica». E chi è Lombardi? Risposta: «Sandokan», il capo incontrastato insieme al «Barone» Giancarlo Cappelli della curva rossonera. «La locale Digos - aggiunge la Mobile - comunicava di avere visto in più di una circostanza Grancini utilizzare una Ferrari e Lombardi è proprietario proprio di una Ferrari 360 Modena». Il rapporto riappare ora nelle carte che il questore ha inviato alla sezione «misure di prevenzione» del tribunale di Milano, chiedendo che Grancini sia sottoposto alla sorveglianza speciale. A carico del capo dei Viking, ci sono i rapporti con i mafiosi calabresi del clan Pesce, arrestati nell'inchiesta sulla Juve: è a Grancini che uno dei capiclan, Giuseppe Sgrò, si rivolge il 7 aprile 2013 per chiedere il permesso di far entrare allo Stadium un nuovo club ultrà, i Gobbi. Malavitoso e capo ultrà si danno del «fratello». E Grancini accetta: «Se sono juventini problemi non ne abbiamo». Ma le carte dell'inchiesta raccontano che essere juventini conta fino a un certo punto: anzi, Grancini è tra quelli che trasformano in una rissa furibonda tra club bianconeri l'incontro con la dirigenza della società, il 14 settembre 2006. Il legame vero, quello che apre le porte al grande business delle curve, è il legame malavitoso. E la grande amicizia tra Grancini e Lombardi, tra il capo ultrà juventino e il boss della curva rossonera, è il rapporto tra due che nel mondo del crimine hanno solidi agganci. Grancini, il bianconero, ha precedenti di ogni genere, dalla droga al gioco d'azzardo, l'ultima denuncia l'ha presa per avere picchiato la sua donna; «Sandokan» sta scontando la pena che gli è stata inflitta per i ricatti al Milan, e anche le carte di quell'indagine sono istruttive, perché raccontano di cupi legami di Lombardi con i protagonisti di storie e di droga e di sangue. Mani sporche, insomma, sulle curve: una conquista annunciata già nel 2009, quando i capi di Viking e Guerrieri si incontrarono a Milano, e c'erano anche i capi dei Boys dell'Inter, per pianificare lo sbarco. È a questo nuovo tipo di tifoso-malavitoso che si riferiva Paolo Maldini quando disse: «Sono contento di non essere uno di voi».

L'ANTIMAFIA SPA E PARTIGIANA.

Il pm "arresta" don Ciotti. "Libera? Partito pericoloso". La toga anticamorra Maresca su "Panorama" accusa: "Gestisce i beni mafiosi con coop non affidabili". Il sacerdote: "Fango, quereliamo", scrive Mariateresa Conti, Giovedì 14/01/2016, su "Il Giornale". In principio, a fine estate, è stato il caso Ostia, lo scontro con i grillini che li hanno accusati di essere come le coop poi finite in Mafia Capitale nella gestione dei lidi, altro che garanzia di trasparenza e legalità. Quindi, ai primi di dicembre, c'è stato lo strappo più doloroso, quello con Franco La Torre, il figlio di quel Pio La Torre ucciso dalla mafia nel 1982 e padre della legge che inventò il reato di associazione mafiosa e il sequestro dei beni ai boss. Un addio al vetriolo al consiglio di presidenza, quello di La Torre, che ha accusato il leader e padre di Libera, don Luigi Ciotti, di essere «autoritario e paternalistico». Ma ora l'attacco all'associazione contro le mafie che raccoglie oltre 1500 associazioni di vario genere sotto lo scudo della legalità è se possibile ancora più pesante. Perché a muoverlo è un magistrato. Un giovane pm anticamorra come Catello Maresca, che in un'intervista a Panorama in edicola oggi lancia l'affondo: «Libera dice è stata un'importante associazione antimafia. Ma oggi mi sembra un partito che si è auto-attribuito un ruolo diverso. Gestisce i beni sequestrati alle mafie in regime di monopolio e in maniera anti-concorrenziale. Personalmente, sono contrario alla sua gestione, la ritengo pericolosa». Parole pesantissime cui don Ciotti, ieri in commissione Antimafia proprio per rispondere ai veleni sulla gestione dei beni sequestrati, replica furibondo annunciando querela. Brutta aria per la creatura di don Ciotti, nata 20 anni fa sulla scia dello sdegno per le stragi del '92 e del '93. Maresca, 43 anni, non è un pm qualunque. A dispetto dell'età è uno dei magistrati di punta dell'antimafia napoletana e vanta una lunga esperienza in prima linea, costatagli anche minacce personali: è lui che ha inchiodato latitanti del calibro di Michele Zagaria e Antonio Iovine; è lui che in aula, durante un processo, si è visto apostrofare da un killer dei boss con minacce pesanti all'indirizzo della sua famiglia; è ancora lui che a Ferragosto del 2013 ha subito in casa un raid di strani ladri, che hanno rubato foto con i suoi familiari. Ecco perché l'attacco frontale a Libera di questo pm è più incisivo degli altri: «Libera - dice Maresca a Panorama - gestisce i beni attraverso cooperative non sempre affidabili. Per combattere la mafia è necessario smascherare gli estremisti dell'antimafia, i monopolisti di valori, le false cooperative con il bollino, le multinazionali del bene sequestrato. Registro e osservo che associazioni nate per combattere la mafia hanno acquisito l'attrezzatura mentale dell'organizzazione criminale e tendono a farsi mafiose loro stesse. Hanno esasperato il sistema. Sfruttano beni che non sono di loro proprietà, utilizzano risorse e denaro di tutti. Vedo, insomma l'estremismo dei settaristi, e non di un'associazione ogni qual volta sento dire che si deve fare sempre così». Un siluro. Cui don Ciotti risponde a muso duro: «Noi questo signore - tuona - lo denunciamo domani mattina. Uno tace una volta, due volte, tre volte, ma poi si pensa che siamo nel torto. Quando viene distrutta la dignità di migliaia di giovani è dovere ripristinare verità e chiarezza. Le dichiarazioni di questo magistrato sono sconcertanti». Don Ciotti davanti all'Antimafia si è difeso a spada tratta: «Libera non riceve alcun bene. Libera promuove, agisce soprattutto nella fase della formazione. Sono pochissimi i beni assegnati a Libera che gestisce sei strutture, di cui una a Roma e una a Catania con tre camere, su 1600 associazioni che la compongono. Tanto fango fa il gioco dei mafiosi. Oggi c'è una semplificazione in atto a demolire un percorso con la menzogna». Con don Ciotti si schiera la presidente Bindi che parla di dichiarazioni «offensive» del pm: «Sono affermazioni che non mi sento minimamente di condividere, accuse gratuite e infondate».

Antimafia s.p.a. Così la legalità è diventata un business. Centinaia di migliaia di euro per organizzare manifestazioni anti criminalità. Soldi per le associazioni. Soldi per chi si costituisce parte civile. Perfino soldi per campi di calcetto “antimafia”. La lotta per la legalità è (anche) una enorme lotta ad accaparrarsi danari pubblici, scrivono Lidia Baratta e Luca Rinaldi il 13 Maggio 2016 su "L'Inkiesta". I più gettonati sono i nomi di Falcone e Borsellino. Per costituire un’associazione antimafia intitolata ai magistrati uccisi da Cosa Nostra non serve impegnarsi molto. Si sceglie un nome, solitamente quello di una vittima della criminalità organizzata. Si aggiungono magari le parole mafia, mafie o legalità. Si compilano uno statuto e un atto costitutivo, e ci si iscrive nei registri locali. Secondo il libro Contro l’antimafia di Giacomo Di Girolamo, in Italia le associazioni antimafia iscritte nei registri dei comuni e delle regioni sono circa 2mila. A queste poi si aggiungono le fondazioni, i comitati e gli enti di promozione sociale. Il fenomeno, negli anni, è esploso. Sul modello di “Libera” (l’unica associazione antimafia iscritta nel registro nazionale del ministero del Lavoro per le attività di promozione sociale), che coordina a sua volta 1.500 associazioni, da Nord a Sud sono spuntati nomi e sigle di ogni tipo. Una galassia di onlus che accedono al cinque per mille, comitatini e coordinamenti, attraverso i quali circolano milioni e milioni di euro. Distribuiti in mille rivoli, tra finanziamenti nazionali e locali, bandi e progetti nelle scuole. E la rendicontazione delle spese, spesso, è tutt’altro che trasparente. Così come i bilanci delle associazioni: introvabili nella maggior parte dei casi. In nome dei progetti antimafia si aprono porte e portoni, si elargiscono soldi per convegni e manifestazioni. Accanto alle associazioni serie che l’antimafia la fanno seriamente, sono nati gruppi e comitati che si fanno guerra per accaparrarsi un finanziamento pubblico o andare a parlare tra i banchi delle scuole. Così la legalità diventa un brand. «Spesso si fa entrare nelle scuole gente improbabile, che nasce dal nulla inventandosi un profilo da persona che combatte la mafia, magari dopo aver fatto da maggiordomo a qualche magistrato, facendosi vedere con lui per un paio di mesi. Iniziando a girare per le scuole si intrufola, si inventa un mestiere e comincia a chiedere dei soldi», ha raccontato la scorsa estate il neoprocuratore di Catanzaro Nicola Gratteri durante una manifestazione a Villa San Giovanni. «Ai politici, regionali, provinciali e comunali dico di non dare soldi alle associazioni antimafia: mettetevi in rete, create un fondo comune, fate dei protocolli con i provveditori agli studi e predisponete delle graduatorie degli insegnanti precari... Mi si dice che per far questo c’è bisogno di soldi. Ma i soldi ci sono, so di progetti costati 250.000 euro. Non è etico, non è morale, non è giusto. In nome di gente che è morta, che è stata uccisa, non è giusto che si spendano 250.000 euro per una manifestazione antimafia». Non è etico, non è morale, non è giusto. In nome di gente che è morta, che è stata uccisa, non è giusto che si spendano 250.000 euro per una manifestazione antimafia. Solo dal Programma operativo nazionale sicurezza (Pon) del ministero dell’Interno, finanziato dall’Europa, tra il 2007 e il 2013 sono arrivati tra Calabria, Campania, Puglia e Sicilia più di 538 milioni di euro da destinare alla “diffusione della legalità”. Di cui oltre 122 milioni finiti nella costruzione di case dei diritti e centri di aggregazione, ma soprattutto di campi da calcio a cinque e “campi polivalenti”. A suon di dotazioni da mezzo milione di euro, si finanziano prati e porte anche nei paesini più piccoli del meridione. A quanto pare non c’è miglior arma del calcio per combattere le mafie. Sul fronte del miglioramento dei beni confiscati, dal Viminale sono arrivati invece quasi 70 milioni di euro, e poco più di 14 milioni sono andati nel contrasto al racket. E per 2014-2020 il Pon legalità disporrà di altri 377 milioni di euro. Poi ci sono i fondi Por, quelli regionali. Solo in Calabria, tra il 2012 e il 2015, quasi 8 milioni di euro sono stati distribuiti alla voce “legalità”. Altra fonte da cui attingere è il fondo per le vittime di mafia del Viminale. Nel 2015 sono arrivate 1.106 istanze di accesso – il 13% in più rispetto all’anno precedente. Nella relazione annuale, dal ministero fanno notare l’incremento delle richieste arrivate da associazioni ed enti: 497 in tutto, il 45 per cento del totale. Un’inversione di tendenza, si legge, che «ha generato una riflessione al fine di realizzare finalità di trasparenza e affidabilità dei potenziali beneficiari». Solo dalla Sicilia in un anno sono partite 822 richieste, con un incremento di quasi il 40% rispetto all’anno passato. Non tutte le istanze vengono accettate, è chiaro. Ma solo nel 2015 sono state adottate 645 delibere per un importo complessivo di oltre 56 milioni di euro. La somma più alta degli ultimi anni. Ma anche i processi per mafia sono diventati una macchina per incassare soldi. Come? Costituendosi parte civile, e quindi puntando ai lauti risarcimenti. Ci sono associazioni che lo fanno per mestiere, magari collezionando sedi in tutta Italia per incassare qualche gruzzolo nei processi che si celebrano da Nord a Sud. Solo nel processo “Mafia Capitale” di Roma, 41 richieste sono state bocciate e 23 accolte. La stessa Federazione antiracket italiana di Tano Grasso, rappresentata in aula dall’avvocato Francesco Pizzuto, al processo “Infinito” di Milano dalla costituzione parte civile ha portato a casa 50mila euro, finiti nelle casse dell’associazione per finanziare le attività che svolge. La Fai, come altre associazioni, gira l’Italia dei tribunali per verificare se gli imputati dei processi abbiano arrecato “un danno effettivo e rilevante subito in qualità di associazione da anni presente ed attivamente operante sul territorio contro le mafie”. Tra le tante c’è anche Libera, che dalla nota integrativa del bilancio 2015 sull’anno 2014 riporta il maxi risarcimento ottenuto a Reggio Calabria al termine del processo “Meta”: 500mila euro confermati dalla sentenza passata in giudicato il 12 febbraio 2015. Denari che l'ufficio legale, si legge sempre nella nota integrativa «vengono reimpiegati per l’assistenza legale ai familiari delle vittime di mafia e ai testimoni di giustizia». Il problema, però, è che in molti casi il mafioso imputato di turno non ha conti in banca né grandi proprietà a lui intestate (basta pensare che in alcuni casi ricorrono al gratuito patrocinio), e quindi a pagare i risarcimenti è lo Stato, attraverso il fondo per le vittime di mafia. Ma anche i processi per mafia sono diventati una macchina per incassare soldi. Come? Costituendosi parte civile, e quindi puntando ai lauti risarcimenti. Di soldi, insomma, nell’antimafia ne circolano molti. E non sempre finiscono alla lotta contro i boss. Prima del caso di Pino Maniaci, direttore dell’emittente antimafia Telejato indagato per estorsione, un altro duro colpo per l’antimafia civile era arrivato dalla vicenda di Rosy Canale. Diventata un nome e un volto noto della lotta alla ‘ndrangheta per le sue campagne (poi diventate anche spettacoli teatrali) in favore delle donne di San Luca, è stata condannata a quattro anni di carcere per aver fatto un uso «personale» dei fondi destinati al movimento. Anziché utilizzare i soldi ricevuti per creare opportunità sociali e lavorative per le donne nel piccolo paese reggino da sempre nella morsa della ‘ndrangheta, con quei quattrini la Canale avrebbe comprato due macchine, una per sé e una per la figlia, e prenotato vacanze. Quando la madre le dice al telefono «Figlia mia, stai attenta a come spendi quei soldi, non sono tuoi ma dell’associazione», Rosy Canale risponde «Me ne fotto». Nell’ordinanza di custodia cautelare, il giudice scrive: «Fa certo riflettere che persone che si presentano come paladini della giustizia finiscano con l’utilizzare scientemente l’antimafia per malversazioni di denaro pubblico e vere e proprie attività fraudolente. Non controllare simili ambiti del sociale è forse peggio che rimanere scarsamente attivi nel contrasto alla criminalità mafiosa». Ma non è l’unico caso. A Reggio Calabria, i magistrati stanno indagando anche sulle spese di Claudio La Camera, fondatore e per molto tempo anche presidente dell’associazione Antigone-Museo della ‘ndrangheta, e in quanto tale destinatario tra il 2007 e il 2012 di circa 800mila di euro di finanziamenti pubblici. Secondo gli inquirenti questi soldi sarebbero finiti a finanziare progetti e spese private. Comprese mollette per il bucato, oggetti di modellismo e un pollo di gomma per cani. Con La Camera sono finiti sul banco degli indagati anche i dirigenti regionali, compreso l’ex governatore Giuseppe Scopelliti, e gli assessori della sua giunta, che hanno firmato le delibere con cui sono stati elargiti i soldi pubblici. Lo scorso febbraio, poi, il Corriere della Calabria ha spulciato tra i conti del Coordinamento nazionale Riferimenti, nota associazione calabrese guidata da Adriana Musella, figlia di Gennaro, l’ingegnere salernitano saltato in aria a Reggio Calabria nel maggio del 1982 insieme alla sua auto. Tra soldi pubblici e donazioni private, solo nel 2011 nelle casse dell’organizzazione promotrice del simbolo della gerbera gialla sarebbero entrati oltre 270mila euro. Dalle carte, secondo quanto riporta il giornale calabrese, emergerebbero acquisti di magliette in numero spropositato, fiori costati migliaia di euro, compensi a figli e parenti, rimborsi per viaggi, alberghi e ristoranti, spese in cellulari, ma soprattutto poche attività sul territorio, se non qualche convegno istituzionale sulla ‘ndrangheta e una “settimana bianca dell’antimafia” a Folgaria, in Trentino. La presidente ha smentito tutto e minacciato querele, ma alla richiesta de Linkiesta di consultare i bilanci, l’associazione non ha risposto. Anche la Corte dei conti più di una volta ha messo il naso nei conti dell’antimafia, denunciandone la scarsa trasparenza. Solo a Napoli, da gennaio 2014 i giudici contabili stanno passando al vaglio l’assegnazione, definita «arbitraria», di oltre 13 milioni fondi pubblici a favore di un gruppo di associazioni antiracket che sarebbero state privilegiate a discapito di altre. Quando la madre le dice al telefono «Figlia mia, stai attenta a come spendi quei soldi, non sono tuoi ma dell’associazione», Rosy Canale risponde «Me ne fotto». L’altro tesoretto dell’antimafia sono i beni sequestrati ai boss. Un pacchetto di 10.500 immobili in tutta Italia e circa un migliaio di aziende, che fa gola a molti. E il cui recupero e ridestinazione, una volta confiscati, è un processo costellato di opacità. Dai fondi Pon è arrivata anche la somma che sta finanziando il nuovo cervellone informatico dell’Agenzia nazionale dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata: un sistema da 13 milioni di euro che inizia a mostrare le crepe nel processo di gestione dei beni. Anzitutto, non si conosce il valore economico di case e aziende appartenute ai malavitosi. Un dato su cui, fanno sapere dal ministero della Giustizia, si è in cerca «di una soluzione». La pubblica amministrazione, da parte sua, sconta molte opacità nella gestione, o quantomeno nella comunicazione dell’uso reale di questi beni da parte dei comuni. Il ministero della Giustizia se ne lamenta nella relazione che ha presentato al Parlamento lo scorso febbraio. Basta dare un occhio ai numeri: su 552 beni destinati a finalità istituzionali, ben 293 sono stati classificati dagli enti locali come “altro”, nonostante una nutrita possibilità di scelta da ambiti che spaziano dalle emergenze abitative agli uffici comunali, passando per scuole, infrastrutture, uffici giudiziari e perfino canili. Un deficit di trasparenza che rende complicato comprendere il vero ruolo che questi beni ricoprano una volta finiti sotto il controllo degli enti ocali. D’altronde, proprio il 12 maggio, i Carabinieri di Licata hanno sequestrato un terreno confiscato alla mafia e assegnato da anni allo stesso Comune: sul terreno erano stati abbandonati rifiuti speciali. Senza dimenticare che i beni confiscati spesso e volentieri restano pure nelle mani boss. Secondo un’indagine a campione della Direzione investigativa antimafia (Dia), più di 1.300 immobili confiscati in via definitiva risultano occupati. In trecento di queste case abita ancora il mafioso o la sua famiglia. Per non parlare dell’inchiesta che coinvolge Silvana Saguto, ex presidente della sezione delle misure di prevenzione del tribunale di Palermo, quella che si occupa di nominare gli amministratori giudiziari delle aziende confiscate. Dalle mani del magistrato, per anni simbolo della buona gestione, negli anni sarebbero passati beni tra i 40 e 60 miliardi di euro. Secondo la procura di Caltanissetta, la Saguto però avrebbe attuato una «gestione a uso privato dei patrimoni sotto sequestro», affidandoli al solito giro di amministratori vicini. Compreso il marito. Una vicenda che tra l’altro ha fatto emergere un’altra falla nel sistema: il fantasma dell’albo degli amministratori giudiziari dei beni confiscati alla mafia, istituito nel 2009 e di fatto mai entrato a regime. Secondo la procura di Caltanissetta, il magistrato Silvana Saguto avrebbe attuato una «gestione a uso privato dei patrimoni sotto sequestro», affidandoli al solito giro di amministratori vicini, compreso il marito. Fino a qualche tempo fa, però, non si andava oltre la punzecchiatura. Associazioni più o meno grandi e piccole, in lizza per accaparrarsi finanziamenti e beni confiscati, si colpivano a vicenda. Poi le schermaglie politico-economiche e le accuse di veri e propri cartelli per la gestione dei beni e la destinazione di fondi sono arrivate anche nel campo dell’antimafia. E a inizio anno sono scesi in campo i pesi massimi della lotta al crimine organizzato, in toga e non. Nel novembre 2015 Franco La Torre, figlio di Pio La Torre, all’assemblea di Libera aveva fatto notare l’assenza di posizioni dell’associazione su “Mafia Capitale” e soprattutto sulle indagini che avevano coinvolto il presidente regionale di Confindustria Sicilia, Antonello Montante, ex paladino dell’antimafia indagato per concorso esterno in associazione mafiosa, e il magistrato Silvana Saguto. Poi a gennaio La Torre viene «cacciato con un sms». «Se don Luigi Ciotti (fondatore di Libera, ndr) non la pensa come me, allora», specificava La Torre, «dobbiamo confrontarci, anche litigando se necessario, ma il confronto diretto è fondamentale per la democrazia». Un confronto che non è mai arrivato. A inizio anno ha rincarato la dose il pm di Napoli Catello Maresca. In un’intervista rilasciata a Panorama parlò di «monopolio» di Libera sulla gestione dei beni confiscati. Don Luigi Ciotti non la prese bene: «Noi questo signore lo denunciamo: le sue dichiarazioni a Panorama sono sconcertanti», disse. «È in atto una semplificazione che vuole demolire il percorso di Libera con la menzogna». D’altronde che l’associazione di don Ciotti, nata nell’ormai lontano 1995 abbia fatto il pieno dei beni confiscati non è un mistero. Il conto aggregato di tutte le associazioni “figlie” di Libera, in tutto sei, tocca i 10 milioni di euro, e una gran parte dei beni e dei terreni confiscati sono finiti a cooperative affiliate. La difesa di Libera è arrivata in una delle prime audizioni del ciclo che la commissione parlamentare antimafia ha dedicato, sembra quasi un paradosso, al tema dell’antimafia: «Libera non gestisce le cooperative, ma le promuove». Cooperative e sponsor che non sempre sono stati irreprensibili. Un caso su tutti, che mostra un gigantismo difficile da gestire, è stata la vicinanza della Cpl Concordia, che nel luglio 2015 ha visto il presidente finire in manette in seguito a un’inchiesta proprio della Dda partenopea. La ‘ndrangheta studia a tavolino, in modo scientifico, la possibilità di creare o avvicinare le associazioni antimafia esistenti per continuare i propri interessi. È una strategia. E la mafia non se ne sta a guardare, mentre i quattrini dell’antimafia circolano indisturbati per costruire campetti da calcio, ristrutturare ville e organizzare convegni. Ci sono associazioni che, spenti i riflettori, fanno affari con le cosche. E politici che la sera sfilano in nome dell’antimafia e il mattino dopo stringono accordi elettorali con le ‘ndrine. Come l’ex sindaco di San Luca, Sebastiano Giorgi, paladino della lotta alle cosche che sarebbe stato eletto proprio con i voti della ‘ndrangheta. Lo racconta anche il pentito Luigi Bonaventura: «La ‘ndrangheta studia a tavolino, in modo scientifico, la possibilità di creare o avvicinare le associazioni antimafia esistenti per continuare i propri interessi. È una strategia». Lo stesso senatore Pd Stefano Esposito, membro della Commissione antimafia, nella sua relazione sulla presenza della criminalità a Ostia ha parlato di «sedicenti associazioni antimafia» i cui «membri sono quantomeno sospetti nel loro modo di svolgere l’attività». Con «modalità operative simili, nei modi e nei comportamenti, alle famiglie malavitose».

L’associazione antimafia “Libera” è troppo legata alla politica, scrive Antonio Amorosi, Domenica, 15 luglio 2012, su "Affari Italiani". Suona un campanello di allarme oggi in Italia se si parla di antimafia, alla vigilia del ventennale della strage di via D’Amelio (l’assassinio del magistrato Paolo Borsellino e della sua scorta): l’antimafia rischia di diventare un mezzo per le forze politiche? Il caso riguarda l’esponente antimafia Christian Abbondanza noto per il suo impegno contro le cosche ma anche per numerose frizioni con l’associazione nazionale “Libera” e che pubblica sul suo sito, La Casa della Legalità, un attacco molto duro all’associazione presieduta da don Ciotti. Christian è sotto protezione e già vittima di un boicottaggio anni fa a Bologna, si ritrova prima come esperto antimafia a cui si rivolge un sindaco Pd di un comune ligure (Sarzana) per valutare a chi assegnare un'onorificenza, e poi, pianificato l’evento sotto sue indicazioni, escluso dall’appuntamento e con l’associazione “Libera” in cartellone.

Che è successo Abbondanza?

«Mi contatta il Sindaco di Sarzana, mi chiede se posso essere presente per un intervento nella tavola rotonda del 20 luglio in cui verrà consegnata un'onorificenza antimafia. Mi chiede a chi secondo me va assegnata. Accolgono la mia proposta. Mi contatta la sua segreteria per avere conferma dovendo procedere per la stampa degli inviti. Gli do conferma. Mi arriva l'invito. Non ci sono. C'è “Libera”».

E che significa? Non ci vedo niente di scandaloso alla fin fine…

«No. E’ da un po’ di tempo che accade. Perché ho posto l’accento su alcune incongruenze come questa che vi dico.  A Casal di Principe il sindaco e l'assessore distribuivano con “Libera” targhe anti-camorra, ma quell'amministrazione comunale era legata alla Camorra, ai Casalesi. Cose che si sanno in quei territori. Il sindaco e l'assessore sono stati arrestati poco dopo perché collusi con i Casalesi... “Libera” li portò sul palco della sua principale manifestazione, nel marzo 2009, a Casal di Principe, per distribuire le targhe intitolata a Don Peppe Diana.  Oppure ne dico un’altra. “Libera”, con la struttura che si è data, vive grazie ai contributi pubblici e privati. Tra i suoi sponsor troviamo, ad esempio, l'Unieco, colosso cooperativo emiliano, che si vanta anche dei finanziamenti che dà a Libera. Ma nei cantieri della Unieco troviamo società di famiglie notoriamente mafiose, per l'esattezza di 'ndranghetisti. I soldi risparmiati dalla Unieco in quei cantieri, con le famose offerte “economicamente vantaggiose”, ad esempio, di società di famiglie espressione delle cosche MORABITO-PALAMARA-BRUZZANI e PIROMALLI con i GULLACE-RASO-ALBANESE, restano nelle casse di Unieco. Questa cooperativa finanzia “Libera” per la lotta alla mafia. E' chiaro il controsenso!? Quando lo fai notare nasce un problema con “Libera”».

Non sono solo casi isolati!? Libera è un’associazione grandissima per dimensioni…

«Non credo. Ci sono tantissime altre contraddizioni della stessa natura da nord a sud. Molti dei ragazzi che vi operano ci mettono l'anima, così come molti di coloro che credono che “Libera” sia una struttura che fa antimafia. Ma la realtà dei fatti è un po’ differente. Il quadro che ci viene presentato è utile a “Libera”, che ha di fatto il monopolio della gestione dei beni confiscati riassegnati, ed alle Istituzioni che così si fanno belle sventolando questo dichiarato “utilizzo” dei beni confiscati. Ma la realtà non è questa! Prima di tutto perché i beni confiscati che vengono riassegnati sono pochissimi. Sono briciole. Abbiamo pubblicato con l’Associazione Casa della Legalità anche uno studio su questo, sulla normativa e sulla realtà. Uno studio mai smentito!»

Sentiamo a questo punto un altro attivista e scrittore, Francesco Saverio Alessio, calabrese che ha prodotto diversi scritti sulla ‘ndrangheta.

E’ vero che c’è un monopolio politico di “Libera” sul tema antimafia in Italia?

«Se parli del tema in modo obiettivo, senza far riferimento né a destra né a sinistra ti ritrovi emarginato. Parlo del problema “Libera” che ha forti legami col potere politico. E’ molto grande come associazione e non sempre chi sta dentro è così immune dagli interessi che la politica esprime. Ha un sorta di monopolio. Se vai in contrasto con i loro referenti politici non ti invitano più a niente e diventi invisibile anche se ricevi, come me, minacce».

Sentiamo allora l’attore Giulio Cavalli, sotto scorta dopo le sue manifestazioni antimafia.

«A me non è mai successo di essere escluso come Christian ma mi capita spesso di vedere eventi antimafia che sorvolano sulle connessioni politica-mafia locali. E’ facile parlare di Falcone e Borsellino e non voler vedere la mafia sotto casa in Lombardia, in Piemonte, in Liguria ed Emilia Romagna. Non mi stupisce che persone come Christian diventino scomode perché fanno nomi e cognomi. Come diceva Peppino Impastato “c’è un solo modo per fare antimafia, rompere la minchia!” Molte volte in contesti ipernoti per presenze criminali c’è chi non fa questo anche se fa antimafia. Allora è palese che c’è qualcosa che non va».

Ai nostri microfoni anche Umberto Santino fondatore del Centro di documentazione "Giuseppe Impastato" di Palermo.

«Abbiamo avuto frizioni con “Libera” ma su questioni di democrazia. “Libera” nomina i suoi rappresentanti senza eleggerli. Quando facevo parte della Rivista mensile Narcomafie dell’arcipelago di “Libera” e scrivevo su Repubblica Palermo posi la questione di dirigenti dell’associazione destituiti dai propri incarichi senza alcuna discussione. Anche se ci conoscevamo da molti anni, Don Ciotti mi fece telefonare da una responsabile, tale Manuela, per comunicarmi che ero ufficialmente sospeso dall’associazione. Mi sono dimesso subito da Narcomafie. Un altro conflitto simile è sorto quando abbiamo posto critiche a un sindaco leghista della provincia di Bergamo che pretestuosamente aveva rimosso l’intitolazione di un biblioteca a Peppino Impastato. Ci siamo ritrovati isolati da tutto il mondo che gravita intorno a “Libera” perché Don Ciotti sosteneva che c’erano buoni rapporti con il Ministro degli Interni Roberto Maroni. Avevo un rapporto ottimo con lui prima che ponessi quelle questioni di democrazia. Ma non c’è la possibilità discutere in quell’ambiente. Si adottano prassi rigide e di parte come ho viso solo in ambienti tardo clericali o in partiti veterocomunisti».

La domanda allora è: l’antimafia rischia di diventare uno strumento per dividersi e fare politica? Un modo per vedere il crimine solo nell’avversario? Un rischio che corre anche l’Emilia Romagna dove il Dipartimento Investigativo Antimafia sostiene ci siano più attentati intimidatori che in Sicilia. Da quando l’Ente Regione eroga denaro per eventi antimafia si organizzano molti studi e momenti culturali sul fenomeno. Ma prima, quando questi fondi non esistevano, in Emilia non si poteva neanche parlare del fenomeno. Una coincidenza? Per le istituzioni in Emilia la mafia non esisteva o si diceva “era presente in modo marginale” quando invece ha profonde radici da decenni. La situazione diventa ancora più problematica quando nel mondo culturale antimafia emerge una sorta di monopolio su chi deve produrre attività. Di fatto il monopolio è di pertinenza dell’associazione “Libera” che esprime una forte capacità di azione sul territorio nazionale anche perché oltre all’attivismo di tanti militanti impegnati ha anche alle spalle grossi sponsor economici di area centrosinistra che in Emilia primeggiano. E “Libera” oltre a tante iniziative di sensibilizzazione ha sviluppato progetti e iniziative antimafia traducendoli in prodotti di consumo che possiamo trovare in vendita negli scaffali dei supermercati Coop, come la pasta, i biscotti, i vini, in un ciclo virtuoso in cui la farina “che darà la pasta” è ottenuta dai terreni confiscati alla mafia. Tutto questo è molto bello e da sostenere! Meno bello ma sempre di notevole rilevanza sono invece gli episodi di discriminazione e isolamento nei confronti di coloro che fanno attività antimafia fuori dalla copertura politica di sinistra (ma sarebbe valido anche se questo riguardasse la destra o il centro). L’evidenza dei fatti mostra che anche persone valorizzate da “Libera” si ritrovano poi implicate in fatti di crimine. Ora o l’antimafia è un problema importante che ci deve far andare fino in fondo alle questioni, senza titubanze, restando indipendenti dalla politica, oppure diventa principalmente uno strumento politico, visto che sentiamo politicamente più vicini alcuni soggetti invece di altri. Dopo queste interviste stiamo cercando di contattare il presidente di “Libera” don Ciotti per sentire cosa pensa delle questioni affrontate e capire quale sia la sua opinione e versione dei fatti.

Libera, arriva la scissione: se ne vanno quattro gruppi del Lazio. Nell’area tra la Capitale e Caserta gli attivisti ribelli alla resa dei conti: “Dissenso non più ammesso, addio”. Replica l’associazione di don Ciotti: “Realtà manipolata”, scrive Andrea Palladino il 23 febbraio 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Era il 22 marzo 2014. L’appuntamento annuale di Libera, l’associazione di don Luigi Ciotti contro le mafie, sbarcava a Latina. Terra difficile, incastonata tra Caserta e Roma, asse dove tutte le mafie hanno trovato da decenni una seconda patria. Una città che tanti chiamano la “lavatrice” della capitale, il luogo giusto dove ripulire soldi e carriere per le mafie. Era un simbolo quella sfilata di migliaia di persone arrivate da tutta Italia, che sanciva il rilancio di Libera nel sud del Lazio, grazie al protagonismo di tantissimi volontari, in gran parte ragazzi. Oggi quella parabola sembra affievolirsi, diventando la coda di un momento di difficoltà dell’associazione fondata da don Ciotti, che – nel 2015 – si era giù trovata al centro di una dolorosa bufera, con l’addio di Franco La Torre, figlio di Pio, il parlamentare comunista siciliano assassinato da Cosa nostra. I presidi di Latina, Cisterna, Anzio e Nettuno hanno ufficialmente lasciato la casa madre, aprendo un cammino autonomo, con la nuova sigla di Reti di giustizia. “In questo ultimo periodo i rapporti tra la dirigenza dell’associazione e gli iscritti di questi territori si sono profondamente deteriorati – si legge in un comunicato stampa firmato dai presidi che facevano riferimento a Libera nel sud del Lazio – a fronte di una linea di chiusura verso il nostro territorio non motivata e delegittimando il lavoro svolto da tutti noi”. Una scelta che viene definita “molto sofferta, perché continuiamo a riconoscerci in tutti i principi che Libera ha proposto e portato avanti dalla sua fondazione fino al passato recente”, spiegano i volontari. I gruppi – che riuniscono poco più di una sessantina di attivisti, ora usciti dall’associazione di don Ciotti – evitano lo scontro: “Non vogliamo fare polemiche – spiega Fabrizio Marras, già referente per il Lazio di Libera e ora in prima fila con il gruppo di fuoriusciti – non siamo antagonisti o in contrapposizione. Preferiamo non commentare in questo momento, continueremo la nostra attività antimafia sul territorio”. Più chiaro e diretto è il documento che è stato diffuso martedì sera: “La centralizzazione autoritaria delle decisioni, l’incapacità di riconoscere gli errori, il permettere alla dicotomia fedele/infedele (e infedele è chi non la pensa come l’Ufficio di presidenza o osa porre problemi o obiezioni) di predominare dentro l’associazione, il ricondurre tutti i problemi che nascono ad aspetti personali e non politici, nascondendo il tutto dietro un generico e velleitario ‘va tutto bene’ o un altrettanto generico vogliamoci bene generalizzato, sono alcuni dei sintomi di questa deriva dell’associazione”. Nell’area del sud pontino i volontari delle città di Formia e Gaeta – luoghi con alta densità mafiosa – hanno deciso di rimanere all’interno dell’associazione di don Ciotti, mantenendo così la presenza, almeno parziale, di Libera nella provincia. “Ancora una volta siamo davanti alla manipolazione della verità – spiega in un comunicato Libera, replicando al documento dei presidi che hanno abbandonato l’associazione – Una verità che deve essere ripristinata per il rispetto delle tante realtà associative, dei tanti giovani e volontari che compongono e fanno Libera ogni giorno nel paese”. L’associazione di don Ciotti assicura di non aver mai allentato “in questi anni l’attenzione al territorio della provincia di Latina e continuerà a farlo con determinazione e responsabilità garantendo sempre il supporto alle realtà sociali impegnate” assicurando di voler mantenere in ogni caso una presenza nell’area a sud di Roma.