Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA
ANNO 2017
IL DNA DEGLI ITALIANI
QUARTA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
ITALIA ALLO SPECCHIO
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2017, consequenziale a quello del 2016. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
INDICE PRIMA PARTE
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
COS’E’ LA POLITICA OGGI?
L’ITALIA DELLE RIFORME IMPOSSIBILI.
IL PARTITO DELL'ASTENSIONE.
LO "IUS SOLI" COMUNISTA.
ITALIANI SENZA INNO NAZIONALE.
ITALIANO: UOMO QUALUNQUE? NO! SONO TUTTI: CETTO LA QUALUNQUE.
DEMOCRAZIA: LA DITTATURA DELLE MINORANZE.
ANTROPOLOGIA SINISTROIDE. VIAGGIO NEL CERVELLO PROGRESSISTA CHE “HA SEMPRE RAGIONE”.
ITALIANI: VITTIME PATOLOGICHE.
L'ITALIA DEI SOCIAL. QUELLO CHE LA GENTE PENSA E SCRIVE...
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
AI MIEI TEMPI...AI MIEI TEMPI...
PARLAR MALE DELL'ITALIA? LA GODURIA DEGLI ITALIANI.
L'ITALIA DEI CAMPANILI.
L'ITALIA DEL PREGIUDIZIO E DEL PRECONCETTO.
GLI ITALIANI NON SANNO PERDERE.
ITALIANI RANCOROSI.
ITALIANI: POPOLO DI TRADITORI.
FENOMENOLOGIA DEL TRADIMENTO E DELLA RINNEGAZIONE.
L’IPOCRISIA DELLA RICONOSCENZA.
FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.
ITALIA. IL PAESE DEI CAFONI.
ITALIANI: UN POPOLO DI ASOCIALI.
L’ITALIA DEGLI INVIDIOSI.
ITALIANI SCROCCONI.
ITALIA. IL PAESE DEI LADRI.
LADRI DI BICICLETTE.
IL COMUNE SENSO DEL PUDORE.
GLI ITALIANI ED IL TURPILOQUIO.
L’ITALIA DEL TRASH (VOLGARE).
ITALIANI: UN POPOLO DI STUPIDI ODIOSI.
GLI ITALIANI E LA STUPIDITA’.
L’ITALIA DELLA SCARAMANZIA.
L’ITALIA DEI PAZZI.
L'ITALIA DEI FAVORITISMI (ANCHE IN FAMIGLIA).
CONCORSO INFINITO: CONCORSO TRUCCATO!
IL FASCINO DEL CONCORSO PUBBLICO E DEGLI ESAMI DI STATO (TRUCCATI).
LA REPUBBLICA DEI BROCCHI NEL REGNO DELL'OMERTA' E DEL PRIVILEGIO.
LA FINE DI UNA VITA FATTA DI BOCCIATURE.
VERONICA PADOAN ED IL RIBELLISMO DEI FIGLI DI PAPA’.
IL FAMILISMO AMORALE ED IL COOPTISMO AMORALE.
CERVELLI IN FUGA.
NON SIAMO STOICI.
ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.
VIVA GLI ANTIPATICI.
ITALIA. PAESE DI GIOCATORI D’AZZARDO.
ITALIA. PAESE DI SANTI, NAVIGATORI E...POETI.
EDITORIA A PAGAMENTO.
ITALIA PAESE DI SCRITTORI CHE NESSUNO LEGGE.
LA SCUOLA AL FRONTE.
ITALIANI: POPOLO DI IGNORANTI LAUREATI.
L'ITALIANO: LINGUA MORTA, ANZI, NO!
L’ITALIA DEI SACCENTI. TUTTI PARLANO. NESSUNO ASCOLTA.
L’ITALIA DEI GENI.
IL CALENDARIO CIVILE VISTO DALLA SINISTRA.
IL GIORNO DEL RICORDO…DIMENTICATO.
PADRI DELLA PATRIA: LA NOSTRA ROVINA.
FRATELLI D’ITALIA? MASSONI ITALIANI.
ABOLIAMO LA MASSONERIA?
DA DE GASPERI A RENZI. COME L'ITALIA SI E' VENDUTA AGLI AMERICANI.
MISTERI E DEPISTAGGI DI STATO.
LA MAFIA GLOBALIZZATA.
I DIECI COMANDAMENTI DELL’ANTIMAFIA.
L’ANTIMAFIA IMPLACABILE.
LE VITTIME DELL’ANTIMAFIA ED IL REATO CHE NON C’E’: IL CONCORSO ESTERNO.
PENTITI E PENTITISMO. LA LINGUA BIFORCUTA.
LA MAFIA NON ESISTE, ANZI, E' DI STATO!
MERIDIONALI: MAFIOSI PER SEMPRE.
MAFIA COMUNISTA. IL RACKET DELLE OCCUPAZIONI ABUSIVE DEGLI IMMOBILI.
IL RACKET DEI TURISTI NORDISTI.
ITALIANI. MAFIOSI PER SEMPRE.
MAFIA. CACCIA ALLE STREGHE? NO! CACCIA ALLE ZEBRE...
L'ANTIMAFIA SPA E PARTIGIANA.
INDICE SECONDA PARTE
L'ITALIA CERVELLOTICA DEGLI SPRECHI ASSURDI.
IL PAESE DEI COMUNI FALLITI.
IL PAESE DEGLI AMMINISTRATORI PUBBLICI MINACCIATI.
IL FENOMENO DELLA BLUE WHALE, OSSIA DELLA BALENA BLU (GIOCO).
QUELLI…PRO SATANA.
UN BUSINESS CHIAMATO GESU'.
PEDOFILIA ECCLESIASTICA.
L'ISLAMIZZAZIONE DEL MONDO.
TERRORISMO ISLAMICO. IL 2017 INIZIA COL TERRORE.
2016. EUROPA, UN ANNO DI TERRORE.
PARLIAMO DI LEGALITA'. LA REPUBBLICA DI ZALONE E DI FICARRA E PICONE.
ONESTA' E DISONESTA'.
DUE PESI E DUE MISURE.
LA SETTA DEI 5 STELLE.
LA MORALITA' DEGLI UOMINI SUPERIORI.
A MIA INSAPUTA. QUELLI CHE NON SANNO.
CERCANDO L’ITALEXIT.
MORIRE DI CRISI.
L’ITALIA E LE RIVOLUZIONI A META’.
COSTITUZIONE ITALIANA: COSTITUZIONE MASSONICA.
UNA COSTITUZIONE CATTO-COMUNISTA.
C'ERA UNA VOLTA LA SINISTRA. LA SINISTRA E' MORTA.
LA DIFFERENZA TRA LA POLITICA DEI MODERATI E L'INTERESSE PRIVATO DEI COMUNISTI.
IL TRAVESTITISMO.
C'ERA UNA VOLTA LA DESTRA.
CUORI ROSSI CONTRO CUORI NERI.
C’ERANO UNA VOLTA I LIBERALI.
LA RIVOLUZIONE CULTURALE DA TENCO A PASOLINI, DA TOTO’ A BONCOMPAGNI.
E POI C’E’ ALDO BISCARDI.
1977: LA RIVOLUZIONE ANTICOMUNISTA.
FASCISTI-COMUNISTI PER SEMPRE.
L'ITALIA ANTIFASCISTA.
MALEDETTO 25 APRILE.
PRIMO MAGGIO. FESTA DEI LAVORATORI: SOLITA LITURGIA STANTIA ED IPOCRITA.
I GIORNALISTI SON TROPPO DI SINISTRA.
LA TRUFFA DELL'ANTIFASCISMO.
DEMOCRATICI: SOLO A PAROLE.
QUELLI CONTRO...IL SUFFRAGIO UNIVERSALE.
LA DEMOCRAZIA DEI TIRANNI INTELLETTUALI.
MAI DIRE BEST SELLER. LA CULTURA COMUNISTA E L’INDOTTRINAMENTO IDEOLOGICO.
I NEMICI DELLA LIBERTA DI STAMPA? QUELLO CHE NON SI DEVE E NON SI PUO’ SCRIVERE.
DIRITTO DI CRONACA E DIRITTO DI STORIA VITTIME DEL DIRITTO ALL'OBLIO.
DIRITTO ALL'OBLIO, MA NON PER TUTTI.
L'ITALIA DELL'ACCOGLIENZA.
LA LUNGA STORIA DEI POPULISMI.
LA SINDROME DI MEDEA.
L’ITALIA ANTICONFORMISTA.
NON SONO TUTTI ...SANREMO.
C'ERA UNA VOLTA...CAROSELLO.
L’ITALIA DELL’ACCOZZAGLIA RESTAURATRICE. TUTTI CONTRO UNO.
GLI ITALIANI...FANTOZZI!
QUELLI CHE...REGIONANDO E PROVINCIANDO, TRUCCANO.
MALEDETTA ALITALIA (E GLI ALTRI).
L’ITALIA DELLE CASTE.
L’ITALIA DELLE LOBBIES.
CHI MANGIA SULLE NOSTRE BOLLETTE.
L'ITALIA ALLO SBANDO.
SOLDI E COMPLOTTI NELLO SPORT.
LA FIDAL ED I VERI ATLETI.
L'ITALIA IN GUERRA.
QUELLI CHE...SONO RAZZISTI INTERESSATI.
QUELLI CHE…SONO RAZZISTI CON ARTE, SENZA PARTE.
QUELLI CHE...SONO RAZZISTI E BASTA.
QUELLI CHE SONO RAZZISTI...A RAGIONE.
INDICE TERZA PARTE
GLI ULTIMI 25 ANNI DEGLI ITALIANI.
TROPPE LEGGI = ILLEGALITA’.
IL LIMBO LEGISLATIVO. LE LEGGI TEORICHE.
L'INSICUREZZA PUBBLICA E LA VIDEO SORVEGLIANZA PRIVATA.
L'INSICUREZZA PUBBLICA ED IL PARTITO DEI CENTRI SOCIALI.
L'ITALIA E L'ILLEGALITA' DI MASSA.
L’ITALIA DEI CONDONI.
LEGGE ED ORDINE.
PARLIAMO DELLE CELLE ZERO.
TANGENTOPOLI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
DEVASTATI DA MANI PULITE.
I GIORNALISTI. I KILLER DELLA PRIMA REPUBBLICA.
LA FINE DELLA DEMOCRAZIA.
IL COMUNISMO, IL FASCISMO ED I 5 STELLE: LA POLITICA COL VINCOLO DI MANDATO.
LA VERITA' E' FALSA.
IL TURISMO DELL'ORRORE.
IL GIORNALISMO DELLA MALDICENZA.
GIORNALI E PROCURE.
STEFANO SURACE E I MONDI DELL’INFORMAZIONE.
FINALMENTE LA TV DIVENTA GARANTISTA.
I MICHELE MISSERI NEL MONDO. LE CONFESSIONI ESTORTE DALLE PROCURE AVALLATE NEI TRIBUNALI.
IL CARCERE UCCIDE: TUTTO MORTE E PSICOFARMACI.
IL PARTITO DELLE MANETTE COL CULO DEGLI ALTRI.
GIUSTIZIA CAROGNA.
L'IMPRESA IMPOSSIBILE DELLA RIPARAZIONE DEL NOCUMENTO GIUDIZIARIO.
LA STORIA DELL’AMNISTIA.
L'ITALIA DEGLI APPALTI TRUCCATI.
NOTIZIE FUGACI E TRUCCATE.
LE SPECULAZIONI ELITARIE.
PARENTELE TOGATE.
LA REPUBBLICA GIUDIZIARIA, ASPETTANDO LA TERZA REPUBBLICA.
IL 2016 ED I FLOP GIUDIZIARI.
L’ITALIA SPORCA AL CINEMA: SESSO, DROGA E CORRUZIONE.
IL PROIBIZIONISMO E LO STATO PATERNALISTA.
2016 FATTI E NOMI PIU’ IMPORTANTI.
I DESAPARECIDOS ED IL PIANO CONDOR.
LE PEGGIORI CAZZATE VIP DETTE NEL 2016.
EI FU: IL CORPO FORESTALE.
FIGLI DI TROJAN. HACKER E CYBERSPIONAGGIO.
A COSA SERVONO...
INDICE QUARTA PARTE
UN POPOLO DI NON IDENTIFICATI. I CORPI SENZA NOME.
FUNERALE LAICO. SENZA DIRITTI ANCHE DA MORTI!
LA GERMANIA: AL DI LA' DEI LUOGHI COMUNI.
REGENI, PUTIN, TRUMP E LE FAKE NEWS (BUFALE/FALSE VERITA').
LE FAKE NEWS DEL CONTRO-REGIME.
IL POLITICAMENTE CORRETTO. LA NUOVA RELIGIONE DELLA SINISTRA.
SINISTRISMO E RADICAL-CHIC.
LA NORMALIZZAZIONE DI TRUMP SULL’ASSE PRO TERRORISTI.
I MURI NELL'ERA DI INTERNET.
IL RAZZISMO IMMAGINARIO.
RAZZISMO E STEREOTIPI.
TRADIZIONI E MENZOGNE.
QUELLI CHE...SON SOLIDALI.
PARLIAMO DI IMMIGRAZIONE SENZA PARTIGIANERIA.
QUELLI CHE...COME I SINDACATI.
QUELLI COME…I PARLAMENTARI.
QUELLI…PRO GAY.
QUELLE CHE…SON FEMMINISTE.
L'ITALIA DEGLI IMBOSCATI.
L'ITALIA DEI CORROTTI.
CORROTTI E CORRUTTORI. UN POPOLO DI COMPRATI E DI VENDUTI. L’ITALIA DEI BONUS E DEI PRIVILEGI.
LA SANITA’ MALATA.
REATO DI ANZIANITA'. ADOTTABILITA' DEI FIGLI: NEGATA AGLI ANZIANI, MA PERMESSA A GAYS E LESBICHE.
GENITORIALITA' MALATA.
FILIAZIONE MALATA.
PARENTICIDI: OMICIDI FAMILIARI.
ABRUZZO. GIUSTIZIERI, TERREMOTO E VALANGHE. HOTEL RIGOPIANO. I MORTI SONO STATI UCCISI.
PARLIAMO DELLA BASILICATA.
PARLIAMO DELLA CALABRIA.
PARLIAMO DELLA CAMPANIA.
PARLIAMO DELL’EMILIA ROMAGNA.
PARLIAMO DEL LAZIO.
PARLIAMO DELLA LIGURIA.
PARLIAMO DELLA LOMBARDIA.
PARLIAMO DEL PIEMONTE E DELLA VALLE D’AOSTA.
PARLIAMO DELLA PUGLIA.
PARLIAMO DELLA SARDEGNA.
PARLIAMO DELLA SICILIA.
PARLIAMO DELLA TOSCANA.
PARLIAMO DELL’UMBRIA.
PARLIAMO DEL VENETO.
QUARTA PARTE
UN POPOLO DI NON IDENTIFICATI. I CORPI SENZA NOME.
Quante storie in quei corpi senza nome. Da nord a sud, un popolo di "non identificati". Si chiamano cadaveri “non identificati”. Sono divisi per regione, ma appartengono tutti al lungo rapporto stilato dal Ministero dell'Interno. E ci restituiscono una fotografia inquietante e drammatica del Paese e delle sue solitudini, scrive Elena Testi il 2 ottobre 2017 su "L'Espresso". Orologio marca Casio. Probabile orecchino con pietra rossa usato come anello. Cravatta a righe. Tre pacchetti di sigarette. E ancora: 164 mila lire nascoste nella tasca anteriore. Un accendino Bic. Siringhe monouso. L'ultimo legame con la vita è una lista di oggetti che continua sterminata, pagina dopo pagina, e che consente di procedere, di orientarsi solo alla cieca. Di ipotizzare storie, drammi, inconsapevoli gesti azzardati di questi 828 corpi senza un nome. Si chiamano cadaveri “non identificati”. Sono divisi per regione, ma appartengono tutti al lungo rapporto stilato dal Ministero dell'Interno che nel 2007, prevedendo un Commissario straordinario del Governo per le persone scomparse, ha deciso di dar vita a un elenco che ogni sei mesi viene costantemente aggiornato. Venticinque pagine: data del ritrovamento; luogo; sesso; etnia; colore di occhi e capelli e notizie generiche. I più fortunati hanno una riga scritta su “segni particolari”. Dal 1974, anno in cui si è iniziato a catalogare i corpi, a oggi il rapporto si è allungato giorno dopo giorno, aggiungendo tanti ragazzi di cui nessuno reclama la salma.
Ha tra i 20 e i 35 anni. Anche lui doveva essere in viaggio. È morto dentro un sacco a pelo in un casolare abbandonato di Castellaro, provincia di Imperia. Quasi sicuramente si era intrufolato per ripararsi dal freddo. Nello zaino un vocabolario italiano-spagnolo e una cartina della Francia. Nella tasca, invece, una generosa somma di denaro in dollari e lire. Accanto al corpo decine di fogli scritti con foga. Un diario minuzioso del lungo cammino diviso per giorni. Pensieri, frasi buttate giù di getto per non scordarsi mai delle emozioni passate. La sua storia è stata sigillata ermeticamente in una busta di plastica che forse non verrà più riaperta.
Salerno. Le foglie iniziano a ingiallire. In via Belvedere tutto appare calmo, fino a quando un giovane non viene ritrovato con un cappio al collo. Deve essersi tolto la vita sei o otto mesi prima. In poco tempo si sparge la voce. Nessuno, però, di quel ragazzo “longilineo e con una buona dentatura”, come si legge nel rapporto, sa nome e cognome. Iniziano le ricerche. Le forze dell'ordine cercano di estrarre dal sistema tutte le possibili “candidature” e individuare delle compatibilità con le schede delle persone scomparse. Nulla da fare. Ogni volta che si trova un cadavere la procedura è la stessa. Si cerca la cosiddetta compatibilità con le persone scomparse, analizzando le informazioni contenute nella scheda ante mortem, secondo un indice di valutazione: scarso, sufficiente, discreto, buono e ottimo. Infine il test del Dna.
Nel rapporto sono tanti i giovani che si sono tolti la vita, la maggior parte impiccandosi o gettandosi sotto un treno in corsa. Hanno tra i 20 ed i 35 anni. Difficile comprendere, soprattutto per l'età, perché né parenti né amici si siano rivolti alle forze dell'ordine per far presente la loro assenza. Ed è anche questo uno dei motivi che ha spinto il Laboratorio di Antropologia e Odontologia Forense (Labanof) di Milano ad aprire una pagina web. Decine di volti appaiono l'uno accanto all'altro come macabre foto segnaletiche. Alcuni hanno il volto deturpato da ferite o piccoli tagli, altri semplicemente gli occhi del sogno eterno. In alcuni casi si è preferito evitare l'immagine nitida, in altri è stato necessario ricostruire il volto in 3D perché è impossibile mostrare corpi. L'elenco della disperazione arriva in questo caso al 1995. Bisogna cliccare sopra la data di scomparsa per aprire la scheda post mortem. Appare un piccolo elenco dove sono presenti fulminee descrizioni. In alcuni casi le foto degli oggetti che si portavano dietro. Poi niente più. Ma il web ha aiutato. Sopra alcuni volti appare la parola “identificato”. La famiglia ha contattato il laboratorio e, dopo un semplice test del dna, quest'Odissea senza vita è terminata. La Lombardia è la regione che ha applicato per prima un modello organizzativo di circolarità informativa. Poi il “modello Milano” è stato in poco tempo applicato a Toscana e Lazio. E' quest'ultima, con i suoi 223 cadaveri, la regione con il più alto numero di corpi senza un nome.
Il corpo è mummificato. Non ha documenti. Dentro la tasca solo alcuni franchi datati 1910 e il ritaglio di un articolo di giornale del primo aprile 1928. Deve aver percorso miglia e miglia a piedi prima di raggiungere il ghiacciaio lombardo del Scerscen. Sono i test di laboratorio a decifrarne l'età: 23 anni. Il corpo è stato mangiato dal gelo. È rimasto lassù per un tempo indecifrato. Partito da chissà dove, forse Svizzera o Germania. Il viaggio doveva continuare, questo è certo. Con sé aveva dei ramponi, forbicine, guide e cartine per orientarsi. Ma la sua strada è terminata in una cella frigorifera di un obitorio comunale lombardo. Nella busta di plastica, perfettamente catalogata, giace abbandonato quell'articolo del 1928 che potrebbe essere un cimelio di famiglia trascinato con sé di cammino in cammino.
Questi corpi hanno amato, vissuto, calpestato il suolo con le loro storie. Sono stati baciati, abbracciati, stuprati dagli stessi assassini che poi hanno deciso di privare loro di un'identità, magari gettando i documenti. Alcuni si sono consumati le vene con l'eroina, altri hanno deciso di darsi alle fiamme nella speranza di vagare nel tempo senza un nome o un'incisione sulla lapide che decretasse il loro passaggio nel mondo dei vivi.
Ha un unico segno particolare: un tatuaggio con la scritta “Sandra” e due cuoricini grandi quanto la punta di uno spillo. Il suo corpo non è stato reclamato da nessuno, ma quel nome inciso nella pelle, e che le acque del mare non sono riuscite a cancellare, è la prova che qualcuno lo ha amato e che lui a sua volta abbia stretto tra le braccia una ragazza, forse appena ventenne come lui.
È l'11 aprile del 1974. Viene ritrovata a Termoli, un paesino che all'epoca conta poco più di mille e cento abitanti. Non ha denti, se non un molare. Ha poco più di 60 anni, ma stabilire la causa del decesso è impossibile. Potrebbe, però, essere stata uccisa. In 43 anni nessuno è riuscito a dare una risposta. Lei è il cadavere “non identificato” che da più anni giace abbandonata in un obitorio.
Uccisa a soli 17 anni. L'hanno ritrovata in un laghetto dentro un sacco di plastica a Piazzola del Brenta in località Presina. Solo lei ha visto il volto del suo assassino prima di essere gettata come spazzatura. Chi l'ha uccisa, ha deciso che venisse ritrovata con indosso solo un reggiseno nero, delle calze e un perizoma bianco. A coprire il corpo rannicchiato su sé stesso, i lunghi capelli castani. È l'unica minorenne presente. Uccisa di morte violenta, non è riuscita a trovare pace neanche dopo.
Gettata da un'auto in corsa il 23 luglio del 1995. Quando si è schiantata sull'asfalto, il cranio non ha retto l'urto. Il suo corpo, conservato congelato, indica un'età tra i 20 ed i 40 anni. Nessun segno particolare, solo l'ipotesi che sia stata scaraventata fuori dalla vettura durante una feroce litigata.
C'è poi il viaggio della droga finito male. Lei trentenne, rinchiusa in uno scatolone e ritrovata all'interno di un cassonetto in via Vico dei Fregosi, Genova. Sarà solo l'autopsia ad attestare che la morte è sopraggiunta a causa della rottura di un ovulo di cocaina nello stomaco. Chi ha scaricato il suo corpo ha voluto che venisse ritrovata. Sapeva che quello scatolone, lasciato mezzo aperto, non sarebbe passato inosservato.
Enigmi. Storie. Oggetti senza logica. Lo hanno ritrovato in avanzato stato di decomposizione con indosso un pantalone marrone e una t-shirt. In questo caso un nome c'è. Appare in un foglio che porta la scritta “Milan Novotnj ritornare il 22 luglio”. Il nome non appartiene a nessuno. Forse un appunto scritto di fretta o interpretato male ma che comunque, anche in questo caso, non porta a nulla. Riga dopo riga, leggendo il rapporto, a volte, ci si imbatte nel colore blu. Sono i corpi ritrovati in acqua. La cifra complessiva arriva a 221. La maggior parte di loro è accompagnato da una dettagliata scheda. Alcuni sono morti per annegamento, altri gettati per occultarne il cadavere. Non mancano i suicidi. Corpi carbonizzati. In alcuni casi senza arti. Tutti con la loro storia, ma riassunta in piccoli dettagli che aprono tante ipotesi. Come i resti umani rinvenuti nella discarica di Palazzo San Gervasio o quelli di una ragazza ritrovati in un cassonetto dato alla fiamme in via Grande, comune Trescali. Ci sono poi i resti umani. Solo ossa che dicono ben poco ma in alcuni casi lasciati a corrodersi alle temperie insieme agli ultimi oggetti che avevano con sé. E anche qui torna perentorio, asfissiante l'elenco sterminato di dettagli: una parrucca nera; un ciondolo raffigurante il volto di Gesù; un K-Way; una cintura riportante la scritta “Yixiunguo”.
FUNERALE LAICO. SENZA DIRITTI ANCHE DA MORTI!
Il funerale laico? Praticamente impossibile Quante difficoltà per chi muore senza Dio. Un decreto del Presidente della Repubblica del '97 delega ai Comuni l'autonomia per la costruzione delle Sale del Commiato dei non credenti. Ma la legge nella maggioranza dei casi è rimasta inapplicata, scrive Giulia Torlone il 31 maggio 2017 su "L'Espresso". La giornata era calda, quel caldo secco e ventilato tipico di una mattina di luglio in montagna. Margherita ricorda così l'ultimo saluto che ha dato alla madre, una mattina estiva nel paese abruzzese di montagna dal quale lei e la sua famiglia hanno origine. «Mia madre ha vissuto un'intera vita da laica, avrei mai potuto non rispettare il suo modo di vivere in occasione della sua morte?». Per farlo Margherita ha dovuto organizzare un funerale direttamente al cimitero, all'aperto, perché spazi alternativi per celebrare sua madre non ce n'erano. Una cerimonia tra amici e parenti, le poesie di Alda Merini, i ricordi ad alta voce per farsi forza a vicenda in un momento di inevitabile sofferenza. «Al di là di tutto, posso dire di essere stata fortunata, nonostante il dolore che provavo per la perdita di mia madre. E' morta in una giornata d'estate, rendendo più semplice a me e a tutta la famiglia la realizzazione del suo funerale. Abbiamo organizzato una piccola cerimonia direttamente al cimitero, con l'aiuto di un mio amico celebrante dell'UAAR (Unione degli Atei, Agnostici e Razionalisti, ndr). L'abbiamo ricordata come avrebbe voluto, tra poesie e ricordi di famiglia. Alla fine le abbiamo dedicato un brindisi, al tramonto, verso la vallata che guarda ad ovest». Sembra paradossale che Margherita si consideri fortunata ma in realtà è davvero così. Perché in pieno inverno, o con la pioggia, questa cerimonia non avrebbe potuto farla. Il comune non mette a disposizione sale per poter svolgere funerali laici. E probabilmente Margherita sarebbe stata costretta a ricordare la madre in chiesa, in mancanza di un'alternativa valida che le permettesse di rispettare le convinzioni che sua madre aveva espresso in vita. Secondo le stime di GFK-Eurisko e Eurispes, la percentuale di atei e agnostici in Italia è di circa il 19 per cento della popolazione: circa undici milioni di non credenti. Ma lo Stato italiano, in cui è principio supremo la laicità, rende difficile, quando non impossibile, svolgere funerali aconfessionali.
I funerali laici in Italia. Lo svolgimento dei funerali è normato, in Italia, dal DPR 285/90. Più volte il testo è stato oggetto di circolari interpretative e in alcuni casi è stato superato con nuovi provvedimenti di legge, tra cui quello che consente la cremazione del defunto. Il Decreto del Presidente della Repubblica del 14 gennaio 1997 che regola i requisiti strutturali e organizzativi di base per l'esercizio delle attività sanitarie a cui devono sottostare le strutture pubbliche e private, ha introdotto un elemento nuovo: nei requisiti minimi compare la voce di «istituire una sala per le onoranze funebri al feretro». Peccato che quest'ultimo intervento sul Servizio Mortuario sia, nella maggior parte dei casi, rimasto inapplicato dai Comuni. Per sopperire a questa mancanza, il 21 novembre 2011 è stata presentata da 53 deputati una proposta di legge attraverso la quale si chiedeva l'obbligo di istituire delle 'case funerarie', anche all'esterno del cimitero, in ogni comune per celebrare i funerali civili. Prima firmataria della proposta Gloria Buffo, tra gli altri figurano Giuliano Pisapia e Roberta Pinotti, attuale Ministro della Difesa. «Il commiato deve essere solenne e con una cornice adatta, qualunque sia la confessione del defunto. È un dovere della collettività» spiega all'Espresso Gloria Buffo, oggi non più deputata e appartenente a Sel, che difende con orgoglio la proposta portata in Parlamento per donare un ultimo saluto dignitoso a chi si professa ateo. Nel redigere il suo disegno di legge non ha trovato resistenze da parte dei parlamentari, ma confessa di non aver avuto quella «forza d'urto convincente» per far approdare la sua proposta sotto gli occhi del Governo. «La mole dei disegni di legge per ogni legislatura è immensa. Quando si parla di diritti civili, se non si ha pelo sullo stomaco e una determinazione a farsi ascoltare, i temi restano secondari nell'agenda governativa. Io questa forza non l'ho avuta e il disegno di legge è finito nel buio». Su proposta del Ministro della Salute Sirchia, nel 2003, il Consiglio dei Ministri decise di presentare un disegno di legge in Parlamento per disciplinare l'attività funeraria. Nel febbraio 2005 la Camera approvò il decreto ma, una volta al vaglio del Senato, non si tramutò in legge entro il termine della legislatura. Da quel giorno il provvedimento è lettera morta, nel silenzio generale. «Il paradosso è che non servirebbe neanche fare una legge apposita, il regolamento c'è già. Solo che non si applica» spiega Adele Orioli, responsabile delle iniziative legali e portavoce dell'associazione UAAR. In effetti già il testo 285 del 1990 e il successivo del 1997 delegavano ai Comuni la stesura di un Regolamento comunale di polizia mortuaria, volto a disciplinare la materia sul proprio territorio. Molti comuni però, nonostante il regolamento parli chiaro, non hanno messo a disposizione alcun luogo per le commemorazioni civili. Così il commiato laico nel nostro Paese resta un diritto censuario. Basti pensare alle camere ardenti, solenni e bellissime, messe a disposizione dai Comuni per politici, intellettuali, attori. Da Berlinguer a Calvino, per citare esempi più datati, fino ad arrivare a Carmelo Bene, Nilde Jotti, Indro Montanelli, Dario Fo, Umberto Veronesi e Valentino Parlato. Chi ha un nome importante in vita, muore dignitosamente e con rispetto delle proprie volontà.
Peccato che per i laici comuni un posto per essere ricordati fedelmente al proprio essere, nella maggior parte dei casi, non ci sia. Il punto centrale della questione è l'impossibilità all'autodeterminazione e questo deficit è tutto italiano. Nel resto d'Europa, i funerali laici sono all'ordine del giorno. In Svezia o in Finlandia la laicità è il cardine su cui si fonda la convivenza civile, niente dogmi imposti dall'alto. «Nel nord Europa esiste addirittura una 'cresima laica'. Un momento in cui un giovane diventa maturo, entra a far parte della società. Per questo si festeggia» racconta Adele Orioli. Lei stessa dal 2009 è diventata celebrante laica dopo essersi formata con la Federazione Umanista Europea, e tra i tanti matrimoni ha celebrato anche alcuni funerali. La richiesta è sempre maggiore e i luoghi continuano ad essere sempre troppo pochi, o inospitali. A Roma ci sono tre sale del commiato a disposizione, da prenotare rivolgendosi agli uffici comunali preposti. Una è quella del Tempietto Egizio, al Verano; ce n'è poi un'altra nel cimitero di Prima Porta, adiacente all'area per la cremazione e l'ultima si trova a Ostia. Il Tempietto Egizio è una sala suggestiva, purtroppo però è piccola e sorge di fianco al cimitero dei bambini, aggiungendo dolore al dolore. La sala nel cimitero Prima Porta è più grande, peccato che ci piova dentro. Nei comuni più piccoli non solo non esiste alcun luogo per svolgere le commemorazioni laiche a un defunto, ma c’è anche di più: in alcune zone d’Italia persiste un regolamento così datato che obbliga il feretro a percorrere il tragitto più breve tra l’obitorio (o l’abitazione) e la chiesa dove si intende svolgere il funerale. In caso di assenza di quest’ultimi, il regolamento obbliga a recarsi direttamente al cimitero. Nessun luogo di passaggio per il commiato, infrangeresti la legge. «Per dare disponibilità ai nostri clienti di un servizio completo, abbiamo creato nella nostra struttura una sala per i non credenti». Al telefono c’è il giovane Taffo, della famiglia proprietaria di sei pompe funebri tra Abruzzo e Lazio. La sede principale è a L’Aquila, dove il comune ha fatto orecchie da mercante sul dotarsi di una sala del commiato. «Non posso mostrare numeri, perché non li ho, ma la percentuale di richieste per funerali aconfessionali credo che non sfiorerebbe neanche l’uno per cento, noi ne riceviamo pochissime. Anche io ho un amico ateo, con famiglia altrettanto non credente, che alla morte del padre ha scelto il funerale in chiesa. Si sa come siamo in provincia, la scelta di un funerale religioso è più facile». La facilità delle celebrazioni religiose è indubbia, perché è consuetudine. In chiesa però solitamente per fare il funerale si fa un'offerta, in alcuni casi consistente. Nella sala del commiato, qualora ce ne fossero a disposizione, sarebbe gratuito, perché si tratta di uno spazio comunale e dunque creato per la collettività. È più facile svolgere celebrazioni appartenenti a religioni minoritarie, perché qualunque confessione mette a disposizione i propri spazi. Dalla Chiesa Valdese ai riti ebraici, i fedeli hanno la possibilità di contare sulla propria comunità. Anche le pompe funebri, con i propri carri che hanno simboli religiosi removibili e dunque sostituibili, sembrano aver capito come il mondo si evolva e necessiti di essere sempre più inclusivo.
Bologna, con la sua "Sala d’attesa" del cimitero monumentale della Certosa è un esempio emblematico. Chiusa al pubblico a causa dei danni provocati dal terremoto emiliano del 2012, è stata riaperta arricchita dall'allestimento artistico di Flavio Favelli intitolato "Sala d'Attesa". Prima dell'intervento lo spazio si presentava disadorno, privo di attrezzature adeguate ad accogliere persone che si ritrovano ad affrontare momenti di particolare dolore. La sala ora è illuminata da 25 lampadari di cristallo appesi a una struttura portante in ferro. Le panche a gradoni, quasi un anfiteatro, accolgono il pubblico. Milano invece è stata la prima città italiana a dotarsi di un luogo per le esequie laiche, nel 2002. Si tratta del Tempio Civile realizzato all’interno del cimitero di Bruzzano. In ogni caso in cui sia sorta una sala del commiato, il merito è stato delle pressioni dell’opinione pubblica sul proprio comune d’appartenenza, di cui spesso l’UAAR si è fatta portavoce e ha dato battaglia per far ascoltare le istanze dei cittadini. Firenze mette a disposizione una stanza di Villa Vogel, aperta solo nei giorni feriali. Le cerimonie devono conciliarsi con gli uffici presenti all’interno della struttura.
La cerimonia laica è costruita su misura della persona da ricordare. Si ascolta la famiglia e si organizza un momento che possa rappresentare fedelmente il defunto. Da qualche anno, l’UAAR mette a disposizione dei celebranti che prendono in carico l’organizzazione e lo svolgimento della cerimonia. Una grande conquista, per donare alla cerimonia quel senso di solennità che merita. Ci vuole un gran coraggio a guardare in faccia il dolore di persone estranee e tentare di tirarne fuori il bello che c’è. Adele Orioli ci riesce e ce lo racconta. Parla di un ragazzo di trentadue anni, morto dopo una lunga malattia. «Era una persona atea, ai limiti dell’anticlericale». E racconta di una cerimonia particolarmente intensa, costruita attraverso le canzoni rock che il ragazzo amava di più. «Costruisco la cerimonia nella maniera più fedele alla persona defunta, perché possa essere un momento intimo e personale. Parlo con la famiglia, ricerco le parole giuste, senza forzature da cerimonia preimpostata». Un momento personale, diverso da una cerimonia religiosa con i suoi dettami, può diventare anche un momento di riscatto. Quello che spesso si è aspettato per un’intera vita. È il caso di Aiché Nana, ballerina e attrice famosa per il suo spogliarello nel locale romano Rugantino, che ispirò a Federico Fellini una celebre scena de La Dolce Vita. La stampa le ha attribuito per anni, erroneamente, la nazionalità turca. Affezionata alla sua terra, l’Armenia, ha avuto grazie a sua figlia una cerimonia funebre fatta di canzoni, di letture e abiti armeni. Per dimostrare chi era stata, di quale storia fosse figlia. Così, in Italia, l'ateo è costretto a lottare per ottenere un diritto che oltre i nostri confini è rispettato e tutelato. Quello di un fine vita dignitoso, arrivando per proprio conto lì dove lo Stato non vuole guardare. E se nel nostro Paese meritano dignità e diritto all’esistenza chiunque pratichi qualsiasi culto, è il momento che lo Stato rispetti ugualmente chi non ne possiede alcuno.
LA GERMANIA: AL DI LA' DEI LUOGHI COMUNI.
Uno scandalo infinito: Deutsche Bank nei guai anche per riciclaggio. Per l'accusa la banca ha aiutato i clienti a spostare denaro sporco in paradisi fiscali, scrive Rodolfo Parietti, Venerdì 30/11/2018, su "Il Giornale". Nel suo poco invidiabile palmarès, fitto-fitto di magheggi contabili, manipolazioni di vario genere e sanzioni miliardarie, adesso Deutsche Bank aggiunge anche l'accusa di riciclaggio di denaro. Notificata ieri nel corso delle perquisizioni compiute da 170 agenti nelle sedi dell'istituto a Francoforte, Eschborn e Gross-Umstadt. L'ennesimo scandalo che vede coinvolta la prima banca tedesca, costato subito al titolo una picchiata del 3,5%, è legato all'inchiesta dei Panama Papers: gli inquirenti sono convinti che Deutsche «abbia aiutato alcuni clienti a creare società off-shore nei paradisi fiscali» allo scopo, appunto, di lavare il denaro sporco. Quattrini di origine criminale, fatti transitare da due dipendenti e da «altri responsabili del gruppo non ancora identificati» su svariati conti di DB senza notificare nulla alle autorità di vigilanza. La contestazione si basa infatti anche sulla mancata segnalazione di un «sospetto di riciclaggio nei confronti delle società offshore responsabili di frode fiscale prima dell'emersione nell'aprile 2016 dello scandalo Panama Papers». E ciò malgrado la banca avesse a disposizione, secondo l'accusa, «elementi sufficienti fin dall'inizio del rapporto tra la banca e questi clienti» per stabilire la provenienza illecita del denaro. Nel corso del solo 2016, in particolare, una filiale di Deutsche Bank nelle Isole Vergini britanniche avrebbe preso in carico «più di 900 clienti con un volume d'affari di 311 milioni di euro». «Noi eravamo convinti di aver già trasmesso alle autorità tutte le informazioni più rilevanti in merito ai Panama Papers», ha dichiarato DB in una nota, aggiungendo nondimeno che «coopereremo pienamente con gli inquirenti». L'Italia è coinvolta nell'inchiesta? «Non ne so nulla», ha detto il chief country officer di Deutsche Bank Italia, Flavio Valeri. L'ennesima tegola giudiziaria arriva nel momento in cui l'istituto di Francoforte affronta indagini relative al suo ruolo nel riciclaggio di denaro presso la filiale estone della Danske Bank. Secondo gli inquirenti, oltre 230 miliardi di dollari, prevalentemente di provenienza russa, sarebbero transitati dalla filiale estone dell'istituto danese per un circuito che girava dal colosso di Francoforte (ma anche da JP Morgan e Bank of America) per uscirne immacolati. Circa 150 miliardi di dollari sarebbero passati da DB. Gli ultimi dieci anni del colosso tedesco del credito sono del resto costellati da una serie di ripetute grane. Dalla crisi del 2008, la banca ha accumulato circa 18 miliardi di dollari di multe. Oltre alle vicende tossiche dei mutui subprime che erano già costate alla banca 1,3 miliardi di dollari nel 2013, l'istituto di Francoforte è stato implicato nella manipolazione del tasso interbancario Libor e delle quotazioni dei metalli preziosi, nella violazione delle sanzioni Usa contro Iran, Libia e Siria e, più recentemente, nell'affaire Ex-Cum riguardante i guadagni illeciti ottenuti dai dividendi.
Deutsche Bank, l'inchiesta per riciclaggio: aiutava i clienti a creare conti off-shore? Scrive il 30 Novembre 2018 Libero Quotidiano". Oltre 170 agenti hanno perquisito ieri mattina sei sedi della Deutsche Bank, prima banca tedesca per masse gestite. Secondo gli inquirenti, il gruppo bancario avrebbe aiutato i propri clienti a «creare società off-shore in paradisi fiscali» con l'obiettivo di riciclare capitali di provenienza criminale. Le indagini prendono avvio dai Panama Papers, documenti che contenevano le prove di una maxi evasione fiscale. L' accusa, per il momento confinata a due dipendenti, potrebbe allargarsi a macchia d' olio, coinvolgendo a vari livelli la dirigenza dell'istituto. Infatti non solo Deutsche Bank avrebbe fornito assistenza a chi voleva ripulire i propri soldi, ma avrebbe anche chiuso un occhio sul quel transito di denaro: nessuna denuncia è stata fatta alle autorità. Sembra evidente allora che ci siano delle complicità trasversali ancora da accertare, come confermato del resto dagli inquirenti quando parlano di «altri responsabili del gruppo non ancora identificati». Le somme sono considerevoli. Solo nel 2016, una società legata alla banca con sede alle Isole Vergini, avrebbe gestito 900 clienti per un volume d' affari di 311 milioni di euro. Questo è solo l'ultimo fronte aperto sul versante giudiziario per la Deutsche Bank, già multata dagli Usa nel 2015 per aver truccato il tasso Libor, e ora sotto accusa per lo scandalo di riciclaggio che coinvolge la danese Danske Bank.
La verità dietro i numeri su lavoro e reddito in Germania. Salari bassi, polarizzazione economica, aiuti sociali: la disoccupazione cala, ma aumentano indigenza e diseguaglianze. E il Quantitative easing della Bce aiuta solo i ricchi, scrive Stefano Casertano il 17 novembre 2018 su Lettera 43. Siamo abituati a pensare alla Germania come al paradiso dei lavoratori salariati, ma la realtà è ben diversa da quello che raccontano le statistiche. Non che esse mentano: è vero che la quota di disoccupazione è appena al 5,3%, dopo aver toccato un massimo dell’11,7% nel 2005. Solo che 3,7 milioni di lavoratori percepiscono uno stipendio inferiore ai 2 mila euro lordi al mese, pari a circa 1.600 euro netti al mese; e in totale sono 8 milioni i tedeschi che percepiscono una qualche forma di assistenza sociale: uno su 10. La marea di lavoratori a basso salario si lascia individuare da un altro numero: il 17,7% di questi 8 milioni è impiegato a tempo pieno, con una differenza spaventosa tra l’Est e l’Ovest. Nell’ex Ddr il 31,2% delle persone che ricevono sussidi ha un lavoro a tempo pieno. Non sono così servite a molto le politiche di apertura “socialdemocratica” dei governi guidati dalla cancelliera Angela Merkel: il salario minimo portato a 8,84 euro l’ora non riesce ad arginare la valanga. Il 19% dei tedeschi, secondo uno studio dello Statistisches Bundesamt, è a rischio povertà. La media dell’Unione è del 22,5%, ricomprendendo tutti i territori più svantaggiati come la Grecia e il Meridione italiano. Quanto sta avvenendo in Germania è frutto delle politiche di riforma socialdemocratiche degli Anni 2000. Per affrontare la crisi economica impellente nel Paese, l’allora cancelliere Gerhard Schröder varò una serie di misure che comprendevano l’abbattimento delle aliquote fiscali per i più ricchi, il congelamento di fatto dei salari, e la diminuzione dei sussidi fiscali. Queste misure hanno avuto il merito di collocare la Germania nel nuovo profilo globalizzante di stampo asiatico: ridurre i costi del lavoro per offrire produzioni di alta qualità ed entrare così nei mercati orientali. È normale conseguenza dei disegni economici orientati alle esportazioni che la ricchezza si polarizzi, perché va a premiare i detentori del capitale rispetto ai lavoratori salariati. La ripresa tedesca da allora, con il benestare della nuova amministrazione targata Cdu, è stata però tremendamente diseguale. Il reddito medio delle famiglie appartenenti al 40% meno abbiente della popolazione è diminuito del 7% tra il 1999 e il 2015, mentre il 10% dei più ricchi ha visto il proprio reddito incrementare del 20% nello stesso periodo.
CRESCE LA "SEGREGAZIONE SOCIALE". È pur vero che parte del fenomeno è dovuta alla nuova immigrazione e al fatto che più donne partecipano al lavoro (e guadagnano meno dei colleghi maschi). Ma è innegabile come le statistiche da record sulla disoccupazione nascondano un malessere ormai endemico, in quanto strettamente legato al concetto economico vincente. Oltre ai numeri, il problema è che la differenza sta creando nuove società separate che con difficoltà potranno essere unite di nuovo. Uno studio del berlinese Wissenschaftszentrums Berlin für Sozialforschung ha rilevato che la “segregazione sociale” è cresciuta nell’80% delle città tedesche tra il 2004 e il 2014. A ciò si aggiunge il problema della qualità del lavoro: la frammentazione dei diritti contrattuali, in favore del lavoro atipico, costringe a uno stile di vita molto diverso dal passato. Si prendano i casi di burn out: la cassa medica Aok (una delle più grandi) ha rilevato come nel 2004 otto persone su 1.000 si erano dovute allontanare dal lavoro per sfinimento, mentre nel 2015 sono state 101. Anche i casi di depressione sono aumentati considerevolmente, nonostante una battuta d’arresto tre anni fa. Si sta creando di fatto una nuova nobiltà industriale nella quale le 45 famiglie tedesche più ricche posseggono lo stesso patrimonio del 10% dei tedeschi meno abbienti. Il primo 5% dei tedeschi più ricchi detiene il 51,1% del patrimonio. È forse la normalità: laddove si concentra il potere industriale, l’industria crea estrema ricchezza. Eppure, è innegabile che si stia tornando a livelli da romanzo della famiglia Mann. L’aspetto più preoccupante è l’impossibilità di attuare contromisure. A livello europeo, la politica dei tassi negativi applicati dalla Banca centrale (rifinanziamento a -0,4%, stabile dal 2016) non ha più modo di stimolare la crescita in maniera equilibrata per tutta la popolazione, proprio perché la struttura economica e sociale non è in grado di distribuire adeguatamente il credito. In tempi normali, un tasso simile porterebbe a livelli d’inflazione spaventosi, soprattutto dopo un periodo di tempo lungo (era il 2009 quando i tassi Bce scesero sotto l’1%). Nel caso tedesco, il credito non stimola l’inflazione perché va a beneficio delle operazioni industriali più grandi e degli investimenti immobiliari, creando ancora maggiori disparità di reddito.
AFD E VERDI CALAMITANO GLI SCONTENTI DELLA CDU. Non è quindi un caso se 1 milione di famiglie tedesche siano minacciate dalla povertà a causa dei costi degli affitti in aumento. Il rilevamento è della Sozialverband Deutschland, ente di rappresentanza socio-politica. Non è neanche un caso che i prezzi di acquisto degli immobili aumentino anche del 10% l’anno nelle grandi città. Si è tentato di porre un freno agli aumenti con una misura definita, per l’appunto, “Freno agli affitti” (Mietbremse), sorta di equocanone in derivazione teutonica, ma è servito a poco. Tutto questo rappresenta una minaccia per la stabilità politica della Cdu. I land meno abbienti sono andati verso la destra di Alternative für Deutschland, mentre in Baviera (e sembra in altre parti dell’ex Germania Ovest) stanno guadagnando terreno i Verdi. In altre parole, la gente è stanca della Cdu, ma non può andare verso i socialdemocratici perché essi hanno riformato la Germania in questo modo. Se poi il governo attuale è Cdu-Socialdemocratico, il calcolo della fine politica di Angela Merkel è fatto.
“Io, ingegnere di 63 anni in cerca di lavoro. La Germania non è il paradiso e gli italiani qui sono spesso ai margini”. Lino, con la crisi del settore delle costruzioni, si è ritrovato a piedi e non più giovane. Ha figli e famiglia e così ha deciso di andare a Stoccarda. Lì, però, "dicevano anche che ero troppo qualificato o che non potevano offrirmi un posto adeguato". Quindi si è spostato in Francia dove "conta più il saper fare che il peso dell’età", scrive Silvia Bia il 15 giugno 2018 su "Il Fatto Quotidiano". Rimettersi in gioco dopo aver perso il lavoro, cercando fortuna all’estero proprio come fanno i giovani, quelli che in Italia vengono chiamati “cervelli in fuga”. E farlo quando l’età non è più quella della laurea o di un primo impiego, ma comincia ad avvicinarsi a quella del pensionamento. È ciò che ha fatto Lino, ingegnere italiano di 63 anni che dopo la liquidazione dell’azienda in cui lavorava e dopo aver cercato invano una nuova occupazione in Italia sempre come ingegnere, si è trasferito a Stoccarda, in Germania, investendo su corsi di lingua e master professionalizzanti. La sua esperienza però non è andata a lieto fine, tanto che successivamente ha ripiegato sulla Francia dove, a suo dire, “conta più il saper fare che il peso dell’età”. Anche per questo motivo il nome che utilizziamo per raccontare la sua storia è di fantasia, per salvaguardare la sua famiglia e non pregiudicare la sua ricerca di una nuova occupazione. “In Germania ho inviato tanti curriculum e mi sono arrivate molte risposte: mi facevano i complimenti, ma dicevano anche che ero troppo qualificato o che non potevano offrirmi un posto adeguato – spiega Lino a ilfattoquotidiano.it -. La verità è che la Germania non è l’El Dorado che raccontano. Gli italiani qui sono spesso ai margini della società. Chi pensa di trovare fortuna ma non ha una qualifica, viene sfruttato. Magari guadagna 1500 euro lordi al mese, ma deve pagare circa 500 euro in tasse se non ha nessuno a carico, e una stanza, se la trova, può costare anche 500 euro in nero. Insomma, vivacchia, più che vivere”. Per i giovani magari ci sono delle opportunità, ma questo, sottolinea Lino, è “perché in Italia non avevano un lavoro o erano precari. Ma per chi ha creato qualcosa e vuole andare avanti, non è possibile accettare queste condizioni. La lingua poi è un muro e non è facile parlare un tedesco adeguato al livello di un lavoro specialistico”.
In Germania chi pensa di trovare fortuna ma non ha una qualifica viene sfruttato. Lino è a tutti gli effetti un “cervello in fuga” anche se over 60, come dimostra il suo curriculum, che oltre a una laurea in ingegneria civile e vari master di specializzazione, vanta la conoscenza di cinque lingue e ruoli apicali in diverse imprese, con lavori perfino in Africa, fino all’incarico di direttore tecnico in una grossa impresa di Bergamo dal 2005. Con la crisi del settore delle costruzioni e dei lavori autostradali però l’azienda va in concordato preventivo e poi in liquidazione, e Lino si ritrova a piedi, non più giovane, prima in cassa integrazione e poi in mobilità. Tuttavia non si perde d’animo: ha una famiglia, dei figli, il bisogno di lavorare. Con il concorso vinto negli anni Novanta, comincia a fare il docente nelle scuole superiori, oltre a dei piccoli lavori di consulenza, almeno per non stare fermo e interrompere la mobilità. “Tutto diventa enormemente più difficile per chi ha superato i 50 anni o peggio per chi come me in mobilità ha superato i 60 e deve aspettare i 68 per avere una pensione che non sarà più adeguata. Ma nel frattempo cosa si fa? I mutui, la famiglia? – si chiede Lino -. Nel mio caso mi hanno detto che costo troppo, ma io ho cercato anche lavori di livello inferiore, l’importante era lavorare”. In Italia, nonostante il curriculum, l’unica opportunità che si è presentata a Lino è stata quella dell’insegnamento. Una soluzione tampone, che però non può durare per molto. “Il settore costruzioni è completamente fermo, per persone come me qui non c’è mercato, le aziende cercano i giovani per sfruttarli, oppure attendono di vincere un appalto per assumere personale. Ho anche pensato di tornare in Africa, ma poi alcuni conoscenti e colleghi mi hanno parlato della Germania, mi hanno detto che poteva esserci possibilità per figure come me e che avrei potuto lavorare nel settore della bioedilizia”.
Quello che ho notato è che gli immigrati, anche quelli più istruiti, occupano posizioni ben al di sotto delle loro capacità e delle loro qualifiche. Così Lino a fine giugno 2017 si trasferisce a Stoccarda, dove frequenta un corso di tedesco per livello B1 e B2, seguito da un minimaster dell’Accademia ingegneri per conoscere il sistema delle costruzioni tedesco. Tutto questo però non è bastato a inserirsi nel mercato del lavoro: “Pensavo di essere avvantaggiato dalla conoscenza di altre lingue – continua – ma anche per posizioni di minore responsabilità occorre parlare e scrivere in tedesco in modo perfetto, ci vorrebbero anni anche per un giovane. E quello che ho notato è che gli immigrati, anche quelli più istruiti, occupano posizioni ben al di sotto delle loro capacità e delle loro qualifiche”. La Germania, insomma, non è il paradiso del lavoro, e questo nonostante il boom del settore costruzioni, che rispetto all’Italia è molto attivo e ha progetti di sviluppo per i prossimi decenni. “In Germania ci sono tantissimi italiani, ma non solo giovani – racconta Lino -. Sono le generazioni venute negli anni ’60 e ’70 ed ora in pensione oppure persone che in Italia avevano un lavoro qualificato, dirigenti o ex imprenditori falliti che hanno perso tutto. Si vergognano di rimanere nel proprio paese, che non li aiuta, di farsi vedere disoccupati o falliti. Allora vengono qui, e accettano qualsiasi lavoro, anche i più umili, pur di fare qualcosa”.
Lino però ha deciso di non accontentarsi, quindi ad aprile ha fatto di nuovo le valigie ed è partito per la Francia. “In Germania avevo la possibilità di fare il postino nell’attesa di imparare meglio il tedesco, ma con che prospettive avendo una famiglia alle spalle? Se fossi stato giovane sarei rimasto, ma non posso, mi sono sentito svilito”. La rabbia però, riguardando il suo percorso, c’è ed è tanta. Verso i falsi miti della Germania, ma soprattutto verso il suo paese, l’Italia: “L’Ufficio del lavoro in Italia è semplicemente inutile, un carrozzone economico che serve solo a chi ci lavora dentro se paragonato alle analoghe agenzie del lavoro degli altri paesi europei più civili. In Germania come in Francia, gli equivalenti centri per l’impiego forniscono servizi che in Italia sono impensabili, come un consigliere che guida nella ricerca del lavoro, corsi di formazione e minijob di 450 euro mensili che poi possono essere integrati con l’aiuto dello Stato. In Italia non esiste nemmeno un sito internet strutturato adeguatamente”. Il dito è puntato anche verso lo stato delle cose in Italia: “Nel Nord Europa ci sono progetti di sviluppo fino al 2030, nel nostro paese è tutto fermo, le grandi imprese di costruzione italiane fatturano il 90 per cento all’estero. E così i migliori imprenditori del made in Italy falliscono o vanno oltreconfine”.
Dalla politica alla birra, dalla filosofia al calcio: Italia-Germania, storia di amore e odio. Dietro i luoghi comuni e gli sfottò reciproci, c’è un legame secolare ormai inestricabile. Fatto di cultura, arte, filosofia. E pallone, scrive Gianfranco Turano il 21 settembre 2017 su "L'Espresso". Il luogo comune fra Italia e Germania è una nazione europea a parte. Meriterebbe un inno, una capitale e una bandiera. Loro sono quelli del surplus commerciale. Noi quelli del debito. Loro sono disciplinati e prevedibili. Noi caotici ma fantasiosi. Loro sono quelli che il calcio si gioca in undici e alla fine vincono i tedeschi, salvo quando incontrano gli azzurri (1970, 1982, 2006, 2012). Loro e noi usiamo le parole “italiano” e “tedesco” sia in senso di elogio sia in senso di offesa. In termini storici siamo le grandi nazioni più recenti dell’Europa occidentale. Quando Francia, Spagna, Portogallo e Gran Bretagna erano imperi, noi eravamo accozzaglie di staterelli, con l’eccezione del Mezzogiorno unito dai Borboni e dalla cultura filosofica tedesca imposta dalla Santissima Trinità dell’idealismo Schelling-Fichte-Hegel. Secondo il livello culturale, l’Italia per la Germania è il paese dove fioriscono i limoni (Johann Wolfgang Goethe), della morte a Venezia di Thomas Mann e degli amori di Arthur Schopenhauer. Oppure sono le pensioni romagnole dello slogan “carbonara e una coca cola”, tormentone demenziale del gruppo tedesco Spliff datato 1982. Nel testo in italiano maccheronico, o forse crautesco, noi siamo il paese delle Brigate (sic) Rosse e della Mafia, dove regnano i gelati Motta e «la distruzione della lira»: lo sfascio valutario come vocazione etnica. Noi per loro siamo viaggio e divertimento. Loro per noi sono il lavoro che da noi non c’era, le fabbriche di un secondo dopoguerra dove noi e loro avevamo da farci perdonare le atrocità dell’Asse nazifascista, rimpiazzato dal binomio democristiano ed europeista fra Alcide De Gasperi e Konrad Adenauer. L’Italia del boom cresce con le rimesse degli emigranti, quando gli africani eravamo noi. Si diverte con i passi di danza delle gemelle Kessler da Nerchau, Sassonia, e sogna la brandeburghese Solvi “chiamami Peroni” Stubing, scomparsa lo scorso luglio a Roma. Poi arrivano gli anni Settanta e Ottanta, il terrorismo e la strategia della tensione nei due paesi chiave per la dialettica dei blocchi est-ovest. Sono gli anni segnati dal motto di spirito di Giulio Andreotti («Amo tanto la Germania che ne preferisco due»), spazzato via dalla riunificazione. Da lì in avanti, è cronaca. Oggi il borsino dell’amore-odio italotedesco è in rialzo dopo il gelo provocato dalla raffinata definizione berlusconiana della cancelliera Angela Merkel. Tutto perdonato. Le relazioni fra Italia e Germania hanno superato ben altre tempeste. Dimenticare è l’unica via. Loro sono il nostro lasciapassare in sede europea. Noi, con la nostra incapacità di attenerci ai parametri sul deficit, siamo il loro alibi per sfondare le prescrizioni sulla bilancia commerciale e per vendere macchine migliorate dalla componentistica del Lombardo-Veneto. La Germania è il primo partner dell’Italia nelle importazioni e nelle esportazioni con un interscambio record di 112,1 miliardi di euro nel 2016 (52,7 di export verso la Germania e 59,4 di import dalla Germania). I francesi, nonostante i loro raid, sono secondi a grande distanza (76,4 miliardi) e gli Usa terzi con volumi più che dimezzati (50,8 miliardi). Ma il gioco dell’ipocrisia non serve solo ai profitti e alla ripresa economica. L’Europa siamo noi. Anche altri. Ma noi più di altri e forse proprio perché per secoli, mentre gli altri si avventuravano in Africa o in Asia, noi rimanevamo con i nostri limoni e crauti, con la Cappella Sistina e il mondo come volontà e rappresentazione. E ormai è chiaro. Noi significa noi insieme con loro.
Tedeschi a parole italiani nei fatti. Clientelismo e corruzione vanno di moda anche a Berlino. Il salvataggio delle banche con i fondi dello Stato. E il cartello tra i big dell’auto. Il rigore teutonico vale per tutti, non per la Germania. Qui il familismo amorale di stampo italiano la fa da padrone: «Hanno pensato a salvare se stessi per poi diventare rigoristi a spese altrui», scrive Vittorio Malagutti il 21 settembre 2017 su "L'Espresso". Le cronache raccontano che nell’estate del 2007, all’alba della crisi finanziaria destinata a frantumare certezze e bilanci dell’Occidente, la prima banca che implorò l’intervento pubblico per evitare il crack fu la tedesca Ikb, seguita di lì a poco dalla connazionale Sachsen LB. Da allora, secondo i calcoli più recenti, il governo di Berlino ha mobilitato quasi 200 miliardi di fondi statali per salvare il sistema creditizio del Paese: da colossi come Commerzbank fino alle Sparkasse locali, travolte da un decennio e più di cattiva gestione, tra speculazioni azzardate e prestiti a rischio. L’esatto ammontare degli aiuti di Stato alle banche tedesche è da tempo oggetto di dibattito tra gli analisti. C’è chi è arrivato a calcolare, sommando al totale anche le garanzie e le linee di liquidità temporanee, un impegno complessivo superiore a 400 miliardi di euro. Prendendo per buona la cifra di 200 miliardi si arriva comunque a un esborso complessivo pari all’incirca al 7 per cento del prodotto interno lordo tedesco. Uno sforzo colossale per la più forte economia del continente che, come ha scoperto a sue spese, era sostenuta da un sistema bancario fragile e molto spesso corrotto. La crisi delle Landesbank, paragonabili alle nostre casse di risparmio, è stata amplificata da un sistema di clientele e favoritismi cementato dalla presenza di esponenti politici nei consigli di amministrazione degli istituti, nel cui capitale sociale erano (e sono) rappresentati in forze gli enti pubblici locali. Questa miscela esplosiva di corruzione e campanili ricorda molto quanto è successo nei film dell’orrore nostrani, dall’Etruria alle Popolari venete, fino a Banca Marche. Nelle crisi delle banche regionali tedesche il rigore teutonico si è appannato fino a somigliare molto al familismo amorale di marca italiana. E qualcosa di simile pare sia successo anche nel caso del presunto accordo di cartello tra le grandi case automobilistiche tedesche, Volkswagen, Mercedes e Bmw. I colossi delle quattro ruote avrebbero imbrogliato il mercato stipulando intese segrete con l’obiettivo di contenere i costi e aggirare le normative. Comprese, per fare un esempio, anche le regole sulle emissioni dei motori diesel, già al centro di indagini e di super multe (14,7 miliardi di dollari a Volkswagen negli Usa) su entrambe le sponde dell’Atlantico.
Anche nell’alto dei cieli talvolta Italia e Germania condividono vizi comuni. Saranno gli aiuti di Stato, quelli del governo tedesco, a evitare la chiusura di Air Berlin travolta dalle perdite. Proprio come è successo solo pochi mesi fa con l’Alitalia, salvata, per la terza volta in dieci anni, con il decisivo contributo delle casse pubbliche. Cambia solo l’entità del finanziamento statale: 600 milioni per la società tricolore e 150 per quella germanica. Insomma, un doppio salvataggio sull’asse Roma-Berlino. Con buona pace dei tedeschi di Lufthansa, che nel 2014 partirono all’attacco dei concorrenti italiani, con tanto di denuncia alla Commissione di Bruxelles, quando il governo di Enrico Letta scongiurò il crack di Alitalia agevolando l’ingresso dei nuovi soci arabi. «Concorrenza violata», strillavano in Germania. Adesso invece, a soli tre anni di distanza, i severi guardiani del mercato osservano un religioso silenzio mentre Lufthansa, interamente controllata da capitale pubblico, si prepara a farsi carico di quel che resta di Air Berlin.
Nel caso dei disastri bancari, le analogie tra Germania e Italia si fermano alle comuni origini localistiche di alcune delle crisi. L’incendio tedesco è stato infatti domato con largo anticipo rispetto a quanto è avvenuto in Italia. Ad aprile del 2014, quando il Parlamento europeo ha approvato la direttiva sulla risoluzione degli enti creditizi, la Germania aveva già in gran parte provveduto a scongiurare il crack del sistema bancario grazie a massicce dosi di fondi pubblici. Ovvero quel tipo di aiuti che le nuove norme europee avrebbero poi messo al bando, fatte salve poche e delimitate eccezioni, prescrivendo l’obbligatorietà del bail in, cioè il salvataggio finanziato non più a spese dei bilanci pubblici, ma con il contributo determinante di soci e creditori privati.
«I tedeschi hanno pensato a se stessi per poi diventare rigoristi a spese altrui». È questo, in sintesi, l’argomento polemico cavalcato dalla classe politica nostrana, dal Pd renziano fino ai Cinquestelle, per attaccare il governo di Berlino. È anche vero, però, che a partire almeno dal 2011 i governi di volta in volta al potere a Roma hanno perso tempo cullandosi nell’illusione che il sistema bancario tricolore fosse immune, o quasi, dal contagio della crisi mondiale. Da parte loro, le authority di controllo, Banca d’Italia e Consob, si sono ben guardate dal turbare il sonno dei politici. Così, quando i buchi in bilancio sono finalmente emersi, era diventato molto più difficile, sulla base delle nuove regole europee, attingere al serbatoio dei fondi di Stato. Detto questo, i 17 miliardi stanziati per la crisi delle Popolari venete, e gli 8,3 miliardi impiegati per il salvataggio del Monte dei Paschi, restano ben poca cosa rispetto alle somme impiegate dalla Germania negli interventi a sostegno delle proprie banche. Va detto però che gli istituti che hanno ricevuto gli aiuti di Stato erano già in buona parte, per almeno il 40 per cento, a partecipazione pubblica. Il governo tedesco si è quindi mosso per salvaguardare un proprio cespite e non ha nazionalizzato beni in precedenza a controllo privato.
Una ricerca pubblicata di recente dall’ufficio studi di Mediobanca segnala che le sei maggiori Landesbank tra il 2008 e il 2009 hanno ricevuto circa 27 miliardi di euro di contributi pubblici, pari al 69 per cento dei loro mezzi propri all’inizio del periodo considerato. Le stesse banche, che rappresentano il 13 per cento circa delle attività del sistema creditizio del Paese, hanno inoltre beneficiato di garanzie statali per altri 96 miliardi. Buona parte di questi interventi si è concentrata nella prima fase della crisi finanziaria globale, tra il 2008 e il 2010, ma ancora nel 2015 banche come la Hsh Nordbank hanno evitato il naufragio grazie a un salvagente del valore di 3 miliardi messo a disposizione dai suoi principali azionisti: la municipalità di Amburgo e il Land dello Schleswig Holstein. Anche nella vicina Brema la locale Landesbank pare tutt’altro che risanata. Il bilancio 2016 si è chiuso con 1,3 miliardi di perdite per effetto di svalutazioni di prestiti a rischio per 1,5 miliardi. Come dire che ci vorrà ancora tempo per coprire una volta per tutte i buchi delle casse locali, mentre sul futuro del sistema creditizio tedesco pende ancora l’incognita della Deutsche Bank, la più grande banca del Paese, un colosso globale messo quasi al tappeto da investimenti sbagliati ed eccesso di speculazione. Nel marzo scorso un nuovo aumento di capitale, il terzo in quattro anni, ha raccolto altri 8 miliardi di euro sul mercato per rafforzare il patrimonio come richiesto dalle autorità di controllo. E, dopo le maxi perdite degli anni scorsi (1,4 miliardi nel 2016 e 6,8 miliardi nel 2015), l’istituto con base a Francoforte ha chiuso il primo semestre del 2017 con profitti netti per un miliardo.
I conti migliorano, quindi, ma adesso i rischi maggiori sembrano legati alle vicissitudini dei due soci più importanti: la famiglia reale del Qatar (9 per cento) e il gruppo cinese Han (9,9 per cento circa). Il ricco emirato è finito nel mirino delle sanzioni economiche varate da un fronte arabo a guida saudita ed è possibile che scelga di ridurre il suo impegno sui mercati. La holding di Pechino deve invece fare i conti con il giro di vite imposto dal proprio governo nei confronti di alcuni grandi investitori. Anche in questo caso c’è quindi il rischio di un disimpegno. Per la Germania sarebbe il colmo: messa alle strette da arabi e cinesi, da sempre suoi grandi clienti.
Immigrazione e manipolazione: come i media tedeschi hanno falsificato la realtà, scrive Giampaolo Rossi il 4 agosto 2017 su "Il Giornale". È un atto di accusa senza precedenti quello contro i media tedeschi: nel pieno dell’emergenza migranti, tra il 2015 ed il 2016, i principali giornali della Germania hanno deliberatamente falsificato la realtà dando un’informazione unilaterale e acritica del fenomeno abbracciando esclusivamente il punto di vista della Merkel, del suo governo e dell’élite politica ed economica che voleva imporre all’opinione pubblica la “cultura dell’accoglienza indiscriminata”. L’accusa non viene dai soliti polemisti reazionari, da spudorati blogger di destra o dai sempreverdi xenofobi utili per liquidare qualsiasi opposizione al delirio del multiculturalismo ideologico. No. Stavolta l’accusa parte da una ricerca della Fondazione Otto Brenner e realizzata da un pool di ricercatori dell’Università di Lipsia e della Hamburg Media School, coordinati dal prof. Michael Haller; il titolo è “La crisi dei rifugiati sui media” ed è è “lo studio più completo e metodologicamente elaborato sul tema”.
La ricerca ha analizzato oltre 30 mila articoli dei principali giornali nazionali e regionali tedeschi tra il 2015 e il 2016. Oltre 200 pagine dense di numeri e statistiche su quello che hanno prodotto Süddeutsche Zeitung, Frankfurter Allgemeine Zeitung, Die Welt, Bild, così come le pubblicazioni online e 85 giornali regionali. Dal 2015 al 2016 nessun giornale ha raccontato le preoccupazioni, i timori di una parte crescente della popolazione…La conclusione è devastante: mentre la Merkel imponeva la “politica delle porte aperte” nessuno degli editoriali o degli articoli che riguardavano il tema dell’immigrazione “ha raccontato le preoccupazioni, i timori e anche la resistenza di una parte crescente della popolazione”; in altre parole è come se per i giornali tedeschi, un pezzo (probabilmente maggioritario) dell’opinione pubblica del proprio Paese non fosse esistita. E le rare volte che i giornalisti collettivi hanno provato a raccontare quella parte di Germania preoccupata dall’immigrazione, l’hanno fatto “con un atteggiamento pedagogico” se non “sprezzante”. Chi non era allineato al mito dell’accoglienza era automaticamente xenofobo o razzista…I giornali non hanno saputo (o voluto?) distinguere tra le posizioni veramente xenofobe e razziste di una minoranza, con le legittime e realistiche preoccupazioni di pezzi importanti della società tedesca di fronte all’invasione di oltre un milione di immigrati voluta dalla signora Merkel. E quel sentimento di insicurezza, paura è stato trasformato in razzismo e intolleranza quando non di arretratezza culturale. Insomma il solito snobismo stupido dei menestrelli dell’élite europea.
Per capire il modo in cui i giornali tedeschi hanno manipolato l’opinione pubblica basterebbe qualche dato che emerge dalla ricerca: tra la primavera 2015 e la primavera 2016, nei tre quotidiani principali del paese, solo il 4% degli articoli è stata un’intervista e solo il 6% un report con dati oggettivi. Un articolo su cinque è stato un editoriale di commento che esprimeva ovviamente il parere delle redazioni, “una cifra insolitamente alta”. Nella classifica dei personaggi ascoltati o citati sul tema, due su tre sono stati politici di governo o di partiti favorevoli all’immigrazione; solo il 9% esponenti della giustizia (ufficiali delle Forze dell’Ordine, magistrati, giudici o avvocati) su temi legati all’ordine pubblico; appena il 3,5% studiosi o esperti di temi legati al multiculturalismo, al diritto di famiglia nelle società islamiche o al rapporto tra sunniti e sciiti.
Un caso emblematico è stata la narrazione costruita attorno alla definizione di “Willkommenskultur” o Cultura dell’Accoglienza tanto cara in Italia alla Boldrini, a Saviano e agli esegeti del pensiero sorosiano. I giornali hanno trasfigurato il concetto di Accoglienza, trasformandolo in una parola magica…Secondo lo studio, i giornali tedeschi hanno “trasfigurato il concetto di Accoglienza” trasformandolo in un “obbligo morale (…) una sorta di parola magica” per convincere i cittadini “a svolgere un’attività da buoni Samaritani verso i nuovi arrivati”. Per tutto il 2015 e buona parte del 2016, l’83% dei contenuti giornalistici ha enfatizzato il concetto di Accoglienza, nascondendo l’esistenza di una sempre maggiore fetta di popolazione scettica e dubbiosa sulla Willkommenskultur. E quando l’imposizione moralista non funzionava più, ecco pronta (come in Italia) la ricetta pseudo-economica da imporre come verità incontrovertibile dai soliti tecnici ed esperti: “la Germania ha bisogno di centinaia di migliaia di lavoratori per contrastare l’invecchiamento della popolazione”; ergo chi non vuole accoglierli fa il male della Germania. E così mentre i giornali sovraesponevano le manifestazioni di “benvenuto” agli immigrati, nascondevano le manifestazioni contrarie che si svolgevano in molte città tedesche.
Certo la ricerca ha dei limiti; per esempio non ha preso in considerazione l’informazione televisiva in quanto questo avrebbe richiesto uno studio molto più complesso sul rapporto tra immagine e parola. Ma l’idea di fondo è chiara. Secondo Michael Haller, il Direttore della Ricerca, i giornalisti tedeschi “hanno ignorato il loro ruolo professionale e la funzione informativa dei mezzi di comunicazione” utilizzando “troppo sentimentalismo buonista e troppo poche domande critiche ai responsabili di quelle decisioni”; e questo ha contribuito a generare una profonda divisione nell’opinione pubblica tedesca e un discredito totale verso il mondo dell’informazione. Jupp Legrand, Direttore della Fondazione Brenner, ha specificato che la ricerca mostra “la crisi strutturale del cosiddetto manistream” perché “la realtà descritta dai giornalisti è stata molto lontana da quella che tutti i giorni vivevano i loro lettori”. Un modo elegante e neutro per denunciare che le vere fabbriche di “fake news” in Occidente si trovano nelle redazioni dei grandi giornali del potere economico e culturale. Nei giorni in cui in Europa si sta svelando il fallimento del multiculturalismo progressista; in cui, anche in Italia emerge la stupidità con cui una classe politica irresponsabile e dolosa ha affrontato il tema dell’immigrazione; in cui il disegno criminale costruito attorno ai progetti di immigrazione indotta si fa sempre più evidente, il tema di una corretta informazione è vitale per la tenuta di una democrazia. Se una ricerca simile venisse fatta in Italia i risultati sarebbero forse simili; anche da noi, per anni, i grandi giornali hanno di fatto costruito una narrazione simile a quella tedesca criminalizzando chi non si adeguava al pensiero dominante o ignorando le tante voci di dissenso rispetto alla visione irenica dell’immigrazione. Ora però il clima sembra essere cambiato. Per carità quando i grandi giornali danno spazio agli intellettuali e alle loro profonde riflessioni, la irrealtà ideologica prende il come al solito il sopravvento scivolando quasi nella stupidità.
Ma quando si limitano a fare il loro mestiere, cioè a raccontare la cronaca e i fatti, allora la verità di questa nuova ed epocale tratta degli schiavi spacciata per destino storico, emerge impietosamente. E in questo caso non basteranno i Saviano e le Boldrini a inventarsi la realtà.
No, la Germania non è il paradiso: viaggio nel paese che nessuno racconta. Nello Stato più ricco d’Europa aumentano povertà e disuguaglianze. Mentre nel profondo Nord l'ostilità ai profughi è più forte dell'accoglienza. Siamo andati a scoprire la Germania fuori dai luoghi comuni, scrive Fabrizio Gatti il 26 aprile 2017 su "L'Espresso. La Germania è il tocco di un guanto di pelle sulla spalla. Ti svegliano così sul sedile dell’Eurocity 86 tra Verona e Monaco di Baviera. «Reisepass?», domanda il poliziotto della Repubblica federale. Poi sfoglia il passaporto e si sofferma sulla foto. L’epoca delle frontiere aperte è davvero finita, non solo per i profughi. L’uomo in divisa nera chiede i documenti perfino a due ragazzi e alle loro fidanzate biondissime, che stanno rumorosamente chiacchierando nel loro marcato accento bavarese. Forse lo fa giusto per evitare discriminazioni in pubblico: gli agenti italiani, saliti sul treno al confine del Brennero un’ora e mezzo prima, hanno controllato soltanto i passeggeri con la faccia scura. La polizia tedesca sembra molto più attenta al galateo multiculturale: o si controllano tutti i cittadini, o non lo si fa con nessuno. La Gleichheit, l’uguaglianza: è il primo filo al quale è appesa la società che Angela Merkel, 63 anni, sta consegnando alle elezioni federali del 24 settembre. Il secondo è la fiducia reciproca. Il terzo la sicurezza economica che, dove non c’è lavoro, è garantita da un sistema di protezione sociale ancora diffuso. Tre fili ben visibili nella vita quotidiana: insieme sostengono l’immagine di un popolo solido e apparentemente unito. Ma sono fili sempre più sottili: una crisi improvvisa, un nuovo attentato jihadista, il risveglio populista li potrebbe spezzare. Lo si nota chiaramente, girando in lungo e in largo questa nazione in cui, secondo dati pubblicati nel 2016, il 15,7 per cento degli ottanta milioni di abitanti è considerato a rischio povertà. E il 14,7 è già povero, con punte del 19 per cento tra i bambini. Da Sud a Est, da Nord a Ovest. Dalle Alpi alla Polonia. Dal Mar Baltico al Reno. Rigorosamente su treni regionali. E qualche Intercity. Oltre tremila chilometri. Questo è il diario di un viaggio sottopelle nel corpo della Germania e dell’Unione Europea. La Cancelliera di Berlino non è infatti soltanto la donna che governa da dodici anni, leader dell’Unione cristiano democratica, candidata per la quarta volta consecutiva. Angela Merkel rischia di essere l’ultimo robusto sbarramento europeo contro l’avanzata delle destre nazionaliste e sovraniste, a cominciare dalla Francia di Marine Le Pen. E può essere un rischio, sì: perché Frau Merkel è perfino umanamente più concreta di papa Francesco nell’accogliere i rifugiati, ma è più brutale di Margaret Thatcher nel difendere i dogmi economici. La sua dottrina contiene il bello e il brutto tempo. Industria galoppante a Ovest, Stato assistenziale a Est e nelle periferie delle grandi città. Disoccupazione intorno al tre per cento in Baviera e Baden-Württemberg, percentuali mediterranee sopra il dieci in quasi tutte le regioni orientali. La ricchezza media dei tedeschi per ora nasconde bene lo stress. Ma fino a quando reggeranno quei tre fili ai quali sono tutti appesi?
La stazione Centrale di Monaco è completamente aperta. Non ci sono controlli per accedere ai binari. Non ci sono camionette mimetiche e soldati nelle piazze, intorno alle chiese, davanti ai monumenti. L’attentato del 22 luglio 2016 al centro commerciale Olympia nel quartiere di Moosach sembra avvenuto in un altro mondo: 9 morti e 35 feriti, colpiti dalla pistola di Ali David Sonboly, 18 anni, genitori iraniani, passaporto tedesco, simpatizzante di estrema destra. L’arma con cui poi si è ucciso, Ali David l’aveva comprata da un amico afghano conosciuto in un reparto psichiatrico. Ma gli spari di quel pomeriggio di guerra non hanno scalfito la Vertrauen, la fiducia reciproca a cui partecipano tutti: tedeschi e immigrati. Noi italiani al confronto viviamo in uno stato d’assedio permanente. Non è solo questione di sicurezza. Non ci sono tornelli, sbarre, cancelli nemmeno per entrare o uscire dalle stazioni sotterranee della metropolitana. Un euro e quaranta il biglietto. E solo una persona ogni venti timbra l’ingresso. Gli altri? Avranno l’abbonamento, o forse no. Ma la fiducia è un collante sociale che vale molto di più di un euro e quaranta centesimi. Così nessuno ferma nessuno. Lo stesso filo riappare agli angoli di qualche strada o nelle piazze. I tedeschi non hanno mai smesso di leggere i giornali. E non dappertutto ci sono edicole. Bastano una scatola di vetro trasparente sul marciapiede, un coperchio sempre aperto, una feritoia per i soldi. Si infilano le monete e si prende il quotidiano. “Bild” costa 90 centesimi. Ma “Frankfurter Allgemeine” 2,70 euro al giorno, 2,90 il sabato, 4 euro la domenica. Chiunque potrebbe prendere il giornale o tutti i giornali senza pagare. Oppure forzare la cassetta e rubare i soldi. Soltanto “Süddeutsche Zeitung”, a pochi passi da Marienplatz, usa un distributore che rilascia una copia alla volta dopo aver infilato gli spiccioli.
La fiducia fa funzionare lo stesso sistema ovunque. Anche in campagna. Al posto dei quotidiani lì vendono prodotti della terra come zucche, sacchi di patate, frutta. Nessun agricoltore si sognerebbe di perdere tempo a fare il commerciante. Bastano un tavolo lungo la strada, un cartello con il listino prezzi e una cassetta: il cliente prende gli ortaggi e lascia il dovuto, senza che nessuno controlli. La sera passa il contadino e ritira l’incasso. Se questo rodato meccanismo sopravvive è perché i furti sono ancora una rara eccezione. Il sabato sera la Baviera è un viavai di trentenni, quarantenni, cinquantenni in calzoncini corti, calzettoni, bretelle e camicia a quadri. Non tutti indossano i costosi Lederhosen originali in pelle di camoscio. Va di moda la versione casalinga del pantalone vecchio di velluto, tagliato appena sopra il ginocchio. Vestirsi secondo la tradizione piace soprattutto agli uomini. Le donne agghindate con gonnellino e grembiule sono più rare. È anche un gesto politico il loro. Un po’ come se Matteo Salvini si vestisse da Brighella e gli industriali veneti da Pantalon. Alle undici di sera quasi tutti i ristoranti di Monaco hanno già le sedie rovesciate sopra i tavoli per le pulizie. L’Augustiner Klosterwirt, proprio davanti la cattedrale di Nostra Signora, è invece un frastuono di voci, gente in piedi e boccali di birra. Lì dentro tutti, proprio tutti, indossano Lederhosen e camicia a quadri. Camerieri e clienti. Al punto che è difficile distinguere a chi chiedere l’ordine: scambiare un imprenditore bavarese alticcio per il barman non provoca certo risposte amichevoli. Il desiderio di identità dei tedeschi del Sud ha il suo risvolto con gli immigrati turchi e arabi. La domenica pomeriggio vengono dalla periferia a passeggiare tra i negozi chiusi della centralissima Neuhauser Strasse. Davanti i bambini. Per ultimi i papà. In mezzo, le loro mogli rigorosamente avvolte nello chador nero. E di tanto in tanto qualche niqab, il velo integrale che lascia scoperti soltanto gli occhi.
Passau, la città al confine austriaco dove confluiscono i fiumi Inn e Danubio, è la porta tedesca della rotta balcanica. Gli accordi con la Turchia e il filo spinato in Ungheria hanno ridotto il flusso di profughi. Quanti ne passano adesso? «Sempre troppi», risponde il poliziotto di pattuglia al marciapiede dove si fermano i treni in arrivo dall’Austria. Ousmane Gaye, 28 anni, è partito da Bamako in Mali, ha attraversato il Sahara e ha chiesto asilo in Germania. La qualità del sistema di accoglienza è dimostrata dal suo tedesco: in appena due mesi di corsi obbligatori, lo parla già discretamente. Stanotte ha lasciato il dormitorio per venire in stazione a raccogliere bottiglie: «Al supermercato c’è una macchina che ricicla la plastica. Per ogni bottiglia ti danno venticinque centesimi», spiega e va a rovistare nei cestini. Solo che ha la pessima idea di attraversare i binari, anziché scendere nel sottopasso. E due agenti, l’uomo di prima e una ragazza, lo bloccano. L’identificazione va per le lunghe. Proviamo ad avvicinarci. «Mi hanno fermato perché ho attraversato i binari», ammette Ousmane. Bella stupidaggine, attraversare i binari è pericoloso. «No, non è pericoloso», interviene il poliziotto, «è proibito». Le sue parole sono lo spartiacque della vita quotidiana di un tedesco. Non è necessario scomodare l’inflessibilità con cui la Germania mette periodicamente sotto accusa i bilanci di Stato italiani o greci. Basta fermarsi di notte davanti al semaforo pedonale di Karlsplatz a Monaco, all’angolo con il senso unico di Prielmayerstrasse. Non c’è traffico, non arrivano auto, sono solo pochi metri. Davanti al rosso si fermano gruppi di giovani tiratardi. Passare a quest’ora non sarebbe pericoloso. Ma tutti aspettano il verde. Il rigore teutonico costa a Ousmane 25 euro di multa: cento bottiglie da raccogliere e infilare nella macchina mangiaplastica.
Uscire dalla stazione di Chemnitz è un tuffo nel silenzio. Strade deserte, non si vedono auto né persone, anche se sono le quattro del pomeriggio. Durante la dittatura della Germania Est si chiamava Karl-Marx-Stadt e del periodo conserva la grande statua del filosofo, i casermoni di cemento, i vialoni tipici della megalomania comunista. Mancano però gli abitanti. Il trenta per cento delle case è vuoto. E lo si sente nella mancanza di rumore di fondo. Chi ha potuto, se ne è andato all’Ovest o si è avvicinato ad altre città della Sassonia, come Lipsia e Dresda. Chemnitz ha due anime. Una è luminosa e per molti irraggiungibile dentro le vetrine dei due grandi centri commerciali, che si fronteggiano sulla piazza del municipio. L’altra è l’anima cupa e disoccupata di Sonndenberg, il vecchio quartiere in cui i fili dell’uguaglianza, della fiducia e della sicurezza economica si sono spezzati da tempo. Superata la sede dei socialdemocratici della Spd e una sala slot-machine, si cammina tra gli isolati dei negozi turchi e arabi. Gli alunni di una classe attraversano il cortile della scuola: su otto bambine, sei indossano il velo. Già in quarta elementare in Germania bisogna decidere cosa fare da grandi: il Gymnasium, il liceo che apre le porte all’università, comincia a dieci anni. E qui in Sassonia si è ammessi soltanto se la media dei voti è almeno due, secondo una scala che attribuisce uno come punteggio massimo e quattro come sufficienza: una selezione che divide la società tra manager e operai fin da piccoli. Più su in cima alla salita, i caseggiati più vecchi. Giovanissime mamme tedesche escono dai portoni e spingono carrozzine e passeggini. Molte di loro costituiscono famiglie monogenitoriali, mantenute dai sussidi statali. La quantità di piercing, anelli al naso, tatuaggi sulla pelle degli abitanti tradisce il forte bisogno di identità. Questo quartiere popolare nasconde una diffusa rete neonazista. Come se ne incontrano ovunque a Est, alla periferia di Dresda. Oppure nei paesi agricoli tra Schwerin e Wismar, in Meclemburgo-Pomerania Anteriore, il profondo Nord, bacino elettorale della Cancelliera: dove i commercianti mettono in vetrina riviste dai titoli “Califfato Germania” contro l’accoglienza dei profughi musulmani e “Merkel vattene”. A forza di minacce, ratti morti lasciati davanti alla porta e gavettoni di vernice contro le finestre, lo scorso inverno il partito di sinistra “Die Linke” di Chemnitz ha chiuso l’ufficio in Zietenstrasse 53, proprio nel cuore di Sonndenberg. Poco più avanti è apparsa una nuova vetrina con una macabra insegna: un teschio e i numeri otto e uno che nella numerologia estremista coincidono con le lettere H e A dell’alfabeto. Le iniziali di Hitler Adolf.
In una calda serata fuori stagione a Gera, nello stato centrale della Turingia, la polizia anticipa di qualche metro il corteo di duecento sostenitori di”Afd - Alternative für Deutschland”. Lungo la centralissima Leipziger Strasse gli agenti fanno rientrare nei loro negozi di alimentari i proprietari e i clienti dall’aspetto arabo o turco, perché i manifestanti non li vedano. Soltanto loro. Anche se abitano tutti a Gera. Come il fruttivendolo libanese a metà della via, residente e contribuente tedesco da oltre vent’anni. Una scena agghiacciante. Afd, il partito xenofobo, sta riunendo sotto un abbigliamento apparentemente borghese il consenso di “Pegida”, che tradotto significa “Patrioti europei contro l’islamizzazione dell’Occidente”, e dell’Npd, il partito filo nazista: un fronte antieuropeo che raccoglie simpatie e voti dalla costa sul mar Baltico fino ai confini con la Repubblica Ceca, nei distretti berlinesi di Pankow, Marzahn e Treptow-Köpenick, ma anche nei piccoli paesi agricoli ricchi degli stati federali del Sud. «Fino agli anni Novanta, la Germania era ancora uno Stato che sosteneva l’economia sociale di mercato e l’equità. Per questo avevamo basse disparità di reddito, tanto da avvicinarci ai Paesi scandinavi», spiega il grande giornalista e scrittore Günter Wallraff, 74 anni, che ha raccontato la spregiudicatezza della società tedesca in libri come “Faccia da turco” o “Notizie dal migliore dei mondi”: «Oggi invece, secondo ricerche dell’Unione Europea, soltanto in due Paesi il divario tra redditi alti e bassi aumenta più velocemente che in Germania e sono la Bulgaria e la Romania. Le crescenti diseguaglianze, la retrocessione della classe media e la campagna contro i profughi minacciano la coesione sociale. Il dieci per cento dei tedeschi possiede i due terzi delle risorse nazionali. Mentre il cinquanta per cento della popolazione si divide soltanto l’uno per cento. Se si tratta di rispettare il semaforo verde, la Germania garantisce la certezza della legalità. Ma far valere diritti più importanti, come scoprono i lavoratori che si rivolgono ai Tribunali, è molto complicato. Nelle industrie tedesche vale la legge del più forte. Se ci fosse più uguaglianza tra classi, partiti come Afd non avrebbero questo consenso». Il risveglio dell’estrema destra sta provocando una reazione uguale e contraria. Tra Neukölln e Kreuzberg, quartieri multietnici di Berlino, una coppia di omosessuali dovrà cercare casa altrove. Da qualche tempo i vicini, soprattutto turchi, li prendono a sassate ogni volta che li vedono uscire. Katharina Windmeisser, giovane inviata del settimanale “Bild am Sonntag”, da anni racconta il dramma dei piccoli profughi siriani. Ma i bambini del suo quartiere berlinese a maggioranza musulmana la insultano per strada. Semplicemente perché è bionda: quindi tedesca. «La più grande paura di molti tedeschi oggi», racconta Sascha Rosemann, 39 anni, attore e produttore cinematografico, «è l’aumento degli estremismi sui tutti e due i fronti: antisemitismo, islamofobia, omofobia si mescolano». Lontano dalle ciminiere fumanti della locomotiva industriale tedesca che per settecento chilometri da Amburgo scende fino Mannheim e Stoccarda, c’è un paese simbolo di queste opposte paure. Lohberg, ex villaggio minerario, oggi quartiere di villini a mezz’ora da Duisburg, ha dato il nome alla brigata di polizia che nello Stato islamico si occupava di interrogatori e torture. La Gestapo di Daesh, l’hanno chiamata: venticinque jihadisti, la più alta concentrazione per numero di abitanti, undici partiti per la Siria, quattro già morti. All’uscita della notizia, per marcare la loro distanza dai musulmani, molti tedeschi di Lohberg hanno piantato in giardino la bandiera oro rossa e nera. E come risposta gli immigrati turchi, operai in pensione mai veramente integrati e i loro figli ancor più nazionalisti, hanno fatto altrettanto con la loro. Una divisione ridicola, perché perfino la filiale del terrore qui è multiculturale. Philip Bergner, 26 anni, il kamikaze che a Mosul ha ucciso venti persone facendosi esplodere, era tedeschissimo foreing-fighter del paese. Così come lo è suo cugino Nils, 28 anni, diventato collaboratore della polizia dopo l’arresto. Ma ancora oggi camminare sotto i platani silenziosi di Lohberg è un continuo passaggio di confini. Come a Risiko: la Turchia al centro, la Germania tutt’intorno. E quando si cominciano a piantare le bandiere per terra, non si sa mai dove si va a finire.
E poi. Cosa sarebbe oggi la Germania se avesse sempre onorato con puntualità il proprio debito pubblico? Si chiede su “Il Giornale” Antonio Salvi, Preside della Facoltà di Economia dell’Università Lum "Jean Monnet". Forse non a tutti è noto, ma il Paese della cancelliera Merkel è stato protagonista di uno dei più grandi, secondo alcuni il più grande, default del secolo scorso, nonostante non passi mese senza che Berlino stigmatizzi il comportamento vizioso di alcuni Stati in materia di conti pubblici. E invece, anche la Germania, la grande e potente Germania, ha qualche peccatuccio che preferisce tenere nascosto. Anche se numerosi sono gli studi che ne danno conto, di seguito brevemente tratteggiati. Riapriamo i libri di storia e cerchiamo di capire la successione dei fatti. La Germania è stata protagonista «sfortunata» di due guerre mondiali nella prima metà dello scorso secolo, entrambe perse in malo modo. Come spesso accade in questi casi, i vincitori hanno presentato il conto alle nazioni sconfitte, in primis alla Germania stessa. Un conto salato, soprattutto quello successivo alla Prima guerra mondiale, talmente tanto salato che John Maynard Keynes, nel suo Conseguenze economiche della pace, fu uno dei principali oppositori a tale decisione, sostenendo che la sua applicazione avrebbe minato in via permanente la capacità della Germania di avviare un percorso di rinascita post-bellica. Così effettivamente accadde, poiché la Germania entrò in un periodo di profonda depressione alla fine degli anni '20 (in un più ampio contesto di recessione mondiale post '29), il cui esito minò la capacità del Paese di far fronte ai propri impegni debitori internazionali. Secondo Scott Nelson, del William and Mary College, la Germania negli anni '20 giunse a essere considerata come «sinonimo di default». Arrivò così il 1932, anno del grande default tedesco. L'ammontare del debito di guerra, secondo gli studiosi, equivalente nella sua parte «realistica» al 100% del Pil tedesco del 1913 (!), una percentuale ragguardevole. Poi arrivò al potere Hitler e l'esposizione debitoria non trovò adeguata volontà di onorare puntualmente il debito (per usare un eufemismo). I marchi risparmiati furono destinati ad avviare la rinascita economica e il programma di riarmo. Si sa poi come è andata: scoppio della Seconda guerra mondiale e seconda sconfitta dei tedeschi. A questo punto i debiti pre-esistenti si cumularono ai nuovi e l'esposizione complessiva aumentò. Il 1953 rappresenta il secondo default tedesco. In quell'anno, infatti, gli Stati Uniti e gli altri creditori siglarono un accordo di ridefinizione complessiva del debito tedesco, procedendo a «rinunce volontarie» di parte dei propri crediti, accordo che consentì alla Germania di poter ripartire economicamente (avviando il proprio miracolo economico, o «wirtschaftswunder»). Il lettore non sia indotto in inganno: secondo le agenzie di rating, anche le rinegoziazioni volontaristiche configurano una situazione di default, non solo il mancato rimborso del capitale e degli interessi (la Grecia nel 2012 e l'Argentina nel 2001 insegnano in tal senso). Il risultato ottenuto dai tedeschi dalla negoziazione fu davvero notevole:
1) l'esposizione debitoria fu ridotta considerevolmente: secondo alcuni calcoli, la riduzione concessa alla Germania fu nell'ordine del 50% del debito complessivo!
2) la durata del debito fu estesa sensibilmente (peraltro in notevole parte anche su debiti che erano stati non onorati e dunque giunti a maturazione già da tempo). Il rimborso del debito fu «spalmato» su un orizzonte temporale di 30 anni;
3) le somme corrisposte annualmente ai creditori furono legate al fatto che la Germania disponesse concretamente delle risorse economiche necessarie per effettuare tali trasferimenti internazionali.
Sempre secondo gli accordi del '53, il pagamento di una parte degli interessi arretrati fu subordinata alla condizione che la Germania si riunificasse, cosa che, come noto, avvenne nell'ottobre del 1990. Non solo: al verificarsi di tale condizione l'accordo del 1953 si sarebbe dovuto rinegoziare, quantomeno in parte. Un terzo default, di fatto. Secondo Albrecht Frischl, uno storico dell'economia tedesco, in una intervista concessa a Spiegel, l'allora cancelliere Kohl si oppose alla rinegoziazione dell'accordo. A eccezione delle compensazioni per il lavoro forzato e il pagamento degli interessi arretrati, nessun'altra riparazione è avvenuta da parte della Germania dopo il 1990. Una maggiore sobrietà da parte dei tedeschi nel commentare i problemi altrui sarebbe quanto meno consigliabile. Ancora Fritschl, precisa meglio il concetto: «Nel Ventesimo secolo, la Germania ha dato avvio a due guerre mondiali, la seconda delle quali fu una guerra di annientamento e sterminio, eppure i suoi nemici annullarono o ridussero pesantemente le legittime pretese di danni di guerra. Nessuno in Grecia ha dimenticato che la Germania deve la propria prosperità alla generosità delle altre nazioni (tra cui la Grecia, ndr)». È forse il caso di ricordare inoltre che fu proprio il legame debito-austerità-crisi che fornì linfa vitale ad Adolf Hitler e alla sua ascesa al potere, non molto tempo dopo il primo default tedesco. Tre default, secondo una contabilità allargata. Non male per un Paese che con una discreta periodicità continua a emettere giudizi moralistici sul comportamento degli altri governi. Il complesso da primo della classe ottunde la memoria e induce a mettere in soffitta i propri periodi di difficoltà. «Si sa che la gente dà buoni consigli se non può più dare il cattivo esempio». Era un tempo la «bocca di rosa» di De André, è oggi, fra gli altri, la bocca del Commissario europeo Ottinger (e qualche tempo fa del ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schauble). A suo avviso, Bruxelles «non si è ancora resa abbastanza conto di quanto sia brutta la situazione» e l'Europa invece di lottare contro la crisi economica e del debito, celebra «il buonismo» e si comporta nei confronti del resto del mondo come una maestrina, quasi un «istituto di rieducazione». Accidenti, da quale pulpito viene la predica.
Non solo. Un altro luogo comune viene sfatato ed abbattuto. La Germania di Angela Merkel è il paese che ha l'economia sommersa più grande d'Europa in termini assoluti. L'economia in nero teutonica vale 350 miliardi di euro. Sono circa otto milioni i cittadini tedeschi che vivono lavorando in nero. Secondo gli esperti il dato è figlio dell'ostilità dei tedeschi ai metodi di pagamento elettronici. I crucchi preferiscono i contanti. La grandezza dell'economia in nero della Germania è stata stimata e calcolata dal colosso delle carte di credito e dei circuiti di pagamento Visa in collaborazione con l'università di Linz. In relazione al Pil tedesco il nero sarebbe al 13 per cento, pari a un sesto della ricchezza nazionale. Quindi in termini relativi il peso del sommerso è minore, ma per volume e in termini assoluti resta la più grande d'Europa. Chi lavora in nero in Germania di solito opera nel commercio e soprattutto nell'edilizia, poi c'è il commercio al dettaglio e infine la gastronomia. Il livello del nero in Germania comunque si è stabilizzato. Il picco è arrivato dieci anni fa. Nel 2003 la Germania ha attraversato la peggiore stagnazione economica degli ultimi vent'anni e all'epoca il nero valeva 370 miliardi. Ora con l'economia in ripresa che fa da locomotiva per l'Europa, il nero è fermo al 13 per cento del Pil.
Germania, il presidente si dimette, scrive "Il Corriere della Sera" il 17 febbraio 2012. Il presidente tedesco Christian Wulff si dimette. E salta la visita di Angela Merkel a Roma. Prima che Wulff annunciasse di voler lasciare la carica, la Cancelliera ha annullato l'incontro con il premier Mario Monti, che avrebbe dovuto tenersi alle 12 a Palazzo Chigi, e quello con il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Il portavoce della Merkel, Steffen Seibert, però assicura che la cancelliera conta di poter organizzare «al più presto un nuovo incontro», possibilmente la settimana prossima. «I contatti con l'Italia rimangono molto stretti in questi giorni», ha sottolineato, in vista dell'eurogruppo sulla Grecia. Da metà dicembre il presidente della Repubblica tedesca è finito nel tritacarne mediatico per un prestito privato a tassi agevolati ricevuto dalla moglie di un uomo d'affari e per alcune vacanze pagate da ricchi amici, quando era ancora ministro-presidente della Bassa Sassonia, e per aver cercato di condizionare la stampa. Giovedì la procura di Hannover, nel nord della Germania, ha annunciato di aver chiesto l'annullamento dell'immunità per Wulff. «La Germania ha bisogno di un presidente che non ha solo il sostegno della maggioranza ma di una grande maggioranza di cittadini», ha spiegato Wulff a Bellevue annunciando le dimissioni. «Ho fatto errori ma sono stato sempre in buona fede. Negli ultimi mesi ho subito una serie di pressioni, da cui io e mia moglie siamo stati feriti». Wulff ha voluto ringraziare comunque tutti, ma soprattutto la sua seconda e attuale moglie, «da sempre convinta di una Germania moderna e audace e che mi ha dato sempre un grandissimo sostegno. E auguro al Paese - ha concluso - un futuro migliore in cui uomini e democrazia possano convivere al meglio». La Merkel ha preso atto con «dispiacere» e «rispetto» della decisione di Wulff di ritirarsi. «Wulff è della convinzione di essersi sempre comportato bene e nonostante tutto ha abbandonato sua carica perché non poteva più servire il popolo. Lo rispetto molto», ha detto la Cancelliera. «Sono convinta - ha aggiunto - che noi tutti dobbiamo ringraziare lui e la moglie per il loro impegno». La Merkel ha annunciato anche che «i partiti si riuniranno per trovare un accordo per un successore: vogliamo portare avanti i colloqui in maniera veloce per un accordo rapido sul prossimo presidente della repubblica», ha chiarito. Prima che Wulff parlasse, la Cancelliera aveva chiamato Monti per annunciare di dover rinviare la visita per «ragioni di politica interna». Si è trattato, si apprende, di una telefonata cordiale, durante la quale la Merkel ha assicurato di voler venire in Italia al più presto.
Germania, Bettina ritorna da Wulff, l'ex presidente riabilitato: e il Paese si commuove, scrive Fabio Morabito su “Il Messaggero” il 6 maggio 2015. Un mutuo più che agevolato, vacanze gratis, conti pagati da altri. In una sola parola: corruzione. Era stata una tempesta politica insolita in Germania, e mai avvenuta al livello della prestigiosa carica da Presidente della Repubblica. Christian Wulff, classe ’59, predecessore di Joachim Gauck, fu costretto tre anni fa a dimettersi da Presidente, travolto dalla scandalo di vecchie storie che si riferivano a quando era un politico di assai minor peso, governatore regionale della Bassa Sassonia. E si ruppe così l’immagine del Presidente più affascinante d’Europa, sempre elegante e con accanto una moglie bella come poche, Bettina, di 14 anni più giovane, sposata nel 2008. Bettina lo lasciò, non senza aver avuto anche lei la mortificazione di un gossip feroce, e sembrò la storia del politico abbandonato quando cade in disgrazia. Anche se Bettina, nel giorno delle lacrime, le dimissioni per scandalo, non abbandonò Christian, e aspettò che si spengesse la luce dei riflettori. Della separazione si è venuto a sapere dopo, e il divorzio (separazione dei beni, con figlio affidato a lei) è avvenuta nel giro di un anno. Nel frattempo però l’immagine di Christian Wulff si è ricomposta, e gli è stato restituito l’onore. Il 27 febbraio dell’anno scorso il tribunale di Hannover, che lo vedeva imputato per corruzione, lo ha assolto senza ombre. Peraltro della sfilza di accuse che lo avevano sbattuto in prima pagina per mesi, ne era rimasta solo una in piedi, un notte d’albergo a Monaco durante l’Oktoberfest (la festa della birra) di sette anni fa, quando Wulff era appunto governatore regionale, con il conto pagato da un suo amico, il produttore cinematografico David Groenewold. Ma anche quest’ultima accusa (secondo la procura, Wullf poi avrebbe aiutato l’amico ad avere un finanziamento per un suo film da un colosso privato delle comunicazioni) si è poi dissolta, riabilitando il presidente che, per un po’, era stato anche il più amato della Germania, definito anni fa «il fidanzato che tutte le madri sognano per le figlie». Ora questa vicenda ha un nuovo lieto fine. L’ultimo coccio si è ricomposto, e Bettina è tornata a vivere con l’ex marito. E l’ex presidente, che nonostante la riabilitazione non ha avuto il risarcimento di vedersi restituita l’immagine vincente di un tempo, ora torna a infiammare il gossip, ma stavolta per versare miele sulle ferite da rotocalco e social network. La bella moglie, fascino classico ma modernamente tatuata, è tornata accanto al marito riabilitato, e la pratica di divorzio è pronta per il cestino.
Germania si è dimesso Guttenberg il ministro della difesa: aveva copiato la tesi di dottorato, scrive Danilo Taino su "Il Corriere della Sera" il 1 marzo 2011. Alla fine ha lasciato. Il ministro della Difesa tedesco Karl-Theodor zu Guttenberg, stella nascente della Cdu si è dimesso a seguito del cosiddetto copygate. La notizia era stata anticipata dall'edizione online della Bild. Il quotidiano precisa che il ministro ha già consegnato le sue dimissioni alla cancelliera Angela Merkel. Termina così in maniera drammatica la vicenda nata dalla scoperta che il ministro della difesa aveva copiato gran parte della sua tesi di dottorato. Sulla vicenda era intervenuto di nuovo anche il presidente del Bundestag, il conservatore Norbert Lammert (Cdu), che già nei giorni scorsi era stato critico nei confronti di Guttenberg: il caso, aveva detto lunedì al quotidiano Mitteldeutsche Zeitung, rappresenta un «chiodo nella bara della fiducia nella nostra democrazia». Parole forti, che erano seguite alla pubblicazione di una lettera aperta indirizzata alla Merkel e firmata da circa 23 mila tra accademici, dottorandi e semplici cittadini: nella missiva si criticava la gestione della cancelliera, che fa una «parodia» del dottorato di ricerca. Se fino alla settimana scorsa Guttenberg era stato assediato solo dalle forze politiche d'opposizione, quindi, da oggi la pressione comincia a salire anche all'interno della coalizione di governo. «È la decisione più dolorosa della mia vita» ha detto il ministro della Difesa tedesco, Karl-Theodor zu Guttenberg, in una breve dichiarazione alla stampa dopo aver rassegnato le dimissioni dall'incarico. «Non si lascia facilmente un incarico che si è svolto con il cuore», ha aggiunto il 39enne Guttenberg nella sede del suo ex ministero, precisando che non si è dimesso per la vicenda in sé, ma perché il peso dello scandalo ricade ora su tutti i militari. Tutti i media focalizzano l'attenzione sulla sua persona e sulla sua tesi di dottorato, ha lamentato l'ormai ex ministro, invece di concentrarsi sui soldati feriti o uccisi in Afghanistan.
Un altro ministro tedesco nei guai. "La sua tesi? Era un copia-incolla". Un esperto di plagi accusa la compagna di partito della Merkel. È il terzo scandalo in pochi anni. Ma lei si difende, scrive Lucio Di Marzo Lunedì 28 settembre 2015 su “Il Giornale”. Non è la prima volta e neppure la seconda. In Germania il vizietto di copiare le tesi di laurea sembra avere colpito negli anni molti di quelli che poi hanno ottenuto un posto da ministri. È un esperto di plagi a puntare il dito questa volta, sostenendo che Ursula von der Leyen, titolare della Difesa, il suo lavoro l'abbia scopiazzato senza farsi troppi problemi. Il ministro della Cdu, partito della cancelliere Angela Merkel, ha "chiaramente oltrepassato il limite tollerabile" di citazioni, accusa Martin Heidigsfelder, che già aiutò a smascherare i plagi di altri due ministri. Nel testo di ginecologia con cui nel 1991 concluse il suo percorso accademico, all'università di Hannover, la von der Leyen, pare non esserci un granché di originale. "Il titolo di dottore le dovrebbe essere revocato, sostiene l'esperto. Ed è da capire cosa succederà ora. Quando nel 2013 il ministro dell'Istruzione Annette Schavan fu colta in flagrante dovette rassegnare le sue dimissioni e fu costretto a farlo anche un altro ministro della Difesa, Karl-Theodor zu Guttenberg, che lasciò quattro anni fa. Von der Leyen non ci sta però e ribatte che non è una novità "che attivisti su internet cercano di seminare dubbi sulle tesi di laurea dei politici". Oltre a rigettare le accuse, ha chiesto al suo ateneo di fare analizzare da un "garante neutrale" il suo lavoro, per fugare ogni dubbio.
Anche la Volkswagen bara, anche a Wolfsburg truccano i motori peggio di un pischello con le marmitte a espansione in borgata: ma siamo sicuri che siamo rimasti sbalorditi, stupefatti e dispiaciuti solo perché, è chiacchiera generale, così ci crolla il mito dell’affidabilità tedesca, del rigore teutonico, della serietà alemanna? Di chiede di Warsamè Dini Casali su “Blitz quotidiano”. Se proprio dobbiamo impiccarci alla corda del luogo comune, dovremmo dolerci, noi italiani, di non detenere più il record della frode immaginativa, della sòla artistica: il napoletano intrinseco che fa parte del carattere nazionale si esalta connivente o scrolla la testa disapprovando ogni volta che rivede Totò-truffa vendere al pollo americano la Fontana di Trevi? Dovremmo biasimare viceversa il mancato aggancio italiano alla sofisticazione tedesca che permette di truffare il mondo intero e potenzialmente attentare alla salute globale. Un software civetta nascosto nella centralina di un motore diesel è capace di capire se si guida anonimi e non visti oppure in presenza di un vigile testatore di emissioni nocive. Tecnicamente sembra che alla Volkswagen abbiano la tecnologia per fare una macchina segnala pizzardoni a distanza. La verità è che ruba, tira a fregare, prende scorciatoie proibite l’uomo in sé, senza targa o nazionalità che lo assolvano. Ieri i greci con i conti pubblici, benevolmente assistiti da funzionari e revisori compiacenti, tedeschi su tutti. Oggi tutti i produttori di motori diesel se, come risulta dai dati ufficiali, le vere emissioni di ossidi di azoto superano di sette volte lo standard Euro 6. Può essere utile lo scandalo Volkswagen per evadere l’angusto recinto dei preconcetti. Quello dove può nascere la triste associazione mentale tra Das Auto (lo slogan pubblicitario VW) e Gas Auto (titolo a 9 colonne de Il Tempo) in cui si allude ancora ai campi di sterminio, al lupo tedesco che non ha perso il vizio di gasare (tweet di Maurizio Bianconi, Forza Italia).
Scandalo Volkswagen, la Germania delle regole colpita al cuore. Merkel e quel passo indietro da fare. La casa automobilistica tedesca ha ammesso di aver falsificato i test sull’inquinamento, scrive Danilo Taino, corrispondente da Berlino, il 21 settembre 2015 su “Il Corriere della sera”. C’è il crollo dei titoli in Borsa. C’è la multa che sarà comminata negli Stati Uniti e potrebbe essere molto, molto alta. Ci saranno le conseguenze sul vertice e forse sugli assetti azionari. Nel caso dei dati truccati sulle emissioni di alcuni modelli in America, c’è però anche la perdita di prestigio per il gruppo Volkswagen. E, a dire il vero, non solo per la casa automobilistica: più in generale per la “Deutschland AG” che della correttezza, dell’affidabilità, del rispetto delle regole ha fatto negli anni non solo una bandiera ma anche uno scudo anticrisi. E che oggi si trova invece esposta in uno scandalo - perché di scandalo si tratta - nato proprio in quel gruppo che era fino a ieri il modello numero uno dell’industria tedesca e del suo modo di operare e conquistare i mercati. E c’è soprattutto un imbarazzo per la Germania stessa - a sentire molti commenti, a Berlino, compreso quello del ministro dell’Economia e vicecancelliere Sigmar Gabriel: se l’industria dell’auto è un orgoglio nazionale, la Volkswagen ne era l’avanguardia, con la sua collezione di oltre dieci marchi di prestigio e la sua continua espansione globale. Fino a ieri. Oggi è diventata un guaio in un momento delicato per il Paese. La questione non è formale. O di generico danno d’immagine. Da qualche tempo, soprattutto in occasione delle crisi europee in questo 2015, la Germania sta sviluppando una propria leadership. Magari non l’ha cercata, in buona parte le è stata imposta dagli eventi. Fatto sta che l’ha assunta e, soprattutto, l’ha caratterizzata con un concetto che per i tedeschi è indiscutibile: le regole si rispettano. Che il maggiore campione dell’industria nazionale, più volte sostenuto e protetto dal governo di Berlino proprio in tema di emissioni e di obblighi europei, abbia imbrogliato sulle regole fa vacillare la credibilità e la non negoziabilità dell’essere in toto e sempre in linea con le norme. L’accusa di essere rigidi con gli altri e furbi quando si viene ai propri comportamenti già sta circolando. Il gruppo dirigente della Volkswagen, a cominciare dal numero uno Martin Winterkorn, prenderà le sue iniziative. Che dovranno essere radicali, non una semplice inchiesta interna. Ma anche il governo di Berlino farebbe bene a non spendere, sul caso, solo parole. Questa è un’occasione per mettere più distanza tra la politica e il Big Business: quando la vicinanza è troppa, come sicuramente lo è da sempre tra Volkswagen e tutti i governi di Berlino, le aziende si sentono inattaccabili perché protette: onnipotenti e sopra le regole. Dovrebbe essere il resto dell’industria tedesca il primo a pretenderlo: una concentrazione esagerata di potere politico ed economico è sempre un danno per i mercati e per i consumatori. E anche Angela Merkel potrebbe fare una riflessione: questa volta, la vera leadership sta nel fare un passo indietro.
Heribert Prantl: "Un colpo al mito della Germania Superaffidabile". Il membro della direzione della "Sueddeutsche Zeitung" commenta a caldo lo scandalo Volkswagen: "Il caso è ancora più grave di quello del pilota suicida di Germanwings", scrive Andrea Tarquini su “La Repubblica”. "E' un grave colpo all'immagine della Germania come potenza attendibile. Il danno va ben oltre la sua dimensione economica e di mercato". Così Heribert Prantl, membro della direzione della "Sueddeutsche Zeitung", commenta a caldo lo scandalo Volkswagen.
Dottor Prantl, quanto è grave il danno d'immagine e di sostanza, non solo per Vw ma per il sistema-paese Germania?
"Lo scandalo è un duro colpo all'immagine del sistema-paese in generale e non solo per il colosso dell'auto che ne è protagonista. Ciò perché la Germania e le aziende tedesche hanno sempre avuto, nel dopoguerra e anche prima, dal Kaiser alla Repubblica di Weimar, la fama di Paese e di aziende che rispettano le regole in modo persino troppo puntiglioso. E che hanno successo anche per questo. Se adesso un'azienda globale simbolo della Germania manipola e trucca dati in tal modo come Vw è accusata di aver fatto, ciò significa una grande perdita di reputazione".
Solo per Vw o anche per il Paese?
"Sicuramente per l'azienda, ma probabilmente per l'intera industria dell'auto tedesca. Cioè per un comparto-chiave della prima economia europea".
Le indagini americane potrebbero avere conseguenze giuridiche per Vw anche in Germania: dunque danno d'immagine anche a casa?
"Sicuramente il danno colpisce anche a casa. Vedremo quanto sarà alta la multa che verrà imposta dalle autorità americane, credo avrà pesanti conseguenze sulle vendite in tutto il mercato americano e sui mercati internazionali. E per un'azienda-simbolo del sistema- Paese ci vorrà tempo e molto lavoro per riparare tale grave crepa d'immagine. Può darsi persino che le autorità americane dicano che il mercato avrà già punito abbastanza la Vw, a tal punto da rinunciare alla multa. Non sarebbe la prima volta che un big global player tedesco cade vittima della severa vigilanza Usa: è già successo con Daimler in passato. Credo che le autorità Usa non saranno così draconiane con Vw, ma il punto, insisto, è un altro: il danno che resta all'immagine dell'azienda e dell'affidabilità del sistema-Paese".
Accuse di truffa a un'azienda tedesca, non di altri Paesi più spesso ritenuti corrotti. Che significa per la fiducia del mondo nella Germania?
"Naturalmente il danno più grande è stato fatto alla fiducia. Il vertice di Vw dovrà faticare molto per restaurare la fiducia, e il danno fatto al Paese. Le prime reazioni sono state almeno di ammettere di essere dalla parte del torto".
Insisto, Vw è un simbolo del modello tedesco, il capitalismo sociale dal volto umano: quali danni a questo mito?
"I danni economici, ma anche politici e culturali, sono chiari e certo non da poco, perché appunto Vw è un simbolo dell'economia tedesca e del miracolo postbellico. Dovremo fare molta pulizia a casa".
Prima il pilota suicida di Germanwings, poi lo scandalo Vw: due colpi in un anno non sono tanti per il perfetto sistema- Paese Germania?
"Il caso del pilota suicida fu tragico: era malato e nessuno se ne era accorto. Ma questo secondo caso è molto più serio: mostra errori consapevoli e penalmente perseguibili dei top manager. Colpisce ben più pesantemente la reputazione della Germania. Eppure confido nella capacità del sistema di difendere il buon nome del suo capitalismo sociale e dal volto umano, alcuni manager criminali non distruggono il nostro modello. Però dobbiamo fare più attenzione alle regole, con umiltà rigorosa".
Tutti i trucchi tossici di Volkswagen, scrive Michele Pierri su “Formiche”. Chissà cosa sarebbe accaduto se al posto di un colosso tedesco ci fosse stata un’azienda italiana, magari la nuova Fca guidata da Sergio Marchionne. Invece ad essere colpita da uno scandalo di proporzioni internazionali è stavolta la Volkswagen, gigante dell’automotive dell’efficientissima – almeno sulla carta – Germania. Con un comunicato diffuso nella giornata di ieri, il gruppo di Wolfsburg ha riconosciuto l’uso intenzionale di software progettati per falsare la misurazione degli scarichi di gas dei veicoli diesel venduti negli Stati Uniti, con l’intento di aggirare gli standard ambientali del Clean Air Act. Un’eventualità che, sulla scia dello scandalo, ha spinto l’azienda a fermare la vendite delle vetture diesel quattro cilindri dei brand Audi e Vw negli Usa. In particolare le accuse riguardano circa 482.000 vetture diesel vendute negli Stati Uniti dal 2009: le Volkswagen Jetta, Beetle, Golf e Passat, e l’Audi A3. Cifre che hanno spinto l’ad Martin Winterkorn a scusarsi e ad annunciare l’avvio di un’inchiesta indipendente per chiarire l’accaduto e recuperare la fiducia di clienti e mercati, apparentemente compromessa. A testimoniarlo c’è in primo luogo il crollo del titolo, a picco sul listino di Francoforte, dove ha perso il 22%, bruciando in poche ore 16 miliardi di capitalizzazione, scendendo a 60,4 miliardi di euro. Mentre il rating “A”, con outlook stabile, che Fitch Ratings ha assegnato a Volkswagen potrebbe essere rimesso in discussione se questa crisi dovesse ulteriormente peggiorare. Non solo. “Visti i precedenti della concorrenza – ha spiegato Andrea Malan sul Sole 24 Ore -, “è possibile che lo stesso manager (o qualcuno dei suoi sottoposti) sia costretto a chiedere scusa in pubblico di fronte al Congresso, come era accaduto a Mary Barra di Gm e Akio Toyoda della Toyota. La prima per il caso dei blocchetti di accensione difettosi, per il quale Gm è stata colpita di recente dal dipartimento della Giustizia con una multa da 900 milioni di dollari; Toyota cinque anni fa, per lo scandalo dei veicoli che acceleravano improvvisamente senza che il conducente potesse frenarli”. La notizia giunge come un terremoto a pochi mesi dal vertice di Parigi sul clima di novembre e in un momento di massimo impegno sul tema da parte dell’amministrazione Usa, che si propone come leader mondiale della lotta al climate change. Elementi che lasciano presagire una misura esemplare. Secondo le previsioni dell’Ente americano per la protezione ambientale Usa (Epa), raccolte da Reuters, il gruppo tedesco rischierebbe infatti una multa di ben 18 miliardi di dollari. “Non mi stupirebbe affatto”, commenta a Formiche.net Ernst Ferrari, consulente delle concessionarie automobilistiche e in passato nel Gruppo Fiat. “Siamo di fronte a un fatto gravissimo, mai avvenuto a mia memoria”. In passato, ricorda l’esperto, “abbiamo assistito al ritiro massiccio dal mercato di milioni di prodotti con problemi. Ma mai ciò è dipeso, per ovvi motivi, dalla volontà dell’azienda. In questo caso siamo invece di fronte a una cosa ben diversa, una frode voluta, che forse non affosserà un gigante come Volkswagen, ma gli arrecherà di certo, come minimo, un colossale danno d’immagine, con conseguenze sul lungo periodo”.
Dopo giorni di smentite, lunedì 20 gennaio 2014, l’Adac, il potente Automobil Club tedesco (con oltre 19 milioni di iscritti il più grande d’Europa) ha ammesso di aver falsificato non solo i numeri del concorso di quest’anno per l’elezione dell’auto più amata dai tedeschi (che ancora una volta era risultata la Volkswagen Golf), ma anche dei concorsi precedenti, scrive Elmar Burchia su “Il Corriere della Sera”. A rivelare la vicenda era stata la Süddeutsche Zeitung, martedì scorso, poco prima dell’assegnazione degli ambiti premi. La prima testa a cadere è stata quella del responsabile della comunicazione. Ma la bufera che ha travolto l’ente tedesco non è ancora finita. Inizialmente l’Adac aveva rispedito al mittente ogni accusa di manipolazione, bollato come «assurdità» e «scandalo giornalistico» ogni insinuazione riportata dai media. Ora, Michael Ramstetter, responsabile della comunicazione e direttore di Motorwelt (la rivista da 16 milioni di lettori che l’Automobil Club di Monaco di Baviera invia gratuitamente agli iscritti), è stato costretto a dimettersi da tutte le sue funzioni. Si è scusato ed ha ammesso che i voti ottenuti dalla Golf come auto dell’anno da parte dei lettori erano stati «gonfiati». Nel concorso «Gelber Engel» (che non ha nulla a che vedere con il «Car Of the Year»), infatti, sarebbero arrivati solo 3.409 voti alla Golf, non 34.299 come comunicato ufficialmente a dicembre, aveva raccontato la Süddeutsche Zeitung. Il numero dei voti espressi nella categoria dell’«auto più amata dai tedeschi» sono stati «gonfiati» e «abbelliti» per anni, ha confermato anche Karl Obermair, a capo di Adac. Le scuse di Ramstetter - che si è assunto «tutta la responsabilità» - sono arrivate quattro giorni dopo la sfarzosa cerimonia di premiazione che si è tenuta giovedì nell’ex residenza reale di Monaco. Il danno all’immagine e alla credibilità è enorme. Nessun ente ha mai goduto di tanta fiducia tra i tedeschi come l’Adac, scrive lo Spiegel. L’intera vicenda - aggiunge la rivista - è una questione di potere «e di cosa accade quando un ente si sente troppo potente». L’Automobil Club tedesco, infatti, si è trasformato negli anni in un vero e proprio colosso: gestisce di tutto, dalle assicurazioni ai tour operator fino al noleggio auto. Domenica, i responsabili a Monaco di Baviera hanno cercato di contenere lo tsunami spiegando che l’errore ha riguardato «solo» il numero assoluto di voti assegnati alla vettura premiata, mentre la classifica riguardante tutte le auto in concorso è rimasta invariata. Seccata da tanto clamore, la casa automobilistica più grande d’Europa, Volkswagen, che si è vista tirata in ballo. Un portavoce si è limitato a dire che Adac deve fare assoluta chiarezza, puntualizzando però che «naturalmente bisogna dare loro anche la possibilità di spiegare i fatti». «Continuiamo ad essere convinti che la Golf è l’auto più amata dai tedeschi», sottolineano da Wolfsburg. Alcuni esperti del settore automobilistico ora mettono in dubbio anche i test e le statistiche fatti in questi anni dall’Adac, come quelli sulla sicurezza dei tunnel o i crash test. Anche dalla politica si alzano le prime voci col ministro dei Trasporti tedesco, Alexander Dobrindt, che invita l’ente a «mettere tutte le carte in tavola».
Scandalo in Germania: Golf auto dell’anno con imbroglio. L’ammissione del capo comunicazione: per il premio “Angelo giallo” decuplicati i voti per la Golf, scrive Laura Lucchini il 21 gennaio 2014 su “L’Inkiesta”. Per i tedeschi è stato come svegliarsi un giorno da bambini e scoprire che Babbo Natale non esiste. O peggio ancora: che ruba. Quando la scorsa settimana un’inchiesta giornalistica ha denunciato la frode del club dell’automobile tedesco, l’Adac, nel concorso per l’auto dell’anno (da non confondere con il premio europeo Auto dell’anno, ndr), nessuno si aspettava che di lì a poco sarebbe crollato per sempre un mito. Il presidente del secondo club più potente al mondo ha ammesso stamane che per anni il concorso è stato truccato e i numeri gonfiati. Responsabile diretto sarebbe stato il capo della comunicazione, Michael Ramstetter: voleva rendere il premio più significativo e famoso nel mondo, secondo quanto ha confessato rassegnando le dimissioni. Per capire le dimensioni dello scandalo sono necessarie alcune premesse: con una imponente sede centrale a Stoccarda e 19 milioni di membri, l’Adac, l’equivalente dell’Aci in Italia, è il secondo club automobilistico al mondo, dopo quello statunitense. Il suo capo della comunicazione, Ramstetter, è allo stesso tempo direttore della rivista Motorwelt, la bibbia degli automobilisti, che vanta 16 milioni di lettori, molti più di Der Spiegel. Il club è formato da una associazione per gli utenti e 40 filiali che sono società di capitali: il fatturato complessivo del 2012 ha superato il miliardo di euro. Sono circa 8.500 i dipendenti in tutto il Paese. Con un potere simile, questa organizzazione è raramente oggetto di scandali che possano metterne in discussione il ruolo. Almeno fino ad ora. In occasione della consegna del premio «Angelo Giallo» — il colore simbolo — che si consegna all’auto più amata dai tedeschi per il 2014, i voti raccolti tra i lettori di Motorwelt sono stati vistosamente truccati. Infatti solo in 3.409 avrebbero scelto la Golf di Volkswagen contro i 34.299 dichiarati dall’influente pubblicazione. Dopo alcuni giorni di veementi smentite, Ramstetter ha internamente ammesso i suoi errori ed è stato licenziato con effetto immediato. Alla Süddeutsche Zeitung ha ammesso questa mattina di aver fatto «una porcata»: «Ho gonfiato i numeri per anni. Per questo traggo ora le conseguenze delle mie azioni». Ma lo scandalo non finisce qui. Il prestigioso premio esiste dal 2005 e non è certo un mistero che la sua consegna influenzi anche il mercato. Per questo l’Adac ha annunciato un’inchiesta interna. Una commissione analizzerà tutti i dati del sondaggio dalla prima edizione del premio nel 2005. Non sarà un compito facile perché, a quanto pare, molti dati sarebbero stati distrutti ad arte dopo la consegna del riconoscimento. Per l’Adac, l’affaire è una catastrofe di immagine: l’organizzazione vive della fiducia dei membri e dell’opinione pubblica nei suoi test e nei suoi consigli agli automobilisti. Lo ha ammesso il presidente dell’Associazione Karl Obermair questa mattina: «La credibilità e la fiducia sono i nostri valori fondamentali: proprio per questo gli eventi ci colpiscono profondamente». Nell’ammettere gli errori ha annunciato che comparirà di fronte alla stampa e ai rappresentanti del mondo dell’automobile tedesco per chiedere scusa. Lo stesso Obermair, la scorsa settimana, di fronte a 400 ospiti invitati, aveva descritto le accuse della stampa come «speculazioni senza senso» e aveva parlato di «scandalo per il giornalismo». Solo dopo la consegna del premio, messo sotto torchio dal presidente in persona, Ramstetter avrebbe mandato alla dirigenza un file excel con i veri numeri del concorso truccato. Poche ore ore più tardi veniva licenziato. Il presidente assicura ora che nessuno, ai vertici, avrebbe mai potuto immaginare cosa succedeva con il concorso. La stampa tedesca crede però che la frode fosse a conoscenza dei piani alti, altrimenti non si spiegherebbe la fuga di notizie alla Süddeutsche Zeitung. Lo scandalo è la prova di fuoco anche per il nuovo ministro dei trasporti, l’ultraconservatore bavarese Alexander Dobrindt che ha invitato il potente club a «mettere tutte le carte in tavola», solo cosí «potrà riconquistare la fiducia perduta». Per altri invece questa storia è solo all’inizio, il muro di silenzio sull’associazione si è rotto ed è lecito aspettarsi ulteriori scandali.
I trucchi dei crucchi. Lo scandalo Volkswagen travolge la Germania. (di Fiorenzo Caterini). La notizia è deflagrante. Eccola qua, tratta dal sito di Repubblica.it: Volkswagen nella bufera: ha truccato i dati sui gas di scarico. In pratica gli americani hanno scoperto il trucco. Nelle auto Volkswagen, e quindi anche nelle Audi, una centralina serviva a truccare i risultati delle emissioni. Scrive Repubblica.it: “…installando un software per aggirare gli standard ambientali per la riduzione dello smog nelle vetture Audi e Volkswagen a 4 cilindri prodotte tra il 2009 e il 2015. Si tratta di un software capace di rilevare quando la macchina è sottoposta ai test sulle emissioni, in modo da tenere attivo il sistema di controllo sulle emissioni solo in quel periodo di tempo. Negli altri momenti, è l’accusa dell’Epa, i veicoli inquinano molto più di quanto comunicato dalla casa produttrice. Il software è stato creato per nascondere l’emissione di monossido di azoto “. Incredibile. Non è ancora dato sapere se lo stesso stratagemma sia stato usato in Europa. Il colosso automobilistico tedesco, che proprio l’anno scorso ha superato per la prima volta la giapponese Toyota al vertice della graduatoria delle auto più vendute al mondo, è nell’occhio del ciclone, il suoi vertici si scusano, imbarazzatissimi, il governo tedesco promette inchieste, mentre il titolo va a picco. Ricordo che la Toyota, a sua volta, aveva nel 2012 superato al vertice della graduatoria mondiale l’americana General Motors, che si è trovata, dunque, a passare dalla posizione di leader indiscusso del mercato mondiale al terzo posto. Lotte tra titani, senza esclusione di colpi, a quanto pare. La VW aveva iniziato una politica molto aggressiva di espansione nel mercato americano, e forse non è un caso, che l’agenzia per l’ambiente americana, l’EPA, sia riuscita a scoprire il trucco. Non so perché, ma questa storia mi ricorda l’inchiesta della giustizia americana sugli imbrogli della FIFA, l’organizzazione mondiale del calcio guidata dallo svizzero Blatter, per l’affidamento del mondiale (una vetrina promozionale enorme che suscita molta apprensione in America) alla Russia. Uno scandalo gigantesco, com’è noto. Banalizzando, diciamo che gli americani, quando vogliono, sanno come difendersi. Ma se la Germania è sotto choc, anche in Italia, diciamolo pure, crolla un mito. Il mito della tecnologia tedesca, della stessa VW che in Italia gode di una vastissimo pubblico di estimatori e, più in generale, della integrità del Germania. Dopo le tangenti per le armi alla Grecia, corollario di una crisi che ha visto la Germania sotto accusa per la sua politica economica piuttosto aggressiva e speculativa, ora si scopre che una casa automobilistica nota per la sua serietà, utilizzava la famosa “tecnologia tedesca” per un imbroglio che, peraltro, incide pesantemente nella salute degli abitanti. In Italia ci è sempre piaciuto pensare che si, noi siamo un po’ cialtroni e imbroglioni, ma altrove no. Una sorta di rifugio psicologico dove coltivare l’illusione che in un altrove più o meno identificato con il nord Europa ci fosse una umanità redenta, efficiente e retta. Nicola Gratteri, magistrato e scrittore, uno dei massimi esperti della criminalità organizzata del mondo, in una recente intervista radiofonica, ha sostenuto che la corruzione, purtroppo, è diffusissima in tutto il mondo, anche in paesi insospettabili (citava il Canada e l’Australia come ambiti poco noti del riciclo del denaro sporco). Spesso il fenomeno emerge grazie a buone leggi e all’organizzazione di forze di polizia e magistratura abituati ad affrontare la criminalità. Ma spesso, in paesi insospettabili, il fenomeno resta sommerso. Chi studia antropologia sa, insomma, che esiste nel mondo una costante sincronica che si definisce come “sostanziale uniformità della psicologia umana”. In altri termini, è il vecchio detto: “tutto il mondo è paese”. (Si precisa che il termine “crucco” è usato nella sua accezione scherzosa. Cogliamo anzi l’occasione per salutare gli amici tedeschi che ci leggono).
Il falso mito della superiorità morale ed industriale tedesca, scrive Guido da Landriano. Cosa rivela il recente scandalo Volkswagen dell’industria tedesca? Che la decantata “Superiorità calvinista” tedesca, fatta di laboriosità, di sacrifici, di tante formichine parche nei consumi ed attentissime nella produzione NON ESISTE, è un parto di una comunicazione attenta e senza scrupoli tesa all’autocelebrazione, che i gonzi esterofili di tutto il mondo, soprattutto nostrani, ripetono come utili idioti. Del resto è noto che questi germanofili, adoratori sciocchi dell'“Ordoliberismo”, hanno schiena flessibile come il giunco e disposta a piegarsi al minimo alito di vento. Ci chiediamo dove sia la “Performance excellence” tanto decantata dai loro manager: sta forse nell’eccellenza nel barare, nel falsare i dati in modo da apparire superiori, quando assolutamente non lo sono? Oggi abbiamo visto lo scandalo Volkswagen, pensate che sia l’unico scandalo dell’industria teutonica? Allora vi ricordiamo qualche altro episodio recente: 2010 La Mercedes viene condannata ad una multa di 185 milioni di dollari da parte delle autorità USA per un vastissimo giro di tangenti mondiali, su un territorio di 22 paesi e con l’utilizzo di un giro enorme di conti off-shore. Questo scandalo coinvolgeva stati come la Tailandia, la Grecia, la Russia e l’Iraq. La Mercedes ha pagato e promesso di “Far pulizia”, il tutto per non far proseguire le indagini penali. 2015 13 manager della Siemens sono stati rinviati a giudizio in Grecia per corruzioni. Sarebbero stati accusati di aver pagato tangenti ai dirigenti OTE, la società telefonica greca, allora pubblica. Secondo il giornale inglese Independent ha denunciato l’invio di armi all’Arabia Saudita in cambio del suo appoggio all’assegnazione della Coppa del Mondo 2006 alla Germania. Ci fermiamo qui, ma potremmo andare avanti. La superiorità della Germania, basata sulla visione “Calvinista”, tanto decantata un secolo fa da Weber NON ESISTE PIU’, se mai è esistita. La Germania, che fa la morale a tutta Europa è anche lei sentina di corruzione, piegata agli interessi plutocratici di pochi disposti a qualsiasi cosa per arricchirsi ulteriormente. Insomma… alla fine il decadente SUD ed il moralista NORD non sono che la due facce della stessa medaglia di malaffare. Quindi cerchiamo ognuno di curare i propri mali e non prendiamo cattivi esempi da chi non ha proprio nulla da insegnare. Un po’ di dignità e di onesta, non ci vuole altro, e queste materie non si possono importare.
Germanopoli di Nino Sunseri su “Libero Quotidiano”. Caso Volkswagen: tutte le fregature che ci hanno rifilato i tedeschi. Il mito della perfezione industriale tedesca si è infranto su un motore a gasolio: un brevetto depositato il 23 febbraio 1892 a Berlino dal signor Rudolf Diesel. Per noi italiani sarebbe come dire che la pizza margherita l’hanno inventata gli svizzeri. Il governo di Washington ha accusato i vertici della Volkswagen di essere degli imbroglioni. Neanche fossero tanti Totò quando voleva vendere il Colosseo (sempre agli sprovveduti americani). Ma che vergogna per i tedeschi che si considerano i più grandi motoristi del mondo (e che godimento per noi la Mercedes di Hamilton che si spegne a Singapore e quella di Rosberg arrosto a Monza). L’agenzia Usa per la protezione ambientale ha stabilito che Golf e Audi emettono una quantità di biossido di carbonio eccessivo. E fin qui, tutto sommato, si poteva anche transigere: vedi mai che sulle 500 mila auto ritirate c’erano gli iniettori un po’ sporchi. Ma poi si scopre che il problema era in fabbrica e il costruttore non avendo saputo (o voluto) abbattere le emissioni aveva aggirato il problema montando un software con il compito di depistare i controlli. Un trucco che suscita indignazione anche nei quartieri spagnoli di Napoli o ai mandamenti di Palermo. Ora Vw rischia una sanzione da 18 miliardi. In questo complicato 2015 il mito dell’onestà e del senso di responsabilità sembra essere stato dimenticato dai tedeschi nei saggi di Max Weber. Perchè a luglio 2015 è stato annunciato il ribaltone alla Deutsche Bank, orgoglio della finanza di Francoforte. Entrambi gli amministratori delegati Anshu Jain e Juergen Fitschen sono stati licenziati. Il primo in tronco, il secondo dopo l'assemblea del prossimo maggio. In sostituzione John Cryan. Un manager inglese alla testa della prima banca tedesca che ha in pancia 54.700 miliardi di euro di derivati e se succede qualcosa la finanza mondiale diventa cenere. Le dimissioni arrivano dopo gli scandali costati due maxi multe (una di 2,51 miliardi di dollari in Usa e di una di 344 milioni di dollari a Londra) per presunte manipolazioni dei tassi interbancari, in particolare del Libor. Per non parlare del coinvolgimento in una vicenda di denaro sporco da parte di alcuni clienti russi. E vogliamo raccontare dei capitani felloni? Noi abbiamo Francesco Schettino. Loro Andres Lubitz che ha ammazzato 150 passeggeri nonostante fosse noto che non poteva più fare il pilota d’aerei. Da noi si sarebbe subito aperto il processo ai responsabili della negligenza. Non risultano, invece, dimissioni in Lufthansa da cui Germanwings dipendeva.
Un mito infranto, tedeschi sotto shock. Lo sconcerto è superiore a quello per i falsi diari di Hitler, scrive Angelo Allegri su “Il Giornale”. Come se agli italiani avessero toccato la Ferrari, Armani e tutto il made in Italy messo insieme. O come se l'imbattibile nazionale di Müller, Göetze e Özil fosse all'improvviso accusata di aver vinto gli ultimi mondiali dopo aver truccato le partite decisive. Ieri Angela Merkel ha invocato «piena trasparenza in una situazione difficile». E il ministro dei trasporti Alexander Dobrindt ha annunciato una commissione d'inchiesta governativa, che è già pronta a recarsi al quartier generale della Volkswagen. Reazioni forti che però non rendono del tutto lo sconcerto che lo scandalo dei gas di scarico truccati ha provocato in Germania. Perché la vicenda ha toccato due simboli. A torto o a ragione i tedeschi dell'auto si considerano gli inventori. E non c'è ingegnere a Nord delle Alpi che non sia in grado di recitare a memoria la nazionale made in Germany della storia dell'automobile: Rudolf Diesel, Carl Benz, Gottlieb Daimler, Ferdinand Porsche (e si potrebbe continuare a lungo). Altra tradizionale fonte di orgoglio sono le cosiddette «virtù tedesche»: onestà, serietà, diligenza. Tanto più degne di nota se paragonate a quelle dei vicini del Sud. «L'Italia è ancora come la lasciai, ancora polvere sulle strade, ancora truffe al forestiero... Onestà tedesca ovunque cercherai invano», scriveva Goethe, a cui pure l'Italia piaceva non poco. Il risultato è che questi giorni sono destinati a rimanere nella memoria collettiva. Come e più di altre vicende: la bufala dei falsi diari di Hitler, presentati come veri dal settimanale Stern e poi rivelatisi frutto della creatività di un abile faccendiere; le spericolate operazioni finanziarie della Deutsche Bank, uno dei simboli appannati del potere economico tedesco. O come lo scandalo, che tanta indignazione ha provocato tra gli automobilisti tedeschi, dell'Adac, l'Automobile Club locale, che per darsi peso e importanza moltiplicava a dismisura gli iscritti. Robetta, in confronto a quanto sta emergendo ora sulla Volkswagen. E così il numero uno della Porsche, che pure appartiene al gruppo, ha dichiarato di essere «inc... nero». Politici ed economisti hanno parlato di «catastrofe per l'industria tedesca», con possibili ricadute non solo sull'occupazione nel gruppo Vw ma su tutto l'export del Paese. Il sito della Bild, termometro infallibile della sensibilità popolare, ha mantenuto per tutto il giorno come prima notizia il video del numero uno della società Martin Winterkorn che si profonde in umilianti scuse. Più pratico Bernd Osterloh, capo dei sindacati della Vw, che hanno fior di posti nel consiglio di sorveglianza del gruppo: «Ci saranno conseguenze personali, dovranno cadere delle teste». E le teste cadranno. Perché, e questa è un'altra differenza con i vicini del Sud, i tedeschi praticano poco la virtù del perdono. L'ex ministro della Difesa Karl-Theodor zu Guttenberg aveva copiato parte della tesi e fu costretto a dare subito le dimissioni. Era il marzo 2011. Per un peccato tutto sommato veniale è, da allora, il paria più illustre della politica tedesca.
Der Spiegel: “c’è un cartello dei costruttori auto tedeschi”. Intanto la Germania cerca di limitare i danni. Il settimanale tedesco ha rivelato l'esistenza di un accordo tra alcuni dei grandi produttori, per influenzare tecnologie (tra cui quelle antinquinamento) e prezzi, attivo fin dagli anni '90. Nel frattempo Mercedes e Audi stanno richiamando preventivamente circa 4 milioni di auto diesel, mentre in Germania è pronto un piano di "salvataggio" nazionale. Come si immaginava, il dieselgate è frutto più di un sistema malato che dell'iniziativa di un singolo, scrive Marco Scafati il 21 luglio 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Emissioni fuori controllo, richiami, accuse di aver addirittura formato un “cartello” dell’auto. Le quattro ruote tedesche sono in subbuglio, come forse mai era accaduto prima. In principio fu il dieselgate Volkswagen, di cui è stato scritto di tutto e di più, a gettare un’ombra sull’industria dell’auto più potente del mondo. E a far drizzare le antennine delle autorità, soprattutto quelle europee. Ma pare che quello sia stato solo l’inizio. Pochi giorni fa è toccato alla Mercedes richiamare tre milioni di auto ufficialmente per “un’azione di servizio volontaria” sul software che ne gestisce i motori a gasolio. Costo stimato? 220 milioni di euro, che secondo gli analisti potrebbero diventare molti di più quando si arriverà a stimare i reali contorni di una vicenda che per ora resta fumosa. A stretto giro di posta ha giocato d’anticipo anche Audi, proponendo qualcosa di simile. Ovvero un programma di aggiornamento per 850 mila vetture con motori a sei e otto cilindri diesel (V6 e V8 TDI), che torneranno in officina per essere dotate di un nuovo software in grado, secondo la casa di Ingolstadt, di “migliorare ulteriormente le loro emissioni in condizioni di guida reali oltre gli attuali requisiti di legge”. Un’operazione, tra l’altro, portata avanti in collaborazione con le autorità federali e che riguarderà anche modelli Porsche e Volkswagen equipaggiati con gli stessi propulsori. Parliamo in totale di circa 4 milioni di auto coinvolte nei due casi, vendute sia nel vecchio continente che in altri paesi ad eccezione del nord America (Canada e Stati Uniti). Il tutto mentre dalla Germania arrivano notizie inquietanti: secondo il settimanale Der Spiegel, i costruttori Audi, Bmw, Daimler, Porsche e Volkswagen avrebbero fin dagli anni ’90messo su un cartello per coordinare tutto ciò che riguarda lo sviluppo delle vetture: dai motori alle trasmissioni, fino ai sistemi di scarico passando per freni e componentistica varia. Una sorta di “famiglia allargata”, formata da non meno di 200 dipendenti delle varie aziende che partecipavano a una sessantina di comitati industriali, decideva tutto nel dettaglio: dalle tecnologie fino a fornitori e costi, soprattutto quelli dei sistemi di trattamento delle emissioni dei motori a gasolio. Tutto legale? E’ quello che le autorità tedesche e quelle europee dovranno chiarire. Magari partendo dall’autodenuncia fatta all’autorità tedesca per la concorrenza fatta da Daimler e Volkswagen, come riporta Der Spiegel. Come riferimento potrebbe aiutare quanto accaduto esattamente un anno fa, quando l’Antitrust dell’Unione Europea comminò una multa complessiva da tre miliardi di euro al cartello dei costruttori di camion formato da Daimler, Daf, Volvo/Renaulte Iveco, per essersi accordati sia sulle tecnologie che sui prezzi dei sistemi antinquinamento. In quell’occasione si salvò la Man, che pur essendo coinvolta non ricevette addebiti perché aveva denunciato per prima l’esistenza di accordi illegali. Succederà lo stesso? Per capirlo bisogna aspettare, ma nel mentre chiedersi anche cosa stia succedendo alla Germania dell’auto. Come mai quella che da sempre viene dipinta come una corazzata, stia dando prova di debolezza. Al punto da dover chiedere aiuto allo stato dal momento che esiste, come riportato dal sito specializzato Autonews.com che cita fonti governative, un piano di salvataggio: un accordo tra industriali e politici per “pulire” le auto diesel nel paese ed evitarne il bando dalle città, soluzione quet’ultima auspicata anche oggi dalla commissaria al mercato interno UE Elzbieta Bienkwoska. Un piano dal costo stimato di due miliardi di euro che prevede l’aggiornamento di tutte le vetture equipaggiate con motori Euro 5 ed Euro 6, sia di marchi nazionali che esteri, con un upgrade del software che permetterebbe di tagliare fino al 20% di NOx (e le prestazioni…?). Lo stesso piano che ha dato il via ai richiami “preventivi” di Mercedes e Audi, di cui si è parlato prima. Comunque sia, un argomento caldo sul tavolo del ministro dei trasporti Dobrindt, che incontrerà i rappresentanti dei costruttori nazionali il 2 agosto per parlare di inquinamento da motori a gasolio. Ma ad essere calda, a ben vedere, è tutta l’estate dell’auto tedesca.
REGENI, PUTIN, TRUMP E LE FAKE NEWS (BUFALE/FALSE VERITA').
Fake news, la denuncia di Facebook: "Le usano anche gli Stati per manipolare". "Account falsi utilizzati per diffondere informazioni rubate anche nelle ultime elezioni Usa", scrive il 28 aprile 2017 "La Repubblica". Tentativi di propaganda e manipolazione dell'informazione, apparentemente orchestrati da governi o soggetti organizzati, sfruttando le 'fake news' ma anche profili falsi che puntano a influenzare l'opinione pubblica. E' l'allarme lanciato da Facebook in un rapporto che per la prima volta fa questa ammissione. Durante le ultime elezioni Usa, si legge, account falsi sono stati creati per diffondere informazioni rubate da email. L'allarme lanciato da Facebook è contenuto in un rapporto in cui spiega cosa sta facendo il suo team per contrastare questo complesso fenomeno che definisce "operazioni di informazione". Riguardo le presidenziali americane, viene specificato che il volume di queste attività è stato "statisticamente molto piccolo rispetto al coinvolgimento generale nei confronti di questioni politiche". E' la prima volta che il social network fa un'ammissione di questo tipo. All'indomani delle polemiche sulla circolazione delle false notizie su Facebook durante la campagna elettorale Usa, Mark Zuckerberg definì l'idea "folle". La piattaforma, comunque, ha già intrapreso azioni di contrasto e non solo negli Usa. In Francia - dove sono in corso le presidenziali - il team di Facebook ha già rimosso oltre 30 mila account falsi. La notizia arriva nel giorno in cui il social pubblica anche il consueto rapporto globale sulle richieste di dati da parte dei governi relative alla seconda metà del 2016. Sono aumentate del 9% rispetto alla prima parte dell'anno.
Giulio Regeni, un anno senza verità. Dal 25 gennaio 2016, giorno della scomparsa, fino ad oggi: le tappe della vicenda del ricercatore ucciso al Cairo. I depistaggi e le bugie delle autorità egiziane, gli appelli, l'impegno del nostro giornale con la piattaforma RegeniLeaks, le dichiarazioni del governo. Con una certezza. A dodici mesi da quella morte assurda, ancora non sappiamo chi ha ucciso il nostro concittadino, scrive Brahim Maarad il 20 gennaio 2017 su “L’Espresso”.
25 GENNAIO 2016. Giulio Regeni si era trasferito al Cairo dal settembre 2015 per una ricerca di dottorato sui diritti dei lavoratori e i sindacati egiziani. Scompare nella capitale egiziana fra le 19.30 e le 20.00.
3 FEBBRAIO. Il ministro dello Sviluppo economico, Federica Guidi, che si trova al Cairo alla guida di una missione imprenditoriale, fa sapere che il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi ha assicurato la propria «personale attenzione» al caso di Giulio Regeni. Il ministro Guidi dice: «Ho rappresentato al presidente tutta la preoccupazione non solo della famiglia» ma anche «del Governo italiano». E poi: «Posso dire che il presidente mi ha assicurato la sua personale attenzione». Nel tardo pomeriggio dello stesso giorno il corpo di Giulio Regeni viene rinvenuto in un fosso alla periferia del Cairo.
4 FEBBRAIO. Sul corpo di Giulio Regeni vi sarebbero «segni di tortura». Lo scrive il sito del giornale egiziano "Al Watan". Il direttore dell’Amministrazione generale delle indagini di Giza, il generale Khaled Shalabi, sostiene che «non c’è alcun sospetto crimine dietro la morte del giovane italiano Giulio Regeni, il cui corpo è stato ritrovato sulla strada desertica Cairo-Alessandria»: lo riporta il sito egiziano 'Al Youm7'. In dichiarazioni esclusive al sito, il generale dichiara che le indagini preliminari parlano di un incidente stradale e smentisce che Regeni «sia stato raggiunto da colpi di arma da fuoco o sia stato accoltellato». Su indicazione del Ministro degli Affari Esteri Paolo Gentiloni, il Segretario Generale della Farnesina convoca con urgenza l’Ambasciatore egiziano Amr Mostafa Kamal Helmy per esprimere «lo sconcerto del Governo italiano per la tragica morte del giovane Giulio Regeni al Cairo». L’ambasciatore egiziano esprime «a nome del suo Paese profondo cordoglio per la morte di Regeni» e assicura che «l’Egitto fornirà la massima collaborazione per individuare i responsabili di questo atto criminale». Sul corpo di Giulio Regeni ci sono segni di bruciature di sigaretta, tortura, ferite da coltello e segni di una “morte lenta”. Lo riferisce il procuratore egiziano alla Associated Press. Palazzo Chigi fa sapere che il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha sentito nel pomeriggio il presidente egiziano Abdel Fattah Al Sisi al quale ha rappresentato l’esigenza che il corpo di Giulio Regeni sia presto restituito alla sua famiglia. Inoltre ha espresso l’esigenza che sia dato pieno accesso ai rappresentanti italiani per seguire da vicino, nel quadro dei rapporti di amicizia che legano Italia ed Egitto, «tutti gli sviluppi delle indagini per trovare i responsabili dell’orribile crimine» che ha portato alla morte di Giulio Regeni ed «assicurarli alla giustizia». Una nota del Quirinale fa sapere che «il Presidente Mattarella auspica che, attraverso la piena collaborazione delle autorità egiziane, sia fatta rapidamente piena luce sulla preoccupante dinamica degli avvenimenti, consentendo di assicurare alla giustizia i responsabili di un crimine così efferato, che non può rimanere impunito». L’agenzia Mena riporta la notizia che il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi ha telefonato al premier Matteo Renzi, riferendogli di aver ordinato al ministero dell’Interno e alla Procura generale di «perseguire ogni sforzo per togliere ogni ambiguità» e «svelare tutte le circostanze» della morte di Giulio Regeni, un caso al quale «le autorità egiziane attribuiscono un’estrema importanza».
5 FEBBRAIO. Arriva al Cairo un team di sette uomini di Polizia, Carabinieri e Interpol per seguire le indagini, in collaborazione con le autorità egiziane. Fonti dell’intelligence smentiscono le notizie apparse su alcuni organi di stampa di collegamenti tra il giovane ucciso al Cairo e i servizi italiani. Per queste notizie gli 007 esprimono «stupore e costernazione». «Acquisire ogni elemento utile» che consenta di «ricostruire quanto accaduto». È la delega che la procura di Roma dà al team di investigatori in trasferta al Cairo per indagare sulla morte di Regeni. Quella della procura di Roma, in attesa di vedere come si comporteranno le autorità egiziane e quale sarà la qualità della loro collaborazione, è dunque una “delega aperta”, senza indicazioni particolari e specifiche, in modo da consentire agli investigatori il più ampio margine di manovra. L’obiettivo è quello di riuscire a parlare con il maggior numero di testimoni che hanno avuto a che fare con il giovane negli ultimi giorni prima della morte, a partire da chi ha trovato il cadavere e dal medico legale fino a quelli che lo hanno visto prima della sua scomparsa; perquisire l’abitazione in cui Regeni viveva; poter accedere, qualora fossero disponibili, al suo cellulare, ai tabulati e al computer. Il New York Times racconta la morte di Giulio Regeni, parlando di un omicidio brutale che gela le relazioni tra Italia ed Egitto. Sottolinea l’ira di Roma «profondamente scettica sul fatto che l’Egitto sia in grado o abbia la volontà di trovare gli assassini». Il quotidiano statunitense parla di «complicazioni, seppur taciute» nei rapporti tra Roma e il Cairo, anche perché le bruciature di sigarette trovate sul corpo di Regeni, così come i segni di un colpo alla testa, sarebbero «i segni distintivi degli abusi frequentemente associati alle forze di sicurezza egiziane». Il Times parla di «preoccupazioni crescenti per l’impunità» di cui godono queste forze speciali del regime di al Sisi. Viene fatta circolare al Cairo la notizia che «sono state arrestate due persone sospettate dell’omicidio dello studente italiano Giulio Regeni». La fonte delle agenzie di stampa esclude «che l’omicidio Regeni abbia riferimenti terroristici o politici» e ha sostenuto che «si tratterebbe di un atto criminale».
6 FEBBRAIO. Il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, ricordando che i familiari e la salma di Regeni hanno lasciato il Cairo e sono attesi a Trieste dopo uno scalo a Roma, dice: «A quanto risulta dalle cose che ho sentito sia dall’ambasciata sia dagli investigatori italiani che stano cominciando a lavorare con le autorità egiziane, siamo lontani dal dire che questi arresti abbiano risolto o chiarito cosa sia successo. Credo che siamo lontani dalla verità». Le due persone fermate per l’uccisione di Regeni vengono rilasciate. Fonti della sicurezza al Cairo si limitano a dire che si trattava di “sospetti” nei confronti dei quali non è stata formalizzata alcuna accusa che giustificasse un arresto.
7 FEBBRAIO. «Fonti mediche e giudiziarie» citate dal sito del quotidiano indipendente egiziano «Al-Masry Al-Youm» riferiscono che «il rapporto del medico legale ha affermato che lo studente» Giulio Regeni «è stato ucciso 10 ore prima di essere ritrovato». Viene «escluso che egli sarebbe stato oggetto di un incidente stradale», aggiunge il sito confermando attraverso le stesse fonti che «lo studente è stato torturato». L’indicazione temporale precisa quella fornita il 4 gennaio dal «Al-Youm 7» che, citando «inchieste preliminari», sosteneva che il corpo si trovava sul luogo del rinvenimento «da meno di tre giorni».
8 FEBBRAIO. Il generale Magdi Abdel Ghaffar, ministro dell’Interno egiziano, in una conferenza stampa tenuta al quartier generale della sicurezza nazionale egiziana al Cairo dice: «Non trattiamo assolutamente l’italiano come una spia ma come se fosse egiziano. È un atto criminale». Aggiunge che «il corpo è stato ritrovato sopra il cavalcavia Hazem Hassan sull’autostrada» del deserto tra Il Cairo e Alessandria «ed è stato scoperto da un autista di taxi la cui vettura era finita in panne». E poi afferma: «Respingiamo tutte le accuse e le allusioni ad un coinvolgimento della sicurezza». Il caso Regeni entra nelle conversazioni tra Barack Obama e Sergio Mattarella. I due presidenti parlano al termine del loro incontro alla Casa Bianca e il presidente americano, riferiscono fonti italiane, conferma che gli Usa collaboreranno per la ricerca della verità.
9 FEBBRAIO. Il ministro degli Esteri egiziano Sameh Shoukry in un’intervista a 'Foreign Policy' riportata dal sito del quotidiano egiziano al Ahram, ribadisce che l’assassinio di Giulio Regeni è stato «un crimine» e che l’Egitto respinge ogni accusa di coinvolgimento. Puntualizza pure che i giornalisti che si occupano della vicenda stanno «saltando a conclusioni» e stanno facendo «speculazioni senza alcuna informazione autorevole o una verifica di ciò a cui alludono». Il ministro egiziano ha poi liquidato come «bugie» le accuse che in Egitto ci siano prigionieri politici. Secondo un sito egiziano, il telefonino di Giulio Regeni è stato agganciato per l’ultima volta nel quartiere sulla sponda sinistra del Cairo dove risiedeva. «La Procura ha ricevuto ufficialmente una notifica da parte di una società di telecomunicazioni secondo cui, seguendo il telefono di Regeni» l’apparecchio «è stato localizzato nella zona di Dokki», il quartiere di Giza al Cairo «nei pressi del suo appartamento», scrive il sito del quotidiano indipendente Al Masry Al Youm. In risposta alla lettera di protesta di accademici pubblicata dal Guardian, il portavoce del ministero degli Esteri egiziano Ahmed Abu Zeid sostiene che è «prematuro» giudicare i risultati delle indagini sulla morte dello studente italiano, lo scrive l’agenzia Mena.
10 FEBBRAIO. Il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni alle Commissioni Esteri-Politiche Ue di Camera e Senato dice: «Confermo alla Camere l’impegno del governo sull’orribile vicenda dell’uccisione di Giulio Regeni».
13 FEBBRAIO. Il New York Times scrive che «tre funzionari della sicurezza egiziana coinvolti nelle indagini affermano che Regeni è stato preso» da alcuni agenti il 25 gennaio. Il ragazzo «ha reagito bruscamente, si è comportato come un duro», sostengono le fonti. Tutti e tre, intervistati separatamente, scrive ancora il Nyt, dicono che Regeni aveva sollevato sospetti a causa di contatti trovati sul suo telefono di persone vicine ai Fratelli Musulmani e al movimento 6 Aprile, considerati nemici dello Stato. Chi ha fermato Regeni «ha pensato fosse una spia», aggiungono le fonti. Sempre secondo il giornale statunitense, un “testimone” sostiene che il fermo del giovane italiano sarebbe stato «ripreso da quattro telecamere di sorveglianza» di altrettanti negozi del quartiere: ma la polizia egiziana «non ha ancora chiesto le registrazioni video». Il ministro degli Esteri egiziano Sameh Shoukry sostiene che nei colloqui del Cairo con il governo italiano «non viene sollevata una simile illazione o accusa» circa un coinvolgimento di forze di sicurezza egiziane nella tortura a morte del giovane Giulio Regeni. Come riferisce il New York Times, Shoukry afferma anche alla radio nazionale pubblica egiziana.
14 FEBBRAIO. Gli investigatori italiani al Cairo faticano a raccogliere elementi sull’uccisione di Giulio Regeni. Le attività investigative nella capitale egiziana vanno avanti con lentezza anche per le metodologie di indagine utilizzate dagli apparati di sicurezza egiziani diverse dalle nostre.
15 FEBBRAIO. «In un comunicato ufficiale pubblicato dal ministero dell’Interno, una fonte del Dipartimento dell’informazione ha smentito le informazioni pubblicate dai media occidentali secondo le quali l’accademico italiano Giulio Regeni sarebbe stato arrestato da elementi appartenenti ai servizi di sicurezza prima della sua morte», scrivono i media egiziani, tra cui l’agenzia ufficiale Mena. Il premier Matteo Renzi, intervenendo all’Università di Buenos Aires e parlando dei ragazzi italiani nel mondo, dice: «Giulio Regeni è stato ucciso in circostanze ancora da chiarire». L’affermazione fa scattare un lungo applauso della platea.
16 FEBBRAIO. Ricercatore, non spia. La famiglia Regeni, attraverso il proprio legale, «smentisce categoricamente ed inequivocabilmente che Giulio sia stato un agente o un collaboratore di qualsiasi servizio segreto, italiano o straniero». Secondo la famiglia: «Provare ad avvalorare l’ipotesi che Giulio Regeni fosse un uomo al servizio dell’intelligence significa offendere la memoria di un giovane universitario che aveva fatto della ricerca sul campo una legittima ambizione di studio e di vita».
18 FEBBRAIO. Il quotidiano filo-governativo egiziano AlYoum7 online citando fonti vicine alla procura egiziana che indaga sul caso, scrive che Giulio Regeni «sarebbe stato ucciso da agenti segreti sotto copertura, molto probabilmente appartenenti alla confraternita terrorista dei Fratelli musulmani, per imbarazzare il governo egiziano». Le stesse fonti aggiungono che «il procuratore egiziano e la sua controparte italiana stanno raccogliendo tutti gli elementi possibili per individuare l’autore del crimine».
20 FEBBRAIO. Il premier Matteo Renzi fa anticipare in serata sulle agenzie di stampa un passaggio del suo intervento previsto per l’indomani all’assemblea del Pd: «Noi dagli amici vogliamo la verità, sempre, anche quando fa male. Vogliamo i responsabili, quelli veri, con nome e cognome, e vogliamo che paghino. Abbiamo promesso alla mamma e al papà di Giulio che saremmo andati fino in fondo e confermo che non faremo nessun passo indietro».
21 FEBBRAIO. Intervistati da Repubblica, i genitori di Giulio Regeni, Paola e Claudio dicono: «Abbiamo molta fiducia nelle nostre forze di polizia, nel pm Sergio Colaiocco, nelle istituzioni, e chiediamo che i nostri investigatori al Cairo ritornino in Italia solo quando sarà stata fatta completa chiarezza. Contiamo sull’impegno che hanno preso con noi alcuni rappresentanti delle istituzioni italiane che ci hanno assicurato che la storia di Giulio non cadrà nell’oblio. Vogliamo soltanto la verità su cosa è accaduto a Giulio. Chiediamo che non ci sia nessuna omissione, nessun tentennamento. Giusto per lui. Giusto per tutti».
23 FEBBRAIO. Fonti della sicurezza della prefettura di Giza in Egitto riferiscono al sito del quotidiano ‘Al-Masry Al-Youm’ che «le inchieste hanno svelato che la vita di Giulio Regeni era piena di ambiguità e che il giovane italiano intratteneva relazioni con un gran numero di persone». Le stesse fonti «hanno anche affermato che l’equipe di inchiesta non è ancora giunta a nuove informazioni sui criminali».
24 FEBBRAIO. Secondo un comunicato del ministero dell’interno, la morte di Giulio Regeni sarebbe un omicidio premeditato per una vendetta causata da motivi personali. Secondo gli egiziani le indagini avrebbero accertato che la vittima aveva numerose relazioni con abitanti del quartiere in cui viveva. Il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni in un question time alla Camera dice: «L’Italia chiede semplicemente ad un paese alleato la verità e la punizione dei colpevoli. Non ci accontenteremo di una verità di comodo ne’ di piste improbabili, come quelle evocate oggi dal Cairo». L’ambasciatore egiziano in Italia, Amr Helmy, citato dall’agenzia ufficiale Mena, sostiene che l’omicidio Regeni potrebbe essere un atto criminale o terroristico compiuto da chi «vuole minare le relazioni tra Italia ed Egitto». Tra Roma e il Cairo «c’è piena cooperazione» sul caso, sottolinea l’ambasciatore invitando ad attendere gli esiti dell’inchiesta.
28 FEBBRAIO. Pier Ferdinando Casini, presidente della Commissione Esteri del Senato, chiede verità dal Cairo «o richiamiamo ambasciatore». «O arrivano entro pochi giorni risposte vere oppure il governo, che pure si è mosso con grande saggezza, per dare valore alle parole inequivocabili del presidente del Consiglio, deve considerare alcuni gesti simbolici forti», come il richiamo in Italia del nostro ambasciatore al Cairo, perché «dovremmo far capire la gravità della vicenda e che noi non scherziamo».
4 MARZO. L'attivista 28enne Mohamed Al Jundi è scomparso da piazza Tahrir il 25 gennaio 2013. Durante l’anniversario della rivoluzione. Stesso giorno e a pochi metri dal luogo della sparizione di Regeni, tre anni dopo. Al Jundi è stato ritrovato abbandonato in fin di vita sul bordo della strada, il corpo pieno di segni di tortura. Si è arreso alla morte il 4 febbraio. Per la polizia si è trattato di un incidente stradale. Il caso è stato archiviato.
10 MARZO. Il parlamento europeo condanna la tortura e l'assassinio del ricercatore italiano e nella sua risoluzione chiede maggiore collaborazione e trasparenza dalle autorità egiziane. Le esorta inoltre a fornire alle autorità italiane tutte le informazioni e tutti i documenti necessari per consentire lo svolgimento di indagini "congiunte rapide, trasparenti e imparziali”.
14 MARZO. L'ex ministro della giustizia Mohammed Al Zend dichiara: «Ciò che è stato riscontrato sul corpo dev’essere fedelmente riportato. A qualsiasi costo, politico e non solo. Nulla può giustificare le menzogne. La direzione di medicina legale ha consegnato un rapporto veritiero che conferma, con assoluta chiarezza, ciò che tutti noi sappiamo e che non stiamo qui a ripetere sul crimine che è stato commesso».
16 MARZO. «Vi prometto che faremo luce e arriveremo alla verità, che lavoreremo con le autorità italiane per dare giustizia e punire i criminali che hanno ucciso vostro figlio», dichiara il presidente al-Sisi in un’intervista a Repubblica. Aggiunge però che «bisogna interrogarsi sulla tempistica del delitto: perché hanno fatto ritrovare il corpo durante la visita del vostro ministro?».
24 MARZO. Per la polizia si tratta di una banda specializzata nelle rapine e nei sequestri ai danni degli stranieri. Il collegamento al caso Regeni è immediato. I cinque sono stati uccisi in una sparatoria davanti a un posto di blocco. E’ il primo atto di un nuovo depistaggio.
25 MARZO. “Gli assassini di Giulio Regeni sono stati uccisi nel blitz di ieri mattina”. Questo è quanto sostengono gli inquirenti egiziani. Sostengono di aver recuperato, nella casa di un componente della presunta banda, una borsa con tutti gli effetti personali del ricercatore italiano. La messinscena è durata poche ore.
29 MARZO. «Se il 5 aprile prossimo gli investigatori egiziani non arriveranno in Italia con delle notizie veritiere sulla sorte di Giulio Regeni, allora sarà il momento in cui il nostro governo dovrà avere una reazione forte: richiamare in Italia il nostro ambasciatore al Cairo». E’ la richiesta della madre Paola in conferenza stampa, che sostiene di «aver visto sul viso di Giulio tutto il male di questo mondo».
31 MARZO. «La concreta possibilità di indagare pienamente sull’omicidio di Giulio Regeni è delle autorità egiziane. Non abbiamo il diritto, per il rispetto della sovranità nazionale, di disporre intercettazioni in Egitto o altre attività giudiziarie. E il nostro team non può di propria iniziativa effettuare in un paese straniero pedinamenti o indagini autonome. Noi possiamo offrire, come stiamo facendo, la nostra piena collaborazione a sviluppare meglio le indagini». Così il procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone a l’Espresso.
5 APRILE. «Le verità di comodo in questi ultimi due mesi sono circolate con troppa frequenza. Noi ci fermeremo solo davanti alla verità, quella vera». È l'impegno del ministro degli Esteri Paolo Gentiloni che riferisce in Senato sull'assassinio di Giulio Regeni.
7 APRILE. L’incontro tra la delegazione di magistrati e investigatori arrivati dal Cairo e i pm e detective del servizio centrale operativo della polizia e del Ros dei carabinieri potrebbe essere decisivo per chiarire i punti ancora oscuri. Dal Cairo però portano una documentazione che è ritenuta assolutamente insufficiente dalla Procura guidata da Giuseppe Pignatone.
8 APRILE. Il vertice tra italiani ed egiziani sul caso Regeni è stato un vero e proprio fallimento. La collaborazione tra le autorità giudiziarie può considerarsi di fatto interrotta. Il Governo decide quindi di richiamare l’ambasciatore dal Cairo, Maurizio Massari. Ufficialmente per consultazioni, cioè per inviare un messaggio preciso ad Al Sisi: la misura è ormai colma. «In base a tali sviluppi si rende necessaria una valutazione urgente delle iniziative più opportune per rilanciare l'impegno volto ad accertare la verità sul barbaro omicidio del ricercatore», si legge nella nota della Farnesina.
11 APRILE. «A questo punto le nostre indagini si fermano qui. Il caso Regeni è ormai una questione diplomatica di primo livello. Noi continuiamo il nostro lavoro investigativo solo qualora emergessero nuovi elementi utili alla procura». Lo dichiara il procuratore generale egiziano Nabil Sadeq durante il colloquio con il suo vice, Mostafa Soliman, di ritorno dall’incontro con i pm italiani a Roma.
13 APRILE. «Il problema dell’omicidio Regeni è stato creato da noi egiziani. Dal primo giorno alcuni giornali e alcuni social media hanno accusato la polizia di essere responsabile". Così il presidente dell'Egitto Abd Alfattah Al Sisi nel suo discorso davanti ai rappresentanti della società civile. Prima di tutto però rinnova le condoglianze alla famiglia Regeni e ricorda l’egiziano scomparso a Roma. Omar Afifi, ufficiale della polizia egiziana esiliato negli Usa, racconta a l’Espresso: «L’ordine di uccidere Regeni è arrivato dall’alto. Ecco i nomi dei responsabili: Il capo di gabinetto di Al Sisi, Abbas Kamel, che lo ha fatto trasferire per farlo interrogare dai servizi segreti militari; il generale Mohamed Faraj Shehat, direttore dei servizi segreti militari. Naturalmente il ministro degli Interni Magdy Abdel Ghaffar e il presidente Al Sisi erano al corrente già dal trasferimento».
21 APRILE. L’Agenzia stampa Reuters cita fonti interne della polizia e dei servizi segreti egiziani: «Giulio Regeni arrestato dalla polizia prima dell'omicidio». La versione viene smentita dal ministero degli Interni: «Mai tenuto in nessun commissariato».
26 APRILE. Si stringe la morsa di Al Sisi. In seguito alle proteste di piazza il regime egiziano ha reagito con un'ondata di arresti. Tra cui quello di Ahmed Abdallah, il presidente della ong che offre consulenza ai legali dei familiari del ricercatore ucciso.
12 MAGGIO. Il Governo nomina un nuovo ambasciatore al Cairo: al posto di Maurizio Massari, che viene trasferito a Bruxelles, viene nominato Giampaolo Cantini. Non prende però ancora servizio nella sede diplomatica del Cairo.
16 MAGGIO. L'Espresso lancia una piattaforma protetta per raccogliere testimonianze di whistleblower sulle torture e le violazioni dei diritti umani. Per chiedere giustizia per Giulio e per tutti i Regeni d'Egitto.
27 MAGGIO. Paola Deffendi: «Basta depistaggi e azioni diplomatiche poco incisive. La battaglia per la verità deve andare avanti. Tutti quelli che sanno, hanno visto o sentito cosa è successo a Giulio in quei terribili otto giorni, lo dicano. E la piattaforma dell’Espresso è un’ottima opportunità».
3 GIUGNO. I documenti arrivati alla nostra piattaforma denunciano la scomparsa di tre studenti prelevati in facoltà. «Ci sono tre studenti, come Giulio Regeni. Sono rinchiusi da qualche parte e chiedono aiuto. Ma il mondo non li ascolta. Noi tutti abbiamo bisogno che voi facciate in modo che il mondo li ascolti prima che vengano uccisi dai loro rapitori». E’ stato segnalato anche il caso del reporter condannato all’ergastolo.
6 GIUGNO. Interviene la madre Paola che chiede “verità e giustizia per la vittima di una tragedia disumana”. «A Giulio non piacevano le cerimonie, non abbiamo mai assistito ad una sua graduation, quindi essere qui oggi per me è particolarmente doloroso; forse per il termine del suo dottorato avrebbe fatto una festa. Noi siamo qui, non è una festa, e Giulio non c’è».
7 GIUGNO. «Non rilascio dichiarazioni alle autorità italiane». Così ha risposto Maha Abdelrahman, professoressa di Giulio, agli investigatori italiani che si sono recati in Inghilterra per una rogatoria internazionale. A niente è servito l'appello della madre al «coraggio di vincere l'indifferenza morale».
15 GIUGNO. Una nuova segnalazione su RegeniLeaks, la nostra piattaforma protetta, mostra la fine in carcere di un alto dirigente del ministero del Culto. E ogni giorno tre persone nel paese scompaiono per non tornare più a casa.
22 GIUGNO. Azione dell'organizzazione internazionale rivolta a Matteo Renzi e Paolo Gentiloni: «Di fronte all'attuale inerzia del governo italiano, il 25 e il 26 giugno (Giornata internazionale per le vittime della tortura) facciamo sapere al presidente del Consiglio e al ministro degli Affari esteri che siamo in tanti a non aver dimenticato Giulio e che si può e si deve fare di più per arrivare alla verità».
29 GIUGNO. Palazzo Madama approva l’emendamento Regeni con cui viene bloccata la fornitura dei pezzi di ricambio degli F-16.
4 LUGLIO. Il giornalista Mustafa Bakry, durante una trasmissione in prima serata sulla tv egiziana, parla della morte del ricercatore italiano. E nel goffo tentativo di assolvere la polizia e il ministero degli Interni spiega in sostanza quali sono i modi attuati dalla polizia per fare sparire i dissidenti: «Lo avrebbe messo nel cemento e nascosto, non sarebbe andata a denunciare se stessa».
7 LUGLIO. I figli del generale occupano posti chiave negli apparati dello Stato. E potrebbero avere avuto un ruolo nel caso Regeni come sembra emergere da alcune segnalazioni giunte alla nostra piattaforma protetta. In particolare su Mahmoud, il figlio di al Sisi ufficiale dei servizi segreti.
14 LUGLIO. L’attivista per i diritti umani, ora in esilio, Abdelrahman Mansour: «Ora il dittatore al-Sisi ha paura di Giulio Regeni perché per i ragazzi egiziani è diventato un simbolo dei loro valori: cioè internet e libertà. Che l'Egitto ha soffocato».
19 LUGLIO. Braccio di ferro tra procura italiana e parlamento egiziano che afferma di aver respinto le richieste di «estradare tre sospetti e fornire le conversazioni telefoniche e i filmati». Ma gli investigatori a Roma smentiscono: «L'Italia non ha mai chiesto all'Egitto l'estradizione di alcuno».
10 AGOSTO. Il senatore Lucio Barani in visita in Egitto con una delegazione di imprenditori italiani: «Un grave errore da parte dell’Italia interrompere i rapporti perché il governo egiziano non ha avuto nessun ruolo nell’uccisione di Giulio Regeni. E’ stato danneggiato almeno quanto quello italiano. E Renzi lo sa che il governo egiziano è innocente. Tutto il resto è colpa delle opposizioni che non vogliono la verità ma semplicemente rovinare le relazioni».
29 AGOSTO. I genitori di Giulio intervistati da Riccardo Iacona a Presadiretta: “Noi dobbiamo arrivare alla verità diretta, vera, non finta”.
31 AGOSTO. Nata su proposta di Luigi Manconi, del presidente di Amnesty Italia e del presidente di Antigone, ha come primi firmatari i genitori di Giulio e l'avvocato della famiglia. Con un messaggio chiaro: non riallacciare i rapporti diplomatici con l'Egitto di al-Sisi.
7 SETTEMBRE. Nei dieci faldoni arrivati alla procura romana dopo la rogatoria internazionale anche un documento sul rischio firmato dal ricercatore e dalla sua professoressa Maha Abdelrahman. Vertice degli investigatori nella Capitale.
9 SETTEMBRE. Gli inquirenti del Cairo ammettono per la prima volta l’interessamento della polizia a Regeni nei primi giorni di gennaio a seguito di un esposto presentato dal capo del sindacato degli ambulanti, Mohamed Abdallah. Consegnano dei tabulati ancora parziali.
12 OTTOBRE. Lo dichiara il ministro del turismo egiziano, in Italia per fare promozione. Gli inquirenti del Cairo ammettono per la prima volta l’interessamento della polizia a Regeni nei primi giorni di gennaio a seguito di un esposto presentato dal capo del sindacato degli ambulanti, Mohamed Abdallah. Consegnano dei tabulati ancora parziali.
7 DICEMBRE. Dai tabulati di Abdallah, il capo del sindacato degli ambulanti, emergono contatti continui con la sede centrale della Sicurezza Nazionale a Nasr City. Vengono identificati i poliziotti a cui Abdallah forniva informazioni, quelli che hanno effettuato accertamenti sul giovane dopo l’esposto del sindacalista. I magistrati cairoti tengono a precisare che questi accertamenti sono durati "solo tre giorni" a inizio gennaio e si sono conclusi con un nulla di fatto. Identificati anche i poliziotti coinvolti nell’uccisione di cinque persone, accusate di essere responsabili della morte di Giulio.
28 DICEMBRE. Mohamed Abdallah in una dichiarazione all'Huffington Post arabo conferma la sua collaborazione con i servizi segreti: "Noi stiamo dalla loro parte, Giulio faceva troppe domande sulla sicurezza nazionale. Lo avranno ucciso le persone che lo hanno mandato qua, dopo che io l'ho fatto scoprire. Sono orgoglioso di averlo fatto e ogni buon egiziano, al mio posto, avrebbe fatto lo stesso".
29 DICEMBRE. Il presidente del Consiglio durante la conferenza stampa di fine anno sostiene che, dopo iniziali depistaggi, «c'è una strada che il governo ha cercato di seguire, quella della fermezza e della richiesta di cooperazione. Ultimamente ho visto segnali di collaborazione molto utili dall'Egitto che spero si sviluppino, il governo lavorerà in questo senso».
15 GENNAIO 2017. LA MADRE: “E’ IL PRIMO NON COMPLEANNO DI GIULIO”.
17 GENNAIO. Il ministro degli Esteri Angelino Alfano riferendo alla Camera: «Rivolgo a Giulio Regeni un pensiero commosso, insieme alla prosecuzione dell'impegno per la ricerca della verità, che non verrà mai meno. Sulla ricerca della verità è impegnato il nostro sistema giudiziario e quello diplomatico».
Giulio Regeni, la verità in quel diario. Il ricercatore trovato ucciso un anno fa annotava tutti gli sviluppi del suo lavoro. E dal documento emergono nuovi dettagli su chi lo voleva morto, scrive Floriana Bulfon il 25 gennaio 2017 su "L'Espresso". Giulio Regeni aveva un diario. Lo scriveva sul suo pc. Sono considerazioni e analisi delle sue giornate al Cairo. Il testo ha un carattere 9, giustificato, scritto in un ottimo inglese. Giulio ha annotato così in dieci report sensazioni, perplessità, aspetti umani e professionali delle persone conosciute nell’ambito della ricerca che svolgeva in Egitto. Per ogni incontro una, al massimo due cartelle in cui focalizza la sua attenzione su una decina di ambulanti incontrati in tre diversi mercati, sulle loro condizioni sociali, economiche e sindacali. Una copia è tra le carte dell’inchiesta della procura di Roma, un’altra nelle mani della famiglia. In quei file, scritti tra il 29 ottobre e il 18 dicembre 2015, c’è Giulio, il suo rapporto con i venditori di strada, i suoi interrogativi su cosa pensassero di lui e su quanto quel metodo dell’osservazione partecipata potesse influenzare i loro comportamenti. Li ha scoperti il pubblico ministero Sergio Colaiocco analizzando il Mac portatile ritrovato, nella stanza dove viveva, dai genitori accorsi al Cairo pochi giorni dopo aver appreso la notizia della scomparsa. In quella stanza, nel quartiere di Dokki, il figlio passava ore a studiare, a programmare le attività, a riflettere sugli sviluppi della ricerca. Le note dicono molto sull’ambiente in cui è maturato il sequestro. Ci raccontano il quotidiano, la curiosità nella conoscenza di esperienze apparentemente distanti, ma in quel momento vicine, l’evoluzione di un rapporto di fiducia che Giulio considerava basilare per un arricchimento umano. Lunghe chiacchierate a sorseggiare del tè offerto dai venditori e lui che, per ricambiare la gentilezza, si sente fin da subito in dovere di portare i pasticcini. Ogni sera accende il suo computer e scrive di un clima sereno: dopo qualche incontro finiscono a parlare come amici di mogli e fidanzate. Giulio osserva con attenzione le merci disposte per strada, le luci accese, si interessa alle tecniche utilizzate per la vendita. Da una parte braccialetti, dall’altra vestiti. Annota di chi tiene d’occhio il banco dell’altro quando va in moschea a pregare e si offre di dare una mano. E, tra un cliente che si ferma e un altro che cerca di spuntare un prezzo più basso, può succedere di tutto. Una sera, l’attenzione del giovane ricercatore viene richiamata da un ragazzino. Non si regge in piedi. In mano ha una bottiglia di colla da sniffare. Il venditore che gli sta accanto, smette di parlare e decide di intervenire. Afferra la bottiglia, la butta via e rimprovera il ragazzo. Quella sera, quando ritorna nella sua stanza, Giulio trascrive stupito quell’episodio. Gli ambulanti sembrano aver fiducia in lui e toccano anche argomenti importanti: le difficili condizioni economiche, la scarsa possibilità di influenzare le scelte dello Stato in merito ai loro diritti. Parlano di piazza Tahrir, di quei giorni d’inverno del 2011 quando un milione di persone si erano radunate per gettare le basi di una rivoluzione mai concretizzata. Giulio annota tutto sul suo diario. Un tardo pomeriggio, non appena si fa buio, al mercato irrompe la polizia. Un uomo dal fondo della strada grida: «Baladia» (una sorta di municipale ndr). È il 29 ottobre. Tutti spengono le luci, raccolgono in fretta le merci e scappano, hanno paura della confisca e di finire in prigione. Giulio segue i venditori nella fuga. Trovano riparo dentro la moschea dietro l’angolo. Si muovono secondo un copione. È qualcosa che succede spesso. Anche più volte al giorno. Giulio descrive quella difficile convivenza tra ambulanti e polizia. Qual è la necessità di un controllo così invasivo? Perché essere costretti a scappare? La televisione di stato egiziana ha mostrato un estratto del video ripreso di nascosto dal capo del sindacato degli ambulanti, Mohamed Abdallah, durante un suo incontro (forse l'ultimo) con Giulio Regeni. Nelle immagini si mostra la richiesta di denaro da parte del capo del sindacato ambulanti, quelle 10mila sterline di cui si è parlato dai primi giorni dopo l'uccisione del ricercatore. Abdallah cerca di convincere Giulio a fare in modo che possa utilizzare i fondi della fondazione inglese Antipode a fini personali. L'italiano, invece, parlando un buon arabo insiste sull'impossibilità di un'azione del genere. Ecco la trascrizione e la traduzione del dialogo tra i due:Abdallah: Il giorno 5 mia moglie ha un intervento per un cancro, ho bisogno di soldi…Regeni: Però Mohamed, questi soldi non sono miei. Non li posso utilizzare come voglio. Non posso segnare nell’application dell’Università che li ho utilizzati per fini personali. Se dovesse succedere questo sarebbe un grosso problema. Abdallah: Non c’è un canale alternativo ad esempio per un utilizzo personale? Regeni: Giuro che non lo so, perché questi soldi sono legati a me. Dalla Gran Bretagna al Centro egiziano. E dal Centro egiziano alla banca. Abdallah: il mio timore è che il Centro egiziano ci prenda in giro e non ci dia nulla. Regeni: Io non ho l’autorità per intervenire su questo, non posso utilizzare questo denaro a mio piacimento. Abdallah: E quanto tempo ci vuole? Regeni: Dipende, se abbiamo un’idea, un progetto, partecipiamo. Ci sono progetti da tutto il mondo, quindi non è sicuro che arriveranno questi soldi. Ci dobbiamo provare, partecipare con un’idea. Dobbiamo avere le informazioni. Abdallah: Che tipo di informazioni? Che comincio a lavorarci fin da subito. Regeni: Ad esempio, cosa serve di più al sindacato. Per cosa utilizzerebbe le 10mila sterline. Abdallah: Non ho capito. Regeni: Questa è la domanda… Abdallah: Quindi tu hai bisogno di idee? Regeni: Sì, vorrei da te idee. Idee che possiamo poi elaborare insieme.Abdallah: Quindi, in cosa utilizzeremo questi soldi. Regeni: Esattamente. (testi e traduzione a cura di Brahim Maarad). Regeni frequenta gli ambulanti per realizzare la sua ricerca di dottorato all’università di Cambridge. Arriva al Cairo a settembre 2015 e, attraverso la American University of Cairo, entra in contatto con il Centro egiziano per i diritti economici e sociali (Ecesr). Qui incontra Hoda Kamel Hussein, la responsabile dei dossier in materia di lavoro esperta in campo sindacale, che lo aiuta nei contatti. È lei a presentargli alcuni venditori e sindacalisti, tra i quali Mohamed Abdallah. L’uomo che l’ha poi tradito e consegnato nelle mani dei carnefici. La prima volta si conoscono nella sede del Centro che oggi rischia di chiudere a causa di una legge che limita le attività delle associazioni per la difesa dei diritti umani. È il 13 ottobre 2015. Si vedranno altre sei volte. Abdallah, a capo del sindacato autonomo degli ambulanti e con un passato da giornalista di tabloid, mette a verbale davanti ai magistrati egiziani: «Mi ha chiamato Hoda per dirmi che c’era un ricercatore che stava facendo un dottorato, mi ha chiesto di incontrarlo per vedere come aiutarci a vicenda». Ne segue una lunga intervista registrata, cui prende parte anche Hoda. Abdallah risponde alle domande di Giulio raccontando la composizione del sindacato, il programma, le quote associative, la mancanza di una pianificazione delle aree dedicate. E poi il blocco imposto dal ministero del Lavoro per le iscrizioni, le garanzie sociali inesistenti, le leggi e i regolamenti sul lavoro emananti da Abd al-Fattah al Sisi che hanno determinato un aumento delle tasse e dei prezzi aggravando le condizioni dei venditori e dei più poveri. Passa oltre un mese e mezzo prima che si rivedano. Abdallah lo motiva così alla procura del Cairo: «Mi ha chiesto di accompagnarlo ai mercati, di fargli conoscere altri ambulanti. Io mi sono rifiutato perché era uno straniero». Eppure l’8 dicembre inspiegabilmente acconsente e cerca Giulio che già da fine ottobre frequenta i mercati, conosce altri venditori. Un cambio di posizione che appare strano, considerando che i primi contatti di Abdallah con la Polizia a cui segnala Regeni «come un ragazzo che faceva troppe domande», perché è «illogico che un ricercatore straniero si occupi dei problemi degli ambulanti se non lo fa il ministero degli Interni», sono nebulosi. Si vedono al calar della sera di quel giorno al mercato di Ahmed Helmy, un’area adibita a parcheggio vicino alla stazione. Di quell’incontro ci sono due versioni. Giulio rimane sorpreso del ruolo e delle capacità di leadership di Abdallah. I venditori lo salutano, lo omaggiano, discutono delle loro condizioni. Abdallah racconta la storia dei sindacati in Egitto, parlano del loro ruolo fondamentale nella costruzione di una democrazia e consegna al giovane ricercatore documenti, articoli di legge, persino una mappa con un piano di trasferimento del mercato nel centro del Cairo con tanto di spazi adibiti per regolarizzarli. Abdallah però aveva preparato tutto, sceneggiato in ogni dettaglio quella visita. «Siccome non mi fidavo», spiega agli inquirenti cairoti «prima di andarlo a prendere alla stazione Ramses ho fatto un giro e ho detto di stare attenti a quello che dicevano, di non farsi coinvolgere in discussioni con lui. Avevo spiegato di non fare commenti, di lasciare fare a me». Qualche giorno dopo, l’11, Giulio lo incontra alla Casa dei servizi sindacali e del lavoro. È in corso l’assemblea in cui i sindacati indipendenti discutono sul futuro e sulle azioni da intraprendere per contrastare le politiche di Al Sisi. Nel suo intervento Abdallah sottolinea il ruolo dei venditori di strada nello sviluppo del tessuto commerciale del Cairo, tanto che Ahmed Helmy è il primo mercato pubblico in Medio Oriente alimentato da energia solare. Lamenta la mancanza di comunicazione tra venditori e sindacati indipendenti e dichiara il supporto dei venditori ai sindacati indipendenti nell’ipotesi della creazione di una loro federazione. È proprio durante quell’assemblea che Giulio si accorge di essere fotografato. Passa una settimana. L’appuntamento è di nuovo al mercato, ma tutto è cambiato. Giulio scopre chi è Abdallah. Quel personaggio oscuro si tradisce, il suo unico interesse sono i soldi. Giulio gli consegna un foglio tradotto in arabo che descrive il progetto della Fondazione inglese Antipode: offre contributi fino a 10 mila sterline per la promozione e lo sviluppo di ricerche in materie sociali. Giulio ragiona su come ottenere una sovvenzione, condivide l’idea anche con Hoda, ma ad Abdallah poco importa del progetto, vuole quel gruzzolo tutto per sé. Per questo è una «miseria umana». Ai magistrati del Cairo, che l’hanno sentito a febbraio, aprile e maggio scorsi, sostiene di far risalire a quell’incontro «di natura politica» il suo cambio di opinione: «Ho iniziato ad avere i primi dubbi e anche un altro venditore Saied mi ha chiesto: perché l’hai portato, non lo voglio incontrare. Mi risultava sospetto che potesse ottenere soldi per noi da parte di un paese straniero». Abdallah è l’uomo delle bugie, pronto a cambiar versione a seconda della piega delle indagini. Dice di aver incontrato Giulio «più di dieci volte», poi «solo sei», assicura di non essersi rivolto alla polizia: «Non sono una spia. Anche se dovessimo trovare un cadavere, ci gireremmo dall’altra parte» salvo poi dichiarare con orgoglio e amor di patria all’Huffington Post edizione araba: «Sì, l’ho denunciato e l’ho consegnato agli Interni, ogni buon egiziano, al mio posto, avrebbe fatto lo stesso. Noi collaboriamo con il ministero degli Interni. Solo loro si occupano di noi ed è automatica la nostra appartenenza a loro». Dalle informazioni fornite alla procura di Roma Abdallah segnala Regeni a due poliziotti della municipale proprio il 18 dicembre, dopo il loro incontro al mercato. Il giorno dopo Giulio torna a casa per le vacanze. Farà rientro al Cairo il 4 gennaio. Abdallah in quel periodo si dà da fare e i suoi contatti con la polizia si intensificano: riferisce a ben cinque ufficiali superiori della Sicurezza Nazionale, il Servizio segreto interno egiziano. Quando Giulio rientra si affretta a chiamarlo, probabilmente sollecitato proprio dalle forze di sicurezza e fa di tutto per incontrarlo al mercato di Ahmed Helmy il giorno dell’Epifania. Abdallah arriva preparato, indossa una telecamera nascosta. Inquadra ogni movimento. Il video, che dura circa due ore, lo registra mentre passeggia, si guarda attorno, osserva. Poi, dopo circa un’ora arriva Giulio. Per cinquanta minuti Abdallah in arabo lo incalza, lo provoca, tenta in ogni modo di portare il discorso sul progetto della Fondazione Antipode. Si vede Giulio inquadrato dal basso che risponde a malapena, diventa vago e sfuggente davanti a quell’uomo di cui ha ben compreso l’interesse economico. Al procuratore generale d’Egitto Ahmed Nabil Sadek, Abdallah rivela: «Quel video l’ho consegnato alla Sicurezza Nazionale, sono stati loro a chiedermelo». Di contro i servizi egiziani ammettono di averlo ricevuto ma non richiesto e sostengono che Abdallah s’è dato da fare autonomamente per trovare e far funzionare quell’attrezzatura. E poi, ad allontanare da loro i sospetti, sottolineano che in ogni caso Regeni rifugge dal parlare di soldi, quindi per loro non ha alcun interesse. Insomma smettono di spiarlo. Avevano anche detto di aver effettuato accertamenti sul giovane dopo l’esposto del sindacalista, ma «solo tre giorni» a inizio gennaio, e si era tutto concluso con un nulla di fatto. Eppure da una recente analisi dei tabulati telefonici di Abdallah, effettuata dai nostri investigatori di Ros e Sco, i rapporti tra lui e la Sicurezza Nazionale non sono cessati alla consegna del video. Il 7, l’8, il 9 e poi l’11 e il 14 gennaio si sentono. Utilizzando un sistema di utenze esclusive i nostri investigatori individuano cinque numeri che entrano in contatto con Abdallah solo in quel periodo. Sono numeri che rispondono alla sede centrale della Sicurezza Nazionale a Nasr City. Abdallah ormai sempre più chiuso nell’angolo delle sue menzogne conferma quei contatti e anzi si compiace di essere stato ringraziato. «Erano molto interessati per le informazioni che avevo fornito alla vigilia del 25 (il giorno del quinto anniversario della Rivoluzione ndr)». Informazioni preziose nel contesto generale di paranoia in cui è immerso l’Egitto di al Sisi. Un regime che ha limitato la libertà delle persone, reprime il dissenso, usa la tortura, le sparizioni forzate. Abdallah riceve l’ordine di non chiamare Giulio e di aspettare. Giulio si fa risentire il 22 gennaio alle 20:56 e poi alle 21:02. Gli chiede il contatto di un giornalista freelance egiziano esperto di mondo sindacale con il quale fissa un incontro per il 26 gennaio. A quell’appuntamento Giulio non andrà mai. Forse Abdallah lo sapeva, certi ne erano i suoi aguzzini. La sera del 25 gennaio esce dalla sua stanza sulla riva destra del Nilo, senza farvi più ritorno.
Giulio Regeni, l’intervista al sindacalista che lo denunciò ai servizi: "Ho fatto tutto da solo. Dio mi ricompenserà". Mohamed Abdallah, capo del sindacato degli ambulanti egiziani, in un filmato - poi consegnato alle autorità egiziane - assilla con richieste di denaro il ricercatore italiano. La sua figura resta centrale per capire cosa sia accaduto al giovane. E i tabulati telefonici analizzati dagli inquirenti lasciano pochi dubbi sul fatto che fosse lui a spiare Giulio per conto dei servizi segreti. Ecco la sua versione, scrive Laura Cappon il 28 gennaio 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Da mesi i media lo cercavano. Da giorni gli spettatori – italiani e non – lo sentono parlare in quel video sgranato e sgradevole che fornisce anche l’ultima immagine da vivo di Giulio Regeni. Nel filmato Mohamed Abdallah, il capo del sindacato degli ambulanti egiziani, assilla con richieste di denaro il ricercatore italiano scomparso esattamente un anno fa e poi ritrovato senza vita nove giorni dopo alla periferia del Cairo. Secondo i Ros dei carabinieri e lo Sco della polizia di Stato che coadiuvano le indagini della procura di Roma, la figura di Abdallah resta centrale per capire cosa sia successo a Giulio. E piena di contraddizioni. La giustificazione per le sue azioni è quella ribadita anche in altre interviste alla stampa araba, e cioè che Giulio fosse una spia. Ma i tabulati telefonici analizzati dagli inquirenti lasciano pochi dubbi sul fatto che fosse lui a spiare Giulio per conto dei servizi segreti, e lui ad averlo denunciato alle forze di sicurezza egiziane. Questa, comunque, è l’intervista integrale di cui una parte è andata in onda su Tv7 nel servizio di Amedeo Ricucci e di cui abbiamo avuto la trascrizione.
Ha visto il video trasmesso alcuni giorni fa dalla tv di Stato? Conferma di averlo girato lei?
«No, non l’ho visto. L’ho saputo per caso, perché alcuni giornalisti mi hanno chiamato dopo la trasmissione. Non ne sapevo nulla. Confermo di aver fatto il video ma non so se l’hanno trasmesso tutto oppure in parte. La versione intera durava mezz’ora, anche di più».
Perché ha deciso di filmare la conversazione tra lei e Regeni?
«L’ho fatto per difendere la mia nazione. Sono una persona onesta e credo che la verità prima o poi verrà fuori. Se ho fatto quello che ho fatto è per tre motivi: perché amo la mia patria, e perché era un dovere morale e religioso. Ma non mi aspetto ringraziamenti da nessuno. Mi ricompenserà solo Dio».
Gli inquirenti italiani dicono che il video è stato girato con una videocamera nascosta. Vuol dire che le è stato commissionato, che qualcuno le ha dato quella telecamera perché non può essersela procurata da solo.
«No, quelle immagini non sono chiare perché le ho fatte con un telefonino. Nessuno mi ha aiutato né ordinato nulla, ho fatto tutto da solo. La verità prima o poi verrà fuori. E allora tutti capiranno che io non sono un informatore della polizia. Io ho fatto tutte queste domande a Giulio per capire bene questa storia dei soldi: da dove venivano e a cosa servivano. Per questo ho registrato quell’incontro».
I tabulati telefonici provano che lei è stato in costante contatto con la sicurezza nazionale. Perché lo ha fatto se non è al loro servizio? E quando ha consegnato quel video?
«Io sono stato sotto inchiesta per due mesi, e in quel periodo ho dovuto consegnare il video alla procura generale del Cairo. L’ultima volta che ho visto il procuratore è stato un mese e mezzo fa. Sono stato interrogato da tanti. Tutti qui mi hanno indagato. E non so proprio perché: cosa ho fatto? Io ho solo presentato il mio punto di vista. Non auguro a nessuno quello che è successo a Giulio. A nessuno al mondo. Anche se non sapevo che era stato torturato. Io non sapevo nulla. Ora non voglio che l’attenzione si concentri ancora una volta su di me. Io adesso, anche se vedo un morto sulla mia strada, non ne parlo con nessuno».
Perché aveva chiesto dei soldi a Giulio? Il ricercatore le ha spiegato ripetutamente che l’eventuale finanziamento è solo un grant per delle ricerche accademiche e che quei soldi non potevano essere assolutamente usati a fini personali.
«No, ho bisogno di soldi, speravo arrivassero dall’Italia, anzi dalla Gran Bretagna. Eravamo d’accordo con Giulio che sarebbero arrivati questi soldi per un workshop. Non ho chiesto soldi per me, hanno capito male, perché mai Giulio avrebbe dovuto dare dei soldi a me?»
Vuole chiarire almeno quando ha visto Giulio per l’ultima volta?
«C’è un sacco di gente che racconta falsità su questa storia. Tutti sostengono che io abbia visto Giulio il 22 e il 23 gennaio. Ma sono bugie, l’ultima volta che l’ho incontrato è stata il 7 gennaio. Lui era tornato il 4 gennaio, e il 5 o il 6 mi ha chiamato chiedendo di vedermi. Ci siamo incontrati il 7, che è il giorno del video. Alla fine dell’incontro lui ha capito che stavo registrando, facevo domande strane e molto particolari. Anche se esplicitamente non me l’ha detto, me ne sono accorto dalla sua espressione e dalle sue risposte verso la fine del nostro dialogo. L’ultima volta che ho sentito Giulio per telefono è stato il 23 gennaio, due volte prima della sua sparizione perché per le sue ricerche voleva incontrare Adel Zakaria, un ragazzo che lavora con il centro per i sindacati e i servizi dei lavoratori. Poi, più nulla».
Regeni, la verità che non si vuole, scrive Guido Rampoldi il 9 giugno 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Con il suo rifiuto di incontrare un magistrato italiano, la docente dell’Università di Cambridge che coordinava le ricerche di Giulio Regeniha deluso molti, inclusi i genitori dello studioso assassinato. Ma, piuttosto che sdegnarsi, sarebbe utile riflettere sulla sfiducia che quel diniego esprime. Si può dare torto alla professoressa Maha Abdelrahman se diffida della “collaborazione” tra la Procura di Roma e la Procura generale del Cairo? Se non vuole offrire pretesti a quella parte dell’informazione italiana che, fin dall’inizio, mentre difendeva Al-Sisi, accusava ambienti accademici britannici di aver “mandato allo sbaraglio” Regeni, o peggio, di opachi legami con servizi segreti anglosassoni? E soprattutto, avrebbe torto, la docente di Cambridge, se giudicasse vacui e insinceri i proclami con i quali Renzi e il suo governo hanno ripetuto, settimana dopo settimana, che mai avremmo rinunciato alla verità? Vediamo. Dopo molto viaggiare tra Roma e Il Cairo, il fascicolo intitolato “Giulio Regeni” è pieno di carte che dicono nulla. Quel che è peggio, dovrebbe intitolarsi “Regeni+5”, i cinque sventurati che la polizia egiziana ha fucilato e trasformato negli assassini dell’italiano, salvo poi correggersi. Questa esuberanza investigativa non ha impressionato la Procura di Roma, chiamata a svolgere un compito improprio: protrarre la finzione che vuole un’Italia fattiva e determinata, un paese che batte i pugni sul tavolo e, alla fine, otterrà. Malgrado ormai l’opinione pubblica sia sedata, la commedia della “collaborazione” continua. Eppure sappiamo già quel che il procuratore del Cairo mai potrà dirci. Giulio Regeni era noto ai servizi segreti egiziani per i suoi contatti con i sindacalisti; arrestato nel giorno in cui il regime è più nervoso, l’anniversario della “primavera egiziana”, è stato torturato a morte. L’ha ucciso il “sistema Al-Sisi”, il resto sono dettagli. Beninteso, i dettagli (chi comandò, chi torturò) non sono irrilevanti, e anzi i nostri servizi segreti potrebbero far sapere cosa hanno scoperto, se hanno scoperto. Ma la sostanza è che, in quanto a violazioni dei diritti umani, il regime egiziano non è diverso dal Cile di Pinochet. Con questa elementare verità avremmo dovuto fare i conti fino in fondo: e sarebbe stato il tributo migliore alla memoria di Giulio Regeni. Avremmo dovuto chiederci perché il regime è così impaurito dal sindacalismo libero; perché massacra studenti e laici mentre dice di combattere il terrorismo; e se il nucleo della crisi egiziana non abbia a che fare con il dominio di un’oligarchia militare rapace e violentissima che non vuole mollare quel 40-65% dell’economia nazionale che, direttamente o indirettamente, controlla. Domande che magari ci avrebbero evitato gli entusiasmi per il migration compact renziano, non privo di qualche spunto felice ma fermo alla vecchia logica delle sovvenzioni a regimi nefandi che sono concausa dell’esodo di moltitudini. Inoltre, giornali e parlamento avrebbero potuto interrogarsi su una politica estera che condusse Renzi a pronunciare lodi sperticate di Al-Sisi: a quale visione del mondo e delle relazioni internazionali rimanda questo sprofondare così in basso? Fossero questioni scomode o troppo complicate, la politica se ne è tenuta lontano. Per diverse settimane, le direzioni dei grandi media hanno lasciato intendere che Regeni era stato assassinato per nuocere a Renzi e al nostro amico Al-Sisi, baluardo contro l’islam. Poi un giorno Al-Sisi ha smentito gli estimatori con un discorso che era un’intimazione a dimenticare Regeni e, dodici ore dopo, era un tagliagole perfino per l’adorante Unità; quindi il governo ha ritirato l’ambasciatore, misura di dubbia utilità, minacciato rappresaglie economiche mai attuate e ripetuto il “mai rinunceremo”. Da allora più nulla. Né fatti né parole. In tutto questo non c’è una coerenza, una strategia, una logica stringente. Solo un barcamenarsi mesto, badando ai vantaggi del momento, ai titoli, agli umori della piazza mediatica, alle richieste di questo e di quel potentato economico. Se poi occorre contraddirsi, nessun problema: i media italiani da tempo hanno abolito il principio di non contraddizione, fondamento del Logos occidentale. Da noi A può essere anche B, dipende dalle convenienze. Sicché non c’è da meravigliarsi se una rappresentante della cultura occidentale, come la professoressa Abdelrahman, non si fidi di questo strano Oriente a bagno nel Mediterraneo.
Giulio Regeni usato inconsapevolmente dai servizi Usa e Uk, scrive su "L'Huffington Post" Andrea Purgatori il 22/04/2016. Usato inconsapevolmente dai servizi segreti britannici e americani attraverso le istituzioni accademiche per ottenere informazioni sulla leadership sindacale che si oppone al regime di al Sisi. E per questo vittima dell’ossessione degli apparati di sicurezza egiziani per lo spionaggio occidentale. Scambiato per una pedina di agenti dell’MI6 e della Cia infiltrati nell’Università di Cambridge e nell’American University del Cairo. Quindi, arrestato non tanto per costringerlo a rivelare chi incontrasse durante le sue ricerche – questo la polizia lo sapeva perfettamente, visto che lo marcava da molto tempo – ma per estorcergli i nomi delle spie che lo manovravano. Questa, in estrema sintesi, potrebbe essere la motivazione che a Giulio Regeni è costata quasi una settimana di feroci torture e infine la morte. Una verità inconfessabile, ma non solo per gli egiziani. Al momento è un’ipotesi. Ma in assenza di elementi di fatto (che probabilmente dall’Egitto non arriveranno mai) è soltanto sulle ipotesi che stanno lavorando gli investigatori. Sono state esaminate tutte le testimonianze degli amici di Giulio, e analizzate a fondo la memoria del suo computer e le mail che aveva ricevuto dai docenti del Department of Politics and International Studies di Cambridge: sono continue richieste, indicazioni, nomi di sindacalisti e oppositori da rintracciare, contattare, intervistare per poi compilare schede, feedback, relazioni. Per Giulio era tutto normale: era andato al Cairo proprio per studiare i sindacati e la loro leadership, non faceva mistero dei suoi incontri, ne parlava apertamente con gli amici. Invece per gli egiziani quello scambio di informazioni coi docenti inglesi e anche all’interno della stessa American University potrebbe aver fatto scattare un diverso campanello d’allarme: quello dello spionaggio. Che l’ossessione delle spie dentro casa sia una costante per i diversi apparati di sicurezza egiziani lo racconta la cronaca. Nel 2009 (c’era ancora Hosni Mubarak) l’autorevole quotidiano indipendente Al Masry Al Yawm (“Egitto oggi”) attaccò frontalmente l’American University rivelando l’esistenza di un contratto da alcuni milioni di dollari col Pentagono per lo “Studio e la ricerca applicata sulle malattie infettive in Egitto”, che secondo il giornale nascondeva un interesse di tipo strategico e dunque una forma mascherata di spionaggio ai danni del paese. L’università rigettò l’accusa, ma questo non bastò a scatenare un duro dibattito in parlamento contro le ingerenze americane negli affari interni. E poco più di due anni fa (con al Sisi al potere), la magistratura egiziana accusò formalmente Ehmad Shahin, un docente dell’American University, di avere svolto attività di spionaggio a favore dei Fratelli Musulmani e lo incluse in una lista di 36 imputati che comprendeva anche l’ex presidente Mohamed Morsi. L’American University del Cairo era l’istituzione d’appoggio di Giulio Regeni per il suo lavoro di ricercatore. Ma per i servizi di sicurezza egiziani che seguivano tutti i suoi incontri con esponenti dell’opposizione, potrebbe essere stato quasi automatico applicare anche a lui l’equazione “studente uguale spia”. Secondo l’agenzia Reuters, che ha citato sei diverse fonti anonime dei servizi di sicurezza, ad arrestarlo la sera del 25 gennaio insieme ad un cittadino egiziano davanti alla stazione della metropolitana di Gamal Abdel Nasser sarebbe stata la polizia, che poi lo avrebbe trasferito nel famigerato compound di Lazoughli e consegnato agli uomini della sicurezza interna. Il resto, non sono sospetti, è il massacro di cui è stato vittima. L’Egitto ha subito smentito la ricostruzione della Reuters, ma questa davvero non è una notizia.
"Regeni morto in una faida dei Fratelli musulmani, ai quali era vicina la sua professoressa", scrive “L’Antidiplomatico" il 26/01/2017. «Regeni era uno studente che svolgeva un lavoro assegnato da una università inglese. Ma a Londra chi ha assegnato la ricerca a Regeni in Egitto è una professoressa, Abdelrahman, di origine egiziana e vicina alla Fratellanza musulmana, ostile all’attuale governo. Lei voleva scandagliare la situazione egiziana, ma sono metodi dei servizi segreti inglesi che fanno svolgere certe attività a imprenditori e altre persone. Lui era inconsapevole, ma chi lo ha mandato lo ha mandato nella bocca del leone, la professoressa non poteva non saperlo». Lo ha detto il generale Mario Mori, ex capo dei Ros dei carabinieri, alla Zanzara su Radio 24, aggiungendo: «E’ stato venduto ed è stato fatto ritrovare per una lotta di fazioni all’interno del governo egiziano». Nota a margine. L’intervistato parla con cognizione di causa, essendo parte di certe dinamiche proprie dei servizi segreti. Poco da aggiungere se non che quanto accaduto a Regeni ha allontanato Roma dal Cairo, anche per via del movimento Verità per Regeni che, pur lodevole e condivisibile nelle intenzioni, è diventato uno strumento di destabilizzazione contro l’Egitto piuttosto che rimanere una sollecitazione volta a chiarire la realtà dei fatti. Tanto è vero che è agitato esclusivamente verso (anzi contro) il Cairo, mai verso Londra, che pure dovrebbe dare spiegazioni che non vengono. Sta di fatto che l’establishement egiziano, sentendosi minacciato nella sua stabilità, ha cercato puntelli da Mosca, allontanandosi dalle Cancellerie occidentali. A subire le conseguenze di tale distacco, in particolare sotto il profilo commerciale, soprattutto l’Italia, mentre Francia e Gran Bretagna hanno approfittato degli spazi lasciati vuoti da Roma per ampliare l’interscambio commerciale con il Paese Mediterraneo.
Regeni era uno studente che svolgeva un lavoro assegnato da una università inglese, scrive Maurizio Blondet il 25 gennaio 2017. Ma a Londra chi ha assegnato la ricerca a Regeni in Egitto è una professoressa, Abdelrahman, di origine egiziana e vicina alla Fratellanza musulmana, ostile all’attuale governo. Lei voleva scandagliare la situazione egiziana, ma sono metodi dei servizi segreti inglesi che fanno svolgere certe attività a imprenditori e altre persone. Lui era inconsapevole, ma chi lo ha mandato lo ha mandato nella bocca del leone, la professoressa non poteva non saperlo”. Lo dice il generale Mario Mori, ex capo dei Ros dei carabinieri, a La Zanzara su Radio 24. “E’ stato venduto – dice Mori – ed è stato fatto ritrovare per una lotta di fazioni all’interno del governo egiziano”. Anche lei ha fatto questo tipo di operazioni, chiedono i conduttori? “Sì, le ho fatte anch’io. Se mando uno dei miei agenti è più difficile, ma se utilizzo persone come Regeni sono facilitato”. L’Italia ha reagito bene? “Secondo me no. La Francia ci ha fregato un po’ di appalti. Abbiamo ottenuto risultati modesti. C’è stato un momento di crisi nelle relazioni con l’Egitto e la Francia ne ha approfittato con una serie di operazioni brillantissime grazie al presidente della Repubblica. Tu non puoi offendere in maniera brutale e plateale, come abbiamo fatto noi”.
"Come si diventa una spia in Italia". L'ex capo degli 007 vuota il sacco, scrive “Libero Quotidiano" il 16 Febbraio 2016. Quando si parla agli agenti dei servizi segreti è facile immaginare a scena da film alla James Bond, esplosioni e inseguimenti alternati ad appassionate storie d'amore. Non proprio la trasposizione plastica di come sia composto il corpo di intelligence italiano, come chiarisce il generale Mario Mori al Giorno, forte della sua esperienza da direttore del Servizio informazione per la sicurezza democratica (Sisde) dal 2001 al 2006. Il reclutamento per i servizi italiani si avvale prevalentemente di Carabinieri, anche se negli ultimi tempi: "si sono aperte altre vie come scuole, università, tecnici specifici". Da quel che racconta il generale Mori, non sarebbe poi così improbabile che gli egiziani abbiano potuto scambiare il ricercatore Giulio Regeni per una spia, per quanto sul caso specifico l'ex direttore del Sisde non vuole parlare perché: "Non conosco i dettagli della vicenda". Il reclutamento - Ogni Paese ha un suo metodo per reclutare agenti e collaboratori del controspionaggio. Tutti però hanno un unico comune denominatore: "Si propone qualcosa a seconda delle debolezza di chi si contatta". Per esempio gli inglesi, racconta Mori, se ha bisogno di informazioni in Nigeria, può contattare dipendenti di aziende inglesi che lavorano sul posto e offrire loro denaro o commesse industriali. Mori però sottolinea una caratteristica tutta inglese: "Loro lavorano anche gratis, per l'amore della patria. Quando ci sono italiani, succede meno". Gli incidenti - In un'operazione andata a buon fine in Costa d'Avorio, un italiano che viveva in quella zona ha aiutato nell'arresto di un mafioso latitante. Ma non sempre va tutto per il meglio: "Qualcosa - dice Mori - sfugge sempre". Per esempio può succedere che una spia venga uccisa: "Bisogna vedere se entrambi i Paesi riconoscono la vittima come spia o no. Non esiste un protocollo per queste evenienza, ogni volta si agisce in modo diverso. A me un caso del genere non è mai capitato. Non è un episodio ricorrente uccidere una spia. Nei Paesi civili non succede". Di norma, quando una spia viene scoperta, secondo Mori ci sono tre eventualità: "Gli tolgo i documenti e lo mando fuori dal Paese oppure lo 'sdoppio', lo seguo sapendo che è una spia e gli prendo tutte le informazioni possibili. In alternativa, tento di farlo diventare un mio agente". Di sicuro non esistono casi di tortura, assicura Mori, almeno in Italia.
Capuozzo, la verità sull'omicidio di Giulio: "Vi dico io chi può averlo ucciso", scrive Adriano Scianca il 6 Febbraio 2016 su “Libero Quotidiano”. Non è stato un omicidio di Stato, il colpevole va cercato negli ambienti fondamentalisti. Sull' omicidio di Giulio Regeni, il giornalista Toni Capuozzo ha una tesi ben precisa. «La mia», spiega, «è una conclusione logica: il regime non aveva interesse a compiere questa uccisione. Sapremo mai la verità? Dipende da quanto la cercheremo. Ma siamo pur sempre il Paese che lascia due soldati all' India per quattro anni...». La morte di Giulio Regeni è ricca di lati oscuri.
Quante possibilità ci sono di arrivare alla verità, secondo lei?
«Io credo che al-Sisi abbia tutto l'interesse a collaborare. L' Egitto ha bisogno del sostegno occidentale, è lo Stato che riceve maggiori armamenti dagli americani. Se Regeni è stato attenzionato da ambienti dissidenti, il regime avrà tutto l'interesse a far luce sulla vicenda. Ovviamente il fatto che la verità venga a galla dipende molto da quanto la si cerca».
Insomma, dipende più dall' Italia che dall' Egitto?
«Sì, dipende da quanto l'Italia investirà in questa ricerca della verità. In fin dei conti abbiamo scoperto chi c'era dietro alcuni rapimenti avvenuti in Siria, che è un teatro di guerra, possiamo scoprire la verità anche su questo omicidio, se vogliamo. Certo, l'Italia è lo Stato che ha lasciato per quattro anni due suoi soldati nelle mani della giustizia indiana...».
Perché è convinto che gli autori dell'omicidio vadano cercati negli ambienti fondamentalisti?
«La mia è una conclusione logica, ovviamente non ho alcuna informazione supplementare su questo caso. Penso solo che i più imbarazzati di tutti, per questo omicidio, siano i funzionari del regime. Mi sembra improbabile che sia stato un omicidio di Stato».
In base a cosa lo dice?
«Vede, qualche giorno fa le autorità egiziane hanno arrestato un vignettista molto noto, nel Paese. Evidentemente le autorità avevano un conto da regolare con questa persona. Dopo qualche giorno, tuttavia, è stato rilasciato. Perché uno studente di 28 anni doveva rappresentare una minaccia maggiore?».
Forse per il suo impegno giornalistico, politico e sindacale.
«Sono problemi che l'Egitto poteva risolvere con un visto negato o un'espulsione. Francamente il regime mi sembra abbastanza solido da non essere messo in discussione da Giulio Regeni. No, credo che i colpevoli vadano ricercati altrove».
Dove?
«I dettagli dell'omicidio raccontano di un interrogatorio condotto con odio e volontà punitiva. Mi pare più probabile che alcuni gruppi organici ai Fratelli musulmani o comunque all' opposizione fondamentalista ad al-Sisi lo abbiano scambiato per una spia. Giulio era un occidentale, frequentava l'università americana, faceva domande in giro: evidentemente qualcuno lo ha scambiato per ciò che non era e lo ha interrogato, torturandolo, affinché confessasse cose che in realtà non sapeva. Poi l'ha lasciato in condizioni tali da imbarazzare il regime. Viceversa, anche il peggiore squadrone della morte al servizio di al-Sisi lo avrebbe fatto sparire senza lasciare tracce».
Anche qualche organo di stampa italiano ha ipotizzato rapporti fra il ragazzo e l'intelligence, tant' è che i nostri servizi hanno dovuto smentire ogni legame. Lei che ne pensa di queste teorie del complotto?
«Francamente troverei preoccupante se la nostra intelligence dovesse affidarsi a uno studente di 28 anni. Mi sembrano ipotesi del tutto campate in aria».
Altri hanno mosso l'obiezione opposta: si tratterebbe del solito italiano ingenuo che va in giro per il mondo senza valutare i rischi. È d'accordo?
«Io penso che l'ingenuità non sia una colpa. Intanto spesso l'ingenuità si accompagna all' innocenza. E poi anche certi giornalisti che cadono nelle mani di bande terroristiche sono stati "ingenui" nel valutare questo o quel contatto, questa o quella situazione. E parliamo di persone forse più avvertite ed esperte di Regeni. Il quale, peraltro, aveva espresso perplessità e timori sulla propria incolumità, sia pur senza entrare nel dettaglio di quale fosse il pericolo che più temeva. Lui era uno studioso, purtroppo ci sono luoghi in cui anche la curiosità scientifica può essere mal vista. C'è stata ingenuità? Probabilmente sì, ma come ce n' è stata nei casi dei rapimenti in teatri di guerra dei giornalisti Mastrogiacomo o Quirico».
Capuozzo: «Per Regeni e i marò usati due pesi e due misure». Striscioni e appelli per la verità sulla fine del ricercatore friulano, anche nei cortei del Primo Maggio. «Perché non c’è stata una mobilitazione simile per i due fucilieri?», si è chiesto il giornalista, scrive Alessandro Cesare lunedì 2 maggio 2016. «La verità dovrebbe valere per tutti». Toni Capuozzo, da Chiusaforte, ospite dell’associazione ‘Chei dal rinc’ e del Comune per presentare il suo ultimo libro ‘Il segreto dei Marò’, è stato chiaro parlando delle ultime vicende di politica estera che hanno visto protagonista l’Italia. «Mi ha colpito la differenza di reazioni tra la vicenda Regeni e quella dei marò. Probabilmente in Italia, chi porta la divisa, non è molto simpatico». Capuozzo è convinto che la politica e l’ideologia abbiamo avuto un ruolo determinante per come i due casi sono stati raccontati all’opinione pubblica: «I marò sono stati trattati da cittadini di serie B: Amnesty International ha fatto gli striscioni per chiedere verità sul caso Regeni. Giusto. Ma perché non farlo anche per i marò? Al corteo del Primo Maggio, a Cervignano, ho visto tre o quattro striscioni pro-Regeni e nemmeno un manifesto per i due fucilieri della Marina. In fondo Giulio era un ricercatore, un figlio di papà al pari dei miei figli. I marò invece sono due lavoratori, servitori dello Stato, in giro per il mondo per guadagnarsi il pane. Che dire poi degli italiani come Salvatore Failla uccisi in Libia? Qualcuno si ricorda ancora di loro?». Il giornalista originario di Palmanova punta molto sulla differenza di trattamento in atto: «Una persona di buon senso dovrebbe chiedere verità per Regeni ma anche giustizia per i due marò. Se nel primo caso un ragazzo ha subito una morte atroce, nel secondo ci sono due vite in ballo, per la cui salvezza si può fare ancora molto». Dietro all’esposizione mediatica del caso Regeni, Capuozzo è certo ci siano ragioni politiche, di vicinanza con il governo di centrosinistra: «Spesso si usano due pesi e due misure. Fateci caso: quando a essere rapiti sono giornalisti o volontari di organizzazioni politiche o politicizzate, la mobilitazione è totale. Quando invece a morire è un volontario di un’associazione non politica o politicizzata, come accaduto per Giovanni Lo Porto in Pakistan, ucciso da un drone americano, non ci sono funerali di Stato e non si chiede il ritiro dell’ambasciatore». Capuozzo è intervenuto anche su Libia («inutile un impegno militare dell’Italia») e migranti: «Uno Stato dovrebbe stabilire quante persone può accogliere, con mogli e figli al seguito, dare loro un tetto sotto cui dormire, garantendo il posto a scuola, distribuendoli sul territorio. Che inserimento è quello delle caserme? Dov’è la dignità di guadagnarsi da vivere con il lavoro delle proprie mani? Questa non è accoglienza e nemmeno integrazione, è indifferenza e ipocrisia». Il giornalista non si è risparmiato sul caso marò, raccontando retroscena, errori nella ricostruzione dei fatti, menefreghismo politico. «I due fucilieri si sono visti voltare le spalle dallo Stato per il quale erano pronti a sacrificarsi. Qual è il messaggio che è passato? Che se i due marò si fossero girati dall’altra parte, probabilmente la nave sarebbe stata sequestrata, ma di Girone e Latorre nessuno avrebbe mai saputo nulla. Quindi cosa dovrebbero fare i militari, i carabinieri, i poliziotti in situazioni difficili? Fare finta di non vedere per non avere problemi?». Una vicenda vissuta dagli stessi protagonisti con grande amarezza. Capuozzo si sente spesso con Latorre, essendo stato quest’ultimo un componente della sua scorta. «E’ un disoccupato per forza: non ha nulla da fare, è costretto a un limbo giudiziario che non lo fa stare bene». Come andrà a finire questa vicenda? La decisione del Tribunale internazionale dell’Aja, che ha dato la possibilità a Salvatore Girone di rientrare in Italia durante l’arbitrato (Latorre si trova già in Patria), va nella direzione tracciata da Capuozzo: «Chiunque processerà i due marò non potrà condannarli: le prove hanno subito falsificazioni tali da non avere più alcun valore. La cosa più logica è che i governi italiano e indiano si mettano d’accordo e che in attesa del giudizio del Tribunale dell’Aja facciano restare in Italia Girone e Latorre». Scenario diventato realtà nella giornata di lunedì.
Nell’epoca delle fake-news, della post-verità e di chi più ne ha e più ne metta per screditare chi non è allineato all’estabilishment, spunta Il Fatto Quotidiano, scrive Eugenio Cipolla il 30/01/2017 su "L’Antidiplomatico". Il giornale diretto da Marco Travaglio dovrebbe essere una realtà disallineata rispetto alla schiera dei media benpensanti e invece, spesso e soprattutto in politica estera, segue la stessa linea di Corriere, Stampa e Repubblica, prendendo posizioni banali e diffondendo notizie distorte. L’ultima puntata di quella che ormai possiamo definire una saga delle falsità è andata “in onda” ieri, con un articolo dal titolo emblematico (“Arroganza e diritti schiacciati: è la democratura”) sulla Russia di Vladimir Putin, firmato da Roberta Zunini. Ora, nessuno, nemmeno tra i maggiori sostenitori del leader del Cremlino, ha mai parlato di Russia come modello di democrazia da esportare, ma l’esasperazione della figura di Putin, descritto come un dittatore spietato e cinico, sembra davvero un’esagerazione tesa a giustificare e minimizzare le azioni dei mediocri leader occidentali allineati al sistema. Il pezzo firmato dalla Zunini, con tutto il rispetto per il tempo che ha impiegato a scriverlo e il lavoro che ha svolto, è un concentrato di luoghi comuni e banalità su un paese, la Russia, che all’interno dei confini italiani è conosciuta in maniera superficiale dalla stragrande maggioranza della popolazione. Vediamo quali sono i punti sui quali sono cascati la Zunini e Il Fatto. “Se i dati ufficiali sottolineano che il presidente Vladimir Putin gode ancora di un alto indice di popolarità, nonostante le crescenti difficoltà economiche affrontate dai 146 milioni di abitanti della Federazione causate dalle spese militari in continuo aumento, oltre alle sanzioni impostate dall’occidente per la questione ucraina assieme a ulteriori restrizioni dei diritti civili, è altresì vero che le stime vengono fatte da istituti e media controllati dal Cremlino”. Messa così la situazione descritta sembra simile a quella di un paese africano in guerra: la Russia è un paese dove la gente muore di fame perché al posto del cibo per la popolazione il governo compra armi. La realtà è un’altra. L’economia russa, dopo un periodo difficile, ammesso dallo stesso governo di Mosca, è in fase di stabilizzazione. Cosa confermata sia dal ministero delle Finanze russo, dal FMI e da diverse agenzie di rating. Precisato ciò, va anche detto che la crisi russa non è dipesa dalle sanzioni occidentali per la crisi ucraina (che hanno in realtà penalizzato l’occidente, più che la Russia), quanto dal calo del prezzo del petrolio (materia prima di cui la Russia è uno dei maggiori produttori ed esportatori al mondo), che ha messo in difficoltà il governo (il quale aveva fatto i bilanci con una stima diversa). Riguardo ai sondaggi fatti “da istituti e media controllati dal Cremlino”, non bisogna nemmeno scovare l’ultimo e meno sconosciuto istituto demoscopico russo per dimostrare che non è così. L’ultimo rilevamento di Levada Center, uno dei maggiori e più importanti in Russia, conosciuto anche a livello internazionale, dice che nel primo mese del 2017 il gradimento di Putin è arrivato all’85%, un punto in più rispetto a dicembre, cinque rispetto a sei mesi fa. Le ragioni di questo aumento sono profonde e non certo sintetizzabili con l’assenza “di una stampa libera” o con “un’opinione pubblica alla mercé della propaganda di stato”. Il punto è che i russi preferiscono essere più poveri e con meno diritti che soggiogati da un popolo straniero. Lo dimostra il cattivo ricordo che i russi conservano di Eltsin e Gaidar, delle loro riforme economiche che negli anni ‘90 hanno consegnato il paese nelle mani di pochi oligarchi turbocapitalisti. Lo dimostra un sondaggio dello scorso anno, sempre di Levada, secondo il quale il 34% dei russi vede ancora Stalin di buon occhio, nonostante gli errori e i crimini che gli vengono attribuiti, perché “la cosa importante è che sotto la sua leadership la Russia è uscita vittoriosa dalla seconda guerra mondiale”. Ad ogni modo, il Levada Center, come sicuramente pensa la Zunini, non è un istituto demoscopico controllato dal Cremlino, con il quale negli scorsi mesi ha avuto più di qualche frizione. Da sempre sospettato di legami con gli Stati Uniti, il Levada è stato pesantemente multato dal Ministero della Giustizia russo e invitato a registrarsi come “agente straniero” a causa delle donazioni ricevute dall’estero. La legge russa che riguarda le ONG, infatti, prevede che tutte le organizzazioni non-profit o che svolgano attività politica e ricevono fondi esteri, si iscrivano in un apposito registro. Cosa che il Levada si rifiuta di fare e che ha spinto Lev Gudkov, direttore del centro, a parlare di “censura politica”, costringendolo peraltro a sospendere la raccolta fondi all’estero. La Russia ha sempre giustificato la legge sollevando l’esigenza di difendersi da influenze esterne a casa propria. Dunque, nonostante i numerosi scontri con il Cremlino, Levada continua a rilevare il gradimento di Putin all’ 85%. E’ la semplice realtà o anche questa è una fake-news? “Ci sono poi le modifiche alla legislazione anti-estremismo (il “pacchetto Jarovaja”) del 7 luglio scorso, che obbligano per esempio i fornitori di tecnologie informatiche a conservare le registrazioni di tutte le conversazioni per 6 mesi e i meta-dati per 3 anni”. Il pacchetto Jarovaja non è altro che una serie di norme sul controllo di internet che in Russia ha generato molte critiche e polemiche. Lo scontro in atto è tra l’amministrazione presidenziale e il parlamento, con la prima convinta che la memorizzazione dei dati non serva a nulla. Al centro dellos contro c’è il sistema di decrittografia DPI (Deep Packet Inspection) che verrà usato per controllare potenziali minacce. Il DPI consente la gestione avanzata della rete, funzioni di sicurezza, ma anche intercettazioni e censura. E’ un sistema non introdotto solo in Russia, ma anche in Cina (non certo una grande democrazia) e negli Stati Uniti (dove evidentemente non fa così scandalo). Peraltro il DPI è a forte rischio incostituzionalità. “Sono le 22 repubbliche e 63 i distretti amministrativi che fanno parte della Federazione presieduta da Putin, tra queste le più note sono la Crimea, annessa unilateralmente da Mosca nel 2014 …” La storia della Russia che “annette” la Crimea è sempre viva e presente sui media occidentali. E nonostante sia recente, forse la pena fare un ripasso. Sergio Romano nel suo ultimo libro, “Putin e la ricostruzione della Russia”, ha ripercorso i fatti che hanno portato la Crimea a unirsi alla Russia. Eccoli qui: “Non appena costituito, il nuovo governo ucraino, presieduto da Arsenij Yatsenyuk, abrogò una legge sulle minoranze linguistiche voluta da Yanukovich nel 2012. La legge prevedeva che la lingua parlata in una regione da una percentuale della popolazione superiore al 10% divenisse, in quella regione, lingua ufficiale. Grazie a quella norma il russo era diventato una lingua ufficiale della Crimea: dopo l’abolizione, il russo sarebbe stato soltanto una parlata locale. E’ molto probabile che altri piani per l’annessione della Crimea alla Russai esistessero da tempo. Ma la nuova legge sulla lingua, per coloro che volevano la operazione il più rapidamente possibile, fu una giustificazione perfetta. Il Parlamento della penisola anticipò al 16 marzo 2014 il referendum previsto per una data più lontana e gli abitanti furono chiamati alle urne per rispondere a due domande: «Sei a favore del ricongiungimento della Crimea con la Russia come soggetto federale della Federazione russa?» «Sei a favore del ripristino della Costituzione del 1992 e dello status della Crimea come parte dell’Ucraina»? I votanti furono 1.536.290. Alla prima domanda risposero Sì 1.495.043 (97,32%), alla seconda 41.247 (2,68%)»”. C’è un enorme differenza tra “annettere unilateralmente” e organizzare un referendum per chiedere di unirsi a un’altra nazione. “Il blog di Alexej Navalny, il più famoso oppositore di Putin, si può leggere sul sito della piattaforma LiveJournal. Dopo l’assassinio del politico Boris Nemtsov sotto le mura del Cremlino all’inizio del 2015, l’avvocato quarantenne è praticamente l’unica voce di spicco rimasta in patria ad alzarsi contro la corruzione della nomenklatura e i metodi antidemoratici dello “zar” che ha deciso di sfidare nelle elezioni presidenziali previste l’anno prossimo”. Navalny è sicuramente famoso per essere uno dei maggiori oppositori di Putin. All’estero e non in patria. L’ultima rilevazione di Levada (istituto che come abbiamo visto poco fa non è certo controllato dal Cremlino) dice che in patria i politici di opposizione più conosciuti sono nell’ordine Vladimir Zhirinovsky (68%), Gennady Zyuganov (62%), Mikhail Kodorkovsky (45%%), Grigory Yavlinsky (42%), con Navalny che raccoglie una percentuale pare al 32%. Dunque, solo un terzo dei russi conosce Navalny e non è detto che tutti votino per lui. Anche perché in termini di fiducia il blogger-avvocato raccoglie solo il 3% dell’apprezzamento, superato dal decano Zhirinovsky (12%) e dal comunista Zyuganov (17%). La verità, dunque, è che Navalny piace, ma a quelli che non abitano in Russia, probabilmente perché è giovane, filo-occidentale e sicuramente spinto dai media internazionali nemici di Putin. La morale è che i russi vogliono ancora Putin, che piaccia o meno all’occidente e ai suoi detrattori. A novembre Levada aveva condotto un sondaggio sul dopo Putin in vista delle presidenziali del 2018. Il presidente russo non ha ancora sciolto la riserva su una sua eventuale ricandidatura, ma i sondaggi sono dalla sua parte. Il 63% degli intervistati lo vuole presidente anche dopo il 2018, mentre il 49% non si immagina una leadership capace di sostituire Putin alla scadenza del suo attuale mandato. Autocrate o meno è così. I numeri dicono molto più di quattro semplici parole.
Ordine anti-immigrazione di Trump: perché è illegale. Viola la Costituzione e l'Immigration and Nationality Act del 1965. Ed è scritto ignorando la logica, scrive Luigi Gavazzi il 30 gennaio 2017 Panorama.
→ È in contrasto con la normativa costituzionale che garantisce l'eguaglianza nella protezione garantita dalla Costituzione.
→ Viola l'Immigration and Nationality Act del 1965 che vieta, ogni discriminazione contro immigrati basata sul paese di origine.
Per ora l'ordine esecutivo di Donald Trump contro rifugiati e immigrati ("Protecting the Nation From Foreign Terrorist Entry Into the United States") ha generato - oltre a reazioni indignate in tutto il mondo e in particolare negli Stati Uniti - una grande confusione negli aeroporti e nell'interpretazione delle norme. Intanto, l'executive order nell'ordinamento statunitense è una indicazione ufficiale del presidente su come le agenzie federali da lui guidate debbano usare le risorse a disposizione. È parte delle cosiddette "executive actions", che derivano la loro efficacia dall'articolo 2 della Costituzione degli Stati Uniti, e viene considerata la più formale delle executive actions. Un executive order quindi non è una nuova legge creata dal presidente né la destinazione per un nuovo scopo di fondi del Tesoro: entrambi questi poteri spettano infatti al Congresso. In pratica il presidente con questo provvedimento istruisce il governo su come deve lavorare dentro i parametri fissati dal Congresso e dalla Costituzione.
A partire da sabato, cinque giudici federali hanno bloccato l'ordine di Trump. Poi 16 Attorney General - i responsabili della giustizia - di altrettanti Stati federali, hanno affermato che contrasteranno il decreto usando le leggi con le quali sarebbe in contrasto. I giudici federali hanno bloccato l'esecuzione usando varie motivazioni: in sostanza il fatto che il decreto viola la Costituzione e una legge del 1965 contro la discriminazione. La violazione della Costituzione riguarderebbe la norma che garantisce l'eguaglianza nella protezione garantita dalla Costituzione. L'ordine esecutivo di Trump impone distinzioni basate sulla razza e il credo religioso. Il primo giudice a fermare il provvedimento di Trump e ha bloccare l'espulsione dei fermati - Ann M. Donnelly, giudice federale a New York- ha scritto che i ricorsi dei fermati hanno una notevole probabilità di essere accolti dai tribunali proprio perché violano norme costituzionali. La scelta delle parole nell'ordine di Trump è probabilmente uno dei punti vulnerabili in tribunale. Cita infatti la necessità di proteggere gli Stati Uniti dagli attacchi terroristici come quelli dell'11 settembre. Anche se nessuno dei terroristi coinvolti in quell'azione proveniva da uno dei sette paesi inclusi nel provvedimento di venerdì. Una debolezza anche logica che molto probabilmente verrà usata nei dibattimenti. (Tra l'altro in New York Times sottolinea come con alcuni dei paesi dai quali provenivano i terroristi dell'11 settembre la famiglia Trump faccia grossi affari). Anche The Immigration and Nationality Act del 1965 - legge del Congresso è una concreta minaccia sulla legalità dell'ordine esecutivo di Trump. Essa vieta, come ha spiegato David J. Bier sul New York Times, infatti ogni discriminazione contro immigrati basata sul paese di origine. Una discriminazione, in questo caso, è aggravata da quella religiosa, dato che Trump, oltre a mettere nel mirino solo Paesi musulmani, ha disposto di dare priorità in futuro ai rifugiati cristiani o di altre minoranze religiose perseguitate. Questo è implicito nella logica del provvedimento, anche se esplicitamente la religione non viene citata.
Fake news: Diego Fusaro, "campagna di censura per reprimere opinioni non allineate", scrive venerdì 17 febbraio 2017 "SmtvSanmarino". Di recente il Presidente della Camera Laura Boldrini ha lanciato una campagna contro le fake news su internet, ed è proprio di questi giorni un apposito disegno di legge. Duro il commento del filosofo torinese. Era il 5 febbraio del 2003, quando Colin Powell, parlando alle Nazioni Unite, agitò una fialetta contente polvere bianca, per convincere l'America dell'esistenza, negli arsenali iracheni, dell'antrace e di altre armi batteriologiche. Era tutto falso, ma la guerra fu tragicamente reale. E che dire delle fosse comuni libiche, utilizzate per giustificare l'intervento internazionale contro Gheddafi del 2011? In realtà erano normali cimiteri, fotografati mesi prima. Fake news, per utilizzare un termine in voga, dagli effetti catastrofici, veicolate dalla stampa mainstream e prese per buone dall'opinione pubblica. Ma non è nei confronti dei grandi media, che è rivolta la campagna anti-bufale, di cui si parla sempre più in Italia e altrove. E' il web sul banco degli imputati. Il filosofo Diego Fusaro non nasconde le proprie preoccupazioni.
Quelle fake news montate ad arte contro Trump. Non si è mai vista una stampa così apertamente schierata nel delegittimare un presidente, scrive Marzio G. Mian, Domenica 19/02/2017, su "Il Giornale". Con Donald Trump il Quarto potere è diventato un contropotere militante che ha abbandonato le regole del mestiere per contrastare e delegittimare il presidente. In un'accelerazione in sincronia con i rumors (riportati ieri dal Washington Post) secondo cui al Congresso starebbero già circolando ipotesi di impeachment anche tra alcuni repubblicani. Mai nella storia del giornalismo americano nemmeno durante la stagione della mobilitazione pacifista contro la guerra del Vietnam, quando Nixon accusava la stampa d'indossare l'elmetto dei Viet Cong, (versione Usa del nostro «eskimo in redazione») si era assistito a un uso tanto disinvolto delle notizie. D'altronde non si era nemmeno mai visto un presidente (e prima un candidato) tanto disinvolto nel frullare il vero con il falso, così che le sue smentite perdono autorevolezza, la stampa militante le ignora e servono ad alimentare la sete di sangue dei social media come le notizie incontrollate. Il suo attacco senza precedenti ad alcune testate «Non sono miei nemici, ma nemici del popolo americano» arriva dopo una settimana in cui sono uscite notizie che sotto qualsiasi altra amministrazione avrebbero avuto altri trattamenti, compreso il cestino. La più clamorosa l'ha sparata l'Associated Press, una volta considerata la Cassazione delle news, con la storia del piano del dipartimento per la Sicurezza Nazionale di mobilitare 100mila uomini della Guardia Nazionale contro gli immigrati clandestini. Una breaking news lanciata dalla Ap su Twitter senza se e senza ma con l'enfasi d'una dichiarazione di guerra al Messico, presa come oro colato dai media internazionali, i quali l'abbiamo ben visto in Italia hanno ritenuto irrilevante la smentita della Casa Bianca. Nonostante con il passare delle ore la bomba si rivelasse un petardo bagnato: la decisione strategica era una «draft memo», non più che un appunto, dove tra l'altro non compare nemmeno la cifra dei 100mila uomini. L'Ap ha lanciato una notizia devastante una massiccia operazione armata anti-clandestini senza verificarla. Nell'era Trump tutto appare lecito, anche screditare il giornalismo più rigoroso del mondo e per questo il più implacabile e influente che ha fatto dell'obiettività quasi una scienza esatta. Ogni giorno le imbeccate che escono come da un colapasta da Washington con il chiaro obbiettivo di zavorrare la presidenza (pare anche da ambienti Cia vicini al partito repubblicano), vengono messe in circuito senza filtri: dall'aggiramento delle sanzioni alla Russia studiato dal dipartimento del Tesoro che permetterebbero alle compagnie di compiere transazioni direttamente con i servizi di Mosca (si è scoperto che era uno studio pre-Trump), alla sezione Lgbtq che sarebbe sparita dalla webpage della Casa Bianca (come altre sezioni a causa di un restyling), all'affiliazione del candidato alla Corte Suprema Neil Gorsuch al club «Fascism Forever» (club mai esistito, ma inventato in una gara di scherzi alla festa di fine highschool). Senza dire dei cosiddetti «leakes» che hanno costretto il consigliere per la Sicurezza Nazionale, Michael Flynn, alle dimissioni. Accuse gravissime di trattative con la Russia, fornite, cotte e mangiate nel giro due giorni. Nell'era pre-Trump (secondo l'Espionage Act del 1917) di fronte a notizie che possono mettere a repentaglio la sicurezza nazionale o compromettere l'immagine del Paese, era prassi di informare direttamente la Casa Bianca prima della pubblicazione. Oggi il presidente lo legge su Twitter.
Donald Trump, dai clandestini ai complotti: le dieci balle sul presidente degli Stati Uniti, scrive di Glauco Maggi il 18 febbraio 2017 su “Libero Quotidiano”. Spara una bufala contro Trump e la sua amministrazione, e il successo in tweet e post su facebook la moltiplicherà all’infinito. Provare per credere. Questa è una piccola enciclopedia delle bugie che hanno cercato di confortare i Democratici in lutto per la grave perdita.
1) La teoria della cospirazione elettorale. Il 22 novembre Gabriel Sherman del New York Magazine scrisse un rapporto esplosivo secondo il quale «un gruppo di noti scienziati informatici e avvocati elettorali chiedeva il riconteggio perché c’erano prove convincenti che le operazioni di voto in Wisconsin, Michigan e Pennsylvania potevano essere state manipolate o hackerate». La «prova» era che Hillary aveva preso il 7% in meno in contee che usavano le macchine elettroniche rispetto a quelle con schede a lettura ottica o cartacee. La storia divenne «virale» con 145mila post su Facebook. Il giorno dopo, Nate Silver di FiveThirtyEight, che è liberal, ha concluso che «era la demografia dei distretti a spiegare i numeri, non l’hackeraggio. Chi fa accuse di questo genere dovrebbe produrre prove. Noi non ne abbiamo trovata una».
2) Balzo di suicidi di transessuali dopo l’8 novembre 2016. Rumors su questo «trend», non confermato da alcuna cifra, si sparsero subito su Internet dopo il voto, e Zach Stafford del Guardian ne fece un tweet, ritwittato 13 mila volte. Poi mise un altro tweet spiegando perché aveva cancellato il primo, quello della bufala, e il tweet «correttivo» ha avuto sette retweet.
3) «Trump è un nazista». «Non c’è nessuno meno antisemita di me», ha detto il presidente nella conferenza stampa di giovedì. E ha citato la figlia Ivanka, che è ebrea essendosi convertita alla religione di suo marito Jared Kushner, nominato consigliere alla Casa Bianca. Trump è il primo presidente ad avere figlia e tre nipotini per ora, ebrei. Nel governo Trump siede anche, nel posto cruciale di ministro del Tesoro, Steven Mnuchin, ebreo. E il «Jewish National Fund» ha dato a Donald il premio «Tree of Life» per il sostegno di una vita al popolo ebreo e allo Stato di Israele.
4) Il ministro della Giustizia Jeff Sessions «amico del KKK». Chris Galanos, ex giudice di distretto a Mobile, Alabama, che fece condannare a morte Henry Hays, membro del Klu Klux Klan che aveva linciato un nero nel 1981, ha detto al The Weekly Standard che Sessions, allora Attorney General dello Stato del sud, giocò un ruolo significativo nella condanna: «Non credo che Sessions sia un razzista. Ciò è basato sulla mia interazione con lui negli Anni 80 e 90. Fu per la sua determinazione nell’aiutarci che Hays e il complice James Knowles furono incriminati».
5) Trump è omofobo. La verità è che il repubblicano più pro-gay della storia. Nel libro sulla vita sociale di Palm Beach, «Madness Under the Royal Palms», l’autore Laurence Leamer ha scritto, a fine Anni Ottanta, che Trump era accreditato come il primo proprietario di un club privato golfistico a ospitare una coppia gay. Rand Hoch, attivista gay che aveva fondato nel 1988 il Consiglio dei Diritti Umani della Contea di Palm Beach ha ricordato di aver portato suoi partner gay nel Club di Trump in varie occasioni. «Ci trattava come tutte le altre coppie», dice Hoch. Abe Wallach, executive alla Trump Organization negli Anni 90, gay, ricorda: «Il suo principio era: sei in gamba a fare il lavoro per il quale ti ho assunto? Se sì, niente altro contava». Wallach e il suo partner gay volavano con Donald nel suo jet privato nei fine settimana ad Atlantic City. La Fondazione di Trump è sempre stata generosa verso cause care ai gay, dando soldi fin dagli Anni ’80 all’AIDS Service Center e alla AIDS Foundation di Elton Jones, suo amico. Nel 1987, Donald diede 25mila dollari (di allora) alla Gay Men’s Health Crisis.
6) «Trump spietato xenofobo che deporta a più non posso». Obama e Bush hanno deportato più di 2 milion idi clandestini a testa? Non importa, è Donald il razzista. L’ultima è di ieri: l’agenzia AP pubblica un rapporto che verrebbe dalla Casa Bianca secondo cui il presidente ha chiesto di dispiegare 100mila effettivi della guardia nazionale contro i clandestini. Notiza smentita subito dall’amministrazione.
7) Trump vuole invadere il Messico. Il primo febbraio Yahoo News ha pubblicato un rapporto di AP su una telefonata di Trump al presidente messicano Peña Nieto. La notizia vera è la illecita fuga di notizie a opera di qualcuno che, ora, Trump vuole scovare e punire. La bufala è che Trump «sta considerando di mandare truppe in Messico per reprimere i narcos», anche se la stessa AP ha ammesso che il governo messicano non è d’accordo con l’interpretazione della «invasione». Ovviamente la Casa Bianca ha riaffermato di non avere alcun piano di «invadere il Messico». Ciononostante, l’ex speech writer di Obama ha twittato «Scusate, ma il nostro presidente ha minacciato di invadere il Messico?».
8) Le accuse a Trump di aver assalito sessualmente varie donne. Il caso pi clamoroso, quello della reporter di People magazine Natasha Stoynoff che ha detto di essere stata assalita dal tycoon una quindicina d’anni fa nel suo resort Mar-A-Lago in Florida, è stato smentito dal maggiordomo Anthony Senecal. «No, non è mai avvenuto», ha detto al giornale The Palm Beach. Trump non si è mai appartato con Natasha, che non ha portato alcun testimone dell’assalto, mentre Senecal era presente all’intervista.
9) «Melania è stata una prostituta». La settimana scorsa la First Lady ha ottenuto un «sostanzioso risarcimento» con un accordo extragiudiziale dal blogger Griffin Tarpley del Maryland, che l’aveva diffamata con quella frase.
10) «Rimosso il busto di Martin Luther King dalla Casa Bianca». Il reporter di Time, Zeke Miller, il 20 gennaio ha scritto che un busto del campione dei diritti civili MLK era sparito dalla residenza. Scoppiò subito una controversia sui media, che finì quando Miller pubblicò la rettifica. La spiegazione di Time per la pubblicazione e la correzione? Miller non aveva chiesto nulla ai funzionari della Casa Bianca e aveva «concluso che la rimozione c’era stata perché lui aveva guardato in giro e non aveva visto il busto».
AUTENTICI DEMOCRATICI. Cosa non vi hanno detto sulla giudice anti-Trump: nominata da Obama, amica di famiglia del senatore dem, scrive “Libero Quotidiano" il 30 gennaio 2017. Un giudice donna e un senatore. Amici di famiglia, Ann Donnelly e Chuck Schumer conducono la battaglia contro il bando sui visti emanato da Donald Trump sui rispettivi fronti, e in queste ore stanno emergendo come i protagonisti del primo vero grande scontro politico e sociale degli Stati Uniti dopo l'elezione del tycoon repubblicano alla presidenza. "Tyco non era una compagnia di vostra proprietà, vero? E il denaro di Tyco non avreste dovuto spenderlo a vostro piacere, no?". Decisa, serrata nel porgere le domande, così nel sistema giudiziario americano viene ricordato il piglio del giudice del distretto federale di Brooklyn che ha parzialmente fermato Trump, stabilendo che i rifugiati o altre persone interessate dalla misura e che sono arrivati negli aeroporti statunitensi, non possono essere espulsi. Prima di essere nominata da Barack Obama alla procura federale, Donnelly, 58 anni, si fece le ossa nel tenere in piedi l'accusa nel processo contro L. Dennis Kozlowski, amministratore delegato di Tyco, azienda produttrice di componenti elettronici, giudicati poi colpevoli di aver sottratto agli azionisti 600 milioni di dollari. "La sua bussola etica è salda», ha detto al New York Times Linda A. Fairstein, che ha lavorato con lei quando Donnelly era alla procura di Manhattan, dal 1984 al 2009. Ann Donnelly è stata nominata giudice federale da Barack Obama nel 2015. La conferma del Senato fu quasi unanime, con un voto di 95 favorevoli e due contrari. A indicarla all'allora presidente americano fu il senatore democratico Shumer, che in queste ore emerge come protagonista della battaglia contro l'ordine di Trump. Schumer, 67 anni, eletto per la prima volta nel 1988, è oggi il capo della minoranza democratica al Senato, dove ha preso il posto di Harry Reid. Nato a Brooklyn da famiglia ebraica, Schumer si è laureato in legge ad Harvard ma in realtà non ha mai esercitato la professione di legale, poiché scelse presto la politica: "C'è ancora molto da fare - ha scritto su Twitter dopo la sentenza della Donnelly - il presidente Trump deve revocare il suo terribile ordine esecutivo". E in conferenza stampa si è addirittura sciolto in un pianto a dirotto, definendo il "Muslim Ban" del presidente un "atto anti-americano".
IMMIGRAZIONE E TERRORISMO. Trump: sì ai confini, no al caos europeo. Un giudice lo sfida: stop rimpatri dagli Usa, scrive il 29 Gennaio 2017 “Il Tempo”. "Concederemo di nuovo i visti a tutti i Paesi, una volta che saremo sicuri di aver rivisto e applicato le più sicure politiche, durante i prossimi 90 giorni". Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, usa toni concilianti ma non cambia la sostanza: tre mesi di stop ai rifugiati e ingresso vietato negli Usa ai cittadini di sette Paesi a maggioranza musulmana. "Per esser chiaro, questa non è una messa al bando dei musulmani, come i media falsamente riportano", ha aggiunto Trump. "Non si tratta di religione, si tratta di terrorismo e di tenere sicuro il nostro Paese", ha proseguito. Negli Usa e non solo sono andate in scena manifestazioni di protesta. Folle in strada in molte città e davanti a molti aeroporti americani, tra cui anche davanti alla Casa Bianca a Washington, per chiedere lo stop ai provvedimenti. Hanno scandito slogan come "No muslim ban" (no alla messa al bando dei musulmani) e "Ora Siamo tutti musulmani". Trump venerdì ha bloccato per quattro mesi il programma per l'ingresso di rifugiati, imponendo lo stop a tempo indefinito ai siriani e stabilendo la priorità alle minoranze cristiane perseguitate, ha tagliato di oltre la metà il programma portando a 50mila il numero di rifugiati da accettare nel 2017, e ha infine vietato per tre mesi l'ingresso a chi provenga da sette Paesi a maggioranza musulmana (Iran, Iraq, Libia, Somalia, Sudan, Siria, Yemen). Resta intanto confusione sui possessori di Green card, perché mentre ieri sembrava dovessero subire il provvedimento, oggi il capo di gabinetto, Reince Priebus, ha detto che non lo saranno. Colpiti, invece, i cittadini con doppia nazionalità di quelle sette nazioni e di un Paese terzo. Tra venerdì e sabato, decine di persone si erano imbarcate su aerei diretti negli Usa prima delle firme di Trump e sono così state bloccate negli aeroporti d'arrivo, perché non autorizzate a entrare in territorio americano. Un tribunale di New York, a fronte di un ricorso, ha poi emesso un'ordinanza d'emergenza che impedisce temporaneamente l'espulsione dei rifugiati arrivati. Poi, altri tre giudici federali hanno emesso ordini analoghi, mentre Reuters ha in seguito riferito che i procuratori generali di 16 Stati hanno diffuso una dichiarazione congiunta in cui condannano la decisione di Trump e promettono di lavorare perché il governo federale rispetti la Costituzione. Le organizzazioni e gli avvocati per i diritti civili stanno continuando intanto a lavorare per ostacolare l'ordine. Non è noto il numero di persone fermate negli scali, né di quelle liberate, ma si sa che alcuni aeroporti come quelli di Los Angeles e San Francisco continuano a trattenere i rifugiati. Proteste erano annunciate oggi in tutti gli Stati Uniti, secondo il New York Times in 40 città e aeroporti. Migliaia di persone si sono raccolte nei pressi della Casa Bianca, per dimostrare il proprio sdegno per l'ordine del presidente. E altre migliaia, complice il tam tam su Twitter e sui social media, si sono radunate fuori dall'aeroporto JFK e da quello di San Francisco, per protestare e per chiedere la liberazione delle persone trattenute dal servizio di dogana. Hanno scandito slogan, cantato, mostrato striscioni e cartelli. Ma in molti, a New York, non sono riusciti ad arrivare sul luogo della manifestazione: le autorità hanno deciso di far salire sull'Air Train che conduce allo scalo soltanto le persone in possesso di biglietto aereo, citando "la sicurezza pubblica a causa delle condizioni di affollamento". Poi, il governatore Andrew Cuomo ha annullato il divieto. A livello internazionale, dure critiche sono arrivate dall'Europa, secondo cui la politica migratoria imposta dal repubblicano colpisce i fondamenti della democrazia. Tra i primi a reagire il presidente francese, François Hollande, che ieri ha messo in guardia sul fatto che la democrazia implica il rispetto dei principi su cui si basa, "in particolare l'accoglienza dei rifugiati". Il premier Paolo Gentiloni ha detto che "società aperta, identità plurale, niente discriminazioni" sono "i pilastri dell'Europa". In Germania, la cancelliera Angela Merkel si è detta "convinta che la guerra decisa contro il terrorismo non giustifichi che si mettano sotto sospetto generalizzato le persone in funzione di una determinata provenienza o religione". Nel Regno unito, tradizionale alleato degli Usa e con massiccia immigrazione dai Paesi colpiti dal divieto, la reazione del governo è arrivata oggi dopo che la prima ministra Theresa May è stata duramente criticata per non essersi ancora pronunciata sull'argomento. Da Downing Street, May ha infine detto di non essere d'accordo con l'ordine di Trump e ha ordinato ai suoi ministri degli Esteri e dell'Interno di contattare gli omologhi americani per chiarire la situazione. Il ministro degli Esteri di Londra, Boris Johnson, ha definito "divisivo ed equivoco stigmatizzare sulla base della nazionalità". Il leader laburista britannico, Jeremy Corbyn, è andato oltre e ha chiesto che la visita di Trump nel Regno Unito sia cancellata. Dai Paesi colpiti dal divieto, la prima risposta è arrivata dal governo iraniano. Ha definito la decisione di Trump "un palese insulto ai musulmani nel mondo" e ha annunciato l'applicazione del principio di reciprocità. Il Sudan ha convocato l'incaricato d'affari statunitense per protestare contro l'ordine, chiedendo a Washington di riconsiderare la decisione. Anche il governo dei ribelli houthi in Yemen, non riconosciuto internazionalmente, ha chiesto la revoca. E la Lega araba ha espresso "profonda preoccupazione", definendo la misura ingiustificata. In risposta alle critiche, Trump ha difeso la propria decisione, che ha detto basata sulla necessità di difendere gli Usa dal terrorismo jhadista. Ha dichiarato che il Paese necessita di "frontiere solide" e criticato la situazione migratoria in Europa e nel resto del mondo. «Il nostro Paese ha bisogno di frontiere solide e di un controllo estremo, adesso. Guardate che cosa succede in tutta Europa e, certamente, nel mondo. Un caos terribile», ha scritto su Twitter. Temi che provocano anche scontri di potere con i primi ricorsi contro la misura della Casa Bianca. Ann Donnelly, giudice federale di New York, ha emesso un'ordinanza di emergenza che impedisce temporaneamente agli Stati Uniti di espellere i rifugiati che provengono dai sette paesi a maggioranza islamica (Siria, Libia, Iran, Iraq, Somalia, Sudan, Yemen) colpiti dal provvedimento emanato dal presidente, che ha congelato gli arrivi per tre mesi.
Un'ordinanza "di emergenza" che annulla in parte l'ordine esecutivo di Trump sull'immigrazione stabilendo che i rifugiati bloccati negli aeroporti in attesa del rimpatrio non possono essere rimandate indietro nei loro paesi. Allo stesso tempo, però, il giudice non è entrato nel merito dell'ammissione di queste persone negli Usa o della costituzionalità dell'ordine del presidente. Una decisione che congela il destino di un numero di persone compreso tra cento e duecento trattenute al loro arrivo negli aeroporti statunitensi sulla base dell'ordine esecutivo firmato venerdì pomeriggio, una settimana dopo l'insediamento. Il dipartimento dell'Homeland Security, inoltre, ha fatto sapere che rispetterà tutte le ordinanze giudiziarie ma che l'azione dell'esecutivo siglata da Trump resta in vigore.
Non è razzismo, ma soltanto buon senso Il pericolo islamico esiste e non va negato, scrive Fiamma Nirenstein, Martedì 31/01/2017, su "Il Giornale". Un po' di buon senso prego. Trump ha dato le sue risposte a un problema cui tutto il mondo si sta applicando, e cui si riconosce che non c'è stata per ora, una risposta efficace o solo sensata. Può darsi che anche questa sia sbagliata. Ma non lo sarà più dei silenzi e delle omissioni che hanno lasciato uccidere migliaia di persone dal terrorismo islamico e hanno creato situazioni di vita molto difficili nelle città del mondo occidentale. È un tema roccioso, ogni volta che o si affronta vorremmo nasconderci piuttosto che vedere la sofferenza altrui ma, insieme, anche il nostro pericolo. Ci sono e c'erano delle buone ragioni in alcune delle critiche all'executive order di Donald Trump del 27 gennaio che sospende l'illimitata ammissione di rifugiati siriani e mette un freno all'immigrazione di altri sei Paesi islamici per 90 giorni: infatti già domenica Trump ha dovuto ripristinare il diritto di servirsi della green card. E dovrà tornare sulla questione delle minoranze religiose, perché anche se preferisce l'immigrazione delle minoranze cristiane, ce ne sono di sunnite e di sciite che a seconda dei Paesi, sono state e sono implicate in lotte e persino guerre a fianco degli americani. Il tono, però, l'enfasi da salotto bene che si usa nell'immaginare che Trump seppellisca l'America che amiamo per disseppellire quella con la k (molti non sanno quanto quella k ferisca li americani) porta a dire un sacco di sciocchezze: per esempio, a paragonare l'immigrazione attuale con quella degli ebrei dall'Europa. A parte che anche quella fu verificata a fondo persino dopo la Shoah (c'erano comitati in Europa che vagliavano ogni caso) non c'è mai stato un pericolo ebraico di attacchi terroristi. E invece il pericolo di cui Trump parla, c'è, anche a volerlo affrontare diversamente: ma negarlo non si può. Invece c'è chi ha scritto che gli attacchi dal 9 di settembre non sono musulmani e hanno edotto che quindi Trump agisce per razzismo... insomma un sacco di cretinate a partire dal fatto storico che gli ingressi negli Usa sono sempre stati controllati, l'incubo del blocco e del respingimento di Ellis Island appare in mille film di Hollywood, i blocchi operati dalle varie amministrazioni sono costanti e di fatto negli ultimi anni sono caduti su popolazioni musulmane, salvo quando invece Obama ne ha incrementato l'ingresso, mentre gli ingressi cristiani paradossalmente sono pochissimi: nel 2016 il 99,1 per cento degli ingressi sono islamici, e solo l 0,5 sono cristiani, mentre lo 0,8 sono Yazidi, un po' poco rispetto alle stragi in corso. Comunque, dal luglio 2011 Obama ha bloccato le entrate di questo o quel gruppo politico per sei volte. Jimmy Carter cancellò i visti iraniani; le leggi che permettono ai presidenti di controllare l'immigrazione citano specificamente la preoccupazione delle persecuzioni religiose, e sinceramente è stupefacente che Obama abbia lasciato cristiani e yazidi da parte. Ma dov'era la stampa liberal? Il tetto messo da Trump di 50mila rifugiati dopo che saranno trascorsi i 90 giorni, non sono così distanti dalle medie nazionali regolari: scrive David French sulla National Review che i 50mila stanno fra un anno tipico i George W. Bush e uno di Obama. Sono stati meno di 50mila fino al 2007, e poi dal 2013 al 2015 sono 70mila. Quanto ai siriani, Obama ne ha fatti entrare 305 profughi di media negli anni dal 2011 al 2015. E poi nel 2015, abbandonata la promessa di intervenire se Bashar Assad avesse sorpassato la linea rossa dei gas venefico, passa a 13mila nel 2014 con l'avanzare della situazione, forse pentito.
Antonio Socci su “Libero Quotidiano 31 Gennaio 2017": anche la Chiesa voleva selezionare gli immigrati. Venerdì la grande "Marcia per la vita" di Washington, esaltata in tv da Trump, ha voluto attribuire il suo Premio onorifico annuale al card. Raymond Burke, cioè proprio colui che da mesi viene perseguitato da Bergoglio come il suo grande avversario (il papa lo ha colpito in ogni modo, fino all' annichilimento dell'Ordine di Malta avvenuto sabato). Il bergoglismo nacque in sintonia con Obama e con il "partito tedesco" anti-Ratzinger e - come vedremo - alcune personalità cattoliche Usa oggi chiedono a Trump addirittura di appurare se ci siano state interferenze della passata amministrazione nelle strane "dimissioni" di Ratzinger del 2013 e nell' ascesa di Bergoglio. Ora che Obama è finito e l'impero germanico della Ue sta nel mirino di Trump, il pontificato politico di Bergoglio si va a schiantare su due muri della nuova amministrazione Usa. Un muro materiale e uno politico-culturale. Contro quello materiale che Trump vuol costruire ai confini col Messico (perché uno Stato che non controlla i suoi confini non è uno Stato) il Papa è già partito all' attacco. Bergoglio, incurante di essere lui stesso capo di uno Stato, quello vaticano, circondato da alte mura, dove è impossibile entrare per qualunque clandestino, ha fulminato Trump, infischiandosene del fatto che buona parte del muro col Messico lo hanno costruito i democratici di Clinton e Obama. Oltretutto sulle frontiere chiuse ai musulmani Trump applica proprio ciò che fu prospettato dal grande card. Biffi. Ma Bergoglio odia proprio questo connotato culturale filo-cristiano di Trump. Appena insediato Trump ha rovesciato la politica ultralaicista di Obama e la sua ideologia abortista che a Bergoglio non ha mai fatto problema: dopo aver, fra l' altro, cancellato la pagina Lgbt della Casa Bianca, il presidente ha bloccato i finanziamenti pubblici alle ong estere abortiste e in tre giorni ha fatto, per la causa dei bambini non nati, più di quanto abbia fatto in quattro anni Bergoglio, che quella causa ha tradito per inventarsi invece le crociate obamiane pro-immigrati, pro dialogo con l' Islam e i comizi sull' eco-catastrofismo fatti davanti a organizzazioni come il Centro sociale Leoncavallo. IL VICE PRO-LIFE - Il mondo pro-life, molto forte in America, ha sostenuto in modo determinante la vittoria di Trump (come quella di Reagan) e alla manifestazione pro-life «su richiesta del presidente Trump» ha parlato il suo vice Pence (è la prima volta in 44 anni che interviene una così alta carica istituzionale) dicendo che «in America la vita è tornata a vincere» e questa presidenza «non si fermerà finché in America verrà ristabilita la cultura della vita». Ha annunciato infatti altri provvedimenti e la nomina determinante di un giudice pro life alla Corte Suprema. Poi Pence ha concluso: «Con la compassione daremo voce ai bambini non nati e guadagneremo i cuori delle donne...vi assicuro che il presidente Trump ha le spalle larghe e un cuore grande». I promotori della Marcia - come ho detto - hanno annunciato di aver conferito il Premio al card. Burke, molto stimato nella nuova amministrazione Usa. La scelta - ha detto John-Henry Westen - è dovuta al fatto che «il cardinale Burke ha sofferto molto per la causa della vita, della fede e della famiglia. Egli ha portato in pace e letizia questa sofferenza e le umiliazioni pubbliche che ha ricevuto da tutte le parti». A quali umiliazioni pubbliche si riferiscano i pro life è noto a tutti: Bergoglio gliene ha inflitte per quattro anni e sabato è arrivato ad annichilire il millenario Ordine di Malta per umiliare il card. Burke, che lì era stato confinato proprio dallo stesso Bergoglio.
I due sono agli antipodi anche come tipi umani. Tanto Burke è mite e gentile quanto Bergoglio è prepotente (lo ha ammesso lui stesso), vendicativo e tendente al culto della personalità (una papolatria che oggi ha sostituito il culto eucaristico). Burke è un uomo di Dio, ha profonda spiritualità, non gli interessa né guadagnare né perdere poltrone. Invece Bergoglio fin da giovane ha partecipato alla feroce lotta del potere ecclesiastico e ne è tuttora assorbito. Ragiona solo in termini di potere e non concepisce chi non si fa "attirare" dalle promesse né intimidire dalle minacce. Detesta cardinali come Burke (o Caffarra) che pensano solo al giudizio di Dio e non si preoccupano di lusinghe e intimidazioni umane. È noto che Bergoglio è andato su tutte le furie quando Burke e altri tre cardinali, della sua stessa fede cattolica, hanno reso noti i loro famosi "Dubia" per chiedere al papa che si pronunci in modo chiaro sugli argomenti delicati con cui, attraverso l'Amoris laetitia, ha terremotato e confuso la Chiesa. Ancora più furibondo Bergoglio è diventato quando è uscita l'intervista del card. Burke che, serenamente, ha prospettato - in caso di rifiuto pervicace del Papa di rispondere - la possibilità canonica di una «correzione» (che è prevista e non è inedita nella storia della Chiesa). L' offensiva contro l'Ordine di Malta va inquadrata in questo suo furore che Bergoglio non riesce a tenere a freno (come quando ha coniato l'assurdo parallelo fra Hitler e Trump). Il Catholic Herald ha osservato: «Il Vaticano ha distrutto la sovranità dell'Ordine di Malta. E se l'Italia facesse la stessa cosa con il Vaticano?». Ancora più duro l'American Spectator che - in proposito - ha scritto: «Sotto Papa Francesco, la nuova ortodossia è eterodossia e guai a coloro che non si conformano ad essa». George Neumayr, l'editorialista, nota che la priorità di questo papa è colpire chi è fedele alla dottrina cattolica e premiare gli altri (e cita ciò che Bergoglio ha fatto con gli ordini religiosi). «Solo i conservatori ricadono sotto il suo sguardo fulminante». Con lui «il Vaticano è diventato una calamita per gli attivisti più anti-cattolici d' Occidente, molti dei quali hanno contribuito all' enciclica del Papa sul riscaldamento globale». Bergoglio - scrive ancora lo Spectator - parla di «autonomia» e «rispetto delle differenze», ma «è il Papa più autocratico e amante delle epurazioni che si sia visto in molti decenni. È la quintessenza del progressista "tollerante" salito al potere grazie alla disobbedienza (come arcivescovo di Buenos Aires ha ignorato le direttive vaticane), ma che poi mantiene il potere chiedendo obbedienza assoluta agli altri. Se fosse obbedienza alla dottrina della Chiesa» scrive il mensile «nessuno potrebbe biasimarlo. Ma non lo è. Lui chiede obbedienza ai suoi capricci modernisti». La requisitoria prosegue così: «Dai corridoi delle Nazioni Unite alle stanze di L' Avana e Pechino, gli statalisti anticattolici possono sempre contare su di lui com' è evidente nella sua recente scandalosa intervista in cui ha dichiarato che i cattolici cinesi possono "praticare la loro fede in Cina". No, non possono. I fedeli all' ortodossia cattolica sono trattati brutalmente».
«Come è possibile - conclude lo Spectator - che il Papa possa considerare i comunisti cinesi in modo così benevolo mentre tratta i fedeli conservatori in maniera così severa? Gli storici del futuro troveranno sorprendente che all'inizio del 21° secolo il Papa invece di proteggere i cattolici abbia contribuito alla loro persecuzione». Il clima è tale che - come dicevo - sul sito cattolico The Remnant un gruppo di intellettuali cattolici americani, ricordando con sconcerto le posizioni di Bergoglio contro Trump e a favore della sinistra internazionale, fa appello al neo presidente Usa Trump perché - prendendo spunto anche dai documenti di Wikileakes - si cerchi di capire se un cambio di regime in Vaticano fu immaginato e messo in cantiere negli anni della precedente amministrazione democratica. Si chiede al presidente addirittura di appurare se eventuali azioni riservate siano state intraprese da agenti Usa in relazione alla «rinuncia» di Benedetto XVI e al Conclave che ha eletto Bergoglio, per capire se vi siano state interferenze sulla vita della Chiesa. Antonio Socci
Tutta la verità sul muro di Trump, scrive il 27 gennaio 2017 Paolo Manzo su "Gli Occhi della guerra" riportato da "Il Giornale". Dopo l’avvertimento del Papa sui rischi del populismo che in passato ha creato mostri come Hitler – che molti media mainstream hanno interpretato come rivolto a Donald J Trump – dopo milioni di donne occidentali, non saudite né pakistane, scese in piazza per protestare contro quell’assassino di diritti umani che è Donald J Trump (forse l’Isis, proliferato sotto Obama, sarebbe una soluzione ai loro problemi?), dopo caterve di accuse sulla stampa più attenta al politically correct che ai fatti sui milioni di latinos che verrebbero espulsi da The Donald (Obama ne ha mandati via 2,5 milioni nel silenzio tombale di CNN & co) non poteva che arrivare il killeraggio mediatico al tycoon dopo la sua firma, l’altroieri, dell’ordine esecutivo per costruire il muro ai confini con il Messico. In realtà Trump non ha fatto altro che mantenere un’altra promessa – dopo aver fatto uscire gli Stati Uniti dall’accordo transpacifico – visto che “Costruiremo il muro e lo faremo pagare al Messico” era stato – dopo il celebre “let’s make America great again” – il suo secondo mantra elettorale più sbandierato. Nonostante le tante speculazioni dei media su altezza, chilometraggio e costi, di sicuro esiste una legge approvata nel 2006 dal Parlamento Usa (il Secure Fence Act del 2006) con i voti decisivi di molti Democratici che oggi gridano alla scandalo grazie alla quale Trump non dovrà passare al vaglio del legislativo per ottenere il “via libera” ai lavori della più grande barriera di contenimento dell’immigrazione al mondo. Inoltre è bene ricordare che sono oltre vent’anni – ovvero da quando nella campagna elettorale del 1995 Bill Clinton promise barriere per impedire il passaggio della frontiera agli illegali – che nessuno negli Stati Uniti arriva alla presidenza senza promettere la “mano dura” contro l’immigrazione clandestina proveniente dal Sud del Rio Bravo. Nessun “big media” impegnato nello sport giornalistico più praticato del momento, ovvero il “dagli al Trump” lo ricorda oggi, ma fu proprio Bill Clinton, avallando operazioni come la “Gatekeeper” in California, la “Hold the Line” ad El Paso (in Texas) e la “Safeguard” in Arizona, il primo presidente che, nell’ormai lontano e dimenticato 1994, introdusse barriere fisiche o, se preferite la terminologia inglese, “fences”, per difendere il confine Sud col Messico. Anche per questo Trump ha vinto, inutile nasconderlo con editoriali politically correct ma privi di qualsiasi legame con la realtà. E anche se alcune agenzie di stampa nostrane hanno tentato di nascondere l’evidenza con “fact checking” farlocchi (probabilmente per contrariare Alessandro Di Battista che aveva ricordato più o meno le cose che qui scrivo) basta andare sul sito del U.S. Department of Homelland Security – proprio dove Trump ha firmato l’ordine esecutivo in questione – per scoprire che, con malcelato orgoglio, il 9 ottobre 2014, l’allora segretario della Sicurezza Interna di Barack Obama, Jeh Johnson, mostrava a media assai poco critici (almeno rispetto a quelli di oggi) i risultati del boom nella costruzione alla frontiera messicana delle “fences”. O come le chiamerebbe Trump oggi, del “muro”. “Erano appena 77 miglia (124 Km) nel 2000 mentre”, diceva fiero ed applaudito dai giornalisti presenti Johnson, quel 9 ottobre 2014 “grazie al lavoro congiunto delle amministrazioni Clinton, Bush Jr ed Obama per rafforzare la nostra sicurezza, oggi le barriere (e cioè il muro) al confine con il Messico occupano almeno 700 miglia”, ovvero 1.127 chilometri, non uno di meno. La già citata legge pro-muro del 2006 che oggi consente a Trump di dare l’inizio ai lavori con un semplice ordine esecutivo non preoccupandosi di Camera e Senato, del resto, fu voluta dal presidente dell’epoca, il repubblicano George Bush Jr (che non a caso ha votato per la Clinton e con Obama ha fatto i peggio disastri in Iraq, contribuendo alla nascita dell’Isis non catturando il suo fondatore Abu Musab al-Zarqawi quando persino Bin Laden lo “schifava”), e fu votata con entusiasmo e discorsi di elogio tanto dall’allora senatrice per lo stato di New York, Hillary Clinton, come dall’allora senatore dell’Illinois, Barack Obama. Certo, la “barriera” innalzata negli ultimi 20 anni dalle precedenti tre presidenze copre solo oltre un terzo degli oltre 3mila Km di confine, ma esiste eccome. Soprattutto nella giornata della memoria che ricorda l’Olocausto la verità sarebbe opportuna raccontarla e allora – nell’attesa delle scontate polemiche che leggerete nelle prossime ore/giorni sui “grandi” media perché l’amministrazione Trump potrebbe imporre dazi del 20% sulle importazioni messicane per finanziare il muro (cosa che per la cronaca fanno 160 paesi al mondo, tra cui tutti quelli latinoamericani meno Cile, Perù, Paraguay e Panama- da anni il Brasile ha una tassazione media del 66,7% su gran parte dei beni importati senza che la CNN si sia mai scandalizzata) – finalmente Gli Occhi della Guerra ha scovato le prime, e sinora uniche, vere vittime delle politiche del losco figuro insediatosi da pochi giorni alla Casa Bianca: migliaia di polposi avocado messicani e centinaia di casse di succosi limoni argentini. Già perché sono ben 120 le tonnellate di Persea americana (questo il nome scientifico dell’avocado) bloccate alla frontiera con il Rio Bravo da giorni, dopo che stessa sorte era toccata lunedì scorso a tutti i limoni argentini, banditi addirittura per 60 giorni dalla svolta trumpiana che intende – lo accenna Reuters dando la notizia – aiutare il settore dell’agricoltura statunitense. Al di là delle politiche commerciali – staremo a vedere se tra due mesi i limoni argentini e gli avocado messicani potranno finalmente entrare negli States, sarebbe una vittoria senza precedenti per i difensori dei diritti della frutta – sui migranti clandestini, stando ai numeri reali, The Donald ne ha sinora rispediti al mittente molti di meno rispetto ad Obama il misericordioso. Quest’ultimo infatti, nella prima settimana del suo secondo mandato, ne aveva espulsi oltre mille, Trump poche decine. Per non dire dei 91 cubani rispediti all’Avana dal Messico a causa dell’abolizione da parte di Barack del decreto Clinton, che da 22 anni garantiva i diritti umani all’unico popolo oggi ancora costretto a vivere sotto il giogo di una dittatura. E che dire del muro al confine con il Guatemala sponsorizzato dal presidente messicano Enrique Peña Nieto, lo stesso che si lamenta dei muri che costruiscono gli altri, da oltre 20 anni? Questo per limitarci ai fatti che, al solito, sono sempre meno politically correct della realtà virtuale che vorrebbero imporci Soros e compagni.
Prima di Trump, vi era stato, senza alcuna copertura mediatica, il divieto di ingresso negli Stati Uniti per i rifugiati iracheni varato da parte del presidente Obama e la dichiarazione da parte di quest'ultimo di ben sette "stati terroristi", scrive il 30/01/2017 “L’Antidiplomatico". Ma prima di Obama c'era stato Bill Clinton, altro famigerato "democratico" che, addirittura, ricorda correttamente il blog Zero Hedge, aveva ricevuto una standing ovation nell'annunciar la difesa dei confini e il rimpatrio dei clandestini criminali. Queste le parole di Bill Clinton, più moderate anche di Trump: "Siamo una nazione di immigrati .. ma siamo anche una nazione di leggi". "La nostra nazione è giustamente infastidita dal gran numero di immigrati clandestini che entrano nostro paese ...Gli immigrati clandestini prendono posti di lavoro da parte diche appartengono a cittadini o immigrati legali. E rappresentano oneri per i contribuenti ... Questo è il motivo per cui stiamo raddoppiando il numero delle forze dell’ordine alla frontiera, deportando ("deporting") gli immigrati clandestini più che mai, colpiremo le assunzioni illegali dei clandestini e faremo di più per accelerare l'espulsione dei criminali. E 'sbagliato e in definitiva controproducente per una nazione di immigrati permettere questo abuso delle nostre leggi sull'immigrazione che si è verificato negli ultimi anni. E dobbiamo fare di più per fermarlo ". [Ovazione]
Trump ha sicuramente un merito, aver definitivamente aperto il vaso di Pandora dei peccati e crimini degli Stati Uniti. Trump, in altri termini, è semplicemente il vero volto dell'imperialismo nord-americano, non più celato dalla maschera dell'ipocrisia "democratica". La domanda che resta ancora senza risposta: ma dove erano quelle migliaia e migliaia di persone che si indignano oggi per Trump quando Bill Clinton pronunciava queste parole? Alcuni ad applaudire, come potete vedere dal video.
«Fake news», avvertimento dell’Ue a Facebook. Il commissario Ansip minaccia interventi diretti. Iniziativa di Tajani all’Europarlamento, scrive Ivo Caizzi, il 30 gennaio 2017 su “Il Corriere della Sera”. Sulla scia dell’attacco lanciato dalla cancelliera tedesca Angela Merkel contro le notizie false diffuse in rete, in vista delle elezioni in programma in autunno in Germania, l’Europarlamento e la Commissione europea intendono andare oltre le azioni nazionali e agire a livello Ue. Il presidente dell’Europarlamento Antonio Tajani intende promuovere una «soluzione europea» in grado di garantire la corretta informazione ai cittadini, continuando così con la linea trasversale lanciata dal suo predecessore tedesco Martin Schulz, ora candidato socialdemocratico alla cancelleria. Nell’Assemblea Ue è stata già approvata una risoluzione politica contro la disinformazione anti-Ue e a favore dei movimenti populisti, attribuita alla Russia di Vladimir Putin e ai terroristi islamici dell’Isis. Inoltre eurodeputati britannici sarebbero intenzionati a proporre una commissione d’inchiesta sulle cosiddette «fake news», sull’esempio di quella appena lanciata da loro colleghi del Parlamento di Londra. Alla Commissione europea, dopo una promessa generica di intervento del presidente lussemburghese Jean-Claude Juncker, il commissario estone Andrus Ansip ha annunciato interventi sui vari Facebook, Google o Twitter, qualora questi social network non introducano adeguati controlli per impedire la circolazione in rete di notizie false. Oltre alla Germania, vari governi Ue appaiono favorevoli ad approvare una legislazione europea per arginare la disinformazione tramite i social network. Numerosi premier europei si sono allertati dopo quanto è successo nelle elezioni presidenziali degli Stati Uniti, dove la vittoria del repubblicano Donald Trump è apparsa favorita anche dalle notizie negative sulla candidata democratica Hillary Clinton. Ma in alcune capitali Ue non vorrebbero rischiare le polemiche e le proteste del popolo della rete, che scaturirebbero in caso di restrizioni della libertà di far circolazione le notizie sul web. Per questo la Commissione europea intenderebbe iniziare a fare pressione sui principali social network per convincerli ad attuare un «codice di condotta» contro i tentativi di disinformazione sul web. Il commissario Ue Ansip ha però ammonito che, se i vari Facebook, Google o Twitter non si assumeranno maggiori responsabilità nel controllare le notizie che consentono di diffondere, l’alternativa saranno gli interventi di Bruxelles. «Sono preoccupato, e tutti sono preoccupati, dalle notizie false, specialmente dopo le elezioni negli Stati Uniti — ha dichiarato Ansip al quotidiano britannico «Financial Times» —. Credo fermamente nelle misure di autocontrollo. Ma, se sarà necessario qualche tipo di chiarimento, saremo pronti». In ogni caso, se in Germania dovesse passare una legislazione restrittiva sulla diffusione di notizie false (si parla di introdurre multe ai social network fino a 500 mila euro), Merkel appare in grado di influenzare i successivi interventi della Commissione di Juncker.
Attenti, arriva la censura: Google punisce il blog di Messora, scrive Marcello Foa su “Il Giornale” il 29 gennaio 2017. Quanto sta avvenendo in queste ore a Claudio Messora, autore del blog ByoBlu, è grave. Google AdSense gli ha comunicato l’interruzione immediata e irrevocabile del proprio servizio. Cos’è Google AdSense? Semplifico al massimo per i non addetti ai lavori: è la pubblicazione automatica di inserzioni pubblicitarie che garantisce un introito a chiunque sia disposto ad ospitarle. Più traffico, più pubblicità: gli importi sono minimi ma servono a garantire un po’ di redditività sia ai singoli utenti sia ai gruppi editoriali, che a loro volta ne fanno uso. Claudio Messora, qualche ora fa, ha annunciato di aver ricevuto un’email da Google in cui viene accusato di aver pubblicato una “fake news” e in cui si annuncia la cancellazione immediata e non contestabile di AdSense. Naturalmente Google non dice a quale titolo si arroghi il diritto di discriminare tra notizie false e vere. E sapete qual è la “fake news” imputata a ByoBlu? Il filmato di un intervento dell’onorevole Lupi tratto dal sito della Camera dei deputati italiani e pubblicato senza commenti sul blog! Voi direte? Messora scherza e Foa ci è cascato. Niente affatto: tutto vero. L’arbitrarietà della decisione di Google è scandalosa ma non sorprendente. I blog, i siti alternativi e i social media hanno svolto un ruolo decisivo nelle campagne referendarie sulla Brexit nel Regno Unito e sulla riforma costituzionale in Italia; e soprattutto alle presidenziali statunitensi contribuendo alla vittoria di Trump. Come ebbi modo di spiegare qualche mese fa, l’influenza della cosiddetta informazione alternativa ha assunto proporzioni straordinarie, approfittando della disillusione popolare nei confronti di troppe grandi testate tradizionali, che col passare degli anni hanno perso la capacità interpretare le necessità di una società in continua evoluzione, ammansendo il proprio ruolo di cane da guardia della democrazia, per eccessiva vicinanza al governo e alle istituzioni. Non tutte le testate, sia chiaro e non in tutti i Paesi: ma in misura tale da generare una frattura fra sé e il pubblico, come dimostra il fatto che la grande maggioranza dei media inglesi era favorevole al Remain e che la totalità dei media sosteneva Hillary ed è stata incapace di prevedere la vittoria di Trump. Un’onda si è alzata e spinge milioni di lettori a cercare fonti alternative sul web; alcune di qualità, altre meno, alcune credibili altre no, come peraltro è naturale e legittimo in democrazia. Un’onda che l’establishment, soprattutto quello anglosassone, che è il più influente nella nostra epoca ora cerca di fermare. E nel peggiore dei modi. La crociata avviata negli Usa e in Gran Bretagna contro fake news e post verità è chiaramente strumentale ed è stata solertemente recepita in Europa (la risoluzione approvata dal Parlamento Ue contro la propaganda russa rientra in questa corrente) e in alcuni Paesi europei tra cui l’Italia, dove il presidente della Camera dei deputati Laura Boldrini recentemente ha annunciato l’avvio di una campagna contro le bufale sul web. Annunci che sono serviti a preparare l’opinione pubblica. Ora si passa dalle minacce ai fatti, attraverso i due Grandi Fratelli del web. Facebook, che ha già cominciato a segnalare come “pericolosi” alcuni blog (ad esempio, ma non è l’unico, quello di Maurizio Blondet), e Google che toglie ai siti anticonformisti la possibilità di finanziarsi, prendendo a pretesto, con sprezzo del ridicolo, proprio un post in cui viene diffuso un frammento di un dibattito del Parlamento presieduto dalla stessa Boldrini, quanto di più innocente e di ovvio ci sia in democrazia. Resta il fatto che Google si arroga il diritto di giudicare e di censurare un sito libero, per ora solo finanziariamente. Domani, chissà. Vi invito a guardare questo video di Messora, sono sei minuti di ottimo giornalismo. Giudicate voi. Io esprimo a Claudio Messora tutta la mia solidarietà. E la mia indignazione. E’ in pericolo la libertà di pensiero e di espressione.
Il blog ByoBlu e i 200 siti a cui Google ha tolto la pubblicità per la lotta alle fake news. Il sito di Claudio Messora, ex consulente della comunicazione M5S, è tra quelli che non potranno più utilizzare il servizio per l’advertising AdSense. La replica: «Mina alla libertà del web», scrive Michela Rovelli il 30 gennaio 2017 su “Il Corriere della Sera”. Tra i centinaia di siti che non potranno più utilizzare AdSense, la piattaforma per la pubblicità online di Google, c’è anche l’italiano Byoblu. Lo ha rivelato il fondatore: il blogger di lunga data Claudio Messora, che ha iniziato con un canale Youtube nel 2007 — oggi seguito da più di centomila utenti — per poi aprire anche il sito, dalle cui pagine, come lui stesso dice, scrive e descrive «le sue posizioni critiche sulle relazioni tra le grandi banche d’affari, la speculazione internazionale e i governi». Toni forti e argomenti d’attualità. Non sempre, secondo Mountain View, veritieri. Contenuti ingannevoli, quindi. E quindi contrari alla nuova policy della società. Da novembre, infatti, Google ha intensificato gli sforzi per migliorare l’esperienza di navigazione online degli utenti, in un periodo in cui si parla così tanto di bufale e disinformazione. E ha annunciato la possibilità di interrompere anche il suo servizio AdSense per coloro che diffondono contenuti considerati non adeguati. Duecento i publisher finora sospesi. Tra cui ByoBlu, fa sapere lo stesso Messora in un videomessaggio dove denuncia l’ingiusta — secondo lui — decisione. Il distinguo tra ciò che è falso e quello che non lo è non è semplice, di certo resta la sospensione del servizio per il blog di Messora, vincitore nel passato, come ha scritto nella sua bio, di premi giornalistici come il Premio Agenda Rossa e il XXXI Premio Ischia Internazionale del Giornalismo. Il responsabile di Byoblu parla di una campagna «contro le cosiddette “fake news” orchestrata da Hillary Clinton, dal Parlamento Europeo, da Laura Boldrini, da Angela Merkel e da tutti quelli che hanno paura che l’informazione libera possa scalzare i loro privilegi e la loro posizione di forza». Definisce poi il 27 gennaio (quando gli è stato recapitato l’avviso), «il giorno più pesante per l’informazione libera da dieci anni». Nessun commento da Google. Il motore di ricerca, che ha bloccato il rapporto con ByoBlu solo per quanto riguarda la piattaforma AdSense, ma senza nessun intervento sull’indicizzazione del blog, fa sapere di inviare insieme alla segnalazione di disattivazione dei servizi pubblicitari anche un link con la possibilità di fare ricorso. La «denuncia» è stata ripresa anche dal blog di Beppe Grillo. Con lui Claudio Messora ha lavorato: è stato per un breve periodo responsabile della comunicazione del Movimento Cinque Stelle all’Europarlamento. Poi licenziato dallo stesso Gianroberto Casaleggio. Ma l’appoggio, in questa sua battaglia contro Google, è totale. L’appello del blogger viene pubblicato per esteso su beppegrillo.it con una breve frase introduttiva: «Quanto successo al blogger Claudio Messora è gravissimo. Siamo dalla parte dell’informazione libera in Rete. Diffondete». C’è chi — Google — le bufale prova a combatterle senza esclusione di colpi, e dunque togliendo loro il principale motivo di diffusione, quello economico. E chi si dichiara vittima di questa guerra alla disinformazione online, vedendo nelle mosse come quella di Mountain View, un sabotaggio della libertà garantita dal web.
Oggi attaccano Byoblu.com. Ma sarà presto un attacco contro tutti i dissidenti, scrive Pino Cabras su MegaChip riportato da Claudio Messora il 29 gennaio 2017 su Byoblu. Fa molto bene Claudio Messora a sottolineare che il vero obiettivo della campagna contro le ‘fake news’ non erano certo quei cialtroni che infestano il web di notizie false, razziste e irresponsabili per acchiappare clic, che pure ci sono e da chissà chi sono mossi. No, il vero obiettivo politico era ogni forma di dissidenza informativa, ogni voce non inserita in quell’oligopolio che controlla – con apparente pluralismo ma sostanziale totalitarismo – la galassia dei media tradizionali, un mainstream in radicale crisi di credibilità e ormai in modalità panico. E fa anche bene Messora a non fare tanti giri di parole quando fa i nomi dei maggiori artefici di questa sistematica volontà di censura, che stanno dentro le istituzioni e nelle aziende dominanti delle telecomunicazioni. Sono nomi che si muovono in un sistema legato mani e piedi al blocco d’interessi di cui Hillary Clinton sarebbe stata il maggiore garante, se non avesse subito il rovescio elettorale. E’ un blocco che ha una sua ideologia e che ha ancora molto potere: perciò vuole trasformare l’ideologia in misure concrete, mirate, inesorabili. Così, accanto al lavoro ai fianchi ideologico (in cui si fa aiutare persino da gente che crede di difendere la libertà), fa un lavoro più sporco, inteso a prosciugare le risorse del dissenso. Oltre alle personalità e istituzioni citate da Messora, è bene ricordare anche la NATO, un’organizzazione sempre più attenta a inserire nelle azioni di guerra anche la “guerra della percezione“: ha persino redatto un “Manuale di Comunicazione Strategica“, che intende coordinare e sostituire tutti i dispositivi antecedenti che si occupavano di Diplomazia pubblica, di Pubbliche relazioni (Public Affairs), di Pubbliche Relazioni militari, di Operazioni sui sistemi elettronici di comunicazione (Information Operations) e di Operazioni Psicologiche. Sono azioni coordinate ad ampio spettro, portate avanti da strutture dotate di risorse immani e che lavorano ventiquattr’ore su ventiquattro in coordinamento con i grandi amministratori delegati di imprese del calibro di Google. L’offensiva è dunque in atto e viene da lontano. Un’eminenza grigia molto importante dell’Amministrazione USA uscente, Cass Sunstein, anni fa scrisse un saggio in cui – oltre a teorizzare l’«infiltrazione cognitiva» dei gruppi dissenzienti, da perfezionare spargendo disinformazione, confusione, e calunnie – invitava il legislatore a prendere «misure fiscali» (diceva proprio così) contro i propugnatori delle “teorie cospirazioniste” e per l’assoluto divieto di esprimersi liberamente su quanto sia disapprovato dalle autorità. Ci siamo a suo tempo chiesti dove volesse andare a parare, il prof. Sunstein. Voleva dire che chi dissente paga pegno allo Stato? E come diavolo doveva chiamarsi questa nuova imposta? All’epoca erano misteri e deliri di un professore di Harvard, un costituzionalista che ripudiava i capisaldi della Costituzione scritta americana. Ma nel frattempo quel delirio si è fatto strada e si è fatto sistema di potere. E’ bene ricordarlo a quelli che si scandalizzano per Trump senza accorgersi che le ossessioni contro la libertà di espressione hanno colonizzato le istituzioni e i media in cui hanno riposto fiducia, anche a casa Clinton e a casa Obama. Oggi attaccano Byoblu.com. Ma sarà presto un attacco contro tutti i dissidenti. E’ una questione già maledettamente seria. Anche chi non va d’accordo con Byoblu, con Megachip, con PandoraTV.it e altri ancora, farà bene a sostenerli economicamente e difenderli politicamente. Lo dovrà fare per salvare il pluralismo da un’ondata di “maccartismo 2.0“, un’isteria che vuol fare tabula rasa dell’informazione non allineata.
L’altra faccia delle fake news. Si dia nuova dignità alle persone poiché qui convivono sia lo scrittore che il lettore: il problema fake news va risolto all'interno di questa ambiguità, scrive Giacomo Dotta il 30 gennaio 2017. Quando ci si ferma a riflettere (e a scrivere, cose spesso coincidenti) di “fake news”, il discorso slitta sempre sul medesimo versante: quello di chi produce, elabora, distribuisce, pubblica. In generale, la parte analizzata è sempre quella che emette la notizia, nei diversi livelli, nei diversi ruoli e nelle diverse fasi in cui vi si partecipa: chi la pensa, chi la scrive, chi vi trova uno spazio di pubblicazione, chi la distribuisce. Tali disamine sembrano dare per scontata la figura passiva (o di eco semiautomatico) del lettore. Con tutta evidenza trattasi però di un discorso zoppo che, nel proprio lento incedere, sembra in grave difficoltà: di fatto il problema delle “fake news” trova oggi ben poche ipotesi costruttive, ognuna delle quali smontate rapidamente da schiere di critici pronti a sfoderare validissime questioni di principio. Di fatto, però, non se ne esce: Google ha fatto bene a fermare ByoBlu? Ma con che diritto Google e Facebook possono decidere chi o cosa ha diritto di essere retribuito o divulgato? Cosa distingue una fake news d’agenzia da una fake news da retweet? Quando, chi e come si decide che una notizia è “fake”, immaginando quest’ultima parola nel suo senso assoluto di sanzione definitiva e deliberata?
Le ragioni del lettore. La sensazione è che queste considerazioni siano zoppe poiché non considerano a sufficienza le motivazioni che stanno alla base di un fronte parallelo e complementare: le ragioni del lettore. Di quest’ultimo spesso si son lette disamine massimaliste, raramente volte ad approfondirne ragioni recondite. A questo punto è però il momento di fare un passo avanti per considerare entrambi i lati della questione.
Bipolarismo. Ognuno di noi è lettore e scrittore allo stesso tempo. Una novità assoluta, per molti versi, e qualcosa di cui non abbiamo ancora esattamente piena coscienza. Succede poiché ognuno di noi ha oggi mezzi e capacità per fare entrambe le cose: per leggere, poiché l’informazione è libera e gratuita come mai lo era stato in passato; per scrivere, poiché mai come oggi sono disponibili strumenti e piattaforme che offrono a chiunque l’opportunità di farsi leggere, notare, ascoltare. Un aspetto differente, e più interiore, è invece disponibile in varia misura e non sempre a sufficienza: la capacità di capire, analizzare ed elaborare. Di qui la carenza di alcuni lettori e alcuni scrittori, i quali si trovano arricchiti soltanto di strumenti e non di capacità intellettive realmente all’altezza. In questo bipolarismo v’è la complessità della natura di ognuno di noi. Ma se siamo una figura così complessa, nella quale per la prima volta lettore e scrittore coesistono all’interno della stessa entità intelligente, allora non possiamo continuare ad analizzare una parte (quella dello scrittore) come fosse una figura profonda e degna, mentre quell’altra parte (quella del lettore) rimane ferma tra gli archetipi dell’entità passiva. Il lettore (così come il votante) è spesso considerato come unità singola di una grande massa, qualcosa di cui ragionare solo in termini quantitativi e statistici: goccia nel mare, uno tra molti, polvere di big data. Perché questa asimmetria? Si tratta probabilmente anzitutto di una eredità dei decenni passati, quando la cultura mainstream dava sicuramente maggior dignità a chi stava “dall’altra parte dello schermo”: sorridere alla telecamera o sedere in una redazione era questione di potere, mentre oggi è cosa democraticamente disponibile a chiunque abbia accesso a pc, internet e webcam.
Animale e bot. Ed è così che il lettore (così come il votante) spesso è dipinto come una capra che sbatte la testa contro false soluzioni senza essere in grado di identificare i veri problemi; è dipinto come un asino illetterato che non è in grado di capire realtà troppo complesse; è ritratto come una pecora, pronto a seguire la massa quand’anche quest’ultima dovesse andar dritta verso un suicidio di massa. Eccola l’epoca dei populismi e delle fake news, due facce della stessa medaglia (espressioni di una medesima dinamica, ma non certo ricollegati in modo esclusivo): chi vende fake news e chi vende populismi, del resto, sta vendendo una versione della realtà per fini differenti: propagandistici in un caso, di mercato editoriale nell’altro. Populismi e fake news, insomma, mettono a disposizione versioni di realtà ritagliate su indagini quantitative per far sì che qualcuno creda, clicchi e voti. Spesso il discorso termina qui: il lettore/votante è capra, pecora o asino, se non addirittura bot, ma in ogni caso destinato ad agire in preda ad allucinazioni collettive e secondo schemi prestabiliti dalla statistica e dalla sociologia. Le bufale, l'imporsi di improbabili medicine alternative, fake news, ronde per la sicurezza dei quartieri: se fossero fenomeni con una matrice comune?
La dignità del lettore e del votante. «La gente vuole essere continuamente rassicurata che quello che già crede sia vero». Marco Montemagno ha ottimamente riassunto in questa frase una situazione ormai radicata, fotografando alla perfezione quello che è il rapporto odierno tra chi produce l’informazione e chi la fruisce (e ricordiamolo: ognuno di noi siede sia da una parte che dall’altra in funzione delle proprie attitudini, emotività, impulsi). Ma occorre fare un passo oltre e chiedersi “perché”. Perché abbiamo bisogno di essere rassicurati che quello in cui si crede sia vero? Perché siamo disposti a cercare argomenti ovunque, purché possano puntellare le nostre ipotesi? La risposta potrebbe essere al di fuori dei semplici schemi della politica e della comunicazione, ed essere invece molto più inerente a quelli dell’identità e della coscienza di sé.
Le difficoltà del “sé”. Chi sono? Come mi posiziono in questa società? Qual è il mio ruolo? Trattasi di domande che sempre più spesso faticano a trovare una risposta. Succede perché la società è in profondo cambiamento per molti motivi, i ruoli sono mutevoli e la formazione del “sé” si fa così sempre più complessa. La famigerata complessità dei problemi non esenta le persone, le quali si trovano immerse in sconvolgimenti che avvengono a ritmo sempre più rapido, immerse in flussi di informazioni a cui non siamo né abituati, né culturalmente pronti. L’analisi del lettore e del votante porterebbe dunque probabilmente a questo rapporto con la politica e con l’informazione: la persona ha assoluto bisogno di trovare conforto nelle proprie convinzioni, cercando di volta in volta argomenti per consolidarle o candidati per supportarle. Non si può rinunciare al sé (o alla percezione che si ha di sé), soprattutto quando ogni singolo giorno ci sono milioni di utenti pronti a confutare le tue tesi, milioni di statistiche pronte a demolire le tue convinzioni e milioni di occasioni di scontro in cui affogare in una bulimia di argomentazioni. Il sé diventa fondamentale poiché ultima comfort-zone rimasta, pur se sempre più angusta e violentata. L’utente che crede nella bufala, lo fa perché si sta semplicemente difendendo: fa spazio attorno a sé e fa community, cercando rifugio ora in questo ed ora in quel gruppo. Sono i gruppi a definire il sé, non viceversa: sono i luoghi comuni in cui rifugiare temporaneamente la propria identità, costruendola di volta in volta attraverso queste vesti temporanee. La paura porta alla chiusura, il coraggio porta a spogliarsi. La bufala e il meme, il teorema complottistico e i grandi afflati para-rivoluzionari sono la coperta di Linus di cui abbiamo bisogno per sentirci al sicuro, insomma. All’interno di una tempesta, non ci si ferma troppo all’analisi poiché sarebbe deleterio: all’interno dell’attuale tempesta sociale, mettere in discussione le proprie convinzioni (segno inconfutabile di intelligenza) diventa quindi pericoloso e in assenza di basi solide si preferisce la tana che mette rapidamente al sicuro. Qualunque essa sia. Trovare una tesi che conforta offre la stessa sensazione della coperta calda; condividere questa tesi tra i propri amici è un modo per scaldarsi ancora di più e rafforzare la propria posizione in un branco (perché l’uomo è sì animale, ma non capra o asino: è uomo). Il linguaggio è quindi sempre di più atto perlocutorio, poiché automaticamente richiamo all’azione. Lo pretende la struttura stessa dei social network, ove oggi si riversa gran parte delle comunicazioni interpersonali, ove l’interazione è quel che l’elettricità rappresenta per l’energia.
FACEBOOK AIUTERÀ IL GIORNALISMO. Facebook ha lanciato Facebook Journalism Project; trattasi di una nuova iniziativa con cui il social network punta a collaborare di più con gli editori, scrive Filippo Vendrame il 12 gennaio 2017 su Web News. L’altra faccia delle fake news va vista nell’altro lato della comunicazione: ogni messaggio diventa atto compiuto, infatti, quando un emittente lo produce, un canale lo trasporta, un codice lo rende comprensibile e un destinatario lo riceve ed elabora. Ogni azione di filtro sulle fake news agisce cercando di tagliare questa dinamica in modo spartano e spesso sconclusionato, come se dividere i due poli possa bastare e possa essere una soluzione. Il tema è chiaramente complesso, ma ogni filtro può soltanto essere una soluzione temporanea che poco si allontana (se non altro in termini di principio) nella chiusura delle frontiere per salvarsi dal nemico che viene da lontano. La presidente della Camera prosegue il suo itinerario contro bufale ed hate speech: ma ad un attento debunking è il suo approccio a non reggere.
Verso una soluzione. Per risolvere il problema dell’informazione (e della politica) inquinata dalle fake news occorre lavorare invece sui due poli. Su chi produce, anzitutto, affinché non abbia interesse alcuno a veicolare informazioni errate, falsificate o falsificanti: le fake news debbono diventare un meccanismo che non goda di alcun incentivo. Su chi fruisce, affinché possa avere strumenti e capacità di elaborare tali da poter autonomamente capire quali siano le fonti valide, quale sia l’autorevolezza e quale sia la notizia affidabile rispetto a quella che non lo è: maggiori capacità analitiche diffuse, insomma, riscrivendo autonomamente la mappa delle fonti e della fiducia. Occorre tornare a considerare la persona in quanto tale. Recuperando gentilezza e rispetto, anzitutto: senza considerarla esclusivamente come parte di un tutto (nozione valida per il mainstream, forse, ma non certo per tutto quel che sta per arrivare), senza pensare di tirarla per la giacchetta ogni singolo giorno, senza violentarne le convinzioni solo per cavalcarne le debolezze. Non si tratta di produrre leggi o normative ad hoc, ma di riscrivere la netiquette e l’educazione: si tratta di agire ad un livello più sottile e interpersonale, perché è di persone che si sta parlando. Dobbiamo (noi, le metà scriventi del “sé”) tracciare un nuovo perimetro dell’educazione, poiché le condizioni sono cambiate e perché, convivendo scrittori e lettori nella stessa persona, rispettare il lettore significa sostanzialmente rispettare sé stessi. Populismi e fake news sono soltanto il rumore che c’è nella tempesta: riportiamo le persone alla luce del sole, facciamole sentire al sicuro, spieghiamo loro qual è la strada per uscirne ed evitiamo che rimangano rintanate con le loro coperte di Linus da condividere a colpi di punti esclamativi. C’è molto da fare, ma c’è molto da guadagnarci: come ogni tempesta, sarà tanto violenta quanto rapida. Ma già per la prossima generazione le “fake news” saranno la sfumatura medioevale che ha dato colore e olezzo alla nostra epoca di debuttanti della postmodernità.
Alessandro Sallusti: I veri dittatori sono gli Zuckerberg, scrive il 31 Gennaio 2017 “Libero Quotidiano”. "In prima fila a guidare, e finanziare, la protesta contro Trump dittatore ci sono alcuni dei miliardari padroni del nuovo mondo, che non è più l'America ma è quello virtuale di Facebook, Twitter, Google e compagnia". Mark Zuckerberg, fondatore di Facebook, attacca Alessandro Sallusti nel suo editoriale sul Giornale, è il vero dittatore: "Non è soltanto uno dei primi uomini più ricchi al mondo, è anche il presidente del più grande Stato del mondo, se per Stato intendiamo una comunità che condivide le stesse regole". Basti pensare, continua Sallusti, che Facebook ha un miliardo e seicento milioni di iscritti, "più degli abitanti della Cina". Facebook "non è una democrazia ma una dittatura. Tutto il potere è in mano al padrone che detta a suo piacimento regole e condizioni, decide senza possibilità di appello che cosa i suoi cittadini possono dire (postare) e cosa invece provoca la loro immediata sospensione o espulsione, entra nelle loro vite con metodi subdoli senza alcuna garanzia di riservatezza come fanno gli spioni. La Costituzione di questi Stati è composta di soli due articoli: il primo è fare più soldi possibile per il capo, il secondo è pagare meno tasse possibile usando tutti i trucchi già noti ai furbetti e al malaffare, tipo le sedi legali in paradisi fiscali". Conclude Sallusti: "Una politica più protezionista, e quindi più rigorosa in tutti i campi, non va a discapito dei cittadini ma dei miliardari".
Ora l'opinione pubblica assolve la Fallaci. Le critiche all'islam non sono un reato. In un teatro milanese verdetto favorevole alle denunce della giornalista, scrive Matteo Sacchi, Mercoledì 01/02/2017, su "Il Giornale". Una sala piena, in cui il pubblico, tra cui moltissimi studenti, si assume il compito, mai facile, del giurato. Sul palco un vero pubblico ministero e dei veri avvocati. Lo scopo? Fare un processo a Oriana Fallaci (1929-2006), così come in precedenti «sessioni di giudizio» è stato fatto a Garibaldi o Lucrezia Borgia. È quello che successo lunedì sera al teatro Carcano di Milano. Ovviamente si trattava di un «gioco» ovvero di uno degli spettacoli del format Personaggi e Protagonisti: incontri con la Storia® Colpevole o Innocente? (a cura di Elisa Greco). Però un gioco fatto bene e che obbliga il pubblico a dire la sua su temi complicati e dibattuti. E un gioco dove non si va tanto per il sottile. L'accusa per il personaggio storico è sempre da codice penale. Quella che ha presentato Luca Poniz (Vicepresidente dell'Associazione Nazionale Magistrati e sostituto procuratore della Repubblica del Tribunale di Milano) in un tribunale vero era da far tremare i polsi a chiunque: «imputata del reato p. e p. dagli artt. 81 2co c.p., 1 lett. A della L. 25/6/1993 n. 205 perché... con articoli pubblicati in periodici nazionali e saggi, caratterizzati da toni violenti e linguaggio irridente e provocatorio, diffondeva idee fondate sull'odio razziale o etnico, nonché incitava a commettere atti di discriminazione...». Non bastasse ancora: «imputata del delitto p. e p. dagli artt. 81 1 ' co. c.p.. 403 1' co. C.p., perché, con le condotte descritte nel precedente capo d'imputazione, ed in esecuzione del medesimo disegno criminoso, pubblicamente offendeva la confessione religiosa musulmana...». Insomma Oriana messa sotto accusa per le idee espresse a partire da i suoi articoli sul Corriere dopo l'11 settembre 2001. Articoli e libri a seguire come La rabbia e l'orgoglio, che per molti sono stati un disperato tentativo di svegliare l'Occidente dal suo torpore verso i pericoli provenienti dal mondo islamico e per altri sono stati una lesa maestà del politicamente corretto. A difendere la Fallaci ci ha pensato l'avvocato Laura Cossar che, esattamente come l'accusa, ha portato i suoi testimoni. Tra cui il giornalista Alessandro Cannavò che Oriana conobbe bene, proprio subito dopo l'attacco alle Torri. Ne è seguito un duello verbale tutto giocato sulla libertà di opinione. Un duello che non poteva non tener conto di quanto Oriana diceva già 15 anni fa e di quello che il terrorismo ha poi, messo sotto gli occhi di tutti. Alla fine la «giuria» non ha avuto dubbi. Assoluzione: 556 voti a favore, 230 contrari e 127 astenuti. Insomma un pubblico di persone normali, tra gli studenti anche ragazzine col velo, nel 2017 non ha grossi dubbi sul valore profetico degli articoli e dei libri di Fallaci. Non basterà certo un processo teatrale a spegnere il coro dei detrattori di Oriana. Ma il voto del pubblico del teatro Carcano forse le avrebbe fatto piacere. Del resto diceva: «Sapere che voi fate quello che fate, pensare che voi sarete qui quando io non ci sarò più, mi aiuta parecchio a esercitare quel dovere contro il nemico».
Errori e ipocrisie della guerra in Siria spiegati da una oppositrice di Assad. I legami fra ribelli e islamismo, la cecità dell'Europa, il ruolo della Turchia, scrive Gian Micalessin, Giovedì 2/02/2017, su "Il Giornale". Comprendere il caos siriano è innanzitutto una promessa ben esaudita. Il libro di Randa Kassis e Alexandre Del Valle (D'Ettoris Editore, pagg. 392, euro 22,90) chiarisce molti dei dubbi che assillano persino gli osservatori più attenti di un conflitto in cui si sono consumate, dal 2011 a oggi, trecentomila vite. Leggendo il libro tornano alla mente le parole di tanti sunniti e cristiani incontrati a Damasco o davanti ai pozzi di Aleppo rimasti in funzione nei mesi più duri della guerra. Sunniti e cristiani che - pur prendendo le distanze da Bashar Assad, pur denunciando gli errori di un regime incapace di riformarsi - lo definivano il male minore, la diga tra gli orrori dell'internazionale jihadista e la tradizione laica della loro Siria. La Siria in cui erano convissuti con gli alawiti e dove il fanatismo non aveva spazio. Questo ci raccontano, in pagine ricche di dettagliati riferimenti storici e approfondimenti politici e sociali, anche la giornalista siriana Randa Kassis e Alexander Del Valle, politologo francese con radici italiane e siciliane. Il ruolo della Kassis, espulsa dai vertici del Cns (Consiglio Nazionale Siriano, l'organizzazione dell'opposizione fondata in Turchia nel 2011) non appena ne denunciò la deriva islamista, è particolarmente preziosa. Sia lei, sia Del Valle si guardano bene dal cadere nella retorica di quella narrazione imperante e spudoratamente impenitente nel descrivere lo scontro siriano come la contrapposizione tra una schiera di ribelli democratici e moderati minacciati dalla dittatura di Assad e dall'oscurantismo dello Stato Islamico. «A partire dal 2013 chiariscono gli autori - le legioni salafite jihadiste (...) hanno soppiantato le forze islamiche sunnite più moderate. Si può citare in particolare il Fronte Al Nusra strettamente legato ad Al-Qaeda in Iraq il quale ha giurato fedeltà al capo mondiale di Al Qaeda Ayman Al Zawahiri. Più recentemente i folgoranti successi militari delle truppe dello Stato Islamico (Isis) hanno dimostrato che l'opposizione islamista al regime siriano è sempre più incontrollabile e infrequentabile». Altrettanto significativa è la denuncia della cecità «prevalsa nelle strategie utilizzate dagli occidentali quando a partire dal 2012, il manicheismo islamicamente corretto e il compromesso con le monarchie del Golfo e con la Turchia neo-ottomana del sultano Erdogan hanno dettato ai nostri responsabili politici e intellettuali la scelta di sostenere gli unici ribelli islamisti sunniti prossimi ai Fratelli Musulmani in Qatar, Turchia e in Arabia Saudita a scapito delle forze d'opposizione più laiche e meno oltranziste accusate di fare il gioco del regime baathista siriano». E su un Occidente pronto a scegliersi come alleati i propri nemici ricade - per gli autori - anche la colpa di aver sponsorizzato colloqui di pace inconcludenti, rendendosi indirettamente responsabile della continuazione del massacro. «Tra il 2011 e il settembre 2015 la maggioranza dei governi occidentali ha in effetti escluso Mosca, Teheran e Damasco dai negoziati. Ciò ha creato un autentico squilibrio dato che le petromonarchie del golfo e i padrini wahabiti delle peggiori brigate jihadiste avevano invece voce in capitolo ed erano ascoltati, come anche la Turchia, membro importante della Nato che ha sostenuto Daesh e la maggior parte dei movimenti islamisti sunniti siriani». Kassis e Del Valle non abbassano la voce neppure quando questi errori diventano lo spunto per analizzare debolezze e vacuità d'una classe politica e intellettuale europea incapace, a differenza del cittadino, di riconoscere la violenza islamista e di contrapporsi ad essa. «Oggi giorno i cittadini traumatizzati dalla gratuità e dalla barbarie dei massacri del mercato di Berlino, del Bataclan o di Bruxelles, e poi anche di Istanbul, fanno sempre più fatica a negare che i terroristi islamici della Siria, dell'Iraq o della Francia non uccidono i miscredenti perché hanno fatto loro del male, ma proprio in quanto miscredenti in quanto infedeli da abbattere e sottomettere (...) il tutto con un fine di conquista dominazione e sottomissione totale del pianeta». E se a far piazza pulita di quelle accuse di islamofobia usate per tacitare chiunque non si pieghi all'islamismo sono Del Valle e una siriana avversaria di Bashar Assad, allora, dopo aver capito, resta molto su cui riflettere e meditare.
L'Italia accoglie i clandestini e caccia i cristiani: così il Paese si sta suicidando, scrive di Tommaso Montesano l’1 febbraio 2017 su “Libero Quotidiano”. Vorrà dire che anche un operaio ucraino si imbarcherà in Libia, visto che l’unico modo per entrare in Italia è farlo illegalmente. Paradossi delle politiche sull’immigrazione: da una parte l’Italia, e l’Unione europea, accusano Donald Trump di discriminazione per il bando anti-islam; dall’altra Roma, e quindi Bruxelles, ormai da anni fanno altrettanto ai danni di chi musulmano e africano non è. Come gli ucraini, appunto, ma anche i moldavi, i filippini e i peruviani, tradizionali bacini etnici dove pescare domestici e badanti. Tutti bloccati dal «decreto flussi» del governo, che di fatto ha azzerato l’immigrazione legale, regolata dalle quote che ogni anno il ministero dell’Interno, di concerto con il ministero del Lavoro, assegna per tipologie di ingressi (etnie e categorie professionali), a tutto vantaggio degli arrivi irregolari. Il Testo unico sull’immigrazione del 1998 prevede che il Viminale, ogni dodici mesi, elabori la tabella con gli ingressi consentiti sul territorio nazionale. Si tratta di uno strumento non solo per governare il flusso migratorio, aprendo le porte solo alle persone di cui effettivamente c’è bisogno - dal punto di vista lavorativo - ma anche per rafforzare i rapporti bilaterali con i Paesi di provenienza dei migranti, conditio sine qua non per rendere effettivi i rimpatri degli irregolari. Peccato che da almeno due anni questo strumento per favorire l’immigrazione a basso impatto sociale - per la maggior parte rivolta a cittadini dell’Est e a lavoratori di religione cristiana del Sudamerica - sia sostanzialmente fermo. Il «decreto flussi» per il 2017, che sarà emanato a breve, non dovrebbe discostarsi da quello varato per il 2016. Dovrebbero essere circa 30mila i lavoratori extra-Ue cui l’Italia aprirà le porte legalmente. Nel 2016 erano stati 30.850. In questo numero, però, sono comprese sia le conversioni, «in permessi di soggiorno per lavoro subordinato e per lavoro autonomo, di permessi di soggiorno rilasciati ad altro titolo», sia le ammissioni «per motivi di lavoro subordinato stagionale». Quest’ultima voce, secondo le prime bozze del decreto per il 2017, dovrebbe assorbire circa 17mila ingressi previsti per il nuovo anno. Per tutti gli altri a caccia di un permesso di soggiorno non stagionale, i posti a disposizione dovrebbero essere, nella migliore delle ipotesi, un migliaio. Tutto questo mentre l’immigrazione senza regole, di origine musulmana, continua: a ieri erano già 4.504 gli stranieri sbarcati sulle nostre coste dall’inizio dell’anno. Numeri di poco inferiori a quelli registrati, nello stesso periodo, nel 2016 (5.273), quando alla fine furono 181.436 i richiedenti asilo entrati in Italia. Il numero più alto mai registrato. Insomma, per chi non proviene da Africa e Medio Oriente entrare in Italia per lavorare in pianta stabile nel nostro Paese sarà praticamente impossibile. A meno di non varcare i confini nazionali, ecco il paradosso, attraversando il Mediterraneo grazie agli scafisti. «Una persona che vuole entrare rispettando le regole non può entrare. Questa gestione del fenomeno è tutta sbagliata. I più arrabbiati di tutti sono i migranti regolari», attacca Giorgia Meloni, presidente di Fratelli d’Italia. Dorota Shkurashivska, presidente dell’associazione Azazello, un’associazione di stranieri dell’est Europa, soprattutto ucraini, residenti in Italia, conferma: «L’Italia respinge gli europei ucraini, moldavi, bielorussi e gli altri cristiani del Sudamerica o delle Filippine, ma in compenso accoglie a braccia aperte africani e musulmani che arrivano tramite la Libia». Altro che Trump. «Da anni l’Italia e la Ue favoriscono l’immigrazione africana e musulmana a scapito degli immigrati che provengono dal resto del mondo. Questa non si chiama discriminazione etnica e religiosa?», si chiede la donna. Oltretutto in Ucraina, notizia di ieri, continua l’offensiva russa nel Donbass. Il ministero degli Esteri di Kiev ha denunciato l’uso, da parte di Mosca, di armi vietate dagli accordi internazionali. «E questa non sarebbe guerra? Va finire che i miei connazionali non avranno altra scelta che quella di provare a entrare irregolarmente». Per Dorota Shkurashivska l’immobilismo sul fronte dei flussi ha una spiegazione semplice: «Tutta l’immigrazione viene assorbita da chi sbarca illegalmente in Italia».
Vittorio Feltri su “Libero Quotidiano” il 29 gennaio 2017: onore a Trump, pensa al suo Paese e ci indica la via. Non aveva ancora finito di annunciare i nuovi provvedimenti e già erano scattate le feroci critiche dei suoi stolti detrattori, numerosi sia in patria sia a livello internazionale. Qualunque cosa decida di fare, Trump è travolto da polemiche pretestuose, ispirate a pregiudizio. Ma il presidente per fortuna dà l'impressione di infischiarsene bellamente delle voci stridule che lo insultano e va avanti imperterrito per la propria strada, lungo la quale gli elettori non gli risparmiano applausi. Onore all' uomo che dimostra di essere coerente tra quello che diceva durante la campagna elettorale e quello che mette in pratica, iniziative coraggiose e di buon senso. Mi riferisco in particolare al blocco per alcuni mesi delle immigrazioni dai Paesi islamici, dai quali partono migliaia di persone dalla reputazione dubbia, gente che non offre garanzie di comportarsi nel Paese ospitante secondo regole democratiche. Nella massa di islamici provenienti dal Medioriente, come abbiamo verificato anche in Europa, c' è di tutto, terroristi compresi che mirano a sovvertire l'ordine costituito piegandolo ai precetti religiosi del Corano, in omaggio al quale è lecito violare ogni codice penale occidentale. In altri termini, la civiltà musulmana non è compatibile con quella cristiana. Ecco perché Trump, superando le teorie dell'accoglienza cieca in voga tra i progressisti di mezzo mondo, ha imposto la chiusura momentanea delle frontiere a chiunque non sia in linea con le leggi statunitensi, precisando che la precedenza vada ai cristiani, la cui cultura non è in attrito con quella statunitense. Il discorso di Donald è condiviso da una moltitudine anche di europei alle prese con una immigrazione incontrollata che ha prodotto guai seri, tra i quali attentati sanguinosi e seriali. A mali estremi, estremi rimedi. Non c' è alternativa. E Trump, uomo concreto e abituato a risolvere i problemi e poco incline a perdere tempo in discussioni oziose, non ha esitato a vietare l'ingresso negli Usa a coloro che per motivi ideologici minacciano la convivenza pacifica dei cittadini americani. È un provvedimento radicale ma saggio, l'unico in grado di limitare il pericolo di sopraffazioni e di scontri sanguinosi. Opporvisi con argomenti fumosi, astratti e di tipo pseudo etico è una fuga dalla realtà destinata a produrre una catastrofe, già in atto, per altro. Nel ribadire di essere pienamente d'accordo con la politica terra terra di Trump tesa a difendere gli interessi nazionali, ci auguriamo che, esaurito l'effetto scandalo alimentato dai cretinetti di sinistra, anche l'Italia la adotti a costo di mandare al diavolo l' Europa e le sue disposizioni che tanti disastri ci ha «regalato». Due parole merita anche la disputa sul muro che separa gli Usa dal Messico. Un muro che fu ideato e in parte costruito dalla amministrazione Clinton, portato avanti da Bush e perfino da Obama. Che male c' è se Trump prosegue nell' opera? La questione dei muri è addirittura ridicola. Nessuno si domanda perché da certi Paesi la gente scappa e non c' è anima che si preoccupi di intervenire affinché ciò non accada. Ma tutti, o quasi, se la prendono con chi si tutela contro le invasioni barbariche che un tempo si combattevano con le armi e che oggi invece si incentivano con l'accoglienza a spese dei contribuenti.
Chi cerca l'uomo forte non vuole autoritarismo ma autorità. L'Uomo Forte, che ottiene tanti consensi fra gli italiani, non è un nuovo Mussolini. Un Duce. Non manifesta una richiesta di "autoritarismo". Piuttosto: di "autorità, scrive il 2 febbraio 2017 Ilvo Diamanti su “La Repubblica”. Ha sollevato dibattito e qualche polemica la Mappa pubblicata, nei giorni scorsi, dove ho segnalato quanto sia diffusa, fra i cittadini, la domanda di un "Uomo Forte". D'altronde, da oltre 10 anni (per la precisione: dal 2004), i sondaggi dell'Osservatorio Demos ricostruiscono la tendenza di questo orientamento. Che è sempre apparso molto ampio. Ma, fino ad oggi, o meglio: fino a ieri (novembre 2016), non aveva mai raggiunto una misura tanto estesa: 8 italiani su 10. Otto su dieci significa, praticamente, (quasi) tutti i cittadini. Come (e forse più che) nelle precedenti occasioni, i dati del sondaggio hanno suscitato reazioni accese. Sono, infatti, stati considerati un segnale inquietante, che richiamerebbe una minaccia "autoritaria". Alcuni hanno evocato perfino Mussolini. In Italia, d'altronde, l'esperienza del ventennio non è così lontana. E pesa ancora nella memoria nazionale. Forse più della resistenza. Eppure, come (e forse più che) nelle precedenti occasioni, occorre essere chiari. L'Uomo Forte, che ottiene tanti consensi fra gli italiani, non è un nuovo Mussolini. Un Duce. Non manifesta una richiesta di "autoritarismo". Piuttosto: di "autorità". Cioè: di una leadership dotata di legittimità. Questa domanda, nel corso degli anni, si è progressivamente "personalizzata". Indirizzata sulle persone. Perché i partiti e le associazioni di rappresentanza hanno perduto i legami con la società. Mentre le istituzioni di governo - locale, centrale, e ancor più, europee - sono apparse sempre più lontane. "Ai" e "dai" cittadini. Burocrazie anonime. Distanti e indistinte. Così, fra i cittadini è cresciuto il distacco dalla dimensione pubblica. Al "senso civico" è subentrato il "senso cinico". Mentre - per citare Bauman - si è diffusa "la solitudine del cittadino globale". Così, la prospettiva di "un Uomo Forte al governo" è divenuta tanto "popolare". Che non significa "populista". Ma lo può diventare, se non trova risposta nei partiti. Nelle istituzioni democratiche, nelle organizzazioni di rappresentanza politica e sociale. Se i cittadini restano soli. Davanti agli schermi. E dialogano, interagiscono e reagiscono con il mondo soprattutto attraverso la rete. Mediante i PC, i tablet e, soprattutto, gli smartphone. Basta guardarsi intorno, nei luoghi pubblici, per trovarsi circondati da persone che camminano oppure stanno ferme, ma con gli occhi fissi sullo smartphone. Mentre le dita battono sui tasti. Una "folla solitaria" (per echeggiare il noto saggio di David Riesman, pubblicato nel 1950). "Affollata" di persone che sono sempre in comunicazione con gli altri, con il mondo. Ma sono sempre sole. Meglio non stupirsi, allora, se cresce la domanda di un Uomo Forte. "Autorevole" non "autoritario". Un "leader", non un "dittatore". Questa società è allergica ai vincoli e alle regole. Figurarsi se accetterebbe figure troppo "forti". Basta vedere che fine ha fatto Silvio Berlusconi. Le difficoltà che incontra Matteo Renzi. La "forza" del leader sta nella capacità di dare volto e voce ai cittadini. In cerca di valori, ma anche di persone in cui riconoscersi. Per non sentirsi deboli. E disorientati.
Trump e il mondo capovolto dove la sinistra tradì il popolo, scrive Tommaso Cerno il 30 gennaio 2017 su “L’Espresso”. La crisi della politica non si cura puntando il dito contro chi vince. E se il Pd darà l’impressione di prendere tempo, perderà più voti. Guardando le immagini di Rigopiano, e del dramma dell’Abruzzo, così come prima di Amatrice, mi domandavo perché proprio quando l’Italia si sente popolo, unita nel dramma della morte, nella gioia di chi è salvo, nell’inquietudine della terra che continua a tremare senza che tu possa fare nulla, si parli invece di “popolazioni”. Le popolazioni colpite, si dice. Quasi a prendere le distanze. Non è soltanto una leziosità linguistica, è la maniacale esigenza che abbiamo noi occidentali di classificare ogni cosa, giusto e sbagliato, vincitori e vinti, come se conoscere l’entomologia ti mettesse al riparo dalla puntura degli insetti. Che c’entra questo con Trump e la globalizzazione? C’entra. È per questo stesso meccanismo interiore che il piccolo mondo di porcellana che abbiamo disegnato in copertina, frantumato da un colpo di martello, un martello che simboleggia la “T” di Trump, ci spaventa così tanto. Non perché sappiamo cosa succederà, ma perché non siamo in grado di classificarlo. Sappiamo che quei cocci disordinati - comunque vada - non torneranno più nella loro posizione originale. E ci rifiutiamo di guardare. Cerchiamo giustificazioni. Capri espiatori. A qualcosa che se ha un responsabile, quel responsabile è proprio l’occidente. La sua incrollabile sicumera. Così abbiamo provato a disegnare davvero il mondo nuovo, spostando stati e continenti dalla loro geografia naturale, seguendo la deriva che ha portato prima alla Brexit, poi al trionfo delle destre, fino alla vittoria del magnate americano, per provare a farli corrispondere alla nuova collocazione politica. L’effetto che si crea è straniante: ci troviamo materialmente di fronte a un pianeta che non abbiamo mai visto. Eppure è quello di prima. Se fai lo stesso gioco con le parole, provi cioè a riscrivere il dizionario dell’era post-Trump, ti rendi conto che le frasi che abbiamo pronunciato mille volte, pur restando le stesse, mutano di significato. Ma ciò che più colpisce, come racconta con penna cruda e provocatoria il filosofo francese Michel Onfray nel suo j’accuse contro la politica e le sue colpe, è che la parola che davvero ha cambiato natura, ambizioni, aspirazioni è quella su cui tutto ebbe inizio: democrazia, il “governo del popolo” che diventa il “governo nonostante il popolo”. Problema che destruttura innanzitutto la sinistra. È la stessa sensazione che proviamo anche in Europa. L’idea che ciò che abbiamo costruito nei decenni sia diventato fragile, instabile, sia destinato a mutare, a rivoltarsi contro i suoi ideatori. E invece che guardarlo bene in faccia, ci viene la naturale tentazione di rinviare quel momento, di scongiurarlo, di classificarlo come “estraneo” alla vita democratica. Ecco perché il momento è cruciale anche in Italia. Dove Ilvo Diamanti ci dice che otto cittadini su dieci vogliono l’uomo forte, ma dove al tempo stesso la prassi democratica ci allontana dal voto. All’apparenza un bene, soprattutto per chi come il Pd è in crisi profonda non tanto di voti quanto di anima, visione, futuro. Ma alla lunga diventerà un rischio enorme. Quello di sottovalutare ancora una volta ciò che succede là fuori, concentrati come siamo sulle virgole della sentenza della Consulta, sui dettagli di una legge elettorale che sarà scritta per i partiti e non per i cittadini, e che ci mostrerà di nuovo come troppo spesso nelle tecnicità in cui si articola la prassi democratica la parola popolo è diventata un estraneo. Al contrario è in “nome del popolo” che ogni dispositivo al servizio della democrazia (la legge elettorale in primis) dovrebbe funzionare. La mediazione fa già di per sé perdere all’idea di “sovranità popolare”, di rappresentanza e rappresentatività, dei pezzi, ogni volta che la volontà teorica deve essere “attuata” attraverso le elezioni. Ma se stavolta non sapremo spiegare molto bene ciò che stiamo facendo, rischiamo che il popolo abbia di nuovo l’impressione che la sua voce venga filtrata, interpretata, tradita attraverso la procedura. Generando una reazione contraria. Quella che, a volte travisandone il senso, molti chiamano “populismo” e pretendono che muoia da solo. Come se un medico, fatta la diagnosi, stesse fermo a guardare il paziente. Citando i libroni della medicina.
Trump seleziona gli stranieri No a chi pesa sui contribuenti. In arrivo un provvedimento per ostacolare l'ingresso o agevolare la partenza degli immigrati più bisognosi, scrive Valeria Robecco, Giovedì 2/02/2017, su "Il Giornale". Donald Trump prosegue sul binario dell'immigrazione selettiva e lavora ad un provvedimento che mira a ridurre l'ingresso o ad agevolare l'uscita di quegli stranieri che potrebbero pesare sul welfare in maniera particolarmente pronunciata. La nuova amministrazione starebbe infatti considerando altri due ordini esecutivi, di cui il Washington Post ha ottenuto le bozze: il primo è appunto per eliminare gli aspiranti immigrati che presumibilmente chiederebbero l'assistenza pubblica e di allontanare, quando possibile, quelli che già vivono negli Stati Uniti e dipendono da aiuti a carico dei contribuenti. Ad esempio persone che hanno ricevuto un certo numero di buoni pasto, aiuti temporanei per famiglie bisognose o prestazioni attraverso il Medicaid (il programma che si occupa di fornire assistenza sanitaria ad adulti e bambini in nuclei a basso reddito). Un secondo piano, invece, punta ad una ristrutturazione radicale del sistema attraverso cui gli Usa gestiscono i visti per gli stranieri, con l'obiettivo di rafforzare i controlli su chi entra nel Paese e su chi può fare parte della forza lavoro, riducendo gli oneri sociali a carico dei cittadini americani. Non è chiaro se o quando Trump potrebbe firmare questi provvedimenti, ma se verranno approvati limiteranno in modo significativo immigrazione e viaggi verso gli Stati Uniti, ampliando la stretta già effettuata con il bando temporaneo a rifugiati e persone provenienti da sette paesi a maggioranza islamica. Mentre la mossa della settimana scorsa è focalizzata sulla sicurezza nazionale e sulla prevenzione del terrorismo, i nuovi piani portano avanti la promessa del tycoon di proteggere i lavoratori americani e creare posti di lavoro, riducendo il flusso di stranieri che cercano un impiego negli Stati Uniti. Peraltro, già nel 1996, l'allora presidente democratico Bill Clinton aveva firmato una legge, conosciuta come «riforma del welfare», che limitava fortemente tutti gli accessi degli immigrati all'assistenza pubblica. La norma stabiliva che ai clandestini era precluso quasi del tutto il programma federale per i poveri, mentre gli immigrati regolari dovevano vivere negli Usa per almeno cinque anni prima di poter far ricorso a numerose forme di prestazioni sociali, e garantiva raramente l'accesso alla previdenza sociale. L'amministrazione Trump, da parte sua, ha già accusato gli stranieri che ricevono prestazioni sociali da Washington di bruciare risorse federali, affermando inoltre che chi lavora nel Paese contribuisce alla disoccupazione tra i cittadini americani. «I nuclei con un capofamiglia straniero hanno molte più probabilità di utilizzare risorse pubbliche», si afferma in uno dei due decreti, che si occupa proprio di «protezione delle risorse dei contribuenti». Mentre il secondo valuta come rendere il programma immigrati «più basato sul merito», oltre a combattere il fenomeno del «turismo delle nascite», ossia degli stranieri che arrivano negli Usa appositamente per far nascere un figlio, che diventa così automaticamente cittadino. Intanto, da un sondaggio di Reuters/Ipsos emerge che la stretta sull'immigrazione di Trump piace ad un americano su due: il 49% degli intervistati è d'accordo con il bando temporaneo del presidente, mentre il 41% è contrario. Inoltre, il 31% pensa che ora sarà «più sicuro», mentre il 33% ritiene che non ci sarà alcuna differenza. E secondo il New York Times sono molte di più di quanto inizialmente affermato le persone bloccate negli aeroporti dall'ordine esecutivo di The Donald: la Casa Bianca aveva parlato di 109 soggetti arrestati o fermati mentre il quotidiano, facendo riferimento ai dati diffusi da funzionari del Dipartimento per la sicurezza interna, parla di 721 individui.
Trump vs Messico: nuovo round? Secondo i media Usa il presidente Usa avrebbe minacciato l'invio di truppe contro i "bad hombres", ma il governo messicano smentisce. E con l'Australia...scrive il 2 febbraio 2017 Panorama. Il governo messicano smentisce le indiscrezioni di stampa sul fatto che il presidente Donald Trump avrbbe minacciato l'invio di truppe al confine per combattere i "bad hombres", gli uomini cattivi, presumibilmente riferendosi ai cartelli della droga. L'avvertimento sarebbe stato al centro di un telefonata tra Trump e il presidente messicano, Enrique Pena Nieto, che ha invece descritto come "costruttivo" il colloquio. "Avete un sacco di uomini cattivi laggiù. Non state facendo abbastanza per fermarli. Penso che i vostri militari siano spaventati. I nostri non lo sono e quindi potrei inviarli per occuparsene", avrebbe detto Trump a Pena Nieto, secondo quanto riportano i media Usa. "E' "un'assoluta falsita'" fatta "con un'evidente cattiva intenzione" è stata la replica via Twitter del ministero degli Esteri di Città del Messico. Il Messico ha catturato diversi signori della droga, anche estradandoli negli Stati Uniti, come il noto narcotrafficante Joaquin "El Chapo" Guzman che in America rischia la pena di morte.
Scintille al telefono tra il presidente Donald Trump e il primo ministro australiano, Malcom Turnbull, sui rifugiati. Stando a quanto riporta il Washington Post, Trump ha accusato il leader alleato di voler esportare negli Usa "il prossimo attentatore di Boston", e ha definito la telefonata "la peggiore fino a questo momento", tagliando corto in 25 minuti quando era stata organizzata una conversazione di un'ora. Turnbull, che ha preferito non commentare l'indiscrezione indicando l'importanza di un colloquio "privato", oltre che "candido e franco", avrebbe detto di aspettarsi dagli Usa il rispetto dell'accorso siglato con l'amministrazione di Barack Obama sull'accoglienza in America di 1.250 rifugiati al momento detenuti nelle carceri australiane. "E' la peggiore intesa di sempre", avrebbe attaccato Trump. L'accordo riguarderebbe anche rifugiati provenienti dai sette Paesi a maggioranza islamica oggetto del bando deciso da Trump. Fonti diplomatiche riferiscono che a dispetto dell'ostile colloquio, l'accordo con il governo australiano per il momento resta in piedi.
Nicola Arici scrive: "Fanno passare Trump per un pazzo razzista ma ieri leggevo che da molti anni in 16 stati del medio oriente è proibito l'accesso agli israeliani e in Canada non accedi se prima non dimostri di essere in perfetta salute e di avere un contratto di lavoro e una casa dove stare...penso accada così anche in Australia...Altrimenti ti danno un visto provvisorio a breve scadenza e controllano bene che quando è scaduto tu te ne torni da dove sei venuto. Diciamo pure che i più coglioni in tema di immigrazione siamo noi europei. Stiamo vedendo i BEI risultati e "quanto ci Amano" i nostri invasori."
Airport Security. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Airport Security è un programma televisivo australiano che racconta l'attività degli agenti della dogana aeroportuale australiana contro l'immigrazione clandestina, il narcotraffico, gli atti terroristici e la diffusione di pericolose epidemie esotiche. Avuto riguardo a quest'ultimo aspetto viene evidenziata l'attività degli operatori del servizio postale che, prima dei doganieri, effettuano un'ispezione dei pacchi che provengono dall'estero tramite dei dispositivi elettronici. La maggior parte degli episodi è ambientata negli aeroporti di Sydney, Melbourne e Brisbane, e in misura minore anche porti, fiere, e luoghi di lavoro suscettibili di verifiche da parte degli organi preposti. Esiste una versione canadese del programma denominata Airport Security Canada, una neozelandese denominata Airport Security New Zeland, e dal 2016 anche Control de fronteras España dello stesso filone, tutti trasmessi in Italia da DMAX.
Airport Security Canada è un programma televisivo canadese, adattamento dell'omonimo format australiano, trasmesso in Italia da DMAX. Racconta l'attività degli agenti della dogana aeroportuale canadese contro l'immigrazione clandestina, il narcotraffico, gli atti terroristici e la diffusione di parassiti e malattie esotiche. La maggior parte degli episodi sono ambientati nell'Aeroporto Internazionale di Vancouver.
Grazie ad Airport Security io non andrò mai in Australia (né in Canada), scrive il 15 maggio 2013 Mason K. Tortino. Dire che certamente non farò una cosa nella vita è una cosa in se molto triste, perché non si dovrebbe mai dare per scontato qualcosa tuttavia…io in Australia (ed in Canada) non ci andrò mai per davvero. Non so se vi è mai capitato di guardare su DMAX o su qualche canale di Sky, Airport Security, quel programma televisivo australiano che fondamentalmente racconta delle vicissitudini degli agenti doganali degli aeroporti australiani (e canadesi). Bene, se non l’avete visto dovreste al più presto rimediare visto che è fighissimo, anche se a me mette una fottuta ansia. La maggior parte delle puntate sono ambientate negli aeroporti di Sidney Melbourne e Brisbane ed in ogni puntata gli agenti sono alle prese con le più improbabili storie che vanno da l’immigrazione clandestina al trasporto di ingenti somme di denaro dal narcotraffico all’importazione di prodotti che sistematicamente potrebbero distruggere l’ambiente e al gran lavoro che i servizi di sicurezza australiani svolgono ogni volta affinché il loro paese resti sicuro ed immacolato dai cattivoni che vogliono andarla a conquistare. Le puntate che preferisco sono indubbiamente quelle dove ci sono i cinesi o i malesi, non perché io sia un loro fan spassionato, ma perché Airport Security, fa passare il cliché del cinese che fa il finto tonto sempre e non riesce mai ad aggirare il sistema, insomma…una sorta di napoletano scemo che non capisce mai quello che gli si chiede e che nega anche di fronte all’evidenza. Ci sono ad ogni modo tante situazioni che lasciano perplessi, tipo quando i doganieri si fissano nel fare controlli approfonditi agli ispanici che una volta su due trasportano la droga nelle suole delle ciabatte (?) oppure (ma molto meno frequente) sotto forma di ovuli che han ingerito precedentemente o le giovani ragazze bionde che sono sistematicamente sempre ubriache fradice e che trasportano sempre frutta tostata (che non comporta ammenda pecuniaria ma solo un “ammonimento”). Insomma il programma è bello perché appunto ti fa vivere con apprensione la puntata ma la maleducazione e l’arroganza con la quale i doganieri trovano la droga occultata, lo rende un po’ troppo forzato e lo discosta troppo dalla realtà, finendo con il farti fare il tifo per il cattivo di turno, che appunto finisce per rientrare in uno pseudo cliché e siccome mi rifiuto dal credere che i tratti somatici comportino dei controlli specifici, continuerò sicuramente a guardare il programma televisivo perché lo faccio “con grande umiltà massima ironia” cit. ma in Australia IO non ci andrò mai…visto che non vorrei essere scambiato per un portatore sano di droga.
“Airport Security” contro i migranti, scrive Ruggiero Capone il 6 gennaio 2017 su “L’Opinione”. Mentre la politica italiana s’azzuffa sulla tragedia di Conetta (dove è morta una migrante) le polizie di Danimarca, Olanda, Gran Bretagna, Germania, Svezia, Sudafrica, Israele, Belgio e Stati Uniti inseriscono nei loro programmi formativi “Airport Security Canada”: un programma televisivo canadese nato dall’omonimo format australiano e trasmesso anche in Italia sul canale DMax. Il programma racconta l’attività di contrasto all’immigrazione svolta degli agenti della dogana aeroportuale canadese. Naturalmente l’attività comprende anche la lotta al narcotraffico, al terrorismo ed all’introduzione di patologie esotiche. La maggior parte degli episodi sono ambientati nell’aeroporto internazionale di Vancouver. Le polizie europee hanno inserito “Airport Security” perché il contrasto all’immigrazione è assurto a priorità, ed in questo campo fa scuola il “Department of Homeland Security” (gli addetti alla sicurezza e ai controlli degli aeroporti statunitensi). Vagliano documenti e controllano i passaporti dei visitatori, e per intercettare eventuali immigrati privi dei tanti permessi: perché entrare nei cosiddetti Paesi ricchi è ormai difficilissimo per tanti, anzi è riservato ai cosiddetti turisti benestanti. Ecco che i viaggi dei migranti diventano format per intrattenere il pubblico, ma anche strumento formativo per le polizie del cosiddetto mondo ricco. Di fatto un programma in deroga alla cosiddetta Convenzione di Ginevra: una sua variante australiana ha trasmesso anche il respingimento in mare di un gruppo di profughi afghani diretti in Australia. Un qualcosa d’impensabile per l’Italia come per la Grecia. E si ha la netta sensazione che solo i cosiddetti Paesi poveri dell’Unione europea debbano accogliere profughi e migranti, rifugiati e qualsivoglia viandante per indigenza. Su quest’ultimo urge aprire una parentesi: in Australia per vagabondaggio da indigenza si finisce in galera, fare un riposino sulla panchina viene sanzionato dalla polizia. Il documentario sui migranti afghani respinti in mare, quindi finiti in una prigione indonesiana dove sono previste quotidiane pene corporali, è stato prodotto dal governo australiano: s’apre col monito di un governatore che usa frasi utili a scoraggiare qualsivoglia migrante a mettersi in viaggio verso la grande isola del Commonwealth. Il governo australiano ha poi finanziato la campagna che disincentiva la migrazione da Pakistan e Iraq, pagando anche la messa in onda in vari Paesi dell’Africa e del Medioriente. Chi entrasse irregolarmente in Australia verrebbe privato di soldi e documenti, quindi costretto in un “Centro di detenzione per immigrati irregolari”, quindi inoltrato in un campo per rifugiati del Kenya o dell’Etiopia, strutture con cui l’Australia ha in essere accordi e contratti. Intanto in molti si chiedono se questi possano assurgere a modelli di lotta all’immigrazione clandestina. La Gran Bretagna ha adottato il modello formativo “Airport Security” forse per scongiurare una nuova Calais: la cittadina francese con otto ettari di campo profughi che ha ospitato migliaia di migranti pronti ad imbarcarsi per l’Inghilterra. Mentre Danimarca e Olanda temono che la cosiddetta rotta balcanica possa portare nuovi migranti nelle zone ricche d’Europa. Ma “Airport Security Australia” dimostra che le porte sono chiuse anche ai non cittadini Commonwealth: per esempio anche un cittadino italiano può ritrovarsi controllato per ore, perché le dogane usano specialisti nel far perdere la pazienza al cosiddetto “viaggiatore non ricco”. Il volto cinico dell’agente di dogana viene usato come risposta alle smorfie di disperazione del turista per caso, forse migrante. E per le polizie dei Paesi ricchi assurge a lezione, a corso formativo. In questo giochetto l’Italia si ritrova come un vaso di coccio tra vasi di ferro. Dopo il caso di Cona, e le tante indagini delle procure, sarebbe auspicabile che il fenomeno migranti venisse avocato al ministero dell’Interno, tagliando ogni prebenda ai privati, agli speculatori che gestiscono l’accoglienza. Parimenti l’Italia dovrebbe ottenere il governo umanitario delle coste libiche, e per impiantare strutture che arginino il fenomeno creando centri d’accoglienza in Nord Africa, dove sarebbe possibile inserire percorsi formativi ed aziende manifatturiere. Resta il fatto che l’Italia non può trasformarsi nel campo profughi dell’Unione europea; diversamente casi come quello di Conetta diverrebbero la regola. Certamente “Airport Security Italy” non sarà mai un progetto formativo praticabile, perché il buonismo dei nostri autori (gente spesso cattiva) teme l’ira della Chiesa.
In questi 16 paesi è vietato l'ingresso agli israeliani. Sdegno da parte del mondo? Ma no, per le anime belle non fa notizia, scrive Progetto Dreyfus il 30 gennaio 2017. Questa è una delle domande più ricorrenti: in quali Paesi arabi non si può andare con il timbro di Israele sul passaporto? I Paesi Mediorientali e Africani nei quali NON si può ASSOLUTAMENTE entrare con un visto israeliano sul passaporto (o un sospetto passaggio in Israele) sono: Siria, Libano, Libia, Iran, Yemen, Arabia Saudita, Algeria, Bangladesh, Brunei, Malesia, Oman, Pakistan, Iraq, Sudan, Kuwait, Emirati Arabi Uniti (Eau).
Se state per andare in Israele ma avete intenzione di visitare in futuro uno di questi Paesi le soluzioni sono 2:
rifare il passaporto;
quando si arriva in Israele (e/o quando si lascia il Paese) si può chiedere all'ufficio immigrazione di non apporre il timbro sul passaporto ma su un pezzo di carta separato.
Arrivare o partire dall'aeroporto Ben Gurion (Tel Aviv-Yafo) senza uscire dallo stesso (ovvero in transito) non comporta problemi perchè non lascia prove sul passaporto, idem se asseconda la richiesta del timbro a parte. Se invece si viaggia VIA TERRA il timbro di uscita da Egitto o Giordania dimostra senza ombra di dubbio il Vostro soggiorno in Israele. Anche in questo caso si può chiedere alle guardie di frontiera egiziane e giordane di apporre il timbro su un foglio a parte (solitamente non creano problemi ad assecondare la richiesta). Il problema potrebbe sorgere nella evidente mancanza di timbri sul passaporto una volta arrivati al confine siriano (o in areoporto in un secondo momento, anche distanza di anni: controllano TUTTE le pagine attentamente); cosa alla quale fanno molta attenzione. Per chiarire meglio il concetto: se ad esempio atterrate al Cairo e vi spostate verso la Siria passando (per forza!) per Israele dove sia le guardie egiziane che quelle israeliane vi apporranno il timbro su un foglio, quando vi troverete al confine siriano-giordano con il solo timbro di ingresso egiziano... vi chiederanno come avete fatto ad uscire dall'Egitto...Insomma è piuttosto lampante la cosa. E sappiate che non chiuderanno affatto un occhio; in questi Paesi non solo è vietato l'ingresso a chi ha soggiornato in Israele, ma anche a chi vi è solo transitato. Altro particolare da sottolineare: non date per scontato che in Israele accolgano benevolmente o senza troppi problemi la richiesta del timbro a parte fuori dal passaporto, spesso non vi daranno neanche il tempo di proferire parola che vi ritroverete le pagine timbrate. E a questo proposito l'ideale è di programmare il vostro viaggio in modo che Israele sia l'ultimo Paese da visitare dopo quelli su menzionati.
Come cambia il mondo con Donald Trump. La Russia che si avvicina agli Stati Uniti che rompono con il Messico. L'Inghilterra che si allontana dall'Europa che riallaccia con l'Africa. Mentre l'Australia diventa una megacolonia cinese. Planetario dei cambiamenti globali con il nuovo inquilino della Casa Bianca, scrivono Federica Bianchi, Giuseppe Fadda e Daniele Zendroni il 30 gennaio 2017 su “L’Espresso”.
Messico - Sud America. Già in diminuzione dal 2010, l’immigrazione messicana verso gli Usa. E' destinata a prosciugarsi così come il numero di fabbriche Usa costruite in Messico. La revisione delle regole di libero scambio del Nafta allontanerà il Messico dagli Usa.
Regno Unito. La Gran Bretagna in fuga dall’Europa s’imbarcherà in un lungo viaggio che l’avvicinerà ai cugini americani e, nel medio periodo, la consacrerà “la Singapore d’Occidente”.
Giappone. Orfano, come l’Australia, dell’accordo commerciale tra Asia e Stati Uniti stracciato da Donald Trump, il Giappone, nemico giurato della Cina, dovrà prendersi il tempo di ripensare il proprio posto nel mondo.
Australia. Anche l’Australia risentirà pesantemente del nuovo atteggiamento di Washington verso i paesi del Pacifico. Non avrà altra scelta che abbracciare la Cina, diventandone colonia de facto.
Cina. La Cina, considerata l’erede del primato economico mondiale, è in realtà il Paese più esposto alla nuova politica commerciale americana. Nel frattempo continua a tessere la sua tela asiatica.
Taiwan. Fosco futuro per l’isoletta reclamata da Pechino: finirà capro espiatorio della lotta commerciale tra Usa e Cina?
India. Futuro incerto per la Vecchia amica d’America. I dazi varranno anche per lei? E Trump non vorrà mica trattare davvero con l’arcinemico Pakistan?
Russia. Seppellita l’ascia della Guerra Fredda, la Russia rischia di diventare la nuova amica d’America a spese dell’Europa su cui aumenterà la sfera d’influenza.
Europa - Africa. Sulla scia dei continui flussi migratori, l’Europa sarà un po’ più africana. Tanto vale che l’Africa ritorni ad essere un po’ più europea. A spese della Cina.
Quando l’America chiudeva le porte. Giapponesi internati ed ebrei respinti. Una nuova indifferenza ai perseguitati può macchiare indelebilmente una grande democrazia, scrive Pierluigi Battista l'1 febbraio 2017 su "Il Corriere della Sera". Grazie alla forza della grande democrazia americana, lo scrittore James Ellroy ha potuto raccontare in «Perfidia» (tradotto in Italia da Einaudi Stile Libero) il rastrellamento e la reclusione di oltre centomila giapponesi, molti dei quali già cittadini americani da una generazione, nei campi di internamento, insomma nei Lager, messi frettolosamente su in California all’indomani dell’attacco nipponico a Pearl Harbor. Grazie alla forza della democrazia americana, si può raccontare quella violazione dei diritti di una minoranza nazionale, bambini, donne, anziani, colpevole solo di essere minoranza di un Paese in guerra. L’umanità calpestata dei civili di origine giapponese, una delle pagine più nere della storia degli Stati Uniti. E grazie alla forza della democrazia americana non si può nascondere l’altra macchia della sua storia, il rifiuto di far approdare sulle coste americane, nel 1939, alla vigilia della catastrofe, la nave Saint Louis carica di oltre 900 ebrei, molti bambini, in fuga dalla Germania nazista e che era stata rifiutata prima da Cuba e dal Canada. Un’altra storia di discriminazione, di rifiuto dell’accoglienza. L’America però sa fare i conti con se stessa e i propri orrori. Oggi che i muri sono di nuovo alzati e si avverte il sentore pesante di nuove discriminazioni, di popoli, etnie, religioni messe al bando, il simbolico filo spinato srotolato per garantire la chiusura di una nazione-fortezza, non si può dire che gli Stati Uniti non abbiano alle spalle episodi terribili. «Datemi i vostri poveri, le vostre masse infreddolite desiderose di respirare libere, i rifiuti miserabili delle vostre spiagge affollate. Mandatemi loro, i senzatetto, gli scossi dalle tempeste a me, e io solleverò la mia fiaccola accanto alla porta dorata». Non sempre l’America è stata all’altezza, e adesso rischia di non esserlo ancora, delle parole che stanno alla base della Statua della Libertà. Popoli «desiderosi di respirare liberi» rigettati indietro. Manzanar è un nome terribile, nella storia di discriminazione anti nipponica cominciata nel ’42. È il lager più grande di quell’arcipelago di campi definiti «War Relocation Authority» in cui raccogliere la popolazione giapponese d’America per dare attuazione a un decreto del presidente democratico Franklin Delano Roosevelt (l’Executive Order 2066). L’ordine era quello di mettere sotto chiave la possibile «quinta colonna», il nemico interno di civili, anziani e bambini che vivevano pacificamente a Los Angeles e lungo la California che dava sull’Oceano Pacifico. Dopo l’aggressione di Pearl Harbor, l’amministrazione americana ruppe finalmente gli indugi e decise di intervenire a fianco delle forze che si battevano contro Hitler e l’alleanza tra la Germania, l’Italia e il Giappone. Fu una scelta molto controversa ed è il caso di ricordare, proprio oggi che si teme un’involuzione dell’America trumpiana in senso isolazionista, che furono soprattutto i settori progressisti di sinistra e pacifisti a battersi contro l’intervento Usa nella guerra: basta ricordare il personaggio di Barbra Streisand in «Come eravamo», appassionata idealista che in nome della pace si batte contro la scelta militare americana contro il tiranno tedesco. Ma dopo quella scelta una corrente di isteria anti nipponica fece accettare alla democratica America l’istituzione di campi di internamento che non avevano niente a che vedere con la sicurezza militare. Ogni giorno a Manzanar e negli altri campi venivano scaricate migliaia di persone in condizioni che è facile immaginare. Le parole scolpite alla base della Statua della Libertà, che avevano reso grande e accogliente la grande nazione americana, rimasero allora tristemente inascoltate. La storia della nave Saint Louis dimostra invece che le masse di profughi, chi fuggiva dalla morte, dalla distruzione, dalla persecuzione non sempre sono state illuminate dalla «fiaccola» retta dalla Statua della Libertà. All’indomani della Notte dei Cristalli, quando la sorte degli ebrei tedeschi sembrava oramai segnata, quegli oltre novecento ebrei imbarcati non avrebbero immaginato di essere respinti dalla terra della libertà e del sogno, delle opportunità e dell’accoglienza, dall’America costruita dagli immigrati che scappavano dalla miseria e dalla tirannia. E invece negli Stati Uniti, la rigida politica delle quote di immigrazione (ecco come la storia cerca di assomigliare sempre a se stessa, pur nel mutare delle circostanze politiche) non piegò le autorità americane. Quegli ebrei in fuga dovevano essere ricacciati nelle acque dell’oceano. E infatti la nave tornò indietro, ad Anversa. E si calcola che poco più di un terzo di quelle donne, di quei bambini, di quei vecchi che scappavano dal nazismo e dalla morte verrà inghiottito dalla macchina dello sterminio. L’America democratica si dimostrerà insensibile e sorda, anche se con l’intervento militare quell’indifferenza verrà almeno in parte riscattata. Quelle macchie sulla storia rischiano però di essere dimenticate e una nuova indifferenza alle sorti dei perseguitati e delle «masse infreddolite» può imbrattare ancora indelebilmente una grande democrazia e una grande nazione.
Tutte le volte che gli Stati Uniti hanno chiuso le frontiere. Il bando verso i cittadini di sette Stati musulmani imposto da Donald Trump, non è un caso isolato nella storia degli Stati Uniti. Cinesi, anarchici, comunisti, ebrei, iraniani e portatori di Hiv, sono stati oggetto di divieto d'ingresso negli Usa. Il primo caso risale al 1882, quando il presidente Chester A. Arthur firmò il Chinese Exclusion Act, con cui si fermava l'immigrazione dei cittadini cinesi.
Non solo USA. Francia, finito in tre mesi il muro anti migranti di Calais finanziato da Londra. La barriera alta quattro metri e lunga un chilometro è costata al Regno Unito 2,7 milioni di euro. Sorge a poche centinaia di metri dall'ex-Giungla e serve a fermare chi cerca di introdursi nei camion per attraversare il tunnel della Manica, scrive Il Fatto Quotidiano" il 13 dicembre 2016. Dopo i muri in Ungheria, in Macedonia e quello costruito poco più di un mese fa in Germania, a Monaco di Baviera, ora è la volta del ‘Great Wall‘. Il grande muro di Calais, voluto dal governo di Londra per impedire ai migranti di passare dalla Francia alla Gran Bretagna, è stato terminato dopo meno di tre mesi di lavori. Un cantiere dall’alto contenuto simbolico, che dopo il voto sulla Brexit allontana ancor più velocemente il Regno Unito, che non aveva mai accettato il sistema delle quote per la ridistribuzione dei migranti, dalle politiche di accoglienza europee. Una divisione tra due Paesi occidentali che in passato avevano invece criticato l’intolleranza mostrata verso gli immigrati nella zona dei Balcani e nell’Europa orientale. Alto quattro metri e lungo un chilometro, il muro in cemento armato è dotato di telecamere di sorveglianza e sorge a poche centinaia di metri dalla ex-Giungla di Calais, che il governo di Parigi ha smantellato questo autunno. L’obiettivo è impedire ai migranti di introdursi illegalmente nei camion diretti a Dover, attraverso il tunnel della Manica. Interamente finanziata dal governo britannico, la struttura è costata 2,7 milioni di euro e completa il recinto di protezione in ferro e filo spinato già eretto nella zona per impedire l’accesso al porto. Il cantiere per la costruzione del Great Wall cominciò il 20 settembre scorso.
Lerner, Severgnini e Botteri: in pericolo il monopolio delle fake news? Scrive il 27/01/2017 Luca Cirimbilla su "L’Ultima Ribattuta”. Ormai è una guerra isterica ai siti che scrivono fake news: a lanciarla, però, sono personaggi come Gad Lerner, Beppe Severgnini o Giovanna Botteri che qualche cantonata l’hanno presa, anzi raccontata. Nelle ore scorse è stato Severgnini, prima sul Corriere della Sera e poi ai microfoni di Virgin Radio, a proclamare la sua crociata contro le fake news. Come esempio il giornalista ha portato la bufala circolata sui social network riguardante i 20 milioni di dollari forniti da Donald Trump alle popolazioni italiane colpite dal terremoto. La notizia è stata lanciata dal Corriere d’Italia: “Questi sono siti pericolosi” ha sentenziato Severgnini, agitando lo spettro di condizionamenti dell’opinione pubblica anche in vista di eventuali elezioni. Qualcuno faccia notare a Severgnini che sarebbe bastato fare un salto sulla homepage del sito del Corriere d’Italia per capire il tenore delle altre notizie come la tassa prevista sulle flatulenze. Oppure bastava scorrere in fondo alla pagina per leggere che il sito non andava preso sul serio. Proprio lui, tra l’altro, qualche anno fa rilanciava su twitter la bufala delle oltre 600mila auto blu. E perché tra le fake news non cita quella della telefonata tra il sindaco di Roma, Virginia Raggi e Beppe Grillo, apparsa proprio sul giornale per cui scrive? Eppure, il tono di Severgnini verso le bufale è dei più preoccupati. La sua angoscia ricorda molto quella con cui Giovanna Botteri, all’indomani dell’elezione di Donald Trump – osteggiato dall’establishment mediatico – si chiedeva «Che cosa succederà a noi giornalisti? Non si è mai vista come in queste elezioni una stampa così compatta ed unita contro un candidato… che cosa succederà ora che la stampa non ha più forza e peso nella società americana? Le cose che sono state scritte, le cose che sono state dette evidentemente non hanno influito su questo risultato e sull’elettorato che ha creduto a Trump e non alla stampa». Sembra incredibile, ma l’ha detto per davvero. Per rendersi conto della sua avversione verso l’attuale presidente degli Usa, basta seguire uno dei servizi dagli Usa e si noterà come la scelta di fermare la delocalizzazione delle case automobilistiche per produrre posti di lavoro negli Usa si trasformi in un duro colpo verso il povero Messico. O basterebbe osservare l’accanimento contro il muro costruito al confine, senza menzionare quello voluto dal democratico Bill Clinton. E per finire c’è lui, Gad Lerner, le cui analisi di politica estera – come è stato riportato su L’ultima Ribattuta - sono puntualmente state sconfessate dalla realtà degli eventi: “Esultiamo della caduta di Gheddafi – scriveva nel 2011 – un fanfarone sanguinario reso temibile dai soldi del petrolio e dalla vigliaccheria degli occidentali… Abbiamo sentito opporre argomenti uno dopo l’altro per negare che bisognasse impegnarsi per consentire la deposizione di Gheddafi. Ne sarebbe scaturita una secessione della Cirenaica indipendente dalla Tripolitania. Il ritorno alle guerre tribali d’epoca precoloniale. L’instaurazione di un regime islamico qaedista. L’esodo (biblico!) di profughi a centinaia di migliaia. Tutte balle”. E invece l’esodo biblico c’è stato eccome, e c’è tuttora. Con l’occasione, ovviamente, veniva preso di mira l’allora presidente del consiglio, Silvio Berlusconi, che con Gheddafi aveva stretto accordi economici di enorme importanza per l’indipendenza energetica per l’Italia e che avevano permesso la drastica riduzione di sbarchi di migranti sulle nostre coste italiane. Dalla Libia alla Siria, la solfa non cambia. “I guerrieri islamisti che si sono impossessati della rivolta popolare siriana contro la dittatura di Assad – anche per la colpevole inerzia delle democrazie occidentali che non hanno sostenuto per tempo le sacrosante istanze di libertà della primavera araba – manovrano cinicamente la leva del terrore”. Peccato che “le sacrosante istanze di libertà della primavera araba” – come ha confermato il generale francese Vincent Desportes – sono state create ad hoc proprio dalle democrazie occidentali per detronizzare Bashar al Assad in Siria, o rovesciare i regimi come quello di Saddam Hussein e Gheddafi. Tutti attenti alle fake news, dunque, ma attenti soprattutto ai loro più fieri oppositori.
Faziosa (a spese degli italiani). La Botteri leader anti Trump. Ogni giorno le cronache distorte della realtà Usa sulla tv di Stato. La giornalista non nasconde le sue simpatie, scrive Mercoledì 1/02/2017 "Il Giornale". M a perché i cittadini italiani sono obbligati a pagare il canone Rai, e quindi lo stipendio della corrispondente da New York Giovanna Botteri (200mila euro all'anno più benefit), per sentire ogni giorno la cronaca politica distorta dalla faziosità? Una bella domanda. Ma questo è il new deal della giornalista triestina, che da sette anni dispensa la sua verità dagli Stati Uniti. La 59enne a capo della redazione Rai della metropoli americana è sbarcata negli Usa nel 2007, giusto in tempo per seguire la campagna elettorale per la Casa Bianca e incensare il primo presidente afroamericano Barack Obama. Nulla da eccepire sulla carriera e le capacità della giornalista, ma di sicuro è discutibile la sua sfacciata parzialità, con cui ha illuminato i telespettattori con suoi servizi, spargendo veleno su ogni iniziativa del partito repubblicano, in particolare sul nuovo inquilino della Casa Bianca Donald Trump, e spalmando invece miele e salamelecchi sulla politica di Obama e sulla candidata trombata alla Casa Bianca Hillary Clinton. Povera Giovanna, quanto ha sofferto nella lunga notte americana quando dalle urne è emerso che Trump era il nuovo presidente. Lei che per mesi ci aveva descritto il nuovo leader come un buzzurro, razzista e xenofobo. Lei che aveva sostenuto che la Clinton avrebbe vinto a mani basse la corsa, affermando che gli americani non avrebbero mai eletto uno come Trump. Ma ha preso un buco gigantesco, il suo livore non ha influenzato il voto degli americani, ma solo il pensiero dei poveri italiani che pagano il canone. Essì, perché il magnate americano ha vinto contro ogni aspettativa e la Botteri, con tutta la Rai, hanno puntato sul candidato sbagliato, accecati dalla propria intolleranza e sviati dai sondaggi e dalle campagne dei media americani che ripetevano: «Uno come Trump non potrà mai diventare presidente». E la nostra Giovanna che cosa ha fatto? Non potendo fare finta di niente, ha deciso di proseguire col suo tormentone sul Trump razzista e sessista, condendo il tutto con le sue menate sulla democrazia. «Nella New York democratica non doveva succedere», ha declamato in diretta. La linea non cambia. Il fatto che Trump abbia vinto democraticamente è un dettaglio insignificante. Per la Botteri, come per molti esponenti illuminati della sinistra nostrana, se un avversario inviso vince, la democrazia non funziona. E dopo la disfatta di Hillary la corrispondente ha addirittura volato alto: «Che cosa succederà a noi giornalisti? Non si è mai vista come in queste elezioni una stampa così compatta e unita contro un candidato... che cosa succederà ora che la stampa non ha più forza e peso nella società americana?». E brava Giovanna, non solo si è vantata che i media debbano influenzare il voto ma si è pure rammaricata che non riescano a farlo. Ma la Botteri non si è arresa e da tre mesi continua a condire la cronaca americana con le sue bugie. Il culmine l'ha raggiunto un paio di settimane fa, quando ha infilato tre balle in un solo servizio. La prima, quando ha detto che Trump, durante la sua prima conferenza stampa ufficiale ha attaccato personalmente un giornalista. Falso, ha solo detto a un reporter della Cnn che non voleva rispondere alle sue domande. La seconda, quando ha affermato che Rex Tillerson, nuovo segretario di Stato, «è notoriamente amico della Russia». Falso. Tillerson, durante l'audizione al Congresso, ha chiarito che essendo imprenditore ha fatto affari con imprese russe. La terza, sempre su Tillerson, ha stravolto a suo uso e consumo la risposta del segretario di Stato al Congresso. Alla domanda se considerasse Putin un criminale di guerra, secondo la Botteri Tillerson avrebbe risposto «No». Falso, Tillerson ha detto (basta verificare il video in lingua originale): «Non userei quel termine» e «dovrò raccogliere più informazioni per consigliare il presidente». Nessuno sia tratto in inganno, non è uno scivolone ma pura volontà di mentire agli ascoltatori. Che la pagano pure.
Odiate Trump ma ricordate che morite di fame come sudditi d’Europa. Il villaggio globale è una montagna di merda, scrive Emanuele Ricucci su “Il Giornale" il 23 gennaio 2017. Se te lo voti, non va bene. Se lo tiri fuori dal cilindro nemmeno. Se fa il petroliere, no. Ma neanche se proviene dalla Columbia University. Se è saggio e talentuoso, se la politica la fa da sempre. Se è raccomandato o circonciso. Il presidente non va bene, se parla in nome di certi valori. Trump s’insedia. Gente che urla, chi si denuda. Chi spacca vetrine, chi piange. Donne che farfugliano di sesso e utero. “Sono bella e brutta ma sono mia”, “il presidente non può toccarmi, non dovrà guardarmi, non dovrà pensarmi”, che pare di stare a piazza del Popolo nel ’68 come al tempo del moralismo femminista: alle 16.30 odio gli uomini, alle 17.30 a letto con gli uomini. Le donne di tutto il globo sono incazzate con Trump il porco che non rispetta il delicato universo femminile, sempre mentre in Somalia una donna viene infibulata, a Rotterdam un’altra non esce la sera perché è vittima di stalking in seguito alle violenze di uno stronzo ed un’altra ancora di una sassaiola di cani con la barba che praticano la shari’a. Ipocrisia universale, adolescenziale. Proteste ovunque, le star (esse, per essere al passo con la Boldrini) del globo impazzite. Pompini, cazzi, minacce. Tutto tristemente tratto da una storia vera. Trump si è insediato dopo essere stato democraticamente eletto, scelto dal popolo americano in maggioranza. Questo il dato oggettivo – che sacro vocabolo – a livello politico. Isteria. Ovunque. Ma non eravamo gli emancipatissimi del progresso? Talmente tanto che si sta bene tutti insieme, con lo stesso sesso, nello stesso mercato, con lo stesso Dio, nello stesso mondo piccolo, piccolo, tanto siamo maturi da non dover fare a cazzotti come nel ‘43? Ma guarda tu se anche una sana rosicata deve essere trasformata in un affare di Stato internazionale, in una drammatica condizione di causa-effetto a livello planetario, in cui si scomodano i massimi sistemi sociologici e politologici. Ma non si può proprio fare che ognuno si fa la democrazia che gli pare, visto che siamo così liberi? A me, questo villaggio vacanze globale inizia a starmi pesantemente sul cavolo. Anche a me Kim Jong Un fa paura. Un cicciopazzo pericolosissimo, armato di atomica e assurde manie da dittatore. Uno che fucila i dormienti, silura i distratti e mette tutti i coreani, incapaci dignitosamente di sacrificarsi come un tempo eravamo abituati a fare noi europei, in ordine di altezza. Anche a me non vanno bene un sacco di cose. Che la ndrangheta mi ammazza quelli con le palle che non pagano il pizzo, che l’Isis mi massacra Palmira. Che Saviano è considerata l’unica speranza culturale ed intellettuale di questo Paese. Culturalmente posso dissentire. Posso scriverne un pezzo e prendermi gli insulti ma tengo la linea. La linea dell’orizzonte. Posso farmi andare di traverso il panino con nduja e melanzane parlando di TTP, di Soros, delle vongole misurate dall’Europa, dallo strapotere dell’egemonia culturale imperante che, in quanto cristiano, mi vede come una spina sotto la pianta del piede. Fuori tempo, fuori corso, fuori luogo. E invece io vivo, e ardisco come posso, e piango tutti i miei fratelli cristiani un po’ stuprati e gettati in una fosse comune, un po’ decapitati o crocefissi, ovunque. Posso tirare sonore testate al muro del tempo presente, che in realtà sembra più un trapassato prossimo, ma non perdo la lucidità. Anche se scenderei in piazza più che volentieri, come ho sempre fatto. Meschina falsità collettiva. A Roma protestano le donne, a Latina gli spazzacamini, a Viterbo i norcini e a Rocca Priora i gelatai. Signore, Signori, Signor, Trump non è il mio presidente! Nel vero senso della parola. Noi abbiamo Gentiloni e Mattarella. E Trump è negli States, come la Le Pen è in Francia. Non siamo un popolo di idealisti, siamo vouyeur. Basta! Ripensiamoci, e per qualche ora spegniamo l’internet che ci fa male, a tutti, me compreso.
Le Fake News della stampa italiana sulla Turchia.
Ma è vero che in Turchia c’è la dittatura ed un sistema elettorale fondato sui brogli?
Secondo i giornalisti italiani, legittimati dalla legge ad essere i soli a scrivere e ad essere i soli ad essere letti, abilitati per concorso pubblico per raccontare fatti secondo verità, continenza e pertinenza, sì.
Il commento del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.
Premesso che proprio gli italiani sui brogli elettorali meglio che tacciano, se già ci furono dubbi sui risultati della consultazione elettorale con il referendum istituzionale del 2-3 giugno 1946, che sancì la nascita della Repubblica italiana.
Poi ci aggiungiamo le accuse periodiche di brogli per ogni tornata elettorale italiana, tralasciando quelle sulle primarie e sui tesseramenti della sinistra: "Noi abbiamo una tradizione molto negativa nel nostro passato circa le votazioni, in molte occasioni ci sono stati sottratti voti per la professionalità nei brogli della sinistra". Lo dice Silvio Berlusconi al Corriere Live spiegando che, senza un metodo tecnologicamente più avanzato, la correttezza del voto non è assoluta: "Fino a quando noi non avremo un voto diverso dalla matita i brogli sono possibili". Tuttavia, aggiunge il leader di Fi, "ritengo che quando c'è un risultato elettorale, chi perde non può non riconoscere la vittoria dell'altra parte. Poi si possono eventualmente avanzare richieste di riconteggio dello schede, una volta fatte delle verifiche". (02/12/2016 Adnkronos.com).
Broglio, da Wikipedia. La moderna espressione italiana deriva da un analogo termine veneziano. Nell'antica Serenissima era infatti consuetudine per i membri della nobiltà impoverita riunirsi in uno spazio antistante il Palazzo Ducale di Venezia per far commercio dei propri voti in seno al Maggior Consiglio che reggeva la città e nel quale sedevano per diritto ereditario. Tale spazio era allora noto col nome di Brolio dal latino Brolus, cioè "orto", retaggio del fatto che la terra su cui tuttora sorge piazza San Marco era in antico proprietà agricola del vicino monastero di San Zaccaria.
L'accusa di brogli elettorali in Italia è antica. Durante il Risorgimento, le annessioni dei regni preunitari al Regno d'Italia, vennero sempre ratificate mediante plebisciti. Tali consultazioni, a suffragio censitario, si svolsero senza tutela della segretezza del voto e talvolta in un clima di intimidazione. I "no" all'annessione furono in numero irrisorio e statisticamente improbabile. Il procedimento dei plebisciti durante il Risorgimento fu criticato da diverse personalità politiche ed il The Times sostenne che fu «la più feroce beffa mai perpetrata ai danni del suffragio popolare». Tale evento è stato anche trattato nel romanzo "Il Gattopardo" di Giuseppe Tomasi di Lampedusa.
Alla nascita della Repubblica Italiana, i monarchici attribuirono la loro sconfitta a brogli elettorali. Nella puntata del 5 febbraio 1990 della trasmissione Mixer, condotta da Giovanni Minoli, andò in onda un falso scoop secondo il quale il re avrebbe fatto in modo che il referendum proclamasse la Repubblica per evitare al paese la guerra civile, ma si trattava soltanto di un abile montaggio per esibire quanto la televisione potesse deformare la realtà dei fatti e influenzare il pensiero dei cittadini, e scatenò un mare di polemiche.
Appena conclusesi le consultazioni per il rinnovo del parlamento italiano del 2006 il premier Silvio Berlusconi, primo caso nella cinquantennale storia della Repubblica di una tale grave contestazione da parte di un esponente del governo uscente, ha paventato l'ipotesi di brogli elettorali sebbene il presidente Ciampi e il Ministro dell'interno Pisanu avessero espresso il loro compiacimento per lo svolgimento regolare delle elezioni. Durante i giorni dell'insediamento del Senato della Repubblica della XV legislatura Roberto Calderoli ha continuato ad insistere sulle ipotesi di brogli elettorali, confermando la sua convinzione secondo la quale la Casa delle Libertà è risultata vittima di un complotto che l'ha privata della vittoria elettorale. Piuttosto, forti sospetti ha destato l'insolito comportamento di Pisanu. Mai infatti, nella storia dell'Italia repubblicana, un ministro dell'interno aveva abbandonato il Viminale nel corso delle operazioni di spoglio elettorale. Convocato da Berlusconi, il ministro ha dovuto sostenere un faccia a faccia con quest'ultimo e, cosa ancora più strana, nessuno è a conoscenza di quello che fu l'oggetto della loro discussione. Sulla vicenda dei possibili brogli alle elezioni politiche italiane del 2006 sono anche usciti un romanzo e un documentario: Il broglio di Aliberti editore; Uccidete la democrazia!
Altra cosa è l’accusa di tirannia turca.
Porca miseria, mi spiegate quali poteri prende Erdogan? Si chiede Nicola Porro il 18 aprile 2017 sul suo canale youtube. «Tutti quanti i giornali oggi parlano di Erdogan e la vittoria del referendum di misura del 51%. L’intervista del Corriere della Sera sugli osservatori OCSE che avrebbero contestato e che contestano le elezioni di Erdogan sono fatte da una vecchia conoscenza del Parlamento Italiano: Tana de Zulueta. Ex corrispondente dell’Economist una vita contro Silvio Berlusconi, una parentesi contro Erdogan. Vi leggete l’intervista sul Corriere della Sera e capite che i brogli probabilmente ci sono stati, forse sono stati significativi. Non lo so. Ricordiamo che anche la nostra Repubblica è nata sui brogli. Lì è nata forse una dittatura, dicono gli osservatori più attenti, ma l’intervista di Tana De Zulueta, tutto fa, come rappresentante dell’OCSE, tranne rassicurarci sulla serietà, non solo di Erdogan, ma anche dell’Ocse. Ma questo è un discorso a parte. La domanda, che io mi faccio e che rivolgo a tutti quanti voi, è: quali sono questi poteri che Erdogan avrebbe acquistato dopo i referendum?
Porca miseria: A, B, C, secondo me, del giornalismo. Ma siete tutti quanti voi che comprate i giornali, pochi per la verità, dei fenomeni, degli esperti di geopolitica. E volete tutti vendere commenti, di leggervi Ferrari; di leggervi Sergio Romano; leggervi, son so, Montale; leggervi Kissinger; leggervi Dante Alighieri; o qualcuno di voi alza il dito: scusate, ma quali sono i poteri che Erdogan prende con questo referendum?
Non c’è un porca miseria di giornale che oggi, il giorno in cui passa il referendum, ci scrive con semplicità, quali sono questi poteri dittatoriali che ha preso Erdogan. Li avrà presi sicuramente, non lo metto in dubbio, ma almeno scrivete. Io che sono banalmente uno che legge i giornali, oggi avrei voluto vedere sui giornali che cosa succedeva alla Turchia da domani. Mentre non riesco a capirci nulla. Lego l’intervista al presidente del Parlamento Europeo, e non solo lui, Tajani, che dice “forse farà un referendum per chiedere la pena di morte. Quindi in futuro farà un referendum a cui faranno giudicare i turchi sulla pena di morte. Se dovesse fare, accettare, vincere quel referendum non potrebbe più partecipare alla discussione sull’Europa. Ma oggi, con questo referendum che poteri ha avuto Erdogan? Un solo dettaglio lo leggo.
Erdogan potrà, da presidente della Repubblica turca, potrà anche tornare a diventare segretario della AKP, che è il partito confessionale che lo ha visto leader. Quindi una delle riforme, è che lui potrà fare: Presidente della Repubblica e Segretario del partito. Mi chiedo: ma questa cosa in Italia, per esempio, che non è una dittatura, vi suona familiare? I presidenti del Consiglio che sono anche segretari di partito, non l’avete mai sentita? Lo chiedo. Perché se questa è la riforma che rende dittatura la Turchia, anche noi siamo una dittatura».
PROPOSTA DI RIFORMA COSTITUZIONALE. Da Wikipedia. Descrizione analitica delle modifiche.
1. Articolo 9. La magistratura è tenuta ad agire in condizioni di imparzialità.
2. Articolo 75. Il numero di seggi nel parlamento aumenta da 550 a 600.
3. Articolo 76. L'età minima per candidarsi ad un elezione scende da 25 anni a 18 anni. È abolito l'obbligo di aver completato il servizio militare obbligatorio per i candidati. Gli individui con rapporti militari sono ineleggibili e non possono partecipare alle elezioni.
4. Articolo 78. La legislatura parlamentare è estesa da 4 a 5 anni. Le elezioni parlamentari e presidenziali si tengono nello stesso giorno ogni 5 anni. Per le presidenziali è previsto un ballottaggio se nessun candidato ha ottenuto la maggioranza assoluta al primo turno.
5. Articolo 79. Vengono istituite le regole per i cd. «parlamentari di riserva», che vanno a sostituire i posti dei deputati rimasti vacanti.
6. Articolo 87. Le funzioni del Parlamento sono: a) approvare, cambiare e abrogare le leggi; b) ratificare le convenzioni internazionali; c) discutere, approvare o respingere il bilancio dello Stato; d) nominare 7 membri del Supremo Consiglio dei Giudici e dei Pubblici Ministeri; e) usare tutti gli altri poteri previsti dalla Costituzione.
7. Articolo 98. Il parlamento monitora il governo e il vicepresidente con ricerche parlamentari, indagini parlamentari, discussioni generali e domande scritte. L'istituto dell'interpellanza è abolito e sostituita con le indagini parlamentari. Il vicepresidente deve rispondere alle domande scritte entro 15 giorni.
8. Articolo 101. Per candidarsi alla presidenza, un individuo deve ottenere l'approvazione di uno o più soggetti che hanno ottenuto il 5% o più nelle elezioni parlamentari precedenti e di 100.000 elettori. Il presidente eletto non è obbligato a interrompere la sua appartenenza a un partito politico.
9. Articolo 104. Il presidente diventa sia il capo dello Stato che capo del governo, con il potere di nominare e rimuovere dall'incarico i ministri e il vicepresidente. Il presidente può emettere «decreti esecutivi». Se l'organo legislativo fa una legge sullo stesso argomento di un decreto esecutivo, quest'ultimo diventerà invalido, mentre la legge parlamentare entrerà in vigore.
10. Articolo 105. Il Parlamento può proporre un'indagine parlamentare nei confronti del Presidente con la maggioranza assoluta (301). La proposta va discussa per 1 mese, per poi essere aperta con l'approvazione di 3/5 (360) dei deputati (votazione segreta). Concluse le indagini, il parlamento può mettere in stato di accusa il presidente con l'approvazione dei 2/3 (400) dei parlamentari (votazione segreta).
11. Articolo 106. Il Presidente può nominare uno o più Vicepresidenti. Se la Presidenza si rende vacante, le elezioni presidenziali devono svolgersi entro 45 giorni. Se le future elezioni parlamentari si dovessero svolgere entro un anno, anch’esse si svolgono lo stesso giorno delle elezioni presidenziali anticipate. Se la legislatura parlamentare termina dopo più di un anno, allora il neo-eletto presidente serve fino alla fine della legislatura, al termine della quale si svolgono sia le elezioni presidenziali che parlamentari. Questo mandato non deve essere contato per il limite massimo di due mandati del presidente. Le indagini parlamentari su possibili crimini commessi dai Vice Presidenti e ministri possono iniziare in Parlamento con il voto a favore di 3/5 deputati. A seguito del completamento delle indagini, il Parlamento può votare per incriminare il Vice Presidente o i ministri, con il voto a favore di 2/3 a favore. Se riconosciuto colpevole, il Vice Presidente o un ministro in questione viene rimosso dall'incarico solo qualora il suo crimine è uno che li escluderebbe dalla corsa per l'elezione. Se un deputato viene nominato un ministro o vice presidente, il suo mandato parlamentare termina immediatamente.
12. Articolo 116. Il Presidente o 3/5 del Parlamento possono decidere di rinnovare le elezioni politiche. In tal caso, il Presidente decade dalla carica e può essere nuovamente candidato. Le nuove elezioni saranno sia presidenziali che parlamentari.
13. Articolo 119. La possibilità del presidente di dichiarare lo stato di emergenza è ora oggetto di approvazione parlamentare per avere effetto. Il Parlamento può estendere la durata, accorciarla o rimuoverla. Gli stati di emergenza possono essere estesi fino a quattro mesi tranne che durante la guerra, dove non ci saranno limitazioni di prolungamento. Ogni decreto presidenziale emesso durante uno stato di emergenza necessita dell'approvazione del Parlamento.
14. Articolo 123. Il presidente ha il diritto di stabilire le regole e le procedure in materia di nomina dei funzionari dipendenti pubblici.
15. Articolo 126. Il Presidente ha il diritto di nominare alcuni alti funzionari amministrativi.
16. Articolo 142. Il numero dei giudici nella Corte costituzionale scende da 17 a 15. Quelli nominati dal presidente scendono da 14 a 12, mentre il Parlamento continua a nominarne 3. I tribunali militari sono aboliti a meno che non vengono istituiti per indagare sulle azioni dei soldati compiute in guerra.
17. Articolo 159. Il Supremo Consiglio dei Giudici e dei Pubblici Ministeri viene rinominato in "Consiglio dei Giudici e dei Pubblici Ministeri". I membri sono ridotti da 22 a 13, e i dipartimenti giudiziari scendono da 3 a 2: quattro membri sono nominati dal Presidente, sette dal parlamento, gli altri 2 membri sono il ministro della giustizia e il sottosegretario del Ministero della giustizia. Ogni membro nominato dal parlamento viene eletto in due turni: nel primo necessita dell'approvazione dei 2/3 dei parlamentari, al secondo dei 3/5.
18. Articolo 161. ll presidente propone il bilancio dello Stato al Grande Assemblea 75 giorni prima di ogni nuova sessione annuale di bilancio. I membri della Commissione parlamentare del Bilancio possono apportare modifiche al bilancio, ma i parlamentari non possono fare proposte per cambiare la spesa pubblica. Se il bilancio non viene approvato, verrà proposto un bilancio provvisorio. Se nemmeno il bilancio provvisorio non approvato, il bilancio dell'anno precedente sarà stato utilizzato con il rapporto incrementale dell'anno precedente.
19. Diversi articoli. Adattamento di diversi articoli per il passaggio dei poteri esecutivi dal governo al presidente.
20. Temporaneo articolo 21. Le prossime elezioni presidenziali e parlamentari si terranno il 3 novembre 2019. L'elezione del Supremo Consiglio dei Giudici e dei Pubblici Ministeri avverrà entro 30 giorni dall'approvazione della presente legge. I tribunali militari sono aboliti con l'entrata in vigore della legge.
21. Diversi articoli. Gli emendamenti 2, 4 e 7 entreranno in vigore dopo nuove elezioni, gli altri emendamenti (tranne quelli temporanei) entreranno in vigore con il giuramento del nuovo presidente.
Se la Turchia è una dittatura, cosa dire di quella tanto decantata democrazia invidiata da tutti?
Potere esecutivo USA, da Wikipedia.
Il potere esecutivo è tenuto dal Governo federale, composto dal Presidente degli Stati Uniti (President of the United States of America), dal Vicepresidente (Vice President of the United States of America) e dal Gabinetto (Cabinet of the United States), cioè il gruppo di "ministri" (tecnicamente chiamati "Segretari", tranne colui a capo dell'amministrazione della giustizia, nominato "Procuratore generale") a capo di ogni settore della pubblica amministrazione, i Dipartimenti. Se, come è ovvio, i Segretari sono di nomina presidenziale, il Presidente e il Vicepresidente vengono eletti in occasione di elezioni presidenziali separate dalle elezioni per il rinnovo del Congresso e che si svolgono ogni quattro anni (con il limite massimo di due mandati).
I poteri del Presidente sono molto forti. Oltre ad essere a capo del governo federale ed essere sia il comandante supremo delle forze armate e capo della diplomazia, il Presidente possiede anche un forte potere di veto per bloccare la promulgazione delle leggi federali emanate dal Congresso (potere superabile soltanto quando la legge viene approvata a larga maggioranza).
Paesi democratici e non tirannici sono naturalmente anche quei paesi, come l’Olanda e la Germania, che hanno impedito i comizi di esponenti turchi presso le loro comunità, ma non hanno potuto impedire a questi (senza brogli) di esprimere un voto maggioritario di gradimento alla riforma del loro paese.
LE FAKE NEWS DEL CONTRO-REGIME.
Fake news, il veleno che piegò Mia Martini, scrive Domenica 14 maggio 2017 Aldo Grasso su "Il Corriere della Sera". Ventidue anni fa, di questi giorni, moriva la cantante Mia Martini. Una morte misteriosa, al culmine di una vita privata e di un percorso artistico segnati dalla maldicenza: dicevano portasse iella, non volevano mai pronunciare il suo nome. Proviamo a leggere questa vergognosa storia con gli occhi di adesso. Mia Martini è stata prima vittima di due fake news (dicevano portasse male per un tragico incidente in cui persero la vita due musicisti della sua band e per il crollo di un telone che copriva il palco su cui doveva esibirsi) e poi di bullismo. Un bullismo feroce, consapevole e adulto: quello di certi suoi colleghi, di certi impresari, di certi giornalisti. Mia è vissuta per anni nella post verità, nel regno delle bufale e delle cattiverie. E non c’erano nemmeno gli algoritmi dei social media a rilanciarle. Di fake news e bullismo si può morire, è bene saperlo. Ieri come oggi. Sono veleni iniettati per privare la vittima di ogni difesa. In ebraico c’è un’espressione forte per indicare la maldicenza, lashon hara (malalingua). È considerata una colpa gravissima, che Dio non tollera: «Non andrai in giro a spargere calunnie fra il tuo popolo né coopererai alla morte del tuo prossimo» (Levitico 19:16). Nelle nostre società laiche e illuminate, il reato ha sostituito il peccato. Ma il rito tribale e persecutorio della maldicenza è sempre lo stesso, amplificato oggi dal «popolo del web».
Fake news, bufale e dintorni, scrive Paolo Campanelli il 17 maggio 2017. Con la scusa dell’“informazione libera e super partes perché fatta dall’uomo qualunque” che molti hanno visto in internet, la bufala ha invece raggiunto il livello opposto, diventando propaganda, il metodo più diretto di attacco costituzionale. L’amore per le bufale è un curioso concetto. Certo, c’è chi spaccia notizie con titoli dubbi o incompleti per far andare persone sui propri siti e guadagnare soldi, c’è lo Schierato Politico Estremo che s’inventa storielle inverosimili per favorire la propria posizione, ma molte, troppe false notizie vengono semplicemente buttate nella rete e lasciate a loro stesse. Prima di andare oltre, c’è da fare una chiara differenza: la bufala è differente dal giornale di satira; dove la prima è disinformazione, i secondi fanno ironia con situazioni chiaramente grottesche e impossibili, il Vernacoliere è lo storico giornale cartaceo, mentre Lercio è uno dei più famosi siti internet al riguardo. Il problema sorge quando le fonti delle bufale si fingono giornali di satira. Ma una cosa è dire che il politico “presunto corrotto” di turno ha un indice di gradimento del 215% nelle carceri, cosa impossibile già matematicamente oltre che improbabile dal punto di vista della necessità di fare rilevazioni, o prendere qualche istantanea da una fiction o un cartone animato e aggiungerci sotto una didascalia che la faccia sembrare presa da un momento critico nei libri di storia e aggiunto il colore, un’altra è incolpare il gruppo di immigrati di turno di aver fatto danni ad un palazzo storico aggiungendo la foto di qualche resto archeologico cittadino o dei veri e propri ruderi tanto comuni nel territorio italiano. Quella delle bufale recentemente soprannominate Fake News (seguendo la denominazione americana diventata famosa per via del costante usa da parte del loro Presidente, è una situazione che si autoalimenta, una persona che crede a varie bufale diventa più suscettibile ad altre, creando un loop di cecità dalla quale il credulone non si riesce a liberare, al grido di “metti tutto in discussione”. Tralasciando però la seconda parte “e analizza i risultati metodicamente per non farti ingannare nuovamente”. Il caso più eclatante degli ultimi tempi è stata quello di “Luciana” Boldrini: sorella di Laura, presidente della Camera dei Deputati, accusata di aver speso, solo nell’ultimo anno, ingenti somme pubbliche nell’accoglienza di immigrati oltre a ciò già fatto dal governo. In realtà Lucia Boldrini, pittrice, è morta da più di trent’anni. E il punto di origine della bufala non lascia alcun dubbio, si trattava di un attacco a base di “fango politico” in piena regola. Ricostruendo il percorso di alcune delle bufale dalla diffusione più rapida infatti, si giunge ad una cerchia di persone che le creano “professionalmente”, fin troppo spesso collegati con medie e piccole industrie e con gruppi politici; dove l’obbiettivo dei secondi è chiaramente quello di ottenere il voto di persone facilmente influenzabili anche al di fuori dei sostenitori del proprio partito, per le aziende si tratta di manovre più subdole: incrementare la vendita di prodotti “alternativi” mettendo in circolo l’informazione di come i prodotti più diffusi creino problemi all’organismo o all’ambiente, talvolta persino con informazioni parzialmente corrette. La storia degli acidi a base di limone che circolava a inizio 2013 è emblematica, in quanto prendeva in considerazione che il succo di limone è effettivamente una sostanza acida utilizzata come sgrassatore e come anticoagulante in ambito medico (acido citrico), ma nelle percentuali di purezza e quantità in cui si trova negli alimenti è comunque inferiore all’acidità dei succhi gastrici. Gli effetti più estremi di una bufala possono essere sottovalutati, vedendo come molte possano essere risolte con una semplice e rapida ricerca su un qualsiasi browser internet, ma tre sono i giganteschi esempi di una bufala fuori controllo: l’omeopatia, i vaccini e l’olio di palma. Omeopatia e vaccini richiedono conoscenze chimiche di un livello al di sopra di quello del cittadino medio, e comunque prenderebbero troppo tempo, l’olio di palma, invece, pur se segue gli stessi schemi, è un “concetto” estremamente più comprensibile. Fino a un paio di anni fa, nessuno si interessava all’olio di palma, eccetto le industrie alimentari; l’olio di frutti e semi di palma è sempre stato utilizzato in Africa e medio oriente per una moltitudine di usi, fra cui la preparazione di cibo, anche sostituendo oli e altri tipi di grassi, come ad esempio il burro, sapone, ed infine, nel caso del Napalm e del biodiesel, come componente di armi e di carburanti rispettivamente; una delle peculiarità dell’olio di palma è che ha una grande percentuale di grassi saturi, e quindi può essere confezionato in un panetto simile al burro a temperatura ambiente, che ne semplifica la lavorazione quando si ha a che fare con gli enormi quantitativi industriali. Tuttavia, con l’aumento della richiesta nel XX secolo, la coltivazione della palma ha portato a un incremento delle colture a discapito di altre produzioni, e di deforestazione. A questo si aggiunge che il consumo smodato di quest’olio ha effetti deleteri sull’organismo, identici all’eccesso di burro e di grassi. A partire dalla metà del 2014, però, cominciò a girare la notizia che “l’olio di palma fa male”; In breve tempo, espandendosi a macchia…d’olio, la notizia lasciò tutta l’Europa terrorizzata. I reparti di marketing delle grandi aziende, però, presero la palla al balzo, e scrissero chiaramente sui loro prodotti che non contenevano olio di palma, anche su quelli che non lo avevano mai utilizzato. Eccetto la Ferrero, che forte della sua posizione, e della sua cremosità, affermò fermamente che la Nutella, e tutti i suoi fratelli dolciari, avrebbero continuato a usare l’olio di palma nelle loro ricette, poiché parte essenziale nella creazione del gusto e non come araldo dei mali dovuti all’eccesivo consumo di dolci (arrivando persino a fare test di laboratorio). Questo ha indubbiamente posto il potenziale bersaglio della “bufala” di fronte ad un inatteso dilemma tra l’ansia indotta dalla pressione mediatica ed il consolidato piacere della adoratissima crema di nocciole. Con la scusa dell’“informazione libera e super partes perché fatta dall’uomo qualunque” che molti hanno visto in internet, la bufala ha invece raggiunto il livello opposto, diventando propaganda, il metodo più diretto di attacco costituzionale. La costituzione, infatti, delinea la libertà di informazione, che è legata a doppio filo con la libertà di opinione degli utenti, e con l’obbligo per chi fornisce le informazioni di, attendibilità, cioè di dimostrare che si tratta di fatti avvenuti. Due concetti che non possono e non devono sovrapporsi l’uno all’altro, ma che non hanno alcuna limitazione se semplicemente messi in rete e spacciati per “Fatto”. Dei passi contro la disinformazione e le bufale sono stati fatti sia dai governi di vari paesi, fra cui dei timidi passi anche in Italia, che dai privati, prevalentemente dai social network, ma a questo deve corrispondere un minimo di attività da parte dell’utente, il cosiddetto “Fact Checking” (o in italiano, controllo delle fonti), particolarmente da parte di chi si è “laureato all’università della vita” e da chi si è ritirato dagli studi, conscio di una minore abilità in ambito di studio e comprensione.
Merkel culona, Travaglio ammette che l'intercettazione di Berlusconi non esisteva, scrive il 30 Settembre 2017 "Libero Quotidiano". Era rimasto solo il direttore del Fatto quotidiano, Marco Travaglio, a difendere l'ultima imbarazzante bufala su Silvio Berlusconi, rimasta appiccicata all'ex premier sin dal lontano 2011. A settembre di quell'anno, ricorda Yoda sul Giornale, il giornale di Travaglio aveva attribuito al Cav una presunta battuta sulla "culona della Merkel" ritrovata in una fantomatica intercettazione. Quella leggenda ha avuto vita lunga e fortunata, è circolata per mezzo mondo, ha scatenato non pochi problemi alla politica estera italiana, visto poi quel che è successo pochi mesi dopo al vertice di Cannes, con i sorrisini beffardi tra la cancelliera tedesca e l'allora presidente francese Nicolas Sarkozy. Naturalmente quella battuta non è mai esistita, era una bufala della quale tutti i giornalisti italiani prima o poi hanno dovuto fare ammenda con i propri lettori. Era rimasto solo Travaglio a insistere sulla veridicità di quella notizia falsa, almeno fino a qualche giorno fa. In un suo sterminato editoriale, il direttore del Fatto: "si è arreso. Alla sua maniera - scrive Yoda - senza chiedere scusa". In un passaggio un po' distratto, infatti, Travaglio ha scritto: "Le intercettazioni poi non uscirono (o non c'erano, o furono stralciate per irrilevanza penale)...". E si è lavato la coscienza.
Ora Travaglio ammette: "Merkel culona? Una fake news". La falsa intercettazione sulla Merkel sparata dal "fatto" contribuì alla caduta del cavaliere. Ora la rettifica (senza scuse), scrive Yoda Sabato 30/09/2017 su "Il Giornale". Forse aveva ragione Crozza, il nostro è davvero il Paese delle meraviglie, dove non esistono inibizioni e il senso del pudore è un perfetto sconosciuto. Ogni limite viene puntualmente superato il giorno dopo. È il caso della presunta battuta di Silvio Berlusconi su «quella culona della Merkel», che il Fatto attribuì nel settembre del 2011 al Cav, sostenendo che fosse contenuta in una non meglio precisata intercettazione. Una battuta che, come al solito, finì senza che nessuno ne verificasse la fondatezza, nel frullatore dei media e in un baleno fece il giro del mondo. I meccanismi dell'informazione sono noti. La sparata era troppo ghiotta: un premier che si riferisce a una collega in quel modo, non è roba da tutti i giorni. La compassata Bbc, addirittura, ne chiese conto in un'intervista allo stesso Berlusconi. E magari anche a ragione, visti i danni provocati da quella colorita espressione: passò qualche mese, infatti, e la Merkel restituì il favore al vertice di Cannes, con quel sorrisetto ironico in compagnia di Sarkozy, sulle disgrazie del Cavaliere. Ebbene, in un Paese come il nostro, in cui ci manca poco che le intercettazioni siano pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale, questa qui non è mai venuta fuori. Ha mantenuto i contorni di una leggenda di Palazzo. Non per nulla negli anni si è fatta avanti l'ipotesi, sempre più fondata, che fosse stata solo una grossa bufala, orchestrata sapientemente da chi voleva la caduta del governo Berlusconi nel 2011. A difenderla nella giungla della disinformazione, era rimasto solo l'ultimo giapponese Marco Travaglio. Addirittura, quando al congresso del Ppe del 2015, Berlusconi e la Merkel, dopo un lungo periodo di gelo, erano tornati a parlarsi, l'attuale direttore del Fatto, tentò ancora una strenua difesa, tirando in ballo l'ex cancelliere Gerhard Schröder, che si sarebbe congratulato con il Cavaliere per quella battuta caduta dal cielo e mai pronunciata.
Solo l'altro ieri, l'ultimo giapponese è venuto fuori dalla giungla con le mani alzate, e si è arreso. Alla sua maniera. Senza chiedere scusa. Nel solito chilometrico fondo di prima pagina, infatti, tornando a ironizzare sul nuovo rapporto di buon vicinato tra la Merkel e il Cav, Travaglio, in un inciso contenuto in una parentesi, buttato lì, in maniera distratta, ha ammesso: «Le intercettazioni poi non uscirono (o non c'erano, o furono stralciate per irrilevanza penale)...». Delle due ipotesi, naturalmente, vale solo la prima, visto che il direttore del Fatto, da esperto del settore, conosce benissimo la storia di un Paese in cui le intercettazioni che non c'entrano un tubo con le indagini, sono le prime a essere pubblicate. E che questa sia la sua opinione lo si arguisce dalla frase successiva, in cui restituisce quell'espressione allo sterminato archivio delle vulgate di Palazzo: «Chi lo conosceva giurava che il Gran Simpaticone la chiamava così». Ma se questo è il metro con cui si giudica la fondatezza di una battuta, allora si può tranquillamente scrivere che Travaglio ha dato del «cornuto» a Santoro, magari solo perché qualcuno immagina che sia una voce ricorrente nella redazione del Fatto. Ma, a parte le solite amenità, visto che non è mia abitudine infierire sull'ultimo giapponese, forse sarebbe il caso, di fermarsi un attimo. Una battuta pubblicata su un giornale non fa male a nessuno. Resta nell'ambito del possibile, del probabile. Cosa diversa, invece, è dargli quell'aureola di prova inconfutabile, che in un Paese malato come il nostro, si porta dietro un verbale di polizia giudiziaria. Non per nulla le intercettazioni telefoniche sono diventate il totem che ha scandito il tramonto della prima repubblica e l'intera storia della seconda. Hanno mandato gente in galera, rovinato carriere, fatto cadere governi. Solo che nel volgere di pochi mesi, prima abbiamo scoperto nel caso Consip, che possono essere taroccate da qualche pubblico ufficiale, animato da smanie di protagonismo, o dal desiderio di vestire i panni del giustiziere. E ora lo stesso gran sacerdote, il custode del totem, ci svela il mistero arcano dell'intercettazione mai esistita. E lo ammette con lo stesso distacco con cui un serial killer parla dei suoi delitti. Se a questo bilancio, non certo lusinghiero, aggiungiamo il fatto che una delle intercettazioni che forse valeva più la pena di conoscere, cioè quella che riguardava l'ex capo dello Stato, Giorgio Napolitano, è stata distrutta su categorica richiesta dell'interessato, c'è da porsi qualche domanda sul meccanismo infernale che si è messo in piedi su uno strumento di indagine, indubbiamente efficace, se usato in maniera corretta. Un meccanismo che si rivela arbitrario se le intercettazioni vengono artefatte, inventate o, usate, a seconda, di chi è l'ascoltato. In questo caso più che uno strumento di giustizia, l'intercettazione diventa un strumento a uso delle peggiori lotte di potere.
Un uso deviato per cui nessuno paga dazio. Anche perché, se si milita in quella parte dello schieramento, che ne difende l'uso smodato, si gode di una certa comprensione. Ne sa qualcosa l'avvocato Fabio Viglione, che per ottenere il rinvio a giudizio dell'ultimo giapponese, si è dovuto rivolgere tre volte alla Cassazione. Tre Gip, infatti, gli hanno risposto picche, malgrado la vicenda fosse alquanto chiara: una giornalista del Tg1, Grazia Graziadei, aveva riportato che nel 2009 i bersagli intercettati dalle diverse procure erano stati 132mila per un costo di 170 milioni; Travaglio, anche lui sorpreso dall'entità dei numeri, l'aveva accusata «di avere spacciato cifre a casaccio» e «truffaldine» per dati ufficiali del ministero di Giustizia. In realtà erano proprio quelli i dati del ministero. Dopo sei anni l'ultimo Gip, a cui è tornata la richiesta della Cassazione, quasi per sfinimento, ha detto di «sì» al processo. E, comunque, anche il rinvio a giudizio, non andrà da nessuna parte. Basta chiederlo all'avvocato Fabrizio Siggia che, in un processo per diffamazione, si è sentito rispondere da Travaglio: «L'articolo è all'evidenza satirico». Scoprendo che, in fin dei conti, il «gran simpaticone» scrive per Il Fatto, più o meno, come per il Vernacoliere.
Rai, Alfano denuncia autori e conduttori Gazebo: "Mi diffamano da tre anni". Lo annuncia una nota di Alternativa Popolare: "Non si è trattato di un singolo atto ma di una intera campagna durata anni a spese del contribuente", scrive il 20 maggio 2017 "La Repubblica". Angelino Alfano denuncia autori e conduttori del programma Rai Gazebo (condotto da Diego 'Zoro' Bianchi su Rai3) per diffamazione, in sede civile e penale: lo annuncia una nota di Alternativa Popolare, il partito del ministro degli Esteri. "Ieri, con i soldi degli italiani, due milioni e mezzo di euro per il 2017!!!, si è consumata la consueta diffamazione. Quel che è più grave è che essa è stata perpetrata da parte del servizio pubblico". La nota spiega che: "Ieri, con i soldi degli italiani - due milioni e mezzo di euro per il 2017 - si è consumata la consueta diffamazione. Quel che è più grave è che essa è stata perpetrata da parte del servizio pubblico. Il presidente di Alternativa Popolare, Angelino Alfano, annuncia, dunque, di avere dato mandato ai propri legali per denunciare autori e conduttori di Gazebo in sede civile e in sede penale". È quanto si legge in una nota. "Alla denuncia, Alfano allegherà i riferimenti diffamatori a lui rivolti durante gli ultimi tre anni di puntate televisive di Gazebo, per dimostrare ciò che sarà facile dimostrare: non si è trattato di un singolo atto diffamatorio - che sarebbe stato comunque grave - ma di una intera campagna diffamatoria durata anni a spese del contribuente e con una pervicacia diffamatoria che rende plateale il dolo, l’intenzionalità, la tenace volontà di creare un danno alla persona e all’area politica che rappresenta. Il punto è reso ancor più grave dall’enorme sproporzione che vi è, all’interno del servizio pubblico, tra lo spazio dedicato alla diffamazione da questa trasmissione e lo spazio dedicato alla informazione, in altre trasmissioni Rai, sulla medesima area politica e sulla stessa persona che la rappresenta. Infine, è stata la stessa Rai 3, pochi giorni fa, a sottolineare che tale trasmissione è un mix tra informazione e satira, con questa frase contenuta nella nota che era stata diffusa e che riportiamo qui fedelmente: ’... programma caratterizzato dal mix di satira e informazione che ne definiscono l’identità...’. Quindi, se è già stato ampiamente superato il confine della satira traducendosi in diffamazione, a maggior ragione tutto ciò nulla ha avuto a che fare con l’informazione. Ultima considerazione amara: questa diffamazione non può che essersi svolta con la azione o la dolosa e persistente omissione di una intera catena di comando che, dalla rete sino ai vertici massimi, ha consentito questi abusi. Anche costoro, nei limiti del legalmente consentito, saranno, da Alfano, chiamati a rispondere sia nel giudizio civile che nel giudizio penale. Alfano fa presente, infine, di essere giunto a questa amara determinazione dopo tre anni di paziente sopportazione di questo scempio che ha fatto il servizio pubblico, nella speranza che vi fosse un operoso ravvedimento nella diffamazione". L'annuncio della denuncia arriva a pochi giorni dall'ultima polemica: Alternativa Popolare aveva negato l'accredito a Gazebo per partecipare alla conferenza stampa sulla legge elettorale convocata nella sede del partito di Alfano.
“Casa Renzi”, la soap opera infinita del Fatto Quotidiano, scrive Lanfranco Caminiti il 17 Maggio 2017 su "Il Dubbio". Il caso Consip e la miseria del giornalismo: quando l’informazione diventa pettegolezzo e spettacolo di bassa lega. Quel che conta è la cornice narrativa e non più i fatti.
‘Ofiglie: Tu ha da riciri ‘ a verità, ggiura. Ggiura ca nun ricuordi.
‘ O pate: T’o ggiuro, nun m’arricuord nniente.
‘ O figlie: Ggiurale ‘ ncoppa a Maronna ‘ e Pumpei.
‘ O pate: ‘ O ggiuro, ncoppa a Marunnina nuost’. Nun m’arricuordo nniente.
‘ O figlie: E nun mmiettiri ‘ a mmiezzu ‘ a mamma. ‘ Nce fa’ passa’ nu guaie.
‘ O pate: No, t’o ggiuro, ‘ a mamma, no.
‘ O figlie: Statte bbuono. E accuorto.
Non è un dialogo spoilerato dell’ennesima puntata dell’ennesima stagione della saga dei Savastano, insomma della fiction Gomorra. Piuttosto una verace traslazione, dal toscano del “giglio magico” al napoletano più proprio della notitia criminis (tutto ruota intorno il napoletano imprenditore Alfredo Romeo), dell’ennesima puntata dell’ennesima stagione di intercettazioni intorno “casa Renzi” – secondo la sceneggiatura di Marco Lillo, casa di produzione Il Fatto Quotidiano. La quale casa di produzione pubblica (cioè spoilera, fregando il segreto delle procure) un fitto e drammatico dialogo tra figlio e padre Renzi riguardo l’incontro con uno degli imputati del caso Consip. Come se fosse, appunto, la conferma di quanto ha sempre sostenuto – un appalto “mafiosizzato”, in cui imprenditori, facilitatori, politici e commissari si tengono insieme da un patto scellerato di corruzione – e non, piuttosto, quanto è lampante, evidente. Che cioè, l’allora presidente del Consiglio e segretario del Partito democratico non ne sapesse proprio una beneamata mazza, e che, pure, tutto quest’ambaradam è stato costruito “ad arte” per colpirlo. Come è possibile questo, cioè che l’una cosa venga spacciata per l’altra? È possibile per lo stesso meccanismo per il quale se un personaggio muore in una stagione di una fiction può capitare che risorga due stagioni dopo: quello che conta cioè è la “cornice narrativa”, per un verso, e la disponibilità dello spettatore, per l’altro. E anche la cosa più inverosimile, cioè che un morto resusciti, viene passata per buona. Vedete, è la stessa risposta di Marco Travaglio quando gli si fa notare che tutto è un po’ illegittimo. E lui che dice? Non è questo che conta, è la “sostanza” che conta. La “sostanza” è solo il racconto. La tensione drammatica del dialogo tra figlio e padre Renzi c’è tutta. Un figlio deve chiedere conto al padre di un certo comportamento. Di un episodio, di una cosa. È un uomo fatto, ormai, e l’altro è sulla strada del declino. È un destino, questo, che prima o poi tocca tutti. Ma non a tutti tocca prendere di petto il proprio padre, incalzarlo di domande, metterlo all’angolo perché sia limpido, almeno per una volta, per questa volta. Accenna a qualcosa d’altro – e toccando proprio un tasto che sa l’altro ha proprio a cuore, la fede – per fargli capire che non è proprio aria, che non sorvolerà come magari altre volte è accaduto. Sa che il padre indulge alla bugia, magari piccola piccola, di quelle che si dicono per il bene – è un insegnamento che i cattolici conoscono a perfezione. O forse solo all’omissione. Lo ha fatto con lui, chissà quante volte quand’era piccino, e adesso ancora, adesso che è l’uomo più potente d’Italia, lo ha fatto con un suo braccio destro, Luca Lotti. «E non farmi dire altro», questo dice Matteo Renzi a suo padre. L’altro sa di cosa stia parlando il figlio, capisce, tace. Non farmi dire altro: è una frase forte, potente. Terribile. Matteo Renzi è un maschio alfa, un capo branco. Ha fatto presto, forse anche troppo presto, a misurare la sua forza, i suoi denti, la sua zampata con i vecchi capi del suo branco – non erano di già sdentati. Li ha rottamati a cornate, a unghiate, a morsi. Per quello che era la storia del suo partito era poco più di un cucciolo – la gerontocrazia vigeva sovrana nei partiti comunisti d’occidente. Eppure, quel cucciolo – all’inizio guardato con sufficienza nella sicurezza di domarlo al primo impatto – ha mostrato che era impastato di smisurata ambizione e forza. S’era addestrato in casa, prima. Forse presto, troppo presto, aveva già preso a cornate il proprio padre. Il primo, probabilmente, a essere rottamato. Vedete, in letteratura, c’è il complesso di Edipo, l’amore del figlio verso la madre e l’ostilità verso il padre, e il complesso di Elettra, per spiegarlo dalla parte delle bambine, e il complesso di Giocasta, l’amore morboso di una madre per il figlio. Ma non c’è letteratura, e nominazione, per un complesso del padre verso il figlio. Quell’uomo è tornato adesso come un incubo. E anche gli altri – quelli che ha rottamato politicamente – sono tornati come un incubo. Tutto troppo presto: nei racconti tutto questo accade quando il personaggio è ormai in agonia, negli ultimi giorni di vita, in cui rivede a ritroso la propria storia e tutti quelli che ha “fatto fuori” per il potere, quel dannato potere, tornano come fantasmi malmostosi. Chi sta accelerando il corso degli eventi narrativi? Qual è la manina che scrive? Che di soap opera si tratti è ormai evidente. Gli ingredienti ci sono tutti. Il malloppo, anzitutto, ovvero: l’avidità. E poi, il militare infedele, le carte false, il giudice che non decide su fatti e reati ma se gli atteggiamenti di uomini e donne siano o meno integerrimi, le gazzette ciarliere, gli azzeccagarbugli, la famiglia, quella naturale e quella allargata della Massoneria, e soprattutto: isso, issa e ‘ o malamente. Dove isso e issa è abbastanza facile identificarli, in Renzi e in Maria Teresa Boschi. Non c’è niente che unisca il caso Consip e il caso Banca Etruria, certo, a parte l’appartenere entrambi i personaggi principali, le dramatis personae, allo stesso “pacchetto di mischia”. Non c’è niente che unisca il caso Consip e il caso Banca Etruria, tranne il fatto che siano due giornalisti – de Bortoli e Lillo – le “gole profonde”. Scrivono e trascrivono, orecchiano e intercettano, alludono e illudono. A un certo punto, combaciano pure. Nella tempistica, intendo. Escono allo scoperto.
Sono loro, i due scrivani, ‘ o malamente? Due persone, in carne, ossa e testata, per un solo personaggio? Qualcosa si va sfaldando nella storia. Il militare infedele – che avrebbe dovuto “sacrificarsi” – va in giro a raccontare come sono andate davvero le cose. A chi rispondeva. Gli era stato ordinato di fare così, non è farina del suo sacco. Quasi, dice, ho solo obbedito agli ordini. E addita il responsabile. È stato il magistrato che indagava a voler lasciare intendere che i servizi segreti si stessero interessando della cosa – non c’è proprio traccia di questa storia, ma un faldone che racconta di come probabilmente i servizi segreti si sarebbero potuti interessare di questa storia. E le trascrizioni un po’ abborracciate, in cui l’uno veniva scambiato con l’altro, e quello che aveva detto l’uno veniva messo in bocca all’altro, beh, sì, quelle forse sono state un mio errore – dice l’infedele – però, dovete capirmi, ero sotto stress, quello – il giudice – voleva dei risultati e io non avevo in mano niente. Lo chiamava di notte, mentre compulsava ancora le sudate carte, il giudice Woodcock al capitano Scarfato per chiedergli conto di cosa fosse riuscito a concludere quel giorno? O lo chiamava all’alba, mentre iniziava a compulsare le sudate carte, per incitarlo a concludere finalmente qualcosa quel giorno? Che qua, di risultati, se ne vedevano pochini. Ah, che stress per il povero capitano. A un certo punto deve aver capito che sarà solo lui a pagare, a finire a dirigere il traffico a Forlimpopoli, e non ci sta. Tutto l’impianto narrativo rischia di impazzire come la maionese. E qua ‘ o malamente iesce ‘ a fora.
Banca Etruria, Renzi contro De Bortoli: "È ossessionato da me". Renzi in campo per blindare la Boschi: "Che Unicredit studiasse il dossier Etruria è il segreto di Pulcinella". E attacca De Bortoli: "Ha un'ossessione per me", scrive Sergio Rame, Sabato 13/05/2017, su "Il Giornale". "Ferruccio de Bortoli ha fatto il direttore dei principali quotidiani italiani per quasi vent'anni e ora spiega che i poteri forti in Italia risiedono a Laterina? Chi ci crede è bravo". In una intervista a tutto campo al Foglio, Matteo Renzi va all'attacco dopo le indiscrezioni sul salvataggio di Banca Etruria pubblicate dall'ex direttore del Corriere della Sera sul nuovo libro Poteri forti (o quasi). "De Bortoli ha una ossessione personale per me che stupisce anche i suoi amici". "Quando vado a Milano, mi chiedono: ma che gli hai fatto a Ferruccio? Boh. Non lo so". Nell'intervista al Foglio l'ex premier non fa sconti a De Bortoli: "Forse perché non mi conosce. Forse perché dà a me la colpa perché non ha avuto i voti per entrare nel Cda della Rai e lo capisco: essere bocciato da una commissione parlamentare non è piacevole. Ma può succedere, non mi pare la fine del mondo". Per Renzi "che Unicredit studiasse il dossier Etruria è il segreto di Pulcinella". "Praticamente tutte le banche d'Italia hanno visto il dossier Etruria in quella fase. Come pure il dossier Ferrara, il dossier Chieti, il dossier Banca Marche. Lo hanno visto tutti e nessuno ha fatto niente", continua Renzi. Che, poi, aggiunge: "Ferruccio de Bortoli ha detto falsità su Marco Carrai. Ha detto falsità sulla vicenda dell'albergo in cui ero con la mia famiglia. Ha detto falsità sui miei rapporti con la massoneria. Non so chi sia la sua fonte e non mi interessa. So che è ossessionato da me. Ma io non lo sono da lui. È stato un giornalista di lungo corso, gli faccio i miei auguri per il futuro e spero che il suo libro venda tanto". Renzi è convinto che, quanto prima, "si chiariranno le responsabilità a vari livelli". "E - avverte - se c'è un motivo per cui sono contento che la legislatura vada avanti fino ad aprile 2018 è che avremo molto tempo per studiare i comportamenti di tutte le istituzioni competenti. Cioè, competenti per modo di dire. Non vedo l'ora che la commissione d'Inchiesta inizi a lavorare. Come spiega sempre il professor Fortis, vostro collaboratore, Banca Etruria rappresenta meno del 2 per cento delle perdite delle banche nel periodo 2011-2016. Boschi senior è stato vicepresidente non esecutivo per otto mesi e poi noi lo abbiamo commissariato: mi pare che non sia stato neanche rinviato a giudizio. Se vogliamo parlare delle banche, parliamone. Ma sul serio".
Sulla propria pagina Facebook, De Bortoli replica ricordando all'ex premier che "avendo detto due volte no alla proposta di fare il presidente, non era tra le mie ambizioni essere eletto nel cda della Rai". E incalza: "Visto quello che sta accadendo, ringrazio di cuore per non avermi votato. Non avrei potuto comunque accettare avendo firmato un patto di non concorrenza". Poi continua: "Io non ho mai scritto che è un massone, mi sono solo limitato a porre l'interrogativo sul ruolo della massoneria in alcune vicende politiche e bancarie. Ruolo emerso, per esempio, nel caso di Banca Etruria. Ho commesso degli errori, certo". Nel libro ne ammette diversi in oltre quarant'anni. Come quello, in un articolo pubblicato sul Corriere della Sera sul caso JpMorgan-Mps, della data di un sms solidale inviato da Marco Carrai a Fabrizio Viola, "licenziato" poi dal governo. "Non so quali falsità siano state scritte sul soggiorno a Forte dei Marmi nell'estate del 2014 - continua - mi aspetterei invece da Renzi che chieda scusa al collega del Corriere che, in quella occasione, stava facendo il suo lavoro e alloggiava nell'hotel. L'inviato venne minacciato dalla scorta che gli intimò di andarsene. E gli faccio i miei migliori auguri per il suo libro che uscirà a breve".
Giornalismo del controregime, scrive Piero Sansonetti il 13 Maggio 2017 su "Il Dubbio". Le fake news sono diffuse dai social network o comunque dalla rete? No. Le fake news sono diffuse principalmente dai giornali e dalle televisioni. I social vengono a rimorchio, le rilanciano. Ma non sono loro a costruirle. Almeno, non sono loro a costruire le fake importanti. La responsabilità della creazione delle bugie e del loro uso come arma politica e di disinformazione ricade soprattutto sui grandi quotidiani e sui grandi giornalisti. Giornalismo di contro- regime Cioè, giornalismo di regime. Proviamo un inventario di avvenimenti recenti. Caso Guidi, con annesse dimissioni della ministra. Caso Consip, con annessa richiesta di dimissioni del ministro Luca Lotti. Caso Ong, con annessa richiesta di limitazione dell’azione dei soccorsi ai migranti sul Mediterraneo. Caso De Bortoli, con annessa – ed ennesima – richiesta di dimissioni della ministra Maria Elena Boschi. Su questi quattro casi i giornali italiani e i principali talk show televisivi hanno vissuto per mesi e mesi. Con titoli grandi in prima pagina e – alcuni – con vere e proprie campagne di stampa, molto moraleggianti e molto benpensanti. Certo, soprattutto del “Fatto Quotidiano” – che quando offre ai suoi lettori una notizia vera succede come successe a Nils Liedholm quando per la prima volta in vita sua sbagliò un passaggio: lo Stadio di San Siro lo salutò con una ovazione… – ma anche di parecchi altri giornali che godono di alta fama. Ora vediamo un po’ come sono finiti questi quattro casi.
Guidi: mai incriminata. L’inchiesta giudiziaria che la sfiorò, Tempa Rossa, conclusa con il proscioglimento di tutti. Era una Fake. Federica Guidi è scomparsa dai radar della politica.
Consip, l’inchiesta è stata trasferita a Roma, le accuse al padre di Renzi erano fondate su una intercettazione manipolata da un carabiniere, anche le notizie sull’ingerenza dei servizi segreti (evidentemente mandati da Renzi per ostacolare le indagini) erano inventate da un carabiniere e l’informativa al Pm che riguardava queste ingerenze era stata scritta su suggerimento dello stesso Pm che avrebbe dovuto esserne informato. Fake e doppia fake.
Ong, l’ipotesi del Procuratore di Catania che fossero finanziate dagli scafisti è stata esclusa dalla Procura di Trapani da quella di Palermo e da svariati altri magistrati. Fake. Intanto l’azione di soccorso ha rallentato.
De Bortoli. Sono passati ormai quattro giorni da quando, per lanciare il suo libro sui poteri forti, l’ex direttore del Corriere della Sera e del Sole 24 Ore ha diffuso la notizia della richiesta di Maria Elena Boschi all’amministratore delegato di Unicredit di comprare la banca nella quale lavorava il padre. Boschi ha smentito nettamente. Anche la banca ha dichiarato che non risulta niente. De Bortoli ha fatto mezza marcia indietro, poi ha accusato Boschi e Renzi, o almeno i loro ambienti, di essere massoni, ed è andato in Tv, senza portare neppure uno straccio di prova delle sue accuse ed evitando il confronto diretto con gli avvocati della Boschi. Tranne improvvisi colpi di scena, appare evidente un po’ a tutti che l’accusa di De Bortoli è infondata, altrimenti, ormai, avrebbe fornito degli elementi a sostegno della sua tesi. Anche qui possiamo dire: fake.
La questione invece del complotto massonico a favore di Renzi, denunciato da de Bortoli, non è definibile esattamente una fake, è solo qualcosa di già visto tante volte nella politica italiana. In frangenti non bellissimi. Il più famoso complotto massonico – per la precisione giudaico-massonico, anzi: demo-pluto-giudaicomassonico – fu denunciato da Mussolini, nel 1935, per favorire la persecuzione dei massoni e poi lo sterminio degli ebrei. Non ci fa una gran figura De Bortoli a tornare sul quel concetto, peraltro senza avere proprio nessun indizio sulla appartenenza di Boschi o di Renzi alla massoneria. E in ogni caso andrà segnalato il fatto che la massoneria non è una associazione a delinquere. Furono massoni, in passato, un gran numero di Presidenti americani, tra i quali Washington e Lincoln, furono massoni poeti come Quasimodo e Carducci, furono massoni Cesare Beccaria, Mozart, Brahms, e svariate altre centinaia di geni, tra i quali moltissimi giornalisti di alto livello, parecchi dei quali del Corriere della Serra. Possibile che un giornalista colto e autorevole come De Bortoli scambi la massoneria per Avanguardia Nazionale? Eppure De Bortoli ha trovato grande sostegno nella stampa italiana. In diversi giornali e in diverse trasmissioni Tv la sua “ipotesi di accusa” alla Boschi è stata ed ancora in queste ore è presentata come dato di fatto: «Lei che ha svelato la richiesta della ministra…». Una volta esisteva la stampa di regime. Ossequiosa verso i politici, soprattutto, e in genere verso l’autorità costituita. Ora esiste la stampa di anti- regime. O di contro- regime, che però funziona esattamente come la stampa di regime. Anche perché ha dietro di se poteri molto forti. Non solo un pezzo importante di magistratura ma uno schieramento vasto di editori, cioè di imprenditoria, diciamo pure un pezzo robustissimo della borghesia italiana. De Bortoli oggi è sostenuto da quasi tutti i mezzi di informazione, e si può pensare tutto il bene possibile di lui, tranne una cosa: che sia un nemico dei poteri forti. De Bortoli, per definizione, è i poteri forti. Lo è sempre stato, non lo ha mai negato, nessuno mai ne ha dubitato.
La stampa di contro-regime funziona esattamente così. Non è una stampa di denuncia ma una stampa che costruisce notizie e le difende contro ogni evidenza e logica anche queste crollano. Nei regimi totalitari questa si chiamava “disinformazia” ed aveva un compito decisivo nel mantenimento al potere delle classi dirigenti. Ora si chiama fake press e ha un ruolo decisivo nella lotta senza quartiere che è aperta nell’establishment italiano per la conquista del potere, di fronte alla possibilità di un rovesciamento dei rapporti di forza nel ceto politico. L’avanzata dei 5 Stelle ha provocato un terremoto. Pezzi molto grandi, autorevoli e potenti proprio dei poteri forti si predispongono a dialogare coi 5 Stelle, prevedendone, o temendone, l’ascesa al governo. Questo movimento tellurico squassa la democrazia e devasta i meccanismi dell’informazione. Esistono le possibilità di resistere, di fermare il terremoto, di reintrodurre il principio di realtà – se non addirittura di verità – nella macchina dei mass media che lo ha perso? Non è una impresa facile. Molto dipende dai giornalisti. Che però, nella loro grande maggioranza, oggi come oggi non sembrano dei cuor di leone…
Ferruccio, per favore, se hai le prove mostrale, scrive Piero Sansonetti il 12 Maggio 2017 su "Il Dubbio". Il caso Boschi-Banca Etruria si sta sgonfiando. Finirà nel dimenticatoio come il caso-Guidi, il caso-Lupi, il caso Madia? Il caso-Boschi si ridimensiona. Molti giornali di destra hanno mollato la presa dopo la parziale marcia indietro di Ferruccio De Bortoli, che ha spiegato di non aver mai sostenuto che la Boschi fece pressioni indebite su Unicredit per salvare Banca Etruria. Eppure nel suo libro c’è scritto che «Boschi chiese a Ghizzoni (amministratore delegato di Unicredit) di valutare l’acquisto di Banca Etruria». Resta in campo, al momento, solo Il Fatto Quotidiano che ieri si è lanciato in soccorso di De Bortoli sostenendo di avere le prove della colpevolezza della Boschi. Lo ha scritto enorme, in prima pagina, con l’inchiostro rosso: «Boschi mente: ecco le prove». E ha pubblicato un servizio d Giorgio Meletti nel quale si parla di una riunione a casa del papà della Boschi, dirigente di Banca Etruria, con gli amministratori della stessa Banca Etruria e di alcune banche del Nord. A questa riunione – dice Meletti – che si tenne nel marzo del 2014, partecipò anche la Boschi. Il servizio di Meletti è fatto molto bene e sembra assai informato, anche se naturalmente occorreranno dei riscontri. E tuttavia resta una domanda: ma Meletti non accenna nemmeno all’ipotesi che a questa riunione, o ad altre riunioni, partecipò Ghizzoni. E allora perché mai questo fatto dovrebbe provare che De Bortoli ha ragione? Ieri de Bortoli ha partecipato alla trasmissione televisiva “Otto e Mezzo” di Lilli Gruber. Ha detto che la vicenda di Banca Etruria è tutta una vicenda di massoneria. Un paio d’anni fa aveva detto la stessa cosa del governo Renzi. Né allora né adesso, però, ha citato elementi di prova, o almeno di indizio. Più che altro è sembrata una sua sensazione. Se anche le accuse alla Boschi di aver tentato di spingere Ghizzoni a comprare la Banca dove lavorava il papà dovessero basarsi solo su una sua impressione, non sarebbe una buona cosa. Questa vicenda può concludersi in tre modi. O De Bortoli si decide a portare le prove della sua affermazione, e allora il governo Gentiloni va a gambe all’aria. O De Bortoli queste prove non le ha, e davvero ha scritto il libro solo basandosi su voci raccolte in ambienti vicini a Unicredit, e allora ci troveremmo di fronte a un capitolo nerissimo per il giornalismo italiano. Oppure può succedere che i due contendenti capiscono che è meglio non esagerare nel duello, anche perché l’uno e l’altra hanno dietro le spalle forze abbastanza potenti e capaci di far male, e in questo caso anche “Il Fatto” abbasserà i toni e tutta la storia passerà in cavalleria. Come è successo col caso-Guidi, col caso-Lupi, col caso Madia. E’ sicuramente la terza l’ipotesi più probabile. E non è una bella cosa, né per il giornalismo né per la politica.
Quelle cene con Ligresti per tornare in via Solferino. La vacanza dell'ex direttore nel resort in Sardegna, scrive Domenica 14/05/2017, "Il Giornale". Le cronache raccontano di aragoste a quintali per gli ospiti illustri di Salvatore Ligresti al Tanka Village di Villasimius, in Sardegna. Vecchie storie, un'altra epoca, uno splendore e una leggerezza che ormai non ci sono più. Alla corte dell'ingegnere, quando i tempi del crack Fonsai erano ancora molto lontani, accorrevano in tanti, per lo più personalità del mondo politico e istituzionale, ministri, generali, prefetti, sottosegretari, direttori. Andare al Tanka era un po' lavorare, perché lì si tessevano le relazioni pubbliche che contavano e che portavano spesso alle poltrone importanti. Relazioni rigorosamente trasversali, bipartisan si direbbe oggi. Il Tanka, insomma, veniva considerato un po' una prosecuzione dell'ufficio. Anche se molti scroccavano pure la vacanza, visto che pochi alla fine pagavano il conto. Qualcuno, quando poi se n'è parlato sui giornali, ha persino negato di esserci stato. Non si sa mai. Tra i tanti che negli anni sono passati per il bellissimo villaggio sardo un tempo regno della famiglia Ligresti c'era anche l'ex direttore del Corriere della Sera, Ferruccio de Bortoli. Correva l'estate del 2008. All'epoca non guidava più il quotidiano di via Solferino, che aveva già diretto per sei anni, dal 1997 al 2003, ma era già in trattativa per tornarci e si muoveva in quella direzione. C'è chi lo ricorda, infatti, ospite di Ligresti, proprio lì, nel resort di Villasimius, dove l'ingegnere amava organizzare cene speciali per i suoi ospiti di riguardo. Quell'estate il giornalista trascorse qualche giorno al Tanka e tutte le sere sedeva al tavolo di Ligresti, in quel periodo ancora saldamente al vertice di Fonsai, azionista di peso del patto di sindacato dell'editore del Corriere della Sera. Per poter tornare al timone di via Solferino, insomma, era quello il posto giusto dove mangiare aragoste in compagnia e dove valeva la pena trascorrere qualche giorno di vacanza. Di lì a qualche mese, infatti, de Bortoli tornò al comando del giornale milanese, dove è poi rimasto fino al 2015. E pensare che in quei giorni d'estate furono in molti a stupirsi di vederlo al Tanka, tra i clientes di Ligresti. C'è anche chi lo ricorda bersaglio di amichevoli sfottò sull'argomento da parte di chi sedeva con lui al tavolo dell'ingegnere e che sapeva bene perché fosse lì. Pare che lui non gradisse le prese in giro sull'evidente motivo della sua presenza in quel luogo. Era tanti anni fa. Un'altra epoca, appunto.
Il libro di de Bortoli e la memoria corta sul "Corriere" indipendente, scrive Alessandro Sallusti, Venerdì 12/05/2017, su "Il Giornale". Ho letto Poteri forti (o quasi), il libro di Ferruccio de Bortoli già direttore del Corriere della Sera e del Sole24Ore - edito da «La nave di Teseo», di cui si parla in questi giorni per il clamore suscitato dal capitolo che svela l'interessamento della ministra Boschi presso Unicredit per agevolare il salvataggio della banca di papà, la Etruria. «Memorie di oltre quarant'anni di giornalismo», recita il sottotitolo di copertina. E questo basta per mettere l'autore al riparo da critiche su eventuali errori ed omissioni nel racconto che corre fluido come si addice alla penna di un grande giornalista e direttore. Perché di «memoria» ognuno ha la sua e ha il diritto di centellinarla a suo piacimento, che sia per amnesia o per calcolo. Non so perché Ferruccio de Bortoli abbia deciso di raccontarsi a soli 64 anni. Di solito l'autobiografia salvo casi di conclamato narcisismo o ragioni economiche arriva a chiudere una carriera, non a rilanciarla. Svelare retroscena, dare giudizi su uomini viventi e potenti si presta a ritorsioni pericolose. Conoscendo la cautela dell'uomo, grande e cauto navigatore, mi vien quindi da pensare che de Bortoli consideri conclusa la sua brillante carriera, almeno nel giornalismo attivo e di vertice. Fatti suoi, ovviamente. Ma torniamo al libro. De Bortoli vuole farci credere di essere stato per dodici anni (in due tranche, 1997-2003, 2009-2015) a capo di un giornale tempio della libertà e sentinella di democrazia, arbitro imparziale delle partite alcune violente e drammatiche - che si giocavano nel Paese. È la vecchia tesi, retorica e falsa, della sacralità del Corriere della Sera, giornale in cui ho lavorato per diversi anni e che quindi ho ben conosciuto dall'interno. Il Corriere è stato il primo, e per lungo tempo unico, grande e ricco giornale nazionale e per questo ha allevato e ospitato le migliori firme del giornalismo e della cultura per oltre un secolo. Fin dalla nascita, il vestito è stato a libera scelta da qui la sua apparente indipendenza - del direttore e dei giornalisti, ma il cappello è sempre stato attaccato dove padrone voleva: monarchico durante la monarchia, fascista sotto il fascismo, antifascista alla caduta del regime, piduista all'epoca della P2, filo-Fiat sotto il regime di Agnelli, benevolo, negli anni più recenti governati da Bazoli, con il sistema finanziario e bancario vincente. Quest'ultimo è un club di miliardari i cui membri, come tutti i padroni, sono conservatori, ma hanno la necessità di apparire progressisti per non avere rogne nel loro espandersi nell'ombra (in Francia la chiamano «sinistra al caviale»). Tutto ciò non significa che de Bortoli non sia stato un direttore libero. Lui, nato in altro mondo (la sua era una solida e umile famiglia), sognava e studiava fin da giovane racconta chi l'ha frequentato in quegli anni di entrare in quell'ambiente dorato ed esclusivo. Sulla plancia del giornale degli Agnelli prima e dei banchieri poi è stato quindi perfettamente a suo agio. Più che di indipendenza parlerei quindi di coerenza.
Non è poca cosa, la coerenza, cioè la fedeltà alle proprie idee. Ma perché non dirlo? Perché evitare, in una biografia di oltre duecento pagine, di scrivere due righe sul suo essere stato un giovane e convinto comunista, sia pur di quelli che, essendo intelligenti, avevano capito che più che le piazze era meglio frequentare i salotti, che le parole potevano essere più utili e potenti delle spranghe alle quali, infatti, l'uomo, a differenza di tanti compagni, non si è mai neppure avvicinato. Nel libro la fede politica di de Bortoli la si deduce solo dal fatto che le offerte di lavoro che narra di aver ricevuto (presidente Rai, sindaco di Milano, direttore del Corriere) gli arrivavano sempre da politici o banchieri di sinistra (una, in verità, da Letizia Moratti, ma era appunto per dirigere il Tg3). Essere di sinistra è infatti la non misteriosa precondizione per dirigere il Corriere della Sera, altrimenti non si spiega come a giornalisti altrettanto bravi (penso a Montanelli prima di lui e a Vittorio Feltri suo quasi coetaneo) sia stata negata tale possibilità. Anche l'attuale direttore, Luciano Fontana, non a caso professionalmente e culturalmente nasce e cresce all'Unità. De Bortoli (con Paolo Mieli, con il quale si è avvicendato più volte al comando) è stato la faccia presentabile dell'antiberlusconismo militante, la lunga mano della sinistra politica e affaristica (che nel libro, giustamente, si vanta di aver frequentato con reciproca stima e soddisfazione) per manipolare l'opinione pubblica in punta di regole («la notizia è notizia», ama ripetere il direttore, quasi a scusarsi). Noi tutti sappiamo che cosa de Bortoli che oggi ci rinfresca la memoria anche con aneddoti curiosi - è stato libero di scrivere e far scrivere, non cosa non ha pubblicato (potere questo più importante del primo). E, forse, non lo sa neppure lui, perché in un giornale l'acqua inevitabilmente scorre dove il direttore (e il padrone) traccia il solco. Escludo in modo categorico che de Bortoli sia mai stato servo di qualcuno, ma socio ho il sospetto di sì. Forse pure dei magistrati che davano la caccia a Silvio Berlusconi. Nel libro c'è un lungo paragrafo di elogi a Ilda Boccassini («ne ammiro il coraggio, per fortuna il Paese ha toghe come lei, coraggiosa e preparata»). Dice di averla incontrata tante volte, la chiama per nome, «Ilda», incurante di poter così suscitare anche solo un sospetto sull'origine di tanta abbondanza di informazione che il Corriere ha sfornato durante il caso Ruby («una inchiesta per la quale è stata ingiustamente attaccata», scrive senza aggiungere che l'imputato, Berlusconi, è stato assolto per non aver commesso il fatto e che, quindi, non fu una grande inchiesta). Di Berlusconi scrive con distacco: «Il Cavaliere non si arrese mai all'idea che un giornale liberale non stesse per definizione dalla sua parte». Per la verità il Corriere della Sera è stato «per definizione» contro Berlusconi, il cui dubbio è lo stesso che negli ultimi cinquant'anni hanno avuto in tanti: come ha fatto un giornale che si dice liberale a farsi soggiogare dal Pci, dal sindacato interno (un vero Soviet con diritto di censura), fino a strizzare l'occhio alla non pacifica rivoluzione sessantottina? Cosa c'era, nel 1994, di liberale nello sperare che Occhetto prendesse il potere a scapito di un partito davvero liberale come Forza Italia (io c'ero, dietro le quinte, e l'apparente equidistanza era tifo vero)? Cosa c'è stato di liberale nel fare un endorsement, alla vigilia del voto del 2006, a firma del direttore (Paolo Mieli, prima volta nella storia di quel giornale) a favore di un governo Prodi-Bertinotti? Cosa c'è stato di liberale nell'avere un pregiudizio profondo nei confronti non solo di un liberale come Silvio Berlusconi, ma di chiunque emergesse in qualsiasi campo (arte, letteratura, musica, perfino lo sport) e non fosse dichiaratamente di sinistra? La risposta è semplice: Il Corriere, da un secolo a questa parte, non è un foglio liberale. È un camaleonte che ha ingannato, e inganna tuttora, i suoi non pochi lettori liberali (e tutti i politici liberali che bramano di apparire sulle sue colonne). Il Corriere di de Bortoli è stato, lo ripeto, «per definizione» e con un abile gioco di doppi pesi e doppie misure, contro tutto ciò che non era omologato al clan. Tra i suoi editori nel consiglio di amministrazione Rcs - De Bortoli ne ha avuto uno mal visto dai salotti della sinistra e simpatico alla destra: Salvatore Ligresti. E, guarda caso, è l'unico che nelle sue memorie stronca anche con un certo cattivo gusto: «Mi sono trovato a disagio a sedermi a tavola con la sua famiglia». Ora, è vero che Ligresti era un personaggio atipico, che è fallito malamente. Ma sono certo che la sua coscienza non è meno linda di quella di diversi suoi soci apparentemente «per bene» tanto cari al direttore. Certo, è facile vantarsi, con un eccesso di civetteria, dell'amicizia di Mario Draghi: «Una sera camminavo per Parigi, mi suona il telefonino: ciao Ferruccio, sono Mario...». Facile liquidare l'appoggio entusiasta dato dal Corriere al disastroso governo Monti dando un paio di buffetti al Professore oggi in disuso. Facile svelare solo oggi l'aggressione subita da un cronista del Corriere da parte di Matteo Renzi, taciuta quando l'aggressore era potente primo ministro. Insomma, è facile continuare la narrazione della favola di un Corriere della Sera vergine e nelle mani di coraggiosi paladini senza macchia con fonti disinteressate. Facile e pure legittimo. Ma, almeno io, non ci casco.
IL POLITICAMENTE CORRETTO. LA NUOVA RELIGIONE DELLA SINISTRA.
Insultare la Boldrini è prova di «maschia libertà», scrive Piero Sansonetti il 16 Aprile 2017, su "Il Dubbio". Sul web troneggia la notizia degli affari d’oro che la sorella di Laura Boldrini combina sulla pelle degli immigrati. Questa sorella della Boldrini – dice il web – si chiama Luciana ed è la presidente di 340 cooperative di assistenza ai profughi. Chiaro che si mette in tasca i milioni. E chiaro anche che è stata Laura a indicarle la buona strada. E giù insulti. «Scandalo, scandalo!!! E i giornali, complici non ne parlano! Farabutta, farabutta!». Eh già: Boldrini è la casta, signori, vedete come è arrogante?. Però non è vero niente. Insultare Laura Boldrini è prova di «maschia libertà»? La sorella di Laura Boldrini è morta alcuni anni fa. La sorella di Laura Boldrini non si chiamava Luciana. La sorella di Laura Boldrini non presiedeva alcuna cooperativa ma faceva la restauratrice di opere artistiche. Non è vero niente ma sono veri, e bruciano, gli insulti che piovono a valanga sui social, nei post, nelle mail. In questa storia si congiungono due questioni, diverse, che spesso si mescolano. La questione delle fake news, ossia delle notizie false (quelle che una volta si chiamavano leggende metropolitane) e la questione, cosiddetta, del linguaggio dell’odio. Le leggende metropolitane sono una vecchia storia, non si sapeva come nascessero ma entravano nel cuore dell’opinione pubblica. Una volta si diceva che la moglie di Rutelli fosse la proprietaria di tutti i parcheggi con le strisce blu di Roma. Oppure che il tale leader politico avesse determinate abitudini sessuali, o una certa fidanzata o un certo fidanzato segreto, e cose simili. Tutto falso. Ma ci sono anche leggende metropolitane più pericolose, come quella – per citarne una storica – che gli zingari rubano i bambini, o che gli ebrei sono proprietari di tutti i posti chiave nell’economia di una città, o di una regione. Fino a qualche anno fa queste leggende “aleggiavano” e facevano danni, ma non potevano diffondersi, e soprattutto “inverarsi”, attraverso la potenza incontrollabile della rete. Ora il problema si è molto aggravato, perché non solo è sempre più difficile smentire le fake news, ma la proporzione tra notizie vere e notizie false si sta ribaltando. Le notizie vere diventano minoranza, e in questo modo il rapporto tra conoscenza e verità salta in aria.
È un problema? Si, è un problema serissimo, soprattutto perché al diffondersi dell’informazione non vera (quella che in Unione sovietica era ben organizzata dallo Stato, si chiamava “disinformazia” ed era un formidabile strumento di governo e di controllo sociale) si è sommato il dilagare del linguaggio dell’odio. Di che si tratta? Della convinzione sempre più diffusa che la misura del valore di ciascun odi noi – della nostra libertà, e del nostro coraggio, e della nostra capacità ideale – risieda nella forza d’odio che riusciamo ad esprimere. Usando modi di espressione violenti e mirando a demolire l’interlocutore col quale vogliamo dissentire, e umiliarlo, e ferirlo profondamente.
Gli avvocati italiani (e cioè il Cnf, il Consiglio nazionale forense) sono riusciti in queste settimane a organizzare un evento che avrà una notevole importanza: un G7 degli avvocati, che si svolgerà in settembre e metterà a confronto i rappresentanti delle avvocature dei sette paesi più industrializzati del mondo. E questo G7 degli avvocati avrà come tema dei suoi lavori proprio questo: come opporsi al linguaggio dell’odio senza mettere in discussione la libertà di parola, di pensiero, di espressione, di stampa.
Problema non semplice e che sicuramente riguarda molto da vicino il giornalismo italiano. Perché è chiaro che il dilagare della “disinformazia” e dell’odio è uno dei risultati della perdita di funzione del giornalismo. Il quale aveva tra i suoi compiti principali quello di mediare tra notizie e popolo, e dunque produrre informazione vera, verificata, di qualità, approfondita. Il giornalismo si è trovato spiazzato dall’improvviso successo della rete, e ha visto assottigliarsi il suo ruolo di mediatore e di “intellettuale”. Ma invece di elaborare una strategia di rilancio dell’informazione di qualità, ha preferito accodarsi al linguaggio dell’odio e alle fake news. Facilitato dalla retorica anti- casta. Le fake news e l’odio vengono usati come mazza per colpire la casta, cioè soprattutto i politici, e in questo modo si costruisce una gigantesca auto- giustificazione: “vado contro il potere dunque sono coraggioso – dunque ho ragione”. Il ruolo della verità sparisce. A dare la prova di correttezza e di giustezza non è il vero o il falso, ma il grado di rabbia e di attacco al presunto potere. Questa abitudine giornalistica – il caso Consip, con le clamorose balle che ha prodotto, è un esempio lampante e recente – è sospinta da un’ “onda” popolare, ma a sua volta è lei stessa il motore che alimenta quest’onda, e la protegge, e la giustifica, e la sostiene. Qual è la causa e quale l’effetto è difficile dire. È facile dire, invece, che se il giornalismo non si pone il problema di affrontare la propria crisi di identità, sarà difficile fronteggiare la barbarie del falso e dell’odio. E chi vorrà inondare di fango la Boldrini, o chiunque altro, potrà farlo liberamente e sentirsi eroico, libero e vero maschio.
Perché diciamo “migrante” anziché “immigrato”? Ce lo spiega la Boldrini, scrive Adriano Scianca il 18 maggio 2015 su “Il Primato Nazionale”. “Migrante”, participio presente del verbo “migrare”. Grammaticalmente, la parola indica un’azione che è in corso, che si sta svolgendo in questo momento, senza riguardo al passato o al futuro. Indica quello che stai facendo ora, non ciò che hai fatto o ciò che farai. Non c’è né origine né destinazione in un participio presente. Forse è per questo che il termine è stato scelto come definizione ufficiale delle masse sradicate che muovono il grande business dell’immigrazione. Finché la lingua italiana ha avuto una sua logica esistevano gli emigrati (chi lasciava una terra per andare altrove) e gli immigrati (chi si era mosso da casa sua e raggiungeva un nuovo luogo), che potevano anche essere le stesse persone ma viste da prospettive differenti. L’emigrato è andato da qui verso altrove, l’immigrato è arrivato qui da altrove. Resta comunque l’idea di un punto di partenza e di arrivo, lo spostamento è una parentesi limitata al fatto di raggiungere un determinato luogo.
Nei primi anni Ottanta, tuttavia, comincia a comparire nei documenti ufficiali della Cee la parola “migrante”. Il giornalismo italiano recepisce la novità a partire dalla fine di quel decennio, ma è in questi ultimi anni che la parola entra nel linguaggio comune, sospinta anche dall’eugenetica linguistica operata dal politicamente corretto.
I motivi del cambio sono spiegati dall’Accademia della Crusca: “Rispetto a migrante, il termine emigrante pone l’accento sull’abbandono del proprio paese d’origine dal quale appunto si esce (composto con il prefisso ex via da) per necessità e mantenendo un senso profondo di sradicamento su cui proprio quel prefisso ex sembra insistere […]. Migrante sembra invece adattarsi meglio alla condizione maggiormente diffusa oggi di chi transita da un paese all’altro alla ricerca di una stabilizzazione: nei molti transiti, questo è il rischio maggiore, si può perdere il legame con il paese d’origine senza acquisirne un altro altrettanto forte dal punto di vista identitario con il paese d’arrivo, restare cioè migranti”.
L’emigrante, nel nostro immaginario collettivo, è l’italo-americano o l’italiano che si è stabilito in Belgio o Germania per trovare lavoro. Persone che, per quanto siano riuscite a integrarsi, spesso solo dopo diverse generazioni, per noi restano sempre “italiani all’estero”, con un legame anche solo virtuale che non si spezza. Ma legami e appartenenze non sono visti di buon occhio oggi, potrebbero essere portatrici o suscitatrici di razzismo.
Aggiunge il sito della Treccani: “Emigrante, come dice l’etimo, sottolinea il distacco dal paese d’origine, calca sull’abbandono da parte di chi ne esce, come segnala anche l’etimologico e- da ex- latino. Ad emigrante, proprio per via di quel prefisso, ma anche a causa del precipitato storico che si è sedimentato nell’uso della parola, si associa l’idea del permanere di un’identità segnata dal disagio del distacco, e dunque l’allusione a una certa difficoltà di inserimento nella nuova realtà di vita […]. In ogni caso, migrante sembra adattarsi meglio alla definizione di una persona che passa da un Paese all’altro (spesso la catena include più tappe) alla ricerca di una sistemazione stabile, che spesso non viene raggiunta. In tal senso, il senso di durata espresso dal participio presente che sta alla base del sostantivo viene sottolineato: il migrante sembra sottoposto a una perpetua migrazione, un continuo spostamento senza requie e senza un approdo definitivo”.
Una “perpetua migrazione”: è questo il concetto chiave. E va interpretato alla luce di un ragionamento illuminante fatto a suo tempo da Laura Boldrini, secondo la quale il migrante è “l’avanguardia dello stile di vita che presto sarà lo stile di vita di moltissimi di noi”. Anzi, secondo la Boldrini gli immigrati “sono molto più contemporanei di noi. Di me ad esempio che sono nata in Italia, sono cresciuta in Italia, ho anche lavorato fuori ma poi continuerò come tanti di noi a vivere in questo Paese”. Ecco quindi perché dire “migrante” anziché “immigrato”: perché indica una condizione di sradicamento generale, di continuo movimento, di nomadismo spirituale in cui forgiare il nuovo cittadino del mondo, rappresentato dall’immigrato ma al cui modello tutti ci dobbiamo ispirare. L’immigrazione è un esperimento di laboratorio, la creazione di un uomo nuovo a cui tutti prima o poi ci dovremo conformare, eliminando il peccato originale del radicamento per essere anche noi “più contemporanei” e cessare di pensarci come italiani, marocchini, cinesi o romeni. A quel punto, finalmente, nascerà l’homo boldrinicum, senza più origini né radici. Adriano Scianca
Boldrini regina del politicamente corretto: amica dei migranti ma lei non migra, scrivono il 15 Agosto 2016 Francesco Borgonovo e Adriano Scianca su “Libero Quotidiano”. È come il bambino di quella storiella, quello che indica il sovrano in veste adamitica e dice: «Il re è nudo». Anzi, no, il paragone non calza. Questa è un'altra favola. Qui non c' è il re, c' è una regina ed è vestita. È lei che guarda il popolo e urla: «Siete tutti nudi». È il motivo per cui perfino la sua corte la odia: parla troppo, parla troppo sinceramente, dice quello che sarebbe conveniente non dire, smaschera tutti i piani. Se sveli al popolo che lo stai riducendo in mutande, il gioco si rompe. Lei è Sua Maestà Laura Boldrini, la regina del politicamente corretto. Sul fatto che, anche nella metafora, lei sia vestita è meglio insistere, giusto per autotutelarsi: tre anni fa, per esempio, cominciò a girare in rete una foto di una donna nuda vagamente simile al presidente della Camera. Era un fake, una bufala. Ma chi la condivise sui social network si ritrovò nel giro di qualche giorno la polizia alla porta. È fatta così, lei, sta sempre allo scherzo. È una delle ragioni per cui, pur essendo l'incarnazione vivente del pensiero dominante, finisce per non riscuotere troppi consensi nemmeno in tale ambito: non solo parla troppo, ma è pure permalosa. Del resto, quando qualche anno fa decise di rendersi «più simpatica», la Boldrini scelse come consulente Gad Lerner. Uno di cui tutto si può dire tranne che sia «popolare» o, appunto, particolarmente simpatico. Basta questo particolare a rendere l'idea di quanta presa sulle masse sia capace di esercitare Laura.
Una così sarebbe capace di gettare discredito su qualsiasi causa appoggiasse. E se si tratta di una causa particolarmente impopolare, un certo tatto è necessario. Prendiamo la Grande Sostituzione. Significa che prendi l'Italia, scrolli via da essa gli italiani come se fossero formiche attaccate a un tramezzino durante un picnic, e ci metti dentro popoli venuti da altri continenti. È quello che sta succedendo, qui da noi e non solo. Ma non lo puoi dire così, altrimenti c' è il rischio che qualcuno si incazzi sul serio. Devi per lo meno girarci attorno, ammantare le tue argomentazioni di finto buonsenso, se possibile citare «gli economisti» o non precisati «studi americani». Laura no, non ce la fa. Lei è priva della malizia dei politici. Quando prova a ragionare in soldoni risulta goffa, come quando twittò: «Italia è Paese a crescita zero. Per avere 66 milioni di abitanti nel 2055 dovremo accogliere un congruo numero di #migranti ogni anno». Sì, vabbé, ma chi se ne frega di avere 66 milioni di abitanti qualsiasi nel 2055, possiamo anche essere 55 milioni di italiani senza dover portare l'Africa intera in casa nostra, no? A quanto pare, per Madama Boldrini non è così. Ma il meglio di sé, Laura lo dà quando parla a briglia sciolta. Una delle sue uscite più memorabili riguardò la confusione tra immigrati e turisti: «Non possiamo, senza una insopportabile contraddizione, offrire servizi di lusso ai turisti affluenti e poi trattare in modo, a volte, inaccettabile i migranti che giungono in Italia dalle parti meno fortunate del mondo, spesso in condizioni disperate», disse. Ma cosa c' entra? La Boldrini proprio non riusciva a capire che noi non «offriamo» servizi di lusso a nessuno ma che i turisti li hanno solo perché pagano per averli. Per gli immigrati, invece, è lo Stato a pagare. Ma la vera origine di queste gaffes è «filosofica».
Il top del Boldrini-pensiero risiede infatti nella sua visione del futuro in stile Blade Runner. Parliamo di quella volta in cui disse che il migrante è «l'avanguardia di questa globalizzazione» e, soprattutto, è «l'avanguardia dello stile di vita che presto sarà lo stile di vita di moltissimi di noi». Capito?
Non si tratta di trasformare l'immigrato in cittadino europeo, come vorrebbe (vanamente) la retorica dell'integrazione. Siamo noi a dover diventare come lui. Noi dobbiamo integrarci con i suoi usi e costumi, o meglio con il rifiuto di ogni uso o costume, occorre solo abbandonarsi a un insensato nomadismo, all' abbandono generalizzato di ogni radice. Che l'obiettivo fosse quello di ridurre in miseria noi anziché di dare benessere a loro era già chiaro. Ma, appunto, è una di quelle cose che in genere si dicono con una certa prudenza. Laura no, lei non ha filtri. Del resto non è una politica di professione e non ha quindi le astuzie della categoria.
Laureata in Giurisprudenza, durante l'università ha dedicato metà del tempo allo studio, metà a viaggi nel Sud-est asiatico, Africa, India, Tibet: all' epoca preferiva ancora andare lei nel Terzo Mondo anziché portare il Terzo Mondo qua. Giornalista pubblicista, ha lavorato per un periodo anche in Rai prima di dar seguito alla sua vera vocazione: mettere radici nell' inutile carrozzone burocratico dell'Onu. Nel 1989, grazie ad un concorso per Junior Professional Officer, comincia la sua carriera alle Nazioni Unite lavorando per quattro anni alla Fao come addetta stampa. Dal 1993 al 1998 lavora presso il Programma alimentare mondiale come portavoce e addetta stampa per l'Italia. Dal 1998 al 2012 è portavoce della Rappresentanza per il Sud Europa dell'Alto Commissariato per i Rifugiati dell'Organizzazione delle Nazioni Unite (UNHCR) a Roma. Qui scopre il suo vero eroe: il migrante. Quando vede un migrante, Laura perde ogni freno: deve ospitarlo, mantenerlo, incensarlo. Arrivano orde di stranieri sui barconi? Lei vuol dare a tutti il permesso di soggiorno. Erdogan perseguita i turchi? Nemmeno il tempo di capire se ci saranno persone in fuga dal Paese che lei è già pronta a spalancare le frontiere. Tanto, che male può mai fare il Santo Migrante? Di sicuro non può essere un possibile jihadista, perché il terrorismo e l'immigrazione, per la Boldrini, non hanno alcun legame. E, comunque sia, i conflitti religiosi non esistono. Dunque, dal migrante non ci si può attendere che buone cose. Dopo tutto, egli è un po' il partigiano del nuovo millennio. Sì, Laura lo disse davvero, nel corso di un 25 aprile: «70 anni fa erano i partigiani che combattevano per la libertà in Italia, oggi capita che molti partigiani che combattono per la libertà nei loro Paesi, dove la libertà non c' è, siano costretti a scappare, attraversando il Mediterraneo con ogni mezzo». Combattono o scappano? Perché fare le due cose insieme non è possibile. In genere si usano i verbi come due contrari, anzi. O combatti, o scappi. Ma la logica, si sa, è un riflesso indotto dalla società patriarcale. Così come la grammatica. I suoi siparietti con i deputati che si ostinano a usare la «sessista» lingua italiana sono noti. Ma per lei è una crociata: «Sono arciconvinta - ha detto recentemente al Corriere della Sera - che la questione del linguaggio rappresenti un blocco culturale.
La massima autorità linguistica italiana, la Crusca, dice chiaramente che tutti i ruoli vanno declinati nei due generi: al maschile e al femminile. Ma la maggior parte accetta di farlo solo per i ruoli più semplici, e si blocca per gli altri». La Crusca le dà ragione. La Crusca: quella di «petaloso». Per la Boldrini, la politica è fatta solo di simboli, battaglie di principio, questioni formali. Un altro dei suoi chiodi fissi sono le pubblicità. «Certe pubblicità che noi consideriamo normali, con le donne che stanno ai fornelli e tutti gli altri sul divano, danno un'immagine della donna che invece non è normale e che non corrisponde alla realtà delle famiglie», disse una volta. Donne in cucina, che orrore, dove andremo a finire di questo passo? Praticamente non parla d' altro.
Nel maggio del 2013 auspicò orwellianamente nuove «norme sull' utilizzo del corpo della donna nella comunicazione e nella pubblicità» perché «se la donna viene resa oggetto nella sua immagine puoi farne quel che vuoi». Si sa, è un attimo passare dallo spot della crema abbronzante al femminicidio. Passarono pochi mesi e nel luglio 2013, si guadagnò più di qualche critica definendo una «scelta civile» quella della Rai di non trasmettere più Miss Italia. Nel settembre successivo tornò sul punto in un convegno, parlando di pubblicità e stampa. «Penso a certi spot italiani in cui papà e bambini stanno seduti a tavola mentre la mamma in piedi serve tutti. Oppure al corpo femminile usato per promuovere viaggi, yogurt, computer». Pubblicità obbligatorie con papà che cucinano: è praticamente il punto in cima alla sua agenda. Il femminismo caricaturale della Boldrini arriva al punto di distinguere gli attacchi politici a seconda del genere di chi attacca: «Per principio mi rifiuto di entrare in dispute tra donne che vanno a indebolire la posizione femminile. Se una donna mi attacca, mi aggredisce in quanto donna, non rispondo. Non mi presto». Ma che vuol dire? Se ti attacca un uomo rispondi, se lo fa una donna no? Questa non è discriminazione? Curioso strabismo. Non è l'unico caso.
Attenta alle parole degli spot, Laura è stata molto più di bocca buona nel soppesare il linguaggio del «Grande imam di al-Azhar Ahmad Mohammad Ahmad al-Tayyeb», invitato qualche mese fa a tenere una «Lectio Magistralis» sul tema «Islam, religione di pace» che si sarebbe dovuta tenere nella Sala della Regina di Montecitorio. E pazienza se lo stesso aveva esaltato gli attacchi suicidi contro i civili in Israele, se aveva detto in tv che alle mogli si possono rifilare «percosse leggere», se ai combattenti dell'Isis voleva infliggere «la morte, la crocifissione o l'amputazione delle loro mani e piedi» ma non - attenzione - perché siano degli assassini, ma perché «combattono Dio e il suo profeta», cioè perché non interpretano l'islam come dice lui. Le donne in cucina negli spot, no. Se vengono percosse leggermente dall' imam, invece, va tutto bene. Contraddizioni, ipocrisia? Non nel fantastico mondo di Laura. Dove tutti i migranti sono buoni. Anche perché tutti sono migranti. Francesco Borgonovo e Adriano Scianca
Chissà se madonna Laura Boldrini, papessa della Camera, ha letto di recente I promessi sposi e s'è dunque imbattuta in Donna Prassede, bigottissima moglie di Don Ferrante, convinta di rappresentare il Bene sulla terra e dunque affaccendatissima a "raddrizzare i cervelli" del prossimo suo e anche le gambe ai cani, sempre naturalmente con le migliori intenzioni, di cui però - com'è noto - è lastricata la via per l'Inferno, scrive Marco Travaglio per Il Fatto Quotidiano l'11 marzo 2014. Noi tenderemmo a escluderlo, altrimenti si sarebbe specchiata in quel personaggio petulante e pestilenziale descritto con feroce ironia da Alessandro Manzoni, e avrebbe smesso di interpretarlo ogni giorno dal suo scranno, anzi piedistallo di terza carica dello Stato. Invece ha proseguito imperterrita fino all'altroieri, quando ha fatto sapere alla Nazione di non avere per nulla gradito l'imitazione "sessista" della ministra Boschi fatta a Ballarò da Virginia Raffaele, scambiando la satira per lesa maestà e l'umorismo su una donna potente per antifemminismo. E chissenefrega, risponderebbe in coro un altro paese, abituato alla democrazia, dunque impermeabile alla regola autoritaria dell'Ipse Dixit. Invece siamo in Italia, dove qualunque spostamento d'aria provocato dall'aprir bocca di un'Autorità suscita l'inevitabile dibattito.
Era già capitato quando la Rottermeier di Montecitorio aveva severamente ammonito le giovani italiane contro la tentazione di sfilare a Miss Italia, redarguito gli autori di uno spot che osava financo mostrare una madre di famiglia che serve in tavola la cena al marito e ai figli, sguinzagliato la Polizia postale alle calcagna degli zuzzurelloni che avevano postato sul web un suo fotomontaggio in deshabillé e fare battutacce - sessiste, ça va sans dire - sul suo esimio conto (come se capitasse solo a lei), proibito le foto e i video dei lavori parlamentari in nome di un malinteso decoro delle istituzioni, fatto ristampare intere risme di carta intestata per sostituire la sconveniente dicitura "Il presidente della Camera" con la più decorosa "La presidente della Camera". Il guaio è che questa occhiuta vestale della religione del Politicamente Corretto è incriticabile e intoccabile in quanto "buona". E noi, tralasciando l'ampia letteratura esistente sulla cattiveria dei buoni, siamo d'accordo: Laura Boldrini, come volontaria nel Terzo Mondo e poi come alta commissaria Onu per i rifugiati, vanta un curriculum di bontà da santa subito. Poi però, poco più di un anno fa, entrò nel listino personale di Nichi Vendola e, non eletta da alcuno, anzi all'insaputa dei più, fu paracadutata a Montecitorio nelle file di un partito del 3 per cento e issata sullo scranno più alto da Bersani, in tandem con Grasso al Senato, nella speranza che i 5Stelle si contentassero di così poco e regalassero i loro voti al suo governo immaginario. Fu così che la donna che non ride mai e l'uomo che ride sempre (entrambi per motivi imperscrutabili) divennero presidenti della Camera e del Senato.
La maestrina dalla penna rossa si mise subito a vento, atteggiandosi a rappresentante della "società civile" (ovviamente ignara di tutto) e sventolando un'allergia congenita per scorte, auto blu e voli di Stato. Salvo poi, si capisce, portare a spasso il suo monumento con tanto di scorte, auto blu e voli di Stato. Tipo quello che la aviotrasportò in Sudafrica ai funerali di Mandela, in-salutata e irriconosciuta ospite, in compagnia del compagno. Le polemiche che ne seguirono furono immancabilmente bollate di "sessismo" e morte lì. Sessista è anche chi fa timidamente notare che una presidente della Camera messa lì da un partito clandestino dovrebbe astenersi dal trattare il maggior movimento di opposizione come un branco di baluba da rieducare, dallo zittire chi dice "il Pd è peggio del Pdl" con un bizzarro "non offenda", dal levare la parola a chi osi nominare Napolitano invano, dal dare di "potenziale stupratore" a "chi partecipa al blog di Grillo", dal ghigliottinare l'ostruzionismo per agevolare regali miliardari alle banche. Se ogni tanto si ghigliottinasse la lingua prima di parlare farebbe del bene soprattutto a se stessa, che ne è la più bisognosa. In fondo non chiediamo molto, signora Papessa. Vorremmo soltanto essere lasciati in pace, a vivere e a ridere come ci pare, magari a goderci quel po' di satira che ancora è consentito in tv, senza vederle alzare ogni due per tre il ditino ammonitorio e la voce monocorde da navigatore satellitare inceppato non appena l'opposizione si oppone. Se qualcuno l'avesse mai eletta, siamo certi che non l'avrebbe fatto perché lei gli insegnasse a vivere: eventualmente perché difendesse la Costituzione da assalti tipo la controriforma del 138 (che la vide insolitamente silente) e il potere legislativo dalle infinite interferenze del Quirinale e dai continui decreti del governo con fiducia incorporata (che la vedono stranamente afona). Se poi volesse dare una ripassatina ai Promessi Sposi, le suggeriamo caldamente il capitolo XXVII: "Buon per lei (Lucia) che non era la sola a cui donna Prassede avesse a far del bene; sicché le baruffe non potevano esser così frequenti. Oltre il resto della servitù, tutti cervelli che avevan bisogno, più o meno, d'esser raddrizzati e guidati; oltre tutte l'altre occasioni di prestar lo stesso ufizio, per buon cuore, a molti con cui non era obbligata a niente: occasioni che cercava, se non s'offrivan da sé; aveva anche cinque figlie; nessuna in casa, ma che le davan più da pensare, che se ci fossero state. Tre eran monache, due maritate; e donna Prassede si trovava naturalmente aver tre monasteri e due case a cui soprintendere: impresa vasta e complicata, e tanto più faticosa, che due mariti, spalleggiati da padri, da madri, da fratelli, e tre badesse, fiancheggiate da altre dignità e da molte monache, non volevano accettare la sua soprintendenza. Era una guerra, anzi cinque guerre, coperte, gentili, fino a un certo segno, ma vive e senza tregua: era in tutti que' luoghi un'attenzione continua a scansare la sua premura, a chiuder l'adito a' suoi pareri, a eludere le sue richieste, a far che fosse al buio, più che si poteva, d'ogni affare. Non parlo de' contrasti, delle difficoltà che incontrava nel maneggio d'altri affari anche più estranei: si sa che agli uomini il bene bisogna, le più volte, farlo per forza". Poco dopo, sventuratamente, la peste si portò via anche lei, ma la cosa fu così liquidata dal Manzoni: "Di donna Prassede, quando si dice ch'era morta, è detto tutto". Amen.
Sgarbi contro il vocabolario politicamente corretto della Boldrini, scrive il 4 gennaio 2017 "New notizie". Vittorio Sgarbi vs Laura Boldrini: il noto critico d’arte, che non si fa problemi a dire pubblicamente quello che pensa di ogni situazione che richiami la sua attenzione, ha preso di mira la Presidente della Camera, Laura Boldrini: non si tratta della prima volta, ricordiamo che quest’estate Sgarbi aveva demolito la sua decisione di istituire una fantomatica commissione parlamentare contro l’Odio. “La Commissione contro l’odio porterà a risultati sorprendenti. Riconosceremo finalmente i sentimenti di Totò Riina. Saremo indotti a giustificarlo e forse ad amarlo, anche se non lo abbiamo concesso ai suoi figli. Sì, esorcizziamo l’odio. Cerchiamo le radici del male. Perché odiare gli assassini del Bangladesh? Perché provare rabbia e rancore? Rispettiamo lo slancio religioso dei terroristi. Condividiamo il loro martirio, i valori reali che li ispirano” aveva allora criticato Sgarbi. Ma non si ferma qui: il noto critico, che ha tantissimi seguaci sui social e non solo, ha anche preso di mira il nuovo vocabolario della Boldrini, il cui scopo politico primario sembra essere quello di declinare al femminile ogni nome. Con buona pace della grammatica italiana. ‘Sindaca’ e ‘Ministra’ o addirittura ‘Presidente’, neologismi che sono già mutuati da alcuni organi di informazione. Per deridere questa “battaglia”, Sgarbi chiama il presidente della Camera Boldrina. “Napolitano ha detto una cosa semplice: che i ruoli prescindono dai sessi, che non si applicano ai sessi, che sono persone ma che essendo di genere femminile non diventano femminili, un persono sostiene Sgarbi.
La ministra Fedeli e i discorsi di Totò. L’uso caricaturale del politicamente corretto rischia di essere ridicolo anche quanto si propone obiettivi seri, come nel caso dei decreti delegati sulla scuola, scrive Gian Antonio Stella il 18 aprile 2017 su "Il Corriere della Sera". «Signore e signori, dottoresse e dottori, idrauliche ed idraulici, oboiste ed oboisti, sfogline e sfoglini…». Avanti così, Valeria Fedeli rischia di fare il verso a certi discorsi del mitico Totò. L’uso caricaturale del politicamente corretto, infatti, riesce ad essere ridicolo anche quando si propone obiettivi seri. E se la British Medical Association, come ha raccontato su il foglio Giulio Meotti, ha tracciato il solco in Gran Bretagna invitando «i medici a non parlare più di expectant mothers (mamme in attesa), ma di un più generico pregnant people (gente incinta), per rispettare l’eventuale natività gay» la nostra ministra dell’Istruzione si è incamminata lesta nel solco. Come spiega Tuttoscuola, infatti, dopo aver esordito alla ripresa delle lezioni dopo l’Epifania con un tonante «Care ragazze e cari ragazzi, bentornate e bentornati», la signora ha sfidato le scontate ironie della popolazione scolastica (che in queste cose sa essere feroce) con i testi definitivi dei decreti delegati. Dove ha sfondato la barriera del suono del politicamente corretto: «Ventinove (29) volte bambino è diventato “bambina e bambino”, quarantanove (49) volte alunno è diventato “alunna e alunno”, quarantasei (46) volte studente è diventato “studentessa e studente”». Un esempio? Nel decreto sull’inclusione spicca: «Valutato, da parte del dirigente scolastico, l’interesse della bambina o del bambino, dell’alunna o dell’alunno, della studentessa o dello studente…».
Il record, prosegue la rivista di Giovanni Vinciguerra, «è dentro il decreto sulla valutazione con 44 articolazioni di genere (per fortuna non c’erano le bambine e i bambini dell’infanzia, non compresi nella valutazione). Al secondo posto il decreto sull’inclusione con 32 articolazioni, seguito dal decreto della riforma 0-6 anni con 17 exploit tutti riservati ovviamente a bambine e bambini». E meno male che i sindacati, che sembrano a loro agio con la ministra-sindacalista, non si sono accorti d’una profonda ingiustizia: nei «già verbosissimi decreti» non ci sono distinzioni sul sesso dei docenti. Scelta che avrebbe imposto l’uso di professoresse e professori, maestre e maestri e così via. Domanda: al di là delle possibili proteste di chi davanti a un eccesso di precisazioni di genere potrebbe dichiararsi estraneo all’uno e all’altro sesso, è questo il famoso «rispetto» per gli studenti? Non sarebbe più rispettoso evitare loro di cambiare professori ogni anno o passare ore ed ore in edifici a rischio sismico e idrogeologico?
Politicamente corretto, la nuova religione della “sottomissione” al “non pensiero” del potere, scrive il 13 dicembre Giuseppe Reguzzoni su Tempi. Per la nuova religione non è vero ciò che è vero, ma ciò che si riesce a far apparire tale. Il nemico non è un’altra religione ma il pensiero stesso. Chi pensa è un potenziale nemico. Anticipiamo in queste pagine alcuni stralci del saggio Il liberalismo illiberale, dell’Editore XY.IT, in libreria in questi giorni. L’autore, Giuseppe Reguzzoni, è uno storico e giornalista, traduttore (tedesco, francese, inglese) anche di opere di papa Benedetto XVI. Collabora con l’Istituto Mario Romani dell’Università Cattolica di Milano. Il Politically Correct è il nuovo tabù e l’aura di timore che lo circonda è il nuovo senso del pudore, del tutto imposto ed eterodiretto. Preso alla lettera, “politically correct” richiama in qualche modo l’idea di “correct polity”, dunque una certa buona maniera di governare o, anche, di stare al mondo gli uni accanto agli altri, di costruire insieme la politéia, la comunità civile. (…) Il Politicamente Corretto è, nella prassi sociale di ogni giorno, un elenco implicito di divieti o, se si vuole, di dogmi indimostrabili. Il sacerdote del Politicamente Corretto non mira ad argomentare, ma a puntare il dito, con orrificato stupore, su chi osa mettere in questione la secolarissima sacralità del suo Credo. (…)
Già solo accennare alle grandi aree semantiche di cui si occupa questo moderno e laico tribunale dell’Inquisizione costituisce in qualche modo un reato: immigrazione, sicurezza, differenze di civiltà e di origine geografica e razziale, omosessualità, gender mainstreaming, temi identitari, domande esistenziali e fedi religiose sono oggi i nuovi “tabù”, ciò di cui è bene non parlare, anche se, inconsciamente, quando sopravvive un minimo di spirito critico, lo si vorrebbe fare. L’idea di tabù è stata sviluppata anzitutto dagli antropologi, come una sorta di proibizione rituale, implicita e inconscia, ma è stato Freud a evidenziare il nesso tra tabù e nevrosi. La nostra è una civiltà nevrotica, a tratti schizofrenica, che nega l’esistenza stessa del problema, confinandolo nei propri tabù. Il Politicamente Corretto è, appunto, il tabù rispetto alla ricerca e alla percezione della verità, tutta intera. C’è, tuttavia, chi di questi tabù usa consapevolmente per consolidare i propri disegni di potere. (…)
Il ministero orwelliano del condizionamento esiste e la sua forza sta nella sua apparente, superficiale, invisibilità. Come nel mondo immaginato da Orwell in 1984 la lingua, o meglio, la “neolingua” è strumento di potere. Solo che, a differenza che nel mondo distopico di Orwell, nel linguaggio politicamente corretto i termini sono in costante aggiornamento. Si dice e non si dice, attuando con efficacia forme di censura preventiva che ostacolano o impediscono ogni forma di pensiero critico personale, qui proprio come in 1984. (…)
Questi tabù, organizzati ectoplasmaticamente in quella realtà fluida e in continuo mutamento che è il Politically Correct, costituiscono la nuova religione civile della società globale. Qui sta il cambiamento in corso almeno da due decenni e coincidente con la crisi dei grandi sistemi politici di matrice ideologica, incluso il liberalismo e la sua pretesa di essere una sorta di via media. Qui sta il nocciolo della forma che il Politically Correct sta assumendo e il fatto che esso non sia ormai più solo un linguaggio, ma, appunto, un elemento di raccordo e coesione sociale, con tratti simili a quelli che Rousseau attribuiva alla sua religione civile.
Che la formulazione del modello del Politically Correct abbia avuto luogo prima negli Stati Uniti non è certamente un dato casuale. Rispetto all’Europa gli Stati Uniti, pur essendo un paese fortemente secolarizzato, restano tuttavia fortemente segnati da un ipermoralismo parabiblico, in cui Arnold Gehlen ha riconosciuto i tratti di «una nuova religione umanitaria». Dopo la Seconda Guerra Mondiale e, soprattutto, negli anni Sessanta del secolo scorso, il linguaggio puritano ha subìto una profonda mutazione a contatto con il linguaggio (neo)marxista veicolato dagli intellettuali della scuola di Francoforte o ispirato da loro, dapprima rifugiati negli Stati Uniti e poi installati nelle scuole e università occidentali. È stato soprattutto con le rivolte giovanili degli anni Sessanta che costoro hanno assunto il ruolo di sacerdoti del pensiero unico, esercitando un controllo progressivamente egemone sui media e sui sistemi scolastici ed educativi occidentali. Già le modalità con cui questo pensiero si è imposto presentano quei tratti di slealtà che sono caratteristici del linguaggio politicamente corretto, dal momento che la critica dell’autorità andava di pari passo con modelli di autoritarismo implicito: si contestavano le figure tradizionali dell’autorità, avvvalendosi dell’autorità che derivava dalle proprie cattedre e dai propri ruoli. Il politicamente corretto si presentava antidogmatico, imponendo però dogmi impliciti e indiscutibili, così come, nella sua versione sessantottina, si presentava come anticonformista, imponendo però nuove forme di conformismo radicale e disperato. In questo modo, sleale, il nuovo moralismo andava costruendo i suoi dogmi, e si avviava a trasformarsi in quella che Carl Schmitt definiva «la tirannia dei valori». (…)
D’altra parte è l’Occidente, nel suo insieme, dunque anche l’America, a divenire vittima di se stesso e dei propri complessi di colpa, evidenti nelle nuove forme di autocensura. Il bombardamento di slogan antirazzisti, multiculturali, antiomofobi ha assunto toni parossistici, quasi religiosi. Non si offrono ragioni, ma tabù indiscussi, e il solo sollevare questioni, anche minime, è considerato blasfemo. Il politicamente corretto, in quanto nuova religione civile, impone un credo indiscutibile e indiscusso. Nella nuova religione non si crede perché essa è ragionevole, ma solo per paura o per assuefazione. Lungo sarebbe l’elenco dei “dogmi” di questa nuova religione civile, più facile identificare nei grandi media, voce dei poteri forti, la nuova inquisizione, che sentenzia senza ascoltare e condanna attraverso mantra ossessivamente ripetuti. Per essa non è vero ciò che è vero, ma è vero ciò che si riesce a far apparire tale. Il nemico di tale tribunale non è un’altra religione civile, filosofica o rivelata, ma il pensiero stesso. Chi pensa, per il fatto stesso che pensa, è un potenziale nemico. Non affannatevi a pensare, a voler conoscere la realtà, lo facciamo noi per voi. Voi limitatevi a divertirvi o compiangervi e, soprattutto, adeguatevi.
La dittatura del politicamente corretto suppone delle società liberali o, se si preferisce, apparentemente liberali, dove sia almeno a parole garantita la possibilità di scegliere, magari cambiando canale tra reti, in realtà tutte omogenee al sistema. È il paradosso del liberalismo, che vive di presupposti che non è esso stesso in grado di generare, (…) è l’involuzione di un modello culturale e politico che, partito in nome della libertà, finisce per ritagliare quest’ultima a uso di chi ha il potere finanziario e politico. (…) Nel Politicamente Corretto tutto ciò che marca la differenza tra comunità e individui, finanche tra i due sessi, è percepito e indicato come un ostacolo imbarazzante. (…)
La laicità radicale, o laicismo negativo, mira finanche ad annullare i segni storici della presenza delle religioni in Occidente (dunque della religione cristiana) sostituendovi altri segni in linea con la propria visione del mondo. Alle comunità religiose è riconosciuto, al massimo, lo status di enti privati, senza alcuna pertinenza diretta con la realtà statuale. È quanto non ha mancato di constatare, e denunciare, papa Giovanni Paolo II lungo tutto il proprio pontificato: «Nell’ambito sociale si sta diffondendo anche una mentalità ispirata dal laicismo, ideologia che porta gradualmente, in modo più o meno consapevole, alla restrizione della libertà religiosa fino a promuovere il disprezzo o l’ignoranza dell’ambito religioso, relegando la fede alla sfera privata e opponendosi alla sua espressione pubblica. Il laicismo non è un elemento di neutralità che apre spazi di libertà a tutti: è un’ideologia che s’impone attraverso la politica» (Ai presuli della Conferenza episcopale della Spagna, in visita Ad limina Apostolorum, 24 gennaio 2005).
La campagna contro i crocifissi, sottoscritta anche da un altro Zagrebelsky, a nome del Consiglio d’Europa, non è che un elemento di questo complesso processo di sostituzione simbolica che pretende di investire la totalità del vivere civile e le sue espressioni non puramente individuali, come accade, esemplarmente, nella gestione del tempo e della sua dimensione pubblica. Per il momento la rimozione del calendario cristiano risulta ancora troppo complessa, ma val la pena di ricordare che essa è già stata sperimentata all’epoca della Rivoluzione francese e riproposta dai sistemi totalitari del XX secolo. La nascita di un calendario civile, con applicazione rigorosa di nuove forme di “precetto festivo” si colloca, a sua volta e in pieno, su questa medesima linea, dal momento che il calendario rappresenta la scansione ufficiale del tempo in una società. In Italia il 25 aprile, l’1 maggio e il 2 giugno hanno assunto funzioni che vanno ormai ben al di là della commemorazione civile di eventi storici importanti. Ci sono centri commerciali che sono aperti il 25 dicembre, Natale, ma non è possibile o è estremamente difficile che la stessa cosa avvenga il 25 aprile o il 2 giugno. Eppure, se il presupposto del laicismo radicale è che tutto è relativo e che, dunque, nessuna posizione debba essere considerata preminente, non si capisce bene su che cosa debba fondarsi la sacralità di tali ricorrenze “civili”.
Alle feste “comandate” del calendario civile, paragonabili alle solennità del calendario liturgico, si sommano le “feste di precetto” e le “memorie solenni”, come la giornata della memoria (ormai imposta in tutte le scuole, con cerimonie e iniziative culturali), l’8 marzo (festa della donna) o la festa della mamma o il 14 febbraio, san Valentino, festa degli innamorati. Queste ultime, laiche feste di precetto, tra l’altro, che pur non hanno il carattere di solennità nazionali, sono oggi elementi costitutivi di una sorta di calendario universale del Politicamente Corretto.
Tale calendario “civile”, non potendo annullare del tutto le festività religiose, tende a neutralizzarle. Così è avvenuto con il Natale cristiano, ormai scomodo sul piano dei dogmi della religione civile del Politicamente Corretto, che è stato trasformato in festa dei buoni sentimenti (con apertura dei negozi). D’altra parte, se internet è l’emblema della nuova società globale, quando si parla di calendario, è interessante osservare come il motore di ricerca Google ormai da anni scandisca il fluire dei giorni come una sorta di rubrica liturgica di questa nuova religione civile secolare, assumendo il ruolo di custode e guardiano della rete. Intorno al logo di Google abbiamo visto scorrere di tutto: dall’anniversario della nascita di Confucio, con tanto di costume mandarino stilizzato, a quella di Galileo, con allegato telescopio, e persino quello di Ludwik Zamenhof, ebreo polacco creatore dell’esperanto. Non sono mancati riferimenti alla nascita di Buddha, malgrado la scarsità di dati storici certi, e abbiamo potuto seguire quasi integralmente la scansione annuale delle principali festività ebraiche. Da qualche anno ci toccano anche gli auguri ai musulmani per l’inizio e la fine del Ramadan. Per par condicio il 25 dicembre ci si attenderebbe l’immagine di un piccolo presepe, ma non è mai stato così. Il massimo che ci è stato concesso è stato il grassone vestito di rosso, con tanto di renne al seguito, caricatura inventata dalla Coca Cola del vescovo greco anatolico Nicola di Myra.
Su Google sono costantemente e volutamente assenti i riferimenti al calendario cristiano in quanto cristiano, benché il motore di ricerca non abbia ancora rinunciato al calcolo degli anni dalla nascita di Cristo. I richiami alle feste cristiane sono “tabù”. Ma nella geografia politica dell’imbarazzo, Google non è che un elemento accanto a moltissimi altri, come il divieto esplicito del tradizionale augurio “Merry Christmas” sulle insegne di molti comuni inglesi o quello implicito nella stragrande maggioranza delle aziende europee ed americane, fino ad arrivare all’esclusione di presepi e alberi di Natale in alcune scuole statali italiane in nome della multiculturalità. La domanda che sorge spontanea è se davvero si tratti solo di imbarazzo o se, piuttosto, queste scelte non sottendano un disegno nascosto, non siano cioè l’espressione di una visione secolarista che si va imponendo come una nuova e non esplicita religio civilis, mascherandosi da laicità dello Stato che, addirittura, come in Zagrebelsky, dichiara di considerare pericoloso ogni contributo che le religioni possono offrire alla coesione sociale in quanto tale.
Le forze che agiscono dietro questo progetto sono molteplici e si muovono sulla base di processi anche molto differenti di autocoscienza. Sarebbe ingenuo, però, pensare a un movimento in tutto e per tutto spontaneo, di carattere culturale, quasi che la cultura e la mentalità dominante non abbiano nulla a che fare con le forme, indotte, del disciplinamento sociale. Un’analisi compiuta di questi processi è arrivata sinora più dalla letteratura distopica che dalla riflessione speculativa. Certo, la teologia successiva al Vaticano II non si è ancora confrontata in maniera seria con il tema del condizionamento socio-culturale come progetto di riscrittura della mentalità e della società. I sorrisini e le ironie quando si tocca il tema dell’influenza della massoneria sulla mentalità odierna la dicono lunga su questa profonda ingenuità (è davvero solo tale?). Eppure i testi e i documenti che mettono in guardia da un atteggiamento che cerca di mascherare l’ingenuità con la spocchia intellettuale non sono pochi. Una cosa è il complottismo, altra, e ben diversa, è la progettualità culturale sulla società, particolarmente quando essa non è esplicitata in programmi politici trasparenti, ma in forme di condizionamento legate ai soft power. (…)
Il cristianesimo non è una religione civile; il laicismo radicale, almeno implicitamente, sì. Si può discutere se e quanto le religioni possano contribuire alla religione civile di una nazione, ma, in una prospettiva cristiana, ciò implica che il termine “religione” sia inteso in senso quasi metaforico. E implica che la religione civile non si ponga in termini sostitutivi rispetto alle religioni storiche, ma ne accolga il contributo (…). Benedetto XVI, riassumendo una posizione che non può essere tacciata di integralismo fondamentalista, non dice che il cristianesimo è una religione civile, ma che esso ha una funzione civile. Non è la stessa cosa (…).
Per dirla con Carl Schmitt, si tratta di un processo di continua “neutralizzazione” dei riferimenti ideali. Alle religioni tradizionali si sostituisce la pura razionalità, sino ad arrivare a cercare un punto di coesione il più neutro possibile nell’economia e nella tecnica. Tra queste suggestioni di massa, quella che fluttua da un centro conflittuale all’altro, mantenendo la propria funzione mitica, è certamente l’idea di progresso. (…) In fondo, mentre il cosmopolitismo settecentesco era una dottrina filosofica, il globalismo contemporaneo ne è l’erede in forma “neutralizzata”. L’altro elemento, accanto al mito del progresso e della “neutralità della tecnica”, impostosi soprattutto dal Sessantotto, è quello dei diritti dell’uomo, interpretati evolutivamente proprio alla luce del mito del progresso, come ha acutamente dimostrato la professoressa Janne Haaland Matláry proprio in rapporto all’idea di dittatura del relativismo. Il concetto riprende un passaggio fondamentale dell’omelia di Benedetto XVI durante la celebrazione della Messa Pro eligendo pontifice, che ben riassume il carattere (pseudo) “religioso” di questa prospettiva. Il dialogo, per funzionare, implica l’esistenza di un vocabolario comune, in cui i termini fondamentali non vengano usati in maniera e con significati ambigui od equivoci.
Il relativismo etico dell’Occidente e il Politically Correct come sua implicita religione civile non sono in grado di realizzare questo dialogo dato che, nella migliore delle ipotesi, quel che ne deriva è solo una mera giustapposizione del diverso, una multiculturalità senza incontro e senza scambio. Anche i diritti dell’uomo, considerati in sé e per sé, non riescono a uscire dal rischio di un’interpretazione ambigua ed equivoca. A prescindere dal fatto che la maggior parte dei paesi islamici non riconosce la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, all’interno dello stesso Occidente è al centro di interpretazioni opposte che ne annullano il valore “universale”. Il punto è l’uso che oggi si sta facendo dei diritti dell’uomo. Da una parte sono divenuti la nuova Bibbia politica di una comunità sociale diversamente priva di qualunque riferimento ideale, dall’altra sono stati di volta in volta usati come la bandiera di un valore e del suo esatto contrario, per esempio, della difesa della famiglia tradizionale e della sua demolizione attraverso il riconoscimento dei cosiddetti matrimoni omosessuali. Nessuno in Occidente può oggi permettersi di andare contro i diritti dell’uomo, e allora si tenta di tirarli dalla propria parte, spostando il problema dall’applicazione dei diritti dell’uomo alla loro interpretazione.
La Dichiarazione ha una sua precisa collocazione storica e si tratta di un riferimento storico che ha qualcosa di miracoloso, di irripetibile. Si usciva dalla Seconda Guerra Mondiale e dagli orrori del nazifascismo (quelli del comunismo erano ancora ipocritamente occultati). La Dichiarazione Universale nacque come reazione al relativismo politico e legale della Germania hitleriana e, più in generale, delle ideologie totalitarie, con un implicito riferimento all’idea che stava alla base del processo di Norimberga. Ai criminali nazisti che si appellavano all’obbedienza agli ordini ricevuti dall’alto, si ricordava che esiste un’altra obbedienza, ben più decisiva. Sulla base di questa idea, per la prima volta nella storia, un tribunale aveva emesso delle condanne non perché gli imputati erano nemici, ma perché avevano violato questa legge di natura, quella a cui si ispirò la Dichiarazione.
Ora, perché questa legge possa davvero essere tale, in forza di quel “sentire comune” di tutta l’umanità a cui essa fa riferimento, bisogna che non possa essere modificata arbitrariamente dagli attori politici. Ma è proprio questa la crisi che sta investendo i diritti dell’uomo. Se essi sono solo una convenzione, modificabile col cambiare delle opinioni, allora i diritti non sono più tali, perché possono a loro volta essere modificati. Perché i diritti dell’uomo siano tali, devono essere al di sopra degli stati, (…) essi non possono neppure essere in balìa dei nuovi poteri transnazionali che cercano di svuotarli dall’interno reinterpretandoli in direzione di quel mostro ideologico che è il politicamente corretto. Le grandi lobbies del potere transnazionale non potendo negare i diritti in quanto tali, tendono a dissolverli considerandoli solo come delle mere convenzioni, delle questioni di maggioranza all’interno di un’opinione pubblica da loro dominata o egemonizzata. (…)
La strategia sottesa è quella del soft power, vale a dire del condizionamento dell’opinione pubblica da parte di agenzie internazionali di opinione, con meccanismi acutamente descritti da Haaland Matláry nel suo volume sui «diritti umani traditi»: si comincia a imporre la trattazione di certi temi, mettendo in conto il rifiuto della maggioranza ancora poco “illuminata”; si pretende che se ne parli come di “diritti civili”, magari facendo riferimento a “casi pietosi” e con l’appoggio di importanti figure del mondo dello spettacolo o dello sport; ci si appella al sostegno del mondo scientifico, di volta in volta identificato con qualche personalità di comodo e si ottengono, alla fine, delle “direttive non vincolanti” emanate da organismi transnazionali (come – aggiungiamo noi – potrebbe essere anche il Parlamento europeo). A questo punto il gioco è fatto e si può intervenire all’interno di ciò che resta dello stato nazionale appellandosi alle moderne conquiste dei paesi civili e al tale pronunciamento della tale commissione per chiedere il “diritto” al matrimonio omosessuale, alla sperimentazione sugli embrioni, alla clonazione eccetera. Nel frattempo si dilata il vocabolario delle maledizioni politicamente corrette per far sì che gli avversari nemmeno vengano ascoltati: razzista, omofobo, oscurantista, rozzo. (…)
È chiaro che la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo è stata svuotata. Essa ha senso solo in quanto espressione del diritto naturale, cioè di quel diritto che viene prima di ogni forma di organizzazione statale e che è inviolabile: «Nulla nella presente Dichiarazione può essere interpretato nel senso di implicare un diritto di qualsiasi Stato, gruppo o persona di esercitare un’attività o di compiere un atto mirante alla distruzione dei diritti e delle libertà in essa enunciati» (Art. 30). Mettere in questione il carattere universale di questi princìpi e il loro ancorarsi nelle «leggi non scritte e immutabili» del diritto naturale significa spianare la strada all’arbitrio e a nuove forme di totalitarismo. All’azione distruttiva del soft power Haaland Matláry oppone la necessità di riscoprire il valore fondativo e universale della ragione. La sua proposta di rivalutazione del diritto naturale indica in modo rigoroso un possibile percorso fondativo della categoria del “prepolitico” in un contesto culturale e sociale secolarizzato.
In una prospettiva cristiana, restano due questioni: quella di come l’avvenimento cristiano debba porsi di fronte a questa sorta di religione globale, incentrata sul mito del progresso e sulla relativizzazione dei diritti dell’uomo; quella del contributo alla coesione sociale che il cristianesimo è chiamato a portare nella vita delle nazioni e nelle relazioni internazionali.
Il punto non è solo il ruolo che le religioni possono svolgere all’interno delle società secolarizzate, ma, soprattutto, le condizioni perché queste ultime possano sopravvivere e non sprofondare in una violenza di tutti contro tutti. (…) Una corretta religione civile – sempre che si voglia ancora insistere su questa espressione di per sé ambigua – sarebbe, dunque, necessaria allo Stato liberale e democratico occidentale proprio in funzione della realizzazione di questi presupposti che esso non può darsi da solo, ma che può ricevere dalle forze più vive che esistono al proprio interno.
Senza negare l’evidenza di una società occidentale divenuta plurale (…), ma comunque bisognosa di riferimenti etici e ideali comuni, si tratta di relativizzare l’idea di religione civile, riconoscendole – con Benedetto XVI – un valore necessario, ma non sufficiente: «Il concetto di religio civilis appare così in una luce ambigua: se esso rappresentasse soltanto un riflesso delle convinzioni della maggioranza, significherebbe poco o niente. Ma se invece deve essere sorgente di forza spirituale, allora bisogna chiedersi dove questa sorgente si alimenta». Ecco, allora, le due tesi ratzingeriane, per una rilettura della laicità dello Stato e della religione civile a essa sottesa: «La mia prima tesi è che una religio civilis che realmente abbia la forza morale di sostenere tutti presuppone delle minoranze convinte che hanno trovato la “perla” e che vivono questo in modo convincente anche per gli altri. Senza tali forze sorgive non si costruisce niente. La seconda tesi poi è che ci devono essere forme di appartenenza o di riferimento, o semplicemente di contatto con tali comunità», espressione con cui si intende non solo la presenza di nuove comunità religiose, ma il contributo fattivo e vitale che le comunità possono dare, come «sale della terra» (che più avanti Ratzinger chiama anche «minoranze creative»), alla coesione sociale e civile, in rapporto con tutti i fermenti più vivi che operano all’interno della società. È evidente che per essere se stessa, l’esperienza cristiana chiede e necessita di non essere privatizzata e ridotta a puro elemento individuale e soggettivo. È altrettanto evidente che questa esperienza non deve temere di rapportarsi a un mondo divenuto plurale, rimanendo però se stessa sino in fondo. Diversamente, il concetto di religione civile resta «prigioniero in quella gabbia di insincerità e ipocrisia che è il linguaggio politicamente corretto».
Contro il fascismo di sinistra. L’occidente politicamente corretto è un élite vuota e secolarizzata che si crede eterna, dice Camille Paglia. “Il free speech era l’anima della sinistra degli anni Sessanta, poi è diventata una polizia del pensiero stalinista”, scrive Mattia Ferraresi il 6 Febbraio 2015 su "Il Foglio". “Quale visione della vita propone il liberalismo che sia più grande delle prospettive cosmiche delle grandi religioni?”, dice Camille Paglia.
New York. Camille Paglia combatteva il politicamente corretto quando ancora non esisteva. C’era la cultura perbenista e censoria che veniva dagli anni Cinquanta, ma non esisteva ancora l’invisibile polizia del linguaggio del “fascismo di sinistra”, come lo chiama lei, che tracciava il confine fra il legittimo e l’illegittimo nel discorso pubblico non sulla base di un ben perimetrato codice morale, ma intorno alle linee incerte della libertà individuale. Non è con la coercizione che il politicamente corretto si è insediato. E’ stato un docile golpe culturale nel nome dell’uguaglianza, articolato con il linguaggio accondiscendente dei diritti, non imposto con il manganello della buoncostume. E’ lo strumento di protezione degli indifesi, dei più deboli, delle minoranze oppresse, dicevano i suoi difensori, e l’argomento potrebbe essere ripetuto anche da Mark Zuckerberg per giustificare l’esclusione da Facebook dei testi che contengono la parola “frocio” (termine che compare in questo articolo al solo scopo di sfruculiare l’ottuso algoritmo).
Paglia è passata in mezzo a tutte le fasi della guerra del politically correct. Faceva il primo anno di università nello stato di New York quando gli studenti di Berkeley guidati da Mario Savio manifestavano per la libertà di parola, gettando i semi della controcultura; in tasca aveva sempre una copia di “Howl” (“la mia bibbia”, dice) il poema di Allen Ginsberg censurato per oscenità. Nel 1957 la polizia aveva perquisito – e contestualmente devastato – la libreria di San Francisco che con inaccettabile affronto aveva continuato a vendere il volume; nei primi anni Novanta, quando il politicamente corretto si è coagulato in un sistema di regole per lo più non scritte, diventando convenzione dopo essere stato pulsione, la femminista contromano era sulla copertina del New York magazine con uno spadone medievale davanti al Museo d’arte di Philadelphia: una “women warrior” a presidio della libera cittadella della cultura contro gli attacchi del politicamente corretto.
Non che lo schema del politicamente corretto oggi sia stato superato, anzi. Nella sua veste più minacciosa di “hate speech” – un politicamente corretto con il turbo – il canone che regola l’indicibile nel discorso pubblico è diventato pervasivo e meccanico, s’è infiltrato nella rete sotto forma di cavillosi termini d’uso che si accettano senza leggere; nelle università americane è sempre più frequente il fenomeno del “disinvito” di oratori che possono offendere la sensibilità di qualche gruppo minoritario; sul giornale di Harvard lo scorso anno una studentessa suggeriva di abbandonare la finzione della “libertà accademica” e di selezionare in modo finalmente esplicito quali eventi approvare e quali no sulla base della compatibilità ideologica con una certa tavola di valori che l’università di fatto promuove (e a parole nega). Il massacro islamista nella redazione di Charlie Hebdo a Parigi ha rinfocolato il dibattito sulla libertà di espressione e sui suoi limiti. Per qualche settimana siamo stati tutti Charlie, poi l’occidente benpensante è tornato al suo business as usual: il New York Times non ha pubblicato le vignette di Maometto per non offendere i lettori musulmani, Facebook le ha censurate per non far arrabbiare il governo turco e l’editorialista David Brooks ha fatto notare un’indiscutibile verità: un giornale come Charlie Hebdo “non sarebbe durato trenta secondi” in qualsiasi università americana. Si sarebbero sollevate proteste indignate, minoranze offese avrebbero manifestato e finanziatori altrettanto offesi avrebbero protestato con argomenti molto più convincenti.
Lo stesso magazine che ritraeva Paglia fra armature medievali quasi quindici anni fa ha pubblicato di recente un saggio sul politicamente corretto di Jonathan Chait, opinionista di tendenza liberal, di cui il Foglio ha dato conto la settimana scorsa. Chait si scaglia contro la dittatura del politicamente corretto e per capire che ha messo il dito in una piaga insanguinata del dibattito basta leggere alcune delle violente reazioni all’articolo da parte di esponenti di minoranze e sottoculture che esigono protezione da parte della polizia del linguaggio. Il ragionamento dei critici suona così: Chait può permettersi di attaccare il politicamente corretto perché è un maschio-bianco-etero-ricco, se soltanto uscisse per un attimo dalla bolla di privilegio sociale in cui vive capirebbe che le regole per non offendere le minoranze sono un bene sociale imprescindibile. Questo tanto per dire dove può portare la foga iconoclasta del movimento anti-anti-politicamente corretto, che legge qualunque episodio come figura dell’universale dialettica fra oppressori e oppressi.
Il cuore del saggio di Chait, però, era il tentativo di dimostrare che il politicamente corretto non è figlio del liberalismo, ma ne è una perversione, un tradimento introdotto dalla sinistra radicale d’impostazione marxista e inclinazione totalitaria. Nello schema di Chait c’è una sinistra buona e liberale che disprezza la correttezza politica e innalza monumenti al “free speech”, e una sinistra cattiva che con un rasoio ideologico raschia via dal discorso pubblico ciò che è incompatibile con il suo pensiero, e usa come scusa la difesa delle minoranze.
La guerriera Camille Paglia prende a spadate questa rappresentazione, e in una conversazione con il Foglio ripercorre la genesi del politicamente corretto in seno (e non al di fuori) alla rivoluzione liberale: “La libertà di espressione era la vera essenza, l’anima della politica di sinistra degli anni Sessanta, che reagiva al conformismo e alla censura degli anni Cinquanta, alla quale si opponevano già prima gruppi radicali underground, i poeti Beat e gli artisti di San Francisco e del Greenwich Village. La libertà di espressione è sempre stato il mio principio e la mia motivazione centrale, parte dell’eredità dei filosofi dell’illuminismo che hanno attaccato con forza le autorità religiose e i privilegi di classe. Proprio per questo è stato incredibilmente scioccante per me il momento in cui i liberal americani hanno abbandonato il free speech negli anni Settanta e hanno inaugurato l’èra del politicamente corretto, per la quale soffriamo ancora oggi. Invece di difendere il vibrante individualismo degli anni Sessanta, la sinistra è diventata una polizia del pensiero stalinista che ha promosso l’autoritarismo istituzionale e ha imposto una sorveglianza punitiva delle parole e dei comportamenti”.
La sottesa analogia con la dinamica che dalla rivoluzione giacobina e ai suoi ideali di liberté ecc. conduce al terrore è certamente politicamente scorretta, e Paglia da sempre mischia maliziosamente il registro dell’analisi a quello della provocazione (solitamente quando l’interlocutore pensa si tratti di provocazione in realtà è il frammento di un ragionamento calmo e lucido), rimane da spiegare il perché, e forse anche il come. Perché la sinistra ha abbandonato le sue aspirazioni di libertà per rintanarsi nel fascismo di sinistra? “Per capirlo – dice Paglia – dobbiamo innanzitutto esaminare il fallimento della sinistra nel comunicare e capire la maggioranza dell’America, il mainstream. Il documentario Berkeley in the Sixties, uscito nel 1990, mostra una serie di errori strategici fatti dalla sinistra, che, ad esempio, ha deciso di associarsi a movimenti che promuovevano il disordine civile. Questo ha portato a una reazione culturale fortissima, la quale ha contribuito al risultato delle elezioni del 1968: Richard Nixon è diventato presidente, ed è nato un enorme movimento conservatore a livello nazionale”.
Così la destra è riemersa sulla scena politica grazie alle contraddizioni interne della sinistra, mentre i liberal scottati dal l’arrivo di Nixon “si sono infiltrati nelle università”. Erano i primi anni Settanta, ricorda Paglia, “proprio quando ho cominciato a insegnare”. Questa sinistra che si è riversata nell’accademia “ha fatto pressioni enormi sugli organi di governo dei college per introdurre cambiamenti di sistema che poi sarebbero diventati la struttura base su cui è stato costruito tutto l’edificio del politicamente corretto: sono nati dipartimenti autonomi e autogestiti di studi femminili, studi afroamericani, chicano eccetera. Questi programmi ispirati dalla ‘politica dell’identità’ erano basati innanzitutto sull’ideologia, non su standard di qualità in termini di ricerca. I professori venivano assunti in quanto true believer e il dissenso da un codice approvato non era tollerato. Ero orripilata dai rigidi dogmi e dalla mediocrità intellettuale di tutto questo: oggi è la routine dell’accademia americana”.
I dipartimenti umanistici sono stati occupati dai discendenti della sinistra illuminata e liberale, non soltanto dai radicali marxisti, i quali invece occupavano inespugnabili e tuttavia isolate roccaforti universitarie. “Nei decenni – continua Paglia – i pensatori indipendenti che cercavano di fare carriera nelle humanities sono stati cacciati dalle università. Ho avuto a che fare con questo fascismo dottrinario in tutti i modi possibili. Esempio: il mio primo libro, ‘Sexual Personae’, che criticava l’ideologia femminista convenzionale, è stato rifiutato da sette editori prima di essere pubblicato nel 1990, nove anni dopo che avevo finito di scriverlo. Per fortuna quello era un momento in cui si stava discutendo del politicamente corretto sui media per via di certi codici linguistici imposti da università tipo la University of Pennsylvania. Non mi è dispiaciuto quando il magazine New York ha deciso di dedicarmi la storia di copertina, anzi se devo dire la verità l’idea della spada è stata mia”.
A quel punto, però, i dettami del politicamente corretto avevano penetrato a tal punto la cultura che i giornali di sinistra accusavano Paglia di essere una conservatrice (“accusa isterica che non aveva alcun senso: avevo appena votato per l’attivista ultraliberal Jesse Jackson alle primarie democratiche, sono ancora registrata per il Partito democratico e ho sostenuto, anche finanziariamente, il Green Party”) e la ragione della reazione convulsa, spiega, è semplice: “La sinistra è diventata una frode borghese, completamente separata dal popolo che dice di rappresentare. Tutti i maggiori esponenti della sinistra americana oggi sono ricchi giornalisti o accademici che occupano salotti elitari dove si forgia il conformismo ideologico. Questi meschini e arroganti dittatori non hanno il minimo rispetto per le visioni opposte alla loro. Il loro sentimentalismo li ha portati a credere che devono controllare e limitare la libertà di parola in democrazia per proteggere paternalisticamente la classe delle vittime permanenti di razzismo, sessismo, omofobia eccetera. La sinistra americana è un mondo artificiale prodotto dalla fantasia, un ghetto dove i liberal si parlano solo con altri liberal. Penso che la divisione politica fra destra e sinistra sia moribonda e vada abbandonata, abbiamo bisogno di categorie più flessibili”.
Il “free speech” è un concetto morto nel cuore della sinistra, ma a morire, più tragicamente e meno concettualmente, sono anche i vignettisti che disegnano Maometto per rivendicare la libertà d’espressione. In America molti giornali mainstream non hanno voluto ripubblicare le vignette di Charlie Hebdo, cosa pensa di tale scelta?
“Dato che le vignette di Charlie Hebdo erano disponibili in rete, non capisco perché i grandi giornali avrebbero dovuto ripubblicarle, esponendo i loro staff a potenziali pericoli da parte di fanatici senza scrupoli. I direttori poi possono anche indulgere in gesti nobili e simbolici, barricati come sono dietro sistemi di sicurezza molto più sofisticati di quelli della redazione di Charlie, ma di solito a pagare il prezzo più alto sono gli inservienti, le guardie, i custodi”. Un’esibizione di prudenza che non ci si aspetterebbe da un’intellettuale venuta fuori dalla sinistra, ma a ben vedere Paglia ha passato tutta la vita a combattere una élite che sbandierava la libertà come valore supremo; la femminista che combatte il dogma dell’uguaglianza dei ruoli e la lesbica che difende la differenza sessuale come base antropologica dell’occidente: “Guarda, sono una militante della libertà di espressione e un’atea, ma rispetto profondamente la religione come sistema simbolico e metafisico. Odio profondamente le becere derisioni alla religione che sono un luogo comune dell’intellighenzia occidentale secolarizzata. Ho scritto che Dio è la più grande idea che sia venuta all’umanità. Niente dimostra l’isolamento della sinistra dalla gente quanto la derisione della religione, che per la maggior parte degli uomini rimane una caratteristica vitale della loro identità. La magnifica ricerca di significato, dunque religiosa e spirituale, degli anni Sessanta si è persa nella politica delle identità dei Settanta. Le vignette di Charlie Hebdo erano crude, noiose e infantili, insultavano il credo di altre persone senza nessuna vera ragione artistica. Il massacro è stata un’atrocità barbara e la libertà di espressione deve essere garantita in tutte le democrazie moderne. Ma quale visione della vita propone il liberalismo che sia più grande delle prospettive cosmiche delle grandi religioni?”.
Michel Houellebecq nel suo libro “Sottomissione” parla esattamente dell’assenza di un’alternativa secolare all’altezza dell’immaginario religioso, che finisce per affermarsi nella vuota libertà dell’occidente perché porta un surplus di significato. Paglia non ha letto il libro dello scrittore francese né lo farà. Nessuna antipatia particolare, soltanto “non leggo romanzieri contemporanei”. E qui Paglia s’infervora: “A meno che non abbiano una diretta esperienza da zone di guerra, gli scrittori odierni non hanno nulla da dirci sulla crescente instabilità del mondo di oggi. Cosa sa esattamente Houellebecq del presente a parte quello che tutti leggiamo sui media? Per capire il presente leggo sempre testi di storia e religioni comparate. Siamo in un periodo simile a quello del tardo impero romano, quando una élite sofisticata, secolare e con uno stile di vita sessualmente libero pensava che il suo mondo fosse eterno. Il suo vuoto spirituale era la sua condanna. Quella che è arrivata dalla Palestina era una religione di passione e mistero che valorizzava il martirio. L’occidente ha perso la strada, che cos’ha da offrire oggi? Può anche essere che il vecchio conflitto con il mondo islamico sia il fattore primario nel determinare la storia nel prossimo secolo. Ma non possiamo capire cosa sta succedendo senza tornare alle nostre radici culturali e ricostruire un senso di rispetto per la religione”.
Siamo sottomessi? Sì, all'autocensura. Un dossier sull'Impero (culturale) del Bene che spinge al conformismo e umilia il pensiero, scrive Stenio Solinas, Domenica 14/02/2016 su "Il Giornale". «Il campo del bene», «la sinistra morale», il «politicamente corretto»... Intorno a quella che viene considerata «la nuova battaglia ideologica», la Revue des deux mondes ha costruito un dossier di un centinaio di pagine come cuore del suo ultimo numero (febbraio-marzo 2016). In esso, storici, sociologi, critici d'arte e letterari, giornalisti e politici si accapigliano sul tema: c'è chi elogia il «pensare bene» e chi critica i benpensanti, di destra e di sinistra, chi se la prende con il progressismo e chi ne riscrive la storia, chi ironizza sul tartufismo ipocrita del «libero pensiero» e chi nega di voler «diabolizzare» l'avversario, anche se, sottintende, con il Diavolo non si discute, lo si combatte...Vent'anni fa, in quello che resta un classico in materia, La cultura del piagnisteo, Robert Hughes si era mostrato fiducioso: «Un'abitudine tipicamente americana» l'aveva definita.
«L'appello al linguaggio politicamente corretto, se trova qualche risposta in Inghilterra, nel resto d'Europa non desta praticamente alcuna eco». Mai profezia si è rivelata più avventata, nel piccolo come nel grande, nella politica come nella cronaca, nella tragedia come nella farsa. Giorni fa, nello spiegare l'invio di militari intorno alla diga di Mosul, in Iraq, il nostro ministro della Difesa ha detto che sarebbero andati lì «per curare i feriti» e il suo collega degli Esteri ha specificato che non andavano certo «per combattere»... L'idea del soldato-infermiere e/o portatore di caramelle è singolare e richiama alla mente la neo-lingua e il bis-pensiero del George Orwell di 1984: «La libertà è schiavitù, l'ignoranza è forza», mentire con purità di cuore, «negare l'esistenza della realtà obbiettiva e nello stesso tempo trarre vantaggio dalla realtà che viene negata»...D'altra parte, «la guerra è pace» è in fondo poca cosa rapportata alle dichiarazioni con cui, poco tempo fa, il rettore di un college inglese ha deciso che «il ragazzo è una ragazza» e viceversa, e quindi a scuola gonne e pantaloni sono optional: il sesso non si dà, si sceglie. Se, indeciso, lo studente/la studentessa, si presentasse nudo/nuda alla meta, ovvero in classe, non è dato sapere se frequenterà le lezioni... E naturalmente, i guerrieri della pace e/o i pacifisti della guerra, gli uomini-donne e/o le donne-uomini fanno anche loro parte di quella corrente di pensiero che ha stabilito che immigrati e emigranti erano un retaggio del passato, di quando insomma non eravamo esseri umani: «migranti» rende meglio il concetto, qualsiasi cosa con esso si voglia dire. È l'onda lunga di quella che Hughes aveva definito la Lourdes linguistica, dove il male e la sventura svanivano grazie a un tratto di penna, ma è la stessa idea di natura umana che il pensiero progressista, ovvero «il campo del bene», ovvero «il politicamente corretto» guarda con sospetto. Niente è più irritante dell'avere una identità, di uomo e di cittadino. Come spiega lo storico Jacques Julliard alla Revue des deux mondes, corrisponde «alla caricatura dell'idea sartriana che l'uomo non è ciò che è, ma ciò che fa. Alla filosofia del progresso che era quella del XIX secolo, si è sostituita la filosofia del volontarismo individuale: la decostruzione di ogni identità individuale a beneficio di una libertà pura nella quale la filosofia greca avrebbe visto una sorta di hybris, di rivolta contro la natura che gli dei ci hanno dato. Ecco il fondamento filosofico ultimo della sinistra morale». Il fatto è, dice ancora Julliard, che l'uomo è un essere storico, e ciò che c'è di più presente in lui è il suo passato. Viene anche da qui quella strana «teologia negativa» per la quale si nega la propria identità per far emergere quella dell'altro. Così, nella Francia del laicismo scolastico, puoi avere dei programmi dove l'islam diviene obbligatorio, mentre il cristianesimo è facoltativo...La «cultura dell'eufemismo» vuole le eccezioni preferite alle regole, le minoranze alle maggioranze, le orizzontalità alle verticalità, e grazie a lei la contro-verità diventa una verità. Nel «campo del bene», spiega alla Revue des deux mondes il filosofo Jean Pierre Le Goff, l'emozione e i buoni sentimenti la fanno da padrone. Non si vuole cambiare la società con la violenza, e la classe operaia ha smesso da tempo di essere oggetto di interesse. Si tratta invece di rompere con «il vecchio mondo» estirpandone le idee e i comportamenti ritenuti retrogradi, in specie nel campo dei costumi e della cultura. Non ha un modello chiavi in mano di società futura, ma una sorta «di armatura mentale: svalutazione del passato e della nostra tradizione; appello incessante al cambiamento individuale e collettivo, reiterazione dei valori generali e generosi che porteranno alla riconciliazione e alla fratellanza universali. Da un lato i buoni, dall'altro i cattivi»…Relativista, antiautoritario, edonista, moralista e sentimentale. Anche libertario? Le Goff dice di no: «Esercita una polizia del pensiero e del linguaggio di un genere nuovo. Non taglia le teste, fa pressione e ostracizza». A sentire i difensori del «politicamente corretto», per esempio il direttore di Libération Laurent Joffrin, si tratterebbe di una balla. Essere progressisti vuol dire fondarsi sui valori universali di eguaglianza e giustizia per giudicare le situazioni contemporanee. Le idee progressiste, insomma, sono politicamente corrette proprio perché progressiste, e del resto, per restare sempre in Francia, non siamo di fronte a un affollarsi di pensatori reazionari, sulla stampa come alla televisione, sempre lì a dire che sono proscritti e intanto però a scrivere e a parlare senza impedimenti e con qualche lucro: libri, programmi, rubriche eccetera? Sono loro «il vero pensiero unico»...Le cose sono un po' più complicate, e trasformare una minoranza che dissente in maggioranza che ha potere rimanda ancora al bis-pensiero e alla neo-lingua orwelliani. Per quel che si sa, nessun professore universitario viene fischiato dai suoi studenti per essersi richiamato all'ideologia dei diritti dell'uomo e a quella del progresso, e quindi l'ideologia dominante è ancora quella lì ed è ancora saldamente al suo posto. Solo che è un disco rotto, non inventa più niente e quindi più che alla confutazione del pensiero altrui si dedica alla sua delegittimazione: non dice che è falso, dice che è cattivo o che, oggettivamente, fa il gioco del cattivo, del Male, del Diavolo. Non interessa se le opinioni possono essere giuste, conta che possano essere strumentalizzate contro il «campo del bene», «l'impero del bene»... Si arriva così all'assurdo di dichiararsi per la libertà di espressione, purché però la si pensi allo stesso modo. Naturalmente, c'è anche un benpensantismo a destra, un politicamente corretto che non è solo o tanto la retorica del definirsi politicamente scorretti, una sorta di esaltazione per il rutto intellettuale scambiato per schiettezza anticonformista. È una questione più delicata. In Francia l'hanno ribattezzata «droite no frontier», ovvero il sogno della libertà economica, il capitalismo libertario e senza confini che però non dovrebbe confliggere con i valori familiari e morali. Si esalta il mercato planetario di massa, ma non si ammette che dietro c'è «l'uomo nomade», che al mercatismo del mondo corrisponde quello dell'essere umano. In questo i due benpensantismi, di sinistra e di destra, finiscono per darsi la mano: il primo sogna la libertà illimitata di agire sul naturale umano e però fa finta di rifiutare la libertà economica del mondialismo; il secondo prende per buona quest'ultima, ma finge di credere che non lo riguardi nella sua quotidianità. Entrambi tartufi, politicamente corretti.
L'ossessione politicamente corretta ammazza la cultura e l'Università. Salisburgo, tolta la laurea ad honorem a Lorenz per il suo passato nazista. La lettera di protesta dei professori di Oxford: stanno distruggendo il confronto tra le idee, scrive Luigi Mascheroni, Domenica 20/12/2015, su "Il Giornale". E l'uomo incontrò il politicamente corretto. Pochi giorni fa l'università di Salisburgo ha revocato al grande etologo austriaco Konrad Lorenz, premio Nobel per la Medicina nel 1973 (morto nel 1989), la laurea honoris causa per il suo passato nazista. Studioso di fama mondiale per gli studi sul comportamento animale - e autore di uno dei testi più straordinari mai scritto sul valore della conoscenza e dell'informazione, L'altra faccia dello specchio - Lorenz si distinse fin dagli anni Trenta per la volontà di diffondere l'ideologia hitleriana. È curioso. Il passato nazista di Lorenz è noto da sempre (nel 1937 fece domanda per una borsa di studio universitaria facendosi raccomandare da accademici viennesi come simpatizzante del nazismo, nel '38 aderì al Partito dopo aver scritto sul curriculum che aveva messo «tutta la sua vita scientifica al servizio del pensiero nazionalsocialista», e nel '42 fu spedito sul fronte orientale e fatto prigioniero dai russi). Eppure Lorenz fu ritenuto meritevole del Premio Nobel nel 1973. E l'ateneo austriaco lo insignì del titolo onorifico nel 1983. Però, oggi, lo rinnega. Perché l'abiura non è stata fatta prima? Perché ora? Ha senso? L'onda lunga del politicamente corretto, nella corrente di risacca, finisce per travolgere la cultura del passato. Ma è quella del futuro che preoccupa di più. Lo tsunami scatenato da questo pericoloso atteggiamento sociale che piega ogni opinione verso un'attenzione morbosa al rispetto degli «altri», perdendo quello per la propria intelligenza, fino a diventare autocensura, rischia di fare immensi disastri. Ieri un gruppo di professori di «Oxbridge», cioè di Oxford e Cambridge, ha scritto una lettera aperta al Daily Telegraph per denunciare il politically correct che sta uccidendo progressivamente la libertà di pensiero ed espressione nelle università britanniche, indebolendone il ruolo di spazio privilegiato del confronto delle idee. Il casus belli è la campagna indetta per rimuovere la storica statua di Cecil Rhodes, ex alunno e benefattore dell'«Oriel College» (tanti ragazzi si sono fatti strada grazie ai suoi soldi), perché considerato l'ispiratore dell'apartheid in Sudafrica. Ma le sue colpe - fa notare qualcuno - non ne cancellano i meriti a favore del progresso. Un principio che può essere applicato anche a Lorenz in campo medico. O a Heidegger in campo filosofico. O a Céline in campo letterario. Ironia della sorte, e dimostrazione della stupidità insita nel politicamente corretto: l'ex studente che ha lanciato la crociata per la rimozione della statua, il sudafricano Ntokozo Qwabe, ha potuto studiare a Oxford grazie a una borsa di studio finanziata dalla Fondazione Rhodes.L'aspetto più inquietante della faccenda è che a farsi promotori dell'autocensura basata sulla correttezza politica, ad Oxford, non sono i professori, ma gli stessi studenti. Gli autori della lettera aperta, guidati dal sociologo Fran Furedi della University of Canterbury, da parte loro accusano le università inglesi di trattare i giovani come «clienti» che pagano rette salate (che è meglio non scontentare) e non come menti da formare e aprire al confronto. A Oxford un dibattito sull'aborto è stato annullato dopo che una studentessa ha lamentato che si sarebbe sentita offesa dalla presenza nell'aula di «una persona senza utero». Che, tradotto, significa «un uomo». Un comportamento da vera papera che avrebbe di certo incuriosito un etologo come Lorenz.
La triste ferocia omo-illiberale contro i cattolici. Non capisco perché i gay che (giustamente) manifestano per i propri diritti civili siano un fenomeno progressista e il Family day una "manifestazione inaccettabile", scrive Piero Ostellino, Giovedì 25/06/2015, su "Il Giornale". In un Paese civile - e l'Italia, controriformista e intollerante, indipendentemente dallo schieramento al quale ciascuno appartiene, purtroppo, non lo è - tutti dovrebbero poter manifestare liberamente le proprie convinzioni a favore delle proprie libertà, comprese quelle sessuali, senza essere criminalizzati. Non capisco, perciò, perché i gay che (giustamente) manifestano per i propri diritti civili siano un fenomeno progressista e il Family day - per dirla con il sottosegretario Scalfarotto troppo ruffiano verso la vulgata gender - una «manifestazione inaccettabile». I diritti civili dei gay sono i diritti dell'uomo teorizzati dall'Illuminismo e sanciti dallo Stato moderno e la famiglia è il primo nucleo della socializzazione nella nostra società. Difendiamo entrambi senza farne un caso politico o elettorale. Personalmente, non sono omofobo e mi vergognerei a discriminare gli omosessuali. Ma non sono neppure orgoglioso della mia eterosessualità, come alcuni di loro - peraltro per una comprensibile reazione polemica - affermano spesso di essere della loro omosessualità. Prendo il mondo come è senza indulgere a concessioni politicamente corrette o a dannazioni moralistiche. Dico quello che penso, sperando di pensare sempre quello che dico. Per me, ciascuno gestisce la propria sessualità - che è una scelta di libertà individuale - come meglio crede. Sono liberale proprio per tale mio atteggiamento nei confronti di chiunque professi un'opinione - salvo essere intollerante verso gli intolleranti, come predicava Locke - o verso comportamenti diversi dal mio. È un dato caratteriale, prima che culturale. Punto. Non avrei partecipato alla manifestazione del Family day perché non partecipo a manifestazioni di alcun genere, ma neppure, aristotelicamente, condivido certa propaganda gender che tende a confondere ciò che la natura ha creato con le propensioni personali o, addirittura, mondane. Un maschio è un maschio e una femmina una femmina, anche se in tema di diritti civili sono ovviamente sullo stesso piano e non lo sono secondo ciò che intendiamo per «naturale». Detto, dunque, che, in un Paese civile, ciascuno ha diritto di manifestare liberamente la propria opinione, voglio, però, aggiungere, che una cosa è, per me, la piena libertà dei gay di manifestare per i propri diritti civili in quanto diritti umani universali, un'altra sono certe loro pretese di affermare la propria condizione come postulato politico, come ormai sta avvenendo in nome di una malintesa idea di politicamente corretto. Non credo di essere, come eterosessuale, meno apprezzabile di un omosessuale, alla cui condizione conservo tutta la mia comprensione e tolleranza. Ma dico che se e è condannabile l'omofobia non vedo perché non lo debba essere l'ostilità, almeno in certi ambienti, verso l'eterosessualità, che è anch'essa una scelta, oltre che, diciamo, naturale, individuale. Punto. Tira, invece, una certa aria, da noi - frutto della conformistica esasperazione del principio di correttezza politica voluta da una sinistra priva di identità culturale che individua volentieri nell'adesione «a orecchio» alle parole d'ordine del conformismo una manifestazione di identità culturale. Aria che francamente trovo, in una democrazia liberale, del tutto superflua e parecchio stupida. Ho detto che non avrei partecipato al Family day, ma aggiungo subito di trovare non meno stupidi i Gay pride e la loro richiesta di legittimazione del matrimonio fra persone dello stesse sesso. Non sono un fanatico del matrimonio fra maschio e femmina, che considero solo un fatto attinente al costume e alla tradizione. Mi sono sposato, persino in chiesa! - perché così aveva voluto la mia futura moglie, cattolica e moderatamente praticante - ma penso che passerò il resto dei miei giorni con lei non perché l'ho detto a un prete, ma perché mi ci trovo bene... Punto.
L’UBBIDIENTE DEMOCRATICO di Luigi Iannone. L’intento di questo libro è quello di misurare quanto sia marcato nelle singole vite e nei percorsi collettivi il nostro grado di assuefazione al conformismo. Viviamo un mondo in cui siamo allo stesso tempo attori e registi di una enorme sinfonia pervasa dal politicamente corretto tanto che per rintracciarne gli echi non dobbiamo fare molta fatica. Basta soffermarsi sugli accadimenti più banali, sui fatti di cronaca o di costume, sul linguaggio della politica o dei media. È sufficiente indugiare con animo libero su ognuno di essi per rendersi conto quanto sia difficile farne a meno. “Luigi Iannone, scrittore non allineato dalle frequentazioni raffinate, con questo libro ci accompagna nei sentieri poco battuti, lontani dal politicamente corretto. L’autore si propone di ricostruire un mosaico ‘differente’ tra presente, passato e futuro, per ribaltare schemi, épater le bourgeois, non facendo concessioni alla morale comune, ordinaria, canonica, maggioritaria nell’establishment e nell’immaginario collettivo progressista.” dalla prefazione di Michele De Feudis.
Alcune anticipazioni de L’ubbidiente democratico <<(…) incantatori di serpenti, teologi del buonismo e della correttezza politica sono la stragrande maggioranza e condizionano la formazione delle coscienze. Da parte loro c’è un’ossessione continua perché, in genere, il politicamente corretto si compone di fantasmi che si agitano al solo proferire delle ovvietà: provate, provate a dire che Cécile Kyenge è stata fatta ministro per il colore della sua pelle; che le quote rosa (e, in subordine, le donne capolista) sono una stupidaggine, oltre che una forma di razzismo al contrario; che al Ministero delle Pari opportunità ci va sempre una donna per fare la foglia di fico; che Rosario Crocetta fece una campagna elettorale costruita anche sul fatto che in una terra ‘arcaica’ come la Sicilia si presentava a Governatore un omosessuale, mentre delle proposte programmatiche si sapeva poco o nulla; provate a dire che i milioni gettati via per liberare ostaggi italiani in Paesi a rischio potrebbero servire per il nostro welfare e coloro i quali (o le quali) girano in zone di guerra come novelli San Francesco e pudiche Santa Chiara, potrebbero qualche volta passare anche dalle mie parti, nella zona bassa dello Stivale. Troverebbero in tante zone del Sud gli stessi problemi e tanto, ma proprio tanto, da fare per poveri e diseredati. Provate a dire io non sono Charlie Hebdo, perché per quanto rispetti la satira e mi risultino ripugnanti le azioni terroristiche e bestiali le loro idee, faccio fatica ad essere blasfemo contro qualunque Dio. Provate a dire queste e tante altre banali verità, e vi subisseranno di ingiurie. Verrete subito cacciati dal consesso civile e additati nella migliore delle ipotesi come degli intolleranti. Ma provate a dirle voi. A me manca il coraggio e non le dirò>>.
Libri. “L’Ubbidiente Democratico” di Iannone: per distinguersi dalla ridente polis dei corretti, scrive il 20 settembre 2016 Isabella Cesarini su "Barbadillo". Si spalanca con un’affermazione di Carmelo Bene, durante una puntata del Maurizio Costanzo Show – 1994, l’ultimo libro dello scrittore Luigi Iannone. Corsivo che diviene principio guida dell’opera L’Ubbidiente Democratico, nell’esergo del genio salentino: “Non me ne fotte nulla del Ruanda. E lo dico. Voi no. Non ve ne fotte ma non lo dite”. Si tratta di una dichiarazione, all’interno della quale non si trovano i caratteri di quel “corretto” che attualmente siamo tutti obbligati a indossare. Iannone si inoltra all’interno di un campo minato che pochi hanno l’ardire di calpestare. Il suo soliloquio si fa dapprima parola e poi pagina scomoda, poiché lontana da quello spazio così abusato e gremito del politicamente corretto. Una città immaginaria solo nel nome, zeppa di tante bravissime persone, altrettanti buoni propositi, tutti così realizzabili, ma solo nell’evanescenza dell’incompiuto. E guai a non pensarla come gli abitanti di questa ridente città: marchio d’infamia e foglio di via. In assenza di cotanto calore, l’apolide si ritrova rapidamente isolato, ma certamente sereno in compagnia di quelle idee ritenute così scomode. Pensieri come lampi; zampilli che attraversano anche gli autoctoni della lieta cittadella, ma restano sconvenienti e dunque la scelta ricade sulla comodità di restare distesi sul proprio personale divano del tacere. E rimanendo nel tema morbido del salotto, lo stesso scrittore confessa il suo – e non solo – incubo ricorrente. La vicenda onirica si svolge nel salotto più famoso e corretto d’Italia: la casa immacolata di Fabio Fazio. Cortese sino alla nausea, accogliente nelle ospitate degli abitanti della città ubbidiente: Fiorella Mannoia, Corrado Augias che in un altro alloggio ancor più confortevole illumina d’immenso Piergiorgio Odifreddi e Federico Rampini. Ancora un passaggio sull’agiata villa di Lilli Gruber che invita Roberto Vecchioni, Jovanotti e compagnia lealmente cantando. Un ripiegamento onirico, nello specifico meglio noto come incubo, dove i buoni e i giusti si avvicendano nelle notti turbate dello scrittore. Al risveglio, il tedio risulta meno onirico, ma ugualmente corposo. Quello di Iannone è un percorso che svela acutamente molte annose questioni e ripetuti meccanismi. Il cantante Simone Cristicchi è uno di quei casi, che da un certo punto in poi, entra di diritto nella categoria dei ripudiati dagli ubbidienti. Portando in scena lo spettacolo dal titolo Magazzino18, legato all’ostico argomento dei martiri delle foibe e il dramma degli esuli di Fiume, Istria e Dalmazia, Cristicchi si fa velocemente indegno della residenza sotto la volta dei corretti. All’esterno di un tale phanteon di purezza, lo scrittore Iannone colloca una figura leggendaria che trattiene tutti i caratteri del mito: Hiroo Onoda. Non come l’icona di un eccesso idealistico, quanto la delicata e meritevole descrizione di una creatura, che da lontano, si rivolge direttamente alla nostra voce interiore. Accade in questo piccolo uomo, un’espressione dell’onore nell’aderenza a quella meravigliosa forma di amor patrio, stimato malamente come espressione desueta e oltremodo scorretta. Diverso il discorso per i nostri Presidenti della Repubblica, tutti, da un momento storico in poi, cittadini onorari della cittadella corretta. Non più latori del potere temporale, ma cavalieri senza macchia, custodi eterni del potere spirituale. Figure immacolate con vite prive di umani buchi neri: coerenza e sacralità. Dunque papi e non capi di Stato in odor di santità e non in tanfo di muffa. Iniziato dallo storico revisionista Ernst Nolte, allo spirito critico che si fa maniera di voler scomporre e sezionare anche il più ameno dei luoghi comuni, Iannone procede come un bulldozer verso le considerazioni scolastiche. Con uno sguardo nostalgico a quella che ritiene l’ultima degna del nome di riforma, nella persona di Giovanni Gentile, opera una non poco interessante distinzione tra scuola come istituzione e studio. Non necessariamente le due cose coincidono. L’autore stesso, si dichiara tanto avverso alla scuola, quanto devoto all’apprendimento e all’approfondimento. Caratteristica che si dovrebbe considerare virtù, anche in merito al fatto di essere stata patrimonio di molti nomi altisonanti. A fronte del fatto che personalità come Croce e Prezzolini non raggiunsero l’incoronazione in pianta di alloro, attualmente presunti rapper, assolvono il ruolo di oracolo. Il reietto dell’arcadica cittadella dell’ubbidiente, raggiunge l’apoteosi della sua posizione in una più che scontata affermazione: “Chi sbaglia, paga”. Un coro di indignati si leva davanti a una dichiarazione così poco chic, qualunquista e fuori da ogni apericena. E anche se il profano proclamatore, circoscrive il suo pensiero nella premessa, che alcuno deve essere trattato in maniera deprecabile, non risulta comunque socialmente accettabile. Ed è proprio in tale incrocio tra la tolleranza a oltranza e la volontà di ridurre al minimo gli effetti di ogni dramma che le due strade si confondono, sino ad annullarsi all’unisono. Al contrario, accolti con una certa deferenza sono coloro che Montanelli sintetizzava nel termine “firmatari”. Una categoria numerosa che pone la sua firma ovunque, contro o in favore, poco importa. L’atto apprezzabile prescinde la causa e premia l’atto: l’autografo. Nell’Eden degli ubbidienti, persino il tempo è differente: l’unico imperativo è nella rapidità. Elemento imprescindibile che qualifica ogni tipo di legame sentimentale, amicale o lavorativo. Ogni traccia di sequenzialità, qualsiasi tratto di gradualità, necessari alla civiltà, vengono prontamente inghiottiti dalla velocità che svilisce il naturale processo di crescita identitaria e comunitaria. L’autore ci porta, non privo di un tono amaro, finanche all’interno delle rovine di Pompei. Non vi è modo di uscire da un’impasse dove si gioca al rimbalzo di responsabilità tra ministri, soprintendenti, sotto, di lato o ad angolo, se non mediante un paradosso. Singolarità, che si dispiega nella sopravvalutazione di alcuna arte contemporanea, a scapito di meraviglie antichissime e intramontabili. Alla bellezza che naturalmente affascina, l’esempio in un’emozione provata di fronte alla grandezza di un Caravaggio, si preferisce cercare il significato ancestrale di un ortaggio steso a terra in qualche galleria d’arte nel mondo. Allora, il trionfo appartiene a quel lato deteriorabile, che si elegge a tutto, con le virgolette di occasione intorno alla parola arte. Nell’incontaminato mondo degli ubbidienti, lo scrittore ci guida altresì, nella spiegazione dell’uso di una certa tipologia di linguaggio. Il mansueto democratico adopera una lingua che si esaurisce tutta nel trionfo della premessa. Un’epifania che accoglie qualunque argomento, puntualmente preceduto da un mantra, una sorta di nenia: “premesso che non ho nulla contro…”. Un noiosissimo preambolo che scagiona preventivamente da qualsiasi accusa, eccezion fatta per quella di viltà. Poiché non vi è mai l’ardire e/o semplicemente l’onestà di dire ciò che intimamente si pensa. Troppo rischioso, eccessivamente inelegante e dannoso sino alla cacciata dal borghetto della compostezza. L’opera di Luigi Iannone figura un invito alla riflessione, all’ascolto di una voce dissenziente come arma di difesa dallo smottamento di informazioni che quotidianamente ci cade indosso. Un sovraccarico di notizie, dove difficilmente si trova la bussola per l’orientamento. Se risulta poco agevole farlo nelle strade, almeno si provi un tipo di ribellione, forse più adatta alla nostra società; insorgere verso quella diffusa e prepotente forma di conformismo che si fregia nel vezzo del mascheramento anticonformista. Lo spirito libero all’interno di una cittadina tutta edificata sulla compostezza democratica, tende ad apparire alla stessa maniera dello zio pazzo in Amarcord di Federico Fellini, nella splendida interpretazione di Ciccio Ingrassia. Iannone ci dona un sapiente parallelo cinematografico per descrivere la considerazione che abbraccia coloro che provano a non appiattirsi sulla melassa perbenista: i matti del paese. E se l’autore apre in Carmelo Bene, chi scrive si permette – solo dopo aver sollecitato la lettura di questo pungente pamphlet – di usarlo in conclusione da un estratto del Maurizio Costanzo Show – 1995: “Qualcuno ed era davvero anche lui un genio, ha detto che la democrazia è il popolo che prende a calci in culo il popolo, su mandato del popolo”.
Ecco come distruggere il politicamente corretto, scrive l'1/11/2016 “Il Giornale”. Ci voleva qualcuno che lo scrivesse e Luigi Iannone lo ha fatto: “provate a dire banali verità, e vi subisseranno di ingiurie. Verrete subito cacciati dal consesso civile e additati nella migliore delle ipotesi come degli intolleranti”. L’idea del giornalista e scrittore, frequentatore abituale del pensiero di Jünger e amico personale del defunto Ernst Nolte, è balenata a molti, ma ci voleva il suo libro per esprimerla appieno. Il titolo è L’ubbidiente democratico. Come la civiltà occidentale è diventata preda del politicamente corretto (Idrovolante Edizioni, pp. 138, Euro 13) e spiega come “incantatori di serpenti, teologi del buonismo e della correttezza politica sono la stragrande maggioranza e condizionano la formazione delle coscienze”. E via con esempi eclatanti su cose che tutti sanno ma è meglio tacere, per non rischiare gli insulti di cui sopra. Quindi, vietato dire che la Kyenge è diventata ministro grazie al colore della sua pelle, che le quote rose sono una forma di sessismo alla rovescia, un contentino da dare alle donne, un po’ come piazzare un filo di perle su un severo gessato da ministro. Guai a dire che certi delinquono, perché Caino non si tocca e se Abele se la passa male sono fatti suoi: i criminali vanno capiti. Guai a toccare il capo dello Stato, che pare il Santo Patrono del politicamente corretto. Che di questo si tratta, e basta. Di una dittatura soft, che ha messo da una parte i buoni e gli intelligenti – ossia gli ubbidienti al credo unico imposto dalla vulgata radical chic – e dall’altra i cafoni, gli ignoranti, gli imbecilli, i puzzoni. Ossia, quelli che provano ancora a ragionare con la propria testa e non si lasciano influenzare. L’importante, però, è tacere. Per non fare la fine degli abitanti di Gorino i quali, non avendo voluto gli immigrati, sono i mostri del momento. Quelli di Capalbio, che pure non li hanno voluti, invece se la sono cavata. Chissà perché… ma questa, in fondo, è tutta un’altra storia.
Questo libro è un catalogo delle opinioni vietate dal politicamente corretto. Pensate di essere liberi di esprimervi come vi pare? Provate a esporre tesi anticonformiste durante una cena, scrive Alessandro Gnocchi, Domenica 29/05/2016, su "Il Giornale". La libertà d'espressione è meravigliosa e noi tutti siamo convinti di poterla esercitare. Fino a quando scopriamo che le cose non stanno esattamente così. Infatti, per chi professa certe idee, non incendiarie ma comunque non allineate al pensiero unico, c'è la riprovazione del mondo culturale, che si esprime in due modi: il silenzio e l'insulto delegittimante. In libreria domina ormai il Saggio Unico, figlio del Pensiero Unico. È solare: su alcuni temi si può parlare in un solo modo, quello prescritto dal politicamente corretto. L'islam? È una religione di pace. Il libero mercato? Il vero responsabile di tutte le ingiustizie del mondo. L'accoglienza indiscriminata degli immigrati? Un dovere morale e una necessità per sostenere l'economia del Vecchio continente. A proposito, l'Europa? Una magnifica istituzione senza la quale saremmo ancora più poveri e perpetuamente in guerra come nel XX secolo. L'appartenenza al genere maschile o femminile? Uno stereotipo culturale da superare. Avere figli? Un diritto. L'adozione alla coppie omosessuali? Un diritto. L'eutanasia? Un diritto. Tutti abbiamo diritto a tutto. Abbiamo perfino diritto a dire che le cose elencate, o almeno alcune di esse, non ci trovano d'accordo. Ma se lo esercitiamo, ecco il nastro adesivo sulla bocca per impedirci di parlare e le accuse infamanti: ignorante, xenofobo, razzista, islamofobo, omofobo. Non se ne potrebbe almeno parlare, confrontarsi, dibattere? In teoria, sì. In pratica, no. Se non ci credete, guardate lo spazio occupato dalle idee anticonformiste nelle librerie, nei programmi televisivi, nei festival, nei convegni. È prossimo allo zero. Per questo, il libro di Camillo Langone "Pensieri del lambrusco. Contro l'invasione" (Marsilio, pagg. 180, euro 16; in libreria dal 3 giugno) è un'autentica rarità. L'autore, firma de il Giornale, mette in fila tutte le ideologie che considera rovinose per se stesso e per l'Italia. Ne esce un catalogo delle opinioni vietate dal politicamente corretto. Langone, spesso partendo dalla notizia di cronaca, a volte di cronaca culturale, colpisce senza paura proprio nei punti più controversi, e ci mostra che quando un'idea, perfino buona, viene trasformata in ideologia, produce disastri. Nel mirino ci sono i nuovi -ismi: l'ambientalismo, l'americanismo, l'animalismo, l'estinzionismo, l'esibizionismo, l'europeismo, l'immigrazionismo, l'islamismo... Pagina dopo pagina, gli intellettuali che vanno per la maggiore sono ferocemente dissacrati (vedi il teologo-non teologo Vito Mancuso alla voce ateismo). Al loro posto, autori che insegnano a pensare: Guido Ceronetti, Sergio Quinzio, Michel Houellebecq e altri. Cosa c'entra il lambrusco del titolo? Di fronte alla liquidazione dell'Italia, meglio rifugiarsi «nell'unico vero vino autoctono italiano» invece di ricorrere a «dozzinali vitigni alloctoni». Già, perché alla fine, il libro di Langone si e ci interroga su cosa significhi essere italiani ai nostri giorni. Per i nichilisti, nulla. Ma Langone non è un nichilista.
Dalle bandiere rosse ai dogmi del politicamente corretto, scrive Carlo Lottieri, Domenica 23/10/2016, su "Il Giornale". Quando crollò il muro di Berlino, in molti furono portati a pensare che l'età del socialismo fosse alle spalle e che il materialismo storico fosse destinato a finire nella spazzatura della storia. In parte, le cose sono andate così, se si considera che l'Unione sovietica si è dissolta velocemente, che la Cina è cambiata in profondità, che ormai gli ultimi fortini di quell'ideologia sono nelle mani di fratelli o nipoti di quelli che un tempo furono leader carismatici: da Fidel Castro a Kim Il Sung. Eppure il comunismo resta onnipresente, dato che larga parte della cultura contemporanea è pervasa da quella visione del mondo che ancora oggi esercita un potente influsso sulle categorie che utilizziamo per interpretare la realtà: sia nell'establishment di sinistra, sia nel populismo di destra. È sufficiente pensare al trionfo dello stupidario ecologista. È sicuramente vero che si farebbe fatica a trovare, nel pensiero di Karl Marx (proiettato verso il futuro e volto a esaltare il progresso industriale) una qualche legittimazione dell'ambientalismo dominante e delle nuove parole d'ordine: animalismo, coltivazione biologica oppure «chilometro zero». Eppure il legame tra il vecchio socialismo ottocentesco e questa nuova sensibilità è chiaro, poiché in entrambi i casi tutto si regge sulla condanna della società di mercato. Anche autori che oggi - a ragione - vengono considerati «di sinistra» (da John Maynard Keynes a John Rawls), definirono le proprie tesi alla ricerca di un'alternativa moderata e in qualche modo ai loro occhi «ragionevole» tra la pianificazione e il laissez-faire, tra l'egualitarismo assoluto e l'ineguale distribuzione conseguente alla lotteria naturale e allo svilupparsi degli scambi. Oggi il marxismo non ha più il peso che aveva quando Bertolt Brecht, Herbert Marcuse o Louis Althusser dominavano la scena culturale, ma le tradizioni ora egemoni si sono definite nel confronto con quelle idee e muovendo dall'esigenza di dare loro una risposta alternativa. Non c'è quindi da stupirsi se il dibattito pubblico e spesso la stessa legislazione tendono a considerare «ineguale» (e di conseguenza ingiusto) ogni rapporto contrattuale che abbia luogo tra soggetti che hanno posizioni economiche differenti. Il nostro sistema normativo - che prevede distinti diritti per i proprietari e per gli inquilini, per i datori di lavoro e per i dipendenti, per i produttori e i consumatori, ecc. - deriva il suo carattere fortemente discriminatorio dalla tesi secondo cui un dominio dell'uomo sull'uomo non si avrebbe solo quando qualcuno aggredisce o minaccia qualcun altro, ma anche quando due persone liberamente negoziano. Siamo tutti in una certa misura comunisti perché siamo tutti imbevuti dell'idea che una società dovrebbe eliminare le diversità, soddisfare ogni bisogno, innalzare i nostri gusti e allontanarci dall'egoismo, impedire che taluno guadagni miliardi e altri siano indigenti e senza lavoro. Non avremmo mai avuto alcuna legittimazione della coercizione statale, quando è strumentale a modificare l'ordine sociale emergente dalla storia e dalle interazioni sociali, senza il successo del pensiero socialista e senza un intero secolo di riflessione «scolastica» (con eresie, glosse e innesti di ogni tipo) attorno alle opere di Marx. Se il nazismo è ovunque condannato senza «se» e senza «ma», ben pochi esprimono la medesima riprovazione nei riguardi del socialismo: che pure ha causato un numero di morti innocenti perfino superiore. E questo si deve al fatto che le posizioni culturali mainstream sono in larga misura una revisione e una rilettura di temi di ascendenza socialista. S'intende certamente seguire altre strade, ma non è detto che gli obiettivi siano poi tanto diversi. Un dato da tenere ben presente è che se il marxismo è stato certamente una teoria a tutto tondo, sul piano storico-sociale esso è stato anche il catalizzatore di spinte tra loro diverse, ma accomunate dal voler esprimere un rifiuto radicale della realtà, identificata - a torto o a ragione - con la società capitalistica. Con argomenti variamente comunitaristi, egualitaristi, ecologisti, pseudocristiani e altro ancora, per molti anni gli spiriti rivoluzionari si sono ritrovati sotto le bandiere rosse essenzialmente per esprimere il più radicale rigetto delle libertà di mercato e di ogni ipotesi di un ordine economico-sociale senza una direzione prefissata. E se oggi, come sottolinea spesso Olivier Roy, circa un quarto dei terroristi islamisti francesi non ha genitori musulmani né ha radici nei Paesi arabi, questo probabilmente si deve al fatto che oggi il fondamentalismo incanala, in vari casi, un'analoga volontà nichilistica di distruggere ogni cosa. Le stesse librerie ci dicono, anche semplicemente osservando le copertine dei volumi in commercio, quanto il comunismo sia vivo e vegeto. In effetti, il successo di autori come Thomas Piketty, Naomi Klein, Thomas Pogge o Slavoj iek (solo per citare qualche nome à la page) può essere compreso unicamente a partire da un dato elementare: e cioè dal riconoscimento che l'Occidente è diviso al proprio interno da posizioni diverse, ma quasi ogni famiglia culturale si concepisce quale profondamente avversa alla proprietà, al libero scambio, all'anarchia dell'ordine spontaneo. Quando si consideri pure il «politicamente corretto», con il suo corredo di censure e proibizioni, è chiaro come si tratti in larga misura di una logica strettamente connessa a quel risentimento che ha alimentato, sin dall'inizio, l'egualitarismo socialista e la sua rivolta contro la natura. È chiaro che oggi nessuno si propone di spedire i dissidenti in Siberia e di disegnare piani quinquennali che governino dall'alto l'intera economia, ma il reticolato delle regole approvate dalle assemblee parlamentari delinea un quadro complessivo quanto mai illiberale: in cui si discrimina ogni libera scelta estranea al luogocomunismo e si pongono le basi per una società sempre più servile, assoggettata, priva di ogni capacità d'iniziativa. Carlo Lottieri
Bret Easton Ellis choc: il politicamente corretto uccide la nostra cultura. Lo scrittore americano e il critico Alex Kazami contro movimenti antirazzisti e nazi-femministe, scrivono Andrea Mancia e Simone Bressan, Martedì 4/10/2016, "Il Giornale". "Che diavolo è successo agli MTV Music Awards? Niente di inquietante o scioccante, nessuna Miley Cyrus strafatta che insulta Nicki Minaj sul palco, nessun tipo di provocazione e dunque nessun attimo di divertimento. Tutti invece, vanno d'amore e d'accordo nel celebrare quella falsa inclusività politicamente corretta che ormai è diventata terribilmente noiosa e che, probabilmente, è la causa del vertiginoso crollo nel numero di telespettatori che ha seguito lo show". A Bret Easton Ellis, lo scrittore americano autore (tra l'altro) di Less Than Zero e American Psycho, l'edizione 2016 dei Video Music Awards, organizzata lo scorso 29 agosto da MTV al Madison Square Garden di New York, proprio non è piaciuta. E durante l'ultima puntata del suo podcast ha letto integralmente un monologo del giovanissimo scrittore (e critico-provocatore) canadese Alex Kazami che spara a zero contro gli eccessi politically correct di una cerimonia ormai diventata un gigantesco spot per «Black Lives Matter», il movimento finanziato anche da George Soros che accusa le forze di polizia statunitensi di essere intrinsecamente razziste nei confronti della comunità afro-americana. Kazami, che non incarna esattamente lo stereotipo del vecchio trombone della destra conservatrice, visto che è un millennial di 22 anni dichiaratamente gay, è ancora più feroce di Ellis. "Il Black Lives Matter Sabbath che è stato rappresentato ai Video Music Awards 2016 rappresenta la fine della cultura per come la conosciamo. L'intero show è stato un'ode alla narrativa liberal secondo la quale, visto che i bianchi sono tutti cattivi, almeno una persona su due tra quelle inquadrate dalla telecamera deve essere una donna di colore, perché siamo costantemente angosciati dalla necessità di non terrorizzare una generazione di spettatori cresciuta con una dieta di spazi di sicurezza, auto-vittimizzazione e trigger warning (l'avvertimento che segnala la possibilità che un testo possa essere offensivo per qualcuno, ndr)". Una scelta, secondo Kazami, totalmente ipocrita e dettata soltanto da strategie commerciali: "MTV non vuole esporre il suo pubblico a un immaginario pop pericoloso, per paura di offendere qualcuno, a meno che questo immaginario non ricada sotto il mantello protettivo del politicamente corretto. Ma la musica pop deve essere offensiva, non politicamente corretta". "La maschera imposta allo show continua il giovane scrittore canadese è stata un melenso tentativo di dipingere ogni artista sul palco come un campione di bontà, indulgendo continuamente in riferimenti al movimento Black Lives Matter, alla brutalità della polizia, a Martin Luther King. Questo era il copione, il dogma a cui tutti hanno obbedito. Ed era palpabile il terrore che qualcuno potesse esprimere un'opinione contraria al dogma. È proprio questo che sta uccidendo la nostra cultura: la paura di essere puniti per non aver aderito integralmente a questa ideologia collettiva del politicamente corretto". Il principale obiettivo delle critiche di Ellis e Kazami, con ogni probabilità, è stata l'interminabile performance di Beyoncé (vincitrice addirittura di otto premi), che nella sua coreografia ha esplicitamente fatto riferimento agli afro-americani uccisi dalla polizia (con i ballerini che crollavano al suolo dopo essere stati colpiti da una luce rossa) e che sul red carpet ha sfilato insieme alle madri di Mike Brown, Trayvon Martin ed Eric Garner, i tre uomini di colore che con la loro morte sono diventati il simbolo di «Black Lives Matter» (e una scusa per la guerriglia urbana scatenata dal movimento in molte città americane). Ellis, in ogni caso, non è nuovo alle polemiche sugli eccessi del politicamente corretto e dei social justice warriors. Ad agosto, sempre sul suo podcast, se l'era presa con le "femministe isteriche" e "naziste del linguaggio" che avevano attaccato il critico musicale del Los Angeles Weekly, Art Tavana, per un presunto articolo "misogino" sulla cantante (e modella) Sky Ferreira. Per Ellis, queste femministe di nuova generazione sono diventate "nonnine aggrappate alle proprie collane di perle, terrorizzate dal fatto che qualcuno possa pensare qualcosa, su un qualsiasi argomento, che non sia l'esatta replica delle loro opinioni". "Queste piagnucolose narcisiste afferma Ellis utilizzano l'altissimo tono morale tipico dei social justice warriors, sempre fuori scala rispetto alle cose per cui si offendono. E si stanno trasformando in piccole naziste del linguaggio, con le loro regole di indignazione prefabbricata, invocando la censura ogni volta che qualcuno scrive, o dice, qualcosa che non aderisce completamente alla loro visione dell'universo". "Questa sinistra liberal che si auto-proclama femminista conclude l'autore di American Psycho è diventata così iper-sensibile da essere ormai entrata in una fase culturale di autoritarismo. È qualcosa di così regressivo e lugubre da assomigliare terribilmente a un film di fantascienza distopica, ambientato in un mondo in cui è permesso un solo modo per esprimersi, in un clima di castrazione collettiva che avvolge tutta la società".
Pro porno e pro prostituzione: ecco il femminismo di Annalisa Chirico in "Siamo tutti puttane", scrive “Libero Quotidiano”. "Siamo tutti puttane". Un titolo spiazzante quello che Annalisa Chirico, giornalista e compagna di Chicco Testa, politico di sinistra e dirigente industriale italiano, ha deciso di dare al suo ultimo libro. Ma già se si legge il sotto titolo ci si potrebbe fare un idea del concetto che sta alla base della lettura: "Contro la dittatura del politicamente corretto". Un libro che ha come bersaglio i perbenisti di sinistra e le femministe alla "Se non ora quando". La Chirico rivendica il sacrosanto diritto di farsi strada nella vita come ognuno può e vuole, e quindi, anche diventando una puttana. Un femminismo pro sesso, pro porno e pro prostituzione, sia per le donne sia per i maschi. Un dibattito a suo avviso che "ha diviso il Paese tra un popolo di sinistra moralmente irreprensibile e uno di destra, gaglioffo e sciocco". In un'intervista a Formiche.net del 7 maggio, la stessa giornalista alla domanda "È Berlusconi ad averla ispirata?", non risponde esplicitamente, ma il riferimento è chiaro. "Ho seguito da cronista il processo Ruby - afferma Chirico - dove nel tribunale di Milano, non di Riad o della Kabul talebana, trentatré ragazze sono state vivisezionate nella loro vita privata in qualità di semplici testimoni, senza alcun capo di imputazione a loro carico. Quando una democrazia smette di distinguere tra peccato e reato, si getta al macero l'abc della civiltà giuridica". Dunque nulla di male. Le famose "Olgettine", da Via Olgettina, le ragazze indagate dalla Procura di Milano per il caso Ruby, non hanno, a suo parere, la colpa di aver "conosciuto Silvio Berlusconi, il tycoon d'Italia, il capo di un impero mediatico, il presidente del Consiglio italiano". Un'occasione ghiotta di farsi notare e farsi apprezzare, per entrare nel mondo dell'apparire, della tv e dell'estetica da vendere. "E' stato un pornoprocesso, un rito a elevato tasso moraleggiante, oltre che erotico". Poi dal porno si passa all'erotico e a quelle foto di Paola Bacchiddu, il capo comunicazione della lista L’Altra Europa con Tsipras, che qualche giorno fa ha pubblicato una foto in bikini suscitando clamore. "Mi è sembrata la trovata goliardica di una ragazza intraprendente. In Italia ne sono nate le solite polemiche perché va di moda l’idea boldriniana che il corpo vada nascosto in un sudario di pietra. Per cui i concorsi di bellezza che si fanno in tutto il mondo da noi andrebbero proibiti. La donna invece è un soggetto che decide come usare il proprio corpo, sono le pseudofemministe a rappresentarla come un oggetto". Poi attacca Barbara Spinelli, candida la paladina delle donne e della guerra contro la mercificazione del loro corpo per Tsipras. "E' un esemplare del livello di oscurantismo che caratterizza il femminismo nel nostro Paese. Sono le donne che strumentalizzano le altre donne. La campagna talebanfemminista 'Se non ora quando' aveva l’unico obiettivo politico di colpire l’allora presidente Berlusconi, ci ha fatto credere che il suo indomito fallo fosse il principale assillo delle donne italiane". Infine la frecciatina a Renzi incalzata dalla giornalista di Formiche.net che gli chiede se la convince "il femminismo alla Renzi": "Non esiste un femminismo alla Renzi - ha risposto la Chirico - ma una strategia comunicativa renziana. Il premier ha capito che la sinistra del presunto primato morale era perdente. Perciò si è abilmente smarcato dalla linea dei suoi predecessori. E li ha rottamati".
Annalisa Chirico fra femminismo e provocazione, scrive Benedetto Marchese su “Città della Spezia”. L'autrice racconta a Cds il suo libro "Siamo tutti puttane" presentato anche nella rassegna "I grandi temi" di Bocca di Magra: "Quote rosa? Solo se c'è competenza". “Provocare significa sciogliere il proprio pensiero e lasciarlo libero di muoversi e concepire qualcosa per noi e per gli altri. Nella società di oggi c'è una cautela estrema che frena tutto questo”. Ospite nel salotto di Bocca di Magra di Annamaria Bernardini De Pace e della sua rassegna letteraria dedicata quest'anno proprio alla provocazione, la giornalista e saggista Annalisa Chirico sintetizza così il filo conduttore della manifestazione nella quale ha presentato il ultimo libro “Siamo tutti puttane” (sottotitolo “Contro la dittatura del politicamente corretto”), senza distinzioni di genere e ispirato dal Processo Ruby. “Seguendo le udienze – racconta a Cds la collaboratrice di Panorama e Il Foglio – mi sono resa conto che l'imputato non era più Berlusconi ma quelle ragazze le cui vita privata veniva vivisezionata e giudica di fronte al grande moralizzatore pubblico. Era diventato un processo al senso del pudore e il codice morale si stava sostituendo a quello penale, si parlava solo di gusti sessuali. Il mio libro – prosegue – è invece un grido di rivolta contro il moralismo e il politicamente corretto: ognuno ha il diritto di scegliersi la vita che vuole, e di lavorare per realizzare i propri sogni, anche rischiando di farsi del male”. Edito da Marsilio e pubblicato dopo i precedenti “Condannati preventivi” e “Segreto di Stato – il caso Nicolò Pollari”, il libro delinea anche il pensiero dell'autrice sul femminismo e il ruolo della donna nella nostra società. “Ho concluso il mio dottorato con uno studio sul corpo della donna – prosegue – e mi ritengo una femminista pro sesso, pro porno e pro prostituzione: ciascuna di noi può sentirsi Madonna o puttana ma non deve sottostare a delle regole. Sono critica verso le Taleban-femministe che hanno fatto di quel processo solo una battaglia politica contro Berlusconi per poi sparire subito dopo. Negli anni Settanta le femministe scendevano in piazza al fianco delle prostitute, oggi troviamo una parte di quella sinistra sui palchi a puntare il dito contro altre donne che ritengono degradate e che discriminano. Un movimento che è diventato braccio armato della politica e che è stato respinto, sempre nella stessa area, da coloro che quarant'anni fa avevano lottato per i diritti delle donne. Si sono occupate delle “Olgettine” ma non delle arabe o italiane che vivono segregate. Un problema che riguarda tutto l'Occidente che non si preoccupa di tutelare ad esempio le eroine di Kobane che vengono lasciate sole a combattere contro l'Isis”. Chirico, origini pugliesi e romana d'adozione, non si sottrae poi ad un commento sull'episodio avvenuto pochi giorni fa su una spiaggia di Fiumaretta con vittima una giovane ripresa con il compagno in un video che ha girato sugli smartphone di mezza Val di Magra ed è finito anche sui giornali. “Dobbiamo capire che le giovani d'oggi sono molto più disinibite e se da un lato queste cose possono accadere normalmente, dall'altro dovrebbe esserci un limite da parte di chi le pubblica o le condivide”. Attratta fin da piccola dalla politica e con un passato fra i Radicali di Pannella l'autrice rivela invece una distanza convinta dalla militanza: “Ne sono stata interessata, ora la seguo solo per mestiere, ho votato poche volte e mi sono astenuta sempre senza pentimento. Le quote rosa in politica? Scegliere donne competenti è importante – conclude – farlo solo per rispettare la parità è del tutto inutile”.
Chi è Annalisa Chirico, la paladina del femminismo liberale. La giovane scrittrice e opinionista ha pubblicato un libro dal titolo esplicito, “Siamo tutti puttane”, nel quale polemizza contro il femminismo radical-chic di certa sinistra e invoca la libertà per un nuovo femminismo, scrive I.K su "Gossip di Palazzo" venerdì 23 maggio 2014. 28 anni dalla penna tagliente, aspetto piacente che male non fa, autodefinitasi “liberale, tortoriana, radicale” sulle pagine delle sue biografie online, sul proprio sito personale e sul blog di Panorama "Politicamente scorretta" che gestisce personalmente, dottoranda in Political Theory a alla Luiss Guido Carli di Roma: Annalisa Chirico è una delle giovanissime opinion-maker della carta stampata e dell’editoria digitale che stanno mettendo a dura prova le giornaliste di una volta grazie ad una buona dose di sfacciataggine e femminile tracotanza. Sulla sua pagina Facebook ci sono moltissime foto con tutti i sostenitori e acquirenti famosi del suo nuovo libro, …La giovane scrittrice e fidanzata di Chicco Testa si scaglia contro le femministe post sessantottine. Autrice di due libri, uno contro l’abuso della carcerazione preventiva “Condannati preventivi” e l’altro sul caso Niccolò Pollari e i segreti di stato tra Usa e Italia, Annalisa Chirico è in questi giorni sulla bocca della politica e del costume italiano per la pubblicazione di un terzo libro dal titolo decisamente esplicito di “Siamo tutti puttane” nel quale, come ha spiegato in un’intervista a Dagospia, rivendica il diritto di ciascuno di farsi strada come meglio può senza dover per forza incappare in trancianti giudizi operati sulla base della morale altrui. Nello specifico mirino del libro della Chirico, lanciato in pompa magna anche grazie all’appoggio una campagna mediatica via Twitter (#SiamoTuttiPuttane è l'hashtag dedicato) con personaggi famosi quali cantanti, giornalisti provocatori come Giuseppe Cruciani e svariate partecipazioni televisive, sono finite le cosiddette taleban-femministe dell’intellighenzia di sinistra, guidate da Lorella Zanardo di Se non ora quando e dalla presidente della Camera Laura Boldrini: il libro, ha spiegato Annalisa Chirico, è nato proprio dall’indignazione che le montava dentro durante il processo alle olgettine, le ragazze prezzolate da Berlusconi per i famosi festini nella villa di Arcore gestiti da Nicole Minetti. A ogni udienza m'incazzavo di più: quelle ragazze, chiamate in qualità di testimoni, in realtà erano imputate, e non per reati del codice penale, ma per i loro costumi privati. Quelle toghe stavano violando i diritti di ragazze che avevano avuto la colpa estrema di accarezzare il potere cercando di inseguire i loro sogni. Embé? Chi siamo noi per giudicare i sogni degli altri? Le taleban-femministe giudicano. Annalisa Chirico ne ha per tutti, specialmente per quello che lei chiama "il boldrinismo" della politica: Io sono femminista, ma il loro è un femminismo perbenista che celebra il modello di donna madre e moglie. Hanno restaurato il tribunale della pubblica morale. Il berlusconismo non t'impone come vivere. Il pericolo del boldrinismo invece è che vuole importi come vivere. E in merito alla sua relazione con Chicco Testa, sessantaduenne ex presidente di Enel e giornalista su molte testate italiane? Annalisa Chirico si riconferma sprezzante del giudizio altrui: Non è l’uomo più vecchio con cui sono stata.
GLI ECCESSI DEL POLITICAMENTE CORRETTO.
Cicciottelle non di può dire, ma panciuti sì, scrive Giordano Tedoldi su “Libero Quotidiano" il 9 agosto 2016. Che la faccenda del politicamente corretto sia del tutto fuori controllo, e abbia prodotto l' esatto opposto di ciò che voleva prevenire, e cioè livore, aggressività, pretesto per giudicare sommariamente il «nemico» e inchiodarlo a una parola diventata oscuramente impronunciabile, lo dice la furibonda polemica sulle tre azzurre del tiro con l' arco, bravissime, ma che non sono riuscite a guadagnare il podio alle Olimpiadi di Rio, cedendo alle russe, e le cui gesta il Resto del Carlino, nelle sue pagine sportive, ha raccontato con il titolo «il trio delle cicciottelle sfiora il miracolo olimpico». Ora, poiché viviamo al tempo della pussy generation, come dice Clint Eastwood che ha coniato l' espressione in una sua recente intervista a Esquire (scandalizzando tutti perché, sai che scoperta, il vecchio Clint mostrava interesse per Donald Trump, ma dai, e noi che pensavamo fosse kennediano tendenza Veltroni…) cioè «la generazione delle femminucce» - e non staremo a spiegare o a difendere l' uso dell' espressione, attendendo pazientemente i soliti geni, che ci diranno che offende le donne anzi «il corpo delle donne» - allora ne consegue che «cicciottelle», riferito alle tiratrici olimpiche, è «una vergogna», e che i giornalisti che hanno così titolato sono responsabili della «morte di una professione», e che «sono da pestare» perché «fanno schifo». Questi commenti, così civili, indice di elevato pensiero e nobili sentimenti, sono alcuni nella nauseante marea di analoghi insulti, partoriti dagli indignati del politicamente corretto, presi a casaccio dalla rete, che ieri ne traboccava. E tutto perché l'anonimo giornalista - di cui ora la rete pretende il nome, ché si deve pubblicamente umiliarlo, e pretenderne scuse solenni, e casomai ottenerne anche la radiazione dall' ordine professionale, provvedimento che gli indignati del web sollecitano ogni ora per gli episodi più vari e contraddittori - ha detto che tre atlete sono «cicciottelle». Occorre rammentare alla scatenata pussy generation, quella per la quale, come dice Clint, «questo non si può fare, quello non si può dire, quell' altro nemmeno» (tutti divieti stabiliti da loro, beninteso) che quattro anni fa la rete non si scatenò affatto, per i «Robin Hood con la pancetta», come vennero chiamati dai giornali i tre arcieri italiani, non propriamente smilzi, che vinsero l'oro alle Olimpiadi di Londra. Allora, il fatto che i nostri tiratori fossero «cicciottelli», com' è del resto abbastanza normale in una disciplina dove non è richiesto il peso forma, semmai occhi di lince e grande capacità di concentrazione, non destò scandalo alcuno. Soprattutto non destò scandalo per gli arcieri, così come nulla hanno commentato, stavolta, le tiratrici italiane. Allora, nessun giornalista fece schifo, né venne indicato per essere pestato, né sotterrò la professione, né venne minacciato di radiazione, né se ne pretese con voce stentorea il nome come fosse un nazista imboscato da decenni. Come mai? Ma perché erano tre uomini. La pussy generation ha questa idea che esistano delle categorie di «diversi», più sensibili, più vulnerabili, che vanno curati come piantine stentate, anche malgrado i propositi e le volontà delle stesse presunte «vittime». Sappiamo quali siano tali categorie: gli omosessuali, i neri, i «migranti», le donne, in parte anche gli islamici. Di questi non si può che dire e scrivere ogni bene. Qualunque epiteto dal significato meno che esaltante, sia anche l'infantile «cicciottello» (ma seriamente: chi può dirsi offeso, essendo adulto, perché viene definito così?) mette subito colui che lo usa nei pasticci. E nel dire nei «pasticci» siamo politicamente corretti, perché ciò che in realtà accade è che viene coperto da una valanga di merda, escreta da loro, i buoni, i giusti, i politicamente corretti, la parte avanzata della società, insomma, la pussy generation, che si gonfia di boria grazie all' esibizionistica amplificazione e risonanza dei social. Fortunatamente, c' è ancora chi non ha perso il senno, e per criticare un titolo, criticabilissimo, ci mancherebbe, ricorre all' ironia, sottolineando che ci vuol coraggio a definire «cicciotelle» tre donne che sanno scoccare frecce con tanta precisione. Ma la media delle reazioni è l'insulto, la messa alla berlina, la gogna virale, tutte procedure che il politicamente corretto usa immancabilmente. E dunque ci chiediamo: come mai un esercizio critico così barbarico, che usa sempre questi metodi di aggressione, il vile tutti contro uno, viene tollerato? Perché accettiamo che il controllo sul linguaggio, nella discussione pubblica, venga affidato all' isteria del «popolo della rete» in quotidiana caccia di un capro espiatorio? Il quale popolo, altro che ricorrere a un «cicciottello», quando parte all' attacco, pretende la testa del nemico. Giordano Tedoldi.
Le "cicciottelle" divorano il direttore. Ecco come l'hanno rovinato, scrive “Libero Quotidiano” il 9 agosto 2016. Ha vinto il politicamente corretto, ha perso il buonsenso a favore della boria che tracimava dai profili Facebook per tutto ieri, dopo che era stato messo in giro il titolo del Quotidiano sportivo, supplemento sportivo del Resto del Carlino, sulle tre atlete italiane del tiro con l'arco, le "cicciottelle" che hanno portato a casa una medaglia di bronzo. Con una nota da parte dell'editore del quotidiano, Andrea Riffeser Monti, arriva il licenziamento in tronco del direttore del Qs, Giuseppe Tassi: "L'editore - si legge - si scusa con le atlete olimpiche del tiro con l'arco e con i lettori del Qs Quotidiano sportivo, per il titolo comparso sulle proprie testate relativo alla bellissima finale per il bronzo persa con Taipei. Lo stesso editore a seguito di tale episodio ha deciso di sollevare dall'incarico, con effetto immediato, il direttore del Qs Giuseppe Tassi". L'atteggiamento più dignitoso lo hanno avuto le tre atlete che non si sono volute intromettere nel carnaio di polemiche sterili. Da parte degli indignati di professione un coro di proteste sulla trita e ritrita questione del rispetto del corpo femminile, portata a bandiera quando conviene, dimenticata solo in casi di avversari politici da disintegrare. Chissà dove erano questi paladini del rispetto in quota rosa quando si faceva carne da macello delle ragazze coinvolte nei processi contro Silvio Berlusconi, giusto per citare un trascurabile caso fenomenologico degli ultimi anni. A poco è bastata la nota di scuse con la quale lo stesso direttore questa mattina aveva giustificato quel titolo, apparso tra le altre cose nell'edizione di prima battuta, poi corretto in un'altra forma nella successiva edizione. Ormai la palla di neve era diventata valanga, con un il carico da novanta aggiunto dal presidente della Federazione italiana Tiro con l'Arco, Mario Scarzella, che rivolgendosi proprio al direttore aveva drammatizzato fino all'inverosimile: "Dopo le lacrime che queste ragazze hanno versato per tutta la notte - aveva scritto Scarzella - questa mattina, invece di trovare il sostegno della stampa italiana per un'impresa sfiorata, hanno dovuto subire anche questa umiliazione". E l'umiliazione doveva essere lavata con un colpevole da lanciare alla folla assetata di sangue. Di sicuro quel licenziamento "con effetto immediato" avrà ridato dignità a tutto il genere femminile.
Le «cicciottelle» e noi ostaggi dell’ossessione dell’estetica, scrive Beppe Severgnini su “Il Corriere della Sera” il 9 agosto 2016. «Il trio delle cicciotelle sfiora il miracolo olimpico» era un titolo sbagliato. Anzi, peggio: era un brutto titolo. Ma se licenziassero tutti i giornalisti che hanno fatto un brutto titolo, o un commento inopportuno, le redazioni sarebbero deserte. Di certo, il sottoscritto non ci sarebbe. Anni fa, dopo averla incontrata, ho definito «cicciottina» Scarlett Johansson (su Sette): ai miei occhi era un complimento, la ragazza era uno splendido manifesto contro l’ossessione della magrezza. Oggi non lo scriverei. Anche per questo a Giuseppe Tassi, l’autore di quel titolo, rimosso dalla direzione del Quotidiano Sportivo, concederei l’attenuante della buona fede: l’impressione è che, in modo un po’ datato, volesse vezzeggiare le ragazze dell’arco dopo la bella prova di Rio. In fondo, molte testate hanno applaudito Teresa Almeida, portiere della squadra di pallamano dell’Angola, 170 centimetri per 98 kg («Fortissima, simpatica e portavoce dei “cicciottelli” di tutto il mondo», Huffington Post, 7 agosto 2016). Domanda: non sono più offensive le esternazioni di Matteo Salvini su Laura Boldrini, paragonata a una bambola gonfiabile? Non sono più indelicati i giudizi di Marco Travaglio su Maria Elena Boschi («Si occupi di cellulite, non di riforme»). Non sono più spiacevoli i commenti di Vincenzo De Luca su Virginia Raggi («Bambolina imbambolata»)? Eppure non risulta che sia partito il linciaggio virtuale. Meglio così, sia chiaro. I titoli giocati sull’aspetto fisico sono figli di questo clima. E di certe abitudini. Siamo onesti: dall’inizio delle Olimpiadi molte testate pubblicano, e molti tra noi guardano, le scollature delle atlete e gli addominali degli atleti. È un’estensione dell’insopportabile ossessione estetica che domina la pubblicità, i media e la società; e tiene in ostaggio le nostre vite. I social — gli stessi che oggi invocano la gogna per l’autore del titolo sulle «cicciottelle» — godono a umiliare ogni personaggio per qualsiasi imperfezione: dalla pelle di un’anziana cantante a Sanremo alla pancetta di Higuain all’esordio con la Juve. Riassumendo. È inopportuno giocare sull’aspetto: il collega Tassi ha sbagliato. Ma fra disapprovazione e linciaggio c’è un confine. E ogni giorno viene superato, con euforica ipocrisia.
“Frocio” non si dice. “Figlio di troia” sì, scrive Francesco Merlo il 26 gennaio 2016 su "La Repubblica". Dunque “frocio” non si può dire e “figlio di troia” sì? E “siciliano mafioso” non è razzismo, mentre “zingaro di merda” lo è? E se fosse ridicolo tutto questo affanno del perbenismo italiano nel compilare classifiche di legittimità dell’insulto? Non si può infatti applicare il politicamente corretto all’ingiuria, non esiste l’offesa sterile, non ci sono parolacce detergenti e anzi spesso il più turpe vaffanculo, quando è lanciato sotto stress e non quando diventa progetto politico, disinnesca il pugno. Le male parole come sfogo, come valvole liberatrici durante uno scontro sul campo di gioco, o sulla strada o persino in Parlamento, fanno muro ai ceffoni, disarmano gli istinti violenti, impediscono le botte, sono l’unico modo di darsele di santa ragione senza farsi male. E chissà se per Mandzukic è più offensiva la parola “zingaro” o la parola “merda”? Ed è più politicamente scorretto Sarri, che ha dato del finocchio a Mancini, oppure Mancini che aveva assolto se stesso quando aveva dato del “finocchio” ad un cronista? E’ infatti una giostra il mondo del politicamente corretto. Basta un piccolo cambio di scena e l’ingiuriante diventa ingiurato come nel film i Mostri dove Vittorio Gassman, pedone sulle strisce, si indigna e si ribella perché gli automobilisti, mentre gli sfiorano il sedere, gli gridano. E Gassman incede su quelle strisce a passo volutamente lento e abusa dell’asilo politico che gli offre il codice della strada: come Mancini, “ci marcia”. Ma poi quando sale sulla sua cinquecento il mostro Gassman sfreccia su quelle stesse strisce mostrando le corna ai pedoni. Più ancora della strada, lo sport è metafora di guerra, la vita combattuta con altre armi, non la politica astrusa e neppure la cultura dei privilegiati, ma il mondo dei sentimenti, materia forse non semplice ma sicuramente selvatica: il mondo del turpe eloquio. E però Konrad Lorenz tratterebbe De Rossi come uno dei suoi spinarelli e non certo come un razzista. Anche Freud sorriderebbe dinanzi alle accuse di omofobia a Sarri. Per non dire di Lévi-Strauss che si sentirebbe beato davanti a tanti selvaggi. Tanto più che, con un formidabile testa-coda, il politicamente corretto avvelena anche i selvaggi. Ieri, nelle tante trasmissioni radio, persino gli ultrà romanisti si sono impasticcati di politicamente corretto e, dando vita alla figura ossimorica dell’ultra per bene, dell’estremista formalista, per salvare il loro De Rossi hanno solennemente stabilito che non essendo Mandzukic uno zingaro non può sentirsi offeso dalla parola zingaro. Con questa logica se dici puttana a una puttana la offendi, se invece lo dici a una signora, va bene. L’importante infatti è non ledere i diritti della minoranza sfruttata (le puttane) anche a costo dell’onore della maggioranza (le signore). Insomma sei un gran maleducato, ma politicamente corretto; sei un vero facchino ma non sei un razzista. Applicando questa logica anche all’ingiuriato, solo un frocio si arrabbia se gli dicono frocio. Dunque se Mancini si arrabbia vuole dire che è frocio? La giustizia sportiva, per trovare delle attenuanti a Sarri, ha accolto questa stramba tesi degli ultrà e ne ha fatto una fonte di legge condannando l’allenatore del Napoli a solo due giorni di squalifica, e per giunta in coppa Italia, a riprova che la nostra giustizia sportiva coniuga le regole con l’humus, la legge con gli umori, in nome del popolo italiano politicamente corretto, vale a dire della curva sud che strologa di diritto, del bar sport dove il tifoso-fedele si traveste da laico. Come si vede, il politicamente corretto della plebe, che di natura è scorretta, è alla fine un pasticcio, è l’innesto del birignao nella suburra. Come se Marione Corsi, l’ex terrorista dei Nar, divo della più importante radio romanista (dice), conducesse “Che Tempo che fa” al posto di Fabio Fazio. Infine c’è la televisione che amplifica e rende caricaturale il politicamente corretto perché costringe a mentire, non conosce sfumature, insegna a parlare con la mano davanti alla bocca e dunque a occultare il corpo del reato, come ha ben spiegato ieri Spalletti, il nuovo allenatore della Roma. Alla Camera dei deputati sono stati vietati per regolamento gli zoom proprio per evitare la lettura del labiale e dunque le indiscrezioni rivelatrici, le schermate dei siti porno visitati mentre si discute della Finanziaria, l’ingrandimento del display del cellulare di Verdini terminale di traffici e commerci, le parolacce dette e scritte nei pizzini che gli onorevoli si scambiano tra loro. E certo non ci piace che sia stata oscurata la casa di vetro della democrazia. Ma una vota Dino Zoff raccontò che dovendo subire un rigore, il suo allenatore Trapattoni gli impartì un ordine in forma di consiglio: buttati a destra perché quello lì calcia i rigori sempre sulla destra. Al momento del tiro, Zoff per istinto avrebbe voluto andare a sinistra, ma prevalse l’obbedienza al Mister. Fu gol. E Zoff scomodò il cielo con una bestemmia e con un insulto secco e forte contro Trapattoni. Lo avesse ripreso la televisione, Zoff sarebbe passato alla storia del calcio come un insolente e un blasfemo, nemico di Dio e del proprio allenatore. Ecco dunque l’ultimo pasticcio del politicamente corretto: la televisione condanna alla trasparenza che però tanto più sembra fedele quanto più è infedele perché travisa mentre mostra, deforma mentre informa. E’ allora meglio nascondersi al politicamente corretto? Oppure è meglio comportarsi come profetizzava Italo Calvino? Conosco un omosessuale che vive in un piccolo paese e che all’insulto “frocio”, che ogni tanto gli capita di subire, reagisce con orgoglio.
Insultare una fascista (incinta) non è reato, scrive Gian Marco Chiocci il 2 febbraio 2016 su “Il Tempo”. Giorgia Meloni non ha bisogno di avvocati d’ufficio, la conoscete, sa difendersi da sola. Ma quel che la fogna di internet le sta vomitando addosso dopo l'annuncio del bebè in arrivo, imporrebbe una risposta dura e bipartisan che a distanza di 48 ore ancora non s'è vista. Madri, padri, figli di, parenti prossimi o trapassati: di insulti familistici la politica si alimenta ogni giorno ma non se n'erano sentiti rivolti a un feto. I cultori della doppia morale, della superiorità intellettuale, culturale ed esistenziale, ci regalano sovente perle di ironia che a parità di sarcasmo, se rivolte a un'immigrata, una lesbica, una politica di sinistra, scatenano reazioni veementi, rimostranze parlamentare, raccolte di firme e sit-in in girotondo. Prendete la Boldrini. Impegnata com'è a far rispettare l'articolo determinativo femminile, "la" presidente della Camera ha espresso solidarietà all'ex ministro solo quando Fabio Rampelli (l'ombra lunga di Giorgia) ha evidenziato la sua partigianeria nell'esprimere solidarietà solo a chi non la pensa come la leader di An. Va detto che anche le politicanti di centrodestra si sono fatte riconoscere. Hanno tergiversato fino a quando non s'è mossa la Carfagna, dopodiché qualcuna ha preso coraggio e s'è indignata. Insomma, se la Bindi è più bella che intelligente, giustamente il mondo s'indigna con Berlusconi. Ma guai a scandalizzarsi se esponenti democratici condividono su facebook Madonna Meloni che concepisce senza peccare oppure ritwittano quel gentiluomo di sua sobrietà di Vladimir Luxuria che cinguetta sperando di tramandare la specie («auguri e figli trans»). Ti sentirai rispondere che è satira, sarcasmo, ironia. Ma sì, minimizziamo. Ridimensioniamo l’accaduto. Lo facevano anche i katanga dell’autonomia operaia quando sprangavano i missini e si difendevano così: «Uccidere un fascista non è reato».
Un orrore sul sito dell'Annunziata: giusto insultare il figlio della Meloni, scrive “Libero Quotidiano” il 3 febbraio 2016. Sull'Huffington Post di Lucia Annunziata un intervento di rara violenza contro Giorgia Meloni. A firmarlo è Deborah Dirani, che si definisce "donna, prima. Giornalista, poi". Nel mirino la leader di Fdi-An, bersagliata da insulti e sfottò dopo aver rivelato di essere incinta. E la signora Dirani, de facto, spiega che la Meloni si merita questo tipo di linciaggio. Chiarissimo l'attacco del suo articolo: "Giorgia Meloni è incinta. Giorgia Meloni è una delle responsabili della degenerazione della politica del mio Paese. Di quella politica fatta di esclusione, di negazione dei diritti, di slogan populisti e di intolleranze culturali". Dunque, la Dirani aggiunge che la Meloni "è incinta e io sono ben contenta, dico sul serio". E subito dopo riprende a manganellare: "Ma la gravidanza non fa di lei una persona migliore, non la trasforma magicamente in una donna aperta al diverso da sé. Resta esattamente quella che è e raccoglie esattamente quello che tanto si è prodigata a seminare: intolleranza". Insomma, l'intolleranza raccolta dalla Meloni in questi giorni - ricordiamolo: insulti e sfottò al nascituro, qualcosa di vergognoso che non c'entra nulla con la politica - sarebbe dovuta alla presunta intolleranza del personaggio Meloni. Quale intolleranza? Si suppone il sostenere politiche di destra, una roba che la signora Dirani non può tollerare, tanto che nello stesso, improponibile e violento, commento si spinge a scrivere: "Buona gravidanza, Giorgia Meloni e... Speriamo che sia femmina (volevo aggiungere anche comunista!)".
Mancini e il politically correct che tarpa le ali alla libertà d'espressione. Froci, zingari, clandestini e handicappati non esistono più. La "neolingua" impone gay, rom, migranti e diversamente abili e ora invade anche i campi di calcio, scrive Francesco Curridori, Mercoledì 20/01/2016, su "Il Giornale". “Sarri è un razzista, uomini come lui non possono stare nel calcio. Mi son alzato per chiedere al quarto uomo del recupero. Lui ha iniziato ad inveire contro di me, dicendo ‘frocio e finocchio’ Sono orgoglioso di esserlo se lui è un uomo. Persone come lui non possono stare nel calcio, se no non migliorerà mai. Ha 60 anni, si deve vergognare”. Con queste parole Roberto Mancini rischia di inguaiare Maurizio Sarri. I due allenatori hanno avuto un brutto battibecco al termine della partita di Coppa Italia e l’insulto scappato al coach del Napoli rischia di costargli caro. Secondo le norme della Figc chi ha “stop "un comportamento discriminatorio e ogni condotta che comporti offesa per motivi di sesso" rischia quattro mesi di squalifica che andrebbero scontati anche in campionato. Mancini ha rotto la regola aurea del calcio che può essere riassunta con la frase di un celebre film: “ciò che avviene dentro il miglio verde rimane dentro il miglio verde” e così il web si è diviso su Twitter tra chi scriveva #iostoconMancio e #iostoconsarri. Siamo all’apoteosi del politicamente corretto. Fabrizio Marrazzo, portavoce di Gay Center ha chiesto un incontro con il presidente del Napoli, Auelio De Laurentis e Carlo Tavecchio, presidente della Figc perché “uno sport così popolare non può permettersi messaggi di violenza". Siamo sicuri che molti di questi benpensanti di sinistra che si indignano per un “frocio” scappato in un campo di calcio, dove gli insulti e le bestemmie sono di casa, sono scesi in piazza a difesa della libertà d’espressione quando l’Isis ha fatto la strage di Charlie Hebdo. Fintanto che si insulta la Chiesa cattolica o qualcuno dipinge un Gesù Cristo immerso nella pipì tutto va bene ma se si dice frocio, zingaro, clandestino, cieco o handicappato allora apriti cielo. Nella neolingua dei benpensanti frocio deve chiamarsi “gay”, il clandestino “migrante”, cieco diventa "non vedente", zingaro “rom” e l’handicappato si trasforma in “diversamente abile”. Come se anche i cosiddetti “normodotati” non siano diversamente abili tra loro. Non tutti gli uomini “comuni” hanno le stesse abilità e anche chi non è in sedia a rotelle, nella maggior parte dei casi, ha abilità diverse se messo a confronto con Rocco Siffredi e Stephen Hawking. Chi vive in sedia a rotelle, chi non vede o chi non sente è, invece, portatore di uno o più handicap, ossia di svantaggi cui non si è ancora è posto il giusto rimedio con un adeguata opera di abbattimento delle barriere architettoniche. Eppure la sinistra cosa si accinge a fare? Una proposta di legge per aumentare le pensioni d’invalidità, al momento ferme a poco più di 200 euro? No, la preoccupazione di Sel è quella di cambiare la dicitura “handicappato” in “diversamente abile” dal testo di legge 104, come conferma al giornale.it da Erasmo Palazzotto, promotore della proposta di legge che arriverà in Parlamento presumibilmente a febbraio. Se si va avanti di questo passo si dovrà chiedere a Iva Zanicchi di cambiare la sua canzone da “dammi questa mano, zingara” a “dammi questa mano, rom”. Dire “frocio” fa scandalo proprio nel momento in cui il governo depenalizza il reato di ingiuria tanto che persino Vittorio Sgarbi, per protesta, ha abbandonato una trasmissione tivù senza insultare nessuno. A breve sarà impossibile anche dare del “cornuto” all’arbitro. Preparatevi al marito con una moglie “diversamente fedele”… Siamo alle comiche finali del politicamente corretto.
Sarri e il solito coro del "Politicamente corretto" a giorni alterni, scrive "Il Piccolo D'Italia il 20 gennaio 2016. Fonte: Fabrizio Verde, Francesco Guadagni e Alessandro Bianchi per L’Antidiplomatico. In occasione della partita di calcio tra Napoli e Inter, valevole per la qualificazione alla semifinale della Coppa nazionale, è entrata in azione la solita ipocrisia e doppia morale di marca italica. Evento scatenante, un litigio tra i tecnici delle due compagini calcistiche Maurizio Sarri e Roberto Mancini. Quest’ultimo, allenatore dell’Inter, nel dopo partita ha lanciato accuse di razzismo nei confronti del tecnico toscano che allena la squadra partenopea, colpevole di averlo apostrofato con i termini ‘frocio’ e ‘finocchio’. Per Maurizio Sarri, che dichiara di non ricordare le parole esatte ma si è scusato a telecamere spente nello spogliatoio dell’Inter prima dell’accusa mediatica di Mancini, si è trattato di una caduta di stile, questo è fuor di ogni dubbio. Ma è l’intero contesto di abnorme colpevolizzazione dell’allenatore del Napoli ad essere oggettivamente fuori luogo. Innanzitutto bisogna ricordare che l’Italia è il paese dove in occasione di ogni partita di calcio vengono gridati i più beceri cori razzisti nei confronti della città di Napoli e dei suoi abitanti, nel generale disinteresse di giornalisti e addetti ai lavori, che fanno a gara nel minimizzare questi atti di razzismo, declassandoli a semplici sfottò da stadio, senza tener contro del retroterra culturale che vi è dietro a questi slogan beceri e razzisti. Si tratta degli stessi personaggi che da ieri cercano di ergersi a improbabili moralizzatori del mondo del calcio. Si tratta, si sa, del solito “politicamente corretto” creato ad arte. Che dire poi dello stesso Roberto Mancini che si è precipitato ai microfoni della Rai a denunciare indignato delle offese ricevute, dopo aver provato nello spogliatoio del Napoli a venire alle mani con il tecnico toscano? Si tratta dello stesso Mancini che nel 2000 intervenne in difesa del suo amico Sinisa Mihailovic, il quale aveva definito il centrocampista dell’Arsenal Vieira un «negro di merda», con queste testuali parole riportate dal quotidiano ‘La Repubblica’: «Nel corso di una partita l’agonismo esasperato può portare a momenti di tensione e di grande nervosismo. Credo che anche qualche insulto ci possa stare. L’importante è che tutto finisca lì». Lo stesso Mancini che da allenatore del Manchester City rischiò di finire alle mani con ben due suoi giocatori Adebayor e Tevez. Il primo accusato di fingere un infortunio poi rivelatosi vero, il secondo per divergenze tecnico-tattiche. Il litigio tra il tecnico di Jesi e l’attaccante argentino trovò il suo culmine quando Mancini affermò nei confronti di Tevez ‘l’elegante’ frase «go fuck your mother». Insomma, il tecnico che ieri si è tanto scandalizzato non ha nulla da invidiare alle tante teste calde che popolano il calcio mondiale. In ultima analisi è curioso notare come quegli stessi giornalisti che ieri si sono affrettati nel crocifiggere un allenatore per un insulto proferito in un momento di grande concitazione e nervosismo, siano gli stessi che da anni ignorano il più becero razzismo, le ruberie, i macroscopici brogli e quant’altro accade nel mondo del calcio. E, infine, un ultimo punto, il più importante perché non parliamo più di qualcosa attinente ad un gioco, è curioso notare come quegli stessi giornalisti che ieri si sono affrettati nel crocifiggere un allenatore per un insulto proferito in un momento di grande concitazione e nervosismo, siano gli stessi che ignorano e tollerano ogni giorno lo stupro di diritti, democrazia e della nostra Costituzione che avviene ogni giorno. Lo stato in cui versa un’Italia sempre più schiacciata della dittatura europea neoliberista dipende anche, e soprattutto, dal coro del “politicamente corretto” dei bombardatori umanitari a giorni alterni.
Quella sinistra "politicamente corretta" che da settant'anni deride e insulta i gay. Togliatti offendeva Gide mentre la rivista diretta da Berlinguer inseriva gli "invertiti" fra i nemici di classe. Fino alle scivolate di D'Alema e Bersani, scrive Cristina Bassi, Martedì 18/04/2017, su "Il Giornale". «A froci!», «finocchio», «culattoni», «checca squallida»: la destra, certo, si è spesso messa in (cattiva) luce quando si è trattato di insulti omofobi e battute da trivio. Post-missini e leghisti in testa. E se la Dc usa per decenni la maldicenza, pure Beppe Grillo scivola su un «At salut, buson!», rivolto a Nichi Vendola dal palco di Bologna (2011). Ma arrivano dalla sinistra progressista le invettive più insidiose contro i gay. A volte vaghe: «È mollezza borghese». Altre dirette: «Deviati», «pederasti», «invertiti». Altre ancora subdole: le unioni omosessuali? «È mai possibile che i problemi dell'Italia siano questi?», si chiede D'Alema nel 2006. «È meglio che un bambino cresca in Africa piuttosto che con due uomini o due donne», dichiara un anno più tardi Rosy Bindi, madre del ddl sui Dico. Dopo Stai zitta e va' in cucina, saga del sessismo a Palazzo, il giornalista di SkyTg24 Filippo Maria Battaglia pubblica Ho molti amici gay - La crociata omofoba della politica italiana (Bollati Boringhieri).
Partiamo dal dopoguerra. Nel 1950 Palmiro Togliatti sul mensile Rinascita si scaglia, sotto pseudonimo, contro André Gide che si è ricreduto sul comunismo. A sentirlo parlare, sostiene il segretario del Pci, «vien voglia di invitarlo a occuparsi di pederastia, dov'è specialista». E un anno prima: «Se quando ha visitato la Russia nel 1936 gli avessero messo accanto un energico e poco schizzinoso bestione che gli avesse dato le metafisiche soddisfazioni ch'egli cerca, quanto bene avrebbe detto, al ritorno, di quel Paese!». Mentre il mensile della Fgci Gioventù Nuova, diretto da Enrico Berlinguer, se la prende con Jean-Paul Sartre: «Un degenerato lacchè dell'imperialismo, che si compiace della pederastia e dell'onanismo». Riflette l'autore: il messaggio dell'apparato è che «tra i comunisti non c'è posto per gli omosessuali, invertiti e pederasti (usati spesso come sinonimi) sono solo gli avversari borghesi».
C'è l'espulsione dal Pci di Pier Paolo Pasolini «per indegnità morale» nel 1949. Francesco Rutelli che nel 2000 da sindaco di Roma ritira il patrocinio al Gay Pride perché si tiene nei giorni del Giubileo. E la reazione di Giancarlo Pajetta nella seconda metà degli anni '80. A Botteghe Oscure nota facce nuove: «Incuriosito, si avvicina, scoprendo che si tratta della prima delegazione gay accolta in via ufficiale nella sede comunista. E prima le puttane, e adesso i finocchi si sfoga, scuotendo la testa ma che c... è diventato questo partito?». Arrivando ai giorni nostri, ecco la sinistra «diversamente omofoba». Nel 2009 Bersani manifesta «forti perplessità» sulle unioni gay. È bene, spiega, regolare un fenomeno cresciuto «a dismisura». Però «poi non è che lo chiamo matrimonio omosessuale perché non sono assimilabili». Ancora: «È mai possibile che i problemi dell'Italia siano i Pacs e la Tav?, si domanda nel 2006 l'ex premier Massimo D'Alema (...). Prima di aggiungere, significativamente: Ci siamo fatti incastrare a discutere di questioni marginali rispetto ai problemi del Paese». Pochi mesi dopo aggiungerà che il matrimonio tra omosessuali «offenderebbe il sentimento religioso di tanta gente». Nel 1995 aveva dichiarato: la coppia omo non può «essere considerata una famiglia».
A sinistra la «tolleranza repressiva» ha lasciato il posto al silenzio imbarazzato: «C'è una generazione di gente brillantissima che viene dal Pci che non ha mai fatto coming out racconterà nel 2012 la deputata dem Paola Concia Donne e uomini, personaggi di primo piano di quel partito. Se avessero dichiarato pubblicamente la loro omosessualità avrebbero fornito carburante alla sinistra». Non solo: «Alcuni colleghi del Pd (...) ogni volta che mi vedono parlare con una donna, si strizzano l'occhio e dicono che ci sto provando (...). Pregiudizi che trovano conferma nel 2011 quando la deputata annuncia che si sposerà in Germania con la compagna. Che si dice in questi casi?, le domanda Rosy Bindi». Infine Vendola che confessa: «È stato forse più facile dire la mia omosessualità ai preti che al partito».
Da Che Guevara a Orlando, tutte le contraddizioni del mondo gay, scrive Adriano Scianca il 14 giugno 2016 su “Il Primato nazionale”. Il 14 giugno 1928 nasceva a Rosario, in Argentina, Ernesto Guevara de la Serna, destinato a passare alla storia, col nomignolo di Che, per l’apporto dato alla rivoluzione comunista cubana e per essere stato, dopo l’instaurazione del regime castrista, uno dei suoi principali esponenti. Di lui si è detto e scritto tutto. Non è neanche una novità sconvolgente quella per cui, nella visione guevarista dell’uomo nuovo, non ci fosse posto per l’omosessualità: che il Che sia stato l’artefice della creazione di veri e propri campi di concentramento per omosessuali, in cui finirono anche molti simpatizzanti per la rivoluzione, è cosa ben documentata. Eppure il brand guevarista va forte proprio in quei settori che vorrebbero fare l’esame del dna a chiunque sia anche solo in odore di “omofobia”. Beninteso, non vogliamo frettolosamente liquidare qui la rivoluzione cubana con un giudizio piccolo-borghese limitato ai suoi “crimini”, ma certo la contraddizione stride, e parecchio. Non è la sola, se restiamo in campo “lgbt”: al recente gay pride di Roma, per esempio, sono stati fotografati dei cartelli che inneggiavano al boicottaggio dei prodotti israeliani e alla libertà della Palestina. Ben fatto, la causa palestinese gode di tutta la nostra simpatia. Ma, anche qui, non si può non ragionare in punta di coerenza: Israele è uno Stato estremamente gay friendly, cosa che è difficile dire della controparte palestinese e del mondo musulmano in genere. È questo il motivo per cui, dopo la strage di Orlando, il pensiero dominante è andato in tilt: un musulmano, figlio di immigrati, che fa strage di gay. Come uscirne? Sel, in Italia, ha risolto la questione, dando la colpa al fascismo, ma questa è patologia psichiatrica e va lasciata quindi agli specialisti. Abbiamo detto del gay pride: non è forse quella una contraddizione ambulante? Uno sfoggio identitario per rivendicare diritti e uguaglianza. L’espressione di una sottocultura trasgressiva per reclamare l’accesso al perbenismo borghese. Un ostentato “siamo diversi da voi” per far capire alla gente “siamo uguali a voi”. Ora, questo micro-viaggio che parte da Che Guevara e arriva non a Madre Teresa, come la Chiesa immaginaria di Jovanotti, ma allo stragista di Orlando passando per i carri chiassosi del gay pride, cosa vorrebbe dimostrare? Nulla, se non che l’ortodossia politicamente corretta, che ha nelle rivendicazioni lgbt la sua punta di lancia più avanzata, è un sistema logico fallace e un sistema etico claudicante. E che la dittatura del pensiero unico è innanzitutto una dittatura del non pensiero. Adriano Scianca
Omofobia sinistra. Era il 1934 quando Klaus Mann, il figlio dello scrittore Thomas che ebbe una vita signorilmente intensa e signorilmente angosciata, scrisse un pamphlet contro la persecuzione dei “pederasti”. Persecuzione degli omosessuali da parte della sinistra. Sì, perché se oggi negli stereotipi c’è l’omofobia di destra e l’omofilia di sinistra, un tempo, e non fu molto tempo fa, c’era l’omofobia di sinistra e l’omofilia di destra. Klaus Mann denuncia “l’avversione nei confronti di tutto quanto è omoerotismo che nella maggior parte degli ambienti antifascisti e in quasi tutti gli ambienti socialisti raggiunge un livello intenso. Non siamo molto lontani dall’arrivare a identificare l’omosessualità con il fascismo. Su questo non è più possibile tacere”, scrive Giulio Meotti il 22 Luglio 2013 su “Il Foglio”. E ancora: “Come mai sui giornali antifascisti leggiamo parole come ‘assassini e pederasti’ abbinate quasi con la stessa frequenza con cui vengono abbinate sui fogli nazisti le parole ‘traditore del popolo ed ebreo’? La parola ‘pederasta’ viene usata come un’ingiuria”. Né in “Arcipelago Gulag” di Alexander Solzenicyn, né nei “Racconti della Kolyma” di Varlam Salamov, c’è una parola per raccontare la sorte degli omosessuali nei campi sovietici. Sono chiamati, semplicemente, “gli infamati”. In un’opera di divulgazione del commissariato sovietico di Pubblica sicurezza del 1923, intitolato “La vita sessuale della gioventù contemporanea”, si legge che l’omosessualità è “una forma di alienazione” che sarebbe scomparsa, naturalmente o meno, con l’avvento del comunismo. La morale sessuale della sinistra ha sempre oscillato fra la critica radicale delle istituzioni borghesi, a cominciare dal matrimonio, e quella delle “degenerazioni” del costume, segno della corruzione che veniva dalle classi dominanti e capitalistiche. Nel 1862 il proclama della “Giovane Russia” postulava l’abolizione del matrimonio “fenomeno altamente immorale e incompatibile con una completa eguaglianza dei sessi”. La critica di Engels (“Origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato”) indusse la prima generazione di rivoluzionari russi a considerare la famiglia come una “istituzione superata”. August Bebel scriveva che “il soddisfacimento dell’impulso sessuale è un affare privato di ciascuno proprio come il soddisfacimento di ogni altro impulso naturale”. Ma quando una militante bolscevica, nel 1915, stese un pamphlet favorevole al “libero amore”, Lenin rispose che questa era una concezione borghese, non proletaria. Parlando con Klara Zetkin, nel 1920, definì “completamente antimarxista e per di più antisociale la famosa teoria secondo cui, nella società comunista, la soddisfazione dell’istinto sociale e dell’amore è una cosa semplice e insignificante come bere un bicchier d’acqua”. Queste teorie e i conseguenti comportamenti si erano diffusi nella prima fase rivoluzionaria, negli ambienti intellettuali delle grandi metropoli, dominati dallo spirito dissacratore dei futuristi, che consideravano l’omosessualità solo un modo diverso di bere un bicchier d’acqua. A mano a mano che il potere sovietico si estese alle campagne, con la guerra civile e la Nep, la situazione mutò radicalmente. La famiglia tradizionale tornò a essere il modello e ogni “devianza” fu condannata.
Si cominciò con l’attacco di Bucharin alla diffusione fra i giovani di “gruppi decadenti e semiborghesi con nomi come Abbasso l’innocenza, Abbasso il pudore” e si finì con l’inserire nel codice penale la condanna ai lavori forzati per l’omosessualità. Gli intellettuali comunisti occidentali si adeguarono. Uno dei testi più noti di Bertolt Brecht, “Ballade vom 30 Juni”, presenta Hitler e Ernst Röhm come amanti di letto, usando l’accusa di omosessualità per screditare il nazionalsocialismo. Si arriverà, con il giornalista Georges Valensin, a dichiarare che nella Cina di Mao “l’omosessualità non esiste più” (l’Espresso, 20 novembre 1977).
Il Pcf si distinse nell’attacco a “intellettuali degenerati” come André Gide, l’autore di “Si le grain ne meurt”, l’autobiografia dove confessa come in una psicoterapia le “brutte abitudini” di bambino onanista all’Ecole Alsacienne o le crudeltà di adulto libertino inflitte alla madre. “Ce vieux Voltaire de la pédérastie”, scrisse di lui Ernst Jünger, che così sintetizzò il suo nichilismo scettico redento dall’eleganza dello stile. Gide l’alfiere dell’individualismo antiborghese, il custode del classicismo che disse “Je ne suis pas tapette, Monsieur, je suis pédéraste”. Ma anche il militante dell’antifascismo infatuato per breve tempo del comunismo e che, sontuosamente accolto nel 1936 a Mosca, ritornò in occidente per scrivere “Retour de l’Urss” e “Retouches à mon retour de l’Urss”, i libri in cui riferì quello che aveva visto realmente nella Russia staliniana. Divenne così “Gide, il traditore”, “il bieco reazionario”, “il servo dei padroni”, “il nemico della classe operaia”: questo il campionario di epiteti pubblicati a caratteri cubitali contro l’omosessuale antesignano. “Quelle sue calunnie, assurde e ignobili, contro il paese guida del comunismo internazionale, sono la bava avvelenata di un degno figlio della piccola borghesia, di un alleato dei nostalgici nazisti e delle camicie nere”, scrivevano i giornalisti dell’Humanité, il quotidiano del Partito comunista francese. E i loro colleghi della Pravda, organo del Partito comunista sovietico, rivolgendosi ai lettori militanti: “Sapete perché il signor Gide ce l’ha tanto con noi e con i nostri compagni? S’è indignato, poverino, ha provato un disgusto indicibile, quando si è accorto che i comunisti di Mosca non sono pederasti”.
Quando a Stoccolma, nel 1947, diedero al settantottenne Gide il premio Nobel per la Letteratura, Jean Kanapa arriverà a dire che dieci anni prima lo scrittore aveva provato disgusto per i bolscevichi “accorgendosi che essi non erano pederasti”. Nel 1949 Dominique Desanti lo descrisse vecchio di ottantun anni “con già sul viso la maschera della morte”, circondato da giovani ammiratori che avevano trovato nei suoi libri la stessa liberazione che altri trovavano a Place Pigalle. Nel coro di mostrificazione di Gide non mancherà la voce di Palmiro Togliatti, il segretario del Pci che sotto lo pseudonimo di Roderigo di Castiglia, dal giorno del suo ritorno in Italia, nell’ottobre 1943, a quello della sua morte a Jalta, nell’agosto 1964, svolse il suo magistero culturale sulle pagine di Rinascita. Nel maggio 1950, scriverà a proposito di Gide: “Al sentire Gide, di fronte al problema dei rapporti fra i partiti e le classi, dare tutto per risolto identificando l’assenza di partiti di opposizione, in una società senza classi, con la tirannide e il terrorismo, vien voglia di invitarlo a occuparsi di pederastia, dov’è specialista, ma lasciar queste cose, dove non ne capisce proprio niente”.
Il 20 febbraio 1951, all’indomani della scomparsa di Gide, l’Humanité pubblicherà un necrologio intitolato “Un cadavere è morto”. E’ lo stesso Kanapa che nel 1947 riassunse la posizione ufficiale del Partito comunista francese in un saggio intitolato “L’esistenzialismo non è un umanesimo”, in cui si arriva a sostenere che “il significato sociale dell’esistenzialismo è la necessità attuale per la classe sfruttatrice di addormentare i suoi avversari” e che Jean-Paul Sartre era un “pederasta che corrompe la gioventù”. In Italia si seguì un doppio binario. Gli omosessuali non venivano ammessi nel partito e quando venivano scoperti, come nel caso famoso di Pier Paolo Pasolini, venivano espulsi in base alla norma sulla “condotta esemplare” contenuta nello statuto comunista. C’è ad esempio il caso di Pietro Secchia, sul quale cominciarono a circolare voci soltanto dopo che, morto Stalin e fuggito il suo più stretto collaboratore, fu esautorato dal suo ruolo di capo dell’Ufficio quadri, quello che vigilava sulla vita, anche privata, di “compagni e dirigenti”. Sul piano pseudoscientifico pesarono a lungo le teorie biologiche di Andrei Lissenko, che sosteneva una specie di superiorità razziale del proletariato nel quale “fenomeni di devianza”, come l’omosessualità, potevano sussistere solo come il risultato della contaminazione di altre classi. Nel Partito comunista, di omosessualità non si parlerà a lungo. Nel convegno del 1964 dedicato a “Famiglia e società nell’analisi marxista” si accenna polemicamente, lo fa Umberto Cerroni, “alle false alternative teoriche del ribellismo sessuale”, mentre la ricognizione della “esperienza sovietica” di Luciana Castellina arriva a criticare “gli eterodossi, gli innovatori” come sostenitori “del ritorno a una tematica crepuscolare, in difesa del privato e dei suoi tenui sentimenti”. Ancora nel 1979 Antonio Roasio, uno dei fondatori del Partito comunista a Livorno, non trovava di meglio che criticare l’Unità per “l’eccessivo rilievo” dato all’omosessualità in un numero del quotidiano e che “comunque la si giudichi, l’omosessualità non può essere considerata un aspetto della libertà sociale”.
C’è poi la storia, quella vera, del “Che”, Ernesto Guevara. Una storia che in pochi raccontano oggi e che le stesse associazioni omosessuali militanti hanno sempre nascosto. Con il passaggio di poteri da Batista a Castro, nel 1959, Guevara venne nominato procuratore militare con il compito di reprimere “gli oppositori della rivoluzione”. Nei tribunali finiscono per espressa volontà del Che molti religiosi, tra cui l’arcivescovo dell’Avana, e moltissimi “maricones”, gli omosessuali. Il Che realizza campi di lavori forzati ed elabora i regolamenti dentro le galere del regime, che fissano le punizioni corporali per i più facinorosi, come i lavori agricoli eseguiti nudi. Alcuni reduci racconteranno di “maricones” uccisi personalmente, con colpi di pistola alla tempia, dal leggendario guerrigliero. Perché nella Cuba comunista tanto amata in occidente, il castrismo ha perseguitato gli omosessuali chiamandoli “pinguero” (marchetta) e “bugarrón” (uno che cerca sesso spasmodicamente). E se nella Cuba di Batista i gay stavano male e basta, fu tra il 1965 e il 1968, dopo la rivoluzione, che ci fu il trionfo delle Unidades militares de ayuda a la producción, veri e propri lager con guardie armate e filo spinato. Ci finivano dal “poeta finocchio” all’“attore effeminato”, tutti in divisa blu, sottoposti a marce durissime, cibo scarso, ma anche “cure” con gli elettrodi attaccati ai genitali. Il comandante Ernesto Guevara fu lì uno degli aguzzini.
Granma, l’organo ufficiale del Partito comunista cubano, nell’aprile 1971 scriveva per esempio che “il carattere socialmente patologico delle deviazioni omosessuali va decisamente respinto e prevenuto fin dall’inizio. E’ stata condotta un’analisi profonda delle misure di prevenzione e di educazione da rendere efficaci contro i focolai esistenti, inclusi il controllo e la scoperta di casi isolati e i vari gradi di infiltrazione. Non si deve più tollerare che gli omosessuali notori abbiano una qualche influenza nella formazione della nostra gioventù. Siano applicate severe sanzioni contro coloro che corrompono la moralità dei minori, depravati recidivi e irrimediabili elementi antisociali, ecc.”. L’omosessualità è trattata alla stregua di un virus patogeno. Nel 1979 gli atti omosessuali vennero decriminalizzati a Cuba, ma i gay continuarono a venire accusati di essere “oppositori del regime”, sbattuti in galera senza processo, mandati a morte in quell’isola magnifica che descrive Claudio Abbado. Il quotidiano Juventud rebelde pubblica una foto di un impiccato, un “gusano”, un verme, e sui pantaloni c’è scritto “homosexual”. Nel 1984 Néstor Almendroz e Orlando Jiménez Leal producono il documentario “Cattiva condotta”, dove raccontano la persecuzione del regime castrista contro i gay. Racconta lo scrittore Guillermo Cabrera Infante: “La persecuzione degli omosessuali dei due sessi fu una persecuzione di dissidenti. Gli omosessuali deviano dalle norme borghesi. I comunisti sostengono le coppie convenzionali, il matrimonio… L’omosessualità minaccia tutto ciò, perciò gli stati totalitari la temono”. Ancora l’articolo 303 del codice penale del 30 aprile 1988 punisce chi “manifesti pubblicamente” la propria omosessualità con pene che variano tra i tre mesi a un anno di prigione o una multa che va da cento a trecento cuotas per coloro che “infastidiscono in modo persistente gli altri con proposte amorose omosessuali”. In occidente, dove oggi vige l’omofilia militante e avanza la censura antiomofoba, l’omosessualità è stata sempre una questione di emarginazione. Nell’emisfero comunista, e nel pensiero della sinistra europea, l’omosessualità era destinata a scomparire. Assieme ai froci. Una “soluzione finale” contemplata in un articolo che Maksim Gorkij, la bandiera degli scrittori sovietici, l’amico di Lenin, il padre del realismo socialista, pubblicò il 23 maggio 1934 contemporaneamente sulla Pravda e sull’Izvestia, sotto il titolo “Umanesimo proletario”: “Nei paesi fascisti, l’omosessualità, rovina dei giovani, fiorisce impunemente; nel paese dove il proletariato ha audacemente conquistato il potere, l’omosessualità è stata dichiarata crimine sociale e severamente punita. Eliminate gli omosessuali e il fascismo scomparirà”.
SINISTRISMO E RADICAL-CHIC.
Radical chic. Locuzione: Che riflette il sinistrismo di maniera di certi ambienti culturali d'élite, che si atteggiano a sostenitori e promotori di riforme o cambiamenti politici e sociali più appariscenti e velleitari che sostanziali.
Ecco come smascherare i radical chic 2.0 (in 12 punti), scrive Francesco Maria Del Vigo il 26 agosto 2014 su "Il Giornale". Qualche giorno fa, sul Giornale, ho pubblicato una lista in nove punti sui tic dei radical chic on line. Questa è la versione integrale:
La foto del profilo non è (quasi) mai una loro foto. Sarebbe troppo nazionalpopolare. Mettono solo frammenti di film di qualche regista polacco mai distribuiti fuori dalla circonvallazione di Varsavia.
Quando scelgono una loro immagine deve essere schermata da almeno cinque o sei filtri, avere delle velleità artistiche e magari ritrarre solo una parte del viso. Espressione sempre preoccupata per i destini del mondo. Il sorriso è bandito come un retaggio del ventennio berlusconiano.
L’oroscopo è un vizio da portinaia. Ma se si tratta di quello di Internazionale no. Lo condividono su tutti i social come se fosse il Vangelo.
Le foto delle vacanze vanno bene solo se si è nel terzo mondo o in un campo profughi. Pose obbligatorie: sguardo corrucciato, camuffati da indigeni e nell’atto di solidarizzare con gli abitanti del luogo. Il colore (degli abitanti del luogo) deve essere intonato alla nuance dei sandali Birkenstock.
Su Twitter parlano tra di loro di cose che capiscono solo loro. Sublimazione del sogno radical chic: l’esposizione mediatica del salotto (ovviamente etnico) di casa propria.
Sì al selfie, ma solo se ha un significato sociale e politico. Possibilmente con un cartello in mano che sostiene la battaglia di qualche gruppo di contadini ugandesi. Ancora meglio se su iniziativa di Repubblica.it.
La Reflex. Più che uno strumento fotografico è un monile, una collana da appendere al collo. Condividono e scattano foto solo con voluminosissime – e costosissime – macchine fotografiche professionali. Preferiscono Flickr a Instagram, troppo plebeo.
Il meteo è il prolungamento della politica coi mezzi della natura. Se piove non è colpa del governo ladro, ma dello scioglimento dei ghiacci dovuto al capitalismo diabolico. Condividere (sui social) per educare.
Il cibo non esiste. Esiste solo il food. Da fotografare e condividere sui social solo a tre condizioni: che sia a km 0 (va bene anche se è stato coltivato nella rotatoria di Piazzale Loreto), etnico o equo e solidale.
La petizione on line è la nuova e comodissima forma di contestazione. Va bene per risolvere tutti i problemi: dal cambio degli stuoini nel condominio (meglio sostituirlo con un piccolo kilim) alla fame nel mondo. Basta un click. Tutto il nécessaire è su Charge.org.
Film, libri, giornali. Tutto in lingua straniera. Molto chic condividere video di serie tv in lingua originale non ancora trasmessi in Italia. Appena oltrepassano le Alpi diventano rigorosamente pacchiane.
Anche Youporn è troppo pop. Forse anche sessista, potrebbe addirittura essere di destra con quello sfondo nero… Meglio ripiegare su siti soft porn o intellettual-erotici. Ammesso anche spulciare tra le pagine osè di Tumblr.
Le 9 differenze tra tamarri e radical-chic, scrive il 4 novembre 2014 Enrico Matzeu. (Gli stilisti mi evitano, le pr non mi invitano ai party più glamour. Scrivo sull’Oltreuomo per vendicarmi di loro.) La giungla umana è fatta di tante specie diverse, di tanti tipi umani che vengono costantemente tenuti sotto osservazione da antropologi e ornitologi. Tra queste specie, due meritano di essere analizzate con cura certosina: i Tamarri e i Radical-chic. Due categorie che come i binari della transiberiana non si incontreranno probabilmente mai. Entrambe le categorie si schifano a vicenda ed entrambe vanno orgogliose delle loro variopinte peculiarità. Ho provato con cura e garbo a sottolineare le differenze tra gli zarri e gli snob, nei nove ambiti dove emerge al meglio la loro personalità. Le 9 differenza tra Tamarri e Radical-chic:
1. Abbigliamento. I Tamarri doc vogliono stare comodi e si infilano i pantaloni della tuta anche per il matrimonio del cugino di ottavo grado (ah no, lì indossano i pantaloni della festa in finto acrilico traslucido). Le donne non rinunciano ai leggings, mai, neanche quando i leggings rinuncerebbero volentieri a loro. Entrambi portano con ossessione i gilet imbottiti, come fossero costantemente a bordo della Costa Concordia. I radical-chic invece portano la giacchia in velluto a costine anche in spiaggia, con camicette alla coreana e le immancabili Clarks. Per le donne l’abito asimmetrico di qualche stilista giappo-svedese è d’obbligo nell’armadio.
2. Vacanze. I Tamarri amano il sole più di se stessi e se d’inverno passano il tempo libero stesi su un lettino abbronzante, d’estate preferiscono di gran lunga le sdraio di polipropilene di Rimini e Riccione. I più internazionali svernano invece a Ibiza o Mykonos, sfoggiando costumini con sospensorio annesso o bikini tigrati. I radical-chic temono il sole più dell’ebola e se una volta amavano Capalbio ora preferiscono di gran lunga il Museo d’Orsey di Parigi o al massimo qualche sperduta isola del Mediterraneo a mangiare crudité di pesce e piatti bio.
3. Borse. I Tamarri amano indubbiamente accessori griffati, evidentemente griffati. Le donne non rinunciano al bauletto Louis Vuitton (meglio se tarocco) e gli uomini al borsello di Gucci (meglio se rubato). Per i radical-chic le borse sono unisex. Sia uomini che donne infatti usano quasi esclusivamente borse in tela, meglio se di qualche festival filosofico-cinefilo-letterario, ai quali probabilmente non sono neanche mai stati.
4. Ristoranti. Per i Tamarri sushi is the new pizza. Si abbuffano come bambini del Biafra in un qualsiasi all you can eat del quartiere e più ordinano più si sentono dei giusti. I radical-chic hanno smesso di mangiare il sushi da almeno tre anni. Ora si dedicano alla cucina vietnamita, alle hamburgerie dove si ordina con l’IPad o da Eataly, dove un ordine costa come un IPad.
5. Tatuaggi. I Tamarri si tatuano con gusto tutto il corpo come fosse una tela impressionista (nel senso che fa impressione). Partono con un tribale sui bicipiti e finisce che si colorano anche la mano con il viso della nonna defunta. Le iniziali del proprio amato sono indispensabili e diventano un marchio a fuoco come per le vacche. I radical-chic invece si dividono tra quelli che vogliono il tattoo old school, con marinai e sirene (che neanche nei Pirati dei Caraibi), oppure puntano sui tatuaggi minimalisti, fatti di disegni stilizzati o schizzi di Mirò.
6. Occhiali da sole. Un Tamarro come si deve si distingue anche e soprattutto da un paio di occhiali da sole. Per la regola che più grosso ce l’hai (l’occhiale) più sei figo, al Tamarro tipo piace esagerare, con montature che invadono la faccia, peggio di Putin con l’Ucraina, e lenti specchiate che ti riflettono pure le adenoidi. Il radical-chic non rinuncia ai suoi Rayban, meglio se tartarugati, pieghevoli, vintage, in limited edition e con la cordicella al collo. Sia mai li perdano.
7. Musica. Da adolescenti la musica dance è per i Tamarri come l’insulina per i diabetici: questione di vita o di morte. Crescendo, si affezionano ai neo melodici italiani, possibilmente amici della De Filippi o con almeno un paio di date in America Latina. I radical-chic citano De André, Guccini e Battiato ogni tre per due, spesso confondendoli tra loro e odiano tutto ciò che è pop (talvolta addirittura i pop-corn). Frequentano club con musica dal vivo e non si perdono i concerti dei gruppi più indie del momento, anche di quelli che non conoscono.
8. Libri. Diciamocelo, i Tamarri leggono più volentieri le riviste scandalistiche (o scandalose) dei libri, però se proprio devono entrare in una libreria ne escono con la biografia di qualche calciatore, qualche libro di aspiranti motivatori e naturalmente il libro dell’Oltreuomo. I radical chic millantano sempre letture impegnate e impegnative e sui loro comodini ci sono pile e pile infinite di libri, tra i quali si leggono titoli di Kafka, Hesse e Tolstoj, ma in fondo, messo al contrario, un po’ nascosto c’è sempre una delle novità letterarie di Fabio Volo. I radical-chic in salotto hanno sempre l’ultimo libro fotografico di Oliviero Toscani. Ottimo soprammobile.
9. Sport. La palestra è per i Tamarri come la Mecca per i musulmani. Quando entrano però loro non si tolgono le scarpe perché devono sfoggiare le ultime sneakers giallo fluo con i lacci fucsia e le canotte ascellari. Bicipiti, tricipiti e addominali devono essere tonici e tirati più della pelle di un tamburo e sfoggiati sotto a camicie e t-shirt aderenti dal dubbio gusto. I radical-chic boicottano la palestra perché la ritengono anticostituzionale e preferiscono di gran lunga la corsa, possibilmente al Central Park di New York o il tennis, perché si possono indossare quei gonnellini tanto chic.
Radical chic. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Radical chic è un'espressione idiomatica mutuata dall'inglese per definire gli appartenenti alla borghesia che per vari motivi (seguire la moda, esibizionismo o per inconfessati interessi personali) ostentano idee e tendenze politiche affini alla sinistra radicale o comunque opposte al loro vero ceto di appartenenza. Per estensione, la definizione di radical chic comprende anche uno stile di vita e un modo di vestirsi e comportarsi. Un atteggiamento frequente è l'ostentato disprezzo del denaro, o il non volersene occupare in prima persona quasi fosse tabù, quando in realtà si sfoggia uno stile di vita che indica un'abbondante disponibilità finanziaria o improntato al procacciamento dello stesso con attività che, qualora osservate in altri, un radical chic non esiterebbe a definire in modo sprezzante, come volgarmente lucrative. Inoltre tale atteggiamento sovente si identifica con una certa convinzione di superiorità culturale, nonché con l'ostinata esibizione di tale cultura "alta", o la curata trasandatezza nel vestire e, talora, con la ricercatezza nell'ambito di scelte gastronomiche e turistiche; considerando, insomma, come segno distintivo l'imitazione superficiale di atteggiamenti che furono propri di certi artisti controcorrente e che, ridotti a mera apparenza, perdono qualsiasi sostanza denotando l'etichetta snobistica. La definizione radical chic fu coniata nel 1970 da Tom Wolfe, scrittore e giornalista statunitense. Il 14 gennaio di quell'anno, Felicia Bernstein, moglie del celebre compositore e direttore d'orchestra Leonard Bernstein, organizzò un ricevimento di vip e artisti per raccogliere fondi a favore del gruppo rivoluzionario marxista-leninista Pantere Nere (alcuni membri delle Pantere Nere furono invitati al ricevimento). Il party si tenne a casa dei Bernstein, un attico di tredici camere su Park Avenue (un ampio viale di Manhattan). Tom Wolfe scrisse un ampio resoconto sulla serata, descrivendo in modo molto critico gli invitati, rappresentanti dell'alta società newyorchese. Ne risultò un articolo di 29 pagine pubblicato sul New York Magazine dell'8 giugno 1970. In Italia, l'espressione fu ripresa da Indro Montanelli nel celebre articolo Lettera a Camilla, in forte polemica con la giornalista Camilla Cederna, quale ideale rappresentante dell'italico "magma radical-chic", superficiale e incosciente culla degli anni di piombo. In seguito, egli chiarì che la vera destinataria della lettera aperta era invece Giulia Maria Crespi, allora padrona del «Corriere della Sera» e amica della Cederna, con la quale i dissidi sarebbero sfociati, l'anno seguente, nell'allontanamento di Montanelli dal quotidiano di via Solferino, dove lavorava sin dal 1937. A parte l'adozione del neologismo, l'argomento era già stato affrontato da Montanelli in vari scritti, nei quali lamentava la frivola ideologia sfoggiata da certa borghesia ricca e pseudo-intellettuale lombarda, facendone anche un ritratto tragicomico nella pièce teatrale Viva la dinamite! (1960).
Cosa sono i radical chic? Scrive Luca Sofri il 29 agosto 2014 su "Il Post". In teoria non "sono": abbiamo trasformato noi un'espressione inventata da Tom Wolfe nel 1970 e che ormai è usata lontanissimo dal suo senso. Nella rituale e un po’ ammuffita terminologia del dibattito pubblico italiano prospera da decenni con minore o maggiore frequenza l’espressione “radical chic”, usata prevalentemente in modo offensivo e dispregiativo, per indicare la presunta incoerenza di persone che si dicono politicamente di sinistra ma hanno redditi maggiori di quelli che un luogo comune anacronistico attribuirebbe ai militanti di sinistra. Proprio perché il termine è usato quasi sempre per polemica e con intenzioni aggressive, la coerenza del suo uso non è di solito rilevante: è diventato un insulto come un altro. Ma la sua storia è interessante, così come quella della nebbia semantica in cui è poi finito ora che viene usato spesso a caso e per mille cose diverse tra loro. Il termine “Radical chic” è formato dalla parola inglese “radical” – che vuol dire “radicale” nel senso dell’intensità dell’attivismo e degli obiettivi politici – e da quella francese “chic”, “raffinato”. Nella definizione del dizionario Treccani è sia un aggettivo che un sostantivo, e indica: «che o chi per moda o convenienza, professa idee anticonformistiche e tendenze politiche radicali». L’Oxford Dictionary precisa (in inglese “radical chic” è un concetto, non una persona): si tratta «dell’ostentazione», molto alla moda, di idee e visioni «radicali e di sinistra». Radicale, per moda. Wikipedia esplicita un terzo elemento: al concetto di “radical chic” è associata anche la ricchezza. Il “radical chic” appartiene «alla ricca borghesia» o proviene «dalla classe media» e «per seguire la moda, per esibizionismo o per inconfessati interessi personali, ostenta idee e tendenze politiche affini alla sinistra radicale (come il comunismo) o comunque opposte al suo vero ceto di appartenenza». Spiegazione che si può sbrigativamente riassumere nella frase “fai il comunista con il maglione di cachemire” (sinistra in cachemire è una delle diverse varianti usate per concetti simili, come gauche-caviar o champagne socialist). La versione inglese di Wikipedia dice che il “radical chic” è un esponente della società, dell’alta società e della mondanità impegnato a dare di sé un’immagine basata su due pratiche: da una parte quella di definire sé stesso attraverso la fedeltà e l’impegno ad una causa, dall’altra a esibire questa fedeltà perché quella stessa causa è alla moda e qualcosa di cui si preoccupa (anche tra i ricchi). Per il termine “Champagne socialist” Wikipedia spiega una cosa uguale e simmetrica: non un ricco che si atteggia artificiosamente a persona di sinistra, ma uno di sinistra che è ricco e ha abitudini da ricco in contraddizione con i suoi pensieri. Nell’uso comune, in italiano, “radical chic” è usato per definire entrambi i casi. L’introduzione della definizione di “radical chic” viene attribuita storicamente allo scrittore e giornalista americano Tom Wolfe che sul New York Magazine del giugno 1970 pubblicò un lunghissimo articolo intitolato “Radical Chic, That Party at Lenny’s”. Wolfe fece un resoconto del ricevimento che qualche mese prima Felicia Bernstein, moglie del compositore e direttore d’orchestra Leonard, organizzò per raccogliere fondi a sostegno del gruppo rivoluzionario delle «Pantere nere». La festa si svolse a casa dei Bernstein, in un attico su Park Avenue, a Manhattan. Erano presenti molte personalità che provenivano dal mondo della cultura e dello spettacolo newyorchese e i camerieri in livrea (camerieri bianchi per non offendere gli ospiti afroamericani) servivano tartine al Roquefort. Dopo una breve introduzione, la prima parte del racconto di Tom Wolfe inizia così: «Mmmmmmmmmmmmmmmm». Sedici lettere, un’onomatopea per esprimere l’aria di appagamento che circolava in quella serata, ma anche che cosa Wolfe intendesse per “radical chic”: una specie di corrente, di moda, di milieu, un matrimonio pubblico molto ridicolo tra la buona coscienza progressista delle classi più ricche e la politica di strada, un corto circuito in cui alcuni rischiavano davvero, per le loro idee, e altri invece non rischiavano niente e in cui c’era l’illusione di una collaborazione e contaminazione tra diversi mondi e diverse classi sociali. La serata fu molto criticata: un editoriale del New York Times sostenne che aveva offeso e arrecato danno a quei neri e a quei bianchi che «lavorano seriamente per la completa uguaglianza e la giustizia sociale», Felicia Bernstein rispose pubblicamente difendendo la sua festa. Fatto sta che il termine usato da Wolfe per descrivere l’atteggiamento dei Bernstein si diffuse ben presto in tutto il mondo, e in Italia si radicò ancora più che altrove e prese a indicare, in maniera inesatta, una persona o un atteggiamento, diventando anche aggettivo. L’espressione fu ripresa sul Corriere della Sera il 21 marzo del 1972 da Indro Montanelli in un famoso articolo intitolato “Lettera a Camilla” e rivolto a Camilla Cederna, la giornalista italiana che si era occupata della morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, precipitato dalla questura di Milano dove si trovava accusato innocente dell’attentato di Piazza Fontana nel 1969. Montanelli descrisse Cederna così. «C’è chi dice che, più delle bombe, ti sei innamorata dei bombaroli, e questo, conoscendo i tuoi rigorosi e severi costumi, posso accettarlo solo se alla parola “amore” si dia il suo significato cristiano di fratellanza […]. Fino a ieri testimone furtiva o relatrice discreta di trame e tresche salottiere, arbitra di mode, maestra di sfumature, fustigatrice di vizi armata di cipria e piumino, ora si direbbe che tu abbia sempre parlato il gergo dei comizi e non sappia più respirare che l’aria del Circo. Ti capisco. Deve essere inebriante, per una che lo fu della mondanità, ritrovarsi regina della dinamite e sentirsi investita del suo alto patronato. Che dopo aver tanto frequentato il mondo delle contesse, tu abbia optato per quello degli anarchici, o meglio abbia cercato di miscelarli, facendo anche del povero Pinelli un personaggio della café society, non mi stupisce: gli anarchici perlomeno odorano d’uomo anche se forse un po’ troppo. Sul tuo perbenismo di signorina di buona famiglia, il loro afrore, il loro linguaggio, le loro maniere, devono sortire effetti afrodisiaci. Una droga». Montanelli, con la sua sgradevole descrizione contribuì già allora in realtà a far scivolare il concetto originario di “radical chic” verso la confusione condivisa che sta oggi intorno a questa espressione. Che rapidamente fu fatta propria da chi a destra voleva accusare qualcuno di sinistra di scarsa coerenza e successivamente adottata nelle polemiche interne alla sinistra quando il mondo cominciò a cambiare e gli elettori di sinistra smisero di essere prevalentemente “proletariato” in senso stretto. Negli ultimi anni, con lo sviluppo di maggiori contraddizioni nella sinistra italiana di fronte a grossi cambiamenti, ma anche legata a tradizioni radicate, l’accusa è tornata a essere usata molto proprio a sinistra come contraltare di tutti i richiami alla “vicinanza al territorio”, “ai problemi della gente”, stimolata dai fallimenti delle dirigenze politiche della sinistra in questo periodo. E un generale antintellettualismo in grande crescita è stato un altro fattore che ha alleato nell’uso del termine sia leader della sinistra radicale che politici e stampa di destra, per attaccare da parti opposte gli esponenti della sinistra più riformista. Così oggi “radicalscìc” è diventato un insulto di uso comunissimo e destinato a persone dai redditi più vari e dalle posizioni più articolate. Con la contraddizione che oggi i principali destinatari dell’epiteto sono persone che hanno posizioni niente affatto radicali, anzi sono gli oppositori della sinistra radicale: l’uso più convincente del termine negli anni passati è stato quello destinato a Fausto Bertinotti, un uomo in effetti elegante e di modi garbati, coi pullover di cachemire e posizioni di estrema sinistra; mentre quando lo si dice per esempio a persone come Matteo Renzi, per niente radical e nemmeno straordinariamente chic, il senso è definitivamente stravolto.
Il corso per diventare un vero radical-chic. Sul web impazza una locandina che promette fantomatiche lezioni. L'obiettivo: incarnare perfettamente lo stereotipo nel minor tempo possibile, scrive il 6 Dicembre 2013 "Libero Quotidiano”. Il radical-chic. Una figura che accompagna gli "anni duemila". Rigorosamente di sinistra (ma critico con la sinistra stessa), snob ma finto alternativo, con la puzza sotto al naso, un po' terzomondista ma elitario, molto tollerante soltanto a parole, il radical-chic è odiato da tutti: da chi non lo è e da chi, invece, ne incarna lo stereotipo. Già, perché il radical-chic, essenzialmente, disprezza e denigra, ottenebrato da una sorta di nichilismo illuminante di cui lui, e solo lui, è dotato in abbondanza. Non è semplice essere un radical-chic. Ci vogliono anni di studio, le giuste frequentazioni, una certa inclinazione. Ma da oggi imparare è possibile. Almeno questo è quanto promette una locandina che circola sul web, e che nel tam-tam di Twitter e Facebook ha già avuto un certo successo. Si tratta del "Primo corso di Radical Chic". Sottotitolo: "L'unico corso con attestato riconosciuto a livello nazionali". La promessa: "Impara tutti i segreti per sc... le donne più insipide del sistema solare in sole 10 lezioni da dieci ore". L'omaggio: "I primi 10 iscritti riceveranno in omaggio la guida Diventa buddista in un'ora". I contenuti - Nel mirino, insomma, tutti gli stereotipi molto radical e altrettanto chic: quello appena citato buddismo, quello sulle donne (quelle radical-chic, sia chiaro) molto insipide e quello relativo all'ambizione (malcelata) dei radical-chic, ossia fare l'amore il più possibile (anche se le parole usata per indicare la "circostanza" è ben più volgare). La locandina entra poi nel merito del corso, in cui si imparerà "come curare al peggio barba e capelli", "come metterci ore a capire come vestirsi per sembrare uno che si butta addosso la prima cosa nell'armadio". S'apprenderà poi "l'importanza del velluto a costine e del cachemire", e verrò chiarito l'amletico dubbio: "Clarks o mocassini?". E ancora, verrete illuminati sull'"importanza dell'abbinamento aperitivo-bio e musica jazz", nonché su "tutti i vini buoni, i cantautori, teatri, viaggi da citare", e sempre in termini di viaggi due regioni non avranno più segreti grazie al corso di geografia "dettagliato di Toscana e Umbria". Altri temi utili per la formazione: "Pere e formaggio, parliamone" e "le migliori supercazzole da pronunciare per fare colpo al primo approccio". Quindi una lezione su "tutte le parole più impressionanti, quali: Flaubert, sushi, Moleskine e tante altre!". Infine un seminario su "come raggiungere in bicicletta le mostre di fotografia, presentazioni di libri e sale d'essai più scrause dell'intera Ue" e "come mettere in atto la rivoluzione del salotto di casa propria". Il tutto, conclude la locandina, con una "quota d'iscrizione promozionale a 5.000 euro per il primo ciclo di lezioni (Iva esclusa)".
Ebbene sì, siamo radical-chic, scrive Eugenio Scalfari il 10 aprile 2012 su “L’Espresso”. L'etichetta che la destra populista ci affibbia come un insulto, per noi è diventata un motivo d'onore. Perché si riferisce a una cultura laica, eterodossa e ironica. Che guarda a Voltaire, Keynes, Einstein e Roosevelt. Fino a qualche tempo fa per definire un tipo bizzarro e "con la puzza sotto il naso" rispetto alle mode e ai comportamenti altrui si usava la parola snob. Non c'era altro modo e altro termine. Sebbene l'origine di quella parole fosse "sine nobilitate" il significato semantico era cambiato, anzi si era capovolto. Lo snob una sua nobiltà l'aveva: disprezzava l'uomo medio, la cultura tradizionale, i luoghi comuni, l'oleografia del passato. Disprezzava anche i buoni sentimenti o comunque li metteva in gioco. Spesso gli artisti erano definiti snob quando rompevano le regole del consueto. Quello che fu marcato con questo termine con maggiore insistenza degli altri fu Oscar Wilde, un po' per il suo modo di pensare e di scrivere e molto per la sua dichiarata e ostentata omosessualità che gli costò la prigione e l'esilio. Ma anche Dalí, anche Ravel, i surrealisti e molte "avanguardie" furono giudicati esempi di snobismo e perfino Proust, "lo sciocchino del Ritz". Durante il fascismo e la sua cultura muscolare i giornali satirici descrivevano lo snob come un gentleman passatista con le ghette sulle scarpe e il monocolo all'occhio. Adesso però quella definizione è stata sostituita da un'altra: non si dice più snob ma invece radical-chic. Non è un sinonimo, c'è qualche cosa in più ed è una dimensione politica: il radical-chic è di sinistra. Di una certa sinistra. Per guadagnarsi quella definizione deve stupire e spiazzare anzitutto la vera sinistra che, per antica definizione, si identifica con l'ideologia marxista. Togliatti - tanto per dire - non è mai stato neppure lontanamente considerato un radical-chic né Berlinguer, né Amendola o Ingrao. Bertinotti? Lui sì, gli piacciono i salotti, gli piacciono i pullover di cashmere e va spesso in giro con Mario D'Urso che è uno "chic" riconosciuto. Ma i veri radical-chic sono gli amici e i consimili di Camilla Cederna. Dunque stiamo parlando di noi, che fondammo questo giornale 57 anni fa e ne facemmo quello che è ancora oggi, un giornale di ricerca costante della verità, di denuncia delle brutture e delle malformazioni del malgoverno, di difesa dell'etica pubblica e di impegno civile. Accoppiando però, nel linguaggio, nella grafica, nella scelta delle fotografie, una vena di ironia e di autoironia, una leggerezza di stile che nulla doveva avere del sermone da sacrestia. Vedi caso: il partito radicale nacque nelle stanze del "Mondo" e de "l'Espresso" nel 1956, visse sei anni e si sfasciò nel '62. Marco Pannella e i suoi amici, che ne facevano parte, decisero di continuare con lo stesso "logo" del cappello frigio, dandogli però un contenuto più libertario che liberale. I radical-chic sono una definizione coniata dalla destra populista e qualunquista che però ha trovato qualche corrispondenza anche nel marxismo ufficiale. Quando il gruppo de "Il Manifesto" fu espulso dal Pci, c'era contro di loro una vaga ma percepibile aura di puritanesimo luterano contro un'eterodossia che irrideva gli schemi ideologici e amava Lichtenstein, la musica di Schönberg e perfino - perfino - i salotti. Non erano affatto radical-chic quelli del "Manifesto" ma tali li considerò la segreteria del Pci che li buttò fuori. Quanto a cultura i radical-chic sono illuministi e voltairiani, tra i loro personaggi di culto campeggiano Einstein, Keynes e Roosevelt. La definizione di radical-chic all'inizio gli sembrò insultante ma adesso se ne sentono onorati vista la sponda da dove proviene.
Radical choc, scrive Annalena Benini il 15 Aprile 2011 su “Il Foglio”. Alberto Asor Rosa si è sbagliato: pensava di essere a una cena après-concert, in cui ci si ritrova nel proprio ambiente, sicuri di essere compresi nella teorizzazione mondana del colpo di stato. Purtroppo il professore stava sbadatamente scrivendo su un quotidiano, e in questi casi diventa “complicato far capire a chi è fuori dall’ambiente come simili bisogni apparentemente volgari siano assoluti” (lo scriveva Tom Wolfe nel 1970 in “Radical Chic. Il fascino irresistibile dei rivoluzionari da salotto”, a proposito della necessità dei rivoluzionari dell’East Side di avere un posto dove andare il fine settimana, in campagna o al mare, di preferenza tutto l’anno, ma necessariamente da metà maggio a metà settembre). L’urgenza di un golpe da salotto è pari, per intensità, almeno all’impresa della ricerca dei domestici (in “Radical Chic” dovevano essere bianchi, per non urtare i sentimenti delle Black Panther durante i party). Sono cose futili e grevi insieme, quindi allarmanti: bisogna pensare intensamente a Mario Missiroli, storico direttore del Corriere della Sera, quando diceva: “In Italia non si potrà mai fare la rivoluzione, perché ci conosciamo tutti”, per non prendere completamente sul serio le incitazioni al golpe contro Silvio Berlusconi di uno scrittore Einaudi. L’idea di avvalersi dei Carabinieri e della Polizia di stato (per congelare le Camere, sospendere tutte le immunità parlamentari e dare alla magistratura le sue possibilità e capacità di azione, stabilire d’autorità nuove regole elettorali), è geniale, perché consente di salire sul cellulare della Polizia e andare alla guerra civile con lo chauffeur, ristabilendo così la più profonda vocazione democratica senza seccature di parcheggio o di tassametro. Ci sarà però il problema di come vestirsi: non si può esagerare con le mise da teatro, troppo frivole, che potrebbero per sbaglio richiamare certe serate berlusconiane, ma non si può nemmeno arrivare vestiti tipo “boccone del povero”, con una qualche orribile accoppiata dolcevita-jeans (data anche l’età veneranda dei golpisti), quindi il consueto abbigliamento accademico è da preferire: un tweed, per esempio, ma se i Carabinieri marciano sul Parlamento dopo mezzogiorno, il tweed è già inadatto. Bisognerà accordarsi per un’ora sobria, ma non da levatacce di operai con le borse sotto gli occhi e cattivi caffè preparati da mogli scarmigliate: le dieci e mezzo del mattino, ecco l’ora perfetta per un golpe, dà un senso di attivismo e di zelo, ma rilassato, un po’ come gli orari delle lezioni all’università. Sarà elettrizzante e romantico (purché a debita distanza dal popolo e dalle provocazioni sulla sovranità dei cittadini e del Parlamento), sarà finalmente una cosa fatta come si deve, senza mezze misure, con la gente giusta, gli sguardi severi, le barbe curate, i baffi bianchi, foto intense nei risvolti di copertina, certi deliziosi cocktail après-golpe. Resta però quel piccolo tarlo, che già impensieriva i radical chic di Tom Wolfe nelle donazioni alle Black Panther: la rivoluzione non è fiscalmente detraibile.
Libri. “Radical Chic. Conoscere e sconfiggere il pensiero unico globalista” de La Via Culturale, scrive il 29 aprile 2017 Jaap Stam su "Barbadillo. Il 24 aprile è uscito “Radical Chic. Conoscere e sconfiggere il pensiero unico globalista” (ed. La Vela, pp 176, euro 12), l’ultimo libro di Alessandro Catto, blogger su Il Giornale e fondatore del blog “La Via Culturale”. Di seguito pubblichiamo un estratto del libro, che elabora una forte critica verso il pensiero unico. “Populismo, demagogia, fascismo, chiusura mentale, provincialismo: termini che ultimamente vengono utilizzati in maniera dozzinale contro chi cerca di porre un argine al processo di globalizzazione. E’ il paradosso di una democrazia accettata solamente quando corrisponde agli auspici di una classe autodefinita democratica e tollerante ma capace di occupare spazi informativi, tribune politiche e istituzioni in maniera impropria e di impedire un reale e aperto confronto sui rischi del presente. Sono i paradossi di chi, antifascista in assenza di fascismo, in un’astratta idra di internazionalismo del mercato giustifica e promuove le peggiori distorsioni ai processi democratici e ai diritti sociali dei popoli occidentali. In capitoli brevi, ironici e frizzanti si fa luce su un fenomeno, quello liberal, che sta subendo una profonda ridiscussione ma che ancora oggi non è pienamente conosciuto, nemmeno dai suoi contestatori. Il presente volume analizza la nascita, la crescita e lo sviluppo di una sinistra che spesso ha finito con l’adottarne lo stile e i contenuti, astraendosi pure dalla sua missione storica, quella della difesa delle fasce sociali più deboli e del lavoro. Radical Chic è il libro ideale per capire il vero retroterra politico e culturale del pensiero unico politicamente corretto. Dall’istruzione all’economia, dalla storia all’attualità, dalla geopolitica alla cultura, vengono sfatati in modo leggero e divertente tutti i miti pro-global ai quali siamo quotidianamente esposti e le loro pretestuose retoriche, sempre più incapaci di nascondere il distacco tra l’alto e il basso della nostra società, tra chi con il cosmopolitismo imperativo per tutti ci guadagna e chi, ogni giorno, perde diritti, spazi democratici e possibilità di emancipazione a casa propria”.
Ecco “Radical Chic”, il libro contro il pensiero unico politicamente corretto, scrive Alessandro Catto il 3 maggio 2017 su “Il Giornale". Si chiama Radical Chic ed è il nuovo libro de La Via Culturale. Edito dalla casa editrice La Vela, è il libro ideale per capire il vero retroterra politico e culturale del pensiero unico politicamente corretto. Dall’istruzione all’economia, dalla storia all’attualità, dalla geopolitica alla cultura vengono sfatati tutti i miti pro-global ai quali siamo quotidianamente esposti e le loro pretestuose retoriche, sempre più incapaci di nascondere il distacco tra l’alto e il basso della nostra società, tra chi con il cosmopolitismo imperativo per tutti ci guadagna e chi, ogni giorno, perde diritti, spazi democratici e possibilità di emancipazione a casa propria. Populismo, fascismo, chiusura mentale, provincialismo: nel volume si parla anche dell’abuso di questi termini, utilizzati in maniera dozzinale contro chi cerca di porre dei paletti alla retorica della globalizzazione. Il paradosso di una democrazia accettata solamente quando corrisponde agli auspici di una classe autodefinita democratica e tollerante ma capace di occupare spazi informativi, culturali e politici in maniera impropria, impedendo un reale e aperto confronto sui rischi del presente. Nel perenne paravento dell’antifascismo in assenza di fascismo, la storia di una pseudosinistra che spesso ha finito con l’astrarsi pure dalla sua missione storica, quella della difesa delle fasce sociali più deboli e del lavoro. Un libro di 170 pagine suddiviso in brevi e frizzanti capitoletti, di facile lettura e privo di approcci accademici o troppo complessi, fruibile da tutti e capace di fare veramente luce su di un fenomeno, quello liberal e politically correct, così importante nel presente dell’Europa ma ancora poco conosciuto, soprattutto da chi tenta di costruire una alternativa.
Quei radical chic della sinistra da salotto schierati dalla parte dei tassisti del mare…, scrive Franco Busalacchi il 2 maggio 2017 su "I Nuovi Vespri". Sarà perché mio nonno fu assassinato da un fascista, sarà perché mio zio ha fatto la resistenza in Lombardia con in tasca la tessera del PCI firmata da Palmiro Togliatti, ma io a questi nipotini di Bertinotti li manderei tutti, prima dell’alba, a raccogliere pomodoro nelle serre e nei campi in sostituzione di quei migranti il cui arrivo è per loro una benedizione. Sarà perché mio nonno fu assassinato da un fascista e mio zio (suo figlio) fece la Resistenza, muovendosi per tutta la Lombardia con in tasca una tessera del Partito comunista datata 1943, firmata da Palmiro Togliatti e rinnovata nei due anni successivi, rischiando di essere fucilato sul posto se l’avessero beccato; sarà per la conseguente aura che si è respirata sempre in casa mia, ma quando io sento uno di questi nostri comunisti con la barca e la erre moscia, mi incazzo come un animale. Tutti questi radical chic, nipotini di Bertinotti, il quale ancora, tra una rivoluzione in salotto e un’altra, percepisce una cospicua, aggiuntiva indennità come ex Presidente della Camera dei deputati, io li porterei una bella mattina, prima dell’alba, a raccogliere pomodoro nelle serre e nei campi in sostituzione di quei migranti il cui arrivo è per loro una benedizione. Sepolcri imbiancati che fanno del buonismo a buon mercato una bandiera con la quale coprono la loro ipocrisia. Tutti dalla parte dei tassisti del mare che speculano sulle disgrazie altrui. A questo si è ridotto il messaggio del Sol dell’avvenir: “Impossibilitati fare rivoluzione per mancanza tempo, auspichiamo e ribadiamo… Ci vediamo stasera da Giangi”. Ve li immaginate questi manichini azzimati capeggiare una sfilata (non una marcia, ovviamente) contro la Beretta, la Agusta, la Oto Melara, gruppi economici che vendono armi a quelli che sparano sulle popolazioni che sono costrette lasciare i loro Paesi? Per carità! Troppo complicato. “Primavera d’intorno brilla nell’atria e per li vampi esulta. E’ tempo di granite e di brioscine. Al bar si pontifica meglio davanti ad un Cuba libre ornato di un parasole in miniatura.
Se li sentisse Lèon Bloy!
Quel razzismo immaginario dei radical-chic. L’escalation della cacciata degli italiani è talmente evidente che i buonisti replicano solo con la solita accusa ad minchiam di razzismo, scrive Ennio Castiglioni il 28 Aprile 2017 su "Il Populista". Pascale Bruckner ci ha spiegato come esista un “razzismo immaginario”. Per soffocare la libertà, il dibattito si grida subito al razzismo e si trascinano le persone in tribunale come nei regimi totalitari. I Governi e le multinazionali ci vogliono così nascondere come sia in atto un piano per modificare profondamente l’occidente e far sparire gli italiani. Se vi sembra poco…Mentre dalla Libia, dove ci sarebbero tra 700mila e un milione di migranti, continua l’invasione con ben 37mila arrivi nei mesi più freddi dell’anno, il Governo con grande solerzia prepara l’accoglienza. È scritto a chiare lettere nel DEF (Documento di economia e finanza) 2016 l’intento di favorire, piuttosto che arrestare questo esodo mirato. Si cerca di reperire le risorse necessarie a sostenere un flusso migratorio di circa 310mila unità, con un profilo crescente per i prossimi 15 anni. L’escalation della cacciata degli italiani è talmente evidente che si può replicare solo con la solita accusa ad minchiam di razzismo. Se nel 1994 gli immigrati regolari erano 500mila, nel 2016 sono oltre 5 milioni e si vuole consentire l’ingresso ad altri 310mila all’anno per i prossimi 15 anni, nel 2031 ci saranno quasi 10 milioni di immigrati, il 17% della popolazione, mentre chi avesse la fortuna (o la sfiga) di campare fino al 2065 vivrà in un’Italia dove uno su tre sarà immigrato. Ormai le navi delle varie Ong non si limitano più al salvataggio in mare, ma si spingono nelle acque libiche dove regolarmente prelevano i migranti per trasportali sulle coste italiane. Il tutto con la complicità dei canali di informazione ufficiali e con un Governo che si guarda bene dal mobilitare la Marina Militare o la Guardia Costiera. Molti politici italiani, mentre si fingono commossi di fronte alle immagini di morte nel Canale di Sicilia continuano ad essere al servizio delle multinazionali, che versano enormi somme di denaro alle loro Fondazioni. Queste immense società dove il profitto e la speculazione finanziaria hanno ormai oscurato la figura dell’uomo e cancellato ogni questione morale, necessitano di un costante apporto di manodopera a basso costo, di giovani braccia da sfruttare. Se diamo un’occhiata oltre Oceano vediamo ben 97 società del settore tech, Apple, Google, Facebook, Microsoft, Netflix, Snap e così via, che hanno chiesto ai tribunali di bloccare l’esecuzione dei decreti presidenziali, voluti da Donald Trump, per regolare l’immigrazione. Avrebbero potuto avanzare al grido “Non toglieteci gli schiavi!” L’Italia, se non dovesse accadere qualcosa, ad esempio un Governo a guida Salvini, diventerà ben presto un Paese di braccianti africani, di religione islamica, da utilizzare per pochi euro all’ora. Chi dice questo viene accusato di essere uno sporco razzista? Beh, francamente, con la posta in gioco, chi se ne frega!
LA NORMALIZZAZIONE DI TRUMP SULL’ASSE PRO TERRORISTI.
La "profezia" di Hillary Clinton: io avrei attaccato Assad. Coincidenza davvero fortuita: le parole pronunciate proprio poco prima del bombardamento deciso poi da Donald Trump. Siria, ieri Hillary Clinton invitava Trump ad attaccare. L'ex avversaria del tycoon alla corsa alla Casa Bianca, a poche ore dall'attacco alla base siriana, era favorevole all'azione militare: "dovremmo far fuori le sue basi aeree, scrive il 7 aprile 2017 "Quotidiano.net". Hillary Clinton ieri aveva invitato Donald Trump ad agire contro il regime di Bashar al Assad, cosa solo minacciata dal precedente presidente Barack Obama. Poche ore dopo 59 missili Usa hanno colpito la base siriana di Al Shayrat, considerata la struttura da cui è partito l'attacco chimico su Khan Sheikun. "Assad ha un'aviazione e questa aviazione è la causa della maggior parte delle morti di civili, come abbiamo visto nel corso degli anni e in questi ultimi giorni. E credo veramente che avremmo dovuto e dovremmo ancora far fuori le sue basi aeree e impedirgli di usarle per bombardare persone innocenti e per lanciare contro di loro il gas sarin". Le parole della Clinton, a margine della conferenza sulle "Donne nel mondo" a New York, e alla luce dei fatti, sono sembrate a molti un via libera dei democratici. Ma la posizione dell'ex segretario di Stato riguardo la politica estera non è una novità, infatti nei primi 4 anni di Obama alla Casa Bianca, Hillary aveva elaborato un piano per muoversi più aggressivamente nei confronti della Siria, entrando in contrasto con il presidente. La Clinton, parlando col giornalista del New York Times, Nicolas Kristof, aveva detto che era stato uno sbaglio non lanciare un'offensiva simile in precedenza. Secondo l'allora segretario di Stato gli Stati Uniti avrebbero dovuto sposare un approccio più "aggressivo" a sostegno dell'opposizione al presidente Bashar al-Assad, "prima che l'Isis emergesse con il suo piano per un califfato e la sua conquista di Raqqa. Credo, e l'ho detto ripetutamente, che avremmo dovuto fare di più in quel momento". Nel 2014, in un'intervista a The Atlantic, la Clinton usò parole molto dure contro Obama sulla Siria, parlando di "fallimento" della politica statunitense. Secondo Hillary la decisione di restare ai margini durante la prima fase della sollevazione contro Assad portò all'ascesa dell'Isis. L'attegiamento troppo cauto del presidente non le era piaciuto, come lo slogan di Obama "Don't do stupid stuff", infatti, disse la Clinton, "le grandi nazioni hanno bisogno di principi organizzativi, e 'non fare cose stupide' non è un principio organizzativo". Nel 2012, Obama tracciò una "linea rossa" riguardo l'uso di armi chimiche, minacciando conseguenze se fossero state ancora usate. Ma dopo gli attacchi chimici di cui fu accusato Assad nell'agosto 2013, l'amministrazione Obama non fece nulla trovando l'opposizione del Congresso e avendo trovato un accordo con la Russia, che prevedeva la distruzione dell'arsenale chimico di Assad sotto il controllo internazionale.
Perché, giornalisti, per voi Hillary è progressista? Scrive Maurizio Blondet il 29 maggio 2016. “Per Israele, distruggerò la Siria”. E’ una delle e-mail della candidata democratica alla Casa Bianca. L’ha rivelata Wikileaks di Julian Assange. Recita: “Il modo migliore di aiutare Israele a gestire la crescente capacità nucleare dell’Iran è aiutare il popolo siriano a rovesciare il regime di Bachar al-Assad”. Anzi, aggiunge, “sarebbe buona cosa minacciare di morte direttamente la famiglia del residente Assad”. Attenzione: si tratta della mail declassificata dal Dipartimento di Stato con il numero di dossier F-2014-20439, Doc NO. C05794498, parte della grossa quantità di documenti che si sono dovuti rendere pubblici dopo che si è scoperto che, mentre era segretaria di Stato, usava un server mail privato. Proprio per questo (al Dipartimento è ancora incistata la Nudelman in Kagan, in arte Nuland) potrebbe essere un falso, o un documento manipolato, diffuso per farci cascare i “complottisti”. Lo suggerisce in parte anche il testo – un po’ troppo esplicativo – e la data, che Wikileaks data 31 dicembre 2000. Può essere un errore materiale: la Clinton essendo stata ministra degli esteri dal 2009 al 2013, e date le allusioni nel testo alle trattative dell’Iran per fargli ridimensionare il suo programma nucleare, Istanbul 2012. Può essere invece la sbavatura inserita volutamente per screditare il messaggio. Non occorrono prove per sapere quanto la signora Clinton si rallegri dei suoi delitti, con una risata di trionfo che agghiaccia il cuore. Abbiamo un buon numero di video: quello del 20 ottobre 2011 in cui, in una intervista alla CNBC, ride quando apprende che in Libia è stato trucidato Gheddafi; e, emulando il detto d Cesare – Veni Vidi Vici – se la ride: “Siamo venuti, abbiamo visto, lui è morto”. Un anno dopo, ad essere ammazzato fu l’ambasciatore Usa in Libia Chris Stevens, che lei – la ministra – aveva lanciato in un losco traffico di armi rubate dagli arsenali di Gheddafi per mandarle in Siria, ai jihadisti gestiti dalla Cia. Sulla volontà di Hillary di provocare la guerra al servizio di Israele- con l’Iran o con chiunque altro – circola il video di un talk show con James Baker III (ex segretario di Stato come lei, uomo dell’Establishment se ce n’è uno) dove, ridendo istericamente, lo dichiara apertamente e scompisciandosi dalle risate. Il video è dell’ottobre 2013, quando Hillary era segretaria di Stato. Si parla delle trattative in corso con l’Iran sulla riduzione dell’embargo se Teheran accetta di azzerare il suo programma atomico. James Baker dice che Israele è preoccupata… “Alla fin fine, se non otteniamo il risultato cui adesso lavora l’Amministrazione (Obama), dovremo eliminarli.” “Ci stiamo lavorando duro!”, se la ride Hillary. Tutti gli altri si scompisciano con lei. “Tutte le opzioni sono sul tavolo – e poi, francamente, ci sono quelli che dicono: la cosa migliore che può capitarci sarebbe di essere aggrediti da qualcuno. Fatti sotto! Perché questo ci unificherebbe. Legittimerebbe il regime. Non cederemo su nessun punto. Di fatto provocheremo un attacco perché allora saremo al potere più di quanto chiunque possa immaginare”. Sembra che attribuisca queste intenzioni al regime iraniano, che sono notoriamente un modus operandi americano. Ma nel discorso che la candidata ha tenuto all’AIPAC (la lobby) il 20 marzo scorso, per ricevere voti e soldi dagli ebrei, ha detto: “Mentre siamo qui riuniti, tre minacce sono in corso: la continua aggressione dell’Iran (sic)…” e promesso tutto quanto si può promettere ai fanatici sionisti. Del resto, se la Clinton diventa presidente, è più che probabile che segretaria di stato diventi la Nuland in Kagan, quella che ha dedicato 5 miliardi di dollari per il golpe anti-russo in Ucraina, e la vita a regolare i conti con Mosca. Due guerrafondai neocon con l’aggravante del messianismo talmudico, pronti a scatenare la guerra mondiale contro la Russia.
Del resto è evidente che la NATO, spinta dai neocon e da Obama, sta avvicinando alla Russia missili AEGIS a testata potenzialmente nucleare, e moltiplica provocazioni belliciste che hanno lo scopo di sfidare la Russia, e costringerla ad umiliarsi. Un istruttivo articolo del Saker Italia spiega tutto ciò, e la reazione dei generali russi – contrariamente agli americani che non hanno mai provato la guerra sul loro territorio, i russi conoscono l’invasione, le decine di milioni di morti, e per loro la guerra non è un esercizio da comodi uffici, ma la vita o la morte come popolo.
La Clinton ridens alla Casa Bianca continuerà e peggiorerò la politica di Obama, il Nobel per la Pace, e dunque la possibilità di una guerra che si combatterà in Europa. Tutto ciò è noto, se non al grande pubblico, almeno ai giornalisti italiani che si occupano di esteri. Ora, quindi, la domanda sarebbe da fare a loro: perché continuate a dire, e persino credere, che Hillary Clinton è progressista, e invece Donald Trump un fascista, populista, un pericolo per la pace mondiale?
Le esplosive mail di Hillary Clinton. L'arte della guerra. Subito dopo aver demolito lo stato libico, gli Usa e la Nato hanno iniziato, insieme alle monarchie del Golfo, l’operazione coperta per demolire lo stato siriano, infiltrando al suo interno forze speciali e gruppi terroristi che hanno dato vita all’Isis, scrive Manlio Dinucci su “Il Manifesto” il 19.9.2016. Ogni tanto, per fare un po’ di «pulizia morale» a scopo politico-mediatico, l’Occidente tira fuori qualche scheletro dall’armadio. Una commissione del parlamento britannico ha criticato David Cameron per l’intervento militare in Libia quando era premier nel 2011: non lo ha però criticato per la guerra di aggressione che ha demolito uno stato sovrano, ma perché è stata lanciata senza una adeguata «intelligence» né un piano per la «ricostruzione».
Lo stesso ha fatto il presidente Obama quando, lo scorso aprile, ha dichiarato di aver commesso sulla Libia il «peggiore errore», non per averla demolita con le forze Nato sotto comando Usa, ma per non aver pianificato the day after. Obama ha ribadito contemporaneamente il suo appoggio a Hillary Clinton, oggi candidata alla presidenza: la stessa che, in veste di segretaria di stato, convinse Obama ad autorizzare una operazione coperta in Libia (compreso l’invio di forze speciali e l’armamento di gruppi terroristi) in preparazione dell’attacco aeronavale Usa/Nato. Le mail di Hillary Clinton, venute successivamente alla luce, provano quale fosse il vero scopo della guerra: bloccare il piano di Gheddafi di usare i fondi sovrani libici per creare organismi finanziari autonomi dell’Unione Africana e una moneta africana in alternativa al dollaro e al franco Cfa. Subito dopo aver demolito lo stato libico, gli Usa e la Nato hanno iniziato, insieme alle monarchie del Golfo, l’operazione coperta per demolire lo stato siriano, infiltrando al suo interno forze speciali e gruppi terroristi che hanno dato vita all’Isis. Una mail di Clinton, una delle tante che il Dipartimento di stato ha dovuto declassificare dopo il clamore suscitato dalle rivelazioni di Wikileaks, dimostra qual è uno degli scopi fondamentali dell’operazione ancora in corso. Nella mail, declassificata come «case number F-2014-20439, Doc No. C05794498», la segretaria di stato Hillary Clinton scrive il 31 dicembre 2012: «È la relazione strategica tra l’Iran e il regime di Bashar Assad che permette all’Iran di minare la sicurezza di Israele, non attraverso un attacco diretto ma attraverso i suoi alleati in Libano, come gli Hezbollah». Sottolinea quindi che «il miglior modo di aiutare Israele è aiutare la ribellione in Siria che ormai dura da oltre un anno», ossia dal 2011, sostenendo che per piegare Bashar Assad, occorre «l’uso della forza» così da «mettere a rischio la sua vita e quella della sua famiglia». Conclude Clinton: «Il rovesciamento di Assad costituirebbe non solo un immenso beneficio per la sicurezza di Israele, ma farebbe anche diminuire il comprensibile timore israeliano di perdere il monopolio nucleare». La allora segretaria di stato ammette quindi ciò che ufficialmente viene taciuto: il fatto che Israele è l’unico paese in Medio Oriente a possedere armi nucleari. Il sostegno dell’amministrazione Obama a Israele, al di là di alcuni dissensi più formali che sostanziali, è confermato dall’accordo, firmato il 14 settembre a Washington, con cui gli Stati uniti si impegnano a fornire a Israele i più moderni armamenti per un valore di 38 miliardi di dollari in dieci anni, tramite un finanziamento annuo di 3,3 miliardi di dollari più mezzo milione per la «difesa missilistica». Intanto, dopo che l’intervento russo ha bloccato il piano di demolire la Siria dall’interno con la guerra, gli Usa ottengono una «tregua» (da loro subito violata), lanciando allo stesso tempo una nuova offensiva in Libia, camuffata da operazione umanitaria a cui l’Italia partecipa con i suoi «parà-medici». Mentre Israele, nell’ombra, rafforza il suo monopolio nucleare tanto caro a Hillary Clinton.
Wikileaks, le mail della Clinton e la Siria, scrive il 18 marzo 2016 “Piccole note”. Wikileaks ha pubblicato le mail di Hillary Clinton, quelle oggetto di indagine negli Usa perché custodite nel computer privato nonostante si trattasse di materiale riservato e pubblico, in quanto relativo al suo ruolo a capo del Dipartimento di Stato Usa. L’inchiesta, che dovrebbe far luce sulla possibile “privatizzazione” di materiale pubblico, languisce. Forse per non nuocere alla corsa presidenziale della signora. Ma, al di là dei suoi sviluppi, la pubblicazione di tali missive sembra di certa rilevanza. Ne riportiamo una del 2012, relativa alla guerra in Siria.
«I negoziati per limitare il programma nucleare iraniano non risolveranno il dilemma della sicurezza di Israele. Né lo farà impedire all’Iran di sviluppare la parte cruciale di qualsiasi programma nucleare – la capacità di arricchire l’uranio. Nella migliore delle ipotesi, i colloqui tra le grandi potenze del mondo e l’Iran iniziati a Istanbul lo scorso aprile e che continueranno a Baghdad a maggio permetteranno a Israele di rinviare di qualche mese la decisione se lanciare o meno un attacco contro l’Iran, cosa che potrebbe provocare una guerra in Medio Oriente».
«Il programma nucleare iraniano e la guerra civile in Siria possono sembrare non collegati, ma lo sono. Per i leader israeliani, la vera minaccia di un Iran dotato di armi nucleari non è la prospettiva di un leader iraniano tanto folle da lanciare un attacco nucleare non provocato contro Israele, che porterebbe alla distruzione di entrambi i paesi».
«I capi militari israeliani si preoccupano in realtà – ma non possono dirlo – del fatto che Israele sta perdendo il suo monopolio nucleare. Una possibile capacità nucleare dell’Iran non solo può comportare la fine del monopolio nucleare, ma potrebbe anche permettere ad altri avversari, come l’Arabia Saudita e l’Egitto, di giungere al nucleare».
«Il risultato sarebbe un equilibrio nucleare precario nel quale Israele non potrebbe rispondere alle provocazioni con attacchi militari convenzionali in Siria e Libano, come può fare oggi. Se l’Iran dovesse raggiungere l’obiettivo del nucleare, Teheran potrebbe con molta più facilità di oggi ricorrere ai suoi alleati in Siria e a Hezbollah per colpire Israele, ben sapendo che le sue armi nucleari sarebbero per Israele un deterrente che gli impedirebbe di rispondere con un attacco diretto contro l’Iran».
«Torniamo alla Siria. È la relazione strategica tra l’Iran e il regime di Bashar Assad in Siria che rende possibile per l’Iran minacciare la sicurezza di Israele – non attraverso un attacco diretto, che nei trenta anni di ostilità tra Iran e Israele non si è mai verificato, ma attraverso il Libano, attraverso Hezbollah, che è sostenuto, armato e addestrato dall’Iran tramite la Siria. La fine del regime di Assad sarebbe la conclusione di questa alleanza pericolosa».
«La leadership di Israele capisce bene che sconfiggere Assad ora è nel suo interesse. Parlando al programma della Cnn della Amanpour la scorsa settimana, il ministro della Difesa [israeliano ndr.] Ehud Barak ha sostenuto che “il rovesciamento di Assad sarà un duro colpo per l’asse radicale, un duro colpo per l’Iran…. Essendo “l’unico avamposto dell’influenza iraniana nel mondo arabo… e indebolirà drasticamente sia Hezbollah in Libano che Hamas e la Jihad islamica a Gaza”. Abbattere Assad non solo sarebbe una manna enorme per la sicurezza di Israele, ma diminuirebbe anche la comprensibile paura di Israele di perdere il suo monopolio nucleare».
«Più in là, Israele e gli Stati Uniti potrebbero riuscire a sviluppare una visione comune in vista del momento in cui il programma iraniano si dimostrerà così pericoloso da giustificare un’azione militare. In questo momento, è la combinazione dell’alleanza strategica tra l’Iran e la Siria e il costante progresso del programma di arricchimento nucleare iraniano a portare i leader israeliani a immaginare un attacco a sorpresa – se necessario anche nonostante le obiezioni di Washington».
«Con Assad rovesciato e l’Iran non più in grado di minacciare Israele per procura, è possibile che gli Stati Uniti e Israele possano concordare linee rosse per il momento in cui il programma iraniano avrà varcato una soglia non più accettabile. In breve, la Casa Bianca può allentare la tensione che si è sviluppata con Israele riguardo l’Iran facendo la cosa giusta in Siria».
«La rivolta in Siria dura ormai da più di un anno. L’opposizione non sta arretrando e il regime non vuole accettare una soluzione diplomatica dall’esterno. Con la sua vita e la sua famiglia a rischio, solo la minaccia o l’uso della forza potrà far cambiare idea al dittatore siriano Bashar Assad».
Nota a margine. La mail appare significativa non tanto per quanto riguarda la visione di Israele, anzi della destra israeliana, che vi viene descritta, dal momento che tale posizione è ben nota e pubblica. Piuttosto perché dimostra lo sforzo degli Stati Uniti, e della Clinton in particolare, di usare, e strumentalizzare, le paure e le esigenze di sicurezza di Tel Aviv per sviluppare una politica estera Usa più che aggressiva. Tra le altre rivelazioni contenute nel documento, appare significativa la spiegazione della paura di Tel Aviv riguardo l’atomica iraniana. A più riprese, infatti, il governo israeliano ha allarmato circa un possibile attacco diretto di Teheran contro Israele. Secondo quanto si legge nella mail la paura sarebbe tutt’altra. Resta da capire quel cenno riguardante l’accordo sul nucleare tra Usa e Teheran, che nella missiva è indicato solo come un passaggio in vista di un postumo attacco militare contro l’Iran. Cenno che non rassicura se si pensa che la Clinton oggi è accreditata come prossimo presidente Usa. Detto questo, dopo la pubblicazione di tale missiva è davvero difficile immaginare il conflitto siriano come una guerra civile, cosa accreditata dalla narrativa ricorrente. Come si vede, è tutt’altro.
In Medio Oriente noi occidentali abbiamo fatto peggio di Assad. Dai migliaia di morti dei bombardamenti Usa in poi, l'Occidente in Medio Oriente ha fatto una quantità di danni imparagonabile a quella dei dittatori locali. Non lo dice il nostro senso di colpa, lo dicono i numeri, scrive Fulvio Scaglione il 29 Marzo 2017 su “L’Inkiesta”. Il famoso o famigerato selfie con Bashar al-Assad del senatore Razzi, che tanto scandalizzò le anime belle, ha però avuto il pregio di aprire uno spiraglio di discussione sulla qualità del racconto intorno alla crisi siriana. Non da oggi il racconto di una crisi è più importante della crisi stessa. Lo ha dimostrato, tra i tanti altri casi, il cosiddetto Rapporto Chilcot, dal nome di sir John Chilcot, incaricato dal Governo inglese di indagare sulle ragioni e i metodi dell’invasione anglo-americana del 2003 in Iraq. Tra i tanti altri particolari agghiaccianti, il Rapporto racconta che nel 2003 il criminale di guerra Tony Blair, mentre si apprestava a lanciare con George Bush una guerra basata su motivazioni fasulle che provocò centinaia di migliaia di morti (più o meno ciò che molti oggi imputano ad Assad, insomma), si preoccupava fortemente di avere un gruppo di specialisti della propaganda che sapessero “presentare” quella porcata agli elettori inglesi. E se di racconti e favole parliamo, mi permetto di esporre qui un’ambizione frustrata: da anni vorrei scrivere un libro per riprendere e commentare le “analisi” che campeggiavano sui giornali e nelle Tv nel 2002-2004, quando quasi tutti gli “esperti” si affannavano a spiegare al popolo che bell’idea fosse attaccare l’Iraq e quale brillante futuro di democrazia e progresso quella guerra avrebbe spalancato al Medio Oriente e al mondo. L’ho proposto in giro e nessuno me lo vuole pubblicare. Li capisco, perché quelli che pontificavano allora pontificano pure oggi, sugli stessi giornali e le stesse Tv di allora. Compreso la Selvaggia Lucarelli coi baffi del Corriere della Sera, che un selfie con Blair e Bush se lo farebbe senza problemi, alla faccia di tutti quelli (comprese le tante migliaia di bambini ammazzati dai tredici anni di embargo che hanno preceduto la guerra del 2003) che in Iraq sono morti mentre si sentivano raccontare che la democrazia era in arrivo. Perché dopo i pianti per Aleppo, le stragi dei civili di Mosul sotto le bombe dell’aviazione americo-saudita sono state taciute da quasi tutti fino a quando è stato impossibile ignorarle. Storia che si ripete pari pari anche adesso. La presa di Aleppo Est da parte dell’esercito di Assad e dell’aviazione russa è stata accompagnata dagli alti lai degli sdegnati di professione. Giustificati, per carità. La guerra nelle città è una cosa bestiale e orrenda. Ma è il loro sdegno che non è più credibile. Anzi, è ormai immorale. Perché dopo i pianti per Aleppo, le stragi dei civili di Mosul sotto le bombe dell’aviazione americo-saudita sono state taciute da quasi tutti fino a quando è stato impossibile ignorarle: cioè, fino al giorno in cui gli stessi americani hanno dovuto ammettere di aver ammazzato 200 civili in un solo raid. Se uno dovesse credere a certe cronache, penserebbe che a Mosul non ci sono clown né pediatri né bambine con la fissa di Twitter. Nessuno, insomma, di cui valga la pena di preoccuparsi. Qualche eccezione a me nota: una Ong irachena, una inglese, un articolo di The Post Internazionale e uno del sottoscritto su Terrasanta.net. Democrazia è la parola chiave, il grimaldello universale. Chi può essere contrario alla democrazia? Solo una persona spregevole, ovvio. Un nemico. Viviamo sotto questo ricatto dal 1989, cioè da quando il presidente Usa George Bush senior e il suo segretario di Stato James Baker vararono appunto la strategia della “esportazione della democrazia”, per estendere il controllo politico sulle aree del mondo che stavano per essere abbandonate dall’agonizzante rivale sovietico. Da allora, anche solo pensare che forse sia meglio lasciare che la democrazia si affermi da sola, se ce la fa e dove ce la fa, è un crimine ideologico. Vale la scomunica. Poi, però, arriva la realtà. Nessuno può dire che in Libia, Iraq e Siria si viva meglio oggi di quando c’era la dittatura. Ed è a questo punto che la narrazione della crisi sostituisce la crisi stessa. Tony Blair lo sapeva, per questo si premurava di avere sotto mano una buona squadra di contaballe in vista della guerra del 2003. Altrettanto si fa oggi, non è cambiato nulla. Se la realtà non corrisponde alla teoria, basta far credere che la realtà sia diversa, rendendola così confacente alla teoria. Sa di Unione Sovietica ma funziona. Il 1° maggio del 2003 George Bush tenne, sul ponte della portaerei “Abraham Lincoln”, il famoso discorso del “mission accomplished”, missione compiuta. Tutto va bene, abbiamo vinto, c’è la democrazia in Iraq. Appunto. Nel dicembre 2014, secondo Barack Obama, in Afghanistan tutto andava così bene che le truppe Usa potevano essere ritirate. Dieci mesi dopo fece dietro front e nel 2016, come ci dice l’Unicef, si è avuto laggiù il record di vittime civili. Della Libia meglio non parlare, meglio far finta che il Governo di Al Farraj, quello riconosciuto da Onu e compagnia bella, esista e abbia qualche autorità anche fuori da Tripoli. Per la Siria stessa storia. La realtà è complicata? Sostituiamola con una più semplice. Le notizie? Le prendiamo da Al Jazeera e Al Arabiya, le Tv di Stato di due Paesi (Qatar ed Emirati Arabi Uniti) che, insieme con l’Arabia Saudita, sono tra i principali finanziatori dell’Isis, come ci dice peraltro la stessa Hillary Clinton quando non sa che le sue mail stanno per finire su Wikileaks. L’Osservatorio siriano per i diritti umani, creato da un oppositore di Assad e finanziato dal Governo inglese, ci fornisce i numeri. Se manca qualcosa ci sono le Tv americane. E il gioco è fatto. Sempre più pateticamente, ma con tenacia, gira per l’Italia l’archeologo che racconta la favola bella di una rivolta popolare siriana piena di buoni sentimenti ma precipitata nel sangue dal dittatore Assad. Col relativo contorno di fantasie. Ah, se dessimo più aiuto ai ribelli moderati. Non è vero che la Turchia aiuta l’Isis. Gli antichi monumenti? Li distruggono le bombe dei russi. Il popolo è contro il regime. E così via, semplificando semplificando, fino a trasformare la realtà in finzione. D’altra parte, l’amore per la democrazia giustifica tutto, copre tutto, lava tutto. Il presente rapporto mostra come [...]fin dai primi giorni delle proteste in Siria i donatori dei Paesi del Golfo abbiano lavorato per convincere i siriani a prendere le armi. Poco importa che si tratti di un villaggio Potiomkin, uno di quei villaggi contadini fasulli che il plenipotenziario della zarina Caterina II preparava quando la sovrana voleva uscire da palazzo e credere che il popolo campasse bene e fosse felice. Poco importa che tutto ciò che di serio sappiamo indichi che le proteste spontanee e legittime dei siriani siano rimaste tali molto poco (si veda, per esempio, Playing with fire, lo studio del 2013 della Brookings Institution: “Il presente rapporto mostra come [...] fin dai primi giorni delle proteste in Siria i donatori dei Paesi del Golfo abbiano lavorato per convincere i siriani a prendere le armi” . Poco importa che lo stesso Joe Biden, vice presidente Usa con Barack Obama, già nel 2012 abbia spiegato chiaramente che fine abbia fatto l’influenza dei “ribelli moderati”: “Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti… che cos’hanno fatto? Hanno riversato centinaia di milioni di dollari su chiunque dicesse di voler combattere Assad. Peccato che tutti quei rifornimenti andassero a finire ad Al Nusra, ad Al Qaeda e ai jihadisti accorsi a combattere in Siria dalle altre parti del mondo”. Men che meno importa ciò che alle persone di normale intelligenza risulta evidente. E cioè, che un regime come quello di Assad, espresso da una piccola minoranza (gli sciiti alawiti sono circa il 12% della popolazione) deve per forza raccogliere il consenso anche di una parte corposa dei sunniti (75%), altrimenti non avrebbe potuto resistere per più di quattro anni (l’intervento russo arriva nel 2015) contro alcuni dei Paesi più ricchi del mondo (le petromonarchie del Golfo Persico), i Paesi più potenti dell’Occidente (Usa, Gran Bretagna, Francia) e la Turchia, che ha il più grande esercito del Medio Oriente. Riconoscere la complessità della situazione non significa inginocchiarsi davanti ad Assad, e nemmeno disconoscere le sue brutalità, vere e presunte. Al contrario, disconoscerla per raccontare simili favolette significa prostrarsi davanti gli interessi dei jihadisti e dei loro mandanti, che sono alcuni dei regimi più reazionari del pianeta. Ma tant’è. Basta riempirsi la bocca con la democrazia e tutto passa. Come con le purghe.
Attentato a Stoccolma, la gaffe mondiale di Trump meno di due mesi dopo diventa realtà. "Guardate cos'è successo in Svezia ieri sera... Chi poteva immaginarlo?". Così parlava dalla Florida il presidente degli Stati Uniti il 17 febbraio, alludendo a un attacco terroristico mai avvenuto, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 7 aprile 2017. Da gaffe di livello internazionale a imprevedibile realtà. Era il 17 febbraio quando Donald Trump durante un comizio a Melbourne, in Florida, dichiarava la sua solidarietà alla Svezia per un attentato in realtà totalmente inesistente. Parole che tornano dopo l’attacco nel centro commerciale di Stoccolma. “Guardate cosa sta succedendo – si infervorava quel giorno il presidente americano davanti ai suoi sostenitori – Dobbiamo mantenere il nostro Paese sicuro. Guardate quello che sta succedendo in Germania, guardate quello che è successo la notte scorsa in Svezia. In Svezia, chi può crederci? Stanno avendo problemi che non avrebbero mai pensato di avere”. La fake news del presidente americano scandalizzò il mondo, fino alla denuncia di Margot Wallström, ministra degli Esteri della Svezia, per la “tendenza generale” a diffondere “informazioni sbagliate”. Trump aveva provato a rifugiarsi in corner spiegando che la sua dichiarazione era arrivata dopo aver visto un servizio televisivo della Fox. Tuttavia il video dell’emittente Usa non faceva alcun riferimento ad attacchi in Svezia, ma solo all’afflusso di migranti in Scandinavia e ad un attentato, con due feriti, sì a Stoccolma ma risalente a sette anni prima, nel 2010. Tra l’altro quell’attacco passato era avvenuto, con due autobombe, proprio nella stessa zona colpita oggi, l’area pedonale della Drottninggatan.
QUANDO TRUMP PARLAVA DI UN ATTENTATO TERRORISTICO IN SVEZIA CHE NON ERA MAI AVVENUTO. Trump stava argomentando con forza la decisione del “ban” anti immigrati e, per avvalorare le sue ragioni, faceva riferimento a un attentato avvenuto nel paese scandinavo, scrive Venerdì 7 aprile 2017 “TPI". Il 18 febbraio 2017 il presidente degli Stati Uniti, Donald Tramp, teneva un comizio di fronte a migliaia di sostenitori nell'hangar dell'aeroporto di Orlando-Melbourne in Florida. In tale occasione si rese protagonista di alcune esternazioni su un presunto attacco terroristico in Svezia che scatenarono polemiche e ironia. Trump stava argomentando con forza la decisione del “ban” anti immigrati e, per avvalorare le sue ragioni, faceva riferimento a un attentato avvenuto nel paese scandinavo come uno dei tanti esempi di terroristi che invadevano paesi innocui con atti di violenza e paura. Quell’attentato, però, non c’era mai stato eppure Tramp diceva: "Avete visto che è successo in Svezia? In Svezia! Nella tranquilla, pacifica Svezia. Da non crederci!!"
Le ore successive a quel famoso comizio trascorsero cercando di interpretare le parole del presidente. Oggi suonano piuttosto macabre le parole di risposta dell’ex premier svedese Carl Bildt che commentando Trump scriveva su Twitter: “Svezia? Attentato? Ma cosa ha fumato?”, ritwittando anche il post di un utente che scriveva "Breaking news, la polizia svedese ha diffuso la foto dell'uomo ricercato per l'attentato" corredando il post con una foto dei Muppets. Secondo il Guardian Trump avrebbe confuso la parola "Sweden", Svezia in inglese, con Sehwan, città del Pakistan in cui il venerdì precedente un attacco kamikaze aveva fatto più di ottanta morti. A distanza di meno di due mesi, il 7 aprile 2017, un camion si è schiantato contro alcune persone in una strada centrale di Stoccolma, in Svezia, finendo la sua corsa contro un magazzino commerciale. La polizia svedese ha confermato la morte di tre persone e parla di otto feriti. C'è chi con un velo di ironia ipotizza che Trump avesse in qualche modo predetto tale tragico evento, e c'è chi, con maggiore malizia, intravede addirittura un complotto alla base di tali avvenimenti.
Attenti: hanno “normalizzato” Trump, scrive il 7 aprile 2017 Marcello Foa su “Il Giornale”. Verrebbe da dire: c’era una volta Trump. C’era, fino a poche settimane fa, un presidente che prometteva un’America diversa da quella di Obama ma anche di Bush, di Clinton, di Bush padre. Un’America intenzionata a rompere nettamente con la dottrina neoconservatrice, che in nome della lotta al terrorismo e di un mondo migliore ha ottenuto, dal 2001 ad oggi esattamente l’opposto: più instabilità in tutto il Medio Oriente, più fondamentalismo islamico, la nascita dell’Isis e una serie di attentati nelle capitali europee. Quell’America si proponeva di non essere più il poliziotto del mondo e pareva ansiosa di fare la pace con Putin. Non fatevi ingannare dal rumore mediatico degli ultimi mesi: a disturbare l’establishment americano e quello Stato Profondo (Deep State) che in realtà governa l’America e che accomuna repubblicani e democratici, non era solo la persona di Donald Trump, quanto, soprattutto, le sue idee, quel progetto di America. Quanto avvenuto la notte scorsa in Siria segna un cambiamento radicale nello spirito e nelle intenzioni di Trump. Cinque mesi di campagna martellante contro il presidente eletto hanno prodotto, evidentemente, gli effetti auspicati. E non mi riferisco solo alle manifestazioni di piazza, all’opposizione isterica della stampa, alle sentenze dei giudici (a proposito: ricordate l’articolo di Kupchan? Era profetico). Trump non è stato capace di resistere al boicottaggio che proveniva dall’interno delle istituzioni e dall’apparato dell’intelligence e della difesa. E chissà a quali altre pressioni e minacce. Si è lasciato avvinghiare, inghiottire da quel mondo che prometteva di combattere. Tutto in appena due mesi e mezzo dal giorno del suo insediamento.
L’errore più grande lo ha commesso quando ha accettato che uno dei suoi consiglieri più fidati, Flynn, si dimettesse. Un commentatore acuto e davvero indipendente quale Paul Craig Roberts lo aveva capito subito: quel cedimento era devastante, perché spaccava il fronte dei fedelissimi ma soprattutto perché rompeva la posizione di Trump sul “caso Russia”, che poteva diventare così un caso nazionale. Della serie: Se Flynn si dimetteva c’era qualcosa da nascondere. E allora via con le pressioni. Ancora oggi mancano prove concrete sulle ipotetiche collusioni con Mosca per condizionare il voto, ma il “deep state” lo ha fatto diventare il Caso Nazionale con toni maccartisti, paventando persino un impeachment nell’arco di qualche mese. Un impeachment sul nulla, ma questo era secondario. Flynn era la mente della nuova politica estera e di sicurezza dell’Amministrazione Trump. Un’Amministrazione che si è via via riempita di ministri, consiglieri ed esperti appartenenti alla vecchia guardia. All’inizio quelle nomine, poco coerenti, parevano una concessione obbligata al Partito repubblicano che controlla il Congresso, nella supposizione che le redini sarebbero rimaste nelle mani del presidente. Ma si è rivelata una falsa speranza. E quando, l’altro ieri, l’altro suo più fedele collaboratore, lo stratega politico Bannon è stato estromesso dal Consiglio di sicurezza nazionale, l’accerchiamento si è concluso. Il segretario di Stato Tillermann si è rapidamente allineato all’establishment e ora a guidare la politica estera e di difesa, a consigliare il presidente sono gli esperti della Washington di sempre.
E si vede: la distensione con il Cremlino appare sempre più lontana; anzi proprio i ministri della nuova amministrazione alimentano la retorica antirussa con le stesse argomentazioni e lo stesso tono di Obama. Il Trump di qualche mese fa avrebbe preteso la verità sull’uso del gas in Siria, quello di oggi, invece, ha proclamato – senza ombra di dubbio – che molte linee rosse erano state superate. Proprio come Obama nel 2013. Peccato che allora, in seguito, si scoprì che a usare il sarin erano stati i “ribelli” moderati per far cadere la colpa su Assad e provocare l’intervento della Nato. Sarin la cui consegna sarebbe stata autorizzata da Hillary Clinton. Ed è molto verosimile che anche la strage dell’altro giorno sia stata provocata dai “ribelli” per fornire agli Stati Uniti un pretesto per intervenire.
Solo che nel 2013 Obama si fermò all’ultimo minuto, il Trump di oggi no. Ha fatto tutto in fretta, senza riscontri oggettivi sulle responsabilità di Assad, evidentemente mal consigliato. O consigliato benissimo, dipende dai punti di vista. Intanto l’Isis e i fondamentalisti islamici che combattono Assad ringraziano: la distruzione della base siriana avrà un solo effetto concreto, quello di indebolire l’esercito siriano e dunque di rimettere in discussione una vittoria che sembra certa. E’ così che si combatte lo Stato Islamico? Non ci prendano in giro: così lo si favorisce, perché l’obiettivo di Washington è il cambio di regime a Damasco anche a costo di vedere trionfare in Siria il peggior integralismo islamico. Non è un caso che a salutare l’interventismo della Casa Bianca siano stati proprio Hillary Clinton e John McCain. L’impressione è che l’agenda Trump sia già stata sconfessata a beneficio di quella irresponsabile e interventista portata avanti negli ultimi 15 anni dai neoconservatori. Se ciò fosse vero, significherebbe che Trump è stato “normalizzato”. E per la pace nel mondo sarebbe una pessima notizia. Resta una sola flebile speranza: che si tratti di un riposizionamento transitorio e non di una resa. Che l’uomo sia capace di riscattarsi. Ma probabilmente, a questo punto, più che una speranza è un’illusione.
Il tradimento di Trump, scrive Sebastiano Caputo il 7 aprile 2017 su “Il Giornale”. Negli ultimi giorni è accaduto l’impensabile sul piano internazionale. Proviamo ad unire tutti i puntini. In un primo momento l’ambasciatrice degli Usa al Consiglio di Sicurezza, Nikki Haley, insieme al Segretario di Stato Rex Tillerson, aveva sancito la dottrina isolazionista dell’amministrazione Trump annunciando che rovesciare Bashar Al Assad non era più la “priorità”. Successivamente tutti vengono richiamati all’ordine dalla notizia non verificata – ma diffusa dalla gran cassa mediatica – dell’utilizzo di armi chimiche da parte del governo di Damasco nelle zone occupate dai jihadisti. La Casa Bianca accetta la versione ufficiale e all’improvviso ripensa il suo approccio in politica estera considerando persino l’ipotesi di un’azione militare in Siria (e dunque anche contro la Russia). Infine esce fuori la notizia che Stephen Bannon, ex direttore di Breitbart, definito da alcuni come l’ideologo più influente del populismo americano (molto diverso da quello europeo), esce dal Consiglio per la Sicurezza nazionale, l’organo che più di ogni altro orienta le decisioni del presidente degli Stati Uniti in materia di politica internazionale, e al suo posto viene nominato il generale McMaster, lo stratega della disastrosa guerra in Iraq. E poi dicono che i “regimi militari” esistono solo in Medio Oriente e in Sudamerica. Tutta questa storia sembra un “déjà vu”. Magari tra qualche anno ci diranno che le “armi chimiche” ad Idlib non erano mai state utilizzate. Ma sarà troppo tardi. Del resto le prove erano insufficienti, non solo perché le fonti – Al Jazeera, Al Arabiya, l’Osservatorio Siriano dei Diritti Umani e i Caschi Bianchi – rispondono tutte all’agenda straniera di Paesi coinvolti sin dal 2011 della destabilizzazione della Siria, ma soprattutto perché Assad aveva smantellato i suoi arsenali in accordo con le Nazioni Unite già nel 2014. E poi conviene non dimenticarsi della vicenda analoga a Ghouta nel 2013 quando il governo di Damasco fu accusato della strage con l’uso del gas poi smentito qualche mese dopo dal giornalista americano nonché Premio Pulitzer Seymour Hersh il quale dimostrò che fu utilizzato dai ribelli. Persino Barack Obama, l’uomo che ha permesso la nascita e l’ascesa dello Stato Islamico, non ordinò in quell’occasione un intervento militare. Le minacce rimasero minacce. Ora le cose sono cambiate diametralmente. Al bambino che giocava a fare il cow boy gli è stata data una pistola. Vera questa volta. Donald Trump è stato manovrato dal Pentagono ad agire unilateralmente. Nella notte da due navi americane di stanza nel Mediterraneo orientale sono stati lanciati 59 missili Tomahawk contro la base siriana di Al Shayrat, da dove, secondo l’intelligence Usa, sarebbero partiti i caccia carichi di armi chimiche. Esultano tutti: l’Isis, l’Arabia Saudita, la Turchia, Israele. Esultano persino i più grandi detrattori della sovranità siriana che durante la campagna elettorale avevano ridicolizzato The Donald. Se molti, di fronte alla candidata guerrafondaia Hillary Clinton, avevano giustamente sperato nell’isolazionismo del tycoon si sbagliavano. Ci sbagliavamo. In America non è il presidente a comandare. E persino chi si dice anti-establishment può diventare più establishment dell’establishment.
Idlib: tutto quello che non torna, scrive Giampaolo Rossi il 6 aprile 2017 su “Il Giornale".
PERCHÉ? A distanza di giorni dalla tragedia di Idlib è impossibile trovare un solo analista, un solo giornalista, un solo politico tra quelli che provano a capire veramente cosa è accaduto in Siria, in grado di rispondere alla più importante delle domande: “Perché?”
Perché Assad avrebbe deciso di effettuare un bombardamento chimico nella fase finale di una guerra ormai vinta e nel giorno in cui a Bruxelles si apriva la Conferenza Internazionale sul futuro della Siria (e su quello suo)?
E perché l’avrebbe fatto pochi giorni dopo aver incassato dall’Amministrazione Trump (per bocca di Nikki Haley, ambasciatrice all’Onu), la conferma che rimuoverlo “non è più una priorità degli Stati Uniti”?
Perché il regime siriano, in maniera così goffa e intempestiva, avrebbe optato per un attacco con armi chimiche violando l’accordo siglato nel 2013 a Ginevra sotto l’egida di Usa e Russia, che portò all’effettivo smantellamento del suo arsenale (come è stato riconosciuto dall’Onu), accordo mai violato in questi anni neppure nei momenti di maggiore indecisione sull’esito della guerra?
Perché farlo, ben sapendo che questo avrebbe scatenato la comunità internazionale, messo in drammatica difficoltà l’alleato russo, riacutizzato le divisioni nel mondo arabo, provocato una legittima reazione tra gli stessi siriani che oggi, a stragrande maggioranza, vedono Assad come il salvatore della Siria contro l’occupazione terrorista dei mercenari islamisti?
L’unica risposta che per ora rimbalza sui media mainstream è quella più stupida e più funzionale alla ridicola narrazione occidentale dei “buoni contro i cattivi”: perché Assad è un dittatore! Quindi si sa che i dittatori gasano e uccidono il proprio popolo: lo fanno per gusto o per rappresaglia. O peggio, come motiva il New York Times, “per depravazione”. Giusto non può esserci altra spiegazione quando non si trovano le motivazioni.
I DUBBI. Andrea Purgatori, uno che i bombardamenti chimici li ha visti sul serio nel 1988 ad Halabja quando Saddam Hussein scaricò cianuro e gas nervini sulla popolazione curda causando quasi 5.000 morti e il doppio dei feriti, intervistato su Intelligo ha espresso forti perplessità su ciò che può essere accaduto: “Quello che ho visto sul campo dell’uso dei gas è che uccidono indiscriminatamente e soprattutto difficilmente fanno “solo” 70 morti. Non dico che non siano stati usati ma secondo me è successo qualcosa che ancora non sappiamo bene. (…) il problema è che se io carico i gas su un aereo e poi bombardo mi sembra difficile che ci sia questo numero di morti”. I bombardamenti chimici servono a spazzare via una popolazione e non un obiettivo militare. Per questo, usare armi chimiche per distruggere una fabbrica d’armi non è criminale è semplicemente stupido. Su La Stampa, Giuseppe Cucchi esprime con onesta obiettività gli stessi dubbi di Purgatori. Ma va anche oltre. Richiama alla memoria il bombardamento di Merkale a Serajevo, che scatenò l’intervento Nato contro la Serbia; massacro per il quale, nonostante le sentenze definitive del Tribunale internazionale, rimangono “fondati dubbi (…) che i colpi di mortaio” che causarono oltre 40 morti civili, possano essere partiti “da zone in mano ai bosniaci e non ai serbi”. E se l’orrore di Idlib servisse proprio a questo? A generare un casus belli per imporre magari un intervento diretto occidentale? A rimettere in discussione la permanenza di Assad anche in una Siria futura? È proprio quello che vuole Assad? O è quello a cui aspirerebbero i suoi nemici: i ribelli moderati di Al Qaeda e il paese principale che li supporta e li finanzia: l’Arabia Saudita; o quello che ambisce ad impossessarsi di pezzi della Siria e cioè la Turchia. Ecco che allora la versione siriana e quella russa, secondo cui le sostanze chimiche non sono scese dal cielo ma si sono sprigionate dall’interno della fabbrica dei ribelli bombardata, potrebbe non essere solo una verità artefatta per nascondere l’evidenza di ciò che è accaduto. D’altro canto che armi chimiche siano in possesso e siano state utilizzate dai ribelli anti-Assad è cosa risaputa ed anche provata. Ma ancora è tutto troppo vago.
NON È UNA GUERRA SIRIANA. Nel frattempo si consuma il previsto effetto dirompente sui media che serve a sconvolgere le coscienze e combattere questa guerra con le armi dell’emozione e dell’indignazione, spesso più potenti di quelle vere. Perché nella guerra moderna le armi chimiche non hanno alcuna utilità militare; ma hanno una grande utilità mediatica. E così, ecco puntuali i soliti Elmetti Bianchi, impavidi soccorritori cari ad Hollywood, falsificatori di professione legati ai gruppi di Al Qaeda, diffondere immagini e video che sembrano chiaramente manipolati e che si sommano alle immagini e i video reali e orribili dei bimbi morti o quelli agonizzanti, in un sadico e strumentale gioco di orrore che unisce il vero al falso. Ed ecco l’Osservatorio Siriano dei Diritti Umani, emanazione dei Servizi segreti britannici, essere utilizzato come fonte d’informazione prioritaria sui media occidentali per spiegare quello che è successo a Idlib.
Come è possibile che il regime siriano non immaginasse questi effetti di un attacco del genere? Assad sa troppo bene che la guerra in Siria non è più una guerra siriana ma una guerra mondiale. È che quello che lì avviene ha una ricaduta internazionale mille volte superiore rispetto a ciò che accade in altre guerre. Questo è il motivo per cui l’enfasi con cui i media occidentali mostrano le terribili immagini dei bimbi siriani è direttamente proporzionale al modo in cui gli stessi media relegano a semplice cronaca le notizie dei bimbi yemeniti (o somali) ammazzati dalle bombe americane e inglesi lanciate dai sauditi. Può Assad non aver previsto tutto questo?
OLTRE LA LINEA ROSSA. L’unica cosa certa è che la strage di Idlib rischia di spostare indietro l’orologio della guerra siriana, riportandolo al 2013. Il primo effetto politico è il cambiamento di posizione degli Stati Uniti annunciato da Donald Trump che ieri ha dichiarato “l’attacco sui bambini ha avuto un grande impatto su di me (…) siamo andati ben oltre la linea rossa”, chiaro riferimento all’ultimatum che nel 2013 Obama aveva posto ad Assad per evitare l’ingresso in guerra dell’America contro di lui. Facendo eco a lui la stessa ambasciatrice Haley: “Quando l’Onu fallisce nel suo dovere di agire collettivamente, ci sono momenti in cui gli Stati sono costretti ad agire per conto proprio”. Ecco a cosa ha portato la strage di Idlib; ecco forse a cosa serviva.
Con l'attacco alla Siria, Trump ha scelto di stare con i terroristi. "Il Centro Italo Arabo e del Mediterraneo esprime dura condanna per l’attacco missilistico che gli Stati Uniti hanno condotto nei confronti della Siria. Un attacco che si configura a tutti gli effetti come un’aggressione militare", scrive il 7 Aprile 2017 la redazione di "cagliaripad". Il Centro Italo Arabo e del Mediterraneo esprime dura condanna per l’attacco missilistico che gli Stati Uniti hanno condotto nei confronti della Siria. Un attacco che si configura a tutti gli effetti come un’aggressione militare nei confronti di uno stato sovrano che siede nei banchi delle Nazioni Unite e si colloca al di fuori del diritto internazionale.
L’attacco è avvenuto sulla base della “falsa prova” che il governo di Damasco abbia usato armi chimiche in un villaggio della provincia di Idlid. Non c’è nessuna prova, allo stato attuale, che la Siria abbia ordinato un attacco con armi non convenzionali nei confronti della popolazione civile. Le fonti utilizzate per incolpare il governo di Damasco non solo non sono indipendenti ma spesso sono riconducibili ai gruppi jihadisti che governano interamente quella regione e che, come è stato evidenziato da numerosi rapporti dell’intelligence e da inchieste giornalistiche, sono in grado di produrre e utilizzare armi chimiche. E’ infatti grave che una delle fonti sul posto del presunto attacco chimico sia un certo Shajul Islam, che si presenta ai media come un medico. Si tratta in realtà del volontario di nazionalità inglese accusato in Gran Bretagna di aver fatto parte della banda di miliziani che rapirono e ferirono nel luglio del 2012 il fotografo inglese John Cantlie. Un soggetto che già allora veniva considerato un soggetto radicalizzato, simpatizzante dei gruppi jihadisti. L’azione unilaterale ordinata da Trump è criminale e il presunto utilizzo di armi non convenzionali da parte dell’esercito di Assad è solo un pretesto. E’ chiaro che la Casa Bianca avesse deciso di attaccare già prima della strage avvenuta. E’ chiaro che tutto fosse pronto da giorni. Ancora più grave è che sia stata colpita una base militare dalla quale ogni giorno partivano gli attacchi contro lo Stato Islamico nella parte orientale del paese. La distruzione di quella base da parte degli Stati Uniti rafforza i terroristi che, giustamente, hanno esultato. E non è un caso che subito dopo l’azione missilistica americana sia partita una controffensiva dei terroristi dell’ISIS verso la città di Palmira, che soltanto la Siria di Assad e la Russia di Putin hanno difeso mentre la cosiddetta coalizione internazionale rimaneva inerte. Oggi Trump colpisce chi combatte contro l'espansione dell'integralismo islamico, rinsaldando l’alleanza con Arabia Saudita, Qatar, Turchia e Israele che a vario modo hanno sostenuto, armato, supportato e aiutato i gruppi jihadisti in Siria. Lo fa per interesse personale (molte sue aziende sono presenti in questi paesi) e perché suo malgrado è diventato ostaggio delle élite belliche americane, senza le quali la sua elezione non sarebbe stata possibile. Trump è l’alleato ideale che i terroristi speravano di avere nella guerra contro la Siria. Oggi il mondo è meno sicuro e il terrorismo più forte. Speriamo che l’Italia condanni in modo inequivocabile questa azione militare che si colloca al di fuori del diritto internazionale e rappresenta un precedente pericoloso, anche per la posizione che il nostro paese occupa al centro del Mediterraneo. Se il governo Gentiloni dovesse avvallare questa azione, si macchierebbe anch’esso di una colpa gravissima, della quale ci pentiremo da qui agli anni a venire.
Trump bombarda la Siria: neanche 100 giorni per essere fagocitato dal sistema, scrive Federico Dezzani l'8 aprile 2017. Nella notte tra il 6 ed il 7 aprile è finita l’effimera parabola del presidente “populista” Donald Trump, fagocitato dallo stesso establishment che diceva di voler combattere: con 59 missili da crociera lanciati su una base aerea siriana, il neo-inquilino della Casa Bianca ha punito “il regime di Assad” per l’attacco chimico di Idlib dello scorso 4 aprile, un’evidente orchestrazione ad hoc. È superficiale affermare che Trump sia succube di Israele o degli alleati sunniti: il raid sulla Siria è una vera e propria resa all’establishment atlantico, ossessionato dal rinnovato attivismo di Mosca in Europa e Medio Oriente. Gli attacchi interni e le faide contro l’amministrazione Trump cesseranno, ma con essi muore anche la distensione con Mosca e le vaghe promesse di neo-isolazionismo. Le elezioni francesi si svolgeranno in un clima di fibrillazione internazionale ed il loro valore aumenta ancora.
L’establishment ha già riconquistato la Casa Bianca. La lotta tra il “populista” Donald Trump e l’establishment atlantico, liberal e finanziario, quello che poggia sull’asse City-Wall Street, non è durata neppure tre mesi: il 20 gennaio scorso il neo-presidente si è insediato alla Casa Bianca e dopo solo dieci settimane, appestate dalla diffusione di dossier, agguati al Congresso, insinuazioni sui suoi rapporti con la Russia, colpi bassi dei servizi segreti, Trump ha infine capitolato. Tra un combattimento all’arma bianca e la resa, l’immobiliarista di New York ha scelto la seconda strada, chinando il capo ed adeguandosi alle direttive dell’oligarchia. Il gesto di riconciliazione con l’élite atlantica è coinciso col bombardamento della base aerea siriana di Shayrat nella notte tra il 6 ed il 7 aprile, motivato dal precedente attacco chimico su Idlib che gli angloamericani avevano orchestrato ad hoc: 59 missili Tomahawk con cui il neo-presidente ha cestinato la campagna elettorale, le sue promesse di distensione con la Russia ed il vagheggiato neo-isolazionismo, per ricevere il battesimo dell’establishment. Ora Trump è parte integrante del sistema: gli attacchi della stampa cesseranno, il partito repubblicano si acquieterà, la CIA smetterà di produrre scomodi dossier ed il Dipartimento di Stato si allineerà allo Studio ovale. Poche mosse in rapida successione sono state sufficienti per piegare un presidente che aveva suscitato grandi speranza negli Stati Uniti e all’estero per la sua carica anti-sistema, ma all’atto pratico ha dimostrato di non possedere né la fibra, né l’esperienza, né la forza politica, per imporre la sua linea e liberare la nazione americana dall’élite mondialista. Il 24 marzo l’ammutinamento del partito repubblicano impedisce l’abolizione dell’Obamacare; il 31 marzo l’ex consigliere per la sicurezza nazionale Michael Flynn si dice pronto a testimoniare davanti alla commissione del Congresso che indaga sul “Russiangate” in cambio dell’immunità; il 4 aprile si consuma nella provincia di Idlib l’attacco chimico imputato al regime di Assad e realizzato dai “White Helmets” finanziati dagli angloamericani. La strage siriana è il test decisivo per Trump: o si piega alla volontà dell’establishment o sarà estromesso. Trump getta la spugna: il 5 aprile, Stephen Bannon, l’anima “populista” della campagna elettorale, è allontanato dal Consiglio per la Sicurezza nazionale per la gioia del Pentagono. Il 6 aprile la Casa Bianca ribalta di 180 gradi la strategia sinora seguita sulla Siria: il Segretario di Stato Rex Tillerson sostiene che Bashar Assad deve essere rimosso e nelle prime ore del 7 aprile, è sferrato il blitz sulla base aerea di Shayrat, da dove sarebbe partiti i fantomatici caccia per gasare Idlib. Sebbene Mosca disponga di mezzi idonei a neutralizzare l’attacco (i sistemi S-300 e S-400), non si registra nessuna reazione da parte russa: il portavoce del Cremlino, Dmitri Peskov, dirà che il personale della base è stato evacuato dopo l’avviso americano dell’imminente raid.
È da notare la tempistica dell’attacco: poche ore prima che il presidente Trump incontri in Florida il leader cinese Xi Jinping e a distanza di pochi giorni dalla visita del Segretario di Stato Tillerson in Russia, l’11 e 12 aprile1. Il blitz statunitense è un monito che la “nuova” Casa Bianca, quella del rinato Donald Trump, lancia al resto del mondo: nessun isolazionismo, nessuna distensione, nessuna divisione del mondo in sfere d’influenza. L’impero angloamericano è vivo ed è pronto alla guerra per difendere la sua egemonia mondiale: esattamente l’opposto di quanto aveva promesso Trump in campagna elettorale, delineando uno scenario di progressivo ritiro degli USA. Smantellamento della NATO, ritiro dal Giappone, fine delle interferenze in Medio Oriente, etc. etc.
C’è chi dice che il bombardando dell’installazione militare siriana sia la prova della dipendenza di Trump dal Likud e dal premier israeliano Benjamin Netanyahu; altri dicono che, oltre a Tel Aviv, il presidente americano abbia voluto rinsaldare i legami con le potenze sunnite regionali, Turchia ed Arabia Saudita in testa. Non sono affermazione errate, ma parziali: quelli israeliani, turchi e sauditi sono pur sempre piccolo o medi nazionalismi. L’azione di Trump deve essere letta considerando cosa è oggi il Medio Oriente: una grande scacchiera dove il declinante impero angloamericano si confronta con la rinnovata potenza mondiale russa. L’intervento in Siria è prima di tutto una vittoria dell’establishment atlantico, atterrito dai progetti neo-isolazionisti del primo Trump: Washington e Londra sono ancora in Medio Oriente e sono pronte a “contenere” la Russia in qualsiasi quadrante. Nessun Levante in mano ai russi, nessun smantellamento della NATO, nessun attacco al suo corrispettivo politico, l’Unione Europea: è questo il nuovo corso del Donald Trump “normalizzato”.
Sono sintomatici, a questo proposito, gli editoriali della stampa liberal, la stessa che fino al 5 aprile braccava Trump con le accuse di connivenza con Mosca: ora che il presidente si è piegato alla linea “russofobica”, ora che è disposto a combattere l’esuberanza russa in Medio Oriente, ora che la distensione, mai decollata, è morta del tutto, è un fiorire di elogi e ripensamenti. “Striking at Assad Carries Opportunities, and Risks, for Trump2” scrive il New York Times, asserendo che il blitz militare è un’occasione per “raddrizzare” la sua amministrazione allo sbando, riaffermando l’autorità americana nei confronti di Mosca. “A president who launches missiles into Syria is a president these GOP Trump skeptics can get behind” titola il Washington Post, assicurando che le fratture dentro il partito repubblicano si riassorbiranno presto, ora che Trump si è adagiato alla linea dei vari neocon. “Trump Shows He Is Willing to Act Forcefully, Quickly” gioisce il Wall Street Journal, cantando le lodi del marziale Trump, vero “commander in chief”. “La chance di Trump e la credibilità persa da Obama” è il significativo articolo di Richard Haas, presidente del Council on Foreign Relations, il tempio statunitense dell’oligarchia atlantica. Afferma l’autore3: È raro che la storia offra una seconda possibilità (dopo il mancato bombardamento di Obama dell’agosto 2013, Ndr), ma gli Stati Uniti e gli altri Paesi si trovano precisamente in questa situazione. (…) Un’opzione è attaccare le posizioni siriane, soprattutto i campi d’aviazione e gli aerei associati con le armi chimiche. (…). Un’azione militare russa, tuttavia, non è da considerarsi scontata. Il presidente Vladimir Putin potrebbe esitare prima di rischiare e adottare un atteggiamento di sfida, considerando le difficoltà economiche e il riaccendersi delle proteste politiche in patria. (…) Un altro approccio sarebbe quello di fornire attrezzature di difesa antiaerea ai curdi siriani e a gruppi sunniti dell’opposizione ben selezionati. (…). Vale la pena sottolineare che nei prossimi mesi bisognerà fare di più per rafforzare i sunniti locali, che devono poter garantire la sicurezza in quelle aree della Siria che devono essere liberate dai gruppi terroristi. (…). Trump ha l’opportunità di marcare le distanze rispetto al suo predecessore e dimostrare che c’è un nuovo sceriffo in città; Theresa May, la premier britannica, ha un’opportunità analoga. È raro che la storia offra una seconda possibilità: stavolta non va sprecata.”
Ecco qual è la missione del nuovo Trump “addomesticato”: portare a compimento il piano di balcanizzazione del Medio Oriente iniziato nel 2014 con l’improvviso scatenarsi dello Stato Islamico, ritagliando tra Siria ed Iraq un “Sunnistan” ed un Kurdistan, due nuove entità legate agli angloamericani ed agli israeliani. È superfluo dire che tale strategia è inconciliabile con la difesa dell’integrità nazionale degli Stati sostenuto da Mosca ed appoggiata da Teheran. Lo stesso bombardamento aereo del 6 aprile si inserisce in questa logica di balcanizzazione della regione: nessun jet siriano è partito dalla base siriana di Shayrat per “gasare” i ribelli, ma l’installazione, situata nella provincia di Homs e aperta ai russi nel dicembre 2015, è di strategica importanza per contenere l’ISIS nell’est e nel sud della Siria, le stesse zone in cui dovrebbe nascere il Califfato islamico protetto dagli angloamericani. Non è certamente casuale che i miliziani islamisti abbiamo prontamente sfruttato il blitz aereo di Trump per riprendere l’iniziativa contro le postazioni dell’Esercito Arabo Siriano4. Gli effetti di una Casa Bianca “rimessa in riga”, superano però i confini del Medio Oriente ed hanno profonde ripercussioni anche nell’Unione Europea, dove, dopo l’elezione di Trump, i movimenti populistici avevano potuto contare sulla sponda americana e su quella russa.
Il voltafaccia di Trump priva i nazionalisti europei del supporto statunitense, in coincidenza per di più di un appuntamento elettorale decisivo per le sorti della UE/NATO: le imminenti elezioni presidenziali francesi. Anziché avvalersi di una cooperazione tra Putin e Trump in chiave anti-Bruxelles, la candidata del Front National affronterà le elezioni in un clima di tensione internazionale e forte polarizzazione, utile ai suoi detrattori per dipingerla come la “quinta colonna”di Putin in Francia. Constata la conversione di Trump ed il deterioramento sempre più preoccupante della situazione internazionale, la vittoria di Marine Le Pen riveste un ruolo ancora più importante: solo svincolandosi da Bruxelles, che è sinonimo di Unione Europea ma anche di NATO, sarà possibile per i Paesi evitare di essere trascinati nel conflitto tra angloamericani e potenze euroasiatiche che si va delineando all’orizzonte, giorno dopo giorno. Poco importa se a iniziarlo sarà Trump o qualsiasi altro burattino dell’establishment atlantico.
I TOMAHAWKS HANNO CENTRATO I BERSAGLI. A WASHINGTON? Scrive Maurizio Blondet l'8 aprile 2017. Se davvero sono stati sparati 59 Tomahawks e ne sono arrivati sul bersaglio solo 23, la prima cosa che il generale Mattis doveva fare era aprire un’inchiesta contro la Raytheon che li fabbrica e li vende al Pentagono (pare) per un milione di dollari l’uno, e far scoppiare uno scandalo: i missili da crociera, guidati da satellite, per definizione non sbagliano il bersaglio. Non, almeno, in così gran numero. Perché altrimenti tanto varrebbe sparare degli Scud, che dove colgono colgono, ma sono più economici.
Cos’era, una partita difettosa? Pensate: appena due giorni prima, la Marina Usa ha dovuto smettere di operare tutti i suoi aerei da addestramento T-45 dopo che “oltre 100 istruttori si sono rifiutati di volarci, accusando problemi con l’ossigeno nell’abitacolo”. Un mese prima, il costosissimo F-35 invisibile riceveva questo giudizio dal direttore del Direttorato Prove e Valutazioni del Pentagono, Michael Gilmore: “Non ha una sola speranza in un combattimento reale”. Quanto alle portaerei, splendidi mezzi di proiezione della potenza americana, già negli anni 70 l’ammiraglio Rickover, il padre della marina nucleare, in un conflitto reale gli dava una sopravvivenza “di uno o due giorni prima di essere affondate, forse una settimana se restano in porto”. Ora, coi missili russi Sunburn supersonici e gli sciami di barchini d’assalto iraniani, i gallonati della Navy sono ben coscienti che la durata andrebbe calcolata in ore, forse in minuti.
Se anche i Tomahawks funzionassero come contro le piste siriane, il generale Mattis dovrebbe porre davvero la domanda scomoda: ma è in grado, l’America, di vincere una vera guerra? I danni all’aeroporto siriano sono stati limitati. Ma i media americani dicono che è quasi completamente distrutto. I russi erano stati avvertiti mezz’ora prima. Solo una pista delle due, del resto, è stata bombardata abbastanza efficacemente da essere inutilizzabile. Infatti in serata (così almeno asserisce l’Osservatorio Siriano per i diritti umani, quel signore che abita presso Londra) l’aviazione siriana ha ripreso a decollare da lì.
McCain fulminato, i media conquistati. L’attacco, militarmente, è stato dunque insignificante. Sicché, col passare delle ore, s’è consolidata la sensazione che la volata di Tomahawks, lungi dal fare cilecca, avevano colpito alla perfezione i loro bersagli: che non sono in Siria, ma a Washington. Hanno incenerito parecchi argomenti dei numerosissimi avversari di Trump: anzitutto, la “narrativa” secondo cui Donald è in realtà un vassallo, anzi un agente di Putin; che non è un comandante in capo capace di bombardare come i predecessori. Il lancio dei Tomahawk ha inattivato l’ostilità del senatore McCain e del suo compare Lindsey Graham, che da mesi avevano scippato la politica estera di Trump andando a riattizzare i focolai di guerra in Ucraina, nei paesi baltici, in Siria a farsela con quelli di Daesh; adesso i due hanno dovuto applaudirlo, The Donald. I democratici, che fino a ieri minacciavano di porlo sotto impeachment (e di riuscirci) per i suoi rapporti occulti con Putin, sono tutti apparsi in tv a dire che sono a fianco del presidente come un sol uomo, per quell’azione. Adam Schiff, il vicepresidente della Commissione Intelligence della Camera, uno che cercava di incastrarlo come agente di Mosca, è andato alla MSNBB a dichiarare che non solo appoggia il bombardamento unilaterale che Trump ha deciso senza prima chiedere l’autorizzazione al Congresso, ma che esigerà dal Congresso che ne autorizzi di più. E i media? Prima tutti ferocemente ostili, denigratori, schernitori? Fulminati: da improvviso amore, sono tutti ai suoi piedi. Hanno dato e ridato i video dei Tomahawks che decollavano nella notte dalla nave, estasiandosi: “Beautiful! A marvel!” Uno della MSNBC, Brian Williams, lirico: “Ecco le splendide immagini dei temibili armamenti mente si lanciano in quello che per loro è il breve volo verso quel campo d’aviazione!”. L’effetto-sorpresa è stato abbacinante sulle tv a cominciare da CNN: Donald è proprio un cane pazzo! Così lo vogliamo!
La lobby neocon è placata, Netanyahu è contento. Inutile dire che la cosa è stata una consolazione per tutto il complesso militare-industriale, rassicurato sulla continua spesa militare futura, che sarà forte come prima; Raytheon in particolare è stata accontentata dal generale Mattis: nuovi ordinativi assicurati da questo sparacchiamento a caso di abbondanti Tomahawks a spreco. Perché pare che tali missili abbiano una durata di vita utile limitata, e spararli è meglio che distruggerli. Rende anche molto in tv. Intendiamoci: magari le prossime ore smentiranno questa ipotesi benevola. Tutto sta a vedere se Trump si ferma a questo o invece continua, ordinando ai suoi generali di creare una no-fly zone sopra la Siria, e distrugge altre piste e basi militari (Mc Cain glielo ha consigliato in diverse interviste tv, Erdogan lo vuole..) Se le cose stanno così, si può sottoscrivere l’analisi del sito cattolico francese Le Salon Beige: “Trump, anche se è stato eletto, non è che un presidente simbolico nella misura in cui non s’è veramente impadronito delle leve del potere. Ha contro l’apparato dei media, il giudiziario, il finanziario. Non ha ai suoi ordini che il 2-3% dei funzionari pubblici, e i suoi fedeli non sono abbastanza numerosi per coprire i posti pubblici di vertice. La sua diplomazia è paralizzata – ed è la ragione per cui la Cina temeva che Trump scatenasse un conflitto di bassa intensità in Asia (effettivamente importanti manovre sono in corso da marzo con Corea del Sud e Usa, che mobilitano 300 mila uomini) perché la guerra permette ai presidenti americani di impadronirsi delle leve del potere. I cinesi avevano ragione, si sono solo sbagliati di teatro.
“Anche la Russia ne trarrebbe paradossalmente beneficio – a parte le proteste d’uso – perché ha interesse che Trump salvi la faccia e soprattutto si impadronisca, finalmente, del potere. Putin può lasciare che Trump sparga l’illusione che l’America ha mantenuto un piede nella porta in Siria”. Speriamo sia così. Non possiamo far altro, da spettatori.
The American President, con Michael Douglas. Chiudo citando un sagace lettore, che ha elaborato questa valutazione fra i primi: “…Sembra un film. Anzi, nel film “The American President” Michael Douglas ordina un bombardamento di notte di una base libica quando non c’è nessuno: lo fa per motivi di propaganda per fare una ritorsione ai terroristi libici per dare ai mass media americani quello che volevano, cioè “la vendetta”. Douglas nel film dice “scegliamo un orario notturno, non voglio che ci siano troppi morti. Mentre noi siamo qui, un custode sta per morire lasciando moglie e figli perchè il suo governo non è stato capace di capire che non bisogna sostenere i terroristi e il nostro governo quindi è costretto ad intervenire per punire sia il governo libico di Gheddafi, sia i terroristi ma soprattutto un tizio che semplicemente fa il suo lavoro come custode notturno. Ma è necessario fare questo bombardamento visto che nessuno di noi si può permettere di lasciare impunito un attacco terroristico” e nel film si può notare che Douglas è sotto attacco politico dagli avversari in Senato”. Come noto, Hollywood è la migliore arma strategica della Superpotenza.
Post Scriptun: la tesi qui avanzata è condivisa anche da Thierry Meyssan, un’autorità assoluta nell’intelligence alternativa. La si può trovare su Rete Voliare: “Donald Trump afferma la sua autorità sui suoi alleati. Non fatevi ingannare dai giochi diplomatici e dalla copertura informativa dei grandi media. Quel che è appena accaduto in Siria non ha alcun legame né con la presentazione che vi è stata fatta, né con le conclusioni che se ne sono tratte.”
Stoccolma, l'assist dei terroristi ai terroristi in Siria, scrive l'8/04/2017 “L’antidiplomatico". Ancora da capire la dinamica dell’attentato a Stoccolma, dove un camion rubato è stato lanciato a bomba contro la folla, provocando almeno tre morti e una decina di feriti. Dalle ricostruzioni pare che un agente del terrore lo abbia sottratto al legittimo autista per poi usarlo per i suoi scopi omicidi. Dopo la strage, l’attentatore si è dileguato tra la folla. Non si è trattato quindi di un kamikaze, come d’uso per i delitti di questo tipo, ma di un agente ben preparato, che, al contrario di quanto consigliano i manuali del terrore, non ha finito il suo lavoro uscendo dalla vettura per lanciarsi sui passanti con un’arma (come accaduto nel recente attentato di Londra). L’agente in questione ha invece conservato il sangue freddo e si è dileguato, come accaduto per l’attentato avvenuto in Germania al mercatino di Natale. Forse è un caso, forse no che l’attentato a Stoccolma sia avvenuto subito dopo il lancio di missili americani contro obiettivi siriani (e russi). Primo intervento diretto, almeno esplicito, dell’America nella guerra che oppone Assad ai suoi antagonisti. Possibile che il Terrore, come in altri attentati similari, voglia favorire un intervento militare occidentale in Siria, accompagnando e favorendo la spinta che in tal senso giunge dall’America. Un intervento che giocoforza farebbe fuori Assad e creerebbe ulteriore destabilizzazione in Siria. Già, perché la destabilizzazione costituisce un terreno fertile per il Terrore, che trae alimento dal caos. Non per nulla i Paesi dove ha maggiormente attecchito sono Afghanistan, Iraq, Libia e Siria; esattamente gli Stati che sono stati interessati dalle guerre neocon dell’ultimo quindicennio. Ma al di là della coincidenza temporale tra l’attentato e i raid americani su Assad, magari casuali, val la pena ripetere che le truppe di Damasco sono oggettivamente, e al di là di ogni ragionevole dubbio, un argine al dilagare del Terrore in Siria e altrove. Non c’è alternativa in Siria, come invece narra certa propaganda occidentale. Non esistono tre fazioni: le forze di Damasco, i ribelli e i terroristi. Come sanno tutti, le milizie dei cosiddetti ribelli operano in coordinato disposto con quelle terroriste dell’Isis e di al Nusra. Se si bombarda l’esercito di Damasco o si sostengono le cosiddette milizie ribelli, si favorisce solo il dilagare del Terrore, quello che oggi ha fatto strage a Stoccolma. Non ci dilunghiamo sul tema. Ci limitiamo a riportare il testo dell’appello di una campagna lanciata dalla Christian Solidarity International, autorevole organismo internazionale con sede a Zurigo ma attivo in diverse zone del mondo.
La campagna ha un titolo inequivocabile: Nessuna arma ai terroristi. E ha trovato alcuni sostenitori bipartisan nella Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti e, al Senato, l’adesione del senatore Rand Paul. Di seguito l’appello riportato sul sito ufficiale della ong. «Nessuno mette in dubbio la complessità delle sfide in tema di sicurezza che gli Stati Uniti stanno affrontando in Medio Oriente e nel resto del mondo. Tuttavia, i promotori della campagna Nessuna Arma ai Terroristi ritengono che in nessun caso si può considerare un’opzione legittima o un uso valido dei dollari provenienti dalle tasse degli americani, finanziare e armare al-Qaeda e altri gruppi che il governo degli Stati Uniti sa bene essere terroristi o collaboratori degli stessi». «Questo problema è particolarmente evidente in Siria, dove negli ultimi sei anni di conflitto i soldi delle tasse degli americani sono stati utilizzati, direttamente o indirettamente, tramite gli alleati degli Stati Uniti, per armare gruppi terroristi jihadisti, nel tentativo di rovesciare una classe dirigente laica e pluralista per sostituirla con un’altra, a supremazia sunnita, basata sulla sharia […]». «Ciò ha contribuito alla carneficina in corso in Siria (e nelle zone limitrofe, in particolare in Iraq), in particolare di persone e comunità non in linea con il programma ideologico dei terroristi: alawiti, cristiani, drusi, curdi e sciiti, yazidi e sunniti moderati». «Armare i terroristi in Siria e altrove contribuisce al genocidio in corso dei cristiani e delle altre minoranze religiose in Medio Oriente, promuove la violenza contro le donne, provoca la migrazione di massa dalla Siria verso gli Stati limitrofi e l’Occidente, ed accresce la minaccia terroristica in America e in Europa». Un appello che, dopo l’attacco alla base aerea siriana da parte degli Stati Uniti e l’attentato di Stoccolma suona più urgente che mai.
Trump si dimostra il nuovo “fantoccio” di Israele e dei gruppi di potere neocons di Washington, scrive Luciano Lago su "Controinformazione" il 7 aprile 2017. “Nessun bambino dovrebbe soffrire” come hanno sofferto quelli siriani: lo ha affermato Trump nel suo discorso alla TV. Ed ha aggiunto: “il bombardamento americano in Siria è nel “vitale interesse della sicurezza” degli Stati Uniti. La Siria ha ignorato gli avvertimenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu”, ha sottolineato Trump. Ed ha chiesto al mondo di unirsi agli Usa “per mettere fine al flagello del terrorismo”. Mentre gli USA stanno uccidendo centinaia di bambini fra cui decine di questi a Mosul (bombardata una scuola a Mosul pochi giorni fa con 200 persone dentro), mentre l’aviazione USA bombarda in Siria ed in decine di altri luoghi maciullando centinaia di civili, nello stesso momento in cui le bombe a grappolo dell’aviazione USA e GB stanno devastando lo Yemen dove hanno prodotto oltre 15.000 morti fra cui almeno 2600 bambini, Trump si sofferma a parlare di “sofferenze di bambini siriani “e proferisce menzogne su Al-Assad e sull’Esercito siriano, accusando questi di crimini di guerra di cui Washington è il massimo responsabile. Lo spettacolo di questo presidente buffonesco e della sua ipocrisia è quanto meno vomitevole. Trump segue servilmente i “consigli” interessati del suo socio sionista, Benjamin Netanyahu, e si fa scudo delle stesse menzogne e degli stessi pretesti utilizzati prima da George W. Bush e poi dal suo predecessore Barack Obama. La sagra delle “armi di distruzioni di massa” e dei “malvagi dittatori” (da Milosevic a Gheddafi e poi ad Assad) sembra essere un copione di una rappresentazione teatrale fotocopiato e fatto proprio da i vari presidenti che si alternano alla Casa Bianca. Un copione consegnato all’apparato dei mega media perchè diffondano in tutto il mondo la solita mascheratura di menzogne e propaganda che accompagnano tutte le guerre americane. Si dimostra ancora una volta come tutti coloro che in buona fede hanno parteggiato e votato per Trump, sperando che lui rappresentasse un salutare cambiamento, come lui stesso annunciava, rispetto alla mania dell’America di fare guerre in giro per il mondo per soddisfare la voglia di profitti del complesso militar industriale, trascurando i problemi interni degli USA, hanno preso un “gigantesco granchio”. Sembra evidente che questi ingenui elettori sono stati ingannati da una cospirazione interna negli ambienti di potere di Washington per collocare un fantoccio di Israele alla Casa Bianca e far avanzare il programma di egemonia dell’elite di potere sionista e neocon in tutto il mondo. Il Trump pagliaccesco che “piange lacrime sui bambini siriani” è quello che, dal suo lussuoso resort sui campi di golf della Florida, ha ordinato l’attacco militare sulla Siria ed ha poi avuto l’impudenza di affermare che questo era necessario per “proteggere la sicurezza degli Stati Uniti e i bambini della Siria”. Evidente che Trump è invidioso del premio Nobel concesso ad Obama e vuole concorrere per ottenerne uno anche lui, prima che sia possibile. Vedrete che la giuria di Stoccolma non mancherà di concederglielo.
Trump ha dichiarato che la base aerea di Ash Sha’irat, a nord di Damasco, contro cui sono stati lanciati 60 missili Tomahawk, era stata prescelta come obiettivo in quanto risulta essere quella da cui gli aerei siriani erano decollati per lanciare l’attacco chimico, mascherando la colossale menzogna che fosse stata l’aviazione siriana ad effettuare un bombardamento chimico, quando è ormai accertato che le armi chimiche erano nel magazzino/fabbrica in possesso dei gruppi terroristi di Al Nusra appoggiati dall’Occidente e dall’Arabia Saudita. Il Trump che parla di una azione “per mettere fine al flagello del terrorismo” finge di ignorare che le uniche forze che combattono sul campo i gruppi terroristi sono quelle che Washington ha fatto bombardare, adesso e nel Settembre del 2016, quando l’Aviazione USA bombardò le posizioni dell’Esercito siriano (con oltre 60 morti), adducendo poi il fatto ad un “errore” dei piloti e favorendo, allora come adesso, l’avanzata dell’ISIS sulla zona. Il favoreggiamento dei gruppi terroristi jihadisti da parte degli USA è ormai cosa nota e comprovata, registrata persino nelle dichiarazioni registrate dell’ex segretario di Stato John Kerry, nessuno crede più da tempo alla favola degli USA che intervengono in Siria, in Iraq o in Libia, per” lottare contro il terrorismo”. Un nuova enorme “False Flag” per avere il pretesto di lanciare gli USA in un’altra delle tante guerre che potrebbe facilmente diventare la Terza Guerra Mondiale. Ancora una volta di rende evidente al mondo l’ipocrisia e l’indole criminale della dirigenza di Washington che, a qualsiasi costo, porta avanti i suoi programmi di egemonia sacrificando le sue vittime e seminando il caos e la distruzione, con il plauso dei suoi stati vassalli fra cui si distingue, come sempre, l’Italia dell’attuale Governo Gentiloni.
Trump bombarda la Siria, molto rumore per (quasi) nulla. Gli attacchi coi missili contro le forze di Assad non obbediscono a una strategia precisa, ma sono una mossa gattopardesca. Al massimo The Donald vuole dare un'idea di imprevedibilità, che potrebbe pagare nel medio termine, scrive Tommaso Canetta l'8 Aprile 2017 su “L’Inkiesta”. Dopo aver minacciato rappresaglia contro Assad per il bombardamento con armi chimiche su Khan Shaykhun dello scorso 4 aprile, Donald Trump è stato rapidissimo a passare all’azione. Una sessantina di missili Tomahawk sono caduti, a poche ore dall’annuncio, sulla base dell’aviazione siriana di Shayrat, da cui gli Usa sostengono sia partito l’attacco con il gas nervino. Un’azione che, secondo quanto affermato dagli Usa e secondo il parere degli analisti, non dovrebbe – ma il condizionale è d’obbligo con un presidente imprevedibile come Trump – preludere a un cambio di strategia americana in Siria. La rapida evoluzione degli avvenimenti ha creato una certa confusione. Subito dopo l’attacco col gas del 4 aprile la Casa Bianca aveva affermato, per bocca del suo portavoce, che la politica Usa verso la Siria e verso Assad non sarebbe cambiata. Poi invece Trump ha preso duramente posizione, condannando l’attacco e minacciando rappresaglia. A distanza di poche ore la vendetta è arrivata, con il bombardamento su Shayrat. Subito dopo il bombardamento però l’amministrazione repubblicana ha nuovamente fatto sapere che non intende cambiare la sua linea d’azione in Siria, né rimuovere con la forza il regime siriano. Allora a cosa abbiamo assistito? Cos’è successo davvero nelle ultime ore?
Secondo diversi esperti questo strike ordinato da Trump è più un’operazione di immagine che di sostanza. Per quanto riguarda specificamente la Siria si tratterebbe di una mossa gattopardesca, per cui si cambia qualcosa – per la prima volta i missili Usa colpiscono in Siria obiettivi del regime – perché non cambi nulla. Infatti è molto più importante per Trump, che ha sdoganato la permanenza al potere di Assad, punire eventuali superamenti della “linea rossa” sulle armi chimiche evitando che risuccedano in futuro, di quanto non lo fosse per Obama, che era dichiaratamente ostile al dittatore siriano (pur nel contesto del non-interventismo voluto dal presidente democratico). Ma una volta “impartita la lezione” ad Assad – e indirettamente alla Russia, così invitata a vigilare maggiormente sul proprio alleato – Trump sembra che voglia tornare allo schema precedentemente approvato, per cui non c’è un piano B rispetto alla permanenza del dittatore. Per quanto riguarda specificamente la Siria si tratterebbe di una mossa gattopardesca, per cui si cambia qualcosa – per la prima volta i missili Usa colpiscono in Siria obiettivi del regime – perché non cambi nulla. Ma questo bombardamento, secondo fonti vicine agli ambienti dell’intelligence, ha un valore che va al di là dello scenario siriano. Si tratta di una “comunicazione strategica” di Trump ai leader di tutto il mondo, che vuole testimoniare un cambio rispetto agli anni della precedente amministrazione. Adesso il presidente Trump – questo sarebbe il messaggio – è pronto a usare la forza in qualsiasi momento, con scarso preavviso e senza bisogno di mediazioni. Potrebbe non essere un caso che l’attacco sia avvenuto durante la visita negli Usa del presidente cinese Xi Jinping, anche considerato il recente surriscaldamento del dossier nord-coreano. E il messaggio è sicuramente stato sentito anche a Teheran.
Torniamo alla Siria. Il bombardamento con armi chimiche del regime – oramai le prove sono tali da fugare quasi qualunque dubbio sulla paternità - è stato quasi unanimemente ritenuto dagli osservatori come una mossa stupida sotto molteplici punti di vista. Se la pioggia di Tomahawk americani sarà l’unica sua conseguenza, Assad potrà ritenersi fortunato. Al momento questo sembra l’esito più probabile, perché gli Usa continuano a non avere (apparentemente) una strategia alternativa a quella russa per la Siria, la Turchia è sotto scacco e non può permettersi scarti nei confronti di Mosca e perché i sostenitori di Assad (Iran, Cremlino, Hezbollah etc.) non hanno un’altra carta su cui puntare al momento. Ma non è detto che la situazione non si evolva.
Gli elementi da tenere in considerazione, secondo gli esperti, per verificare che il quadro resti sostanzialmente invariato sono quattro.
Il primo, più banale, sarà l’assenza di altri strike americani nelle prossime ore. Le dichiarazioni degli ambienti militari americani che parlano di “un colpo soltanto” lasciano presagire che non dovrebbero esserci altri attacchi ma, come già detto, non si può esserne certi in uno scenario tanto fluido e con un presidente Usa tanto inaffidabile.
Il secondo è il rapporto Usa-Turchia. Se Ankara, che in queste ore ha fatto retromarcia sulle precedenti aperture alla permanenza di Assad, continuerà ad essere lasciata nell’angolo in cui si è infilata - un po’ da sola un po’ giocando (male) di sponda con Mosca - senza che le venga offerta una sponda, vuol dire che a Washington non interessa riaprire i giochi in Siria.
Terzo elemento è il rifornimento di armi, soldi e logistica ai ribelli siriani. Se gli Usa continueranno ad armare ed aiutare solamente le SDF (alleanza di sigle ribelli dominata dal YPG curdo), che al momento stanno macinando successi nell’avanzata verso la capitale siriana del Califfato, Raqqa, Assad può tirare un sospiro di sollievo. Le SDF e il regime hanno infatti degli accordi di non belligeranza e spesso hanno trovato, anche con la mediazione della Russia, soluzioni comuni. Se invece riprenderanno programmi americani di riarmo e addestramento di altre sigle ribelli, coinvolte direttamente negli scontri con le forze di Damasco, potrebbe essere il segnale di una volontà di Trump di impedire un consolidamento del regime. Un’ipotesi al momento ritenuta poco probabile dagli analisti, a causa della mancanza di soluzioni alternative ad Assad da un lato, e dall’altro a causa della visione politica di Trump, poco incline a invischiarsi nelle questioni interne della Siria (ad esempio decidere chi sono i ribelli “buoni” e chi i ribelli “cattivi”). Tutta la dinamica di questa vicenda lascia quindi per ora presagire un gran polverone nei prossimi giorni che, una volta placatosi, lascerà la situazione sostanzialmente inalterata rispetto a come era prima dell’attacco chimico del 4 aprile.
Quarto elemento, fondamentale, è il rapporto tra Casa Bianca e Cremlino. La Russia, dopo il bombardamento americano, ha preso posizioni molto dure parlando di “danni considerevoli” alle relazioni con gli Usa e di “aggressione a uno Stato sovrano”. Gli esperti sono però scettici sulla reale portata di queste esternazioni. Si tratterebbe di un gioco delle parti necessario, perché Putin non può perdere la faccia coi propri alleati e deve anche intestarsi il fatto che la rappresaglia Usa non vada oltre quest’unica azione. Di qui la necessità di fare la faccia cattiva. Molto più indicativo sarebbe, secondo le fonti vicine agli ambienti dell’intelligence, il preavviso che gli Usa hanno dato alla Russia sull’imminente attacco. Per prima cosa vuol dire che i canali di comunicazione ci sono, sono aperti e ben lubrificati. In secondo luogo bisognerebbe anche capire se quando gli Usa hanno avvisato c’era il pericolo che, qualora non lo avessero fatto, venissero colpiti involontariamente anche mezzi e uomini russi. Se così non fosse la preallerta data dagli Usa sarebbe ancor più un riconoscimento a Mosca del suo ruolo nell’area. In ogni caso lo scarso numero di morti (sei, per ora) tra le fila dell’esercito siriano testimonia che, così come Washington ha avvisato Mosca, Mosca ha avvisato Damasco, in modo da minimizzare i danni.
Tutta la dinamica di questa vicenda lascia quindi per ora presagire un gran polverone nei prossimi giorni che, una volta placatosi, lascerà la situazione sostanzialmente inalterata rispetto a come era prima dell’attacco chimico del 4 aprile. Non si può tuttavia escludere che la fluidità dello scenario siriano e l’intreccio di interessi di numerose potenze regionali e internazionali possa portare verso un’escalation. Tanto più pericolosa perché, almeno in apparenza, nata da episodi e non da una pianificazione strategica.
I MURI NELL'ERA DI INTERNET.
Ci dicevano che i muri sono fatti per essere abbattuti, ma si sbagliavano, scrive Alessandro Catto il 19 agosto 2017 su “Il Giornale". C’è un’immagine forte, lampante dopo ogni attentato, dopo ogni strascico di paura che colpisce ormai a ritmo regolare l’Europa. È l’immagine delle barriere innalzate in qualche via del centro, in qualche corso, lungo le strade di maggior passaggio, presidiate da forze dell’ordine notte e giorno. Sì, una immagine di timore, diametralmente opposta alle narrazioni di chi, su di un coraggio ipocrita e smentito semplicemente dai dati di fatto, ci tiene a far sapere a terzi che no, paura non ce n’è, che il dramma del terrorismo non ha minimamente scalfito ipocrite convinzioni che parlano di una società sempre aperta e sempre accogliente. In realtà di paura ce n’è molta, ce n’è anche in questi lidi di affrettato ed affettato ottimismo. Quel che manca, semmai, è il coraggio necessario per una cosciente ammissione di colpa, per una svolta a U che costerebbe forse fatica, onestà intellettuale e molte volte pure la faccia, ma che sarebbe terribilmente apprezzata.
Un’ammissione di colpa che non arriva, ma che tuttavia non scalfisce la realtà e non scalfisce un’immagine che resta lì, non sfocata nemmeno dalle bombolette spray usate per renderla più commestibile. L’immagine delle transenne che occupano i corsi più rinomati del nostro paese, da via Monte Napoleone ai Fori Imperiali. Una inversione a U fattuale, concreta, terribilmente reale, che ha l’amaro retrogusto della ragione per chi, da decenni, fa notare che un mondo senza frontiere è semplicemente una chimera sanguinosa. C’è bisogno di frontiere così come c’è bisogno di leggi, di regole di convivenza, di paletti. Una mescolanza senza regole e senza freni ha il terribile sapore dell’anarchia, di un caos dove a trionfare è sempre il più forte, il violento, chi utilizza i mezzi più spregevoli per imporsi, in qualunque campo, dall’economia alla convivenza civile nelle nostre strade. La globalizzazione al posto di appianare quest’esigenza, paradossalmente tende ad acuirla e a renderla ancora più essenziale, perché altrimenti il destino che va a schiudersi di fronte a noi è un baratro, è l’assenza della politica come ente capace di prevenire i problemi e regolare le dispute, un ente privo di utilità, con un potere legislativo totalmente preda delle necessità finanziarie e un’etica pubblica preda dei peggiori e prezzolati sentimentalismi. Un’anarchia primitiva, arricchita da qualche bene di consumo o libertà accessoria, drammaticamente incapace tuttavia di sostituire immortali necessità umane quali la sicurezza, il benessere, la stabilità. Un mondo senza frontiere, confini e regole non significa progresso, significa regresso. Un regresso politicamente corretto, ma pur sempre un regresso. E alla regressione sociale e civile è sempre preferibile una sana ed efficace frontiera, morale e reale. E una politica capace di fare il proprio mestiere.
Valli e barriere sono antichi quanto l'uomo. Ma nessuno ha mai ottenuto il risultato sperato. La Muraglia cinese ha 2.300 anni, il Vallo di Adriano 1.900: opere ciclopiche e inutili, scrive Giordano Bruno Guerri, Giovedì 26/01/2017, su "Il Giornale". A voler fare dello spirito (del tutto fuori luogo), potremmo chiamarlo «La Grande Trumpaglia». Come ogni muro posto a separare gli Stati o i popoli, quello annunciato dal nuovo presidente degli Stati Uniti - in realtà un prolungamento dell'esistente- ne richiama subito altri due.
Prima la Grande Muraglia Cinese, appunto, la ciclopica opera costruita, nel III secolo a.C., sotto il regno di Chin Shih-Huang-Ti per proteggere i confini settentrionali dalle tribù mongole. Lunga oltre 8.000 chilometri, alta dai 4,5 ai 12 metri, larga anche 9,5 metri, collegava fortezze inattaccabili.
Il secondo è il Muro per eccellenza, quello che molti di noi ricordano integro, in piena funzione, e al quale mi onoro di avere dato qualche picconata, né astratta né teorica. Detto anche Muro della Vergogna, lo costruirono in una notte d'agosto del 1961 i sovietici e i comunisti della Germania orientale dividendo in due Berlino: non per difendersi da un'invasione, ma per impedire ai tedeschi sovietizzati a forza di evadere verso la libertà.
Quale ne sia il motivo, il muro-prigione, suscita sempre una repulsione istintiva più del muro-sbarramento. A Berlino molti furono uccisi mentre cercavano di superarlo, quel carcere lungo 156 chilometri, altri ce la fecero, i più rimasero ingabbiati, ma il mostro di cemento non riuscì a svolgere la sua funzione, la funzione di tutti i suoi simili, ovvero tenere separato per sempre chi si trova di qua da chi si trova di là.
Se a Berlino il muro cadde perché crollò l'intero sistema sovietico, la Grande Muraglia impedì, sì, un'invasione militare mongola, ma non che i mongoli e gli altri popoli nomadi della steppa la superassero a piccoli gruppi, sempre più spesso, finché le due culture si assimilarono reciprocamente. È quello che accadrà al muro di Trump: impedirà l'arrivo negli Stati Uniti di altri milioni di disoccupati e sbandati messicani ma nell'epoca di internet non potrà impedire che la società americana si ispanizzi. E viceversa. Accadde anche con il primo Muro della storia, quel Vallo di Adriano messo dai romani a separare la Britannia conquistata da quella ancora in mano ai fieri e combattivi pitti e scoti. E se lo ricordiamo oggi è per la saga fantasy creata da George R. R. Martin cui è ispirata la serie TV Il Trono di Spade. Insomma, chi di muri ferisce, di etere perisce.
Il Vallo di Adriano, costruito nella prima metà del II secolo d. C., passa per essere il più antico della storia, ma soltanto perché anche quelli più robusti si sgretolano, e noi siamo ignoranti. I primi muri, brevi quanto sanguinosamente difesi, furono certamente costruiti in epoca preistorica, per difendere una gola, un guado, un passo, da un'altra tribù. Tale è l'animo dell'uomo, cui mancano soltanto materiali e tecnica per costruire barriere insormontabili e definitive. Nel 1999 è stato scoperto, a 200 chilometri a sudest del Mar Caspio, un grande muro lungo chilometri, ancora in fase di scavo. Veniva chiamato Il Serpente Rosso, per il colore dei suoi mattoni, era lungo 195 chilometri, largo fino a 10 e serviva a proteggere una regione fertile e ricca di acqua dalle scorribande di degli Unni bianchi. Protetto da fortezze e da 36mila soldati, incuteva timore anche a Gengis Khan.
Il tempo che ci separa da queste opere ce le fa apparire magnifiche. La vicinanza geografica e temporale di quelle più recenti o in corso, ce le mostra semplicemente orribili, e anche soltanto i loro nomi e la loro collocazione fanno paura, prima ancora della funzione e dei materiali con i quali sono costruiti. Ne ricordiamo qualcuno. La linea di demarcazione militare fra le due Coree e la Linea di controllo del Kashmir, fra India e Pakistan, che almeno hanno una giustificazione militare e non riescono a sembrare un anacronismo neanche in tempi di missili. Le barriere di separazione tra Israele e Territori palestinesi, che si infrangono contro gli attentati kamikaze. La «Linea Verde» di Cipro, che taglia in due un'isola più piccola della Sicilia e della Sardegna. Le Peace Lines che nell'Irlanda del nord separano cattolici da protestanti. Sono ancora più vicini a noi i muri che circondano Ceuta e Melilla, le città spagnole del Nordafrica, per impedire l'accesso ai marocchini.
Potremmo proseguire a lungo, con molti altri esempi realizzati o in costruzione, arrivando perfino al muro di sabbia che dal 1982 divide in due il Sahara Occidentale per difendere dai guerriglieri del Fronte Polisario il ricco territorio occupato dal Marocco neanche mezzo secolo fa: un muro di sabbia secca di oltre 2.700 chilometri, con otto fortezze e un'altezza che va da 1 a 30 metri. Ognuno ha le sue giustificazioni ma, mondo cosiddetto globalizzato, quei muri ricordano l'immagine di un uomo che, tenendo il telefonino fermo tra spalla e orecchio, si china per allacciare un oggetto primitivo come le stringhe delle scarpe.
IL RAZZISMO IMMAGINARIO.
Così il "razzismo immaginario" soffoca la libertà. Il filosofo: si grida subito all'islamofobia e si cancella il dibattito, come nei regimi comunisti, scrive Alessandro Gnocchi, Martedì 7/02/2017, su "Il Giornale". In Francia sono in corso due processi molto simili. Il filosofo Pascal Bruckner, noto in Italia per numerosi saggi tra cui Il fanatismo dell'Apocalisse (Guanda, 2014), è stato denunciato per quanto ha detto nel programma Arte: «Farò i nomi dei collaborazionisti all'attentato di Charlie Hebdo, tutti coloro che hanno ideologicamente giustificato la morte dei giornalisti». Le associazioni citate subito dopo lo hanno portato in tribunale. Stessa sorte toccato allo storico Georges Bensoussan, il direttore editoriale del Mémorial de la Shoah, fra i massimi studiosi di antisemitismo di Francia. Due anni fa aveva detto alla radio: «Come sostiene un sociologo algerino, Smaïn Laacher, nelle famiglie arabe in Francia l'antisemitismo viene trasmesso con il latte materno». Incriminato per «incitamento all'odio razziale». In questo clima, è uscito il saggio di Pascal Bruckner, Un racisme imaginaire («Un razzismo immaginario», Grasset) subito al centro dell'attenzione generale. Bruckner denuncia con forza l'odio e la violenza contro i musulmani ma contesta la nozione equivoca di «islamofobia». Secondo il filosofo, le accuse di islamofobia sono un'arma per soffocare il dibattito. Da oltre vent'anni, dice Bruckner, siamo testimoni della costruzione di un nuovo delitto di opinione simile a quello che veniva rinfacciato ai dissidenti (i «nemici del popolo») nei regimi comunisti. Le accuse, oltre a limitare la libertà d'espressione, ottengono il risultato di bloccare ogni tentativo di riforma nel mondo musulmano, isolando come «islamofobo» chi vorrebbe venire a patti con la modernità occidentale. Ma «l'antirazzismo» scrive Bruckner è «un marchio in continua espansione», perché ogni gruppo sociale si sente vittima. Il discorso va oltre l'islam. Tutte le mattine qualcuno «denuncia una forma di segregazione, felice di aver aggiunto una nuova specie alla grande tassonomia del pensiero progressista». Si rinforza così l'arsenale, già preoccupante, delle leggi che puniscono i reati d'opinione. Leggi che finiscono col creare una sorta di «dispotismo dolce» nell'arena culturale. Alle associazioni di cittadini che combattevano il razzismo, quello vero, si sono sostituite lobby confessionali o comunitarie o umanitarie che inventano forme di discriminazione per giustificare la propria esistenza, ottenere il massimo della visibilità e raccogliere finanziamenti. Anche gli islamisti hanno capito il funzionamento delle società democratiche e lo sfruttano a proprio vantaggio. In nome della libertà individuale, un po' alla volta, erodono... la libertà individuale. Il libro di Bruckner contiene poi ampi riferimenti a fatti di cronaca. Ad esempio, la notte di Colonia. Tra giovedì 31 dicembre e venerdì 1 gennaio 2016, nella città tedesca decine di donne sono state molestate e aggredite sessualmente da un migliaio di ubriachi. Secondo i rapporti della polizia, la maggior parte delle persone coinvolte era di origine nord-africana o afghana. La condanna però non è stata netta e unanime, dice Bruckner che passa in rassegna alcune spiegazioni bizzarre di quell'evento. C'è chi ha negato fossero aggressioni di natura sessuale, rivendicandone la portata politica. La folla ha preso di mira donne tedesche e bianche, simbolo dell'oppressione e della mancata accoglienza. A parere di questi sociologi, scrive Bruckner, perfino lo stupro è un crimine meno grave se il movente è soprattutto politico. L'islam sarebbe la «religione degli oppressi», in quanto tale permette ai post marxisti di dare una verniciata ai vecchi dogmi. La censura, infine, si rivela controproducente. Le parole (e le idee) condannate dal politicamente corretto poi tornano nello spazio pubblico portando con sé una carica dirompente che altrimenti non avrebbero.
RAZZISMO E STEREOTIPI.
L’Italia: la mappa degli stereotipi offensivi e volgari, scrive “Il Corriere della Sera” il 15 gennaio 2017. Un popolo di razzisti che a seconda della regione in cui vivono si trasformano in alcolisti, comunisti, mafiosi e “sc... di pecore”: è l’immagine, ironica e volutamente (molto) offensiva, che traspare dell’Italia da una mappa pubblicata su Reddit dall’utente lucky-o-beta che si è «divertito» a dare epiteti irreverenti, a volte volgari e ben oltre le soglie del «politcally correct» agli abitanti del BelPaese. Ed ecco i dettagli: se i valdostani sono «francesi» e i lombardi «miserabili stacanovisti che pensano di essere dei grandi», i trentini «fascisti» e i veneziani «non si sentono italiani», ecco che i piemontesi sono «juventini che in passato hanno commesso atrocità conquistando il Sud», i liguri «taccagni». «Comunisti» diventano tutti quelli che abitano tra Toscana ed Emilia, scendendo verso il mare si trova «Milano sul mare». Nell’Italia centrale e nelle Marche? Solo «terremoti». Più a Sud, la Sicilia è caratterizzata da una sola parola, «Mafia» così come in Campania e Puglia campeggia la scritta «un altro tipo di mafia», il Molise «non esiste» (un vecchio tormentone del web) e la Basilicata è denominata con un «Non parlate a nessuno di questo posto», i sardi sono amanti (diciamolo in modo elegante) delle pecore, i romani «parassiti che trascorrono il loro tempo vantandosi di quanto sia grande Roma» e la Calabria diventa «Calabria Saudita». Il gioco politicamente scorretto va forte su Reddit: qui l’utente sznupi si è cimentato col Veneto. Anzi, con la Repubblica Serenissima di Venezia. Non mancano altri Stati, come la Gran Bretagna. Il Portogallo. O la Grecia. Ma anche la Finlandia. E persino il minuscolo Lussemburgo ha i suoi stereotipi. Ma tra le mappe del pregiudizio ne appaiono tante altre. Una per ogni periodo storico. Perché a volte basta un cambio di governo, un grave fatto di cronaca o una nuova moda per trasformare l’immagine internazionale di un Paese. In questa mappa, l’Europa vista da Yanko Tsvetkov, artista bulgaro di stanza a Londra. L’Europa vista dagli americani. L’Europa per i francesi. O con noi o contro di noi sembra essere il motto della République: gli odiati inglesi sono assassini di vergini (Giovanna d’Arco...), l’Austria gli ex arcinemici, la Germania i migliori amici. La Russia è il sogno napoleonico, la Turchia non è certo europea. Ma l’Italia è semplicemente gente rumorosa. L’Europa secondo i tedeschi. Stereotipi tecnologico-economici per l’Europa interpretata dai tedeschi: Ikea in Svezia, telefoni cellulari in Finlandia, riserve di gas in Russia, forza lavoro in Turchia. E proletariato nell’ex Ddr. Ma altri sono più d’ordine culinario: pizza in Italia e cotolette in Austria, gulasch in Ungheria e whisky in Irlanda. L’Europa per gli italiani. A est di Trieste una combinazione di pornostar e baby-sitter, ladri e bizantini, bevitori di birra e danzatrici del ventre. A nord prevale lo sport (rugby in Irlanda e Wembley in Gran Bretagna), a ovest la visione italocentrica (Carla Bruni in Francia, dialetti italiani in Spagna). E il nostro Paese è diviso a metà: il sud è Africa. L’Europa per gli inglesi. Una visione che tradisce l’assenza di «sentimento europeo» e attribuisce ai Paesi del Continente o una funzione vacanziera-consumistica (crema solare in Spagna, droghe in Olanda, torta in Austria) o un certo disprezzo (ex Jugoslavia: non pervenuto). L’Italia, per gli inglesi, sarebbe terra di uomini abbronzati e canuti. Ma di mappe e stereotipi ce ne sono davvero tantissime. Qualche esempio si trova sul sito Mapping Stereotypes che, come dice il nome, racconta gli stereotipi delle singole Nazioni con il cambiare degli anni. E a seconda di quale popolo ci guarda, noi italiani diventiamo «persone noiose ma amichevoli», «ladri», «popolo di pizza e musei», «terra di shopping center», «figli di papà» o «terra d’Africa».
Che sapete dei russi? Niente, solo che sono cattivi, scrive Lanfranco Caminiti il 15 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Nel Novecento era considerata Europa, ora è estranea. Definire qualcuno “russo” ormai suona come un insulto. È una banalizzazione negativa, perché dell’ex Unione Sovietica non si sa nulla. Dici “russo” oggi di qualcuno, di qualcosa, e suona come un insulto. I russi sono oligarchi, i russi sono aggressivi, i russi sono imperialisti – gli ultimi degli imperialisti – e odorano di incenso ortodosso che ti rimane addosso sui vestiti. Sono volgari, pacchiani, arroganti, brutali, mafiosi. Comprano tutto quello che possono e dove non possono riescono a convincere in altri modi; si ubriacano e sono sempre in mezzo a un mare di ragazze poco più che schiave di una qualche tratta balcanica; i loro atleti sono tutti dopati; i loro soldi finiscono sempre nelle banche più discutibili – a Cipro, in Grecia – o li ripuliscono nella City di Londra. I russi hackerano tutto: le email americane soprattutto. I russi spiano dappertutto. I russi producono e vendono armi ovunque e a chiunque, e mettono sul mercato pure plutonio, testate nucleari e vecchi missili intercontinentali. I russi hanno il gas e ci tengono per il collo, soprattutto quando fa tanto freddo; costruiscono i gasdotti che vogliono loro e come li vogliono loro – e mettono a libro paga ex ministri e ex primi ministri di tutta l’Europa e uomini d’affari americani per aggirare ogni embargo. I russi ti ammazzano per strada con una puntura di spillo imbevuto di polonio e non c’è modo di verificarlo; oppure ti inoculano lentamente per anni un veleno e poi una mattina ti svegli e sembri l’uomo elefante. I russi ammazzano i giornalisti coraggiosi; i russi arrestano chiunque dissenta, se scrive un manifesto, se prende un microfono in una piazza, se fa una vignetta irriverente, se canta una canzoncina irrispettosa; i russi ti sbattono in galera e buttano la chiave o ti mandano in Siberia e ti ritroveranno fra duecent’anni nel permafrost. I russi bombardano tutto ciò che si muove, donne, bambini, ospedali, civili: i russi non badano agli ostaggi se presi dai terroristi – ammazzano gli uni e gli altri. I russi avvolgono nel mistero tutto quello che qui sarebbe sulla pubblica piazza, perché hanno sempre qualcosa da nascondere. I russi non amano la libertà e la democrazia; non sanno neppure cosa significhino i diritti umani. I russi sono antisemiti. I russi sono panslavisti. I russi non hanno mai smesso di considerare l’Europa dell’est come cosa loro. I russi minacciano le repubblica baltiche. I russi vogliono lo sbocco sul Mediterraneo. I russi sono asiatici e disposti per natura al dispotismo. I russi vogliono sempre uno zar. I russi sono un pericolo. Queste affermazioni non sono tratte da un qualche articolo di un qualche esponente della nouvelle philosophie, che si incarica di ammonirci e stare all’erta e non sottovalutare, anche se l’una o l’altra la potresti ritrovare, ma sono ormai espressioni di un senso comune. E non è che, presa una per una, siano affermazioni peregrine. Però, della Russia oggi abbiamo due letture, una di banalizzazione del male e l’altra di banalizzazione del bene – e sono letture trasversali, si è russofili o russofobi a destra come a sinistra. Del male, s’è già detto. La banalizzazione del bene starebbe nel fatto che la ripresa nazionalista e imperialista sotto la guida di Putin che ha restituito alla Russia orgoglio e peso geopolitico, dopo lo sfacelo dell’era Eltsin, servirebbe a impedire che l’America faccia quello che vuole del mondo: c’è qualcuno, là fuori, che può alzare la voce e farsi sentire e non si fa mettere i piedi in testa. Perciò: viva Putin, comunque. La verità è che della Russia oggi non conosciamo niente. Non sappiamo come vivono i suoi lavoratori, i suoi impiegati, i suoi medici, i suoi insegnanti; le loro buste paga, le loro carriere, le loro gerarchie. Non sappiamo cosa succede nelle loro fabbriche, nelle campagne, negli immensi quartieroni urbani. Non abbiamo idea di quanto sia il valore d’una pensione media. Di quanto sia il valore del loro paniere, se ne hanno uno. Non sappiamo cosa pensano i loro militari, i cadetti. Non abbiamo la più pallida idea del livello delle loro università, della loro ricerca scientifica, delle loro medicine e delle loro cure. Non sappiamo più nulla della letteratura russa, delle loro accademie, nulla dei loro artisti. Non conosciamo i loro programmi alla radio, né quelli della televisione. Non vediamo i loro asili- nido, o le loro case per anziani, le loro scuole, i loro giovani studenti, né sappiamo le loro mode, il loro gergo. Tra noi e la Russia c’è un sipario. Che viene strappato solo per situazioni eccezionali, le guerre – l’Afghanistan, la Cecenia, l’Ucraina e la Crimea –, qualche clamoroso attentato – le vedove nel teatro o le bombe nella metro di Mosca –, qualche clamoroso assassinio politico – la Politkovskaja, in patria, o Litivenko all’estero –, qualche sbrasata di uno dei suoi oligarchi – per tutti, l’Abramovich con il suo Chelsea e il suo yacht da primati o quel santarellino di Khodorkovsky, per dieci anni in carcere e ora alla ricerca di un ruolo politico di opposizione. La Russia, insomma, è sempre Chernobyl. È come se ci avessero deluso – dopo essersi scrollato di dosso quell’orribile regime comunista, però non ci avessero mai amato davvero. Un po’ la parabola di Solženicyn, adorato dall’occidente finché stava in Siberia e scriveva di Arcipelago Gulag; poi se n’è venuto in America, e dopo qualche anno s’è dichiarato schifato del capitalismo e ha voluto tornare dalla Grande Madre Russia – tra incensi e nazionalismi. Puah. I russi, insomma, non sono come noi li vorremmo e sono esattamente come noi temiamo che siano, è un po’ questo lo spettrografo attraverso cui li guardiamo. Eppure, non sempre è stato così, anzi la Russia era nel cuore degli europei. Tutta la grande ondata delle rivoluzioni nazionali dell’Ottocento ha a cuore la sorte della Russia. Tutte le grandi rivoluzioni del Novecento hanno a cuore la Russia. E i russi – i grandi romanzieri dell’Ottocento – guardano all’Europa, al romanzo europeo. E i rivoluzionari russi, i bolscevichi, ma anche i menscevichi e tutti gli altri, anarchici, socialisti rivoluzionari, guardano all’Europa, si aspettano l’Europa, perché si diffonda il riformismo socialdemocratico o perché si prenda il Palazzo d’Inverno. L’intellettuale russo è europeo – parla il tedesco e il francese –, ma lo è anche l’aristocratico – parla il tedesco e il francese – e l’operaio. L’Impero zarista entra nella Prima guerra mondiale da potenza europea; l’Unione delle Repubbliche sovietiche entra nella Seconda guerra mondiale da potenza mondiale, ma salva l’Europa a Stalingrado. Per tutti gli anni Trenta, gli intellettuali tedeschi e gli intellettuali francesi e gli intellettuali inglesi andavano a Mosca – ci andavano Gide e Sartre ma anche il gollista Malraux e il già fascistizzante Malaparte, e ne stilavano reportage, chi entusiasta chi disgustato. Ma il legame di quest’Europa con la Russia era ancora saldo – tutto ideologico, ma saldo. È a Yalta – dove Roosevelt e Churchill e Stalin si spartiscono il mondo – che l’Europa si divide e l’europea Praga, l’europea Budapest, l’europea Bucarest diventano qualcosa che non conosciamo più, non capiamo più, distanti, lontane, in un altro tempo e spazio. Tutto questo improvvisamente si frantuma con il crollo del Muro di Berlino e quella straordinaria e tragica figura che è Gorbaciov. Ma quello che prevale da noi, dietro l’allegrezza di facciata, è un sentimento di vendetta: ci avete fatto penare per tanti anni, adesso ve la faremo pagare, intanto ci somiglierete, anzi prenderete il peggio da noi, e ben vi sta. Finché arriva Putin. E adesso, con Trump, le cose peggiorano. Perché Trump difende l’idea che non ci sia niente di male a avere ottimi rapporti con i russi. Solo che lui è l’America. E se l’America ha buoni rapporti con i russi, vuol dire che la cosa si mette male per noi europei. Qui stiamo. Sentiamo quasi il rumore dei cingolati russi, di nuovo, come a Budapest, come a Praga. Sarebbe il caso che ci diamo una regolata. La Russia è Europa. E non c’è Europa senza la Russia.
TRADIZIONI E MENZOGNE.
Amin al-Hussein, l'Hitler musulmano che fece strage di ebrei, scrive il 13 Aprile 2017 "Libero Quotidiano". E' uno dei segreti più nascosti alla storia ufficiale, quella che si insegna nelle scuole e non solo. E' quella di Amin Al-Husseini, Gran Muftì di Gerusalemme negli anni prima e durante la seconda guerra mondiale. Amico di Hitler e di Mussolini e di molti gerarchi della Germania nazista, fu ospite del Fuhrer nel novembre 1941, quando Hitler era all'apice del successo politico e militare. La sua storia la racconta, parallelamente a quella di un gruppo di bambini ebrei in fuga nell'Europa anti-sionista, Mirella Serri nel suo libro "Bambini in fuga". Al-Husseini fu uno dei personaggi più oscuri e tremendi di quella pagina nera della storia. Sostenitore della "soluzione finale", nei primi anni di guerra aveva chiesto a Hitler di prestargli a guerra finita Adolf Eichmann, considerato uno dei maggiori responsabili dello sterminio degli ebrei in Europa, per procedere alla eliminazione degli ebrei che durante la guerra avevano trovato salvezza in Terra Santa. Fu il creatore della divisione musulmana Handshar (o "scimitarra") delle Waffen-SS e in più occasioni scrisse ai vertici nazisti, come il ministro degli esteri del Reich Von Ribbentrop, per lamentarsi degli scambi che avvenivano tra militari tedeschi prigionieri ed ebrei, sottolineando e ricordando ai tedeschi che il nazismo si era impegnato a combattere l'ebraismo mondiale. A fine conflitto Dieter Wisliceny, il vice di Eichmann poi giustiziato per crimini di guerra, confidò che al-Husseini "aveva avuto un ruolo nella decisione di sterminare gli ebrei d'Europa per impedire che tornassero in Palestina" e che "era stato collaboratore e consigliere di Eichmann e Himmler nell'esecuzione di questo piano". Il Gran Muftì sopravvisse alla guerra trovando rifugio (quando gli inglesi presero la Palestina) prima in Francia e poi in Egitto, dove venne accolto a braccia aperte dai Fratelli Musulmani. Zio del leader dell'Olp Yasser Arafat, morì nel 1974. Due anni prima alì Hasan Salameh, capo dei terroristi di Settembre Nero e figlio di Shaykh Hassan Salameh, fidato luogotenente del Gran Muftì, aveva organizzato e diretto l'assalto dei terroristi palestinesi al villaggio olimpico di Monaco di Baviera che causò la morte di undici atleti israeliani.
Africa svuotata: quasi un genocidio, scrive Nino Spirlì il 30 marzo 2017 su “Il Giornale”. Un enorme, ricchissimo, sconosciuto, in parte inesplorato continente, che sta perdendo la propria identità, prima ancora di essere riuscito a presentarla in maniera dignitosa e reale al resto del mondo. Non sappiamo quasi nulla dell’Anima dei mille e mille popoli africani; tanto che li consideriamo – ignoranti che siamo – un solo popolo di un solo Stato: l’Africa. Di loro e della loro terra abbiamo imparato ciò che ci hanno imboccato a forza quei quattro documentari televisivi sulla caccia all’elefante, l’accoppiamento dei leoni, le corse dei giaguari nelle savane, i “ciondoli” giganteschi dei Masai, lo sfruttamento delle donne dalle mammelle visonate. Di ognuna delle innumerevoli etnie del continente nero, noi uomini occidentali, pur conoscendo usi, costumi e tradizioni, grado di emancipazione, di istruzione, di progresso sociale, rabbie e disincanti, ignoriamo la vera Identità. Oserei dire, la Divinità…Sappiamo, sì, che, da quelle parti, la vita umana vale poco. Che non campano tantissimo. Che studiano in pochi. Che scopano tanto. Che i vaccini e i farmaci li vedono come noi vediamo l’altra faccia della luna. Che quando si incazzano fra loro, si massacrano a machetate. Che i loro grassi e disonesti governanti hanno il culo strapieno di dollari, euro, oro, diamanti, mentre il resto della popolazione di ciascuno Stato africano è strapovera, malata e trattata peggio che uno sputo per via. Sappiamo che i cinesi stanno comprando l’intero continente, pagandolo a suon di mazzette. Che gli americani e i russi, gli inglesi e gli olandesi, i belgi e i francesi, arabi e indiani, da decenni, ne svuotano cave, miniere, mari e foreste. Che gli islamici sono i padroni del petrolio (e non solo di quello) di tutta l’Africa. Che i missionari di tutte le religioni sono amati e odiati, e che, molti di loro, hanno più famiglie del più poligamo degli indigeni stessi. Sappiamo che guerre e stragi, da quelle parti, puzzano più di strategie straniere e di venduti locali, piuttosto che di vere e proprie rivendicazioni autoctone. Sappiamo che qualche potentato massomafiopolitico sta svuotando l’intero continente di braccia forti e ventri fertili, trattenendo solo i vecchi e i deboli, che vengono ammazzati, comunque, in loco con epidemie misteriose e cure fasulle. Insomma, un Genocidio! Un genocidio che sta causando un altro genocidio. Il nostro. Perché quei coglioni africani muscolosi e armati di smartphone e stupefacenti, che si vendono ai disonesti, per venire a pisciare per i viali delle nostre capitali, ammazzano, partendo da casa propria, il proprio popolo; e ammazzano, arrivando, il nostro popolo. Usati da chissà quale “figlio di puttana” che ha messo in atto lo sfruttamento finale dell’ultimo lembo di terra che somiglia, per bellezza e ricchezza, a quei primi sette giorni della Genesi. Ogni partenza da una capanna di canne, una casetta di fango, un condominio sgangherato di Abidjan, Accra, Bamako, equivale ad una resa. Alla consegna della propria Identità ad invasori senza pietà. Ogni sbarco a Lampedusa, Reggio Calabria, Corigliano, Crotone, corrisponde ad un genocidio della nostra gente. Decine di Culture, decine di Identità millenarie, triturate e impastate con un unico scopo: sradicarci, renderci senza passato. Immergere nella nebbia dell’oblio i nostri ricordi. Così potremo essere tutti trasformati in esseri inferiori, da tenere sotto come scimmie ammaestrate davanti ad una catena di montaggio. Fra poco serviremo tutti, bianchi, neri, gialli e rossi, semplicemente per creare profitto per un’oligarchia di sfruttatori, che non ci riconosceranno alcun diritto. Nessuna libertà. O ci ribelliamo subito, o sarà la fine. E, guarda caso, i primi a dover dire NO sono proprio questi cristoni africani! Sono proprio loro che non dovrebbero abbandonare a morte certa genitori, nonni, fratelli, sorelle. Sono proprio loro che dovrebbero armarsi a casa propria e lottare per restare. Per seminare e raccogliere. Per crescere e costruire un vero futuro. Africano. Qui, saranno sempre “quelli delle banlieue, delle periferie”. Per uno che ce la farà, mille coveranno solo odio e frustrazioni. Questo dovrebbero insegnar loro i “professorini” delle cooperative. Anziché far finta di essere santi, andandoli a strappare alle onde del loro mare…Fra me e me.
“Prima che il diritto di emigrare, ogni popolo a dovrebbe avere il diritto di restare nella propria terra”, così – più o meno – il primo santo vivente del XXI secolo Cristiano, Papa Benedetto XVI…
Da Little Bighorn a Standing Rock, scrive Marzio G. Mian il 31 marzo 2017 su "Gli Occhi Della Guerra" de "Il Giornale". Il Grande Spirito della prateria ha gli occhi malinconici del vecchio Victor Douville, Shooting Cat III, storico della cultura Lakota alla Sinte Gleska University: «Siamo divisi. I nostri rappresentanti al Senato non si parlano, le tribù non si parlano. Le generazioni non si parlano. Stiamo ancora trattando con Washington la restituzione delle Black Hills, le terre sacre per i Lakota Sioux espropriate dopo la nostra vittoria a Little Bighorn. I vecchi vogliono la terra, otto milioni di acri, i giovani vogliono il denaro, un miliardo di dollari. Il materialismo ci sta rovinando e le nostre divisioni autorizzano l’uomo bianco a non mantenere i patti, come accade con Trump a Standing Rock». Toro Seduto l’aveva capito. Sulla sua tomba tra gli sterpi nella riserva di Standing Rock, vicino a Mobridge, c’è una lapide con la sua celebre frase: «Quale accordo fatto con l’uomo bianco hanno rotto i Lakota? Nessuno. Quale accordo ha rispettato l’uomo bianco fra quelli fatti con i Lakota? Nessuno».
Il Grande Spirito, sette generazioni dopo, ha lo sguardo triste e implacabile della sua nipotina, la principessa Hanna Reddest, Cigno Bianco, 15 anni. «Secondo le profezie, la mia dovrebbe essere la generazione della nuova speranza – dice – Ma quel che vedo è depressione, alcol, metanfetamina, suicidi, materialismo. C’è tanta energia negativa». Racconta che l’80% delle famiglie nelle riserve vive il flagello della meth, la droga arrivata negli ultimi cinque anni con i cartelli messicani. Che ogni settimana nella nazione indiana un teenager se ne va: «Ho perso tanti amici, quasi venti nell’ultimo anno».
Standing Rock, per i Sioux, doveva essere la nuova Little Bighorn, tutti i popoli Lakota uniti contro l’affronto dell’uomo bianco. Sull’onda delle proteste, in dicembre Obama – forte della sua debolezza di presidente uscente – aveva sospeso la costruzione della Dakota Access Pipeline, progetto da quasi quattro miliardi di dollari che deve portare mezzo milione di barili di petrolio al giorno dai giacimenti del North Dakota all’Illinois. Obama aveva accolto la richiesta della Us Army Corps of Engineers, l’agenzia che sovrintende il sistema fluviale e idrogeologico, per uno studio d’impatto ambientale. Quindi, come previsto, Trump ha invece dato il via libera alla ripresa degli scavi e la protesta dei nativi s’è spostata nei giorni scorsi a Washington con annunci di sabotaggi e di un confronto a oltranza. L’oleodotto è interrato per 1770 chilometri, manca solo l’ultimo tratto, quello contestato dai pellerossa. Un primo progetto era già stato modificato, prevedeva il passaggio dell’oleodotto dai giacimenti di Williston – a Ovest del North Dakota – verso Est e l’attraversamento della condotta sotto il Missouri poco a Nord di Bismarck, la capitale dello Stato. Ma i rischi ambientali («per i bianchi di Bismarck», accusano i Sioux) con un eventuale incidente nel grande fiume avevano fatto deviare gli scavi a Sud e avviato il cantiere per il passaggio del petrolio sotto il lago Oahe, a ridosso della riserva indiana di Standing Rock. La tribù dissotterrò l’ascia della protesta e in poche settimane sulla Piana delle Aquile s’accamparono migliaia di nativi provenienti da tutto il Paese per opporsi a una decisione che non li aveva coinvolti e che metteva in pericolo le falde acquifere.
Ma la lotta dei Sioux di Standing Rock è subito stata cavalcata da tutti gli oppositori del ricco viso pallido appena eletto alla Casa Bianca, sostenitore delle compagnie petrolifere e dell’autosufficienza energetica degli Usa: ambientalisti, Greenpeace, anarchici, membri dell’organizzazione Black lives matter, vip liberal del mondo dello spettacolo, veterani in cerca di guai, nostalgici di Bernie Sanders e ovviamente la carovana degli antagonisti anti Trump sono tutti arrivati dalle metropoli nella grande prateria a sfidare i federali in diretta tv. Mettendo in crisi la ritrovata unità della nazione indiana. «Da secoli non conoscevamo tanta armonia ed euforia», dice Dave Archambault II, chairman dei Sioux nel suo negozio di alimentari a Cannon Ball, nella riserva. «Poi sono arrivati loro e tutto è cambiato, non era più la nostra lotta, i loro slogan non c’entravano nulla con noi. Usavano tecniche di provocazione che non appartengono al nostro mondo. C’erano diecimila dimostranti, molti cercavano l’arresto come un trofeo. Non volevo che ci scappasse il morto, e ho detto che dovevano andarsene». Così Dave è stato subito accusato di essere a libro paga delle compagnie petrolifere, di vendere la sua gente. Anche tra le tribù storicamente nemiche dei Sioux, come i Cherokee, ha cominciato a serpeggiare la maldicenza: «Mi chiamavano DAPL Dave», cioè uomo della Dakota Access Papeline. «Io volevo che la battaglia fosse la nostra, presidio a oltranza sì, ma soprattutto battaglia legale». Il ricorso di Dave si basava sulla storica sentenza federale del 1975 che stabiliva che «mai più nella Storia americana verrà presa una decisione unilaterale che possa disonorante le genti della Grande riserva Sioux».
Dave racconta che molti bianchi cercavano la guerra. «Ma noi sappiamo che dopo la vittoria di Little Bighorn venne la grande oppressione, arrivarono massacri, abbiamo perso tutto ciò che avevamo. Dicevo: andate via ragazzi, non sfidate l’Fbi». Secondo il capo del consiglio Sioux, le ragioni dei manifestanti bianchi hanno oscurato quelle della nazione indiana e incrinato «un momento storico di unità e riconciliazione».
La sconfitta di Standing Rock nell’alto Missouri è solo l’ultimo capitolo del triste declino dei Lakota Sioux. Una storia di marginalità e soprusi subiti. Sempre a causa dell’acqua. Nel dopoguerra Roosevelt pianificò, a partire dal Sud Dakota, un gigantesco sistema di dighe. Sei mega-sbarramenti, da Garrison fino a Fort Peck in Montana: il Muddy Mo, il fiume che secondo i pionieri era troppo denso da bere ma non abbastanza da dissodare, venne addomesticato e trasformato per decreto in turbina nazionale. Si sarebbe governata la navigabilità, ridotto il rischio di piene, creato un sistema d’irrigazione, avviata l’industrializzazione del West e prodotta tanta energia. Tutti obiettivi falliti. Nel 2006 sul fiume hanno viaggiato solo 180mila tonnellate di merci, l’equivalente di un giorno lungo il Mississippi. La grande piena del 2011 che ha colpito Pierre, Omaha e Kansas City dimostra che addomesticare tutto il fiume è impossibile. Gli americani sono bravi a trasportare petrolio, ma non l’acqua. I giganteschi bacini che occupano il 35% del corso del fiume sono alla fine diventati una destinazione turistica. «Ma chi ci ha rimesso di più sono i Sioux», dice Clay Jackinson, docente di studi umanistici alla Bismarck University, uno che ha votato Trump. «Le dighe sono state la peggiore offesa fatta nel Novecento dagli americani ai pellerossa. Le hanno collocate dove facevano il minor danno ai bianchi e il peggiore agli indiani; sono stati allagati cimiteri, villaggi, sentieri di caccia sacri». Dice poi: «Li abbiamo decimati, derubati della lingua, della religione, della terra, gli abbiamo ucciso quattro milioni di bisonti, abbiamo tagliato loro i capelli in ogni modo abbiamo cercato di farli sparire ma loro si sono rifiutati di diventare indiani bianchi. La loro resilienza, alla faccia della conquista, è la cosa più incredibile accaduta in 250 anni in America».
Ma forse non è finita. Perché il clima cambia e anche il Missouri non è più quello d’un tempo. Per i Chiwere era il fiume «delle grandi canoe»; oggi di chi è? Il governo federale chiede ai capitribù di quantificare il fabbisogno d’acqua delle riserve per pianificare una ripartizione in caso di prolungata siccità, ma per gli indiani l’acqua non si può possedere, come non si possiede il cielo o il sole. Si rifiutano di sedersi a un tavolo dove ci si spartisce il Missouri. E così si decide senza di loro.
La balena in realtà era uno squalo: la vera storia di Pinocchio, alcune cose che forse non sapevi. Una storia che tutti conoscono fin da bambini, celebrata e diffusa in tutto il mondo anche grazie al cartoon Disney. Ma siamo sicuri di sapere davvero tutto sul burattino più famoso di sempre? Scrive Francesco de Augustinis. Chi non conosce a menadito l’intera storia di Pinocchio? Il simpatico e sventurato burattino di legno, forgiato dal povero Mastro Geppetto, che viene assistito dalla Fata Turchina e deve affrontare mille peripezie prima di trovare la retta. Oppure no? Una delle più note fiabe di tutti i tempi, l’opera di Collodi ha avuto una lunghissima serie di riedizioni e di trasformazioni, da quando nel 1881 apparve per la prima volta a puntate su “Il giornale per i bambini” con il titolo “Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino”. Oltre al successo che accolse la storia man mano che veniva pubblicata, il libro conobbe una fortuna tale che dura ancora ai giorni d’oggi e ad esso furono dedicati altri racconti, film, opere d’animazione, e via dicendo. Tra le più note, il “Pinocchio” Disney, datato 1940 -coetaneo di Fantasia e di poco successivo al capostipite Biancaneve e i sette nani-, lo sceneggiato televisivo del 1972 firmato Luigi Comencini e infine l’opera del 2002 di Benigni. Una miriade di interpretazioni e adattamenti, che ha creato -in particolare per quanto riguarda il caso Disney- un po’ di confusione sulla vicenda originale. Soprattutto se siete tra quanti si sbalordiscono a scoprire che il Grillo Parlante nella vera storia viene schiacciato e ucciso da Pinocchio con un martello alla prima apparizione, ecco quello che dovete sapere sulla vera vicenda del burattino più famoso del mondo.
1) Pinocchio parlava già prima di essere un burattino. Pinocchio non fu animato quando aveva fattezze di burattino, ma era già vivo come pezzo di legno. Un tronco che nelle prime fasi della storia impazza per il paese, atterra i passanti e persino i Carabinieri, abbatte banchi di frutta, fino a fermarsi davanti la porta di Geppetto che lo modella mentre è già parlante.
2) La morte del Grillo Parlante. Il Grillo Parlante rappresenta la coscienza di Pinocchio. Per questo, nella prima fase della vicenda, il burattino non sopporta la sua ramanzina mentre sta frugando nella casa del padre, e senza fare tanti complimenti lo spiaccica con una mazzetta. Il grillo riapparirà comunque, nelle vesti di fantasma, in diverse occasioni durante il romanzo, perseverando nella sua intenzione di redimere il burattino.
3) I mille volti della Fata Turchina. La Fata Turchina nel libro non agisce da sola ma ha “al suo servizio” tutta una sfilza di animali, tra cui un barboncino-cocchiere, un gruppo di topi che tirano la carrozza e una lumaca-messaggero. La fata nel corso della vicenda cambia diversi ruoli, sebbene sia sempre riconoscibile dal colore dei capelli.
4) Lo squalo e il naso. L’animale che mangia Geppetto e Pinocchio non è una balena, che fu un’invenzione Disney, ma uno squalo gigante. Allo stesso modo, la storia del naso di Pinocchio, che cresce ad ogni bugia detta dal burattino, nel libro caratterizza solo un episodio del racconto mentre sarà il celebre cartone animato a farne il motivo centrale della storia.
5) Un tragico finale. Nelle prime intenzioni di Collodi, la storia avrebbe dovuto concludersi in tragedia, con l’impiccagione del burattino. A mettere in atto la terribile esecuzione sono il Gatto e la Volpe, che dopo aver derubato e legato lo sventurato protagonista, lo appendono ad un ramo di una quercia.
6) La svolta turchina. Quando questo drammatico finale fu pubblicato, alla 15esima puntata, l’effetto sui giovani lettori fu terribile, tanto che l’editore spinse l’autore ad allungare la storia, attraverso l’intervento di un bellissimo ragazzo dai capelli blu – una delle “versioni” in cui appare la Fata Turchina nella storia.
7) Le mille fatiche di Pinocchio. L’impiccagione non è l’unica terribile angheria che Pinocchio deve subire nell’arco della vicenda, pur spesso meritandola con azioni altrettanto riprovevoli. Ad esempio, il burattino viene immerso “cinque o sei volte” nella farina, fino a renderlo bianco dalla testa ai piedi e del tutto simile ad una marionetta di gesso, per poi essere cucinato dentro una pentola! In un altro passaggio al burattino viene infilato “al collo un grosso collare tutto coperto di spunzoni d’ottone”, per fare la guardia come un cane. O ancora, dopo essere trasformato del tutto in un asino, è vestito come una ragazza e costretto a fare danze assurde, o a saltare nei cerchi sul palco.
8) Azione legale. Paragonando il film Disney all’opera originale di Collodi si legge evidente lo sforzo del cartone di rendere più simpatico, dolce e innocente il povero burattino. La storia fu stravolta al punto tale che il nipote di Collodi chiese ai tempi al governo italiano di intentare causa alla Disney per aver eccessivamente americanizzato la creazione dello zio.
"Con una martellata a un quadro sono diventato il Pinocchio di Comencini". Video di Chiara Tarfano il 14 febbraio 2017 su “la Repubblica tv”. Andrea Balestri, che oggi fa l'operaio a Pisa e che nel tempo libero si dedica al teatro, ricorda come conquistò il ruolo di Pinocchio nel celebre sceneggiato tv "Le avventure di Pinocchio" di Luigi Comencini con Nino Manfredi, Franco Franchi, Ciccio Ingrassia e Gina Lollobrigida. "Tirai una martellata a un quadro e Comincini mi scritturò". E la scena più difficile? "Quando dovevo piangere sulla tomba della fatina, non c'era feeling con Gina Lollobrigida..."
L’incontro storico: Alabardieri di Monza e Guardie svizzere. Sono i due soli corpi armati del Papa, e fino ad ora non si sono mai incontrati. Quello lombardo nacque con Teodolinda. L’invito in Vaticano tra un mese. Il Comandante: «Saremo accanto a Bergoglio nell’udienza pubblica», scrive Rosella Redaelli il 7 marzo 2017 su “Il Corriere della Sera”. Alla casa dello Spinapesce nella Canonica del Duomo c’è gran fermento. È arrivata la notizia ufficiale: il 26 aprile gli Alabardieri del Duomo di Monza saranno in visita in Vaticano ed incontreranno per la prima volta nella storia le Guardie svizzere dello Stato Pontificio. «È un evento storico — racconta Giorgio Villa, 72 anni, ex imprenditore, da quattro anni Comandante del Corpo degli Alabardieri di San Giovanni —. Per la prima volta gli unici due corpi armati della Chiesa si incontreranno».
Come siete riusciti ad organizzare questo incontro?
«Grazie all’interessamento di Giorgio Fontana, presidente delle bullonerie Fontana di Veduggio. Quando ha saputo del desiderio di incontrare le Guardie svizzere si è subito mosso presso il Vaticano riuscendo a stabilire un contatto».
Come vi state preparando all’evento?
«Dobbiamo mettere a punto le divise, le nostre risalgono ai tempi di Maria Teresa d’Austria e hanno gli stessi colori di quelle delle guardie svizzere, faremo qualche prova di marcia, poi c’è da preparare la spedizione delle alabarde e delle spade. Abbiamo già ottenuto il permesso dalla Prefettura di Monza per farle viaggiare da Monza a Roma e farle entrare in San Pietro. Noi ci muoveremo invece in treno con le nostre divise».
Cosa è previsto a Roma?
«Siamo attesi alle 8 del mattino in Vaticano. Indosseremo le nostre divise, la spada e l’alabarda e saremo accanto al Santo Padre durante l’udienza pubblica del mercoledì. Per la prima volta presteremo servizio accanto alle Guardie Svizzere».
Cosa dirà al Comandante delle Guardie Svizzere?
«Gli dirò che è fortunato. Le Guardie Svizzere sono note in tutto il mondo. Purtroppo gli alabardieri di Monza hanno una storia antichissima, ma sono poco conosciuti anche tra gli stessi monzesi, se non da coloro che frequentano le celebrazioni in Duomo. Siamo un gruppo di venti volontari, ma cerchiamo sempre nuove reclute».
Quali caratteristiche deve avere un Alabardiere?
«Da statuto deve essere una persona tra i 20 e i 40 anni di dimostrata fede cattolica, cittadinanza italiana, residenza in Lombardia da almeno tre anni e altezza compresa tra i 170-190 centimetri. Chi presenta domanda dove sostenere un colloquio con il comitato di selezione che, con voto segreto, decide l’ammissione. La cerimonia di giuramento avviene sempre il 23 giugno e il primo servizio attivo il giorno successivo in occasione del giorno di San Giovanni».
Sono nate prima le Guardie svizzere o le monzesi?
«La vicenda è complessa perché se sappiamo che le Guardie vaticane nascono nel 1479 con un primo accordo di Papa Sisto IV, il primo documento scritto che testimonia l’esistenza degli Alabardieri è del 1700. In un editto di Maria Teresa d’Austria della metà del ‘700 si dice però il Corpo esiste da tempo immemorabile. L’ipotesi più accreditata è che siano nati con il Duomo a protezione di Teodolinda e del Tesoro, quindi già VI secolo».
Il Comandante della Guardia svizzera ha dichiarato che in futuro, nel corpo potrebbero essere arruolate anche le donne. Lei vede questa possibilità anche tra gli Alabardieri di Monza?
«Perché no? Potrei proporlo al prossimo consiglio».
La grotta, il bue e l'asinello quante bugie si dicono a Natale. Gesù non sarebbe nato il 25 e Maria non venne cacciata dagli alberghi, ma le credenze e la Storia si sono mescolate, scrive Elisabetta Broli, Lunedì 19/12/2016 su "Il Giornale". L'importante è che non lo sappiano i bambini: Gesù non è nato il 25 dicembre, non è nato neanche nell'anno zero. E poi: a Betlemme non c'erano il bue e l'asinello, Gesù non è nato di notte in una grotta - i Vangeli non lo precisano - Giuseppe e Maria non furono cacciati dagli alberghi. La colpa è della tradizione popolare che, la fede ha bisogno anche di «immagini», ha diffuso nei secoli innocue bugie intorno a fatti e personaggi delle Sacre Scritture.
I DUBBI SULLA DATA DI NASCITA. E infatti chi lo dice che Gesù è nato il giorno di Natale? Scrive Luca nel suo Vangelo: «Ora, mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto». Nessuna data. Il 25 dicembre (fondamentale per i negozianti) è una data convenzionale, comparsa per la prima volta (inserita da chi?) in un calendario a Roma nel 326, a pochissimi anni dall'editto di Milano che concesse a tutti i cittadini dell'Impero la libertà di culto, cristiani compresi. Poi la data fu fissata nel 354 da papa Liberio e cominciò a essere accettata da tutta la Chiesa. Nel 425 l'imperatore Teodosio ne codificò i riti, nel 506 divenne festa di precetto e nel 529 anche festa civile. Da ottocento anni è la festa più popolare tra i cristiani (mentre dovrebbe essere la Pasqua, un conto è nascere, nasciamo tutti, un conto è risorgere). Ma perché il 25 dicembre e non il 9 aprile? Due, tremila anni fa le culture festeggiavano, il 21 dicembre, le giornate che improvvisamente smettevano di accorciarsi con il sole che rinasceva. In Egitto si ricordava il dio Horus, divinità solare figlio della vergine Iside; nella mitologia nordica un «figlio di Dio», Frey; i romani nello stesso periodo festeggiavano i Saturnali, una specie di Carnevale d'inverno con banchetti, giochi e scambio di doni. Nel 274 l'imperatore Aureliano scelse il 25 dicembre per consacrare un nuovo tempio al Sole invitto, alias il dio Mitra vincitore delle tenebre e caro agli ambienti militari. Anche per la simbologia cristiana Gesù era il sole che nasce, il sole della giustizia: perché non approfittare di questa data? Insomma, una data simbolica scippata al paganesimo e reinterpretata in base alla teologica cristiana? Quello che è certo, invece, è che Gesù non è nato nell'anno zero e di conseguenza non è morto a 33 anni. Cristo è nato cinque o sei anni...prima di Cristo. Tutta colpa di un certo Dionigi il Piccolo, un monaco russo matematico che nel VI secolo dopo complessi calcoli credette di identificare l'anno esatto della nascita di Gesù. Senza computer e neppure una piccola calcolatrice elettrica, si confuse fissando il punto zero della storia (in cui con la venuta di Gesù il tempo ha invertito il senso di marcia) nell'anno 753 dopo la fondazione di Roma. Studiando con più attenzione le fonti storiche si è però scoperto che re Erode è morto tra marzo e aprile dell'anno di Roma 750 (l'attuale 4 a.C.), quando Gesù era già nato, da quello che dice l'evangelista Matteo sulla strage degli innocenti, ordinata da Erode contro i bambini «da due anni in giù». Insomma, le ipotesi storiche oggi più accreditate lo danno nato dal 5 al 7 a.C., litigando con chi sostiene che Dionigi il Piccolo è nel giusto.
IL SIGNIFICATO DEL BUE E DELL'ASINELLO. Anche sul bue e l'asinello, da mille anni inseriti in coppia nel presepe, qualche precisazione va fatta, partendo sempre dai Vangeli: non ne parlano. Come ci sono finiti? Il primo a inserirli, ma al terzo giorno, quando Maria sarebbe arrivata in una stalla, fu il Vangelo apocrifo dello Pseudo-Matteo: è qui che i due animali si accostano alla mangiatoia e si inginocchiano. Tutti i testi antichi sono d'accordo nel dire che il bue e l'asinello non avevano la funzione di calorifero a fiato, ma quello di simbolo di adorazione, portando a compimento le scritture: «Il bue conosce il proprietario e l'asino la greppia del padrone» (Isaia); e secondo il libro dei Numeri l'asina di Balaam riconobbe l'angelo del Signore prima del suo padrone indovino. Gli hanno incollato addosso un po' di teologia. Secondo san Gerolamo l'asino significa l'Antico testamento e il bue il Nuovo; per san Bernardo l'asinello è il simbolo della pazienza virtuosa, il bue secondo Riccardo di san Vittore è segno dell'umiltà evangelica.
GROTTA SPERDUTA O MANGIATOIA. Via dal presepe anche la grotta sperduta nella campagna e isolata dal resto del mondo, e spazio alla mangiatoia come dice l'evangelista Luca, oppure semplicemente a una casa come scrive Matteo. Anche perché è verosimile: molte abitazioni della Palestina erano addossate a cavità della roccia, che custodivano gli animali. La «grotta» in cui nacque Gesù a Betlemme, conservata nella basilica, secondo studi archeologici è proprio un locale di questo tipo, incorporato nel recinto di una casa e non isolato nella campagna.
QUANTI ERANO I RE MAGI. La lista delle credenze prosegue nel post-Natale: i re Magi non erano tre; forse quattro o due, c'è chi sostiene fossero sessanta, e comunque non erano re. Non è vero che Babbo Natale sia a-cristiano e la Befana pure...Tutto questo, naturalmente, non inficia la fede. A chi crede sta bene anche che Gesù sia nato il 14 maggio e in un albergo ai Caraibi: beato lui!
Nessun suicidio. Hitler fuggì dall’Italia? Scrive il 15/02/2017 Enzo Caniatti su “Il Giornale”. Le (poco note) verità storiche dietro il thriller di Enzo Caniatti “Il signor Wolf”, che ipotizza la fuga di Adolf Hitler dall’Italia. E che prende il nome dall’ Operazione Wolf, la missione segreta che Stalin affidò ad una speciale dell’NKVD (il servizio segreto sovietico antesignano del KGB) per accertarsi che, a Berlino, il Fuhrer fosse veramente morto. Tra i carcerati nazisti era nota come Spinne (ragno). All’apparenza non aveva nulla di segreto ed era ben nota anche alle forze alleate che controllavano i campi di internamento. Secondo alcune fonti era nata spontaneamente a opera di un piccolo gruppo di SS internate nel campo di Glasenbach in Austria per mantenere i contatti con le proprie famiglie e “darsi una mano” tra vecchi camerati. Secondo altre invece la Spinne era qualcosa di ben più sinistro. Noto ben presto in tutte le zone occupate dagli Alleati, il comitato di mutuo soccorso si incaricava di fare pervenire ai parenti le lettere dei prigionieri. Attraverso questa innocente via venne stabilita un’efficiente rete di contatti fra i nazisti che si trovavano internati e l’organizzazione clandestina messa a punto prima del crollo del Terzo Reich. Pochi ne conoscevano il nome O.D.E.S.S.A (Organisation der SS-Angehšrigen) ovvero Organizzazione dei membri della SS. Non esistono documenti ufficiali che ne provino l’esistenza, ma secondo alcuni storici e ricercatori Odessa era, e probabilmente è ancora, la più segreta organizzazione di mutuo soccorso degli ex appartenenti all’Ordine Nero. A metterla in piedi furono due alti gerarchi del partito nazista noti come la Sfinge e lo Sfregiato: il Reichsleiter Martin Bormann e l’Obergruppenfuhrer Ernst Kaltenbrunner. Il cinico e pragmatico segretario del Partito e il massimo responsabile dell’insieme delle polizie naziste raggruppate sotto lo RSHA. Da Kaltenbrunner dipendevano anche la Gestapo e la mostruosa macchina di morte dei campi di sterminio che il Dottore si applicò a perfezionare. Refrattario al mondo occulto del suo grande méntore il Reichsfuhrer-SS Heinrich Himmler, Kaltenbrunner ne eseguiva coscienziosamente gli ordini, ma non condivideva il suo ottimismo sulla vittoria della Germania o, in seconda battuta, sulla possibilità, una volta uscito di scena Hitler, di trovare un accordo con gli Alleati e salvare se stessi e il regime nazista. Apprezzava invece il cinico pragmatismo di Bormann col quale finì per stringere una segreta alleanza che probabilmente lo avrebbe condotto a prendere il posto di Himmler se questi fosse caduto in disgrazia agli occhi di Hitler. Quando però ciò avvenne, mancò il tempo per la nomina ufficiale. Sia la Sfinge Bormann che lo Sfregiato Kaltenbrunner non avevano alcuna intenzione di suicidarsi: prepararono quindi per tempo un piano di fuga non soltanto per sé, ma anche per i loro accoliti. Impossibile attualmente stabilire quale delle due menti ideò l’organizzazione segreta che, immediatamente dopo la caduta del Terzo Reich, iniziò a occuparsi degli “orfani” della croce uncinata. Da documenti del CIC (il servizio di informazione americano) risulta che a Bad Aussee in Austria, prima della fine delle ostilità, fu installata una centrale SS dove si fabbricavano false carte d’identità e falsi passaporti. L’ordine di mettere in piedi una stamperia segreta era venuto da Kaltenbrunner che nella zona di Bad-Ischl, Ebensee, i monti dei Morti e Mitterndorf aveva creato un ridotto alpino forte di 1500 uomini. Un’intera rotativa era stata trasportata in gran segreto, un pezzo per volta, a Bad Aussee: qui era stata rimontata pronta a entrare in funzione qualora il Reich millenario avesse cessato d’esistere. Kaltenbrunner non riuscì a usufruire dei servigi dell’organizzazione. Catturato, fu colpito da ictus: ciò non impedì però ai giudici del tribunale internazionale di Norimberga di condannarlo all’impiccagione per crimini di guerra e contro l’umanità. Lo RSHA non lasciò comunque allo sbando gli uomini del suo formidabile apparato poliziesco. Sul solo territorio tedesco non c’erano meno di 45.000 funzionari e impiegati della Gestapo e 65.000 membri dell’SD (il servizio di sicurezza delle SS). Risulterebbe che quantomeno i quadri più elevati ottennero “nuove identità” fabbricate dai servizi specializzati del RSHA. Furono inoltre stabiliti codici segreti per comunicare, al riparo da controlli di censura da parte dei vincitori. Quando i nazisti lasciavano i campi di internamento, venivano subito arruolati nella nuova organizzazione clandestina. Gli investigatori della Commissione per i Crimini di Guerra, gli agenti dell’OSS (il servizio segreto americano antesignano della CIA) e del CIC scoprirono nel 1947 gli itinerari seguiti dai gerarchi nazisti per fuggire dalla Germania. Individuarono tre principali direttrici. La prima conduceva dalla Germania all’Austria e all’Italia e di qui alla Spagna. La seconda puntava verso i Paesi arabi del Vicino Oriente e la terza consentiva di raggiungere alcuni Paesi del Sud America. Che partissero da Berlino, Brema, Francoforte, Augusta, Stoccarda o Monaco la prima meta era l’Allgäu, un’isolata zona boschiva nella Baviera meridionale vicina ai confini svizzeri e austriaci. Molti percorsi convergevano su Memmingen, pittoresca cittadina medievale nel cuore dell’Allgäu tra la Baviera e il Wurttemberg. Lì partivano due vie. Un itinerario conduceva a Lindau sul lago di Costanza, dove si biforcava di nuovo in un percorso verso Bregenz in Austria e in un altro verso la Svizzera. Apparve presto evidente che queste vie di fuga erano state attentamente preparate non certo da individui isolati, ma da una complessa organizzazione clandestina che disponeva di uomini, mezzi e un fiume di denaro. Gli investigatori scoprirono che tra i nazisti il percorso Nord-Sud era noto come “l’asse B-B” ovvero Brema-Bari. Il CIC chiamò le vie di fuga, in modo più appropriato, “Rat Lines”, le vie dei ratti. Il maggiore SS Walter Rauff è un personaggio poco noto dell’universo nazista, eppure, secondo alcune fonti, questo abile capo dell’SD per l’Italia del Nord fu l’uomo di punta scelto da Kaltenbrunner e Bormann per preparare la via di fuga ai gerarchi nazisti verso l’Italia sotto la protezione delle alte gerarchie del Vaticano. Rauff nacque a Kšthen, vicino a Dressau, nel 1906 e, sino al Natale del 1942, la sua fu la vita di un oscuro funzionario dell’SD inviato come delegato generale in Tunisia. Un avamposto di trascurabile importanza, dove la popolazione araba non dimostrava grande simpatia per i tedeschi e non aveva intenzione di perseguitare la ricca comunità ebraica che vi era insediata da molti secoli e con la quale conduceva eccellenti affari. Tutto cambiò quel Natale, quando Rauff fu convocato a Berlino dove incontrò prima Kaltenbrunner e poi Bormann. Quali furono gli ordini non è dato saperlo ma, tornato in Tunisia, Rauff trasferì il suo quartiere generale da Cartagine a Tunisi e l’organico passò da 48 a più di 200 uomini. Con un colpo di mano Rauff fece arrestare tutti i più importanti e influenti rabbini, notabili e commercianti della comunità ebraica di Tunisi. Li fece condurre a Cartagine e li informò che aveva ricevuto ordine da Berlino di trasferire tutti gli ebrei in Germania. Da abile giocatore attese che il suo auditorio fosse in preda allo sgomento e allo sconforto prima di proporre “un patto”: lui aveva il potere di rimandare a data indefinita il trasferimento, in cambio però la comunità ebraica doveva versare mezza tonnellata d’oro. Alcune testimonianze sostengono che il prezzo del riscatto fu effettivamente versato in più rate, anche se non fu mai registrato o inviato a Berlino. Si dice che Rauff riuscì a far trasportare l’oro in Portogallo attraverso il Marocco spagnolo. Qui fu fuso e venduto sulle piazze di Londra e Amsterdam. Lo Sturmbannfuhrer non approfittò però del bottino, che servì invece a finanziare la rete segreta ideata dai suoi capi. Dopo il successo dell’operazione Tunisi, le quotazioni di Rauff salirono notevolmente. Risulta che incontrò ben otto volte Bormann, il quale gli affidò probabilmente l’incarico più delicato: sondare gli umori delle gerarchie vaticane in previsione di una richiesta d’aiuto per salvare i “cattolici” nazisti dai “senza Dio” bolscevichi. Nominato, nell’autunno 1943, capo dell’SD dell’Italia del Nord, Rauff iniziò a tessere la sua tela recandosi più volte a Roma. Rinnegando, in quanto SS, i dogmi pagani del suo capo supremo – il Reichsfuhrer-SS Heinrich Himmler – Rauff, grazie ai buoni uffici di monsignor Hudai, capo spirituale dei cattolici tedeschi nella Penisola, strinse solidi rapporti con alcuni prelati che avevano libero accesso in Vaticano e conquistò alla sua causa monaci francescani, gesuiti, domenicani, preti croati, padri superiori di conventi posti in posizioni strategiche sulle potenziali vie di fuga. La maggioranza di loro non era assolutamente nazista, ma riteneva che la croce uncinata fosse il male minore davanti alla travolgente avanzata di falce e martello. Grazie a questa rete di connivenze e protezioni Rauff assicurò all’organizzazione una serie di rifugi gli uni collegati agli altri, che partendo da Roma permettevano di raggiungere i porti di Genova e Bari. Per alcuni ricercatori la rete Spinne e le Vie dei Ratti furono solo il preludio, in attesa che fosse pronta a entrare in funzione la complessa e tentacolare organizzazione nota come Odessa. In Germania gli americani che avevano vinto la guerra erano tornati negli Stati Uniti, sostituiti nei vari organi che davano la caccia ai criminali di guerra da funzionari che avevano vissuto in patria o combattuto su altri fronti. L’oscuro e labirintico universo nazista era a loro del tutto sconosciuto. Le ricerche divennero meno capillari e i controlli più blandi. Era il momento ideale per i grandi criminali rimasti nascosti in rifugi sicuri di lasciare la Germania e rifarsi una nuova vita in qualche ospitale Paese del Sud America. Della loro fuga si occupò Odessa. Fra i suoi principali “clienti” ci furono Eichmann, il burocrate dello sterminio; Mengele, il dottor morte di Auschwitz, e probabilmente lo stesso Bormann. In brevissimo tempo l’Odessa creò una capillare rete di contatti e di trasporti. Riuscì per esempio a inserire suoi uomini tra gli autisti tedeschi reclutati dagli americani per trasportate sull’autostrada da Monaco a Salisburgo The Stars and Stripes, il giornale dell’esercito statunitense. I corrieri avevano fatto domanda di assunzione sotto falsi nomi e a Monaco i servizi di sicurezza americani avevano “dimenticato” di controllare la loro identità. Risultato: nascosti al sicuro tra i pacchi di giornali su camion militari americani che nessuna guardia di confine si sarebbe mai sognata di controllare, viaggiavano piccoli e grandi criminali della croce uncinata. La rete era completa ed efficiente. Ogni 60 – 70 chilometri c’era una Anlaufstelle (scalo), composta da un minimo di tre a un massimo di cinque persone. Il gruppo conosceva solo l’ubicazione dei due scali più vicini: quello dal quale provenivano i fuggiaschi e il successivo verso il quale dovevano essere condotti. Le Anlaufstellen erano ben mimetizzate: un capanno di caccia abbandonato, una baita, un’anonima locanda, un alpeggio isolato vicino al confine. Qui i viaggiatori restavano per qualche giorno o anche settimane in attesa che fosse venuto il momento propizio per la prossima tappa del lungo viaggio; a volte lunghissimo visto che spesso li conduceva per mare negli ospitali lidi dell’America Latina dove li attendeva una nuova vita sotto l’ala protettrice di Odessa. Gli scali vennero costituiti lungo tutto il confine austro-tedesco e soprattutto a Ostermiething, nell’alta Austria, a Zell am See nel distretto di Salisburgo e a Igls, presso Innsbruck nel Tirolo. Vi era poi una cosiddetta “via dei monasteri” fra l’Austria e l’Italia. Gli enormi capitali necessari per gestire un simile movimento venivano sia dal bottino “messo da parte” sia dalle imprese più o meno lecite che operavano all’ombra di Odessa. Per esempio si scoprì che a Lindau era stata costituita una società di “esportazioni e importazioni” con sedi al Cairo e a Damasco gestita da un certo Haddad Said che in realtà altri non era che lo SS-Hauptsturmfuhrer Franz Ršstel: organizzava gli espatri dei suoi camerati. Tra le ipotesi più sconcertanti c’è quella che Odessa abbia aiutato a fuggire verso gli ospitali lidi del sud America anche Adolf Hitler: il suo presunto suicidio, avvalorato dalla storiografia ufficiale, sarebbe quindi soltanto un’abile messa in scena.
Perché odio mio zio Adolf Hitler: venduto il celebre articolo scritto dal nipote, scrivono il 6 maggio 2017 Silvia Morosi e Paolo Rastelli su “Il Corriere della Sera”. Per chi ama la Storia è sicuramente tra gli articoli più interessanti del secolo scorso. “Why I hate my uncle” (tradotto in “Perché odio mio zio”) venne pubblicato il 4 luglio del 1939 – in sei pagine come ricorda il Mirror – sulla rivista statunitense “Look”, fondata da Gardner “Mike” Cowles junior con il fratello John (vi collaborò anche Stanley Kubrick). A scriverlo fu William Patrick Hitler (nato nel 1911 in Inghilterra, a Liverpool), il figlio di Alois jr., fratellastro del Führer. William fu costretto a fuggire negli Stati Uniti dopo aver tentato di ricattare il leader nazista, minacciandolo di rivelare ai giornali informazioni private e aneddoti della sua vita. Un esempio? Il modo in cui Hitler usava la frusta, o ancora come amasse “intrattenersi con le belle donne”. Come spiega il Guardian, l’articolo è tornato oggi a far parlare di sé dopo essere stato venduto per oltre 700 sterline (circa 885,59 euro). La prima traccia di queste testimonianze, raccolte in un diario, era riaffiorata nel 2014 negli Usa. In quell’occasione si scrisse degli eredi del Führer: «Si vergognano delle loro radici, hanno cambiato nome e paese». Cosa successe a William? A 19 anni, Willy – come lo chiamava il padre – approdò in Germania per sostenere il partito nazionalsocialista, ma sua madre raccontò: «Non c’è molta intesa con Adolf». E fu lui stesso a scrivere il 5 gennaio 1935: «Non è colpa mia se sono ancora in questo luogo spaventoso». Aggiungendo, dieci giorni dopo: «Ho ricevuto una lettera da mamma. Sono disperato, non vedo via d’uscita». Nel 1939 espatriò per raggiungere gli Usa dove combattè per la Marina. Cambiando anche il suo nome in Stuart Houston, nel 1946. Il suo non era certo semplice da portare. Da una donna tedesca ebbe quattro figli: Alex, Louis e Brian, 48; l’ultimo Howard, morì a 32 anni. Il padre di William, Alois, si era sposato con l’irlandese Brigid Dowling e con lei si era trasferito a Liverpool. Pochi anni dopo aveva lasciato la moglie e il figlio ed era tornato in Germania, dove si era risposato (qui si trova tutto l’albero genealogico). Si era rifatto vivo solo negli anni Venti, quando la nascita della Repubblica di Weimer l’aveva spinto a chiedere al figlio di andare a far carriera in Germania. Nel 1933, a 23 anni, William si era trasferito dal padre e aveva conosciuto Hitler. Sperando, inutilmente, che lo zio l’aiutasse. Il Führer l’aveva immediatamente preso in antipatia: Willy era definito da Hitler «il mio odioso nipote» e solo in seguito alle pressioni di Alois l’uomo più potente della nuova Germania lo aveva inserito prima in una banca, poi alla Opel e infine aveva cercato di disfarsene. William morì a New York nel 1987 (aveva capito che per trovare lavoro in Germania avrebbe dovuto prendere la cittadinanza tedesca, e si rifiutò). Come “ricattare” lo zio Hitler? L’articolo è stato scritto due mesi prima dell’inizio della Seconda Guerra mondiale, quando William già viveva negli Usa con la madre, e racconta alcuni dettagli che soltanto un parente stretto di Hitler avrebbe potuto conoscere. Si parla ad esempio di una visita nella casa del Führer, nel 1936. “Stava prendendo del tè in compagnia di belle donne. Quando ci vide si alzò e, con un colpo di frusta, colpì dei fiori. Colse l’occasione per avvertirmi di non dire mai di essere suo nipote, poi tornò dai suoi ospiti fendendo l’aria con la frusta… Avevamo torte e panna montata, il suo dessert preferito. Sono rimasto colpito dalla sua profondità, dai suoi gesti femminili. C’era della forfora sul suo cappotto”. “We had cakes and whipped cream, Hitler’s favourite dessert. I was struck by his intensity, his feminine gestures. There was dandruff on his coat.” Negli anni si disse che, visto l’odio che lo zio provava per lui, William avrebbe cercarlo di minacciarlo, raccontando alla stampa che il nonno paterno di Hitler era in realtà un mercante ebreo. E che, quindi, lo stesso Führer avesse sangue ebreo. I suoi articoli non andavano a genio a Hitler che arrivò a convocarlo a Berlino, accompagnato dalla zia e dal padre. “Era furioso. Mi ha fatto promettere di ritirare i miei articoli, minacciando di uccidersi se fossero trapelati altri dettagli della sua vita privata”, racconta. William descrive poi una visita a Berlino, quando la famiglia stava affondando un brutto periodo a seguito della morte della nipote di Adolf. “Geli Raubal, figlia della sorella di Hitler e di mio padre, si era suicidata. Tutti sapevano che aveva avuto una relazione con Hitler e che aspettava un figlio da lui. Questo infastidiva molto mio zio. La sua revolver è stata trovata vicino il corpo della nipote”. “When I visited Berlin in 1931, the family was in trouble. Geli Raubal, the daughter of Hitler’s and my father’s sister, had committed suicide. Everyone knew that she and Hitler had long been intimate and that she had been expecting a child – a fact which enraged Hitler. His revolver was found by her body.”
QUELLI CHE...SON SOLIDALI.
Gli affari delle Coop con i bambini in comunità, scrive l'1 Giugno 2017 Claudia Osmetti su “Libero Quotidiano”. A farne le spese sono i circa 35mila bambini che vivono nelle case famiglia o nelle comunità destinate ai minori. Circa, perché allo stato dei fatti non c' è manco un computo preciso di quanti piccoli, in tutto il territorio nazionale, siano effettivamente ospiti di queste strutture. Sono i figli di nessuno, quelli abbandonati dai genitori e presi in carico dallo Stato, o quelli allontanati dalla famiglia d' origine con una decisione del tribunale. Sulla loro pelle, però, passano scartoffie e carte bollate, incertezze normative e vuoti istituzionali, giri d' affari impressionanti e gestioni poco trasparenti. Basti pensare che il business di questa assistenza vale, all' anno, più di 1 miliardo di euro. Ma a snocciolare il quotidiano di questi ragazzini c' è molto di più. «Ci hanno raccontato che gli istituti dove, in passato, suonava la campanella per richiamarli non esistono più», racconta Cristina Franceschini, avvocato veronese e presidente della onlus Finalmente Liberi che si occupa (da anni) delle problematiche legate al mondo dell'affidamento minorile. Si riferisce forse alla chiusura degli orfanotrofi, sancita dalla legge n. 149 del 28 marzo 2001 e prevista entro il 31 dicembre 2006, con conseguente ricollocamento dei minori in comunità di accoglienza, case-famiglia e, dove possibile, presso famiglie affidatarie o adottive. «Ovvio, tutto quello che può migliorare la loro vita va bene, ma nel complesso c' è qualcosa che non torna». A cominciare dalla questione portafogli: le rette degli ospiti di queste strutture si aggirano su una media che va dai 70 ai 120 euro al giorno, eppure ci sono casi in cui toccano addirittura i 400. Non proprio bruscolini, se in un mese l'esborso è di 12mila euro. A bambino. Cioè 144mila euro all' anno. Per una cifra simile, insomma, dovrebbero vivere da piccoli principi. E invece spesso non hanno nemmeno un numero adeguato di educatori che li segue. I costi per i minori in questione sono tutti, senza eccezioni di sorta, a carico dei Comuni, cioè sul conto spesa dei contribuenti. Niente di male, intendiamoci: questi piccoli hanno bisogno di un aiuto concreto, e le istituzioni non possono e non devono tirarsi indietro. È l'ammontare complessivo e la sua gestione, semmai, che lasciano qualche dubbio. Come detto, dopo la chiusura dei vecchi orfanotrofi, ecco le "case famiglia" (dovrebbero essere - certezze, ovviamente, nessuna - 1800 in tutto lo Stivale) e le "comunità" che si dividono in terapeutiche ed educative. L' inserimento in una di queste è, parola del Garante per l'infanzia, l'ultima spiaggia, ma in realtà sta diventando una prassi consolidata. «Tanto spesso ci sono delle cooperative che all' interno del proprio nucleo hanno diverse case famiglia che si trovano magari anche nello stesso palazzo», spiega Franceschini, «così alla fine diventano dei veri e propri istituti. Dovrebbe esserci un educatore ogni due bambini, ma spesso questo non avviene: ci sono comunità dove, di notte, è presente solo un adulto con dieci ragazzi». D'altro canto, anche i controlli lasciano il tempo che trovano. Report semestrali mancanti, banche dati non ancora operative, statistiche mai stilate: tanto per capirci, nessuno ha mai messo nero su bianco quante risorse siano state in concreto investite per la cura di questi ragazzi. «Le procure visitano le comunità solo su segnalazione, e nella maggior parte dei casi si basano esclusivamente sulle auto-certificazioni. Questo non basta», continua l'avvocato. E a livello di raccordi locali va anche peggio: tra una regione e l'altra, infatti, non esiste nemmeno la stessa nomenclatura, per cui anche gli addetti ai lavori finiscono per perdersi. «Servirebbe un organo terzo che faccia i controlli, almeno a campione», chiosa Franceschini, «e che spulci tutto: dalla scheda dei minori, al percorso che stanno seguendo, fino ai prodotti che sono contenuti nel frigorifero di casa. Sarà pure una banalità che fa sorridere, ma quando si tratta dei nostri bambini non possiamo lasciare nulla al caso».
Gli affari delle coop sulla pelle degli orfani. Sono 20mila i bimbi senza famiglia contesi da associazioni non sempre trasparenti che cercano facili guadagni. Perché ogni piccolo «rende» 140mila euro all'anno, scrive Maria Sorbi, Mercoledì 28/06/2017, su "Il Giornale". Siamo il Paese record per le adozioni a distanza: stacchiamo assegni per i bambini africani e a Natale rispondiamo alle loro letterine. Ma ci dimentichiamo degli orfani di casa nostra. O meglio, ce ne ricordiamo solo quando capiamo che possono rappresentare un business succulento. Attorno alle sofferenze degli oltre 20mila minori soli (dato del 2014) ruota un ingranaggio poco limpido di burocrazia, associazioni e cooperative - nate come funghi negli ultimi tempi - che si accapigliano per poter gestire case-famiglia e comunità. Non sempre per generosità, ma perché, molto più biecamente, il «listino-orfani» rende parecchio, fino a 140mila euro all'anno a minore. Stranieri non accompagnati compresi: usciti dai centri di accoglienza, dove percepiscono una diaria di 45 euro al giorno, anche i figli dei migranti valgono rette pari a quelle dei bambini italiani. Il disordine nel mondo delle comunità per i minori è tanto e la mancanza di una legge nazionale che uniformi le regole. C'è un aspetto che inquieta più di tutti: per le cooperative un bambino adottato significa una retta in meno. Già i tempi per affidi e adozioni sono molto lunghi (le coppie in attesa sono oltre diecimila), se poi a questo si aggiungono la nebulosa dei rimborsi e gli appetiti sulla scia dell'emergenza, allora la matassa diventa ancora più intricata. Intanto i bambini se la cavano da soli: se va bene in comunità dove vengono amati e aiutati a crescere, se va male in luoghi in cui rischiano persino di diventare vittima di abusi sessuali. I più grandicelli hanno anche imparato a non piangere più, tanto nessuno va a consolarli.
Peggio che al mercato. Il meccanismo dei rimborsi spese alle comunità è opaco. Solo che in ballo non c'è merce da barattare, ma ci sono bambini da crescere. Ogni Comune ha le sue tariffe: un ventaglio molto ampio che va dai 70 ai 400 euro in base all'assistenza. Dove la legge regionale non stabilisce quote minime e massime, regna l'anarchia e c'è spazio per business sospetti che celano, dietro accoglienza ed educazione, molti interessi. Significa che non sempre le rette da hotel a cinque stelle corrispondono a un buon servizio di assistenza. La media nazionale delle quote si aggira attorno ai 120 euro a minore ma ci sono centri che si fanno pagare tre volte tanto. I casi più clamorosi sono quelli di una comunità a Bastia, in provincia di Perugia, che costa 395,20 euro al giorno a bambino, e una di Vazzola, in provincia di Treviso, che per anni ha chiesto 400 euro al giorno per minore (ridotti a 200 dopo la denuncia in Regione). Potenzialmente i casi potrebbero essere molti di più ma le verifiche non sono semplici. Il motivo? Mancano i controlli e ci sono vuoti legislativi tali da trasformare il capitolo tariffe in una giungla. Il paradosso è che non in tutte le regioni i 400 euro a minore sono un reato, da nessuna parte sta scritto che non si può fare. E allora si fa. Se le comunità prestano assistenza terapeutica, con medici e neuropsichiatri, il rimborso arriva a 300 euro per ospite ma anche in questo caso c'è spazio per qualche trucchetto. Ci sono ex orfanotrofi che fanno passare i (comprensibili) disagi degli adolescenti soli per «disturbi psichiatrici» in modo da renderli più «redditizi». Ma che poi, una volta riempite le tasche, non rispettano nemmeno il minimo sindacale della buona gestione della comunità. Magari lasciando che di notte rimanga un solo educatore ogni dieci ragazzi minorenni. Ovviamente gli appetiti sui rimborsi d'oro dei minori sono aumentati da quando è raddoppiato il numero dei bambini stranieri non accompagnati sbarcati in Italia: nel 2015 erano 12.360, nel 2016 sono saliti a quasi 26mila.
E il numero delle cooperative è proliferato. Quelle iscritte alla banca dati del ministero dello Sviluppo economico sono ventimila e tra queste, a parte i colossi con curriculum a prova di magistrato, ci sono quelle improvvisate e di dubbia professionalità. Del resto per aprire una coop bastano tre persone e una firma dal notaio e per avviare una comunità per minori sono sufficienti un po' di stanze in affitto e corsi pubblicizzati on line con annunci del tipo: «Vuoi aprire una casa-famiglia? Chiunque può farlo». Per le autorizzazioni non ci sono iter complicati, anzi. Una breve ricerca su Google aiuta a capire come districarsi tra la burocrazia e quali carte compilare per ottenere i finanziamenti del Comune. Tutto in modo trasparente, ma con ampio spazio per i disonesti e con un meccanismo che, a detta di tanti esperti di diritto, si basa troppo sull'autocertificazione. Ogni Regione stabilisce i propri criteri di controllo. Alcune riescono a cadenzare con regolarità le ispezioni, altre non le fanno quasi mai, per mancanza di fondi e personale. Va precisato che, ispettori a parte, entrare per una visita o un controllo nelle comunità e nelle case famiglia non è scontato. Ci entrano solo i responsabili, quelli che ci lavorano (medici, addetti alla mensa e alle pulizie) e, previo avviso, i tutori e gli assistenti sociali. Stop. Quindi non è immediato identificare chi non rispetta le regole o non tratta i ragazzi come dovrebbe. La trasparenza scarseggia anche nella contabilità e spesso le coop non presentano i report semestrali come dovrebbero.
«In molti casi - denuncia Cristina Franceschini, avvocato della onlus Finalmente liberi - non esistono rendicontazioni dettagliate delle spese sostenute. Cooperative e onlus presentano bilanci stringati, senza entrare nel dettaglio, né i Comuni chiedono informazioni in più». Tanto che ci sono stati casi in cui alcuni Comuni hanno pagato il rimborso anche per i giorni in cui il minore non era in comunità ma era tornato a casa dai genitori. L'ex ministro per la Famiglia e neuropsichiatra infantile Antonio Guidi avanza una proposta per uscire dalla trappola delle quote. «Le strutture non devono più essere pagate in base al numero dei bambini che ospitano - sostiene -. L'errore sta nella logica delle quote. Piuttosto si potrebbe pensare a un sistema diverso, in cui sono i Comuni a corrispondere uno stipendio fisso a chi lavora all'interno delle comunità, scardinando ogni interesse legato numero degli ospiti». In alcuni casi i controlli avvengono solo dopo segnalazioni di maltrattamenti alle forze dell'ordine e alla Procura dei minori: a Licata (Agrigento) i ragazzini con disabilità psichiche sono stati trovati legati con lo scotch, a Foggia due educatrici sono state arrestate per maltrattamenti. E poi c'è lo scandalo di Forteto di Vicchio del Mugello (Firenze), dove la comunità nemmeno chiedeva i rimborsi al Comune ma dove erano quotidiani gli abusi sessuali sui bambini. «Ciò che ci dispiace molto - spiega Giovanni Fulvi, presidente del coordinamento nazionale delle comunità per minorenni - è che una comunità che funziona male distrugge tutto il lavoro delle comunità che lavorano bene e che seguono il codice deontologico che ci siamo dati. Chiediamo a gran voce più controlli sulla qualità della vita nelle strutture e sulla gestione dei soldi pubblici».
Il problema è che non esistono regole uguali per tutte stabilite a livello nazionale, né c'è una banca dati comune. O meglio, quella prevista dalla legge 149 del 2001 non è ancora operativa. Per capire la confusione che regna nell'ambito dell'accoglienza dei minori, basti pensare che non tutte le regioni usano le stesse parole per definire le strutture per l'infanzia, ma «ognuna ha le sue denominazioni e questo complica le cose» sostiene Fulvi, a conferma che il percorso verso la trasparenza è davvero lungo. Il vuoto normativo riguarda anche gli incarichi. La onlus Finalmente Liberi lo scorso anno ha «scovato» 211 giudici onorari minorili che sono stati a lungo anche azionisti, dipendenti o soci delle case famiglia. E sebbene ora sia stata riconosciuta l'incompatibilità dei loro ruoli, non tutti hanno sanato la loro posizione. Tanti bambini accolti in comunità, una famiglia ce l'hanno. Però sono stati allontanati perché il clima a casa è stato ritenuto pericoloso e malsano. Ai genitori e ai parenti tuttavia sono consentite le visite e sono i giudici a stabilirle durante le sentenze di allontanamento. Tuttavia è meglio che gli incontri non avvengano né nella casa d'origine né all'interno della comunità. Si scelgono degli spazi neutri, spesso molto lontani da casa, anch'essi gestiti dalle associazioni o dalle cooperative. Ed ecco che pure quei momenti così intimi, sospesi nel vuoto, sofferti, agognati, diventano un'ennesima occasione di guadagno. In un centro a Roma un'ora di incontro figlio-mamma costa 45 euro. A Brescia una zia ha denunciato che per vedere la nipotina doveva sborsare ogni volta 70 euro. Calcolando che spesso i bambini vengono allontanati dalle famiglie povere, il metodo suona come una cattiveria ulteriore. Anche se, è comprensibile, le cooperative devono pagare lo spazio degli incontri, le bollette e il personale. Se i genitori non possono sostenere la spesa, allora provvedono i Comuni ma gli incontri diventano molto meno frequenti e non viene rispettata la disposizione dei giudici.
La mafia dei cassonetti gialli: ecco come il crimine guadagna dagli abiti riciclati. I vestiti usati che lasciamo nei bidoni delle città sono al centro di un lucroso business delle cosche, che rivende questi materiali senza neppure farli pulire. Così funziona questo giro d'affari milionario, scrive Veronica Ulivieri il 28 giugno 2017 su "L'Espresso". Dai cassonetti gialli italiani finiscono in Tunisia e da lì sulle bancarelle dei mercati africani, attraverso un lucroso traffico gestito dalle mafie, soprattutto la camorra. È così che i vestiti usati del nostro paese e del Nord Europa - quelli che appunto vengono depositati nei cassonetti gialli, nella convinzione di fare un atto generoso per qualcuno - gonfiano invece il portafoglio della criminalità organizzata. E non va meglio per i rifiuti plastici mandati in Cina: materiale in certi casi contaminato, inutilizzabile negli stabilimenti europei, diretto a fabbriche inesistenti e smistato a destinazione dalle organizzazioni criminali. In un groviglio di traffici illeciti di rifiuti che unisce Genova a Tunisi e Sfax, Trieste e Livorno a Tianjin. Tipi diversi di oggetti riciclati, rotte differenti, che però si incrociano attraverso faccendieri e case di spedizione specializzate in export illegale, in grado di falsificare documenti e dare consigli su come aggirare i controlli. È su questo mondo che sta facendo luce un’inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Firenze, che vede coinvolte 98 persone e 61 società, con ipotesi di reato di associazione a delinquere e traffico illecito di rifiuti. Un malaffare che riguarda imprenditori impegnati a ridurre i costi all’osso, intermediari con ventiquattrore piene di contanti, consulenti e prestanome italiani e cinesi. Quello degli abiti di seconda mano è uno dei settori in cui gli affari girano più forte, ma in modo spesso opaco. «Buona parte delle donazioni di indumenti usati che i cittadini fanno per solidarietà finisce per alimentare un traffico dal quale camorristi e loro sodali traggono enormi profitti», ha rivelato uno degli ultimi report della fondazione antimafia Caponnetto. Ogni anno se ne raccolgono 110 mila tonnellate, per un giro d’affari di 200 milioni di euro che dalla Campania hanno portato anche su Prato gli interessi della camorra. Un settore contaminato da estorsione e usura e dalla presenza dei clan Birra-Iacomino e Ascione, sopravvissuto quasi indenne ai contraccolpi delle varie inchieste giudiziarie che negli anni lo hanno coinvolto, mai così ampie però come quella condotta dalla Dda di Firenze con Agenzia delle dogane e Corpo forestale. Una delle prime è stata quella partita dall’omicidio di Ciro Cozzolino a Montemurlo, il paesino pratese degli stracci. “Ciro o’ pazzo” venne freddato nel 1999 perché aveva assunto il predominio nel commercio degli abiti usati, intralciando così gli affari del clan. Per il suo omicidio nel 2013 sono stati condannati all’ergastolo anche Giovanni Birra e Stefano Zeno, considerati i capi del clan Birra. L’anno prima, i magistrati fiorentini hanno condannato l’imprenditore toscano dei vestiti usati Franco Fioravanti. Per arricchirsi e lavorare tranquillo, gestiva la sua Eurotess con il genero di Zeno, Emanuele Bagnati, facendo l’interesse del clan. Le aziende di Prato, dove secondo la Direzione nazionale antimafia il clan Birra-Iacomino detiene il monopolio del commercio di stracci, acquistano gli indumenti raccolti in Italia e nel Nord Europa e li rivendono soprattutto in Tunisia. Una volta presi dai cassonetti gialli gestiti formalmente da associazioni benefiche e cooperative sociali, quegli abiti dovrebbero essere selezionati e igienizzati. E invece in diversi casi il trattamento viene solo dichiarato sulla carta: a subire la “sterilizzazione” sono piuttosto i controlli delle autorità. Lo faceva la Eurotess di Fioravanti, ed è quello che secondo le indagini della Dda di Firenze succedeva in altre aziende del distretto pratese. «La disinfestazione? Io ho la pistola, ti fo’ l’autocertificazione. (...) Se mi viene un controllo è sempre attaccata alla spina», dice un imprenditore intercettato dagli investigatori mentre parla al telefono con uno spedizioniere. Così, dentro ai container in partenza dal porto considerato di volta in volta più sicuro, finiscono nel migliore dei casi abiti non sanificati, oppure spesso direttamente i sacchetti buttati dai cittadini nei cassonetti gialli. Compresi oggetti di tutti i tipi finiti per sbaglio nei bidoni dei vestiti. «Dentro troviamo anche batterie esauste e attrezzi pericolosi», aveva detto già nell’ottobre 2015 alla commissione d’inchiesta del Parlamento sul ciclo dei rifiuti Edoardo Amerini, presidente del Consorzio abiti usati (Conau), che ha sede a Prato. Proprio Amerini, friulano di nascita e residente a Treviso, è anche presidente e proprietario al 50 per cento di Tesmapri, colosso nella commercializzazione degli indumenti usati di Montemurlo. La società, che nel 2015 ha fatturato più di 16 milioni di euro, da sola tratta circa un terzo di tutti gli stracci raccolti in Italia. Amerini, anche lui indagato, è uno dei personaggi chiave del settore, rinviato a giudizio nel 2013 per traffico illecito di rifiuti insieme ai due soci, Antonio Bronzino, di Ercolano, e la pratese Federica Ugolini, figlia del fondatore di Tesmapri Aldo, il «re degli stracci» anche lui tra gli imputati nel processo iniziato quattro anni fa e ancora in corso.
Per la Dda di Firenze, Tesmapri è l’azienda che ha realizzato maggiori profitti dalle spedizioni considerate irregolari: inviando in Tunisia 25 mila tonnellate di rifiuti tessili avrebbe prodotto un giro d’affari di oltre 14 milioni di euro. È in buona compagnia: tra le società indagate ci sono infatti la Bz, che spedendo in Tunisia 6mila tonnellate di abbigliamento di seconda mano avrebbe generato un profitto di quasi 5 milioni di euro, la Viltex e la Eurofrip, che avrebbero guadagnato quasi 4 milioni di euro per 4mila tonnellate e la Eurotrading International, che inviando nel Paese insieme a Tesmapri circa 4mila tonnellate avrebbe beneficiato di quasi 3 milioni di euro. Tesmapri è anche il crocevia di rapporti che non appaiono sempre trasparenti. L’azienda ha tra i suoi addetti commerciali il biellese Stefano Piolatto, condannato in passato per usura e allo stesso tempo anche consigliere della cooperativa veneta Integra, attiva nel settore degli indumenti usati. Nella compagine societaria dell’impresa di Montemurlo c’è stato anche l’ercolanese Giovanni Borrelli, «imputato anche di avere avuto ruoli in imprese in odore di camorra», come mette a verbale il deputato Stefano Vignaroli durante l’audizione in commissione Ecomafie di Amerini, che si difende: «Non si è mai presentato a nessun collegio sindacale». Non solo: Tesmapri ha tra i suoi partner commerciali la società pratese ora in liquidazione Eurotrading International, guidata da Ciro Ascione, figlio di Vincenzo Ascione, entrambi indagati anche nell’inchiesta della Dda di Firenze. Quest’ultimo, originario di Torre del Greco e procuratore speciale della ditta di famiglia, è considerato dagli inquirenti «in collegamento d’interesse» con il clan Birra-Iacomino. È stato condannato all’ergastolo e poi assolto nel 2004 per l’omicidio di Ciro Cozzolino. Un pentito lo ha di nuovo accusato nel 2009, ma non poteva essere processato di nuovo per lo stesso reato. Oggi Vincenzo Ascione è latitante in Tunisia, dove si occupa sempre del business degli abiti usati ed è stato condannato in primo grado insieme al figlio per usura ai danni di un autosalone del pistoiese. Nell’inchiesta della Dda di Firenze c’è anche un’altra azienda pratese ora fallita, la New Trade dei fratelli Franco e Nicola Cozzolino, già coinvolta nella riconversione-bluff della fabbrica Golden Lady di Gissi, in Abruzzo. Secondo gli investigatori avrebbe dichiarato igienizzazioni di abiti in realtà mai avvenute. Da Prato però non partono solo gli indumenti usati, ma anche i ritagli tessili delle tante ditte cinesi di abbigliamento che hanno messo radici nella città. In questo caso i rifiuti vanno in Vietnam e in Cina, e a effettuare le spedizioni verso l’estremo oriente sono le stesse aziende cinesi, spesso prestando il proprio nome per qualche centinaio di euro: è sufficiente mentire sul contenuto dei contenitori e sperare di non essere sbugiardati dai controlli. Ma le imprese cinesi del tessile sono buone per tutte le situazioni: a Prato si prestano a fare da paravento anche a spedizioni di scarti plastici. Gli altri anelli della filiera del malaffare sono gli spedizionieri e un manipolo di faccendieri cinesi in stretto contatto con le imprese della madrepatria, sempre a caccia di plastica da pagare bene e subito, senza troppe domande.
Le esportazioni di rifiuti plastici in Cina sono permesse a patto che organizzatore dell’esportazione e destinatario abbiano specifiche licenze rilasciate dalle autorità di quel Paese. In molti casi, tutto si gioca sull’interpretazione della norma: per molte imprese italiane la plastica pronta per il riciclo è una semplice merce e dunque non deve rispettare questi requisiti, per le autorità doganali bisogna attenersi alla normativa cinese, più restrittiva. Un orientamento confermato anche da alcune sentenze della Cassazione. Ma al di là del cavillo normativo, le indagini della Dda di Firenze hanno individuato centinaia di spedizioni di plastica in cui si usavano licenze di terzi, a volte conniventi e ricompensati per il disturbo, altre volte persino ignari. Container che a destinazione potrebbero essere stati presi in consegna da organizzazioni criminali cinesi, e smistati in impianti abusivi. Così negli anni un mare di plastica è finito a saziare, non sempre in maniera lecita, l’industria cinese affamata di materiali. Carichi in certi casi anche contaminati e inutilizzabili negli stabilimenti europei, a volte fatti passare attraverso le dogane con una qualifica diversa da quella reale. «Ne abbiamo tre (container) che non hanno dentro le polveri, ma hanno dentro i 400 ppm di metallo. Va bene. Non se ne accorgono neanche, è sempre andata», dice un’imprenditrice, intercettata al telefono con un intermediario. «Quando non si segue l’iter autorizzativo corretto, si perde la tracciabilità del rifiuto. Così c’è il rischio che certi scarti anche contaminati di cui si sono smarrite le tracce ci tornino indietro sotto forma di oggetti come biberon e giocattoli dannosi per la salute e frutto di pratiche di concorrenza sleale», spiega la direttrice del consorzio Polieco Claudia Salvestrini, che ha denunciato il problema in più di un’audizione parlamentare.
Dietro ai traffici si cela spesso anche l’evasione fiscale: i carichi vengono pagati prima della partenza con bonifico da parte dell’azienda cinese, ma nella pratica il conto è più salato e viene saldato di persona dai faccendieri. «Digli a Jimmy (…) di preparare 25 mila euro al nero e li portiamo», dice al telefono intercettato un intermediario italiano a una collega cinese, che subito lo bacchetta per la troppa disinvoltura: «Non dire per telefono nero o bianco, dai…». Secondo le indagini della Dda, a commettere le irregolarità sarebbero stati anche colossi del settore del riciclo, come la trevigiana Aliplast e la bergamasca Montello, entrambe indagate. La prima, che fattura quasi 90 milioni di euro, è stata acquisita dalla multiutility Hera. La seconda invece, con un giro d’affari di 80 milioni, è l’impianto più grande d’Italia in cui gli imballaggi della raccolta differenziata vengono trasformati in materiale riutilizzabile nei processi produttivi: tratta ogni anno 150 mila tonnellate di rifiuti plastici. Secondo le stime contenute nell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, Montello, con quasi duemila tonnellate di materiali spediti, avrebbe generato un giro d’affari illecito di 1,3 milioni di euro, a cui si aggiungono altri 1,2 milioni provenienti da un altro “lotto” di spedizioni da oltre 4.500 tonnellate.
Immigrati a Terni, vitto, alloggio e questua: lo schiaffo (alla fame) dei richiedenti asilo, scrive il 27 Giugno 2017 Marco Petrelli su “Libero Quotidiano”. Nelle prime fasi dell'accoglienza immigrati si è spesso discusso delle somme destinate alle cooperative vincitrici dei bandi per la sistemazione dei richiedenti asilo: "30 euro al giorno, vitto e alloggio!" si gridava nelle piazze, virtuali soprattutto; poi, un'analisi un po' più attenta mostrò che, se nei 30 euro dovevano entrarci pasto e letto, era chiaro che il grosso della cifra finisse alle cooperative, mentre al singolo andava il "pocket money" da 2,5/3 euro. Dunque, una somma molto inferiore, ma sufficiente in una situazione di emergenza e considerando che pranzo, cena e un tetto sono assicurati. Ma, forse, non è abbastanza..."Una volta si andava in banca o alle poste per cambiare monete in banconote - scherza un esercente di Terni, città dove, nel giugno di un anno fa, i richiedenti asilo erano a quota 259 - ora invece si viene qui con ciò che si è riusciti a racimolare: talvolta pochi euro, talvolta di più. Quanto? Dalla decina a 30-40...". Africani che si contendono i passanti con artisti di strada e con poveri che, loro malgrado, non godono certo di quelle attenzioni che il "sistema accoglienza" mette a disposizione degli "ospiti". Chiaro, difficile stilare una contabilità giornaliera della questua (40 euro può essere un dato eccezionale a fronte di una media molto più bassa), inoltre nessuno di loro ha "richiedente asilo" stampato in fronte, ma qualche perplessità sorge quando un tabaccaio fa notare che "parte di quei soldi li spendono qui e non per beni di prima necessità". E da un tabacchi cosa vuoi comprare? Strani tipi di poveri, come strani sono quelli che di tanto in tanto sorprendi accanto ai cassonetti: arrivano in bicicletta, rovistano, tirano fuori rottami e parti elettriche e se ne vanno. Dieta particolare? Ma la colpa non è loro, che probabilmente hanno scambiato l'Italia per la “Delta Tau Chi” di Animal House, né dei cittadini che certamente poco possono fare. Una parte, sostanziale, di responsabilità l'hanno, invece, quei rami della Chiesa cattolica che fanno del pauperismo e del cosmopolitismo i loro cavalli di battaglia, nonché di quelle Amministrazioni che, dopo decenni di anti-clericalismo, sembrano abbracciare senza remore chi ti "vende" il Cristo e San Francesco per rivoluzionari del solidale. In fondo, i difensori della laicità, coloro i quali con arroganza staccavano i crocifissi dalle aule non hanno fiatato quando il Governo Monti ha scelto come Ministro della Cooperazione il fondatore di un influente movimento post-conciliare; poi, c'è la demagogia spacciata per rispetto della diversità che, a Terni, assume le dimensioni di un affresco che vorrebbe celebrare gli ultimi e che, invece, appare fuori luogo sia per contenuti, sia per il luogo, sacro, nel quale l'opera è esposta. Ma dibattito laico-religioso a parte, il flusso di denaro che gira intorno all'emergenza migranti crea occupazione fra i membri di quelle associazioni che, se in pubblico non riescono a guardarsi in faccia, ritrovano forse armonia nel "pecunia non olet". Marco Petrelli
Business della cooperazione internazionale, scrive il 31 gennaio 2017 Mauro Indelicato su "Gli Occhi della Guerra" ripreso da "Il Giornale". “Il solo aiuto che serve è l’aiuto che aiuta ad uccidere l’aiuto”; queste parole sono state pronunciate negli anni 80 da Thomas Sankara, leader del Burkina Faso assassinato nel 1987 a seguito di un colpo di Stato dopo aver dichiarato a più riprese di non voler pagare il debito del proprio paese. Sono parole, quelle del fondatore del Burkina Faso, che risuonano come rivelatrici alla luce dei dati e delle cifre impressionanti che trapelano anno dopo anno nel mondo della cooperazione; i paesi più ricchi, negli ultimi 50 anni, hanno speso un trilione di Dollari, di fatto mediamente ogni cittadino sborsa 100 Dollari al giorno da destinare ai paesi più poveri, ma i risultati sono molto meno che modesti: il divario tra benestanti e nazioni in difficoltà si allarga sempre di più, la povertà cresce a dismisura e molti paesi del cosiddetto terzo mondo patiscono fame ed analfabetismo. I numeri, freddi ed implacabili quando si tratta di rivelare determinate verità, aiutano a comprendere il problema della cooperazione internazionale: di fatto, l’aiuto verso i paesi sottosviluppati è un vero e proprio business da 135 miliardi di Dollari all’anno, una cifra importante che testimonia gli interessi celati dietro un apparente gesto di solidarietà verso i prossimi più sfortunati. I soldi, donati tanto dai singoli cittadini nelle varie campagne promosse spesso da organizzazioni non governative, così come anche dai singoli governi occidentali, si perdono dietro rivoli burocratici o servono a scopi tutt’altro che caritatevoli. L’aiuto internazionale viene gestito come un vero e proprio comparto, un’organizzazione molto simile ad una multinazionale: esistono infatti agenzie, associazioni od enti collegabili all’Onu, i quali senza la causale dell’aiuto al prossimo non potrebbero sopravvivere. E’ qui che le frasi di Sankara si dimostrano molto attuali: a conti fatti, se la povertà viene realmente sradicata diversi uffici governativi o non governativi potrebbero anche chiudere. Il vero aiuto è quello che aiuta ad uccidere l’aiuto e, mai come oggi, la cifra di 135 miliardi di Dollari all’anno spesi per la cooperazione denota quanta verità vi sia all’interno di queste parole; ogni associazione od agenzia che si occupa dell’aiuto, ha bisogno di un ufficio, di segretari, di impiegati e di un’organizzazione che immancabilmente assorbe una parte del denaro che ignari cittadini donano nella convinzione che essa realmente vada a finire in orfanotrofi o in strutture volte ad aiutare i più poveri. Basta fare un esempio, su tutti, di casa nostra: a Roma vi è una sede dell’Ifad, una delle tante agenzie dell’ONU la cui finalità è quella della cooperazione e di combattere la povertà in Africa; solo questa sede ha costi di gestione esorbitanti, visto che l’ufficio si trova in un ufficio sull’Appia Antica il cui affitto costa quattrocentomila Euro all’anno, per non parlare di stipendi e quant’altro ed il tutto è ovviamente pagato dai soldi teoricamente destinati contro la povertà. In un articolo di Sandro Cappelletto, che ha seguito di recente la sorte di alcuni progetti di cooperazione proprio nel Burkina Faso che fu di Sankara e che ha firmato un reportage su La Stampa, si evince come tra stipendi, affitti, uffici e tanto altro ancora (per non parlare della corruzione) ogni anno viene sciupato circa l’80% di quei 135 miliardi di Dollari che mediamente vengono investiti nell’aiuto ai paesi sottosviluppati. Beffati i cittadini dei paesi più avanzati che donano ogni anno importanti somme per la cooperazione, ma beffati doppiamente soprattutto i cittadini delle nazioni sottosviluppate: da un lato, il comportamento consumistico di un occidente sprecone (che succhia dal terzo mondo risorse e manodopera) condanna loro alla povertà, dall’altro la mano tesa dai paesi più ricchi in realtà serve a foraggiare un ricco business che toglie altre risorse (pure quelle, di fatto, dell’elemosina) in principio volte ad aiutare i meno fortunati. Per comprendere il malfunzionamento della cooperazione internazionale, è bene ancora una volta volgere lo sguardo agli anni del governo di Thomas Sankara in Burkina Faso; il leader africano, tra il 1984 ed il 1987, ha rifiutato categoricamente gli aiuti internazionali e tutto quello che avrebbe potuto produrre nuovo debito con l’occidente. L’obiettivo di Sankara è sempre stato quello di rendere il paese autosufficiente e gestirlo con le proprie risorse e per far questo, il suo governo si è mosso in due direzioni: abbattere quelle importazioni definite inutili (prodotti di lusso soprattutto, spendendo denaro solo per l’acquisto di beni di prima necessità) ed investire sulla valorizzazione e formazione di piccole e medie imprese. Nel giro di tre anni, il Burkina Faso è stato molto vicino ad avere un tasso di disoccupazione vicino allo zero, mentre la mortalità legata alla malnutrizione è scesa fino ad eguagliare i paesi più sviluppati del continente nero. Una via africana, un affrancamento sociale ed economico dalle ex madrepatrie coloniali, un contesto poi che, su altri aspetti macroeconomici e macropolitici verrà sostenuto tempo dopo anche l’ex rais libico Muhammar Gheddafi; episodi, quelli accennati, che dimostrano come la cooperazione internazionale strutturata nel modello attuale, oltre a produrre beffe, sia retta da una base d’ipocrisia più letale della fame stessa: sfruttare l’Africa (ma anche gli altri paesi del terzo mondo) per importare petrolio ed altre risorse vitali per sostenere il sistema capitalistico/consumistico attuale, così come per richiamare con un altro business (quello dell’immigrazione) migliaia di uomini e donne funzionali per essere sfruttati come manodopera a basso costo, per poi pulirsi la coscienza con donazioni che spesso poi si perdono tra burocrazia, stipendi, uffici e corruzione. Una siffatta cooperazione non solo non funziona, ma è anche specchio di un sistema di sviluppo insostenibile dallo stesso occidente e letale e mortificante per l’Africa e gli altri paesi del terzo mondo. L’aiuto internazionale attuale, altro non è che un gigantesco business, uno dei tanti che contribuisce a far crescere disuguaglianze ed ingiustizie sociali; l’alternativa a questo enorme spreco di soldi e risorse, è molto semplice e passa dalla politica: cambiare registro nei rapporti con il terzo mondo, evitare ingerenze e stoppare per sempre la politica dei prestiti i quali, nell’immediato ed a lungo termine, servono solamente ad aumentare debiti e corruzione, oltre che a giustificare l’esistenza di agenzie ed associazioni (con relativi lavoratori stipendiati e con interi business che si reggono grazie ai piani anti povertà). La lotta al sottosviluppo, così bistrattata e nascosta dietro la falsa elemosina in occidente, è importante anche per l’Europa: abbattere la povertà ed evitare ingerenze che causano conflitti e tensioni, vuol dire dare un freno alle ondate migratorie e schivare l’insorgenza di quegli estremismi che portano alla nascita ed alla crescita del terrorismo.
"Fanno da taxi per gli immigrati in Libia". Affari loschi delle Ong: come guadagnano, scrive il 17 febbraio 2017 “Libero Quotidiano”. Tra la mafia degli scafisti e alcune associazioni umanitarie ci sarebbero rapporti poco trasparenti, anzi vere e proprie "collusioni con gli scafisti" secondo le accuse dell'agenzia Frontex. Ora sono i magistrati italiani a volerci vedere chiaro. Dalla procura di Catania il fascicolo è stato aperto per "capire chi c'è dietro tutte queste associazioni umanitarie che sono proliferate in questi anni - ha detto a Repubblica il procuratore di Catania, Carmelo Zuccaro - da dove vengono tutti questi soldi che hanno a disposizione e soprattutto che gioco fanno". L'indagine non dovrebbe toccare le organizzazioni "di chiara fama". Certo nel rapporto presentato alla Commissione europea, Frontex solleva sospetti sul fatto che ai migranti: "verrebbero date chiare istruzioni prima della partenza sulla direzione da seguire per raggiungere le imbarcazioni delle Ong". Sono navi che arrivano fin sotto le coste libiche e di fatto farebbero da taxi poche miglia dopo la partenza dall'Africa. Un fenomeno che si è verificato per il 40% delle richieste di soccorso lanciate solo a ottobre 2016, un bel salto visto che all'inizio dell'anno le Ong riuscivano a rispondere solo al 5% degli Sos.
Trieste, 12 milioni alla coop per accogliere gli immigrati. Le cooperative dovranno garantire a 900 richiedenti asilo vitto, alloggio e, naturalmente, il famigerato pocket money: il bonus giornaliero, scrive Michel Dessì, Giovedì 16/02/2017, su "Il Giornale". E costa, sì che costa l’accoglienza al nostro Paese. E anche tanto. Fior di milioni di euro. Soprattutto a Trieste dove, con la benedizione del Ministero dell’Interno e della Prefettura, ai migranti arrivano ben 11.497.500 euro. Iva esclusa, si intende. A vincere l’appalto milionario il Consorzio Italiano di Solidarietà insieme ad una cordata di associazioni e cooperative: c’è la Fondazione Diocesana Caritas Trieste ONLUS; Lybra Soc. Coop. sociale ONLUS; Duemilauno Agenzia Sociale Soc. Coop. sociale Impresa sociale ONLUS; La Collina Soc. Coop. Sociale ONLUS Impresa sociale. Le cooperative dovranno garantire a 900 richiedenti asilo vitto, alloggio e, naturalmente, il famigerato pocket money, il bonus giornaliero che viene dato agli immigrati nei centri di accoglienza per le piccole spese quotidiane, per un anno. Tutto a spese dello Stato. O meglio, dei contribuenti. La denuncia arriva da Riccardo Prisciano, di Fratelli d’Italia. Non è il primo scandalo che scoppia nella terra guidata dalla democratica Debora Serracchiani. La regione rossa, infatti, è assurta più volte agli onori della cronaca per aver finanziato diversi corsi per gli immigrati. Da quello di scii a quello di calcio, da quello pre-parto a quello teatrale. Ma oggi, quello che indigna di più, è il cospicuo finanziamento (11.497.500 euro) assegnato alla provincia più piccola d’Italia. “E quanto spenderanno per la provincia di Udine?” Si domanda un anziano signore. Al momento non è dato sapere. E pensare che con 12 milioni di euro il Governo avrebbe potuto comprare circa 200 case in legno per i terremotati. Dando così una degna sistemazione alle centinaia di famiglie italiane costrette a vivere in tenda dopo il sisma del 24 agosto. Così vanno le cose in Italia, ormai Terra di paradossi.
Profughi, l'affare che per Coop e chiesa vale 4 miliardi. Bocciato. Neanche il tempo di leggerlo, che il decreto legge del governo sull’immigrazione si è attirato gli strali delle associazioni che gestiscono l’accoglienza dei richiedenti asilo, scrive il 13 febbraio 2017 Tommaso Montesano su "Libero Quotidiano". L’«ottica securitaria non è prioritaria» (Caritas); il «territorio chiede non sicurezza in più, ma percorsi di integrazione e valorizzazione» (fondazione Migrantes); «servono nuove norme che progettino modelli di accoglienza diffusa» (Centro Astalli). Non c’era «bisogno» di un giro di vite su migranti e sicurezza, si sfogano su Avvenire, il quotidiano dei vescovi italiani, gli enti cattolici alle prese con gli aspiranti profughi. E ieri si è levata anche la voce della comunità di Sant’Egidio. «Non si può ragionare solo in termini di sicurezza, ma ispirarsi a princìpi di umanità e puntare sull’integrazione», ha lanciato un appello al Parlamento il presidente, Marco Impagliazzo. Un passo indietro. Venerdì scorso Marco Minniti, ministro dell’Interno, ha presentato i provvedimenti di Palazzo Chigi per cercare di invertire la rotta sull’immigrazione. In sintesi: via, e si spera in tempi più brevi, gli «irregolari» (da qui il ritorno, sotto il nome di Centri permanenti per il rimpatrio, dei vecchi Cie); e nuove regole per la gestione del sistema di accoglienza, finito spesso nel mirino di procure e Corte dei Conti per i bandi di gara per l’affidamento dei servizi. Il governo, seppur in extremis (manca un anno alla fine della legislatura), ha detto stop. E dopo essersi confrontato con l’Autorità nazionale anticorruzione di Raffaele Cantone, ha emanato le nuove regole: addìo al gestore unico dei centri (gli appalti dovranno riguardare, singolarmente, mensa, assistenza sanitaria e alloggiamento); tracciabilità dei servizi e maggiori poteri di ispezione del Viminale. Troppo vecchie le regole attualmente in vigore, che risalivano a un decennio fa. E troppo lenti, secondo Minniti, sia l’iter per evadere le domande di chi chiede protezione internazionale (due anni), sia la procedura per espellere dall’Italia chi non ha diritto all’asilo politico. Anche perché il «sistema immigrazione» costa. E tanto. Complessivamente, ha fatto i conti Pier Carlo Padoan, ministro dell’Economia, il business dell’accoglienza vale 3,3 miliardi euro. Che visti gli arrivi sulle nostre coste potrebbero diventare, alla fine di quest’anno, 3,8 e, addirittura, 4,2 nel prossimo futuro. E in questa torta, ha evidenziato la Banca d’Italia, la fetta più grande è composta dalle spese per i «lunghi tempi di permanenza nelle strutture di accoglienza per l’adempimento delle procedure di riconoscimento dello status di rifugiato». Almeno un biennio. I costi non fanno che lievitare. Tra centri di accoglienza, strutture temporanee e posti Sprar, nel 2014 la macchina del Viminale ha pesato sul bilancio pubblico per oltre 600 milioni di euro. L’anno successivo, la spesa è stata di 1,1 miliardi di euro (918,5 milioni per le strutture temporanee; 242,5 per i centri Sprar). E nel 2016, a fronte dell’aumento del numero di migranti sbarcati sulle nostre coste - 181.436 - è cresciuta di un ulteriore 60% arrivando a quota 1,7 miliardi di euro. Un’impennata figlia degli immigrati inseriti nel circuito dell’accoglienza dopo lo sbarco: a ieri erano 175.217. E a gestirli sono anche le associazioni che subito dopo il varo del «pacchetto immigrazione» hanno preso le distanze dai provvedimenti. Adesso Minniti è atteso in Parlamento. Il 22 febbraio il ministro sarà ascoltato dalla commissione parlamentare d’inchiesta sul sistema di accoglienza. Anche nel Pd, le perplessità non mancano. Per il presidente della Commissione, Federico Gelli, le nuove fanno «effettivamente intravedere una svolta sicuritaria. Noi siamo sempre stati contrari ai Cie».
Agli avvocati degli immigrati vanno 100mila euro al mese. I ricorsi dei migranti fruttano ad alcuni studi legali oltre 100mila euro al mese per il patrocinio gratuito (a spese degli italiani), scrive Claudio Cartaldo, Mercoledì 1/02/2017, su "Il Giornale". Chiamatelo business. Perché in fondo dietro la macchina della gestione degli immigrati si nasconde un vero e proprio giro di soldi (dei contribuenti) che finiscono nelle tasche di quelli che si occupano di accoglienza. Non parliamo solo delle Copp, delle Onlus e delle altre associazioni che danno un letto e un pasto agli immigrati. Ma anche della categoria degli avvocati. Molti di questi, infatti, si occupano dei ricorsi che i richiedenti asilo presentano in Tribunale contro la decisione della Commissione territoriale di non concedergli lo status di rifugiato. Come spiegato mesi fa da Giuseppe De Lorenzo su il Giornale, infatti, a pagare le spese legali ai migranti - che si dichiarano nullatenenti - sono i cittadini italiani attraverso il patrocinio gratuito a spese dello Stato. Si parla di circa 600milioni di euro all'anno. Tanti, tantissimi. Ma l'ultimo scandalo riguarda la gestione degli avvocati iscritti nelle liste del consiglio dell'ordine. Secondo quanto scrive Libero, infatti, spesso i migranti che devono presentarsi al ricorso finiscono negli stessi studi legali. Alcuni assistono solo 4-5 persone al mese, altri arriverebbero anche a gestire 60-100 ricorsi. Cosa significa? Che questi avvocati (che spesso userebbero tirocinanti pagati poco più di 500 euro) incasserebbero qualcosa come 100mila euro al mese. Una manna. E vale solo per il primo grado, dove ogni migrante costa al contribuente qualcosa come 1000 euro. Poi c'è l'Appello (altri 1200 euro) e la Cassazione (3.000 euro). Ovviamente non esiste una legge, scrive Libero, che imponga un tetto massimo ai ricorsi gestiti da un singolo avvocato o studio legale. E così alcuni si ingrassano. A spese di tutti.
Tangenti sul Cara di Mineo. La verità choc di Odevaine. Rapporti coop rosse-Viminale, l'ex braccio destro di Veltroni confessa: da Buzzi 5mila euro al mese, scrive Massimo Malpica, Giovedì 2/02/2017 su "Il Giornale". I soldi, tanti, li ha presi per il suo ruolo di facilitatore. A ungerlo sono state tanto le coop rosse, come quella di Salvatore Buzzi, quanto quelle bianche, come La Cascina. E l'ex vice capo gabinetto di Walter Veltroni, Luca Odevaine, tra i protagonisti di Mafia Capitale, ha ripetuto la sua storia anche in aula, al processo, confessando di essersi fatto pagare per offrire le sue entrature con il Viminale e con le prefetture. Ma anche puntando ancora una volta il dito contro il Pd, accusato chiaramente d'essersi accordato, quando era all'opposizione, con la giunta di Gianni Alemanno per erogare centinaia di migliaia di euro a ogni consigliere comunale, ufficialmente per «eventi culturali». Tornando al «facilitatore», per «risolvere problemi» a Buzzi, il ras delle coop lo ha pagato 5mila euro al mese per circa 3 anni, tra 2011 e 2014, per un totale che sfiora i 200mila euro. Altri 250mila invece Odevaine li ha incassati dalla coop La Cascina, che gli passava prima 10 e poi 20mila euro ogni mese per farsi «spingere» nell'appalto per il Cara di Mineo. Odevaine, insomma, ha ammesso di aver speso le sue conoscenze e i suoi agganci per aiutare le coop, negando però di aver sfruttato per questo la poltrona da lui occupata al tavolo di coordinamento sugli immigrati del Viminale. Un posto dal quale, ha ribadito in aula, non sarebbe stato possibile orientare i flussi degli immigrati in modo da favorire le coop «amiche» o che, comunque, lo tenevano a libro paga. Odevaine, poi, ha anche tirato in ballo il Pd, rispolverando una vicenda che aveva già messo nero su bianco a ottobre del 2015 in un verbale d'interrogatorio con il pm Paolo Ielo. Ossia il presunto «accordo» siglato dal sindaco Gianni Alemanno e dall'allora capogruppo del Pd Umberto Marroni per concedere a ciascun consigliere comunale una somma considerevole (400mila euro) di fatto da usare a piacimento, dietro al paravento delle finalità «culturali». Già all'epoca, quando venne fuori il contenuto dell'interrogatorio, proprio Marroni smentì con decisione l'esistenza del patto con Alemanno, sostenendo che nessun consigliere comunale avesse potere di spesa e annunciando di voler querelare per diffamazione l'ex braccio destro di Veltroni. E ieri, quando Odevaine ha ripetuto per filo e per segno la stessa storia, ma stavolta testimoniando al processo per Mafia Capitale («L'accordo per dare 400mila euro ai consiglieri da spendere per eventi culturali fu preso da Alemanno e dal capogruppo di minoranza, Marroni», ha detto Odevaine in aula), una volta di più l'esponente dem ha reagito con una denuncia-bis. Per Marroni quelle di Odevaine, «che ritenevo personaggio ambiguo già ai tempi della giunta Veltroni», sono affermazioni «false e assurde». Non solo perché tecnicamente «di certo i consiglieri comunali non dispongono direttamente di risorse», ma perché quell'accusa è «diffamatoria» anche sul fronte politico, «in quanto - ringhia Marroni - proprio grazie al lavoro dell'opposizione di centrosinistra è stato possibile mandare a casa la destra dopo il primo mandato». E l'attacco al partito democratico di Odevaine, conclude Marroni, potrebbe avere un nuovo risvolto penale, poiché l'ex capogruppo dem spiega di aver dato «nuovamente mandato ai miei avvocati di denunciare Odevaine per diffamazione».
Mafia Capitale, Odevaine alla sbarra: "Ecco perché prendevo 5000 euro al mese da Buzzi". L'interrogatorio dell'ex vicecapo di gabinetto di Veltroni, confermato per tre mesi nel 2008 quando la capitale incoronò Alemanno: "Da fine 2011 al novembre 2014 sono stato remunerato dal gruppo Buzzi per la mia attività di 'facilitatore'. Semplificavo i suoi rapporti con la pubblica amministrazione", scrive Federica Angeli l'1 febbraio 2017 su "La Repubblica". "Ho percepito cinquemila euro al mese da Salvatore Buzzi da fine 2011 al novembre del 2014. Per lui risolvevo i problemi, facilitavo gli interessi di Buzzi. Ho preso soldi anche dalla cooperativa La Cascina". Soldi da Salvatore Buzzi (5mila euro mensili, di cui una parte in nero) e soldi dalla cooperativa “La Cascina” (10mila euro al mese che potevano arrivare anche a 20mila). Per anni, almeno dal 2011 al 2014, Luca Odevaine, anni prima vicecapo di gabinetto vicario del sindaco Veltroni, incarico proseguito per altri tre mesi con l'arrivo del sindaco Alemanno, ha intascato fior di tangenti mettendo a frutto il suo lavoro di componente del Tavolo di coordinamento sugli immigrati del Viminale (struttura creata nell'estate del 2014 ma informalmente esistente due anni prima) e di presidente della Fondazione IntegraAzione, che curava e coordinava eventi politici, religiosi e sociali. Sentito dal tribunale nel processo Mafia Capitale in corso nell'aula bunker di Rebibbia, Odevaine ha ammesso quanto già dichiarato alla Procura nei mesi scorsi: "Venivo remunerato dal gruppo Buzzi per la mia attività di facilitatore. Semplificavo i suoi rapporti con la pubblica amministrazione. Svolgevo un funzione di raccordo tra le sue cooperative, il ministero degli Interni e i funzionari della Prefettura, un mondo con il quale le coop faticavano ad avere un dialogo costante. Io mettevo a disposizione l'esperienza acquisita nel Comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica, conoscevo molte persone ma non è vero che io orientassi i flussi degli immigrati, non avrei potuto farlo. Il Tavolo discuteva su temi generali e non decideva". Odevaine è stato poi interpellato sui soldi ricevuti dai vertici della Cascina (segmento giudiziario già definito davanti al gup con un patteggiamento di pena a due anni e 8 mesi di reclusione per corruzione e la restituzione di circa 250mila euro, più o meno l'equivalente della somma incassata in modo illecito), per agevolare l'assegnazione dell'appalto per la gestione del Cara di Mineo dopo aver concordato con loro il contenuto del bando di gara. "Anche in questo caso - ha spiegato Odevaine - ricevevo soldi per il mio lavoro di raccordo col Ministero dell'Interno". Molte domande dei pm Luca Tescaroli e Giuseppe Cascini hanno riguardato il commercialista Stefano Bravo, anche lui sotto processo per corruzione perchè sospettato di aver curato la predisposizione della documentazione fittizia che avrebbe dovuto giustificare l'ingresso delle somme illecite nella casse della Fondazione e delle società riferibili a Odevaine. "Era il mio commercialista personale e della famiglia, si occupava della contabilità della Fondazione. A lui ogni tanto chiedevo consiglio, gli dissi che avevo soldi in contanti ma lui certe cose preferiva non saperle. Io gli presentai i rappresentanti della Cascina e poichè con questa cooperativa avevo in piedi un affare che non aveva nulla a che vedere con la questione immigrati, gli chiesi se voleva occuparsene. Cominciavo ad avere numerose attività fuori dall'Italia e avevo bisogno di una persona che seguisse le mie cose in Italia". "Con la giunta Alemanno sì stabili un accordo per cui ad ogni consigliere comunale vennero dati 400mila euro da spendere per eventi culturali. L'accordo fu preso dal sindaco Alemanno e dal capogruppo di minoranza Umberto Marroni", ha spiegato Odevaine, che, vicecapo di gabinetto del sindaco Veltroni, fu confermato per i tre mesi successivi nel 2008 quando la capitale incoronò Alemanno ma dopo un mese fu messo di fatto all'angolo. "Alemanno - ha poi aggiunto - mise nuove figure in base ad appartenenze politiche nei posti chiave dell'amministrazione: Gianmario Nardi, che era stato allontanato da Veltroni perché troppo vicino a imprenditori che facevano manifestazioni pro suolo pubblico fu nominato vicecapo gabinetto. Marra fu spostato al Patrimonio". "Alemanno mi disse che per tutto il periodo della mia permanenza al Comune le due sue persone di assoluta fiducia a cui avrei dovuto far riferimento per qualunque cosa erano Riccardo Mancini e l'onorevole Vincenzo Piso che era stato in carcere con lui negli anni Ottanta e aveva finanziato la sua campagna elettorale. Quando a capo dell'Ufficio Decoro venne nominato Mirko Giannotta, segretario storico del Movimento Sociale di Acca Larentia e responsabile della tentata rapina nel maggio 2006 da Bulgari in via Condotti, e distrusse tutti gli archivi del materiale di pubblica sicurezza da me raccolto, decisi di lasciare Palazzo Senatorio e mi spostai in una stanza a piazza San Marco".
Le Coop dello scandalo che lucrano milioni sulla finta solidarietà. Truffe, appalti e rimborsi per migranti fantasma. Dal Friuli alla Sicilia, aperte decine di indagini, scrive Chiara Giannini, Venerdì 06/01/2017, su "Il Giornale". La gestione dell'accoglienza migranti, arrivati in massa, presenta lati oscuri e solleva molti dubbi. Se nel primo periodo del 2011, quando gli immigrati, dopo la rivoluzione dei gelsomini e la primavera araba iniziarono ad arrivare sulle coste italiane, le prime strutture erano gestite da associazioni di volontariato, quale ad esempio la Croce rossa, che è un apparato militare e ha una preparazione professionale nel settore, nei mesi successivi iniziarono a nascere tutta una serie di soggetti di dubbia provenienza che hanno tentato di accaparrarsi, spesso riuscendoci, appalti da centinaia di migliaia di euro che hanno indotto le procure d'Italia a un super lavoro.
I casi sono numerosi. Lo scorso ottobre, a Potenza, Michele Frascolla, amministratore unico della Manteca srl, che si occupava di accoglienza dei richiedenti asilo nel capoluogo lucano, è finito ai domiciliari per aver truccato le presenze dei migranti, ottenendo così maggiori rimborsi. L'uomo, secondo gli inquirenti, pretendeva che i fogli di permanenza fossero firmati prima dagli ospiti degli appartamenti in cui li sistemava. Inoltre, non dava comunicazione alle autorità competenti quando questi lasciavano le strutture. In questo modo risultava che negli edifici di sua proprietà ci fosse sempre il pieno e otteneva così più soldi. Con lui sono finite sotto indagine altre due persone.
Un altro caso si registra a Padova, dove i vertici (tre persone) della «Ecofficina», cooperativa che gestisce l'accoglienza profughi, ad aprile 2016 sono stati accusati di maltrattamenti e truffa aggravata ai danni dello Stato. É stata la procura di Rovigo a indagarli per presunte irregolarità in seguito ad alcune segnalazioni. Peraltro, la «Ecofficina Edeco» è il soggetto gestore del centro di Cona, alla ribalta delle cronache in questi giorni a causa della rivolta dei migranti in seguito alla morte di una ivoriana. Nata dalle ceneri di «Padova Tre», una società legata un tempo al business dei rifiuti, la «Ecofficina» inizia a occuparsi dei migranti nel 2011 e il suo fatturato passa dai 114mila euro dell'epoca ai 10 milioni del 2015, quando ottiene appalti anche a Oderzo, Bagnoli e, appunto, Cona. A suo carico ci sono attualmente tre inchieste per truffa, maltrattamenti e falso. Persino Confcooperative l'ha sospesa per «troppo business».
Nel 2015 ci fu poi un altro caso che scosse l'Italia intera. Il parroco don Sergio Librizzi, ex direttore della Caritas di Trapani, fu condannato perché chiedeva ai migranti prestazioni sessuali in cambio di documenti e favori. Secondo gli inquirenti gestiva in maniera occulta la cooperativa «Badiagrande», che riusciva a mantenere aperta grazie a conoscenze che lo informavano in anticipo della visita degli ispettori. Sempre nel Trapanese, a Salemi, fu chiusa nello stesso periodo la cooperativa «Corf», colpita da un'interdittiva antimafia.
A febbraio 2016 fu la volta di 21 persone che, a Gradisca d'Isonzo, intascavano i soldi per l'accoglienza dei migranti ottenendo vantaggi fiscali e, quindi, finirono sotto inchiesta della guardia di Finanza di Udine, su richiesta della procura di Gorizia. Tra gli indagati grandi nomi, tra i quali quello di Gianluca Madriz, presidente della Camera di commercio di Gorizia, l'ex presidente della Provincia Gianfranco Crisci e l'ex vice comandante della brigata di Cavalleria «Pozzuolo del Friuli» Vittorio Isoldi. Nello stesso mese vennero chiusi e sequestrati in Campania 9 centri destinati all'accoglienza.
A maggio 2016 scattò quindi l'indagine su quattro noti imprenditori: i fratelli Pietro e Angelo Chiorazzo, responsabili della «Auxilium», che gestisce attualmente il Cie di Caltanisetta, Salvatore Menolascina e Camillo. Tutti per presunte irregolarità nella gestione dei centri. Gente, insomma, che predicava la cultura dell'accoglienza e, poi, guadagnava sui migranti.
Biella, hotel vecchi e abusi edilizi: "Così le coop fanno affari coi migranti". A Biella un hotel con migranti ha sversato migliaia di litri di gasolio. Un altro centro aprirà in un albergo chiuso da anni. E una struttura non è a norma con i permessi, scrive Giuseppe De Lorenzo, Venerdì 10/02/2017, su "Il Giornale". Ogni 9 mesi, solo in provincia di Biella, lo Stato investe circa 8,5 milioni di euro per ospitare 850 migranti. Ci si aspetterebbe dunque che le cose vengano fatte per bene: centri profughi adeguati, strutture ottimali e autorizzazioni a posto. Purtroppo non sempre è così (guarda il video). A Biella infatti i migranti vengono accolti in "catapecchie" (come le chiamano gli oppositori) e una manca pure di alcuni permessi. "Le sembra normale?", domanda esterrefatta una signora con la pelliccia e tanta voglia di parlare. Non lo è. Nella zona sud della città i residenti devono già fare i conti con due strutture di accoglienza e presto ne aprirà una terza. L'hotel Coggiola di via Cottolengo da 20 anni non vede un cliente perché chiuso e abbandonato, ma ora ritroverà vita in forza dei fondi che arriveranno per la gestione dei migranti. Una pacchia. Inutili le proteste. "Non ci hanno detto nulla, non ci hanno coinvolto. Come al solito siamo stati informati a cose fatte", spiega Giulio Barnabè, vigoroso 77enne che insieme alla moglie condividerà una parete col secondo piano dell'albergo. "Temiamo l'accattonaggio, lo spaccio di droga e ruberie varie. Io li avverto: alla prima che mi fanno, bastono". Duro e impassibile, col cappello calato in fronte e il cappotto signorile. Ma convinto, come convinto è Paolo Maroello che alcuni anni fa ha acquistato l'appartamento di fronte all'hotel e ora ha paura possa deprezzarsi irrimediabilmente. Con la barba incolta e gli occhiali fa domande cui non riesce a trovare risposta: "Mia figlia esce di sera e io devo aver paura quando rientra a casa?". Poi aggiunge: "Saremo circondati da persone di cui non sappiamo nulla. Abbiamo paura". E la paura si mescola spesso con l'irritazione. Mentre Paolo parla, un signore entra dalla porta d'ingresso dell'hotel svelando la presenza di alcuni operai al lavoro. "Possibile che possano ristrutturare senza mettere cartelli di inizio cantiere? - lamenta Giulio - Se si fosse trattata di una qualsiasi azienda italiana e non di immigrati, avrebbero preteso una cartellonistica infinita e il rispetto di tutte le norme". Ed è proprio su questo callo dolente che inciampa il sistema malandato dell'accoglienza biellese. Non è la prima volta che per far fronte all'emergenza si sorvola sulle regole. L'esempio lampante è l'hotel Colibrì: qui la cooperativa Versoprobo di Vercelli ospita 54 migranti in una struttura in disuso da anni. I Vigili del fuoco hanno fatto tutti i controlli, ma è bastato l'arrivo dell'inverno per dimostrare che qualcosa non funzionava. I residenti hanno trovato nelle loro vasche di raccolta dell'acqua numerose tracce di gasolio provenienti dal serbatoio dell'impianto di riscaldamento dell'hotel (guarda il video). Il Comune allora ha chiuso un'intera strada per permettere il montaggio di una cisterna esterna che permetta agli immigrati di tenere i termosifoni accesi. "La gente mi chiama alterata perché gli sono stati tolti almeno 30 posti auto", commenta Giacomo Moscarola, consigliere comunale della Lega Nord. "Alla fine viene da chiedersi chi abbia fatto i controlli sull'idoneità della struttura, risultata inadeguata ai primi fiocchi d'inverno. È uno scandalo". Già, gli scandali. Che l'accoglienza produca anomalie è ormai appurato, ma pare eccessivo che pur di garantire ad una cooperativa l'apertura di un centro profughi si infrangano pure le procedure più basilari. Prendete l'ex sede della polizia stradale in via Maccallè, sempre a Biella: qui la cooperativa Anteo ha aperto una struttura di prima accoglienza a luglio. I vigli del fuoco, la Asl e la prefettura sono andati a fare i rilievi e hanno concesso le autorizzazioni. Poi però la Lega Nord si è accorta che quello era uno stabile adibito ad uffici e nessuno aveva chiesto il cambio di destinazione d'uso. Abuso edilizio per migranti. E pensare che non sarebbe costato nulla fare la richiesta agli uffici preposti. "Con la complicità dell'amministrazione Pd, i clandestini continuano a stare qui e la cooperativa a guadagnare, anche se non sono in regola", commenta Michele Mosca, segretario provinciale leghista. Il Comune nei giorni scorsi ha domandato spiegazioni alla coop Anteo, la quale sostiene di essersi avvalsa di deroghe specifiche per l'emergenza migranti. Deroghe che però non risultano esistere in alcun documento ufficiale. Così gli uffici comunali hanno chiesto delucidazioni al Prefetto, 'colpevole' di aver ratificato la scelta dell'immobile senza verificare la destinazione d'uso. Dalla prefettura, però, non sono arrivate risposte. Un silenzio che fa rimbombare più forte l'accusa dei leghisti: "Ecco la diversità di trattamento tra chi fa business con gli immigrati e i cittadini italiani".
Immigrazione, la Corte dei Conti smonta l'accoglienza: "Si muovono milioni senza controllo", scrive “Libero Quotidiano” il 19 febbraio 2017. L'accoglienza degli immigrati? Magna-magna all'italiana, tra conti che non tornano, bandi inesistenti e controllati che sono allo stesso tempo controllanti. Una serie di anomalie molto sospette che riguardano enti locali, coop e associazioni che lucrano sulla pelle dei disperati. Un quadro, come riporta Il Giornale, messo nero su bianco dalla Corte dei Conti, con un documento licenziato a fine dicembre 2016 ma passato inosservato che analizza i progetti del biennio 2014-2015 di 73 enti locali che hanno offerto ciascuno 25 posti di accoglienza e 147 enti locali che ne hanno offerti 15. Dunque, le anomalie. Per esempio il Comune di Grottammare, provincia di Ascoli Piceno, nel 2015 per badare a 15 rifugiati ha strappato 279mila euro di soldi pubblici; Ercolano per un progetto identico ne ha incassati 146.170, sostanzialmente la metà. E ancora: per l'inserimento socio-economico di 25 richiedenti asilo, il comune di Cassino ha ottenuto 400mila euro mentre Potenza Provincia solo 275mila. Differenze sospette sulle quali i magistrati contabili hanno indagato. E ancora, le cifre relative al ministero degli Interni: nel 2015 ha speso 208,072 milioni di euro per quasi 30mila persone contro i 196 milioni del 2014: un vero e proprio tesoro. Soldi sui quali è assai probabile che qualcuno speculi, e incassi. Ma lo scandalo, come detto, riguarda anche i progetti delle associazioni locali, per i quali spesso non viene indetto alcun tipo di bando: il punto è che i soggetti che dovrebbero controllare sono gli stessi enti che gestiscono l'accoglienza, ossia l'Anci, che affida alla connessa fondazione Cittalia le verifiche (al "modico" costo di 11 milioni di euro per il triennio 2014-16). La Corte dei Conti, infatti, sostiene la necessità di un soggetto indipendente che funga da guardiano.
Cinquecento euro a immigrato per tenere buoni i sindaci, scrive di Tommaso Montesano il 17 febbraio 2017 su “Libero Quotidiano”. Non bastavano i 35 euro per gli adulti e i 45 euro per i minori versati agli enti gestori dei centri di accoglienza. Per rendere ancora più appetibile l'ingresso nel «sistema migranti», arriva anche nel 2017 il bonus offerto ai Comuni che decideranno di ospitare gli aspiranti profughi: 500 euro per ogni straniero accolto. Soldi che gli Enti locali potranno spendere «liberamente», visto che la nota esplicativa del ministero dell'Interno non prevede «vincoli di destinazione delle somme», come ricorda l'Anci, l'associazione che raggruppa i Comuni italiani, nella lettera inviata tre giorni fa ai municipi. La Lega chiama i suoi sindaci alla resistenza. «Così è un ricatto. Il governo prima taglia servizi e risorse ai Comuni, poi gli fa scrivere dall' Anci promettendo un aiuto se accolgono i migranti. I primi cittadini leghisti non aderiranno mai», annuncia Paolo Grimoldi, deputato del Carroccio e segretario della Lega lombarda. «Piuttosto saremo noi a pulire le strade e tagliare gli alberi. L' Anci si è ridotta a fare lo zerbino del governo». La circolare degli uffici regionali dell'Anci ai Comuni è del 14 febbraio. Nella missiva, l'associazione ricorda ai sindaci che il bonus, una volta finito in cassa, potrà essere impegnato per «progetti di miglioramento dei servizi o delle infrastrutture utili e attesi da tutta la comunità locale». Si tratta di una «misura solidaristica dello Stato nei confronti degli Enti comunali che, nel corso degli anni, hanno accolto richiedenti protezione internazionale». Una precisazione, leghisti a parte, destinata a non passare inosservata sui tavoli dei primi cittadini, visto che il finanziamento arriverà in primavera, in coincidenza con le elezioni amministrative. «Il presidente di Anci Lombardia è Roberto Scanagatti, sindaco di Monza (Pd, ndr), che punta al rinnovo», ricorda non a caso Grimoldi. La lettera di tre giorni fa segue quella inviata lo scorso 26 gennaio dall' Anci nazionale e firmata dal suo presidente, Antonio Decaro, sindaco di Bari (Pd anche lui). Una comunicazione inoltrata per sensibilizzare i sindaci in vista della «prima scadenza utilie per presentare i progetti di adesione alla rete Sprar nell' anno 2017». Sprar sta per Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, ovvero il circuito assistenziale nel quale sono inseriti i profughi. Un meccanismo gestito direttamente dai Comuni. Che però, rispetto ai 174.779 migranti attualmente presenti sul territorio nazionale, ne assorbe appena 23.717, come denunciato ieri dalla fondazione Migrantes. Da qui la necessità, visti anche i continui sbarchi sulle nostre coste (9.448 arrivi nel 2017), di riequilibrare il bacino dell'accoglienza coinvolgendo di più i Comuni. Su poco meno di 8mila amministrazioni, infatti, sono circa 1.000 i municipi coinvolti nella rete Sprar. E quale leva è migliore dei soldi per invertire la tendenza? A gennaio, l'Anci aveva avvertito i municipi: «Il fenomeno migranti è presente e sarà stabile nel tempo». Sottinteso: meglio aderire al bando Sprar, visto che l'appartenenza alla rete dell'assistenza ai migranti, oltre al bonus, consente anche di avvalersi della «clausola di salvaguardia», che «rende esenti i Comuni dall' attivazione di ulteriori forma di accoglienza», magari superiori, nei numeri, a quelle previste dallo Sprar. Il fondo dal quale attingere per erogare il contributo è stato istituito dal Viminale per «immigrazione, accoglienza e garanzia dei diritti». Per il 2016 sono stati messi a disposizione 100 milioni di euro. Ma la misura, come ha comunicato l'Anci, è destinata ad assumere «carattere strutturale» contribuendo a far lievitare ulteriormente le spese relative ai centri Sprar, che nel 2015 - ultimo dato disponibile - si sono attestate a 242,5 milioni di euro. Complessivamente nel 2016, l'anno record sul fronte sbarchi (181.436 arrivi), la spesa per l'accoglienza dei migranti, inclusi gli esborsi per le strutture governative, ha toccato quota 1,7 miliardi di euro.
PARLIAMO DI IMMIGRAZIONE SENZA PARTIGIANERIA.
La storia si ripete: le liti e l'onta francese da lavare. Giolitti dichiarò guerra ai turchi. Con la disfatta di Adua e "il "furto" della Tunisia da vendicare, scrive Giordano Bruno Guerri, Sabato 29/07/2017, su "Il Giornale". Nel 1911 Giovanni Giolitti, capo del governo, doveva fare fronte a due opposti estremismi, socialisti e nazionalisti. Dopo avere ammorbidito i primi con alcune riforme, si occupò degli altri. I nazionalisti pretendevano che l'Italia incassasse un'ipoteca diplomatica che l'Italia aveva sulla Libia, e nel settembre del 1911 venne dichiarata guerra al sultanato di Costantinopoli, ovvero alla Turchia. Avremmo conquistato uno «scatolone di sabbia», come dicevano gli oppositori dell'impresa: non si sapeva ci fosse il petrolio, ma era pur sempre una consolazione per la sconfitta di Adua e la perdita della Tunisia, che la più abile diplomazia francese aveva saputo conquistare senza combattimenti. (Ci ricorda qualcosa accaduto di recente?). Come tutte le guerre coloniali, l'impresa fu gradita alla maggior parte dell'opinione pubblica. L'impero e le colonie, nella mente dei più, dovevano rappresentare un rimedio alla tragedia dell'emigrazione: oltre 600mila italiani che ogni anno, nel primo decennio del secolo, prendevano la via dell'estero. Persino il mite Giovanni Pascoli pronunciò, dal palco del teatro comunale di Barga, il celebre discorso «La grande proletaria si è mossa». La conquista avrebbe aggiunto alle verdi, ma lontane, colonie eritree e somale un territorio di oltre 1.800.000 chilometri quadrati (oltre cinque volte l'Italia), popolati da appena 800mila abitanti. Il territorio abitabile era pari alla Lombardia e al Piemonte uniti, ma Cirenaica e Tripolitania erano lontane fra loro, con comunicazioni molto difficoltose. Anche gran parte dei cattolici ebbe un trabocco di passione nazionale, vedendovi una lotta contro l'infedele. L'Osservatore romano dovette ricordare che la guerra era «un affare assolutamente politico, al quale la religione, come tale, rimane perfettamente estranea». Se la religione non c'entrava, c'era in ballo parecchio denaro: circa ottanta banche cattoliche avevano molti interessi nella finanza, nel commercio, nell'industria, nelle assicurazioni, e avrebbero tratto vantaggio dal conflitto. La più importante, il Banco di Roma aveva interessi rilevantissimi in Libia, e aveva addirittura promosso la guerra manovrando con il governo e con gli industriali. A opporsi all'impresa fu una minoranza: per esempio Gaetano Salvemini, storico, socialista, meridionalista, e Benito Mussolini, che già alle prime avvisaglie di guerra aveva scritto: «Se la patria menzognera finzione che ormai ha fatto il suo tempo - chiederà nuovi sacrifici di denaro e di sangue, (...) la guerra fra le nazioni diventerà allora una guerra fra le classi»; insieme al futuro capo socialista Pietro Nenni, all'epoca repubblicano, per protesta si sdraiò sui binari della ferrovia, iniziativa che costò a entrambi diversi mesi di carcere. All'opposizione c'era anche il giovanissimo mazziniano Italo Balbo. Il conflitto durò circa un anno, molto più del previsto e del prevedibile: «Ho sempre dovuto falsificare i bollettini degli scontri in Libia - confidò in privato Giolitti -, per non dimostrare che si vinceva solo quando si era in dieci contro uno». La guerra costò, secondo i dati ufficiali, 512 milioni: una cifra spropositata. Anche i socialisti riformisti pagarono caro il loro appoggio all'impresa: al congresso di Reggio Emilia del luglio 1912 la corrente riformista fu spazzata via dai massimalisti e Mussolini ottenne la direzione dell'Avanti!, il suo trampolino di lancio. L'abbandono in cui venne tenuta la colonia nei primi dieci anni aveva ridotto la reale occupazione italiana a pochi chilometri quadrati: il resto del Paese era controllato dai «ribelli», raccolti attorno all'ordine religioso dei senussi, che combattevano una guerriglia estenuante e continua. La «riconquista» avvenne sotto i governatorati militari e fascisti - di De Bono (1925-29) e di Badoglio (1929-33), soprattutto a opera di Rodolfo Graziani, in Libia dal '21, comandante delle truppe dal '30 e vicegovernatore della Cirenaica dal 1932. La crudeltà di Graziani fu tale da inficiare molto l'immagine di un popolo italiano buono e amichevole verso i popoli che avrebbero dovuto riceverne la civiltà. Balbo ristabilì buoni rapporti con la popolazione, con un governo tollerante. Non riuscì, invece, a trovare il petrolio, che pure fu cercato tenacemente. Le nostre trivelle non arrivavano abbastanza in profondità, come avrebbero fatto nel secondo dopoguerra quelle americane. Sarebbe cambiata, la storia, se lo avessimo trovato? Probabilmente no: divenendo ancora più importante quel fronte, dal 1940 gli angloamericani avrebbero messo ancora più impegno a vincere lì, come avvenne.
Se il problema dei migranti è non chiamarli "clandestini". Con una lettera su Repubblica alcuni intellettuali chiedono di non usare la parola: "Meglio non regolari", scrive Luigi Mascheroni, Giovedì 9/02/2017, su "Il Giornale". L'anti-dizionario del politicamente corretto da oggi contempla una nuova parola. La grammatica della neolingua evolve in maniera inflessibile e inesorabile. Occorre adeguarsi. Nel Mondo Nuovo dell'utopia negativa sono i vocaboli che cambiano la società, non la società che usa i vocaboli. Da questa mattina è vietato usare il termine «clandestino». Lo richiede, anzi lo impone, una lettera aperta pubblicata ieri su Repubblica - organo ufficiale del pensiero unico egualitario - da un gruppo di vigilantes della psicopolizia linguistica, un Politburo interdisciplinare composto da politici, intellettuali, uomini di spettacolo (tra cui Luigi Manconi, Nicola Lagioia, Alessandro Bergonzoni), che denuncia come nel «Memorandum d'intesa sulla cooperazione nel campo del contrasto all'immigrazione illegale» sottoscritto dall'Italia e dal governo di riconciliazione libico compaia più volte «come sinonimo di migrante non regolare», il termine «clandestino». La parola - come strilla il titolo della lettera aperta - va cancellata. Perché? Perché il termine è «giuridicamente infondato»; perché «contiene un giudizio negativo aprioristico, insinuando l'idea che il migrante agisca al buio, come un malfattore» (che invece è solo una inevitabile conseguenza dell'etimologia, derivando «clandestino» dall'avverbio latino «clam», «di nascosto», indipendentemente da qualsiasi giudizio di valore, ndr); perché «suggerisce un'immagine dell'immigrato come nemico». Ecco l'utopia al negativo. Convincersi che la sostanza di un pericolo, o di una diseguaglianza, o di una ingiustizia, possa migliorare sostituendo semplicemente la parola che la indica. È noto: cambiare un termine del dizionario di uso comune è molto più facile che educare il cittadino a mutare un habitus mentale. Ci risiamo. Il Grande Fratello che vuole normalizzare l'uso del linguaggio nel nome del totalitarismo ideologico non dorme mai. Ora è nel mirino la parola «clandestino». Eliminiamola, ci dicono i fanatici del grammaticalmente corretto, e il problema si risolverà più facilmente. «Clandestino» non va bene. È offensivo. È scorretto. È una parola che indica il male. Non chiamiamolo clandestino: usiamo «richiedente asilo», o «rifugiato», o «vittima della tratta», o «migrante», e se il modo in cui è entrato in un altro Paese è illegale (nel cassone di un tir, o nella stiva di un barcone, di solito al buio, di nascosto, e forse è per questo che si una il termine clandestino), al limite scegliamo l'espressione «emigrato irregolare». Meglio ancora: giochiamoci una litote. «Non regolare». Più soft. La lettera aperta dello Stato Maggiore della Lingua Unica di Repubblica è troppo poco. Serve un Protocollo generale contro le dissimmetrie grammaticali e sintattiche da fare adottare alle amministrazioni pubbliche, agli iscritti all'Ordine dei giornalisti, nei documenti ufficiali. Attenuare, cassare, sfumare, cambiare. Sono i modi grammaticali prediletti dalla neolinguistica democratica. Coniare nuove parole che introducono concetti migliori e cancellare vecchie parole per modificare visioni del mondo sgradite. Se si abolisce una parola che «insinua» una infrazione della norma e la si sostituisce con una neutra, sarà più semplice cambiare la legge e normalizzare l'infrazione. Questo come obiettivo massimo. E, come minimo, scaricando il peso semantico da un termine all'altro (la casistica è infinita: negro-nero, gay-omosessuale, donna delle pulizie-colf, mamma e papà - Genitore 1 e Genitore 2...), avremo rinfrancato la coscienza e rispettato la privacy. Gli emigrati irregolari continueranno ad arrivare schiacciati sul fondo delle carrette del mare, o legati sotto il rimorchio dei camion, ma almeno non li avremo offesi. Grammaticalmente il ragionamento non fa una piega.
Agorà, Gabanelli e la modesta proposta sull'immigrazione. Come risolvere il problema migranti dalla tv, scrive Francesco Specchia il 6 febbraio 2017 su “Libero Quotidiano". Milena Gabanelli ha un approccio spiccio - talora urticante - con le notizie. Snocciola dati e inchieste terribili e sembra sempre sul punto di sollevarti per le narici. E il suo Report, il lavacro penitenziale di una nazione, può piacere o non piacere; ma -salvo qualche scivolata- insuffla la flebile speranza in un mondo migliore. L’altra sera Milena era ospite a Agorà Duemiladiciassette (Raitre, martedì prime time). Intervistata dall’ottimo Gerry Greco, Milena era in modalità difensore civico; e raccontava la sua pazza idea per risolvere il problema dei 180mila migranti che scorrazzano in Italia. «Arriva la crisi di rigetto a vedere ogni volta il profugo, il sottopasso dove dorme, la tendopoli, le manifestazioni di quartiere», diceva lei «allora io ho pensato alle caserme dismesse. Perchè non le rimettiamo a posto per l’identificazione?». L’idea è che tanto i migranti sdraiati per le strade già ce li abbiamo; e allora tanto vale ospitare solo i richiedenti asilo (ma «non ci devono voler due anni per identificarli») in 200 luoghi tra caserme dismesse ex ospedali, resort sequestrati alla mafia; e istruirli e curarli e dargli uno status giuridico e un buon italiano obbligatorio da parlare e un buon mestiere da fare; e, così formati, spedirli davvero in Europa, dove «ce li prenderebbero, abbiamo parlato col commissario all’immigraione Avramopoulos» . Naturalmente i 4,5 miliardi occorrenti per ristrutturare e assumere personale per il progetto ce li faremmo pagare direttamente dall’Europa, alla quale toglieremmo le castagne dal fuoco, col «lavoro sporco, tanto hub europeo dell’immigrazione già lo siamo...». Per un attimo Greco è impallidito; e il suo leggendario lessico a mitraglia s’è inceppato: «Questa la diremo a Salvini...». «Oh, ma io con Salvini ci ho già parlato», l’ha subito rintuzzato Milena, insistendo nella sua proposta che «trasforma il dramma in opportunità». E, di seguito, è partito un servizio sulle case popolari date agli extracomunitari nel romanissimo quartiere San Basilio con un tizio che urlava: «A mì moje con un fijjio de tre mesi gliel’hanno dato a quattri negri..!». Chiamasi servizio pubblico. Ora, fermo restando che sarebbe meglio una bella sfoltita ai clandestini secondo - inapplicata - dottrina Juncker, io trovo il progetto Gabanelli mirabile e realistico e repressivo della cosiddetta mafia della cooperazione. Tanto mirabile e realistico che, infatti, non se ne parla...
Parliamo di immigrazione: senza essere beceri ma neppure ipocriti. Quello dei flussi migratori è un argomento di continuo scontro tra politicamente corretto da una parte e razzismo dall'altro. Si tratta di un aut aut perdente. Ma esiste una "terza via" per affrontare la questione, scrive Gianfranco Turano il 30 gennaio 2017 su "L'Espresso". I media riflettono ogni giorno la dialettica di guerra tra atavismo e politicamente corretto. Queste due forze equivalgono alla vecchia contrapposizione fra reazione e progresso o, per non fare preferenze, alla polarizzazione beceraggine-ipocrisia. L’attualità giornalistica e politica offre numerose occasioni di confronto tra le due squadre: i politici (“tutti ladri/non tutti ladri”), l’Unione europea (“minaccia per la democrazia/garante della democrazia”), i ciclisti (“tutti drogati/non tutti drogati”), le donne (“meglio in cucina/salveranno il mondo”), e via elencando. Il tema più caldo rimane l’immigrazione. Nella dialettica dominante sembra si possa scegliere soltanto fra gli opposti estremismi. Illustrazione di Giuseppe FaddaDa una parte ci si straccia le vesti, ipocritamente, per la morte della giovane ivoriana Sandrine Bakayoko, uccisa da una trombosi al centro di accoglienza di Cona (Venezia) ai primi del 2017 e già dimenticata. Dall’altra si festeggia beceramente al grido “uno di meno”, illustrando i social con le foto della neve sui terremotati di Amatrice e proponendo un inesistente nesso di causa-effetto fra le fortune dei rifugiati e le disgrazie degli italiani rimasti senza casa. Un ottimo inquadramento di questa dialettica lo offre il testo del rapper italoghanese Bello Figo con il suo tormentone “No pago afito”, sorta di repertorio dei luoghi comuni sul rifugiato africano in forma di autoaccusa. Eppure l’ipocrisia ha un primato competitivo indiscutibile sulla beceraggine. Sfuma le tensioni sociali in attesa che qualcuno prenda una decisione o che qualcosa accada. Nemmeno il becero può davvero approvare il becerismo sistematico, altrimenti molte relazioni umane passerebbero dal “buongiorno, come va?” al “ti venga un colpo”. Ma esiste un uso politico della beceraggine, soprattutto in questa fase in Italia, dove il becero è all’opposizione mentre l’ipocrita è al governo dopo quasi vent’anni di governo del becero che, sia detto di passaggio, non sono serviti a trovare soluzioni su nessuno dei principali temi, dall’occupazione alla stessa immigrazione. Dopo i nefasti della Bossi-Fini spetta quindi all’ipocrisia trovare soluzioni legislative e su questo tema il ministro dell’Interno Marco Minniti ha esposto i suoi piani in un’intervista all’Espresso. Si vedrà se la chiusura dei Cara e la riapertura dei Cie funzionerà ma è significativo che a Minniti sia bastato proporre una soluzione operativa per diventare il governante più popolare dell’esecutivo Gentiloni. Questo non ha affatto fermato la battaglia fra Media Beceri e Media Ipocriti, che si scontrano secondo le strategie emozionali della loro fazione politica di riferimento. Da una parte, c’è l’odio. Dall’altra, l’empatia. Ma in fondo l’atteggiamento dei due schieramenti è basato su una distribuzione di quote uguale e contraria: diciamo 90 e 10. Per i Beceri il 90 per cento degli immigrati è composto - Matteo Salvini dixit - da delinquenti, mendicanti, profittatori, sudicioni e, letteralmente, «ex guerriglieri ivoriani venuti in Italia a portare la guerra civile». Solo il 10 per cento dei corpi estranei sarebbero autentici rifugiati costretti alla fuga in Europa dai conflitti e dalla fame. Per gli Ipocriti è l’inverso: solo il 10 per cento è composto da mele marce che vanno identificate ed espulse. Il resto è brava gente che cerca un futuro migliore. E mentre Salvini si vanta di visitare personalmente i centri di accoglienza, sull’altro fronte si spediscono gli inviati. Il loro racconto presenta una serie di costanti: Sovraffollamento; Condizioni igieniche oscene; Cooperative di gestione alle prese con inchieste giudiziarie; Insorgenza di problemi di ordine pubblico. Nulla di troppo diverso, insomma, da quanto si può vedere in vari ospedali del servizio sanitario nazionale. Che l’Italia sia un paese in difficoltà per suo conto, preso in mezzo da una valanga migratoria in arrivo da Africa e Asia, i due continenti dove vive l’80 per cento degli esseri umani, non sembra essere un tema. Che il ministero degli Esteri sia stato affidato ad Angelino Alfano è ritenuto un elemento di simpatico folklore nazionale. Intanto l’Ipocrisia in formato Ue si frega le mani e lascia la patata bollente dell’emergenza saldamente in mano italiana. Nonostante questo, in molti paesi dell’Unione l’elettorato sembra disposto a concedere una chance di governo alla Coalizione dei Beceri. L’ipocrisia appare perdente nel medio periodo, in Italia e in Europa, a vantaggio della beceraggine, che approfitta dell’inefficienza degli esecutivi ipocriti per aumentare il consenso. La logica dell’appartenenza, che non è ancora razzismo ma ci si avvicina, potrà sempre anteporre alla solidarietà verso i migranti la solidarietà verso i terremotati o verso i ricoverati sul pavimento dell’ospedale di Nola o verso gli scolari semiassiderati delle scuole romane.
Una terza via politica fra ipocrisia e beceraggine esiste e parte dall’analisi del dato storico ed economico. Il grande zoologo britannico Desmond Morris, 89 anni compiuti martedì 24 gennaio, insegna che il razzismo è una versione polarizzata del senso di appartenenza a un gruppo sociale e rappresenta da sempre una patologia latente dell’intera umanità. Sarebbe il caso di lasciarla in latenza. Piazzare 1.500 rifugiati in un comune di 3.000 abitanti come Cona giustifica l’allarmismo leghista che grida alla sostituzione etnica. E anche se le vicende dell’umanità sono piene di sostituzioni etniche, più o meno traumatiche, non si può pretendere che il sostituito sia contento. La paura di estinguersi è una base elettorale fertile per il razzismo che è sempre instrumentum regni e che presuppone l’elaborazione di una teoria politica capace di rappresentare il pericolo del diverso in un discorso propagandistico costruito per mezzo di fatti, fattoidi e anti-fatti. Contrapponendo il discorso ipocrita alla macchina da guerra identitaria, nazionalista e protezionista in un senso molto più ampio di quello usato per le tariffe commerciali, la beceraggine può solo diventare, o tornare a essere nel caso italiano, forza di governo. Sulla carta la terza via è relativamente semplice: soldi e sanzioni. Soldi per sostenere la forza irresistibile dell’ondata migratoria, a volte preordinata dalle organizzazioni criminali secondo il modello caro al poco compianto Muhammar Gheddafi. Sanzioni per bloccare la nozione irremovibile e fin troppo diffusa che l’Italia è il paese dove tutto è permesso. Perché è vero quanto ha scritto l’Espresso qualche settimana fa: sicurezza è una parola di sinistra. Ancora più di sinistra è la frase “la legge è uguale per tutti”. Sarebbe quasi un motto eversivo, se non fosse scritto in tutte le aule dai tribunali. Oggi come oggi è troppo spesso un motto ipocrita.
QUELLI CHE...COME I SINDACATI.
I trucchi per triplicare la pensione dei sindacalisti: da 39mila a 114mila euro. I casi sotto la lente: alla Cisl +190%. La Corte dei conti interviene per bloccare le pensioni gonfiate. L’Inps chiede lumi al ministero del Lavoro che segue i dettami dei giudici. Ma lo stop vale solo per il futuro, scrive Gian Antonio Stella il 15 luglio 2017 su "Il Corriere della Sera". È una «conquista» sindacale o un «privilegio» avere una pensione tripla rispetto a quanto stabilirebbe la Corte dei Conti? La domanda emerge dallo sfogo di Carmelo Barbagallo, il segretario Uil che davanti alle contestazioni sui vitalizi di vari sindacalisti gonfiati da calcoli generosi, sospira: «Un tempo si consideravano conquiste, adesso le chiamiamo privilegi».
Quota A o quota B? Ma partiamo dall’inizio. Cioè da una sentenza della magistratura contabile (la 491/2016) che mesi fa dà torto a un maestro elementare, sindacalista e segretario della Gilda (scuola), che aveva fatto ricorso contro la liquidazione della sua pensione «dolendosi della parziale valorizzazione della contribuzione “aggiuntiva”» versata in suo favore quale «dirigente sindacale nazionale». Stringi stringi, per semplificare il più possibile il senso d’una materia complessa, la questione è questa: la contribuzione aggiuntiva dovuta al ruolo sindacale va messa nella cosiddetta «quota A», come se si trattasse di una occupazione «fissa e continuativa»? O piuttosto nella «quota B», dove confluiscono i contributi di tutti i lavoratori pubblici e privati che esercitano un ruolo temporaneo e provvisorio, come quello appunto di un delegato sindacale che può essere democraticamente spostato o rimosso in ogni momento?
Come si calcola la pensione di un sindacalista? La sentenza della Corte dei Conti. Risponde la Corte dei conti: quei contributi vanno nella quota B. Tanto più che il rapporto di lavoro «fisso e continuativo» è smentito anche dall’incremento «assai cospicuo» portato all’incasso da quel sindacalista «passando nell’arco di 14 mesi dall’iniziale compenso mensile di euro 2.000 (settembre-dicembre 2009)» a ben 8.000 «a ridosso del collocamento in quiescenza, senza che in tale breve arco di tempo risultino essersi verificate variazioni negli incarichi». Di fatto è un’accusa: la quadruplicazione dello stipendio alla vigilia della pensione, per la quale vale in questi casi l’ultima busta paga, fa pensare a una manovra per mettere a carico dell’Inps, cioè dello Stato, cioè dei cittadini, una pensione gonfiata. Conclusione dei giudici: ricorso respinto e spese processuali a carico dell’ex segretario della Gilda.
Lo studio dell’Inps. Verdetto alla mano, l’Inps va a controllare un campione di 119 pensioni decorrenti dal 1997 al 2016. Salta fuori che, contando i contributi aggiuntivi nella «quota A» invece che nella «quota B», c’è chi ha avuto un incremento del 18,9% (il minimo), chi del 37,5%, chi del 55,5%, chi del 62,5% fino al record. Con i criteri della Corte dei Conti il «soggetto 18» della Cisl (il sindacato di Raffaele Bonanni, i cui ultimi stipendi sollevarono un putiferio) dovrebbe prendere, come dicevamo, 39.282 euro ma ne prende 114.275. Il 190,9% in più. Il triplo.
La richiesta al ministero. A questo punto, poiché queste pensioni sono ormai definitive e non c’è modo di tagliarle ma incombono i vitalizi di altri 1.400 sindacalisti che potrebbero essere rivisti alla luce della sentenza dei magistrati contabili, l’Istituto di previdenza chiede al ministero del Lavoro: come ci dobbiamo regolare? Per quattro mesi: silenzio. Finché, pensa e ripensa, arriva la risposta. «In conclusione sembra di poter dire che anche gli emolumenti sindacali erogati con carattere di fissità e continuità — da individuare in termini generali in via preventiva — vanno valorizzati ai fini del computo nella quota A». «Ferma restando la necessità», continua il ministero di Giuliano Poletti per aggiustare un po’ il tiro, «di evitare gli abusi del diritto che si possono realizzare attraverso incrementi anomali delle retribuzioni dei rappresentanti sindacali a ridosso del collocamento in quiescenza al solo fine di conseguire sproporzionati ed ingiusti vantaggi in termini di prestazione pensionistica». Traduzione: chi ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto. Ma poiché gli spropositati e ingiusti vantaggi ci sono stati davvero, come bontà sua riconosce il ministero, nel futuro occorre cambiare. Nel futuro, si capisce... Non ora.
La rivolta dei sindacalisti. Ma non è finita. Portato a casa il trionfale «tutto come prima» ministeriale concesso in contrasto con la sentenza della Corte dei conti, c’è chi tra i sindacalisti rovescia su Tito Boeri lamenti e invettive. «Boeri rischia solo di creare contenziosi che creerebbero problemi all’Inps», sbotta il segretario generale Uil Carmelo Barbagallo, minacciando neppure troppo velatamente di sollevare nuove grane nei rapporti sindacali dentro l’Istituto di previdenza. Di più: «Boeri spesso fa cose che rischiano di creare solo contenzioso, come per esempio con le buste arancioni», vale a dire quelle con cui l’Inps comunica ai lavoratori il probabile importo della loro pensione futura, «per le quali si sta spendendo inutilmente un sacco di soldi e creando tensioni». Meglio non sapere: occhio non vede, cuore non duole... Ancora più duro l’attacco di Gigi Petteni, segretario confederale della Cisl: «È normale che in un Paese in cui l’Inps dovrebbe vergognarsi di alcuni disservizi il suo presidente abbia come unico hobby quello di rompere le scatole ai sindacati?». La polemica, com’è noto, è il sale del confronto. Ma è normale, ci sia permesso di insistere, che una pensione possa essere triplicata in contrasto con una sentenza della Corte dei conti e che il governo ammetta che le regole vanno cambiate perché regala «sproporzionati ed ingiusti vantaggi», ma solo in un futuro da definire?
Mazzette al sindacalista, i lavoratori difendono Aldo Milani: "E' stato incastrato". L'avvocato sull'arresto per tentata estorsione: "Tutta una montatura". Sit-in di solidarietà, scrive Marco Bettazzi il 27 gennaio 2017 su "La Repubblica". "Aldo Milani rigetta tutte le accuse, non ha mai preso soldi nella sua attività sindacale, quando ne avremo occasione contiamo di chiarire completamente la situazione". Così spiega Marina Prosperi, avvocato del leader del Si Cobas arrestato, uscendo dal carcere di Modena dove si trova il suo assistito. Secondo le ricostruzioni del sindacato, l'arresto e le accuse di estorsione sarebbero tutta "una montatura". "L'hanno incastrato, è evidente anche dal video che lui non c'entra niente e non prende i soldi - spiega Gino Orsini, responsabile organizzativo Si Cobas - è tutta una manovra dei padroni e del governo per neutralizzare le nostre lotte nella logistica". Mentre parla è accerchiato da centinaia di lavoratori arrivati un po' da tutta Italia, che urlano "Aldo libero" e dopo aver presidiato il carcere ora si sono spostati a Castelnuovo Rangone davanti ai cancelli dell'Alcar Uno, l'azienda della famiglia degli imprenditori Levoni che hanno denunciato il sindacalista. "L'altro arrestato, Piccinini, non c'entra nulla col Si Cobas, non è un sindacalista - continua l'avvocato - una volta che avrò le carte risponderemo alle domande e chiariremo tutto".
Mazzette contro le proteste in azienda. Sindacalisti arrestati per estorsione. Modena, due rappresentanti del Si Cobas filmati mentre ricevevano 5 mila euro. Nel filmato della Polizia il momento in cui i due sindacalisti ricevono l’anticipo di 5 mila euro, scrive il 28/01/2017 Franco Giubilei su "La Stampa". L’accusa, per due sindacalisti di una formazione fra le più a sinistra sul terreno delle rivendicazioni operaie, i Si Cobas, è di quelle infamanti: aver intascato denaro dai “padroni” per tener buone le maestranze in un settore, quello della lavorazione carni, dove le condizioni di lavoro sono spesso tremende e il personale è composto dai lavoratori più deboli, particolarmente esposti all’avvicendarsi di cooperative che li sfruttano. La polizia è andata a prendere a casa sua il coordinatore nazionale del sindacato autonomo, Aldo Milani, e con lui ha arrestato un consulente sindacale, D. Piccinini, per estorsione aggravata e continuata ai danni della Alcar 1 della famiglia Levoni, grande azienda di Castelnuovo Rangone teatro negli ultimi mesi di una forte mobilitazione che ha visto proprio Si Cobas sulle barricate, con ripetuti incidenti costellati di da cariche dei reparti mobili e lanci di lacrimogeni. Un agente era stato colpito dal lancio di un masso lo scorso 17 novembre e anche un giornalista era rimasto leggermente ferito una decina di giorni dopo, sempre durante un blocco davanti alla sede dell’azienda. La squadra mobile di Modena ha diffuso un video che documenta il passaggio di 5 mila euro fra esponenti di Alcar 1 e i due sindacalisti, primo assaggio dei 90 mila pretesi per rimpinguare la “cassa di resistenza” dell’organizzazione; un pizzo estorto per scongiurare nuove proteste o picchetti con interruzione del lavoro, secondo gli inquirenti coordinati dal pm Claudia Natalini. La reazione di Si Cobas, sul blog ufficiale, riecheggia quelli di quarant’anni fa: «Ci troviamo di fronte a un’escalation repressiva senza precedenti. Lo stato dei padroni, non essendo riuscito a fermare con i licenziamenti, le minacce, le centinaia di denunce, i fogli di via, le manganellate e i lacrimogeni una lotta che in questi anni ha scoperchiato la fogna dello sfruttamento nella logistica e il fitto sistema di collusioni e complicità fra padroni, istituzioni e sistema delle cooperative, ora cerca di fermare chi ha osato disturbare il manovratore. Con l’arresto di Aldo Milani si vuol mettere fuori legge la libertà di sciopero». Il sindacato grida al complotto e ieri ha portato 250 persone davanti al carcere di San’Anna di Modena, dove sono reclusi il suo responsabile nazionale, Milani, e il consulente, urlando «Aldo libero». Intanto l’altro sindacato autonomo, i Cobas, prende le distanze preoccupandosi che non vengano fatti equivoci fra le due sigle: «Non siamo in grado di pronunciare alcunché sulla vicenda (…) e ci auguriamo che gli arrestati siano in grado di smentire le accuse – recita una nota del portavoce nazionale, Piero Bernocchi -. Nel frattempo però invitiamo tutti i mezzi di informazione ad evitare qualsiasi confusione fra i Cobas e il cosiddetto Si Cobas». Bernocchi rivendica anche la primogenitura del marchio: «Noi inventammo e lanciammo trent’anni fa la sigla Cobas, costruendo il più grande movimento di massa nella scuola. Poi ebbe un tale successo da provocare la nascita di numerosi “imitatori” che hanno usato sigle simil-Cobas”. Evidente la preoccupazione di essere accostati a una vicenda sporchissima, se le accuse venissero confermate, che allunga un’ombra losca su certi sindacati.
La suora che sfida i sindacati: "Scuola migliore senza di loro". Suor Anna Monia Alfieri è esperta di scuola: "Miglioramenti solo con i costi standard. E senza i sindacati", scrive Claudio Cartaldo, Giovedì 26/01/2017, su "Il Giornale". Suor Anna Monia Alfieri è certa di una cosa: lo Stato sulla scuola può risparmiare 17 miliardi di euro l’anno. E lo ripete tante di quelle volte che ormai si auto-definisce "suora rompiballe". Sì, perché pochi come lei conoscono la politica scolastica e non c'è nessuno che più di lei vorrebbe trovare un soluzione per la scuola italiana che sia economica per le casse del cittadino e ottimale per i ragazzi. I conti Suor Anna li fa in maniera semplice. Lo Stato dichiara di spendere 8mila euro a studente, eppure il costo effettivo in alcuni gradi di insegnamento è molto molto più basso. Meno della metà. E così, come racconta in una lunga intervista a Libero, lei "propone di dare a ogni alunno (di tutte le scuole, statali e paritarie) un buono-spesa prestabilito diverso per ogni tipo di scuola". Tecnicamente si chiama "costo standard di sostenibilità per allievo" e il principio ideato dalla suora è stato approvato nei giorni scorsi dal consiglio dei ministri. Se tutto andrà per il verso giusto, prima o poi il "costo standard" potrebbe diventare legge ed essere applicato. Lei non si scompone. E spiega punto su punto quale sono i due veri problemi della scuola italiana: i sindacati e le assunzioni da ammortizzatore sociale. I prof sono pagati poco perché sono troppi. "Nel nostro sistema scolastico la voce che pesa di più è quella del personale - dice suor Anna - Perché sono tanti. Se introducessimo la meritocrazia, se scardinassimo l’idea diffusa e scandalosa per cui la scuola debba essere un ammortizzatore sociale, gli insegnanti guadagnerebbero di più e avremmo buoni docenti per una buona scuola". La religiosa aveva un giudizio positivo anche sulla Buona Scuola di Renzi, soprattutto quando si parla di "leadership del preside". Poi però qualcosa è crollato. E la colpa è dei sindacati, come sempre. "I sindacati si sono scatenati perché la scuola è schiava di una cultura ipersindacalizzata - attacca suor Anna - per cui non si può ipotizzare di valutare i docenti. Prof e sindacati sono scesi in piazza contro la meritocrazia. E contro la leadership del preside, ma in tutte le aziende c’è una guida». Poi c'è il dramma delle schiere di professori precari: tutti a laurearsi per un posto che non esiste. La soluzione? "Limitare l’accesso alla professione - propone la religiosa - A Medicina c’è il numero chiuso, adesso per laurearsi in Scienze della Formazione bisogna superare un esame ma non basta. Per altre lauree che aprono le porte all’insegnamento non c’è il numero chiuso. A che cosa servono altri docenti se il tasso di natalità è in calo?". A niente. E poi andrebbero valutati, aggiunge. "Va fatta anno dopo anno. Non si è insegnante a vita. Solo in questo modo la qualità della scuola migliora. Pensi solo per un attimo a come si sente il prof che ogni giorno lavora con tenacia ed entusiasmo mentre il suo collega nullafacente è sempre in malattia e guadagna quanto lui…" No, penso al bene degli studenti. La valutazione va fatta anno dopo anno. Non si è insegnante a vita. Solo in questo modo la qualità della scuola migliora. Pensi solo per un attimo a come si sente il prof che ogni giorno lavora con tenacia ed entusiasmo mentre il suo collega nullafacente è sempre in malattia e guadagna quanto lui…". Migliorare si può, pensa la suora. Ma ad una condizione: "Non si può fare a braccetto con i sindacati che pensano solo a far lavorare la gente".
Un teste accusa i sindacati: "Fanno crollare le domus". Un lavoratore: «Se nella trattativa c'è tensione, arriva lo sfregio. Basta così poco a buttare giù un muro...», scrive Nino Materi, Lunedì 30/01/2017, su "Il Giornale". Nel pasticciaccio brutto dei «misteriosi» crolli delle domus pompeiane, spunta un testimone che al Mattino di Napoli rivela: «Succede sempre così. Quando c'è tensione sindacale, arriva un crollo, uno sfregio. Per abbattere un muro basta una spinta...». Parole che sembrano dare ragione a chi sospetta un «ruolo attivo» dei dipendenti più sindacalizzati nei danneggiamenti delle antiche vestigia. L'articolo che riporta la clamorosa dichiarazione è stato subito acquisito agli atti del «dossier scavi di Pompei» su cui indagano i carabinieri di Torre Annunziata. Sono loro infatti che hanno giurisdizione sul territorio del sito archeologico e che, nel corso degli anni, hanno sempre eseguito i rilievi relativi ai tanti «cedimenti strutturali» nella città che fu «pietrificata» dall'eruzione del Vesuvio. La cronaca ci ricorda come la tempistica di alcuni di questi crolli risulti piuttosto sospetta. Il motivo? Quando una vertenza sindacale si fa particolarmente conflittuale, ecco che una parte di domus viene giù. Insomma, la conferma della tesi avanzata dal testimone anonimo scovato dal Mattino di Napoli. Un «giallo» tornato d'attualità in questi giorni, con il ripetersi della medesima dinamica: uno scontro violento tra i sindacati più oltranzisti e il soprintendente Massimo Osanna. Risultato: giovedì scorso una piccola parte di una domus si è sbriciolata. Tutta colpa del fato o una insospettabile «manina» lo ha aiutato nell'opera distruttiva? Domanda legittima considerato che la domus sorge in un'area non videosorvegliata e il cui accesso è consentito solo al personale di vigilanza. Inoltre giovedì le condizioni atmosferiche (a Pompei era una bella giornata di sole) erano incompatibili con un crollo riconducibile a cause naturali quali pioggia, neve o vento. I più malevoli si spingono a ipotizzare che a provocare il danno possa essere stato un custode ipersindacalizzato, magari al fine di fare pressione sul soprintendente Osanna. Il quale però - come del resto tutti i sindacalisti e i lavoratori degli scavi di Pompei - definiscono tale come «pura calunnia». Sarà anche così, ma i carabinieri di Torre Annunziata non trascurano nessuna pista. Senza contare che nell'ultima settimana hanno dovuto integrare il «dossier Pompei» con una serie di denunce e controdenunce a sfondo sindacale. Nel mirino delle sigle più oltranziste è finito il soprintendente Massimo Osanna, oggetto nel giro di 48 ore prima di un esposto-denuncia per un presunto «abuso d'ufficio» e poi di una querela per un'altrettanta presunta «diffamazione a mezzo stampa». Ma perché tanta rabbia, da parte dei portavoce dei custodi, nei confronti del soprintendente? Tutto nasce da un'assemblea sindacale che, giorni fa, rischiava di bloccare il normale accesso dei turisti nell'area archeologica: un'eventualità impedita però dal piglio decisionista del professor Osanna il quale, utilizzando il personale in servizio e nel pieno rispetto delle leggi, ha permesso il normale ingresso dei visitatori. Obiettivo (raggiunto) del soprintendente: evitare l'ennesima figuraccia dei cancelli chiusi, con fuori centinaia di persone in attesa che l'assemblea sindacale terminasse. Una scena tristissima già avvenuta in passato e che non ha certo concorso a dare una buona immagine degli scavi di Pompei in particolare e del nostro Paese in generale. Anche per questa ragione Osanna dal 2014 (anno del suo insediamento a Pompei) ogni volta che c'è la minaccia di una serrata scende in campo direttamente nella doppia veste di chi «ci mette la faccia» (magari chiedendo scusa ai turisti per i disagi) o per assicurare che quei famosi cancelli vengano aperti. Una «strategia dell'efficienza» che però non piace ai sindacati più legati al vecchio andazzo del «qui si fa come diciamo noi, altrimenti blocchiamo tutto». Ecco allora che i rappresentanti «ultrà» dei custodi, dopo l'ennesima «levata di testa» di Osama, sono andati dai carabinieri presentando un esposto-denuncia accusando Osanna di abuso d'ufficio per aver «utilizzato del personale di sorveglianza in violazione degli accordi interni di categoria». Osanna ci resta male. Ma ci resta ancora più male il giorno dopo quando scopre che un pezzo di una domus in un'area non aperta al pubblico e accessibile solo ai custodi è venuto giù. Trattasi di uno di quei crolli misteriosi che i più maliziosi definiscono «pilotati» ogni volta che sindacati e soprintendente arrivano ai ferri corti. Cosa che a Pompei accade abbastanza di frequente. Come evidentemente sa bene il testimone anonimo rintracciato dal Mattino. Il giorno successivo a questi eventi il professor Osanna rilascia al Mattino di Napoli una intervista dai toni molto duri (anche questa acquisita agli atti dai carabinieri). Uno dei passaggi più pesanti recita testualmente: «Hanno provato a ricattarmi. Due piccoli sindacati autonomi hanno provato a dirmi: o fai quello che ti diciamo noi, o ti chiudiamo gli scavi». Osanna non fa i nomi dei «due piccoli sindacati autonomi», ma i responsabili di due sigle autonome (Flp e Unsa) hanno deciso di querelarlo per «diffamazione a mezzo stampa». Che abbiano la coda di paglia?
La Camusso sbugiardata: anche la Cgil usa i voucher. Il sindacato rosso paga i suoi collaboratori coi buoni che vuole abolire: "Non ci piacciono, ma non c'è alternativa", scrive Paolo Bracalini, Venerdì 06/01/2017, su "Il Giornale". Raccogliere firme per un referendum contro i voucher, e poi pagare i collaboratori con gli stessi voucher? Sì, la Cgil può. Però, il sindacato più rosso d'Italia ha un alibi: «Lo facciamo perché non abbiamo alternative, anche se continuano a non piacerci» confessa Bruno Pizzica, segretario regionale dello Spi-Cgil (ramo pensionati) in Emilia Romagna. Non solo quindi la Cgil licenzia i suoi dipendenti mentre combatte contro i licenziamenti nelle aziende private, ma «sfrutta» anche i lavoratori precari pagandoli a cottimo, con gli odiati voucher che vorrebbe abolire. La leader Cgil, Susanna Camusso, li paragona nientemeno che ai pizzini della mafia: «I voucher sono ormai diventati i pizzini che retribuiscono qualsiasi attività - ha detto l'altro giorno la segretaria nazionale della Cgil. Così facendo si inquina il buon lavoro e si condannano milioni di giovani e lavoratori a un futuro assai povero. Vanno aboliti». Dopo averli usati per retribuire i precari della Cgil, però. Succede peraltro a Bologna, cuore del sindacalismo barricadiero di sinistra, dove nel 2002 è stato assassinato dalla nuove Br il giuslavorista Marco Biagi, il primo ad introdurre i voucher nella sua riforma del lavoro. «Abbiamo l'indicazione dai livelli nazionali di non usare i voucher, i volontari che lavorano per noi poche ore al giorno» racconta il sindacalista Cgil al Corriere di Bologna, aggiungendo l'auspicio che la faccenda rimanga confinata dentro la circonvallazione bolognese, perché «è meglio che questa notizia esca adesso, perché se uscisse durante l'eventuale campagna referendaria per l'abolizione del Jobs act faremmo molta fatica a spiegarla alla nostra gente...». Difficile far passare, ad esempio, la giustificazione che adduce il segretario dello Spi-Cgil di Bologna, Valentino Minarelli: «Noi usiamo i voucher per i nostri volontari che fanno lavori occasionali, stiamo parlando di una cinquantina di persone. Parliamo di persone che guadagneranno 150 euro al mese, che lavorano solo qualche ora per noi. Siamo praticamente costretti a utilizzare i voucher», perché l'alternativa ai voicher per retribuire le prestazioni occasionali sarebbe il nero, o un'impossibile assunzione. Cioè le stesse identiche ragioni per cui ricorrono ai voucher le aziende, a cui però proprio la Cgil vorrebbe togliere lo strumento del pagamento occasionale. Lo Spi-Cgil fa tutto all'insaputa della Camusso? Non sembra proprio. «Ne abbiamo parlato anche con la Cgil nazionale, noi siamo e restiamo contrari all'uso dei voucher» risponde il segretario dello Spi Cgil nazionale, Attilio Arseni. Ma appunto, non hanno alternative: «Ricorriamo all'uso dei voucher per pagare il servizio ad alcuni pensionati che uno o due volte la settimana, ci aiutano in prestazioni quasi di carattere volontario: si tratta di pagamenti all'incirca di 100 euro al mese. Che dovremmo fare? Pagarli in nero? Non esiste proprio. Purtroppo i voucher sono gli unici strumenti a disposizione». Ma la Cgil è in buona compagnia nel predicare in un modo e razzolare in quello opposto. Il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, si è schierato per l'abrogazione dei voucher perché il Jobs Act «riduce i diritti dei lavoratori», eppure il Comune di Napoli ha appena emesso un bando «per la selezione di lavoratori disoccupati disposti ad effettuare presso il Comune di Napoli prestazione di lavori di tipo accessorio retribuiti mediante voucher». E pure a Torino, dove la sindaca Chiara Appendino del M5s, che definisce i voucher «sfruttamento, precariato spinto e zero tutele», offre lavoro tramite appunto i voucher. Tutti buoni, coi buoni lavoro degli altri.
L’imbarazzante caso dei pensionati Cgil che usano i «maledetti» voucher. Da ieri i suoi dirigenti sono nell’occhio del ciclone. «Vogliamo abolirli, ma l’alternativa era il nero», è la difesa, che somiglia a quel che sostiene il governo, scrive il 5 gennaio 2017 Dario Di Vico su "Il Corriere della Sera". Con i suoi 640 mila pensionati iscritti, 6 mila attivisti e 300 leghe sparse sul territorio lo Spi-Cgil dell’Emilia-Romagna rappresenta il cuore del sindacalismo rosso e sicuramente una delle maggiori organizzazioni sociali dell’intera Europa. Da ieri i suoi dirigenti sono nell’occhio del ciclone perché, come ha scritto il Corriere di Bologna, utilizzano per il lavoro occasionale i famigerati voucher. Quelli che la Cgil vuole abolire chiamando al voto tutti gli italiani e sempre quelli che Susanna Camusso ha paragonato ai pizzini mafiosi. Il caso riguarda 50 persone che prestano servizio presso le sedi del sindacato meno di tre giorni a settimana e vengono retribuiti con i ticket del lavoro. Il segretario regionale dello Spi-Cgil, Bruno Pizzica, ieri ha spiegato che non si tratta di «occasionali» ma di pensionati attivisti dell’organizzazione che non si sarebbero potuti pagare in nessun altro modo. «Siamo per l’abolizione dei voucher, non dissentiamo dalla Cgil ma non potevano certo ricorrere a prestazioni in nero. E abbiamo usato l’unico strumento per non farlo». Ma proprio sostenendo che sono un rimedio contro il sommerso Pizzica finisce per avvalorare la posizione del governo Gentiloni che vuole riscrivere le norme per contrastare gli abusi ma intende confermare i voucher in funzione anti-evasione. Nel merito poi dei possibili emendamenti alla legge uno dei consulenti di Palazzo Chigi, Marco Leonardi, ha elencato in questi giorni sulla sua pagina Facebook almeno sette possibili soluzioni. La vicenda rappresenta sicuramente un micidiale contropiede per la Cgil a pochi giorni dal verdetto della Consulta sull’ammissibilità dei tre referendum, di cui uno riguarda esplicitamente i ticket del lavoro. Esaurite però le polemiche il tema che emerge sullo sfondo è quello degli orientamenti di fondo del sindacato italiano. Da una parte c’è la tendenza a vivere di grandi campagne d’opinione, spalmate sul territorio e assistite da una continuità organizzativa esemplare; dall’altra la necessità in una fase contraddittoria come l’attuale di «sporcarsi le mani», di spendere la forza degli iscritti per negoziare soluzioni magari imperfette ma che in qualche maniera cercano di governare i profondi cambiamenti dell’economia e del lavoro. La scelta della Cgil finora è stata legata al primo modello e non è un caso che dalle campagne si sia passati alla raccolta delle firme per i referendum, in virtù di una sorta di radicata sfiducia sulle possibilità di ottenere risultati per altra via. Ma il rischio che il sindacalismo italiano corre adottando questa strategia è di confondersi con il grillismo, di trasformare la (legittima) protesta e il disagio sociale in rancore. Salvo poi incappare in clamorose contraddizioni quando, come nel caso dello Spi-Cgil, il sindacato è esso stesso datore di lavoro e si deve comportare con pragmatismo. Non tutto il sindacato è però incamminato su questa strada. La Cisl, pur tra mille cautele, ha scelto la via di continuare a contrattare il contrattabile e ha avuto ragione a scommettere sul tramonto della rottamazione sindacale. Proprio ieri Tommaso Nannicini, indicato come l’estensore del prossimo programma del Pd, in un’intervista concessa alla Stampa ha indicato come obiettivo quello di re-intermediare investendo «nell’associazionismo, nei circoli, sulla rete e nel confronto con i corpi intermedi». Un secco dietrofront rispetto al primo renzismo. Accanto alla Cisl anche un altro spezzone del sindacalismo italiano, nientemeno che le tre sigle dei metalmeccanici Fiom-Fim-Uilm, ha di recente scelto di «sporcarsi le mani» firmando con la Federmeccanica un contratto che per affrontare insieme le sfide di Industria 4.0 e della valorizzazione del capitale umano individua nuove soluzioni e sceglie di affrontarle assieme. Un antidoto se non al populismo quantomeno al rancore.
Camusso beccata. Protestano e intanto sfruttano: così la Cgil paga con i voucher, scrive Nino Sunseri il 6 Gennaio 2017 su “Libero Quotidiano”. I voucher sono un esempio di sfruttamento indegno quando a usarli sono le imprese private. Diventano un insostituibile strumento di flessibilità e di contrasto al lavoro nero se a utilizzarli è il sindacato per i propri collaboratori occasionali. La solita doppia morale cui la Cgil non si sottrae mai. Per Susanna Camusso i voucher sono dei volgari "pizzini" segno di sfruttamento dei lavoratori al punto da meritare un referendum per abolirli. La Camera del Lavoro, invece li impiega senza problemi. Com' è questa storia? A sollevare lo scandalo è il Corriere di Bologna, edizione locale del Corriere della Sera, dove però decidono che la notizia non merita di essere rilanciata a livello nazionale. Chissà perché? Colpevole distrazione o tardivo riflesso dei tempi in cui sul palazzo di via Solferino sventolavano bandiere rosse? Non si capisce. Tanto più che la scoperta è veramente ghiotta: lo Spi-Cgil, il potente sindacato dei pensionati, a Bologna e in tutta l'Emilia-Romagna paga i collaboratori occasionali (quelli che lavorano meno di tre giorni alla settimana) con i voucher. Siamo nel cuore rosso del Pd e i protagonisti sono i rappresentanti dei pensionati che ormai costituiscono la componente più importante del sindacalismo italiano. Ma non importa. I custodi dell'ortodossia sindacale non si fanno scrupoli di utilizzare i tagliandi Inps. Al punto tale che la Cgil ha raccolto ben tre milioni di firme per abolirli insieme al jobs act. E che importa se l'alternativa ai voucher è il lavoro nero e che il ripristino dell'articolo 18 (addirittura esteso alle imprese con appena cinque dipendenti) diventa il gesso nel quale imbalsamare il mercato del lavoro? Quello che conta per una certa sinistra è l'ideologia. La realtà è un'altra cosa e se non si adegua ai sacri principi è la realtà a sbagliare. Mai l'ideologia. Una contraddizione pesante per chi sta conducendo una battaglia senza quartiere per la cancellazione dei buoni lavoro di cui il Corriere di Bologna ha chiesto spiegazioni a Bruno Pizzica segretario Spi-Cgil dell'Emilia-Romagna. La risposta che ricevono in redazione è surreale: Abbiamo l'indicazione dai livelli nazionali di non usare i voucher, i volontari che lavorano per noi poche ore al giorno al limite li paghiamo con i buoni pasto. Un riconoscimento implicito che le collaborazioni saltuarie sono onorate in nero. Inammissibile per i difensori dei diritti dei lavoratori. Così poco dopo il sindacalista chiama in redazione a Bologna per correggere il tiro: Mi scuso, non mi occupo degli aspetti organizzativi e non ero bene informato: quella dei ticket-restaurant è una stupidaggine, è vero invece che utilizziamo anche noi i voucher, anche se continuano a non piacerci. Lo facciamo perché non abbiamo alternative. Né a quanto pare il sindacato sembra veramente interessato a costruirle preferendo il lavoro nero. La stessa logica che ha portato Cgil-Cisl e Uil a non applicare l'articolo 18. Vietato licenziare per tutti tranne che per il sindacato. Una via di fuga legata al fatto che i rappresentanti dei lavoratori sono sempre riusciti a evitare la regolarizzazione imposta dalla Costituzione (naturalmente la più bella del mondo). In questo modo non sono mai stati costretti a presentare bilanci trasparenti e nemmeno a rispettare le regole sul lavoro Né importa che la lotta ai voucher appare come un altro esempio degli scontri di potere che stanno dilaniando l'eredità del Pci. Perché se è che i ticket Inps vengono introdotti nel 2003 con la Legge Biagi e altrettanto vero che la liberalizzazione più forte arriva con il governo Monti appoggiato dal Pd di Pierluigi Bersani. Lo stesso ex segretario che oggi definisce i voucher mostruosi. Il resto è storia recente, il governo Renzi ha alzato la soglia annua entro i quali possono essere usati, portandola da 5 a 7 mila euro. Nei giorni scorsi il segretario della Cgil di Bologna, Maurizio Lunghi ha denunciato l'abuso dei buoni anche nel cuore delle provincie rosse. I dati - ha detto - sono chiari: in Emilia-Romagna sono state attivate più di 18 milioni di ore con i voucher e il 30% solo a Bologna. Numeri imponenti cui, si scopre ora, ha dato un contributo anche la Camera del lavoro. Nino Sunseri
Voucher in Cgil, mail interna: "Alla stampa dire che sono casi isolati". Ma il problema resta. Due membri della segreteria nazionale scrivono ai dirigenti del sindacato dopo la notizia dell'utilizzo dei voucher nello Spi Emilia-Romagna: "Non alimentare fratture coi media". Ma il problema del lavoro non sempre regolare all'interno della Cgil rimane, scrive Matteo Pucciarelli il 07 gennaio 2017 su “La Repubblica”. Voucher utilizzati per il lavoro in Cgil: "Sì, ma solo per prestazioni occasionali". Dopo il caso dei voucher utilizzati dalla categoria dei pensionati dell'Emilia-Romagna, un autentico boomerang per chi si sta battendo per l'abolizione dei buoni lavoro e che ha raccolto le firme per un referendum abrogativo, la Cgil corre ai ripari. Ieri la segreteria nazionale ha diramato una mail a tutti i dirigenti delle categorie, nazionali e regionali. La cosiddetta "nota alle strutture" è un vademecum sul come, anche, rispondere agli organi di stampa sulla questione. "L'obiettivo che dobbiamo perseguire in queste ore delicate anche in relazione alla prossima espressione della Corte sulla ammissibilità dei quesiti referendari - scrivono Tania Scacchetti e Nino Baseotto, membri della segreteria nazionale - deve essere quello di rilanciare la validità delle nostre ragioni, supportate da milioni di firme raccolte nei mesi scorsi, evitando i processi ed evitando di alimentare fratture nella organizzazione e nella sua immagine pubblica". Ed è anche comprensibile la voglia di "evitare i processi". Perché il problema dell'utilizzo dei voucher per pagare i propri collaboratori è un problema esteso e non relegato a una sola regione. I casi sono diversi: dallo Spi di Bergamo a quello di Milano (dove nei mesi scorsi un'ispezione interna portò a pesanti provvedimenti disciplinari, compresa l'espulsione, per dei dirigenti), solo per citarne alcuni. "Certamente meglio sarebbe stato usare maggiore attenzione sulla questione, specie una volta avviata la nostra campagna di raccolta firme. Tuttavia, anche nella relazione con la stampa locale, il fenomeno va circoscritto a quello che è, un utilizzo per limitate attività meramente occasionali svolte da soli pensionati", continua il messaggio dei due dirigenti del sindacato. Insomma, minimizzare. Confinare la questione spinosa ai soli pensionati. Ma in realtà dentro la Confederazione l'utilizzo dei voucher è solo la punta dell'iceberg del capitolo legato al lavoro interno alle strutture non sempre regolare. "Un sistema ampiamente utilizzato per retribuire alcuni collaboratori - racconta un funzionario della Cgil di una struttura del sud - è quello del finto volontariato. Poi di solito attraverso la richiesta di rimborsi spese chilometrici fasulle, che vengono presentati alla tesoreria provinciale o territoriale, si percepisce una sorta di compenso mensile". Un chilometro, 0,31 centesimi: si elenca una serie di tratte, si arriva alla cifra concordata e il gioco è fatto. Lo stesso avviene un po' ovunque ed è il segreto di Pulcinella all'interno dell'organizzazione sindacale. "Non è pertanto accettabile che sia strumentalizzata la posizione della Cgil che per mesi, nel silenzio assordante di tutto il Paese, ha fatto denunce e raccolto milioni di firme affinché il tema avesse la giusta attenzione. La Cgil non nega l'esigenza di uno strumento che possa rispondere al lavoro occasionale; nega che questo strumento siano i voucher come li conosciamo oggi", si legge ancora nella mail interna di Scacchetti e Baseotto che si chiude così: "Auspichiamo pertanto che questi possano essere i contenuti che saranno diffusi ad attivisti e delegati oltre che alla stampa locale quando interpellati sulla questione". Prima che venisse inviata la mail, uno storico dirigente della Cgil emiliana, Bruno Papignani, su Facebook si era espresso così: "Non siamo di fronte ad un brutto accordo, siamo di fronte ad una cosa legittima, motivata, ma che politicamente non si può fare. Credo che ogni giustificazione peggiori il giudizio. Anche perché persino i peggiori sfruttatori se andiamo a intervistarli hanno la loro giustificazione...".
Tangenti per le assunzioni in Ama. Spuntano gli elenchi dei «padrini». Azienda rifiuti nel caos per le compravendite di posti di lavoro. Uno dei delegati Cisl citato nelle registrazioni all’esame della Procura figurava tra gli «sponsor» dei netturbini entrati nel 2010, scrive Fabrizio Peronaci il 5 gennaio 2017 su "Il Corriere della Sera". E al terzo giorno di fibrillazione per i dialoghi choc pubblicati dal Corriere sulla compravendita di posti da netturbino, in Ama tornarono a circolare le liste di Parentopoli. Alcuni nomi coincidono, il mondo è sempre quello: delegati di stretta osservanza Cisl. Il sindacalista citato dalla spazzina infuriata per la mancata assunzione del compagno («rivojo indietro i 9 mila euro, mo’ quello zompa per aria!»), ad esempio, figurava anche nei tabulati dell’«infornata» 2010. All’epoca il delegato sotto le insegne dell’organizzazione di via Po riuscì a far assumere un suo parente strettissimo, che si può quindi escludere abbia pagato. Ma cosa è accaduto nelle segnalazioni successive, specie quelle accompagnate dal versamento di moneta sonante? Quanti neo-netturbini hanno messo mano al portafoglio pur di accaparrarsi un posto fisso? È quanto sta cercando di accertare il magistrato Alberto Galanti, al quale la scorsa estate il leader della Cgil Funzione pubblica di Roma e del Lazio, Natale Di Cola, ha consegnato la chiavetta Usb con le tre conversazioni incriminate che era stata inviata anche a un segretario confederale della Cisl, Luciano Giovanni, e all’ex presidente dell’Ama, Daniele Fortini, e al capo del Personale, Saverio Lopes. L’operatrice ecologica, nei 36 minuti di registrazioni da lei stessa effettuate, parla del sistema diffuso di tangenti da 15-20 mila euro con l’amico mediatore (operaio in Atac) e poi, in modo acceso, con il presunto organizzatore del traffico, un altro delegato sindacale noto per il suo attivismo. I rumor nella sede di via Calderon de la Barca dicono che il nuovo affaire potrebbe rivelarsi ancora più devastante della Parentopoli del triennio 2008-2010, costata all’ex Ad Franco Panzironi la condanna a 5 anni e 3 mesi di carcere. In ogni caso, dai vecchi elenchi segreti, potrebbero venire elementi utili, forse decisivi ad accertare i fatti e l’intreccio di relazioni. Al Corriere nelle ultime ore sono giunte tre pagine fitte di nomi di assunti nel 2010, con a fianco i dati personali e, nell’ultima colonna, il «padrino» di riferimento. In tutto quasi cento casi di favoritismo, che tirano in ballo decine di sindacalisti legati al gran capo della Cisl in Ama, quell’Alessandro Bonfigli ribattezzato «l’imperatore» nei comunicati interni. Non mancano, tuttavia, ex assessori e consiglieri comunali, dirigenti, quadri aziendali. Ormai gli argini sono rotti: la slavina «assunzioni facili», nella municipalizzata degli scandali, pare destinata a ingrossarsi di ora in ora.
La Cgil: «Fummo noi a denunciare. Adesso in Ama chi sa deve parlare». Natale Di Cola, segretario della Funzione pubblica: «Andai in Procura la scorsa estate, appena ricevuta la chiavetta Usb. Nonostante i due cambi di amministrazione dopo il medioevo etico di Alemanno e Panzironi, l’azienda non è stata bonificata fino in fondo», scrive il 5 gennaio 2017 "Il Corriere della Sera". Cgil all’attacco, Cisl più cauta, a causa delle divisioni interne. Così le principali sigle confederali hanno reagito alla pubblicazione dei dialoghi-choc che hanno portato all’inchiesta sulla compravendita di posti di lavoro in Ama. «La magistratura vada fino in fondo. Su fatti così gravi bisogna fare assoluta chiarezza. Chi sa, parli». Natale Di Cola, capo della Cgil Funzione pubblica di Roma e Lazio, è stato l’unico, tra i destinatari della chiavetta Usb, a presentare denuncia in Procura. «La scorsa estate, appena il plico contenente il materiale citato dal Corriere è giunto nella nostra sede, lo abbiamo portato ai magistrati», ha precisato il sindacalista, che si è detto preoccupato per la persistenza di favoritismi e logiche clientelari. «Nonostante i due cambi di amministrazione seguiti al medioevo etico di Panzironi e Alemanno, l’azienda non è stata bonificata fino in fondo né messa nelle condizioni di operare in modo efficiente e con trasparenza. Per questo - ha concluso Di Cola - oggi chiediamo a chiunque abbia informazioni utili di uscire allo scoperto, garantendo il nostro sostegno». Il segretario della Cisl di Roma, Paolo Terrinoni, ha invece precisato che «nessuna chiavetta Usb con file audio è mai arrivata all’attenzione della mia persona né alla struttura». Un intervento che suona come una presa di distanza sia dai dirigenti Cisl ancora attivi in azienda, già sconfessati dal leader Bonanni 4 anni fa, ai tempi della mega Parentopoli, sia dall’attuale livello superiore: il plico risultava infatti inviato in via Po (sede della Cisl nazionale) al segretario confederale Luciano Giovanni, che sul tema «assunzioni facili» ieri non è intervenuto.
Boeri: "Cambiare i voucher ma non cancellarli. Cgil ipocrita, li usa in gran quantità". Il presidente dell'Inps conferma il giudizio positivo sul Jobs Act. "Il sindacato guidato da Camusso ha utilizzato buoni per le prestazioni per 750 mila euro". "Sto cambiando l'Istituto riducendo anche i vertici. Da qui gli attacchi. Non voglio bastoni tra le ruote", scrive Francesco Manacorda l'11 gennaio 2017 su "La Repubblica".
Il presidente dell'Inps Tito Boeri Presidente Boeri, i suoi dirigenti la denunciano alle Procure.
"L’ho letto sui giornali. Credo che sia la reazione di alcuni a una riforma della dirigenza mai fatta prima nella Pubblica amministrazione".
Dal ministero del Lavoro piovono rimbrotti a raffica.
"Osservazioni cui abbiamo già risposto".
I sindacati interni l’accusano di avere la sindrome dell’uomo solo al comando.
"Prima ancora di arrivare al mio posto avevo chiesto una riforma della governance, con un consiglio di amministrazione che avesse pieni poteri; altro che uomo solo al comando!".
E i sindacati nazionali, che già non la amano, da oggi l’ameranno ancora meno.
"Sui voucher vedo troppa ipocrisia da parte di chi li demonizza. Vanno corretti, ma non certo cancellati".
Tito Boeri, l'economista del lavoro che tra un mese compie due anni tempestosi come presidente dell'Inps, riceve da solo - e anche questo è un segno - nella sede milanese dell'Istituto. Zero uscieri, zero segretarie e un auspicio per i due anni che ancora gli restano alla guida: "Chiedo che non mi vengano messi i bastoni tra le ruote: non ho mai minacciato le dimissioni, ma non ho timore a difendere le mie posizioni. Se anche mi dovessero cacciare ho il privilegio di poter tornare a un lavoro che amo e quindi non sono condizionabile".
Gli ennesimi dati sulla disoccupazione giovanile di lunedì e la polemica sui voucher - proprio oggi la Corte Costituzionale deve pronunciarsi sui quesiti referendari della Cgil - riportano l'attenzione su un lavoro che non c'è e che se c'è tende a diventare precario. Lei ha dato in passato un giudizio positivo sul Jobs Act. Lo conferma anche alla luce di questi dati?
"La disoccupazione giovanile resta a livelli inaccettabili. Ma da quando c'è il Jobs Act l'occupazione è cresciuta più del reddito nazionale. Gli studi che stiamo facendo ci diranno che ruolo hanno avuto in questo gli incentivi fiscali rispetto al contratto a tutele crescenti, il cui scopo principale era comunque quello di migliorare in prospettiva la produttività e i salari visto che questa forma di contratto vuole stimolare le imprese a investire sulla formazione dei lavoratori".
Da una parte quel contratto, dall'altra i contestati voucher. Sono dei "pizzini", come dice la segretaria della Cgil Susanna Camusso?
"No. Non c'è dubbio che c'è stato un abuso dei voucher per le prestazioni temporanee e accessorie e che sono stati utilizzati per finalità molto differenti da quelle che il legislatore si era proposto. Qualche correttivo quindi serve. Ma cancellare i voucher sarebbe davvero sbagliato. Anche perché nel dibattito di questi giorni vedo molta ipocrisia".
L'ipocrisia riguarda la Cgil che contesta i voucher ma poi li usa a Bologna per pagare alcune prestazioni di pensionati?
"Dai nostri dati si tratta di un episodio tutt'altro che isolato. Nell'ultimo anno la Cgil ha investito 750 mila euro in voucher; non si tratta quindi né solo di Bologna né solo di pensionati. Anche altri sindacati hanno massicciamente usato questi strumenti, ad esempio la Cisl ne ha utilizzati per un valore di 1 milione e mezzo di euro".
Dei voucher conviene quindi prendere il buono? La loro funzione di far emergere il lavoro nero, come dice chi li vuole?
"Questo era il loro obiettivo accanto a quello di offrire lavoretti a studenti e pensionati. Ma solo un quinto dei percettori appartiene a queste categorie e i voucher sono cresciuti di meno nei settori dove c'è più lavoro nero come tra i collaboratori domestici e in agricoltura".
Come correggere allora il loro utilizzo?
"Si possono imporre dei limiti all'utilizzo mensile anziché annuale dei voucher. Se vediamo che in un mese lo stesso datore di lavoro ha usato lo stesso lavoratore per molte ore con i voucher questo indica la sostituzione di un contratto di lavoro alle dipendenze con i voucher. Si possono migliorare i controlli facendo pervenire direttamente all'Inps anziché al ministero gli sms di attivazione e rendendo finalmente operativo l'ispettorato nazionale del lavoro per assicurare che al voucher corrisponda effettivamente a un'ora lavorata. Questo lo renderebbe come un salario minimo, un istituto di cui si sente il bisogno in Italia".
Dal lavoro all'Inps. La sua riorganizzazione dell'istituto non piace a tutti. Anzi, sembra piacere davvero a pochi...
"Gli attacchi continui, comprese queste denunce che alcuni dirigenti avrebbero fatto nei miei confronti, si spiegano con il fatto che un'operazione di razionalizzazione come quella che abbiamo avviato all'Inps non è mai stata fatta nella Pubblica amministrazione. Le riforme organizzative della Pubblica Amministrazione sin qui sono state spesso accompagnate dal mantenimento del numero di dirigenti: noi invece riduciamo di un quarto i dirigenti di prima fascia; quelli alla direzione generale di Roma vengono più che dimezzati passando da 33 a 14. Rafforziamo la presenza dell'Inps sul territorio e creiamo spazio per nuove assunzioni di giovani laureati, magari anche che abbiano fatto esperienze all'estero e vogliano tornare in Italia. Ovvio che di fronte a questi cambiamenti si scatenino delle reazioni".
Ma lei che cosa vuole cambiare nella macchina che eroga le pensioni - e non solo - agli italiani?
"L'Inps fa molto di più che pagare le pensioni. Ha tenuto insieme il Paese durante la crisi più profonda della storia repubblicana. Ciò detto, può e deve funzionare meglio e il cambiamento deve partire dalla classe dirigente dell'Inps. Finora le promozioni a dirigente di prima fascia avvenivano spesso in modo opaco. Il risultato è stato quello di arrivare a 48 direzioni, con nomi spesso fantasiosi, che creavano sovrapposizioni e conflitti decisionali. Con la riorganizzazione abbiamo azzerato le prime e le seconde linee ed entro febbraio attribuiremo i nuovi incarichi generando una dirigenza ridotta nel numero, meno costosa e più vicina ai cittadini".
Lei deve anche nominare il nuovo direttore generale dopo le dimissioni di Massimo Cioffi, con il quale lei ha avuto un forte conflitto.
"Ho proposto Gabriella Di Michele e sto aspettando l'approvazione del ministero, che spero arrivi già oggi".
La riorganizzazione però non piace al ministero del lavoro. Prima di Natale vi siete lasciati con un scambio di missive velenoso...
"È stato sorprendente, perché il ministro Poletti aveva espresso soddisfazione per la riorganizzazione dell'istituto, nella quale eravamo andati incontro a molte sue richieste, e poi ci siamo ritrovati con una lettera del direttore generale del ministero alla quale comunque abbiamo già dato risposta. Peraltro l'ultima nota ci rimproverava molto sul bilancio dell'Inps, senza tenere conto di quello che stiamo facendo per aumentare le entrate e ridurre i costi. Ad esempio abbiamo ottenuto ottimi risultati nella lotta all'evasione contributiva, grazie alla nuova vigilanza documentale, effettuata tramite l'incrocio di banche dati. Lo scorso anno solo da questa attività abbiamo evitato un esborso illegittimo di prestazioni per circa 150 milioni. Poi abbiamo tagliato spese con operazioni di equità".
Ad esempio?
"Abbiamo pronta una circolare che interviene sulle modalità di calcolo delle pensioni dei sindacalisti. Alla luce di una sentenza della corte dei Conti possiamo intervenire per via amministrativa anche su prestazioni in essere ad ex-sindacalisti. Basta solo l'ok del lavoro e partiamo".
Traduzione?
"Oggi alcuni sindacalisti distaccati possono fare versamenti anche molto consistenti negli ultimi anni di lavoro. E questi versamenti episodici hanno un impatto sulla pensione molto rilevante al contrario di quanto avviene per gli altri lavoratori. Come documentato nella sezione "a porte aperte" del sito Inps, questa prassi ha portato ad aumenti del trattamento fino al 60%".
Quante persone sono coinvolte?
"Circa 40 già in pensione e 1.400 sindacalisti in attività".
Piccoli numeri, insomma.
"Sì, ma con un forte valore simbolico di equità, creando un precedente che potrebbe essere utilizzato per intervenire sui vitalizi. Un'altra operazione dai risparmi contenuti ma che ha un forte valore di equità è la scelta di disdire una convenzione con l'assemblea regionale della Sicilia che permetteva ai parlamentari siciliani di ottenere, in cambio di una contribuzione mensile dello 0,12% della retribuzione, un mese di retribuzione erogata a favore degli eredi in caso di decesso. Con la fine della convenzione abbiamo tolto questo privilegio a chi non ne ha diritto per legge".
Nel governo c'è chi vuole intervenire per decreto sulla povertà. E opportuno? ed è utile?
"Dal punto di vista tecnico è di sicuro opportuno. La povertà è aumentata di un terzo dal 2008 a oggi ed è giusto ambire a uno strumento universale e al tempo stesso selettivo come un reddito minimo garantito. Per farlo, però, bisognerebbe sfruttare l'esperienza positiva dell'Isee (l'indicatore della situazione economica equivalente che prende in considerazione anche le proprietà immobiliari e le condizioni dell'intero nucleo familiare, ndr) ed evitare che, come accade oggi, circa 5 miliardi di prestazioni assistenziali vadano a persone che sono nel 20% più ricco della popolazione. Il marito di una ricca manager con grande casa di proprietà non è proprio detto che debba ricevere la quattordicesima".
Il disegno di legge è bloccato in Parlamento. Sarebbe il caso di procedere per decreto?
"In Parlamento si sono persi dei pezzi importanti, come la possibilità di intervenire sui trattamenti assistenziali in essere - correggendoli e non cancellandoli - per ridurre storture come quella a cui accennavo prima. Visto che la legislatura può durare circa un anno, ci sarebbero tutte le ragioni per un decreto. Sul piano politico sarebbe un modo per dare una risposta ai movimenti anti establishment che sorgono in Italia come in altri paesi. Una pubblica amministrazione che aiuta chi ha davvero bisogno sulla base di criteri oggettivi, come un Isee basso, e non perché è sostenuto dal politico locale, migliora il rapporto fra cittadini e Stato e spiazza il clientelismo".
Due anni fa le telefonò Renzi e lei accettò la presidenza dell'Inps. Adesso Renzi è a casa e lei resta qui. Si sente più solo?
"In questi due anni mi sarei aspettato maggiore sostegno nella riforma dell'Inps, nella informazione che stiamo facendo - l'anno scorso sono impazzito per trovare i francobolli con cui spedire le famose buste arancioni - e nel permetterci di far fronte ai più di 50 nuovi compiti che ci sono stati affidati senza attribuirci risorse aggiuntive con nuove assunzioni. Con il nuovo presidente del Consiglio comunque ho un'interlocuzione più rapida, direi immediata".
Lei ha studiato e lavorato all'estero. Si sente migliore degli altri o solo più fortunato?
"Non riuscirà a trascinarmi in una polemica con il ministro Poletti. Le dico solo che il fatto di aver lavorato all'estero mi ha dato molto. E al piano di assunzioni dell'Inps spero parteciperanno alcuni talenti che lavorano fuori dall'Italia".
Che reazione ha all'esodo di laureati italiani all'estero?
"È un problema serissimo che si combatte non tanto con le formule - penso che "merito" sia la parola più inflazionata di questi anni - quanto con gli esempi concreti. Selezioni trasparenti e promozioni non legate a condizionamenti, come vogliamo fare all'Inps, sono atti che possono dare un segnale di speranza a chi è fuori e continua a sperare che l'Italia cambi. E una pubblica amministrazione che torna ad assumere persone competenti è un segnale importante: dopotutto il blocco delle assunzioni nella Pubblica Amministrazione che si trascina ormai da 15 anni ha privato i giovani ogni anno di circa 150.000 opportunità di impiego. Un numero molto vicino a quello dei giovani che nel 2015 hanno lascato l'Italia iscrivendosi all'anagrafe dei residenti all'estero".
Tangenti e assunzioni facili all’Ama, dialoghi-choc all’esame della Procura. «Sono entrata pagando 17 mila euro». In una chiavetta Usb 36 minuti di registrazioni scottanti sul traffico di posti di lavoro. I fatti risalgono al 2012, l’inchiesta aperta dalla scorsa estate. Coinvolto un sindacalista, scrive Fabrizio Peronaci il 3 gennaio 2017 su "Il Corriere della Sera". Nell’azienda municipalizzata più famigerata d’Italia, quell’Ama che di gentile ha soltanto il nome e in tempi recenti ha fatto respirare ai romani i peggiori miasmi - dalla Parentopoli targata Panzironi alle convulsioni del caso Muraro, dal video con un netturbino che sniffa cocaina alle foto choc dei maiali grufolanti attorno ai cassonetti - quest’esclusiva mancava. Se ne parlava con insistenza, per la verità. Più che una voce, era un mormorio indistinto, bisbigliato da operai, autisti e capisquadra tenendo la mano davanti alla bocca. «Non lo sai? Certo che per entrare in Ama si paga!» Bene, anzi male. Fino a che oggi, finalmente, quel labiale è stato decifrato. Esisteva un tariffario non solo per le promozioni – come scoperto dal Corriere quattro anni fa – ma anche per le assunzioni: 17 mila euro et voilà, la tuta arancione era pronta. E se qualcosa andava storto, la «stecca» saliva: un posto fisso d’altronde è oro colato, come dire di no? L’inchiesta a Piazzale Clodio è appena agli inizi, ma promette scintille. Le prove del traffico di posti di lavoro sarebbero contenute in una registrazione segretissima sulla quale sta indagando il pm Alberto Galanti, uno dei magistrati del pool «reati contro la pubblica amministrazione» guidato dal procuratore aggiunto Paolo Ielo. Le indagini, affidate alla Guardia di finanza con ipotesi di reato che vanno dall’estorsione alla corruzione, ruotano attorno a una chiavetta Usb contenente due file, della durata complessiva di 34 minuti e 36 secondi. Il plico, corredato da un testo «esplicativo» scritto da persone ben informate sulle guerre interne, era stato recapitato la scorsa estate al segretario confederale della Cisl Giovanni Luciano, al segretario della Cgil Funzione Pubblica di Roma e del Lazio Natale Di Cola, all’ex presidente dell’Ama Daniele Fortini e all’allora capo del personale, Saverio Lopes. Tra i destinatari figurava anche il Corriere, ma l’indirizzo era errato. Intoppo oggi risolto, grazie a un ulteriore, riservatissimo contatto. E ora la chiavetta è qui, sbobinata parola per parola...Le conversazioni risalgono a fine aprile 2012: in Campidoglio comandava un Alemanno già fiaccato dalle tegole giudiziarie, prima tra tutte quella legata alla valanga di assunzioni di favore garantite in Ama dall’amico manager Franco Panzironi. I protagonisti degli audio sono tre: lei, la Spazzina Infuriata, che ha materialmente azionato il tasto «rec» del telefonino, pronta a trascinare tutti dai carabinieri pur di riavere i soldi versati (a vuoto!) per far assumere il suo compagno; lui, il Mediatore d’affari, amico della dipendente raggirata, all’epoca in servizio presso un’altra municipalizzata, che cerca di metterci una pezza e le promette di restituirle il maltolto di tasca sua; e infine il terzo personaggio, il Sindacalista Colluso, la cui voce è a tratti tremante, forse nel timore che il tappo salti. Il primo file dura 8 minuti e 47 secondi e contiene due dialoghi. La Spazzina Infuriata alza la voce con il Mediatore. «Ah, aspetta! Ti voglio dire una cosa... Lui dice che la colpa è tutta la tua».
«Lui c’aveva paura che tu lo registravi, io c’ho parlato!» (Si sta riferendo al Sindacalista Colluso).
«Si, co’ che caz... lo registro? Va be’, tu sappi ‘na cosa. Lui dice che i soldi te li sei tenuti te!»
«Sì, so tutto, non ti devi preoccupa’, non me metto a fa ‘na sola a te e *** (il convivente)».
«E io lo so, lo so, lo so…» (ironica).
«Qualsiasi cosa mettimi in mezzo a me, non a loro… Mi pare che fino a ieri stava tutto tranquillo…»
«E non è tranquillo! (Strilla). Perché io vojo i sol-di!! Le soluzioni so’ due anni che non le trovamo… Comunque so’ 9 mila, non so’ più 26… E quindi adesso *** ha detto che se ne fa carico…» (la Spazzina Infuriata si sta riferendo al Sindacalista Colluso: i 26 mila euro potrebbero essere il totale versato dalla coppia per entrare in Ama, ed essendo lei stata assunta grazie al versamento di 17 mila euro, come risulta dal successivo colloquio, si può dedurre che il secondo posto fisso era stato promesso in sconto, a «soli» 9 mila euro)
«Tu non me le devi di’ a me ste cose! So tutto… Domattina, quando sei libera, mi fai uno squillo, in modo che io capisco che sei te e ti richiamo». (Il Mediatore teme di essere intercettato).
«Ok, ciao». «Ciao».
Il secondo dialogo è della stessa giornata, 24 aprile 2012. A registrare è ancora lei, stavolta al telefono con il Sindacalista Colluso. «Pronto?» «Eh?» «Sì, ahò, io c’ho parlato con ***(l’amico Mediatore) Eh, niente... Ci dobbiamo vedere a tre, qualcosa non quadra!».
«Nun me posso mette a litiga’!».
«Guarda, fa’ come te pare! Lui dice che ce l’hai tutti te, tu dici che ce l’ha tutti lui. Lui dice che tu non mi dici niente perché c’hai paura che te registravo. Va bè, cose dell’altro mondo! Quindi adesso ci vediamo a tre e risolviamo… Perché io mi so’ rotta le palle d’aspettà».
«No, guarda, chiamalo e andiamo dai carabinieri tutti e tre…» (tono concitato).
«Vedetela voi, oggi è lunedì, anzi martedì… Io martedì prossimo ci devo ave’ tutti i 17 mila euro se no vado dai carabinieri da sola, io nun vado co’ nessuno…» (la Spazzina Infuriata non ammette repliche. Da notare la cifra in contrasto con la precedente)
«No, la finisco subito, ma stiamo a scherza’? Qui mica stiamo a gioca’, oh!»
«Io lo so che non stiamo a gioca’, perché c’ho rimesso tutto e tu lo sai».
«Guarda, adesso vado a fa’ ‘na denuncia nei suoi confronti. Mi sono rotto i cojoni, scusami, non ce l’ho con te (il Sindacalista Colluso passa all’attacco, rincara la dose). Non pensavo una cosa del genere! Guarda, ci vogliamo vede’ tutti e tre dai carabinieri?»
«Qualsiasi cosa tu decidi va bene. Io o c’ho i soldi o vado dai carabinieri. Cioè: nun c’ho alternative» (lei non demorde)
«Non ci sono problemi. Punto (ma ci ripensa subito). Allora facciamo così, tu fai quello che devi fare… (biascica, non si capisce bene) ...Se hanno fatto una truffa... Non voglio saperne più niente, quello che sta succedendo è gravissimo! Ognuno risponderà delle sue azioni. Allora a ‘sto punto non ci vediamo, se hai deciso…»
«No (lei è puntigliosa) Io non ho deciso niente! Cercavo solo di capire perché uno dà la colpa all’altro. Non voglio passa’ da cretina, eh!»
«Io non c’entro (abbassa la voce) sto fuori, ok? Ci sentiamo, ciao». E mette giù.
Il terzo colloquio risale al 28 aprile 2012 ed è il più vivace. Motore di un automezzo, sferragliare di cassonetti. Stridore di freno a mano tirato, sportello che si apre. Si salutano con un bacetto. La Spazzina Infuriata ha registrato quasi 26 minuti di dialogo per strada con l’amico Mediatore, che all’inizio le spiega come farà a pagarle la cifra dovuta («Allora, ho chiesto un finanziamento, poi la cessione del quinto… Quindi o uno o l’altro i soldi ce stanno…») I due alternano chiacchiere svagate («So’ sfinita, fa un caldo da morì»), confidenze («Come sta tu’ socera?»), sbotti di rabbia per la tangente versata «a buffo» e considerazioni amare su come tirare avanti nell’Italia della crisi: «Vuoi er posto? Lo paghi! Perché oggi il lavoro non c’è, ok. Io te li do, i soldi. Ma se lui non entra (il convivente), tu me li devi ridare su-bi-to, su-bi-to, su-bi-to!»
Il Sindacalista Colluso, presunto mandante della dazione di danaro, è il suo chiodo fisso. La Spazzina Infuriata torna a parlarne. «Loro se sarebbero potuti para’ er c... diversamente. *** è stato fortunato perché di mezzo ci sei tu e la famiglia nostra, se no da mo’ che era zompato».
Ma il Mediatore lo difende, gioca su entrambi i tavoli. «Ci sta la magistratura dentro, da voi! Lui è l’unico che non centra un caz... L’unico! Se lo so’ inc… due volte!»
«Facessero come je pare, ma sta rischiando… Poi è la spocchiezza con la quale te parla, capito? Se *** entrava (fa ancora il nome del compagno) tutto questo non sarebbe successo!»
«No, è un fatto…Il fatto è che loro (si riferisce probabilmente ai delegati sindacali) c’hanno tutto controllato… Se l’Ama tira fuori un euro, dicono: che è st’euro, a chi lo devi dà? A loro non j’entra manco uno spillo ar c…». Fino a che lei, la Spazzina Infuriata, sbotta. «Io diciassettemila euro je l’ho dati, però! Uno sull’altro…. Ta-ta-ta! Tutti contanti!» (La frase è gridata, e questa sembra una prova alquanto eclatante).
QUELLI COME…I PARLAMENTARI.
L'onorevole paga il portaborse in nero. Il Jobs Act doveva dare più garanzie ai precari. Ma i primi a non usare il contratto a tutele crescenti coi collaboratori sono proprio i parlamentari, che spesso preferiscono i cococo o direttamente metodi non legali. In modo da spendereo meno e intascare di più, scrive il 9 gennaio 2017 "L'Espresso". È stato sbandierato come lo strumento per dare più garanzie ai precari: eppure i primi a non applicare il nuovo contratto a tutele crescenti, Jobs Act, sono proprio i parlamentari. A cominciare da coloro che la riforma l’hanno votata. Su 301 deputati Pd, ha scoperto l’Espresso, solo 14 lo hanno utilizzato coi loro portaborse. E fra controlli solo formali e poca trasparenza, le forme di lavoro nero o sottopagato (quando non del tutto gratuito) proseguono, mentre un onorevole ha modo perfino fare la cresta sui costi sostenuti. La chiave di volta del sistema si chiama "rimborso spese per l'esercizio del mandato": 3.690 euro al mese esentasse per i deputati e 4.180 per i senatori, utilizzabili per pagare i collaboratori ma anche consulenze, affitti delle sedi o finanziare l'attività politica (in tutto 43,8 milioni nel 2015). Per ricevere l'intera somma, tuttavia, basta rendicontarne la metà: insomma, è possibile addirittura guadagnarci. Alla Camera, ad esempio, solo 410 eletti dichiarano di avere un assistente: uno su tre, in pratica, riceve i soldi senza averne uno personale. Per cambiare qualcosa si potrebbe far pagare gli stipendi direttamente alle Camere, come avviene all'estero e come chiede l’Aicp, l'associazione dei collaboratori parlamentari. Lo prevedeva anche un progetto di legge approvato nel 2012, ma la fine anticipata della legislatura ha rimesso tutto in discussione. In quella attuale, malgrado impegni e promesse, non è stato mosso un passo e da due anni un ddl analogo giace dimenticato in commissione Lavoro a Montecitorio. In realtà sarebbe sufficiente una semplice delibera dell’Ufficio di presidenza ma il punto è un altro: molti onorevoli girano una quota del denaro al partito e in tempi di abolizione del finanziamento pubblico fa comodo non spenderli. Nel frattempo il sistema si presta a degenerazioni di ogni tipo, come mostra il questionario diffuso nelle settimane scorse proprio dall'Aicp. La scadenza è fissata a gennaio ma i primi risultati provvisori, che l'Espresso presenta in anteprima, fanno riflettere: retribuzione parzialmente in nero nel 14 per cento dei casi; cocopro trasformati in cococo ma che di fatto, nascondendo forme di lavoro subordinato, restano illegittimi (18 per cento); stage non retribuiti, vietati dalla legge Fornero, che mascherano impegni full time che arrivano fino a otto ore al giorno. E il Jobs act? Il contratto a tutele crescenti è il preferito dai diretti interessati, perché dà maggiori diritti ma essendo più oneroso non ha avuto fortuna: su 902 portaborse, solo 92 ce l’hanno. Con un paradosso doppio: fra i contrari alla provvedimento c'è chi l'ha usato, i favorevoli assai meno. Nel 2015 il gruppo M5S a Montecitorio ha stabilizzato 25 dipendenti, suscitando l'ironia del Pd per via delle critiche grilline. Eppure solo 18 deputati fra coloro che hanno votato la legge poi hanno applicato il Jobs act ai loro assistenti. Tutti gli altri, che in pubblico l'hanno sostenuto, in privato si sono rifiutati di applicarlo. Oppure hanno recalcitrato, come racconta una collaboratrice che chiede l'anonimato temendo ritorsioni: «Ho dovuto insistere per passare dal cocopro all'indeterminato, anche se il mio parlamentare aveva votato la riforma. Se non sono costretti, tutti guardano solo la forma contrattuale più conveniente dal punto di vista contributivo». Fra i "magnanimi" c'è pure chi ha fatto il furbo, spiega Marta (nome di fantasia): «Il senatore con cui lavoro ha trasformato la mia collaborazione in un subordinato a tempo indeterminato ma per non spendere di più mi ha fatto un part time. La retribuzione così è rimasta la stessa, anche se lo seguo tutta la settimana per l'intera giornata, lui in compenso ha usufruito degli sgravi». Sgravi che per un tempo pieno arrivano a ottomila euro in tre anni. D'altronde la fantasia fiscale non manca: per avvalersi delle agevolazioni previste per particolari categorie di neo-assunti c'è chi ha aperto ditte individuali o posizioni Inps e Inail come lavoratori autonomi. Qualcuno col cambio di contratto ci ha perfino rimesso, grazie a un'altra furbizia dell'onorevole di turno: lasciare inalterato il lordo ma col risultato di un netto più basso per effetto delle ritenute. E c'è pure chi l'impiego lo ha perso, come il collaboratore del Cinque stelle Massimo De Rosa. Invece di trasformare il contratto a progetto, come prevede la nuova legge, il deputato ha dato il benservito all'assistente, che gli ha fatto causa chiedendo oltre 20 mila euro fra differenze retributive, tfr e mancato preavviso e ha perfino prodotto una mail che dimostrava un tentativo di fargli firmare una lettera di dimissioni in bianco. Alla fine i due sono arrivati a una conciliazione e l'importo, fa sapere De Rosa, è stato pagato proprio col rimborso spese per l'esercizio del mandato. Ma la somma, malgrado la decantata trasparenza, è top secret: «Non posso rivelare la cifra, per evitare che la vicenda sia usata in modo politico c'è una clausola di riservatezza». Curiosità: negli anni scorsi il dipietrista Francesco Barbato, divenuto celebre per le sua battaglie moralizzatrici, fece inserire una condizione identica nella transazione con la sua ex collaboratrice. Pagata in nero come l'assistente di Gabriella Carlucci, che fu condannata. Dopo numerose inchieste che hanno svelato la diffusione del lavoro nero, ora i badge per accedere in Parlamento sono rilasciati solo a chi ha un regolare contratto depositato negli Uffici di Questura di Camera e Senato. Ma neppure questo ha sradicato il fenomeno: i controlli sono solo formali e il modo di aggirare la legge non manca. Basta un pass giornaliero in cui il portaborse viene accreditato come “visitatore” e il gioco è fatto. E sarebbe proprio questo l'escamotage utilizzato dal forzista Domenico Scilipoti, di recente citato a giudizio dal suo ex collaboratore: dopo due mesi in nero, anziché contrattualizzarlo come promesso, lo avrebbe mandato via senza nemmeno dargli la somma pattuita. L'assistente, che a sostegno della sua tesi ha esibito numerose conversazioni Whatsapp con la segretaria dell'onorevole, sarebbe entrato negli uffici del Senato con accrediti temporanei redatti tramite la pagina intranet del parlamentare. Scilipoti non commenta: «Non ho nessuna causa» si limita a dire. Impossibile avere un'idea di quanti casi simili possano esserci. Benché sotto schiaffo, molti preferiscono tenere la testa bassa: la paura di farsi terra bruciata intorno e non lavorare più nell'ambiente è forte. Così, per una media di 1.200 euro, si può finire anche a dover pagare bollette, fare la spesa o ritirare le camicie in lavanderia del proprio datore. Per quanto rare, le controversie finite in tribunale però non mancano. Da poco si è tenuta la prima udienza del processo fra Paolo Bernini (M5S) e il suo ex assistente Lorenzo Andraghetti, uno storico ex militante bolognese che lo accusa di licenziamento illegittimo per ragioni politiche e chiede 70 mila euro di risarcimento. Per la difesa, invece, l'allontanamento sarebbe giustificato dalla redazione di scritti critici col Movimento, culminata nella partecipazione a una iniziativa di fuoriusciti, tale da compromettere "l'elemento fiduciario". A Lecce è in corso una causa fra la dem Teresa Bellanova e il suo ex collaboratore locale Maurizio Pascali. Al centro della disputa, le immancabili questioni fiscali e i risparmi connessi all'apertura della partita Iva. Falsa secondo l'assistente, che aveva un unico committente e operava nella sede della federazione del Pd; del tutto in regola per l'onorevole, trattandosi di lavoro autonomo.
QUELLI…PRO GAY.
Le inquietanti origini della lobby gay, scrive Stefano Zecchinelli il 6 marzo 2017 su “L’Interferenza”. Un mito della propaganda lgbt è la contrapposizione fra nazismo ed omosessualismo, essendo l’omosessualità antitetica al “bigottismo machista” della dittatura hitleriana. Le cose non stanno così. Hitler coltivò una elite di feroci nazionalisti omosessuali che celebravano il culto della virilità. La cultura pre-nazista preparò la matrice ideologica dell’omosessualismo hitleriano, basti pensare allo scrittore antisocialista Karl Heinrich Ulrichs, più volte messo alla berlina da Marx ed Engels, oppure al testo Sesso e carattere di Otto Weininger dove vennero gettate le basi del lobbismo gay e dell’antisemitismo neocolonialista. Secondo Weininger il grado di emancipazione di una società si misura dalla “maschilizzazione delle elite”, mentre l’ebreo è per sua natura “donna” quindi “spiritualmente inferiore”. Il suo libro è un vero e proprio delirio ideologico. Leggiamo: “L’uomo ha impegnato la sua parte migliore per l’uomo. Il nostro spirito più essenziale, superabbondante, più puro e le migliori performance di noi stessi nascono in un modo o nell’altro sotto la luce di un uomo superiore che li ha stimolati”
1. Molto tempo dopo la Lobby dei gay sostituirà l’antisemitismo con l’islamofobia appoggiando l’imperialismo israeliano nella impunita pulizia etnica della Palestina storica. Questa ideologia partorì le milizie gay dei Männerbünde, omosessuali cultori dell’autorità, della gerarchia e di uno dei miti dello Stato nazionalista (e capitalista): l’eroe maschile. I Männerbünde si unirono alle Squadre d’Assalto di Hitler macchiandosi di numerosi crimini. Lo storico Stefan Zweig scrive che durante i primi anni della dittatura nazista: “Berlino si trasformò nella Babele del mondo. Bar, parchi di divertimenti e pub. Il sabba si scatenò quando i tedeschi riversarono sulla perversione tutta la loro veemenza e il loro amore per la metodicità. Ragazzi truccati, i fianchi messi in rilievo dalla vita assottigliata ad arte… Ogni studente di liceo desiderava raggranellare qualche soldo (praticando la prostituzione maschile) e nei bar si potevano vedere pubblici funzionari e magnati della finanza adescare senza vergogna marinai ubriachi. Neppure la Roma di Svetonio conobbe orge pari ai balli dei travestiti a Berlino, dove centinaia di uomini in abiti femminili e donne vestite da uomo danzavano davanti agli occhi indulgenti della polizia… una sorta di pazzia parve cogliere la classe media”
2. Fu il gay di estrema destra, il razzista Edmund Heines, a far diventare le “camicie brune” la divisa ufficiale delle S.A. dando a questa organizzazione terroristica una immagine cupa e di sopraffazione. Molti uomini vicinissimi ad Hitler erano gay ed il più importante era Ernest Rohm, organizzatore dei gruppi paramilitari del Partito dei lavoratori tedeschi poi Partito nazionalsocialista tedesco. Si trattava di una idea aristocratica ed antipopolare basata sul governo di una “elite gay” coerentizzata da alcuni (pseudo)scrittori di estrema destra. Nel 1912 Hans Bluher scrisse il saggio Il movimento tedesco dei Wandervögel come fenomeno erotico in cui viene descritto l’indottrinamento omosessuale fra i giovani. Questa elite “paramilitare” dopo il 1918 si macchierà di numerosi eccidi di operai esaltando il militarismo prussiano ed il suprematismo razziale. Le milizie gay si sporcheranno le mani del sangue degli operai berlinesi che, sotto la guida di Rosa Luxemburg, rivendicavano il Comunismo dei Consigli. L’omosessualismo, da oltre un secolo, è una ideologia di destra, profondamente reazionaria ed antipopolare. La Lobby dei gay nasce proprio in quel drammatico momento storico. Nella Germania pre-hitleriana i kapò di quella che sarà la terribile dittatura nazista si dilettavano – quando non massacravano i militanti di sinistra – nei locali gay berlinesi dandosi al libertinaggio e alla prostituzione maschile. Che tipo di omosessuale era il gay delle Squadre d’Assalto? Si trattava di un uomo prigioniero di un mondo senza donne, fatto di culturismo, marce e violenza. Mentre il gay “destroide” di Ulrichs è una donna prigioniera in un corpo maschile – Ulrichs utilizzerà la definizione catastrofica “terzo sesso” – l’omosessuale nazifascista è un uomo che disprezza le donne, indotto all’irrazionalismo derivante da miti senza senso e volgari sproloqui nazionalistici. Queste due fazioni della Lobby dei gay sono ancora in vita soprattutto negli Usa. Dopo il 1934 ed il massacro della “Notte dei lunghi coltelli” la situazione si rovescerà e gli omosessuali verranno imprigionati, torturati e castrati dalla dittatura nazista. Il Codice Penale del 1935 ne dispose l’internamento e nel 1942, quando Goebbels lanciò la “guerra totale”, i gay vennero internati nei lager e sottoposti ad un regime schiavista e razzista che, a moltissimi malcapitati, non lasciò scampo. Nonostante tutto molti collaborazionisti furono omosessuali tanto da spingere lo scrittore antifascista francese, Jean Guéhenno, a dire: “Problema sociologico: perché tanti omosessuali tra i collaborazionisti?”. Se i gay venivano anch’essi schiacciati così come le masse impoverite dalla guerra inter-imperialista, l’omosessualismo rimaneva un rito di iniziazione della “massoborghesia” (Gramsci) e della elite aristocratica. Non è un caso che Usa ed Israele abbiano mutuato una parte della ideologia perversa del nazismo, sia nel campo dei costumi che del razzismo eugenetista. Tel Aviv è la patria del “genderismo omosessualista” ma anche una delle città più razziste del mondo, con il governo israeliano impegnato in un mostruoso progetto di pulizia etnica e di massacro etnico e religioso nei confronti del popolo palestinese. Erano omosessuali gli scrittori nazisti Robert Brasillach e Pierre Drieu La Rochelle; lo stesso ideologo dei terroristi neonazisti di Ordine Nuovo. Julius Evola, passato dall’apologia dello sterminio hitleriano all’ esaltazione del sionismo e dei crimini israeliani, era solito allungare le mani sui giovani allievi. Lo scrittore di estrema destra Maurice Sachs abitò, per un certo periodo di tempo, in un bordello gay ed il suo comportamento politico era così ambiguo che l’anarchico antifascista Moreno Marchi lo definì: “truffatore, perdigiorno, scroccone, ladro, fallito, abietto e malvagio delatore omosessuale, alcolizzato ed ebreo convertito, ex seminarista e collaboratore della Gestapo”. La Lobby dei Gay, prima di passare armi e bagagli dalla parte della “Sinistra Imperiale” con la tesi balorda sul “terzo sesso”, si afferma a destra aderendo al fascismo ed al nazismo. Una storia sconosciuta nonostante qualche storico abbia provato ad entrare nel merito, scomodo, scomodissimo per molti opportunisti. Il capo incontrastato del neonazismo statunitense, Michael Kuhnen, fece pubblicare nel 1986 un libro intitolato Nazionalsocialismo ed omosessualità in cui esaltava la tradizione omoerotica all’interno dello Squadre d’Assalto. Secondo questo neonazi il Quarto Reich doveva essere fondato da una elite gay, antiborghese ma anche profondamente razzista e filocolonialista. Il modello politico tornava ad essere il ‘’nazismo di sinistra’’ di Rohm e dei fratelli Strasser mentre il nazismo successivo al 1934 venne accusato d’essere borghese e di conseguenza omofobo. Un delirio senza senso dato che le S.A. rivolsero la loro ferocia contro i lavoratori e i ceti popolari già umiliati dall’imperialismo franco-inglese.
Michael Kuhnen era molto amico del neofascista francese Michel Caignet, protagonista di una campagna diffamatoria ai danni del giornalista radicale Thierry Meyssan – omosessuale ed amico personale dell’ex presidente iraniano Ahmadinejad – conclusa con la condanna, in sede processuale, di Caignet. Meyssan ha dedicato un ottimo articolo (come sempre) al tema “nazismo ed omosessualità” in cui ricorda l’accaduto: “À partir de 1989, j’ai régulièrement et vainement saisi le Parquet et le ministre de l’Intérieur des agissements de cette organisation de malfaiteurs. Paul Quilès étant ministre de l’Intérieur, un membre de son cabinet m’a indiqué de vive voix que Michel Caignet ne serait pas inquiété, ni pour ses activités néo-nazies, ni pour ses activités pédophiles, car il savait “rendre des services”. Devant mon obstination et celle de mes amis, Michel Caignet intenta une campagne de presse et diverses machination contre moi. Il fut en définitive condamné en diffamation à la suite d’une action intentée par mon avocat, Maître Antoine Comte”.
3. Il Partito Nazionalsocialista statunitense si connota come una sorta di ‘’grande partito dei gay islamofobi e razzisti’’; la destra della Lobby dei gay, ora impegnata ad appoggiare Donald Trump. I locali gay frequentati dai neonazisti ci mostrano delle immagini raccapriccianti, figli, non sempre riconosciuti, di una società capitalista ormai in decomposizione. E le stesse copertine dei giornali pro-Gay sono simili a quelle dei giornalacci dei neonazisti. Il capitalismo non ha più nulla da offrire se non depravazione. Il mondo gay vanta molti attivisti per i diritti civili ma l’origine della Lobby dei gay – ora vergognosamente schierata con la guerrafondaia Clinton – è a molti sconosciuta. I sinceri democratici, che nulla hanno a che vedere con il razzismo islamofobo e sionista sostenuto anche dalla ideologia genderista, sono capaci di prendere atto di queste inquietanti radici storiche di quel potere che cerca di manovrarli?
Il caso. Parla De Mari: “l’omosessualità non esiste”, scrive il 22/02/2017 Mattia Rossi su “Il Giornale”. Immolata sull’altare del politicamente corretto per aver messo in guardia, con prove scientifiche alla mano, i rischi clinici dell’omosessualità. A raccontarsi ad OFF è la dottoressa Silvana De Mari, medico con alle spalle 40 anni di chirurgia endoscopica, psicoterapeuta e scrittrice fantasy tradotta in tutto il mondo, alla quale è stato minacciato un processo all’Ordine dei medici per le sue frasi sull’anormalità dell’omoerotismo. Le sue affermazioni stanno facendo discutere, diventando un vero e proprio caso. Proprio per questo sulle nostre pagine siamo aperti ad ospitare una risposta dal mondo omosessuale.
Dottoressa, come va con l’Ordine dei medici?
«E chi li ha più sentiti? Mi hanno scritto una raccomandata con l’invito di andare a parlarci il lunedì per il lunedì. Impossibile. Mi hanno riscritto il giovedì per il lunedì. Il mio avvocato ha chiesto le motivazioni e io, intanto, ho continuato a parlare e citarli per nome e cognome indicando le mie perplessità riguardo i loro minacciati provvedimenti. Tutti zitti. A ruggire, almeno, ci si tolgono le iene e i coiote di torno.»
Le sue parole sull’omosessualità sono state forti. Ne è nato un pandemonio…
«Guardi, io invece ringrazio i gay che mi fanno da cassa di risonanza. E, anzi, continuerò a parlare.
Ridirebbe tutto tale e quale, quindi?
«Potrei, forse, cambiare idea a seconda che possa piacere o meno? Quelle affermazioni le ho fatte perché sono vere. L’omosessualità non esiste, come non esistono gli omosessuali: esistono persone che si sono fatte incastrare in un ruolo adolescenziale. Ciò che fa male al fisico dell’uomo, fa male anche alla psiche».
Esiste la normalità?
«Certo. In biologia è ciò che consente la prosecuzione della specie. Nasciamo XX e XY. La normalità è l’uomo attratto dalla donna e la donna attratta dall’uomo. La penetrazione anale non lo è: la cavità anorettale fa parte dell’apparato digerente e il suo compito è espellere le feci, non farsi penetrare da un pene. A loro piace? Benissimo, contenti loro… ma a farlo passare come normalità non ci sto. Noi odiamo vomitare, ma i bulimici amano vomitare. Un uomo vuole mettere il pene nella cavità anorettale di un altro? Nel momento in cui si vuole normalizzare pubblicamente questa pratica io, come medico, ho il dovere di dire che è una pratica che favorisce un numero spaventoso di malattie, esattamente come ho il diritto, anzi il dovere di affermare i danni del fumo. Questo non vuol dire odio per i fumatori».
La sua quarantennale esperienza di medico cosa insegna?
«I gay costano una valanga di quattrini, si ammalano continuamente: un pene che entra nella cavità anorettale spacca le fibre dello sfintere interno e lacera la mucosa. Lo vedo quotidianamente. Ci parlo, con gli omosessuali. Bisogna curarli di sifilide, incontinenza anale, virus orofecale, vaccinazioni contro l’epatite A, farmaci antiretrovirali… Io amo moltissimo le persone omosessuali, per questo desidero il loro bene e che vivano appieno la loro vita. In una situazione di castità la loro vita si allunga, e di molto: non dovrebbe essere normale raccomandarla?»
Sembra, invece, che la persona omosessuale sia vittima del proprio ambiente da pride. È così?
«La vera cultura gay per me è quella del servizio delle Iene sull’Unar: soldi pubblici in dark room; con uno che mangiava le feci del proprio cane e scriveva questo sui bambini: “Noi checche rivoluzionarie sappiamo vedere nel bambino l’essere umano potenzialmente libero. Noi, sì, possiamo amare i bambini. Possiamo desiderarli eroticamente rispondendo alla loro voglia di Eros, possiamo cogliere a viso e a braccia aperte la sensualità inebriante che profondono, possiamo fare l’amore con loro”. Io, da contribuente, ho il diritto di chiedere che blocchino i finanziamenti al Circolo Mario Mieli oggi stesso».
Scatterà immediata l’accusa di omofobia.
«L’omofobia è un diritto umano. È un mio diritto provare ripugnanza perché questa ripugnanza fa parte della fisiologia umana. Posso ritenere pedofilia, necrofilia, zoofilia, coprofagia pratiche quantomeno nauseanti? Posso indignarmi perché ai gay pride si sbeffeggia il cristianesimo, ma, chissà come mai, non si vedono carri contro Maometto? Il movimento LGBT è totalmente indifferente verso le persecuzioni di omosessuali nell’islam. Perché?»
A proposito di Maometto, come vede l’attuale immigrazione islamica?
«Questa immigrazione sconvolge i nostri paesi. Gli immigrati, al 90% sono maschi islamici tra i 15 e i 45 anni che vengono a invaderci. Non sono integrabili con noi. Una minoranza è integrabile solo in quanto minoranza, in piccoli gruppi: qui, invece, sono masse che approdano per conquistarci».
Con il supporto del Governo italiano.
«Il Governo non sta facendo l’interesse del popolo, ma un uomo di governo deve fare ciò che vuole il popolo. Loro impongono e basta. Gli ultimi quattro Governi, con le loro folli condotte, stanno modificando il tessuto antropologico del paese».
Che ne pensa di quello che definiamo politicamente corretto, il pensiero unico?
«Ci lamentiamo se veniamo offesi. Eppure essere offesi fa parte dell’essere umano. La dittatura del politicamente corretto nasce per imbavagliare una civiltà nel momento in cui viene sovvertita. È la dittatura della minoranza che esaspera una sua situazione di vittimismo, una situazione il più delle volte artificiosa. L’“omosessualità statale” è una mostruosa tirannide. L’omosessuale deve essere un po’ pirata con la coscienza di essere trasgressivo: l’uniformazione annienta sé stessi e la propria dignità».
E la scuola? Nascono come funghi i corsi antidiscriminatori…
«Il bullismo fa parte della vita. Dobbiamo insegnare ai nostri ragazzi a tenere testa ai bulli. I corsi di antibullismo e i giochi al rispetto delle scuole sono terrificanti e sono il cavallo di battaglia dell’Unar e del pensiero gender. La scuola non si occupi di affettività, si occupi di istruire. Sono i genitori a insegnare a non aggredire e a resistere all’aggressione. Perché, vede, tutti saremo aggrediti, fa parte dell’essere umano, della vita, non esiste un mondo dove nessuno aggredisce qualcun altro».
Lei è anche un’affermata scrittrice di libri per ragazzi. Quando ha iniziato a scrivere?
«Ho iniziato a scrivere nel 1988 e il mio primo libro è stato pubblicato nel 2000. Una dote dello scrittore è l’ostinazione. L’ultimo elfo è tradotto in 21 lingue. Hania è una saga che parla del Male. E di come sconfiggerlo».
Perché il genere fantasy?
«Perché ho capito che col linguaggio fantasy è possibile parlare degli argomenti più atroci rimanendo su un genere leggero. Parlo del male che esiste in quanto male e non va banalizzato, parlo di genocidi, parlo del libero arbitrio. Storie forti per dare coraggio».
Il coraggio. Qual è il messaggio più importante da dare, oggi, in tempi di dittatura della minoranza?
«Che, come diceva Chesterton, 2+2 fa 4 e che l’erba è verde. La verità è, ormai, la vera trasgressione».
Inchiesta choc de Le Iene: "Palazzo Chigi finanzia prostituzione gay". Le Iene svelano il finanziamento di Palazzo Chigi soldi ad una associazione gay nei cui circoli si consumerebbero rapporti sessuali a pagamento. Il direttore dell'Unar: "Verificheremo", scrive Claudio Cartaldo, Domenica 19/02/2017, su "Il Giornale". Associazioni gay, Unar, Palazzo Chigi, finanziamenti e migliaia di euro. Sono questi i protagonisti dell'inchiesta che andrà in onda stasera su Italia 1 a "Le Iene". Nel servizio realizzato da Filippo Roma, a finire sotto accusa è una associazione cui fanno capo alcuni circoli, saune e centri massaggi dedicati al mondo omosessuale e che alcune settimane fa si è aggiudicata un bando da 55mila euro dell'Unar, l'Ufficio Nazionale anti-discriminazioni razziali del Dipartimento Pari opportunità della Presidenza del Consiglio. Con questi soldi pubblici, secondo quanto emerge dal servizio de Le Iene, all'interno dei circoli ci sarebbero episodi di sesso e prostituzione. Uno scandalo che nasce dalla segnalazione anonima di un contatto intervistato da Filippo Roma. " In realtà questi circoli non sono altro che dei locali con ingresso a pagamento - spiega il testimone - dove si incontrano persone gay per fare sesso, a volte anche questo a pagamento. si tratta di un’associazione di imprenditori del mercato del sesso gay. Si nascondono dietro l’etichetta di associazioni di promozione sociale. Le stesse che dovrebbero avere come mission quella di aiutare le persone, ma in realtà, il loro unico scopo è quello di fare soldi senza pagare le tasse". Le associazioni, infatti, in quanto tali non dovrebbero sottostare ad alcune regole che i locali commerciali sono costretti a rispettare. "Sfruttando la denominazione di associazione a cui sono concesse delle agevolazioni - spiega il testimone - Se si trattasse di un locale commerciale dovrebbero pagare le tasse sull’ingresso, sulle bibite, su tutto ciò che viene venduto, compresi i massaggi. E dovrebbero anche comprarsi una licenza. Alle associazioni invece, non è richiesto niente di tutto questo, proprio perché l’attività principale dovrebbe essere senza fini di lucro. Basta andare sui siti di quei posti per capire che cosa offrono". In alcuni locali gay romani, come già raccontato in una inchiesta esclusiva de ilGiornale, accade che all'interno delle "dark room" si compri e consumi droga, oltre che fare sesso al buio. "Sono delle stanze buie dove la gente entra vestita, nuda, per fare sesso con chi capita, senza guardarsi in faccia - spiega l'intervistato - Là dentro succede di tutto, molto spesso senza nemmeno usare protezioni. Ti puoi immaginare i rischi per le malattie. Quello che trovo assurdo è che un’associazione come questa, con circoli, saune, centri massaggi, dark room, ma soprattutto dove si pratica la prostituzione, possa aver vinto un bando della Presidenza del Consiglio, soldi pubblici". Già, la prostituzione. Perché secondo quanto emerso dall'inchiesta de Le Iene, alla fine dei massaggi ai clienti viene chiesto se voglio un "extra" di natura sessuale. "Esistono dei veri e propri listini, ogni cosa ha il suo prezzo. - spiega l'intervistato - Quasi tutti quelli che chiedono il massaggio lo fanno per avere prestazioni sessuali, altrimenti andrebbero in qualsiasi altro centro che costa anche di meno". Con le telecamere nascoste Filippo Roma ha documentato quello che sarebbero sesso libero (e a pagamento) nelle dark room, confermando i racconti del segnalatore. Inoltre in alcuni siti di questi circoli ci sono dei tariffari per prestazioni sessuali a pagamento. La Iena ha intervistato anche Francesco Spano, direttore dell’Unar, chiedendogli delucidazioni sul finanziamento di queste associazioni e sui controlli effettuati. Spano spiega che l'Unar per concedere finanziamenti si basa su "quello che ci dichiara lo statuto delle associazioni". Ma di fronte all'evidenza delle immagini mostratigli dalla Iena, promette controlli e verifiche, finora limitati a "controlli cartacei e formali": "Mi ha dato l’informazione - dice Spano - Comunque, guardi, io oggi stesso, ora torno in ufficio, convocherò il Presidente di *** e verificherò questa cosa, perché se l’attività è, come voi dite, legata alla prostituzione, ci mancherebbe altro". Poi conclude: "Chiederò se c’è una difformità rispetto a quello che è dichiarato nello statuto e quella che è la loro attività svolta. Nel caso, annulleremo questa assegnazione.
Palazzo Chigi finanzia la prostituzione omosessuale: lo scoop de "Le Iene", scrive “Libero Quotidiano" il 19 febbraio 2017. Unar sta per «Ufficio anti-discriminazioni razziali». All’interno del Dipartimento Pari opportunità della presidenza del consiglio, si occupa di promuovere la «parità di trattamento e la rimozione delle discriminazioni» razziali, etniche e sessuali con campagne di comunicazione e adottando progetti «in collaborazione con le associazioni no profit». Nel mirino della iena Filippo Roma è finito un finanziamento di 55mila euro ad un’associazione di «promozione sociale» dietro cui, secondo la trasmissione televisiva, si nasconderebbe il business del sesso gay a pagamento. Ecco il testo del servizio che andrà in onda stasera su Italia 1. Con che criteri l’Unar sceglie le associazioni da accreditare e finanziare con migliaia di euro? Il suddetto ufficio del governo ha come compito quello di contrastare le discriminazioni su razza o sesso e a tal fine gestisce anche denaro proveniente dai contribuenti. Accreditate nel registro dell’Unar si annoverano alcune associazioni molto conosciute come Amnesty International, Unicef, Croce Rossa Italiana, Comunità di Sant’Egidio. In questo elenco, però, compaiono anche associazioni poco o per niente note. Una di queste, con l’ultimo bando assegnato qualche settimana fa, si è aggiudicata circa 55.000 euro. Di cosa si tratta? Proprio su questa associazione un segnalatore, che ha preferito tenere nascosta la propria identità, ha fatto avere a Filippo Roma le seguenti dichiarazioni.
Segnalatore: In realtà questi circoli non sono altro che dei locali con ingresso a pagamento, dove si incontrano persone gay per fare sesso, a volte anche questo a pagamento.
Iena: Quindi tu ci stai dicendo che in questi circoli si fa sesso e pure a pagamento?
Segnalatore: Sì, perché si tratta di un’associazione di imprenditori del mercato del sesso gay. Si nascondono dietro l’etichetta di associazioni di promozione sociale. Le stesse che dovrebbero avere come mission quella di aiutare le persone, ma in realtà, il loro unico scopo è quello di fare soldi senza pagare le tasse.
Iena: In che modo?
Segnalatore: Sfruttando la denominazione di associazione a cui sono concesse delle agevolazioni. Se si trattasse di un locale commerciale dovrebbero pagare le tasse sull’ingresso, sulle bibite, su tutto ciò che viene venduto, compresi i massaggi. E dovrebbero anche comprarsi una licenza. Alle associazioni invece, non è richiesto niente di tutto questo, proprio perché l’attività principale dovrebbe essere senza fini di lucro. Basta andare sui siti di quei posti per capire che cosa offrono.
Iena: Che cosa sono le dark room? (ndr, sul sito di uno di questi circoli tra i servizi offerti vengono citate le «dark room»).
Segnalatore: Sono delle stanze buie dove la gente entra vestita, nuda, per fare sesso con chi capita, senza guardarsi in faccia. Là dentro succede di tutto, molto spesso senza nemmeno usare protezioni. Ti puoi immaginare i rischi per le malattie. Quello che trovo assurdo è che un’associazione come questa, con circoli, saune, centri massaggi, dark room, ma soprattutto dove si pratica la prostituzione, possa aver vinto un bando della Presidenza del Consiglio, soldi pubblici.
Iena: Chi è che si prostituisce?
Segnalatore: Normalmente lo fanno i massaggiatori. Finito il massaggio chiedono esplicitamente al cliente se vuole andare oltre, con qualche servizietto extra a pagamento. Esistono dei veri e propri listini, ogni cosa ha il suo prezzo.
Iena: Normalmente quanti clienti si fanno fare il massaggio extra?
Segnalatore: Quasi tutti quelli che chiedono il massaggio lo fanno per avere prestazioni sessuali, altrimenti andrebbero in qualsiasi altro centro che costa anche di meno.
Iena: Ma come è possibile che alla Presidenza del Consiglio non si accorgano di queste cose?
Segnalatore: Effettivamente è strano. È ancora più strano che il direttore dell’Unar, l’ufficio che distribuisce i finanziamenti, sia associato a uno di questi circoli.
Riguardo a quest’ultima sua affermazione, il segnalatore dice di essere a conoscenza dei riferimenti relativi al presunto tesseramento del direttore dell’Unar. Si tratterebbe del codice socio e del numero della tessera, con data di rilascio e di scadenza e data di nascita fornita dal socio al momento dell’iscrizione. La Iena decide per tanto di far luce sulla vicenda recandosi in alcuni di questi circoli. Filippo Roma mostra quindi immagini esclusive che confermerebbero come tra le attività prevalenti in questi luoghi ci sarebbe la pratica del sesso libero e anche estremo. In alcuni casi, servizi come dark room o glory hole sono chiaramente segnalati sui siti di questi circoli. A volte, i servizi di massaggi offerti all’interno dei suddetti circoli, come affermato dal segnalatore, includerebbero anche, con tanto di tariffario, prestazioni extra che prevedono sesso a pagamento. (...) Per avere delucidazioni in merito alle parole del segnalatore anonimo, Filippo Roma intervista Francesco Spano, direttore dell’Unar.
Iena: Lei è il direttore dell’Unar, giusto?
Spano: Sì.
Iena: Che è l’organismo della Presidenza del Consiglio che si occupa di assegnare una serie di fondi a varie associazioni che sono in prima linea contro le discriminazioni sessuali e razziali, giusto?
Spano: Sì, fra i compiti ha anche quello di gestire l’attività contro la discriminazione.
Iena: Queste associazioni per essere accreditate presso il registro dell’Unar che requisiti fondamentali devono avere?
Spano: Devono avere tutta una serie di requisiti di legge previsti che si possono trovare anche sul nostro sito.
Iena: Infatti, li abbiamo trovati e abbiamo letto questa cosa qua che tra…
Spano: Scusate un secondo...
Iena: Prego, prego (ndr, il direttore Spano si allontana). Aspetti, ma dove va?
Spano: Un secondo, riesco subito.
Quando gli vengono chiesti quali sono i requisiti per essere accreditate presso il registro dell’Unar, Spano entra improvvisamente negli uffici della Presidenza del Consiglio dicendo di aver ricevuto una telefonata. Filippo Roma raggiunge Spano in un secondo momento per rivolgergli ulteriori domande:
Iena: Avvocato, ci eravamo preoccupati che fosse andato via o scappato.
Spano: No, scusate ero al cellulare, perché devo scappare? Anzi, vi chiedo scusa.
Iena: Ci mancherebbe altro. Tra le varie associazioni che nel 2016 hanno ottenuto questi finanziamenti della Presidenza del Consiglio ce n’è una che ha ottenuto 55 mila euro.
Spano: Partecipava ad un progetto, mi pare.
Iena: Esatto. E come attività preminente, ha ben altro.
Spano: Allora, noi stiamo a quello che ci dichiara lo statuto delle associazioni.
Iena: Però, dicevo, a voglia a fare tante altre cose rispetto alla lotta contro la discriminazione…
Spano: A noi risulta che fa questo, poi non so che altro fa.
Iena: Glory Hole, sa che cos’è?
Spano: No, assolutamente no.
Iena: È una pratica sessuale dove c’è un buco …
Spano: Questo non lo so. Ora, grazie se mi date questa segnalazione grazie, ora verificheremo.
Iena: dark room?
Spano: No, ora questo lo verificheremo, insomma, l’importante...
Iena: Ci hanno segnalato dark room dove avviene un po’ di tutto…
Spano: Questa sarà una cosa che riguarderà la vita privata delle persone, non rileva a noi, però, verificheremo.
Iena: Per carità, questa è la vita sessuale delle persone, però, soprattutto, in questi circoli si pratica la prostituzione.
Spano: Questo spero di no. La prostituzione è un reato.
Iena: E si pratica nei circoli accreditati con l’Unar?
Spano: No, questo no. Allora, assolutamente no, le posso assicurare. Noi verifichiamo.
Iena: Le assicuro io, invece. Le faccio vedere un filmato, guardi...
Spano: Non mi interessa il filmato.
Iena: Come non le interessa il filmato? Lei è quello che dispensa questi finanziamenti pubblici.
Spano: Nel senso, ci credo, lo verificheremo.
Iena: Guardi un po’ che abbiamo visto. (ndr, Filippo Roma mostra il filmato al direttore). Questo è un massaggio che avviene dentro a una sauna, un massaggiatore che propone un extra. Un extra di natura sessuale. Poi, un’altra sauna…
Spano: No, no, non mi interessa questa cosa, grazie… Ci credo, dal punto di vista di vederlo non mi aggiunge niente. Mi ha dato l’informazione. Comunque, guardi, io oggi stesso, ora torno in ufficio, convocherò il Presidente di *** e verificherò questa cosa, perché se l’attività è, come voi dite, legata alla prostituzione, ci mancherebbe altro.
Iena: Lei come direttore dell’Unar, non svolge dei controlli su cosa combinano queste associazioni?
Spano: Le ripeto, io faccio un controllo cartaceo e formale su quello che viene dichiarato.
Iena: Un po’ a caso?
Spano: No, no, non è che posso andare nei circoli a vedere cosa succede, questo non…
Iena: Direttore, questo lo sappiamo noi che non facciamo parte dell’Unar e non lo sa lei che è il direttore dell’Unar?
Iena: 55 mila euro. Ma perché i contribuenti italiani devono finanziare con le proprie tasche associazioni dove si pratica la prostituzione?
Spano: Assolutamente no.
Iena: Lei, di fronte a queste scene, se la sente di assegnare questi fondi?
Spano: Ora, su questo faremo la verifica che stiamo facendo e se fosse un’associazione che, come voi dite, con questi fondi sosterrebbe la prostituzione ovviamente no. Ma va in automatico, le assicuro. Stia tranquillo, su questo guardi sono tranquillissimo.
Iena: Con un direttore che controlla così le associazioni che ricevono questi fondi non sono tranquillissimo...
Spano: Stiamo ulteriormente facendo dei controlli. Oggi stesso, io, anche grazie alla vostra segnalazione, convocherò il Presidente di *** e chiederò se c’è una difformità rispetto a quello che è dichiarato nello statuto e quella che è la loro attività svolta. Nel caso, annulleremo questa assegnazione.
Iena: Lei non conosceva l’attività di ***?
Spano: L’attività di *** la conosco come attività di promozione, di seminari, hanno un giornale, cose di questo tipo.
Iena: Perché qualcuno ci ha detto che lei è socio dell’associazione ***?
Spano: No, assolutamente no. Non so di cosa stai parlando.
Iena: Sicuro? Perché a noi sono arrivati degli estremi di una tessera…
Spano: Ora però devo andare…
Iena: Abbiamo quasi finito, poi la lasciamo andare.
Spano: La prego davvero.
Iena: Ci risulta un numero di tessera, ***, fatta il XX.X.XXXX a nome suo.
Spano: Non so, io no ho…dove e come?
Iena: Non è tesserato?
Spano: No.
Iena: E perché noi abbiamo questi estremi?
Spano: Non lo so.
Iena: Ci toglie una curiosità per cortesia?
Spano: Sì.
Iena: Noi ci chiediamo. Sia mai che chi dispensa fondi pubblici a una serie di associazioni, sia anche socio di quella associazione, no? Se no ci sarebbe un conflitto di interessi?
Spano: Ora vi devo salutare, però, davvero. Arrivederci.
Ecco i soldi ai bordelli gay (e la faida tra club omosex). Le false associazioni "socio-culturali" si fanno guerra per aggiudicarsi finanziamenti e appoggi politici, scrive Nino Mater, Mercoledì 22/02/2017, su "Il Giornale". Una guerra fratricida all'interno delle stesse associazioni gay. Una faida per accaparrarsi la fetta maggiore della torta dei fondi riservati alle sigle «anti-omofobia». E affermare la propria leadeship politica all'interno della galassia di comitati e sottocomitati che, teoricamente, dovrebbe «combatte ogni forma di sessuofobia». È questa la «pista» da seguire per capire chi e cosa c'è dietro il servizio choc delle «Iene» che ha svelato come, al di là della facciata di un club «socio culturale», si nascondesse un privè con attività di prostituzione maschile. Nulla di particolarmente grave se non fosse che quel locale risulta affiliato all'Anddos (Associazione nazionale contro le discriminazioni da orientamento sessuale) per la quale sono stati stanziati 55 mila euro di fondi pubblici (ma ora il bando è stato sospeso). All'Anddos era iscritto anche Francesco Spano l'ormai ex direttore dell'Unar, l'ente governativo che avrebbe dato il placet alla somma destinata all'Anddos. Dopo il servizio delle «Iene», Spano si è dovuto dimettere dalla guida dell'Unione anti discriminazioni razziali (l'Unar, appunto), che fa capo al dipartimento Pari opportunità della presidenza del Consiglio. All'indomani dello scoop delle «Iene» i vertici dell'Anddos hanno avvalorato la tesi della «vendetta trasversale» con un comunicato ufficiale che contempla una frase sibillina: «A seguito di una indagine interna, riteniamo di avere sufficienti elementi per affermare quale associazione si sia resa responsabile di una tale macchinazione (vale a dire il servizio delle «Iene» ndr)». Un'accusa nemmeno tanto velata alle sigle «concorrenti» che negli ultimi anni si sono viste penalizzate dall'aumentato «peso» economico e politico dell'Anddos. All'ingresso di molti club privè appare ancora il vecchio avviso: «Ingresso riservato solo ai tesserati Arci». Ma, in realtà, la tessera che viene compilata all'interno dei circoli è quella dell'Anddos che, da sigla gemellata con l'Arcigay, si è nel tempo resa autonoma «rubando», per così dire, una consistente fetta di «mercato» alle sigle tradizionalmente egemoni in questo settore. Di qui invidie e colpi bassi. Ed è tra queste trame velenose che va letta probabilmente anche la soffiata che ha portato l'inviato delle «Iene» all'interno del club dello scandalo. A quel punto risalire alle responsabilità del direttore dell'Unar è stato un gioco da ragazzi. Francesco Spano, del resto, con quel suo cappottino rosso e l'aria spaurita di chi è stato colto con le mani nella marmellata, si prestava perfettamente al ruolo di capro espiatorio. Lui stesso ci ha messo del suo: prima cercando di fuggire, poi raccontando un po' di bugie. La sua testa è saltata ma la vera testa da far saltare sarebbe quella che ha concepito l'Unar come una sorta di slot machine per tenersi buoni bacini di utenza elettorale, distribuendo a pioggia un bel po' di soldi; e si sa che quando devi coltivare questo o quell'orticello privato, non puoi andare troppo per l sottile con l'innaffiatoio dei fondi pubblici. E così capita di «bagnare» anche associazioni che si spacciano per «socio culturali» ma che in realtà propugnano ideali semplicemente «socio sessuali». Nulla da eccepire, a patto però che non venga fatto coi soldi del contribuente e truffando il fisco su tutta una serie di attività (a partire dalla vendita di alcolici e cibo per finire alla gestione di viaggi e merchandising vario). Una costante - questa del business esentasse ai danni dell'erario - permessa da varie gabole legislative che parificano i circoli «socio bordellari». Categoria da cui l'Anddos si dissocia: «Abbiamo presentato all'Unar un progetto finalizzato a sostenere e potenziare i Centri ascolto e antiviolenza (Caa) che forniscono assistenza psicologica, medica e legale gratuita a chi è vittima di discriminazioni o necessita di ascolto e informazioni sui temi della sessualità e della salute». E poi: «Siamo stati ritenuti idonei al finanziamento a fronte di un bando con regole e procedure precise e di un progetto presentato in partenariato con La Sapienza Università di Roma». Peccato che l'Università La Sapienza si sia affrettata a smentire «qualsiasi coinvolgimento».
Orge gay, chi è Francesco Spano: il ruolo di Elsa Fornero nell'Unar. Mistero sui progetti finanziati, scrive “Libero Quotidiano” il 22 febbraio 2017. Fino a pochi giorni fa, nessuno sapeva cosa fosse l'Unar, l'Ufficio nazionale anti-discriminazioni razziali travolto dal caso delle orge gay finanziate dalla presidenza del Consiglio. Un caso su cui hanno alzato il velo Le Iene. E così, spulciando nella storia di questo organismo, si scoprono diverse magagne: i fondi gestiti in modo poco trasparente; l'evasione fiscale delle realtà ad esso collegate; il fatto che con il contrasto alle discriminazioni, checché ne dica Monica Cirinnà, ha ben poco a che spartire; la mancata trasparenza nella gestione dei fondi. L'Unar, di fatto, è il frutto di una frenetica attività di lobbying istituzionale. Venne fondato nel 2003 presso la presidenza del Consiglio, ha dunque 14 anni, ma la "svolta gay" arriva grazie ad Elsa Fornero: quando era ministro del Lavoro con delega alla Pari opportunità, con un atto amministrativo, allargò le competenze dell'Unar al mondo Lgbt (lesbo, gay, bisex, trans). Da anni, Carlo Giovanardi si batte affinché si faccia chiarezza su quest'organismo, sulle sue consulenze e sui suoi meccanismi: nel giro di poco tempo, da che la Fornero ci mise le mani, l'Unar è diventato l'ente governativo in assoluto più vicino e rappresentativo del mondo omosex. È in questo contesto che si arriva, nel 2016, alla nomina di Francesco Spano, il presidente dell'Unar che si è dimesso in seguito allo scandalo. Un nome voluto da Giovanna Melandri: da tempo Spano era vicino agli ambienti dem ed era stato a capo della Consulta giovanile per il pluralismo religioso e culturale, istituito proprio dalla Melandri. Di Spano, addirittura, si trova una foto che lo ritrae al fianco di Agostino Vallini, cardinale vicario di Roma. In pochi lo conoscevano fino a quando ha fatto una figura barbina davanti ai microfoni di Filippo Roma, quando ha balbettato sui finanziamenti concessi dall'ente che presiedeva a circoli dove si praticavano orge omosessuali, prostituzione e pratiche erotiche e sadomaso estreme.
Ma ora il caso si allarga. Già, perché come sottolinea Il Tempo ci sono altri finanziamenti sospetti concessi dall'Unar. Nel dettaglio, i fari sono puntati su 1,4 milioni di euro, concessi a due vincitori di bandi promossi lo scorso 4 novembre: 200mila euro sono andati a diversi Comuni, il grosso della torta invece ad associazioni che promuovono progetti contro le discriminazioni. Ma quali progetti sono stati finanziati? Mistero: sul sito dell'Unar non ci sono tracce. "Bisognerebbe chiedere al direttore, ma si è dimesso - spiegano dall'ente -. E il dirigente è in ferie". A chi vanno, dunque, quei soldi?
Scandalo Unar, la sauna gay (davanti un palazzo di cardinali) finanziata due volte dallo Stato, scrive di Roberta Catania il 24 Febbraio 2017 su “Libero Quotidiano”. La sauna gay nel centro di Roma, quella denunciata dalle Iene come luogo di prostituzione maschile, è stata finanziata due volte dallo Stato. La prima, come scoperto da noi di Libero, acquistata grazie a un mutuo da 560mila euro concesso da Mps, la banca fresca di salvataggio con i soldi pubblici stanziati da questo Governo; la seconda, come spiegavano una settimana fa nella trasmissione tv, con i soldi dei finanziamenti pubblici dell'Unar, l'Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali della Presidenza del Consiglio dei ministri, della quale il presidente si è dimesso in seguito alla scandalo. Già quattro anni fa, ebbe risonanza la questione della sauna gay i cui vapori circondavano il terrazzo di un cardinale che abita nell' attiguo palazzo di Propaganda Fide, stabile che la congregazione della chiesa aveva acquistato il 30 settembre 2008 per 20 milioni e 233 mila euro. Un prezzo importante, soprattutto perché le 19 unità immobiliari al civico 2 di via Carducci, a due passi da piazza della Repubblica e nei pressi di via Veneto, quello stesso giorno la "Mag. Industrie srl" e la "Cig immobiliare srl", in qualità di «intermediari», guadagnarono 11 milioni di euro avendo appena comprato per 9 milioni il palazzo da "Italease". Il signorile stabile rivenduto lo stesso giorno a Propaganda Fide per più del doppio, lasciò nelle tasche della "Cig" 346.200 euro, forse a titolo di onere per l'aiuto, ma l'enorme plusvalenza si suppone che finì al presidente e amministratore unico della "Mag. Industrie", il signor Eligio Cucchetti, classe 1934, o dirottata nelle tasche di qualcuno che è riuscito a non lasciare traccia nei registri generali. La questione, nonostante il clamore scoppiato in scia all' inchiesta sulla Cricca del G8, finì in un nulla di fatto. Oggi torna d' attualità per il servizio del giornalista Filippo Roma, che con le telecamere nascoste è entrato nella sauna e documentato per le Iene come dietro il paravento dell'associazione culturale non ci sia niente che giustifichi i finanziamenti pubblici di Palazzo Chigi, ma prenda vita un esplicito mercato del sesso gay. Una mercificazione che ha un tariffario preciso, alla varietà delle prestazioni corrisponde una variazione di prezzo. Ebbene, per questo "circolo" gay di via Aureliana 40, nel signorile palazzo attiguo a quello nella sua traversa di via Carducci, il 22 giugno 2009 il Monte dei Paschi di Siena concesse alla "Genesi 2000 srl" un mutuo per 560mila euro. Un capitale prestato a 10 anni e che consentì alla società di Maurizio Floccari e di Mario Marco Canale di comprare un «esercizio per fini sportivi» in via Mario Pagano 2 e, a meno di duecento metri, il locale attiguo al loro ristorante, "Aurelia 44", il famoso immobile tramutato nell'«associazione Europa Multi Culb, affiliata ad Anddos», che - dal sito Internet ufficiale si legge - «focalizza una particolare attenzione sul diritto alla salute fisica e psicologica degli associati», evidentemente - secondo il servizio delle Iene - lasciando scaricare lo stress attraverso prestazioni extra listino di massaggiatori compiacenti. "Genesi 2000 srl" è di Floccari e Canale, che compaiono come soci anche della "Ram 3 Group srl", che invece possiede 340 mq in via Aureliana 46, inglobando il ristorante "Aurelia 44", che figura anche come sede legale della società costituita l'8 gennaio del 2003 insieme a Webb Alan Edward e ad Antimo Di Fuccia. A questo punto pare plausibile che dai quattro amici che avevano investito nella ristorazione, due hanno poi deciso di espandersi prendendo il fabbricato al civico 40 per «garantire salute fisica e psicologica agli associati» dell'EMC. Non a caso uno dei due è Mario Marco Canale, presidente dell'Anddos, l'Associazione Nazionale contro le Discriminazioni da Orientamento Sessuale, che ieri si è scagliato contro il servizio delle Iene, annunciando «azioni legali» per avere intervistato il presidente dimissionario dell'Unar, svelando il suo orientamento sessuale dicendo che era anch' egli tesserato all' EMC, la sauna accusata di «favorire la prostituzione omosessuale» sotto al balcone di uno dei cardinali più potenti. L' imbarazzo che serpeggia nel quartiere dove sorgono i ministeri del Lavoro, dell'Economia e dell'Agricoltura non riguarda tanto i finanziamenti pubblici, quanto la vicinanza con il palazzo acquistato a più riprese da Propaganda Fide a prezzi - oltretutto - fuori mercato. Un alto prelato abita al primo piano dello stabile in via Carducci 2: un appartamento di dodici vani, corredato da ampio terrazzo che sovrasta buona parte di via Aureliana. Per l'esattezza, il balcone è precisamente sopra all' EMC, che ha ottenuto parte dei 55mila euro stanziati dal Governo per la Anddos (adesso revocati dal ministro Boschi) e si suppone che il cardinale debba sopportare da parecchi anni il continuo e «gioioso» via vai dei soci che sfilano sotto le sue finestre.
Ora chiamatele "dispari opportunità". Siamo l'unico posto al mondo dove un'associazione che si occupa di contrastare la discriminazione razziale e sessuale l'ormai celebre Unar foraggia club sulle porte dei quali è scritto che le donne non possono entrare, scrive Francesco Maria Del Vigo, Giovedì 23/02/2017, su "Il Giornale". Non chiamiamole più pari opportunità. Per favore. Strappiamo il velo. Al massimo saranno dispari. Ma certo non sono pari. Siamo l'unico posto al mondo dove un'associazione che si occupa di contrastare la discriminazione razziale e sessuale l'ormai celebre Unar foraggia club sulle porte dei quali è scritto che le donne non possono entrare. Come se fossero dei cani. Circoli che, dopo essersi lavati la coscienza distribuendo qualche volantino politicamente corretto, diventano bordelli omosessuali. E non si capisce, dunque, perché loro possano farlo e gli eterosessuali no. E questo non è sessismo? Non è un intollerabile atto di razzismo nei confronti della prostituzione femminile che nonostante sia la professione più antica del mondo continua a essere anche la più vituperata? Vogliamo creare un'organizzazione ad hoc - ovviamente statale - che si occupi anche di questa odiosa discriminazione? Siamo il Paese delle dispari opportunità, dove per difendere una minoranza si prende a pesci in faccia la maggioranza, dove l'amicizia conta più del merito e la tessera vale più di un curriculum e dove l'iniziativa privata vale sempre meno di quella pubblica e parastatale. Perché, per inciso, questi circoli non solo usavano soldi pubblici per farsi degli affari tanto privati da essere intimi. Ma lo facevano anche con delle grosse agevolazioni fiscali. Perché un circolo - a prescindere da quello che si compie tra le sue segrete mura - gode di un regime di tassazione tutto speciale. Ecco l'ennesima disparità. Un'altra discriminazione. Perché nel nostro Paese l'ipocrisia è così connaturata da essere divenuta legge. E se tu fai finta di fare associazionismo e magari ti impegni anche per il sociale, possibilmente nel nome di un egualitarismo accattone o della difesa di chissà quale diversità, vedrai che qualche agevolazione ti piove addosso. E potrai anche vendere Coca-Cola e mojiti senza rilasciare scontrini fiscali e pagare meno di Imu e Iva. Poco importa che poi dentro invece che bibite si venda carne umana, come dimostrano le cronache di questi giorni. Alla faccia del povero disgraziato che ha aperto un bar due metri dopo e deve pagarsi tutte le tasse come le persone comuni. Ma di quelle non si occupa nessuno, non sono abbastanza pari. Evidentemente.
QUELLE CHE…SON FEMMINISTE.
"Violenze, urla e umiliazioni: così la donna stupra l'uomo". Patrizia Montalenti, presidente di Ankyra, l’unico centro in Italia che accoglie a Milano uomini vittime di abusi: "L'uomo non trova molti aiuti", scrive Claudio Cartaldo, Mercoledì 31/05/2017, su "Il Giornale". Non si fa altro che parlare di femminicidio. Donne uccise, violentate, stuprate dagli uomini. Tutto giusto, eppure esiste un altro lato della medaglia di cui nessuno sembra essere a conoscenza. Già, perché non solo non esiste un statistica precisa degli uomini vittime di abusi e violenze sessuali da parte delle donne, ma spesso le vittime non hanno nemmeno un luogo dove rivolgersi per denunciarli. A riporare luce sull vicenda è stato il Tpi, che ha intervistato Patrizia Montalenti, presidente di Ankyra, l’unico centro in Italia che accoglie a Milano uomini vittime di abusi. Dati certi non ci sono, dicevamo, ma nel 2012 Pasquale Giuseppe Macrì, docente di medicina legale dell’Università di Siena, realizzò uno studio dettagliato sugli uomini vittime d violenza. "La ricerca - spiega il Tpi - ha rilevato che oltre 3,8 milioni di uomini, il 18,7 per cento del totale, hanno subito almeno una violenza sessuale a opera di una donna nel corso della vita". "Nella maggior parte dei casi - spiega Montalenti - gli uomini subiscono violenza fisica a tutti gli effetti. Questa è una cosa che il senso comune non immagina neanche. Io non ho visto un caso in cui non ci fosse anche violenza fisica". E quando si parla di violenza fisica, ci si riferisce a quella sessuale. Stupri, insomma, realizzati da donne a danni di uomini. "Si sostanzia in modo diverso da quella che subiscono le donne - aggiunge la presidente d Ankyra - È improntata su una sorta di svilimento del maschio, di denigrazione del soggetto. La violenza sessuale può anche manifestarsi dopo la violenza fisica: la donna dopo le percosse può chiedere del sesso all’uomo. In quel caso il rapporto viene vissuto male dal soggetto coinvolto". Ovviamente non sempre l'uomo è in grado di ribellarsi. Potrebbe far leva sulla prestanza fisica, ma non sempre è così semplice. "L’uomo si vergogna da morire - aggiunge la Montalenti - come probabilmente negli anni Settanta si vergognavano le donne ad ammettere di essere vittime di maltrattamenti. L’uomo non rivela queste situazioni neanche al suo miglior amico". E non si ribella perché "non vuole far del male alla sua compagna perché è consapevole della maggiore forza di cui è dotato fisicamente" oltre al fatto che "se dovesse reagire alle violenze, molto probabilmente la partner andrebbe dalle forze dell’ordine e lui non verrebbe creduto". Quando s fa forza e denuncia, poi, il più delle volte non intende chiudere la relazione, ma cercare un modo per far "curare la fidanzata". Eppure le violenze che spesso devono subire sono molteplici e anche gravi. "C’è molta privazione del sonno - spiega l'esperta - Anche quella è una violenza. Se tu mi tieni sveglia tutta la notte a imprecare e a parlare, e lo fai per tre giorni di seguito, comincia a diventare insostenibile". Poi la volenza psicologica "che riguarda i figli: agli uomini la compagna presenta la minaccia di non farglieli più vedere. Questo è il più classico dei casi".
Paola Perego in lacrime a Le Iene: "Parliamone sabato, la Rai sapeva tutto", scrive di Antonella Luppoli il 23 marzo 2017 su “Libero Quotidiano”. Hanno chiuso Parliamone sabato, il programma di Paola Perego "reo" di aver intavolato una scanzonata discussione sulle donne dell'Est. Una decisione che Libero ha definito "ridicola", quella della Rai. Una decisione dietro alla quale ci sarebbe stato lo zampino, decisivo, di Laura Boldrini, che si è battuta come una leonessa per far chiudere il programma: l'ultima delle sue battaglie inutili. Anzi dannosa, dato che nel nome di un presunto sessismo - che nel fatto in questione, non esiste - ora sono rimaste a casa diverse persone. Tra queste, anche la Perego, che certo non avrà problemi a cavarsela. Eppure, vederla disperata, ridotta in lacrime, nell'intervista a Le Iene con cui ha rotto il silenzio dopo il "patacrac" fa una certa impressione. Per inciso, come vi spieghiamo nell'articolo di Antonella Luppoli, che segue, la Perego afferma che la Rai sapeva tutto, compresa la discussione sulle donne dell'est. Paola Perego fuori dalla Rai? Questa potrebbe essere la più pesante delle conseguenze, una volta archiviata la querelle di Parliamone Sabato. «Hanno chiuso il programma e io adesso credo che rescinderanno anche il mio contratto, ma questo non è un problema, cioè io non sono quella persona che stanno descrivendo e chi mi conosce lo sa» ha detto ieri sera a Le Iene la conduttrice. Sulla questione del contratto la Rai glissa, nessuno conferma né smentisce. Quello che avevano da dire lo hanno già detto, scritto e cinguettato. È a Sabrina Nobile infatti che la Perego ha scelto di raccontare la sua versione dei fatti. Intercettata nei pressi degli uffici dell’Arcobaleno Tre, la signora è apparsa provata, disorientata. «Mi hanno messa in mezzo in una cosa più grande di me, sto male. Più per le persone che, fidandosi di me, mi hanno seguita in questo programma che per me stessa» ha detto e ha proseguito come un fiume in piena: «Non ho ancora metabolizzato, non riesco a capire bene che cos’è questa violenza contro di me. Una violenza terribile, brutta. Non me lo merito, io credo di essere una brava persona». Paola ha ribadito poi che le sembra tutto surreale. E ha aggiunto: «C’è gente che ha bestemmiato, hanno intervistato il figlio di Totò Riina facendogli l’altarino, abbiamo visto in televisione qualunque cosa. (Questo, ndr) era un gioco. È scoppiata la bomba, ma la bomba non c’è. Hanno usato me come potevano usare forse qualcun altro. Forse è scomodo mio marito». Il riferimento è a Lucio Presta, agente di star come Paolo Bonolis, Roberto Benigni e Antonella Clerici. La signora Perego in Presta paga quindi – ancora una volta - il conto per essersi innamorata di un uomo influente nel mondo della tv? «Può essere, forse ho un marito scomodo». Così tanto che alla Rai non è bastato far calare il sipario gelido su Parliamone Sabato ma pare sia stato rescisso anche il suo contratto. Questa infatti potrebbe essere la sentenza. Un po’ troppo? Non si dà pace la conduttrice e sostiene di non meritare l’appellativo di sessista insensibile: «Non lo sono, non posso stare qui ad elencare i miei pregi o le cose che io ho fatto, ho anche 8 mila miliardi di difetti, però io non sono quella persona che oggi è descritta sui giornali». Poi, entra nello specifico dell’accaduto: «Può essere stata una pagina brutta, ma è incredibile che dal niente sia partita un’eco mostruosa su una cosa che non c’è, non esiste. Gli argomenti in Rai vengono approvati prima di essere messi in onda dal capostruttura e dal direttore di rete. Mi hanno approvato questo argomento e mi hanno cassato il femminicidio perché non volevano che ne parlassimo: non era con la linea editoriale». Ancora: «Loro si sono dissociati da una cosa che avevano approvato e adesso fanno la figura di quelli che stanno salvando l’Italia da questo “mostro” che è sessista, che porta in televisione queste cose». Il riferimento è a tutti gli addetti ai lavori del piccolo schermo e, perché no, anche i politici che le hanno puntato il dito contro. E a questo proposito ha specificato: «Quando la signora Boldrini ancora non era in politica e faceva televisione, io già lottavo per i diritti delle donne». Il Presidente della Camera ha infatti scritto su Twitter: «Doveroso immediato provvedimento della #Rai su trasmissione #ParliamoneSabato. Mai più #donne in televisione trattate come animali domestici». Ma il problema diciamolo è stata quella slide con i 6 buoni motivi per sposare una donna dell’est. «Perché hanno visto solo quella» ha replicato la Perego. Pure il dibattito in studio è stato mediocre ma non più di tanti, tantissimi altri. Targati Rai e non. Si è anche scusata la conduttrice: «Per la dichiarazione di Fabio Testi, ho chiesto di non invitarlo più». E se qualcuno dovesse tornare indietro e ridimensionare le accuse, ha chiesto infine la Nobile? La Perego perentoria ha concluso: «Dalle posizioni che hanno preso, è molto difficile tornare indietro e poi sono dei codardi». Di Antonella Luppoli
Le femministe che odiano la bellezza, scrive Annalisa Chirico, Mercoledì 8/03/2017 su "Il Giornale". Chi di femminismo ferisce di femminismo perisce. Povera Emma Watson, in questo 8 marzo siamo più che mai solidali con l'attrice 26enne famosa per aver interpretato il ruolo di Hermione nei film di Harry Potter e prossima protagonista del film Disney La bella e la bestia. La giovane star che nel 2014 a New York da ambasciatrice di UN Women tenne un pomposo discorso sulla parola «femminismo», deve pararsi dagli attacchi delle femministe. Quale la sua colpa? La bella e longilinea Emma ha posato per l'edizione britannica di Vanity Fair con le tette al vento. A dar fuoco alle polveri la conduttrice radiofonica Julia Hartley-Brewer su Twitter: «Il femminismo, il gender gap: perché non vengo presa sul serio? Il femminismo, oh, ed ecco le mie tette». Da lì il coro moralista delle donne pronte a infilzare la portavoce onusiana rinfacciandole la sfacciataggine di chi pretende di affrontare temi seri mostrando centimetri di pelle levigata e sensuale. Spiazzata dalla protesta, Emma ha spiegato: «Per il femminismo le donne devono avere una scelta, non è una bacchetta con cui colpire le altre donne. È una questione di libertà. Non so cosa c'entrino le mie tette». Le tette c'entrano eccome, sin dalle origini dell'universo, le tette sono natura e peccato, voluttà e tentazione. Se ci avesse chiesto consiglio, l'avremmo messa in guardia: i seni nudi non te li perdoneranno, un tempo l'esibizione del corpo era protesta libertaria, oggi va di moda il dogma della castigatezza. Invece Emma sembra cadere dalle nuvole. Nella già citata allocuzione onusiana l'attrice esprimeva stupore per aver scoperto che «femminismo è diventata una parola impopolare», «le donne rifiutano di identificarsi come femministe» e «battersi per i diritti delle donne è diventato sinonimo di odiare gli uomini». Adesso che il femminismo in salsa contemporanea ha colpito lei, si disvela al mondo il giochino maschilista di chi esalta le donne purché caste e addomesticate. Come accaduto in Italia attorno alla parentesi cyberbullista con lo stacco di coscia, le più spietate nella censura sono proprio le donne. Vuoi essere presa sul serio? Copriti! Il look è il biglietto da visita ma poi c'è pure la competenza e la capacità di trasmettere messaggi importanti. Si può essere bardate dalla testa ai piedi e apparire sciocche e volgari. Il servizio di Vanity Fair con Emma che indossa un bolerino Burberry è un seminudo artistico per una rivista patinata. Il problema delle femministe, cara Emma, è un altro, è che tu sei bella. E la bellezza non si perdona.
Il femminismo non è morto: una storia del movimento dagli anni 70 a oggi. Lia Migale, già professore associato di Economia Aziendale alla Sapienza e femminista storica ha scritto Piccola storia del femminismo, uno strumento leggero e quasi un racconto "che vuole essere la narrazione del movimento fino a oggi", scrive Silvana Mazzocchi il 21 febbraio 2017 su "La Repubblica". Il femminismo non è morto e gode di buona salute. Nel tempo si è trasformato e, se nel Novecento ha lottato per l'emancipazione e la parità dei diritti, con il nuovo millennio, si è fatto interprete di una nuova idea di società e, dopo l'appuntamento del 2011 di 'Se non ora quando', ha preso a interpretare la necessità di cambiamento sempre viva nel nostro Paese "con la richiesta del riequilibrio della rappresentanza politica, con il lavoro certosino svolto in tutti gli ambiti sovranazionali, con il concetto di genere sempre più ampliato e diversificato e con la rinascita delle grandi assemblee nazionali". Per dissipare le ombre che avvolgono la parola femminismo, per raccogliere la memoria e per informare le nuove generazioni, Lia Migale, già professore associato di Economia Aziendale presso la facoltà di Sociologia dell'Università di Roma I 'La Sapienza' e femminista storica ha scritto Piccola storia del femminismo (Empiria edizioni), uno strumento leggero e quasi un racconto "che vuole essere la narrazione del movimento fino a oggi, e che dà conto "della ricchezza di pensiero e di pratica che le donne hanno prodotto" nel giro di qualche decennio. Dagli anni 70, con gli slogan di rottura che hanno alimentato il femminismo dell'epoca, fino al tempo dedicato agli studi e agli approfondimenti nei collettivi, nelle università e nelle librerie. E, infine, alla rinascita con le lotte per il riequilibrio delle rappresentanze politiche o alle istanze mirate al cambiamento della società. Per la solidarietà e il lavoro. Insomma, se molti pregiudizi offuscano oggi la parola femminismo, non tutti ne conoscono davvero il significato o sanno com'è nato e come si è sviluppato. Lia Migale colma questa lacuna, ripercorre il recente passato, fornisce schede sintetiche sulle principali battaglie vinte e racconta come il movimento per la parità in campo nel secolo scorso, si sia andato trasformando attraverso i percorsi compiuti, fino a diventare un contenuto politico tuttora in pieno svolgimento. Piccola storia del femminismo è uno strumento agile e utile per comprendere come, lungi dall'essersi esaurito, il femminismo sia ancora vivo e presente nella politica e nei mutamenti contemporanei. C'è da augurarsi che questo piccolo e prezioso libro venga letto nelle scuole, da maschi e femmine.
Perché una "piccola" storia del femminismo in Italia?
"Il femminismo che parte dagli anni '70 ha prodotto un enorme cambiamento sociale e ha inciso sulla vita della maggioranza delle donne. Quindi, il femminismo merita che la Grande Storia se ne occupi e che nelle scuole venga studiato. Io ho voluto fare una cosa da un lato più modesta, ma dall'altro anche molto necessaria. Cioè dare uno strumento leggero e facile da leggere, quasi un racconto, che raccogliesse molto in sintesi come si è sviluppato questo movimento fino a oggi, che sgombrasse le ombre che ci sono sulla parola femminismo, che desse conto della ricchezza di pensiero e di pratica che le donne hanno prodotto. Utile a chi, perché giovane, non ha vissuto questa storia; utile a chi invece c'era e vuole ricordare meglio. Quando, poi, dico che è uno strumento necessario mi riferisco anche al fatto che il femminismo non è semplicemente un movimento del secolo scorso, ma un contenuto politico e relazionale tuttora molto importante giacché la presenza delle donne nella vita produttiva, culturale e politica è fondamentale per costruire un paese che risponda delle esigenze e dei diritti di tutti i cittadini, qualunque sia il genere, la razza o la religione. Oggi il movimento delle donne di nuovo scende in piazza contro la violenza, così come per dire no ai muri e alle barriere contro gli immigrati. Tutto ciò ha una storia che, se è piccola nella dimensione del mio libro, è invece grande nel suo contenuto".
Con quali parole una "storica" passa il testimone alle nuove generazioni?
"Gli anni '70, '80, '90, sono stati gli anni in cui il femminismo si è espresso prima in forma provocatoria: gli slogan "io sono mia", "il corpo e mio e lo gestisco io", "aborto libero gratuito e assistito" sono stati di rottura verso gli stereotipi sulle donne; poi il movimento si è nascosto, meno presente nelle piazze e più nelle università, nelle librerie, nei gruppi studio, creando soprattutto le proprie istituzioni. Sono gli anni dello studio, dell'avanzamento del piano teorico, delle relazioni internazionali, della strutturazione. Con l'apparire del nuovo millennio le donne hanno rappresentato il riscatto. Hanno preteso di parlare per tutti, non solo per la loro crescita, ma per la crescita di una diversa idea di società. Con la manifestazione di "Se non ora quando", con la richiesta del riequilibrio della rappresentanza politica, con il lavoro certosino svolto in tutti gli ambiti sovranazionali, con il concetto di genere sempre più ampliato e diversificato, con la rinascita delle grandi assemblee nazionali il femminismo interpreta la necessità del cambiamento. Non è più soltanto la sempre maggiore presenza delle donne a dare conto del cambiamento, si pretende che si assumano concetti che hanno a che fare con la capacità di relazione e con quello di cura, si pretende la solidarietà e il lavoro".
Femminismo è una parola oggi non molto popolare. Il punto a oggi e come andare avanti senza disperdere la ricchezza del passato.
"Si, è vero, la parola femminismo spesso fa sbuffare. C'è chi dice: ancora!? O chi ci tiene a precisare: io non sono femminista! Personalmente ho dovuto fare i conti molto spesso con questo pregiudizio, anche questo libro non è un caso che è stato edito da una piccolissima casa editrice. Soprattutto abbiamo una vera difficoltà a farci sentire come vorremmo, a essere riconosciute per il nostro ruolo. Però, contemporaneamente vedo una grande curiosità, vedo giovani donne aprire locali dove si discute del pensiero della differenza e si beve anche un aperitivo, si stanno moltiplicando le case delle donne in tutt'Italia, gli uomini sono sempre un po' più presenti ai nostri dibattiti. E addirittura i politici non possono fare a meno di citare - di solito male o a sproposito- le donne, mentre molte donne della politica ufficiale si confrontano con le posizioni del femminismo. Abbiamo visto come la presidente Laura Boldrini si è battuta per l'uso di una lingua non sessista, ma tanti altri esempi si potrebbero citare.
Certo il Movimento delle donne fa sempre i conti con la propria crescita e con le contraddizioni che questo comporta non solo con l'esterno ma anche al proprio interno. Così, ad esempio, giungono al pettine i nodi creati dalle differenze tra donne, ciò che oggi si chiama la questione dell'intersezionalità. O la contraddizione tra le storiche femministe e le giovani femministe. Per l'appunto fare i conti significa discutere e relazionarsi. Se questo avverrà nulla si sarà disperso".
L'ITALIA DEGLI IMBOSCATI.
Premiati per lavorare. I re dei privilegi sono sempre i magistrati che intascano un premio quando decidono di trasferirsi in un tribunale con tanto arretrato. I professori ricompensati se lavorano a Capri o a Cortina, i poliziotti a Venezia e i forestali in montagna..., scrive Stefano Filippi, Mercoledì 5/07/2017, su "Il Giornale". Lavorare stanca, e non c’è bisogno di leggere Cesare Pavese per averne la prova. Stanca e sfianca specialmente se il posto di lavoro è lontano, scomodo, sgradevole. Se vi si viene comandati. Se nessun altro vuole eseguire quell’incarico. Se la montagna di arretrato è un Everest di scartoffie. Un incentivo economico per sobbarcarsi tutto questo mare di sofferenze è il minimo. Soprattutto se il datore di lavoro si chiama Stato e nelle buste paga non ci sono grandi incentivi, avanzamenti di carriera, premi di risultato. Nel linguaggio della burocrazia si chiamano sedi disagiate. Ma darne una definizione univoca è impossibile. Ogni amministrazione pubblica ha i suoi disagi. Quello che è un disagio per un maestro elementare può non esserlo per un carabiniere, una guardia forestale, un magistrato, un vigile del fuoco. Se si appartiene a una branca dove i trasferimenti sono all’ordine del giorno, è quasi inevitabile che nella carriera pubblica capiti prima o poi una sede disagiata. Però l’elenco di queste località è uno scrigno di sorprese. Per una toga è disagio lavorare non solo a Caltanissetta, Enna e Gela, terre di mafia, o in altre località ad alto tasso di criminalità o di violenza: un magistrato è a disagio anche nel tribunale di Ancona o di Siena, se fa il giudice del lavoro a Pisa o il giudice di sorveglianza a Foggia. Sono sedi disagiate Piacenza, Prato, Varese, Massa, Biella, Gorizia; città belle, tranquille, ben servite da treni e autostrade. Per un prof di scuola superiore, invece, è un enorme fastidio lavorare ad Aosta, all’Aquila o a Potenza, e un maestro elementare si stressa a Ischia, a Capri, all’Elba, a Cortina d’Ampezzo, in tutto l’Alto Adige, nella quiete di Assisi, perfino lungo il litorale ligure di Albenga e a Mandello sul Lario, su quel ramo del lago di Como. Da Abbadia Lariana (provincia di Lecco) a Zungoli (Avellino), ci vogliono 81 pagine su carta intestata del ministero dell’Istruzione per elencare oltre 3.500 comuni ritenuti disagiati per il personale della scuola: più del 40 per cento del totale dei municipi. E non sono tutti. E poi ci si chiede come mai un prof appena può chiede il trasferimento, abbandona l’anno scolastico e molla la cattedra: la sede, oltre che lontana dalla sua città d’origine, è pure scomoda. Anche per gli agenti di polizia l’elenco delle sedi disgraziate è lungo. Ma per loro, oltre a posti di confine come Bardonecchia (Torino), Brennero o Muggia, o a epicentri della malavita come Corleone, Orgosolo o Casal di Principe, il disagio è nettamente percepibile anche a Roma, Milano, Venezia, Pescara, Firenze, Rimini; a Bologna e Verona, a Modena e Treviso, a Foggia e Forlì, e in centinaia di pacifiche località di provincia come Volterra, Susa, Pomezia, Orvieto, Guastalla, Feltre, Busto Arsizio, Arona. Per non parlare di paradisi dei turisti come Arzachena, Courmayeur, Capri, Cavalese, Vipiteno. Ogni amministrazione dello stato ha i suoi disagi. Per la scuola sono disagiate le piccole isole, cioè tutte le isole lungo lo Stivale eccetto Sicilia e Sardegna; i comuni montani, cioè quelli in cui almeno l’80 per cento della superficie si trovi a un’altitudine di 600 metri e oltre; i comuni a forte immigrazione e le aree ad alto rischio. Mentre per isole e montagna esistono elenchi ufficiali, per le altre località il ministero rimanda ad accordi regionali. Un’area a rischio, per esempio, può essere un comune terremotato che però cessa di esserlo una volta completata la ricostruzione. Le scuole sui monti e in mezzo al mare non danno diritto ad aumenti di stipendio ma solo a un maggior punteggio e alla precedenza nelle richieste di mobilità; negli altri casi invece è previsto un incentivo contrattato localmente. Discorso completamente diverso riguarda la casta togata. Le sedi disagiate cambiano ogni anno e vengono determinate sulla base della mancata copertura della sede nella precedente pubblicazione, o comunque se l’indice di scopertura supera il 20 per cento dell’organico. Il 28 settembre 2016 il ministero della Giustizia ha individuato 53 sedi disagiate con 113 posti vacanti fra tribunali civili, sezioni del lavoro, magistratura di sorveglianza e sostituti vari. Ed ecco che tra le località d’inferno compaiono, ampiamente previste, Caltagirone (2 posti), Caltanissetta (16 nel distretto), Siracusa (3), Catanzaro (3), Castrovillari (2), Locri (5), Palmi (4): città dove amministrare la giustizia espone ogni giorno a un pericolo e da cui molti scappano appena possono. Ma, con stupore, sono disagiate anche Ancona (2 posti), Foggia (3), Piacenza (3), Prato (4), Pisa (1), Siena (5), Massa (1), Varese (2), Latina (4), Biella (3), Gorizia (2), Tempio Pausania (2). Pisa, Siena, Varese, Latina sedi disagiate? Roba da non credere. È il Csm a individuare gli uffici con le carenze d’organico maggiori, poi è il ministero di via Arenula a porre il sigillo sugli elenchi «in base alla copertura finanziaria - fanno sapere dal Csm - e alle pendenze negli uffici». Significa che il disagio si misura anche dal carico di arretrati: se c’è tanto da fare le scomodità si moltiplicano. Elementare, Watson. Ma la sede scomoda e i disagi tecnici del lavoro a quanto pare vengono ampiamente compensati da una serie di vantaggi economici. E del resto non potrebbe essere diversamente, in qualche modo bisogna offrire degli incentivi. A chi accetta il trasferimento nelle sedi «sfortunate» il ministero garantisce infatti un’indennità mensile lorda di quasi 4mila euro, più il raddoppio dell’anzianità ai fini pensionistici per massimo quattro anni (cioè 48 mesi lavorati in sede disagiata equivalgono a 96 mensilità per la pensione), la precedenza assoluta a tornare nella sede occupata prima, il rimborso delle spese di viaggio e di trasloco e una «una tantum» variabile tra 8.829 e 9.918 euro a titolo di «indennità di prima sistemazione». Una sorta di benvenuto. Anche per le guardie forestali l’elenco delle sedi disagiate è interminabile. Per un corpo militare la scomodità dovrebbe essere quasi nel conto dell’attività. La riorganizzazione voluta dal governo Renzi è ancora in corso, l’unificazione con l’Arma dei carabinieri procede a tappe e la questione delle sedi disagiate non è ancora stata definita. Resta quindi, al momento, ciò che valeva nel passato, ovvero che anche per il corpo che vive nel disagio, nei boschi, sulle montagne, nelle emergenze, esistono località più problematiche delle altre. Sono sparse in ogni regione e rappresentano oltre un quarto di tutte le circa 800 stazioni della Forestale. Naturalmente vi sono comprese stazioni sciistiche e attrazioni turistiche come Campotosto sul Gran Sasso d’Abruzzo, la Valbruna in Friuli Venezia Giulia, il Cadore e il Cansiglio in Veneto, Vallombrosa e parte del Chianti in Toscana, Macugnaga e Oulx in Piemonte, Sondalo e Ponte di Legno in Lombardia. Ma nella lista appaiono anche insospettabili località non particolarmente elevate sul livello del mare: Vasto, Scanzano Ionico, Casamicciola, la Cinque Terre, ma anche Marciana Marina sull’isola d’Elba, il Giglio e l’Argentario, il Gargano in Puglia. Aree ricche di boschi e foreste, ma magari non così problematiche da gestire né isolate da raggiungere. Tra i militari anche carabinieri ed esercito hanno le loro sedi disagiate, soprattutto all’estero, il che è comunque comprensibile. Di sicuro un militare non sceglie una sede disagiata per soldi: l’indennità mensile è di 45,45 euro lordi per i dipendenti, si legge nell’accordo sindacale che regola le parti accessorie dello stipendio dovute per i rischi connessi al servizio, «in servizio presso località particolarmente isolate e disagiate». Indennità ridotta per chi si rechi in quelle sedi saltuariamente, che va corrisposta per tutti i giorni di servizio effettivo prestato. Per i vigili del fuoco il disagio è articolato con puntiglio: vanno valutati la distanza dal capoluogo, «il tempo di percorrenza dal capoluogo in relazione alla situazione plano-altimetrica delle vie di comunicazione stradali», la presenza di mezzi pubblici, le difficoltà aggiuntive in caso di maltempo. Sono 38 le sedi disagiate individuate con questi criteri e nelle quali si applica un orario di servizio differenziato per evitare troppi spostamenti casa-lavoro. I messi peggio sono i vigili del fuoco destinati alle isole. E purtroppo per loro anche quanti se ne stanno a Cortina, Piano di Sorrento, Piombino e negli aeroporti di Olbia e Fiumicino. Infine, la Guardia di finanza. Anche le Fiamme gialle hanno i loro disagi ma se li tengono per sé. Hanno preferito non rendere noto l’elenco delle sedi.
La beffa dei disabili a carico. Record di maestri furbetti trasferiti nelle scuole del Sud. La Calabria batte il Friuli Venezia Giulia 79% a 0. I trasgressori restano al loro posto. I dati elaborati da Tuttoscuola, scrive Gian Antonio Stella l'1 luglio 2017 su "Il Corriere della Sera". Calabria batte Friuli 79 a 0. La gara per l’abuso della legge 104 sulla precedenza ai docenti che dichiarano un disabile a carico fa segnare un risultato più rotondo del mitico match Australia-Samoa 32-0. Uno squilibrio folle. Che dilaga in tutto il Sud danneggiando colleghi che in graduatoria erano davanti ai furbetti. Ma ancor più insopportabile è che questa prepotenza, anche se smascherata, non sia repressa con l’unica sanzione vera: il trasferimento degli imbroglioni lì dove stavano. La conferma dell’andazzo, denunciato più volte da una associazione di insegnanti bidonati di Agrigento e lì accertato dalla magistratura, arriva da un’elaborazione di Tuttoscuola dei dati ministeriali sui trasferimenti interprovinciali di docenti della «primaria» (le medie e le superiori arriveranno più avanti) per il prossimo anno scolastico. Il tutto dopo un’interrogazione del leghista Paolo Grimoldi sulla voce che 530 insegnanti su 1.000 avessero ottenuto «il trasferimento al Sud grazie a quanto previsto dalla legge 104 sulla tutela dei disabili». Notizia approssimativa sui numeri, non sulla sostanza.
Cosa dice la legge. Premessa: nessuno ma proprio nessuno ha contestato mai il principio di quella legge del ‘92 che prevede nei trasferimenti degli insegnanti un diritto di precedenza a favore di quanti documentano la propria disabilità o la necessità di fornire «assistenza al coniuge, ed al figlio con disabilità; assistenza da parte del figlio referente unico al genitore con disabilità; assistenza da parte di chi esercita la tutela legale». Un ventaglio ampio ma non generico: non prevede comunque, come ricorda la rivista di Giovanni Vinciguerra, la precedenza per «l’assistenza ad altri familiari disabili». Giusto così. Il guaio è che dopo le denunce di Dorenzo Navarra, un insegnante di Sciacca che aveva creato l’Associazione Insegnanti in Movimento perché furente contro l’eccesso di trasferimenti concessi con la motivazione di quella legge sacrosanta, i giudici avevano accertato con l’inchiesta «La carica dei 104», che in effetti uno su quattro dei docenti «premiati» col trasloco ad Agrigento da Cuneo, Rovigo o Vipiteno, aveva ottenuto quello spostamento dichiarando il falso. I numeri noti, però, si limitavano finora all’area girgentina. Tuttoscuola conferma: l’uso corretto e insieme quello scorretto della legge del ‘92 incidono sul 72,6% dei trasferimenti interprovinciali nelle «primarie» siciliane. Con punte dell’81,5% a Palermo, dell’83,3% a Trapani, del 100% a Agrigento e a Enna. Cento percento! Numeri appena appena ridotti al di là dello Stretto, con l’87,5 in provincia di Vibo Valentia e del 97,1% a Cosenza.
Il divario Nord-Sud. Sia chiaro: vivere nel Mezzogiorno, per chi deve farsi carico di una persona non autosufficiente, è molto più complicato che vivere al Nord. I presidi residenziali socio-assistenziali e socio-sanitari, usati principalmente come spiega l’Istat «da anziani e non autosufficienti», sono squilibrati in modo agghiacciante: «l’offerta raggiunge i più alti livelli nelle regioni del Nord, dove si concentra il 66% dei posti letto complessivi (9 ogni 1.000 residenti) e tocca i valori minimi nel Sud con il 10% dei posti letto (solo 3 posti letto ogni 1.000)». Le regioni settentrionali, prosegue l’istituto di statistica, «dispongono anche della quota più alta di posti letto a carattere socio-sanitario, con 7 posti letto ogni 1.000 residenti, contro un valore di 2 posti letto nelle regioni del Sud». In valori assoluti: 243.320 letti nel Nord, 38.129 nel Sud, 30.919 nelle isole. Per non dire degli altri servizi d’assistenza e collaborazione: la battaglia dei giovani disabili palermitani che sono riusciti a mobilitare Pif, Fiorello, Jovanotti e altri dice tutto. Non c’è proprio paragone, tra chi ha certi problemi gravi nel Sud o nel Nord. E sarebbe ingiusto non tenerne conto. Detto questo, l’uso sistematico del raggiro della legge da parte di molti furbetti, com’è emerso dalle inchieste e dalle stesse denunce (rare: e mai seguite da gesti di rottura) di qualche sindacato, grida vendetta a Dio. Perché va «a scapito di docenti settentrionali»? No, risponde Vinciguerra: se pure si accertassero abusi, questi non farebbero danni ai docenti del Nord perché comunque, «su quei posti sarebbero stati trasferiti altri docenti meridionali senza 104». Ma è proprio qui la vergogna. Gli imbroglioni non vendicano neppure ipotetiche ingiustizie ministeriali o padane: profanano i diritti di chi è come loro ma rispetta la legge.
I confronti. I numeri non lasciano dubbi: su 2.902 trasferimenti interprovinciali per l’anno 2017/2018 nella scuola primaria, solo 7 son dovuti alla precedenza data dalla «104» in tutto il Nord Ovest, 5 in tutto il Nord Est, 48 nel Centro e 564 nel Centro-Sud. Le quote regionali confermano: 0,0% di spostati grazie alla 104 in Friuli, 0,7% in Veneto, 0,9% in Piemonte e nelle Marche, 1,0% in Toscana, 1,2% in Lombardia, 1,5% in Emilia-Romagna… Sul versante opposto: 35,0% in Molise, 37,2% in Puglia, 66,6% in Campania, 72,9% in Sicilia e infine quel sonante 79,5% in Calabria. A dispetto di tutte le polemiche e le inchieste: tutto come prima. Ciò che più insulta chi è stato sorpassato nelle graduatorie, però, è che anche i furbetti cui è stato revocato il trasferimento ottenuto con l’imbroglio non sono stati tuttavia rimandati dove stavano. Lo spiegò mesi fa su «La Sicilia» il provveditore di Agrigento Raffaele Zarbo: «Non c’è alcuna norma che costringa a revocare il trasferimento ottenuto grazie alla precedenza suddetta, nel caso in cui la stessa venga revocata dopo il medesimo trasferimento». E Ignazio Fonzo, uno dei magistrati più impegnati a smascherare gli imbroglioni, conferma: «Già il rimpatrio là dove chi ha fatto il furbo stava, per me, è poco. Che razza di esempio dà un professore che imbroglia? Lo rimettiamo in cattedra a insegnare? Cosa insegna agli studenti: “furbizia applicata”? Ma queste sono le regole. Se non le cambiano noi giudici possiamo soltanto fare solo ciò che dice la legge. Fine. A volte “ammuttamu u fumu co a stang’”, spostiamo il fumo col bastone…».
Un decreto miracoloso, diecimila militari saranno dirigenti. Dopo 13 anni di servizio qualunque ufficiale non abbia demeritato (cioè tutti) avrà il grado di maggiore diventando in questo modo un dirigente pubblico, scrive Sergio Rizzo il 10 aprile 2017 su "Il Corriere della Sera". Lo Stato si appresta ad arruolare un esercito di dirigenti pubblici. E mai come in questo caso i termini calzano a pennello. Perché si tratta di militari: diecimila, più o meno, per i quali un colpo di bacchetta magica spalancherà le porte di «una carriera a sviluppo dirigenziale». Automatica. Dopo 13 anni di servizio qualunque ufficiale non abbia demeritato (cioè tutti) avrà il grado di maggiore diventando in questo modo un dirigente pubblico. Il sortilegio è in un decreto legislativo all’esame del parlamento per il prescritto parere non vincolante. Sessantasette pagine piene di tabelle misteriose accompagnate da una relazione tecnica di 137 pagine. Un labirinto di articoli, commi e lettere, tempestato di rimandi e astratti riferimenti normativi. Dove l’unica cosa chiara è il costo. Allo Stato impegnato ora nella ricerca di 3,4 miliardi per evitare gli strali europei lo scherzetto costerà quasi un miliardo soltanto per i primi tre anni. Dopo di che saranno necessari circa 400 milioni ogni anno. Per sempre: ai gradi più elevati sarà concesso un aumento di stipendio fisso del 6% ogni due anni. Per non parlare della quantità di stellette. Gli ufficiali superiori con grado da maggiore in su sarebbero oggi 12.346: e con i 470 (quattrocentosettanta) generali, arriviamo a 12.816. Una cifra destinata a crescere ininterrottamente fino ai 16.031 del 2022, per scendere poi pian piano fino al 2026 quando i 13.926 appartenenti agli alti gradi saranno pur sempre 1.110 più del numero previsto oggi dal riordino. Il bello è che i generali resteranno sempre gli stessi: 57 di Corpo d’armata, 104 di Divisione e 309 di Brigata. Molti di più rispetto ai posti di comando disponibili fra Esercito, Marina e Aeronautica. Abbiamo metà dei generali degli Usa (900 circa) che contano però su un milione e mezzo di effettivi. Dieci volte i nostri, previsti ridursi a 150 mila entro il 2024, quando avremo un ufficiale superiore per ogni dieci militari. Todos caballeros...
Nella pubblica amministrazione si ammala il 20% di dipendenti in più. La Cgia di Mestre ha analizzato che le assenze dal lavoro per malattia sono circa il 20% in più nella pubblica amministrazione che nel settore privato nonostante nel privato la durata sia più lunga, scrive Enrica Iacono, Sabato 18/02/2017, su "Il Giornale". Nella pubblica amministrazione le assenze per motivi di salute sono circa il 20% in più che nel settore privato, dove tuttavia la durata media annua dell'assenza per malattia dal lavoro è leggermente più lunga. A riscontrarlo, con un'analisi sui dati dell'Inps riferiti al 2015, la Cgia di Mestre: nel settore pubblico, infatti, le assenze riguardano il 57% degli occupati mentre nel privato ci si ferma al 38%. la media dei giorni è nel primo caso di 17,6, nel secondo 18,4: "Pur avendo lo stesso andamento in entrambi i settori, gli eventi di malattia per classe di durata presentano uno scostamento "sospetto" nel primo giorno di assenza. Se nel pubblico costituiscono il 25,7 per cento delle assenze totali, nel privato si riducono di oltre la metà: 12,1 per cento", evidenzia la Cgia. Quelle da 2 a 3 giorni, invece, si avvicinano (32,1 per cento del totale nel privato e 36,5 per cento nel pubblico), mentre tra i 4 e i 5 giorni di assenza avviene il "sorpasso"; 23,4 per cento nel privato contro il 18,2 per cento del pubblico. Tra il 2012 e il 2015 in tutte le regioni d'Italia sono in aumento le assenze nel pubblico con punte che superano il 20 per cento in Umbria e Molise. Dei 5 milioni di eventi di assenza registrati nel 2015 a livello nazionale nel pubblico impiego, il 62 per cento circa è riconducibile ai dipendenti del Centro-Sud. La situazione, invece, si capovolge quando analizziamo i dati relativi al privato. Dei quasi 9 milioni di assenze registrate nel 2015, il 57 per cento circa è imputabile agli occupati del Nord. "E' evidente - sottolinea il coordinatore dell'Ufficio studi della Cgia Paolo Zabeo - che non abbiamo alcun elemento per affermare che dietro questi numeri si nascondano forme più o meno velate di assenteismo. Tuttavia qualche sospetto c'è. Se in Calabria, ad esempio, tra il 2012 e il 2015 le assenze per malattia nel settore pubblico sono aumentate del 14,6 per cento, mentre nel privato sono scese del 6,2 per cento, è difficile sostenere che ciò si sia verificato perchè i dipendenti pubblici di quella regione sono più cagionevoli dei conterranei che lavorano nel privato".
Giro di vite sui "furbetti del week end", più rapidi i licenziamenti, scrive il 29 Gennaio 2017 "Il Giornale Di Sicilia”. Ecco perchè e quanto si assentano gli statali. Tutto quello che si può sapere è contenuto nel mega-database della Ragioneria generale dello Stato, il cosiddetto Conto annuale, a cui non sfugge nulla in fatto di giornate passate a casa piuttosto che a lavoro. Dalle cifre aggiornate al 2015, risulta che per la malattia se ne vanno circa 9,2 giorni a testa, 3 per la maternità, 2,1 in virtù della legge 104 e uno per congedi straordinari. Il tema è anche al centro dell'attenzione del governo: entro febbraio è in arrivo un decreto che renderà la vita dura ai "furbetti" del week end e per le assenze di massa. Novità anche sui licenziamenti più rapidi per chi effettua abusi. I dati estrapolati della Ragioneria sono ovviamente medie, ottenute rapportando le giornate saltate al numero dei dipendenti pubblici, 3,2 milioni di lavoratori, e, ovviamente, non tutti usufruiscono dei permessi per la disabilità o per l'assistenza dei familiari. Quindi sono da prendere con le pinze ma danno l'idea della dimensione del fenomeno. Per vederci più chiaro un raffronto con lo scorso anno può aiutare. Di certo rispetto al 2014 gli statali si sono ammalati di meno: si è passati da circa 32 milioni di giornate a 30 milioni, con la media pro capite che si è abbassata da 9,8 ad, appunto, 9,2 giornate perse. Oltre al caso, magari un'annata più fortunata in fatto di salute, nel 2015 potrebbero essersi fatti sentire gli effetti di un cambiamento del clima politico dopo un "caldo" 2014. Anno a cui risale l'avvio dell'inchiesta siciliana denominata 'La carica delle 104' e anno che si è chiuso con il famigerato San Silvestro dei vigili urbani della capitale, che ha portato il Governo ad annunciare una stretta con la riforma Madia. Per stanare i furbetti delle assenze il governo sta preparando misure ad hoc, che avranno la loro cornice nel decreto sul pubblico impiego che arriverà entro metà febbraio: un giro di vite per chi salta puntualmente i giorni di lavoro a ridosso del weekend o per casi di esodi dall'ufficio (tutti assenti lo stesso giorno). Anche i nuovi contratti, così prevede l'accordo del 30 novembre tra sindacati e governo, dovranno "contrastare fenomeni anomali di assenteismo". Il meccanismo dovrebbe essere quello dei premi ai virtuosi. D'altra parte è noto il gap storico tra pubblico e privato e difficilmente il calo registrato nel 2015 (le giornate di assenza retribuite sono passate da 18,8 a 17,8) potrà segnare un vero recupero: due anni fa un rapporto di Confindustria segnalava tra gli statali un tasso doppio. Anche se bisogna sempre fare attenzione a mettere a confronto voci comparabili. Un capitolo diverso, che riguarda la falsificazione delle presenze, si è aperto con il caso dei dipendenti del Comune di Sanremo, i cosiddetti furbetti del cartellino, da cui è disceso il decreto sui licenziamenti lampo, da chiudere in 30 giorni. Espulsioni sprint che, come noto, saranno estese anche ad altre tipologie, a tutti coloro che vengono sorpresi con le mani nel sacco: assenteisti ma anche chi ruba o si macchia di peculato o corruzione. Insomma in tutti i casi accertati in flagranza. Il tutto dovrebbe essere graduato a seconda delle situazioni. L'articolo 18 per gli statali resterà salvo ma, e anche questo è già stato anticipato nei mesi scorsi, i cavilli giuridici, i vizi di forma, non potranno cancellare il licenziamento, rendendo di fatto più difficile la reintegra. Sarebbe confermata anche la riduzione dei termini per i procedimenti disciplinari ordinari (da 120 a 90 giorni). Si va quindi verso una revisione generale dei licenziamenti, come massima punizione prevista già oggi dalla legge Brunetta per una serie di condotte, dal rifiuto del trasferimento allo scarso rendimento. Il valore del database della Ragioneria sta nella possibilità di avere un'idea chiara di quel che accade, a prescindere dagli avvenimenti che trovano spazio nelle cronache, l'ultimo in ordine cronologico quello di un prof di Padova assente tutto l'anno. L'Rgs passa in rassegna tutte le tipologie di assenza, dalle ferie agli scioperi. Il totale del 2015 ammonta a 126,5 milioni, erano 132,8 nel 2014, in diminuzione del 4,8% rispetto all'anno precedente (quasi 133 milioni). Certo è calato anche un pò il personale, ma a ritmo decisamente inferiore (-0,1%). Guardando più da vicino i dati, comparto per comparto e focalizzando l'attenzione sulle assenze per malattia, emerge come spesso le donne si assentino di più: ad esempio, nella scuola le giornate saltate sono state, in media, 7,5 per gli uomini e 9,7 per le donne, nei ministeri 9,9 per i lavoratori e 11,7 per le lavoratrici, nella sanità 8,6 per i dipendenti e 11,6 per le dipendenti. Naturalmente le differenze tra i settori risentono anche degli orari di lavoro, dei turni e dell'età media, che, come noto, nella P. A. non fa altro che alzarsi.
Cosenza, spesa e slot in orario di lavoro: indagati 18 dipendenti dell'Asp. Ogni giorno qualcuno si occupava di strisciare i cartellini per tutti gli altri. Nel frattempo impegnati nel proprio studio privato o in altre attività, scrive Alessia Candito il 7 febbraio 2017 su "La Repubblica". Giocavano alle slot, andavano a fare la spesa o si intrattenevano con gli amici. Per questo motivo, 18 dipendenti dell'Azienda sanitaria provinciale di Cosenza sono stati colpiti oggi da diverse misure cautelari - per 4 la sospensione dal servizio, per 14 l'obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria - chieste e ottenute dal pm Giuseppe Cava, dal procuratore capo, Mario Spagnuolo e dall'aggiunto, Marisa Manzini. Destinatari dei provvedimenti di sospensione sono due medici, un capo infermiere e un ausiliario, mentre altri 14 fra dirigenti, dottori e amministrativi saranno obbligati a presentarsi quotidianamente al comando dei carabinieri. Tutti sono a vario titolo indagati per truffa aggravata, sostituzione di persona e falso ideologico. Gli indagati però sono molti di più. Su 58 dipendenti dell'Asp, sono 48 i dipendenti finiti sotto inchiesta e denunciati. "In un momento storico in cui la sanità cosentina è in difficoltà - spiega il procuratore della Repubblica di Cosenza Mario Spagnuolo - ci sembrava opportuno mettere un punto, e richiamare al rispetto delle regole. Sarà ora il vertice dell'Azienda a valutare, secondo le prescrizioni della legge Madia, le successive conseguenze e la comunità farà le proprie valutazioni. Il nostro compito è quello di far fronte a fenomeni di illegalità diffusa nella pubblica amministrazione, e a questa indagine ne seguiranno altre, che spero di completare nel migliore dei modi". Secondo quanto emerso dalle indagini dei carabinieri di Rogliano, i dipendenti dell'Asp anziché trovarsi sul posto di lavoro, trascorrevano la mattina sbrigando le faccende più disparate, dal fare la spesa al supermercato agli incontri con gli amici al bar o a giocare alle slot, dopo aver accompagnato i figli a scuola. A incastrare i dipendenti assenteisti, seimila ore di filmati e oltre duecento servizi di osservazione. Sono ben 725 gli episodi di assenteismo, per un totale di 1.500 ore, documentati dai carabinieri, che per mesi hanno monitorato ogni movimento dei dipendenti. Ogni giorno, a turno, c'era qualcuno che si occupava di strisciare i cartellini per tutti gli altri, nel frattempo ancora a casa o impegnati nel proprio studio privato. Ovviamente in orario di servizio.
Nuovo caso di furbetti del cartellino. Questa volta alla Asl di Rogliano, in Calabria. I medici andavano a giocare alle slot machine o a fare la spesa anzichè curare i pazienti. 18 le misure cautelari. Le segnalazioni partite dai cittadini. Servizio di Grazia Graziadei. TG1 7 febbraio 2017.
Sotto accusa tre dipendenti del Comune di Paderno Dugnano, scrive il 10 febbraio 2017 "Corriere TV". I tre dipendenti del Comune di Paderno Dugnano timbravano il cartellino e poi uscivano per trascorrere ore al bar o a controllare i lavori di ristrutturazione di casa. Uno di loro ora è agli arresti domiciliari, mentre gli altri due sono stati sottoposti all’obbligo di firma.
Al bar o ad allevare bovini, blitz contro i furbetti del cartellino nel Milanese, scrive il 10 febbraio 2017 "Repubblica TV". Uno alleva bovini, un altro supervisionava i lavori di ristrutturazione di una casa, il terzo andava a bar, prendeva un caffè e leggeva i giornali. Tutti e tre, però, erano dipendenti del comune di Paderno Dugnano. Il giudice per le indagini preliminari della procura di Monza ha messo la parola fine sulla carriera dei tre furbetti del cartellino. A segnalare che qualcosa non andava erano stati gli stessi colleghi del terzetto. Da lì sono partite le indagini condotte dalla polizia locale di Paderno Dugnano e durate sei mesi: da gennaio a luglio dello scorso anno. Uno di loro, il 55enne, impiegato negli uffici del comune è agli arresti domiciliari. Per altri due è arrivato l'obbligo di dimora.
Assenteismo, a Erchie sospesi 6 dei 22 dipendenti comunali. Il sindaco indagato per peculato. Il primo cittadino Giuseppe Margheriti, eletto nel 2015 con una lista civica che fa capo a Forza Italia, è accusato di aver utilizzato per fini personali le auto del Comune, scrive Sonia Gioia l'8 febbraio 2017 su "La Repubblica". Sei dipendenti del Comune di Erchie, in provincia di Brindisi, sono stati sospesi per assenteismo. Altri 12 sono indagati con la stessa accusa e saranno interrogati nei prossimi giorni. Indagati per peculato d’uso anche il sindaco Giuseppe Margheriti e l’ex presidente del consiglio comunale Ivan Volpe. Secondo gli inquirenti il primo cittadino avrebbe usato le auto di proprietà del Comune per motivi personali. Volpe invece è accusato di avere fatto il pieno alla propria auto usando le schede carburante messe a disposizione dei dipendenti pubblici. Il provvedimento del giudice per le indagini preliminari del tribunale di Brindisi decapita l'ente, che conta un totale di 22 dipendenti. La sospensione per i sei dipendenti è arrivata al termine di cinque mesi di indagini condotte dagli agenti della guardia di finanza e coordinate dalla pm Valeria Farina Valaori. Si tratta dei dirigenti Agata Rodi (vicesegretaria generale), Lucia Panuli (dirigente Servizi sociali), Carmelino Ciccarese (ufficio Lavori pubblici) e Antonio Gigli (ufficio Urbanistica) e degli impiegati Antonello Gennaro e Alda Annamaria Tanzarella. Sono tutti accusati di aver lasciato il posto di lavoro dopo aver timbrato il cartellino per dedicarsi a faccende personali. Le ipotesi di reato formulate dal magistrato inquirente sono di truffa, peculato, peculato d'uso e falso. Accuse di cui i dipendenti indagati dovranno rispondere anche di fronte alla Corte dei conti. Il sindaco Giuseppe Margheriti respinge ogni accusa a proprio carico. Il primo cittadino è stato eletto nel 2015 con una lista civica che fa capo a Forza Italia. "Mi affido all'operato della magistratura, davanti alla quale chiarirò la mia posizione. Di fatto hanno decapitato un ente".
Furbetti del cartellino, truffa alla Asl di Viterbo per un milione e 300mila euro. Alcuni dipendenti dell'azienda sanitaria sono riusciti a ottenere maggiorazioni dello stipendio persino in giornate in cui erano assenti dal posto di lavoro, scrive Stefano Vladovich, Martedì 31/01/2017, su "Il Giornale". Truffa alla Asl di Viterbo per un milione e 300mila euro. Timbrano il cartellino e si danno alla fuga. Chi va alla recita di Natale del figlioletto, chi a fare acquisti, altri al mercato rionale. Alcuni, in particolare, non si fanno alcuno scrupolo e se ne tornano a casa. Sono 23 le denunce per altrettanti dipendenti, tra medici, infermieri e funzionari dell’ospedale Belcolle di Viterbo, tutti con l'ipotesi di reato di falso e truffa ai danni dello Stato. Una pratica fin troppo diffusa quella del badge prestato "allegramente" a colleghi e amici da timbrare al posto di altri, tanto che i finanzieri della cittadina a nord della capitale hanno avviato una prima indagine "d'iniziativa". Appostamenti e pedinamenti in pochi giorni portano ai primi risultati tanto da convincere la Procura viterbese ad autorizzare l'installazione di telecamere e microspie nonché a monitorare gli spostamenti degli impiegati Asl attraverso i movimenti dei loro telefoni cellulari. Un lavoro investigativo particolarmente difficile per la possibilità dei dipendenti di timbrare il badge in varie postazioni della struttura ospedaliera. I dati raccolti, comunque, vengono incrociati con l'attività di pedinamento e di analisi dei tabulati telefonici. Risultato? Presenze registrate, assenze e spostamenti durante l'orario di lavoro puntano su un gruppo di dipendenti. "Una pratica tristemente diffusa - spiegano le Fiamme Gialle - per alcuni lavoratori compiacenti che si prestano a coprire altri colleghi che restano a casa o si dedicano ad altri impegni familiari, pur risultando regolarmente sul posto di lavoro". È il caso di una donna intenta a fare spese durante l'orario di ufficio o di un'altra impiegata impegnata nella rappresentazione teatrale del figlio. Un'inchiesta certosina, tanto che i baschi verdi hanno esaminato oltre mille posizioni giornaliere. Le indagini, poi, si sono concentrate su altre gravi quanto illegali abitudini dei dipendenti Asl. Come quella di ottenere maggiorazioni dello stipendio persino in giornate in cui erano assenti dal posto di lavoro. Dal sospetto alla certezza: basta incrociare i documenti degli ultimi cinque anni dell'azienda sanitaria di Viterbo e della Regione Lazio per ricostruire l'ammontare di indennità percepite indebitamente dal personale medico e infermieristico in servizio presso una certa Unità Operativa. Fra queste anche assistenze domiciliari mai effettuate. "In dettaglio - conclude la Guardia di Finanza - sono state prodotte false attestazioni mediante le quali dodici indagati, tra medici e infermieri, hanno percepito indennità accessorie allo stipendio per prestazioni domiciliari effettuate in giorni di assenza dal lavoro, oppure gonfiate nella quantità. Ovvero effettuate si, ma registrate anche a favore di terzi che non avevano partecipato all’intervento domiciliare". A quanto ammonta la truffa? A un milione e 300mila euro. Fra i 23 dipendenti uno (solo), in particolare, è stato sospeso dal servizio.
Furbetti, comandante vigili sviene in diretta tv. Durante la trasmissione "Quinta colonna" Maiello si è accasciato, costringendo il conduttore Del Debbio a sospendere il collegamento, scrive il 31 gennaio 2017 "La Città di Salerno". Malore in diretta a Quinta Colonna. Nella la puntata di lunedì 30 gennaio, il Comandante dei Vigili di Nola è svenuto durante un acceso confronto a distanza con il collega di Avellino, Michele Arvonio, che era intervenuto telefonicamente per rivolgergli delle accuse. In studio si stava parlando del caso assenteisti e “furbetti del cartellino” che ha interessato la città campana, quando ad un tratto è avvenuto l’imprevisto sotto gli occhi delle telecamere. Nola: i furbetti del cartellino si difendono. Così recitava il titolo in sovrimpressione a Quinta Colonna. Nell’ambito del dibattito sul tema, a cui ha preso parte anche il sindaco della città campana, il comandante dei Vigili di Avellino, Michele Arvonio, è intervenuto in diretta per accusare il collega di Nola di essere stato licenziato e di non poter quindi svolgere il suo ruolo. Durante lo scambio di battute a distanza, il pubblico ufficiale di Nola ha accusato un malore. E, pallido in volto, ha replicato: “Questo è un attacco simile a quello della camorra, che ho già subito in passato. Dei rapporti con il dottor Arvonio purtroppo non posso parlare perché le indagini sono aperte. Non mi aspettavo questo attacco in diretta”. A quel punto, il comandante dei Vigili nolani è svenuto a terra ed è stato soccorso. Del Debbio, da studio, ha chiesto di togliere l’inquadratura ed ha commentato: “Mi dispiace, ma la persona ha chiamato e noi abbiamo dovuto dare la voce a quello che voleva dire. Naturalmente chi ha parlato si prenderà la sua responsabilità, speriamo che lì non sia successo niente, che sia una cosa passeggera e che non accada niente di tutto questo”. La trasmissione è poi proseguita regolarmente. Tra gli argomenti trattati, il degrado a Roma con un collegamento dal campo rom di Tor Sapienza.
"Timbra il cartellino e se ne va": il Comune di Milano indaga sulle soffiate dei dipendenti sui colleghi scorretti. I casi sollevati a Palazzo Marino con il whistleblowing: i lavoratori hanno denunciato online comportamenti irregolari: dalle continue assenze, alle giornate passate su cellulare e tablet da chi lamenta problemi alla vista, scrive Alessia Gallione l'1 febbraio 2017 su "La Repubblica". A "denunciarli" sono stati gli stessi colleghi. Soffiando in quel fischietto - la traduzione letterale della procedura - virtuale che è la piattaforma online creata dal Comune per il whistleblowing. Segnalazioni non solo anonime che sono arrivate dall'interno di Palazzo Marino. E che per quasi la metà dei casi - sei su quattordici - passati in rassegna nell'ultimo anno hanno riguardato comportamenti considerati scorretti sul posto (pubblico) di lavoro. È così che la dipendente trovata a timbrare il cartellino al rientro dalla pausa pranzo o "all'ingresso del mattino" per poi uscire subito dopo dall'ufficio è destinata ad avere un procedimento disciplinare. Ed è così che sono partite le indagini per almeno altre due impiegate "che escono e si assentano dal servizio anche più volte nella stessa giornata" e per un'altra che "non svolge alcuna attività lavorativa lamentando problemi di vista", ma passerebbe il tempo "sul suo telefono e sul suo tablet". Per capirla, questa vicenda, bisogna tornare all'inizio del 2015, quando il Comune ha creato nella sua rete interna (intranet) una piattaforma dedicata al cosiddetto whistleblowing, ossia alla possibilità per i dipendenti dell'amministrazione di segnalare online, con la garanzia dell'anonimato, un illecito, un'illegalità o un'irregolarità che danneggiano l'interesse pubblico. Un ulteriore tassello del Piano triennale di prevenzione della corruzione che il Comune ha appena aggiornato arrivando a disegnare una mappa approfondita che arriva a toccare praticamente ogni ambito dell'amministrazione, dalle gare fino all'assegnazione dei contributi. Caccia aperta alla corruzione, quindi. Ma non solo. E la prova è nel numero di denunce degli assenteisti della scrivania accanto. Niente rispetto alle migliaia di lavoratori di Palazzo Marino, certo. Ma ci sono. E soprattutto, gli stessi colleghi hanno deciso di non voltarsi dall'altra parte. In tutto, nei due anni in cui è partito questo strumento previsto dalla legge, sono state 26 le pratiche aperte dallo speciale Organismo di garanzia presieduto da Virginio Carnevali di Transparency International Italia. Sono loro a ricevere e valutare le pratiche e a girarle ai dirigenti che indagano a loro volta e prendono gli eventuali provvedimenti finali. Le segnalazioni devono avere requisiti finora sempre rispettati: la buona fede, il fatto di essere circostanziate e che arrechino un danno al pubblico. E allora, passiamo ai 14 dossier valutati nel 2016 e descritti nella relazione pubblicata sul sito del Comune. Le denunce sono le più varie: da un proiettore che sarebbe stato acquistato per un valore (7mila euro) superiore a quello reale a una manifestazione natalizia in Darsena che non avrebbe ricevuto alcune autorizzazioni, fino ai tariffari che i tassisti dovrebbero ricevere gratuitamente e che invece sarebbero stati pagati due o un euro. In questi casi è bastata la verifica per far rientrare l'allarme. Per ora, solo per l'impiegata trovare a timbrare il cartellino in modo scorretto è arrivata la richiesta di un procedimento disciplinare. "Nessuna anomalia", invece, è stata segnalata dal dirigente di un altro lavoratore che, secondo l'accusa, nonostante il filtro dei tornelli non avrebbe fatto tutte le ore di straordinario pagate. C'è stata "una verifica approfondita" anche su una dipendente della polizia locale che avrebbe avuto un "trattamento di favore" perché "da anni" non fa i turni di notte utilizzando però "in autonomia un pass di sosta rilasciato dal comando" proprio per quel servizio. Il risultato? All'Organismo di garanzia non sono bastati i chiarimenti e l'approfondimento è ancora in corso. Pratiche ancora aperte anche per gli ultimi "fischi" del 2016: che riguardano chi dopo un periodo di malattia continua a lamentare problemi di vista ma trascorre le ore di lavoro sul tablet e sullo smarphone e altri due impiegati considerati troppo assenteisti dai loro stessi colleghi.
Napoli, clamoroso blitz anti-assenteisti in ospedale: 94 indagati, 55 arresti. Al Loreto Mare. Domiciliari, tra gli altri, per un neurologo, un ginecologo, 9 tecnici di radiologia e 18 infermieri. De Luca. "Saremo inflessibili", scrive il 24 febbraio 2017 "La Repubblica". L'ospedale Loreto Mare Un'indagine durata due anni. Da ore e ore di filmati e intercettazioni e oltre 500 servizi di osservazione e pedinamento sono emersi migliaia di episodi di assenteismo da parte di 94 dipendenti dell'ospedale napoletano Loreto Mare. I carabinieri del Gruppo tutela salute e del Nas di Napoli hanno eseguito un'ordinanza di custodia cautelare ai domiciliari emessa dal gip di Napoli su richiesta della procura nei confronti di 55 persone, mentre sono 94 gli indagati. I carabinieri del Gruppo tutela salute e del Nas di Napoli, fanno sapere gli stessi militari, hanno piazzato nel nosocomio telecamere immortalando gli episodi di assenteismo che hanno portato ai provvedimenti restrittivi per truffa ai danni di Ente pubblico e falsa attestazione di presenza. Come spiegano i carabinieri, 55 persone, tra le quali un neurologo, un ginecologo, nove tecnici di radiologia, 18 infermieri professionali, sei impiegati amministrativi, nove tecnici manutentori e 11 operatori sociosanitari, questa mattina sono stati raggiunti da un'ordinanza di custodia cautelare ai domiciliari emessa dal gip di Napoli su richiesta della procura della Repubblica. Oltre alla cosiddetta "strisciata plurima" dei badge, per far risultare presenti dipendenti che, invece, erano assenti, le telecamere dei carabinieri hanno documentato l'assenza dei dipendenti dell'ufficio rilevazioni presenze e assenze, ovvero coloro incaricati di eseguire i controlli finalizzati al rispetto delle clausole contrattuali; uno dei dipendenti, è emerso, durante l'orario di servizio andava a fare lo chef in una struttura alberghiera del Nolano. Documentato anche il caso di un medico, indagato, il quale mentre era in servizio prendeva il taxi e andava a giocare a tennis oppure a sbrigare faccende personali, come fare compere in gioielleria. In due anni sono state registrate ore e ore di filmati e di intercettazioni, eseguiti oltre 500 servizi di osservazione e pedinamento: accertati migliaia di episodi di assenteismo. Tra gli indagati anche due operatori socio sanitari che, quotidianamente, dopo essere stati avvertiti telefonicamente o via sms, "strisciavano" 20 badge, a seconda dei turni di servizio dei colleghi da "coprire". Sono continuati, dopo la notifica della misura cautelare, i capillari controlli dei carabinieri nell'ambito dell'inchiesta. Perquisizioni, acquisizione di atti e altre verifiche sono in corso. Secondo quanto si è appreso, sarebbe spuntato un altro filone, legato alla fabbricazione di schede "taroccate" di una pay tv. Sul caso interviene il presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca. "Saremo inflessibili contro chi non fa il proprio dovere. Della vicenda ho già parlato con il direttore generale dell'Asl". "I furbetti del cartellino sono una vera e propria piaga per la sanità e per la Pubblica amministrazione". È la denuncia del presidente del Codacons Carlo Rienzi. "Mentre i dipendenti infedeli vanno a giocare a tennis o a sbrigare faccende personali, i cittadini subiscono le conseguenze di una sanità pubblica allo stremo - prosegue Rienzi - basti ricordare il caso di pochi giorni fa dei pazienti curati sul pavimento in un ospedale pubblico. L'assenteismo dal lavoro ha infatti ripercussioni dirette per gli utenti, perché riduce le prestazioni erogate dalla Pubblica amministrazione e peggiora i servizi resi alla cittadinanza che, ricordiamo, attraverso le tasse paga gli stipendi ai furbetti del cartellino".
LETTERA APERTA/ I furbetti del cartellino e la mia tormentata storia di funzionario comunale a San Severo. "Indirizzo questa lettera aperta alle testate e agenzie giornalistiche e agli uomini di buona volontà. Si è fatto un gran parlare dei “furbetti del cartellino” e, dopo mesi di sbandieramento di tali notizie da parte della stampa e degli altri organi di informazione, ora che il problema sembra risolto, giunge in ritardo questa mia lettera aperta scritta diversi mesi fa e che oso riesumare solo in questi giorni nella speranza di poter suscitare, se non l’attenzione dei miei destinatari o di Babbo Natale, almeno quella della Befana. A fronte, dunque, del citato sbandieramento, provo un’ultima volta a mettere in evidenza il caso che mi ha riguardato – che si è, invece, consumato nella totale indifferenza dei Carabinieri, della Magistratura, nonché delle varie Istituzioni Pubbliche alle quali mi sono rivolto e, dulcis in fundo, della stampa – per quanto sia consapevole che la gravità dei fatti e lo stillicidio di illegalità, soprusi e persecuzioni a cui nell’arco di oltre quindici anni è stata sottoposta la mia persona, come individuo, pubblico dipendente e come cittadino, potrà ben poco emergere dal seguente riassunto. «Dal 1996 al 2001 ho rivestivo di fatto la funzione di responsabile dell’Ufficio Relazioni con il pubblico del Comune di San Severo (comune di circa 60 mila abitanti in provincia di Foggia) ed ero all’apice della mia attività in tale ruolo per i risultati conseguiti e i riconoscimenti ottenuti, nonché per lo sviluppo di carriera che ne conseguiva. Tutto si è interrotto per la vendetta di un assessore il quale, per non averne accettate le pressioni, ha organizzato, mentre ero regolarmente nell’esercizio delle mie funzioni, un trattamento sanitario obbligatorio richiesto da due ossequienti dirigenti comunali grazie ad una falsa e compiacente certificazione medica. Da quel momento e per i successivi sei anni e mezzo ho dovuto subire una serie di atti persecutori e, al fine di minare e ferire la mia persona e la mia dignità di dipendente pubblico e di essere umano, dopo la destituzione dalla mia funzione e la soppressione dell’Ufficio, sono stato tenuto lontano da qualsiasi attività lavorativa tanto da essere costretto ad assentarmi e, infine, ad anticipare la pensione. A nulla son valse le denunce presentate direttamente ai Carabinieri e alla Procura di Foggia, la quale ultima, nonostante i miei oltre venti esposti presentati dal 2001 al 2004, si è mostrata omertosa, se non connivente, con gli autori dei vari misfatti compiuti via via contro la mia persona, uno tra gli altri il fatto, per l’appunto, d’essere tenuto lontano da qualsiasi attività lavorativa, vedendomi costretto, per quanto in continuazione della erogazione dello stipendio, a “bighellonare” tra il corridoio e la piazza antistante la sede comunale come puntualmente da me denunciato. Né sono valse le circa 250 lettere di protesta inviate all’amministrazione comunale, ove, tra l’altro, si rilevava la responsabilità amministrativa e contabile della dirigenza e si evidenziava come venissi invitato, da alcuni dirigenti e dallo stesso Sindaco, a “starmene a casa” in attesa che venisse meno l’ostracismo imposto contro la mia persona dall’assessore mafioso che reggeva le fila della persecuzione. A nulla sono valse le varie lettere inviate a varie testate giornalistiche, tutte lasciate senza alcuna eco ad eccezione della sola risposta di “Famiglia Cristiana” con la quale mi si significava – ed è questo il punto – che quanto da me denunciato era “normale” e “usuale” nella pubblica amministrazione (sic!) tanto da non meritare alcun interesse da parte dello stesso giornale. Né è valso l’invio di esposti a vari organi istituzionali (Prefettura di Foggia, Dipartimento Funzione Pubblica, Ministero dell’Interno, Corte dei Conti, Ordine dei Medici e altri), ad eccezione di quello inviato all’allora Presidente della Repubblica Ciampi, il cui intervento servì a indurre la Procura della Repubblica di Foggia a iscrivere nel registro degli indagati (finalmente e dopo ben 28 mesi persi in inutili, pretestuose e fantasiose indagini suppletive) i responsabili del TSO (dirigenti, medici e sindaco del Comune) per l’ipotesi di concorso in sequestro di persona e degli altri reati connessi. Sorvolo sugli ulteriori risvolti e i travagli dell’azione penale che ho dovuto affrontare contro i responsabili dell’azione delittuosa attuata contro la mia persona, i quali, tutti, dopo essere stati prosciolti in prima istanza senza rinvio a processo, non ne hanno mai pagato il fio per quanto la loro responsabilità penale sia stata successivamente riconosciuta da ben due sentenze di Cassazione. Aggiungo soltanto che, a beffa mia e di ogni logico criterio, nel mese di novembre 2006, la medesima Procura di Foggia, sempre restata sorda e indifferente alle denunce da me presentate, tanto da consentire e agevolare il perpetuarsi fin lì del reato e il danno erariale conseguente, procedeva nei miei confronti per “l’ingiusto vantaggio patrimoniale rappresentato dal percepire uno stipendio in assenza di attività lavorativa” per un danno erariale pari a oltre 90 mila euro. Solo in questo caso ho avuto modo di assistere alla stupefacente velocità della giustizia italiana, tanto che in data 8 aprile 2008 sono stato sottoposto a giudizio dal quale sono poi risultato assolto senza rinvio a processo, al solo fine di evitare un processo che avrebbe consentito di evidenziare e documentare la responsabilità giudiziale dei dirigenti e funzionari dell’amministrazione comunale che avevano richiesto il rito abbreviato. Nessuno pagherà, quindi, quei 90 mila euro, come nessuno ha ripagato quel funzionario, responsabile dell’Ufficio Relazioni con il pubblico del Comune di San Severo, annoverato tra i migliori 100 uffici di tutta la pubblica amministrazione nazionale, i cui progetti venivano finanziati dallo Stato, che da oltre quindici anni chiede giustizia per i reati commessi a suo danno, e a danno della sua professionalità e della sua dignità, oltre che dei suoi diritti personali inutilmente tutelati dalla Costituzione. Spero tuttavia che abbia termine il silenzio omertoso che ha consentito e agevolato tutto ciò». Per quanto possa riconoscere come in Italia avvengano episodi ben più gravi, ritengo che quanto è accaduto nel Comune di San Severo – nella complice e colpevole indifferenza della politica, della magistratura e della opinione pubblica a livello nazionale, nonché per tutte le implicazioni sottese alla persecuzione attuata nel corso di oltre quindici anni contro la mia persona come individuo, come cittadino e come pubblico dipendente – possa meritare una qualche attenzione in quanto offre un’ampia rappresentazione dell’attuale degrado politico, giuridico e sociale che si vive a livello locale e nazionale. Se ancora una volta non lo fosse, sarebbe ben triste la riflessione da farsi sui destinatari di questa mia lettera aperta e sul ruolo da questi assolto nella nostra società". Giovannantonio Macchiarola (su L’Altro Quotidiano)
L'Italia degli imboscati. Inabilità al lavoro e permessi, ecco tutte le carte false. Nella sanità pubblica il 12% dei dipendenti esentato da alcune mansioni per le quali è stato assunto. A Palermo 270 netturbini con il certificato per non spazzare, scrive Marco Ruffolo l'8 gennaio 2017 su “La Repubblica”. Cosa dobbiamo pensare quando a Palermo 270 netturbini hanno potuto esibire un certificato medico che vieta loro di spazzare le strade; quando in Calabria oltre la metà del personale sanitario riesce a farsi trasferire dietro una scrivania e il 50 per cento dei dipendenti della protezione civile lavora al centralino; quando a Como gli operai assunti dal Comune diventano di colpo impiegati; quando a Pescara 50 infermieri e operatori socio-sanitari svolgono mansioni solo amministrative; quando a Firenze il 40 per cento dei vigili urbani passa più tempo in ufficio che in strada? Ecco a voi l'Italia degli imboscati. Sbaglierebbe chi volesse vedere in questo fenomeno comportamenti palesemente illegittimi. Non stiamo parlando dei furbetti che timbrano e se ne vanno a spasso, degli assenteisti cronici, o di altri piccoli truffatori del pubblico impiego. Stiamo raccontando una storia di formale legalità, non per questo meno scandalosa: la storia di chi, soprattutto nel settore pubblico, riesce senza fondate motivazioni a evitare, per "inidoneità parziale" o per abuso della legge 104, il lavoro per il quale è stato assunto (un lavoro spesso duro, faticoso, delicato) facendosi trasferire tra le scartoffie di un ufficio, lontano dalla strada, lontano dai cittadini. Una premessa è d'obbligo: andare incontro a malattie o infortuni parzialmente invalidanti o dover assistere parenti disabili sono sacrosante e indiscutibili ragioni per cambiare mansione, per evitare i lavori più gravosi, o più semplicemente per avere permessi e congedi. Ma qui stiamo parlando dell'abuso che si fa di questi diritti, grazie a migliaia di sconsiderate autorizzazioni rilasciate dalle commissioni mediche. La conseguenza è doppia: si creano vuoti preoccupanti nei lavori più richiesti (dagli infermieri ai vigili urbani) caricando un peso sempre più insostenibile sulle spalle di chi nel pubblico impiego dà l'anima tutti i giorni; e si penalizza chi tra i lavoratori avrebbe veramente bisogno di assistenza.
I ruoli vietati. Che il 12% dei dipendenti della sanità pubblica, circa 80 mila persone, per lo più donne - è riuscito a farsi riconoscere una serie di limitazioni alla propria idoneità lavorativa, con punte del 24% tra gli operatori socio-sanitari, seguiti dal 15% degli infermieri. La metà di quegli 80 mila - dice una ricerca a campione targata Cergas-Bocconi - ha diritto a non sollevare i pazienti e a non trasportare carichi troppo pesanti (un lavoro burocraticamente chiamato "movimentazione di carichi e pazienti"). Un altro 13 per cento non può lavorare in piedi, il 12 non lo può fare di notte. Il resto viene esentato da una lunghissima serie di operazioni: essere esposti a videoterminali, a rischi biologici, chimici e allergie, stare a contatto con i pazienti, fare lavori che producono stress, operare in taluni reparti, e così via. Certo, lavorare in una corsia di ospedale può sicuramente creare problemi anche gravi, e tuttavia è difficile considerare normali percentuali di lavoratori "inidonei" che toccano e superano in qualche caso il 25 per cento. Anche perché in settori privati ugualmente pericolosi (se non di più) non c'è la stessa possibilità di vedersi alleggerire il proprio carico di lavoro.
I record del Sud. E' soprattutto al Sud che l'esercito degli "inidonei" si infittisce in misura anomala. Nell'Azienda sanitaria provinciale di Reggio Calabria, su 1.178 dipendenti, 652 (oltre la metà) lavorano a regime ridotto. Ottanta psicologi della sanità regionale - come più volte denunciato dal commissario straordinario Massimo Scura, invece di aiutare i pazienti, sono finiti negli uffici amministrativi. Tutto in Calabria sembra funzionare al contrario: più di cento medici lavorano nel reparto prevenzione, dove ne servirebbero meno della metà, e rimangono invece scoperti screening oncologici e assistenza domiciliare. Ma gli imboscati non sono solo nella sanità. Un terzo dei vigili urbani di Napoli ottenne tempo fa certificati medici che consentivano loro di evitare la strada. Qualcuno non poteva guidare l'auto di servizio, qualcun altro neppure rispondere al telefono o stare più di pochi minuti al computer.
I veri e finti disabili. A Palermo sono tuttora circa 400 gli "inidonei temporanei", tra autisti che non possono guidare, netturbini che non possono spazzare le strade, giardinieri che diventano improvvisamente portieri A Milano 4 dei 5 ispettori della società comunale Sogemi, che avrebbero dovuto controllare l'Ortomercato fra le tre di notte e le otto del mattino, hanno rapidamente ottenuto l'inidoneità al lavoro notturno. Fin qui alcuni degli innumerevoli casi di "imboscamento" per inidoneità. Ma c'è un altro strumento (di per sé sacrosanto) di cui si è fatto e si sta facendo un abuso che supera i livelli di guardia. Ed è la legge 104, una grande legge di civiltà, perché offre una serie di benefici ai lavoratori disabili gravi, o ai genitori, coniugi, parenti e affini entro il terzo grado di familiari disabili gravi. Oltre ai tre giorni di permessi retribuiti al mese per l'assistenza, la legge dà loro il diritto di scegliere la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio, di rifiutare eventuali trasferimenti, eventuali lavori notturni e in alcuni casi anche lavori domenicali e festivi. Per le stesse categorie scatta anche il congedo straordinario retribuito di due anni. Tutto molto giusto, se non fosse che anche in questo caso c'è chi se ne approfitta. Sono i "furbetti della 104", che accertamenti medici quanto meno superficiali hanno inserito e continuano a inserire tra i disabili gravi meritevoli di assistenza.
I congedi e benefici. Prima anomalia: negli ultimi cinque anni - dice l'Inps - gli accessi alla legge, per la propria disabilità e per quella dei familiari, sono cresciuti rispettivamente del 22,5 e del 34 per cento. Seconda anomalia: Nel pubblico impiego - ancora dati Inps - i beneficiari della 104 e dei congedi straordinari sono 440 mila, ossia il 13,5 per cento di tutti i dipendenti, mentre nel settore privato sono appena il 3,3 per cento. Certo, in qualche misura può pesare il fatto che un dipendente privato, per timore di perdere il posto, sia meno propenso a chiedere quei permessi. Ma questo non basta a spiegare una differenza così macroscopica. Quando un anno fa si scoprì che nella scuola Santi Bivona di Menfi, un paese dell'agrigentino, addirittura il 41% dei docenti (settanta su centosettanta) usufruiva della legge 104, il ministero dell'istruzione fece partire un'inchiesta in tutta Italia. Risultati anche qui inquietanti, e questa volta a toccare i record negativi troviamo insieme al Mezzogiorno anche il Centro Italia. Così, mentre la Sardegna è in testa per docenti di ruolo disabili gravi o parenti di disabili (il 18,3 per cento), all'Umbria va il primato del personale non docente che beneficia della legge: il 26,3 per cento. Si posiziona bene anche il Lazio, con il 16 e con il 24,8 per cento. In Veneto, Piemonte e Toscana, al contrario, troviamo il minor numero di beneficiari.
Le maglie della 104. Centro-Sud e Isole riescono dunque ad allargare a dismisura le maglie della 104, riuscendo per esempio a inserire tra i disabili gravi i figli celiaci, oppure le nonne residenti a centinaia di chilometri di distanza. C'è chi riesce addirittura a ottenere più di una 104. Se questo è il quadro generale, non è difficile capire perché soprattutto al Sud interi servizi pubblici essenziali restano solo sulla carta mentre quelli meno necessari traboccano di personale per lo più inutile. E perché gli stessi ispettori che dovrebbero verificare sul campo tutti questi abusi non di rado finiscono essi stessi tra le file degli imboscati.
Sanità, fuga dalle corsie. A Roma no a lavori pesanti per un dipendente su sette. Il pronto soccorso dell'ospedale San Camillo a Roma. Inchiesta: l'Italia degli imboscati. Nella Capitale il doppio delle esenzioni che nel resto d'Italia. Riforme boicottate e costi per 250 milioni, scrive Carlo Picozza il 9 gennaio 2017 su "La Repubblica". L'Italia degli imboscati non ammette eccezioni. Da Nord a Sud, anche se con percentuali diverse, c'è sempre qualcuno che approfitta grazie a un certificato medico o alla forzatura di una norma sacrosanta per alleggerire il suo lavoro. Nel settore pubblico la legge 104, che offre una serie di benefici ai disabili gravi e ai loro parenti, è utilizzata dal 13,5% dei dipendenti contro il 3,3% del settore privato. Nella scuola le "inidoneità parziali" non sono eccezioni così come nella sanità. E proprio nel settore sanitario Roma è la capitale anche degli esonerati dal lavoro della prima linea. Assunti come medici, tecnici, ausiliari e, soprattutto, infermieri, sono finiti dietro una scrivania. Niente più in trincea. Niente notti, niente sala operatoria, no a turni stressanti né "giro letti" a pulire e a cambiare i pazienti. Nella Città eterna si concentra la percentuale più alta dei cosiddetti prescritti, addetti del Servizio sanitario pubblico, esonerati da guardie, turni e contatti con i malati. Secondo i dati della Ragioneria generale dello Stato si tratta di 16 addetti su cento (uno su sette), il doppio della media nazionale. Accade nelle tre aziende ospedaliere, San Camillo, San Giovanni e San Filippo Neri (ormai declassato a presidio), all'Umberto I, il più grande policlinico universitario d'Europa, e nella Asl del centro. Esoneri e non solo. Se a questi si aggiungono permessi, congedi parentali, assenze per patologie, la percentuale di fuga dalla "front line", lievita intorno al 20 per cento. Provare per credere. Al San Camillo, l'ospedale più grande della capitale, su 2mila 800 infermieri (3mila 800 dipendenti in tutto) sfiorano quota 500 gli esonerati dal lavoro per il quale sono stati assunti. Non sono assenteisti, sono impegnati nella settantina di ambulatori diurni, intorno ai 150 letti dei day hospital, nei servizi della Farmacia ospedaliera o, qua e là, dietro le centinaia di scrivanie; lontani comunque dal capezzale degli oltre mille ricoverati. A nulla valgono le proteste di chi è costretto a lavorare di più per compensare le carenze di organico o i disservizi patiti da chi è ricoverato. La soluzione non si trova. Un tentativo di sanare la situazione fu fatto con il contratto 1998-2001: promozioni solo per chi era impegnato in prima linea. Quindi niente soldi in più per chi aveva ottenuto di poter evitare i lavori più gravosi. Il tentativo fallì e gli scatti arrivarono per tutti anche grazie al pressing di politici e sindacati. In busta paga 200 mila lire in più di media e la beffa di dover appaltare all'esterno dei lavori "sporchi". Oggi i servizi di assistenza diretta affidati alle cooperative sociali, ai cococo e alle partite Iva gravano sul Servizio sanitario del Lazio per oltre 250 milioni di euro. Una cifra enorme che ha vanificato il blocco del turnover imposto dal Piano di rientro dal deficit sanitario. Piccoli cambiamenti stanno arrivando per effetto del decreto legislativo numero 81 del 2008 che prescrive al direttore generale di nominare il cosiddetto medico competente al quale ricorrere per gli esoneri. Il medico competente difficilmente può trasformarsi, vista anche la stretta legislativa sulla materia, in medico compiacente. Ma i danni del passato ormai sono difficilmente sanabili. E i disservizi continuano.
L'ITALIA DEI CORROTTI.
Papa: "C'è corruzione in Vaticano, ma non perdo serenità". Intervista a Civiltà Cattolica, scrive L' "Ansa" il 9 febbraio 2017. "C'è corruzione in Vaticano. Ma io sono in pace. Se c'è un problema, io scrivo un biglietto a S.Giuseppe e lo metto sotto una statuetta che ho in camera mia". Lo afferma il Papa in un'intervista alla Civiltà cattolica, pubblicata dal Corriere della Sera. Sugli abusi sessuali, spiega: "Se sono coinvolti religiosi, è chiaro che è in azione la presenza del diavolo che rovina l'opera di Gesù, tramite colui che doveva annunciare Gesù. Ma parliamoci chiaro: questa è una malattia. Se non siamo convinti che questa è una malattia, non si potrà risolvere bene il problema". La "barca di Pietro", "a volte nella storia, oggi come ieri, può essere sballottata dalle onde e non c'è da meravigliarsi di questo. Ma anche gli stessi marinai chiamati a remare nella barca di Pietro possono remare in senso contrario. È sempre accaduto". Lo ha detto il Papa nell'udienza alla comunità di Civiltà Cattolica, la rivista dei Gesuiti giunta al numero 4000.
Siracusa, arrestato per corruzione colonnello della Guardia di finanza. Custodia cautelare per Massimo Nicchiniello, comandante Nucleo di polizia tributaria: è uno degli indagati nell’ambito della inchiesta Mose della Procura di Venezia, scrive Luca Signorelli il 16 giugno 2017 su "Il Corriere della Sera". Arrestato il tenente colonnello della Guardia di Finanza Massimo Nicchiniello, in servizio a Siracusa, dove comanda dall’agosto 2016 il Nucleo di polizia tributaria. Il provvedimento di custodia cautelare in carcere gli è stato notificato questa mattina in quanto indagato assieme ad altri 15 persone nell’ambito della inchiesta Mose della Procura di Venezia legata alla concessione di denaro, doni in cambio di sconti nelle sanzioni per evasioni fiscali. Oggi, infatti, il Nucleo di Polizia Tributaria di Venezia ha dato esecuzione a 14 ordinanze di custodia cautelare in carcere e due agli arresti domiciliari, emesse dal gip del Tribunale di Venezia, su richiesta della locale Procura della Repubblica, nei confronti di 6 imprenditori (di cui due domiciliari), 2 funzionari dell’Agenzia delle entrate (immediatamente sospesi dal servizio, «al fine di tutelare la dignità delle lavoratrici e dei lavoratori che operano onestamente e scrupolosamente», precisa l’Agenzia) ed un ex funzionario della stessa ora in pensione, 2 commercialisti, 2 ufficiali della Guardia di finanza, un appartenente alla Commissione Tributaria Regionale per il Veneto e 2 dirigenti di un’azienda assicuratrice, coinvolti con diversi ruoli in fatti di corruzione commessi al fine di sgonfiare gli importi delle imposte da pagare da parte di imprese già sottoposte a verifiche fiscali. L’ufficiale è accusato di reati commessi quando era in servizio a Udine ma a Siracusa è stata assicurata la continuità operativa del nucleo e la totale estraneità del Comando. L’inchiesta, condotta dal pm Stefano Ancilotto, è nata da alcune intercettazioni che erano state eseguite nell’ambito dell’inchiesta Mose. Nelle sedici misure cautelari emergono nomi importanti: tra questi Elio Borrelli, ai vertici dell’Agenzia delle entrate prima a Venezia ora in Abruzzo, Christian David e Massimo Esposito, rispettivamente responsabile delle verifiche il primo ed ex direttore dell’Agenzia di Venezia il secondo. Nell’elenco anche due ufficiali della Gdf, Vincenzo Corrado e Massimo Nicchinello, un giudice tributario della Commissione regionale, Cesare Rindone, due commercialisti di Treviso e Chioggia, Tiziana Mesirca e Augusto Sertore, e una serie di imprenditori appartenenti al gruppo Bison di Jesolo, specializzato in costruzioni, a Cattolica assicurazioni, alla società Baggio di Marghera, attiva nella logistica, oltre a un produttore di prosciutti friulano, Pietro Schneider.
Venezia, tangenti per non pagare le tasse: 16 arresti. Coinvolti anche due ufficiali della guardia di finanza: uno è il comandante del Nucleo di polizia tributaria di Siracusa. Denaro e doni in cambio di sconti nelle sanzioni per evasioni fiscali. Sospesi due dipendenti dell'Agenzia Entrate, scrive il 16 giugno 2017 "La Repubblica". Quattordici persone in carcere e due ai domiciliari: è questo il risultato di un'indagine del nucleo di polizia tributaria di Venezia, che riguarda sei imprenditori, tre funzionari dell'Agenzia delle Entrate (uno dei quali in pensione), due commercialisti, due ufficiali della Guardia di finanza, un appartenente alla Commissione Tributaria Regionale per il Veneto e due dirigenti di un'azienda assicuratrice, coinvolti, "con diversi ruoli, in fatti di corruzione commessi al fine di sgonfiare gli importi delle imposte da pagare da parte di imprese già sottoposte a verifiche fiscali". Tra gli arrestati anche il comandante del Nucleo di polizia tributaria di Siracusa (dove comanda dall'agosto 2016), il tenente colonnello Massimo Nicchiniello. L'ufficiale è accusato di reati commessi quando era in servizio a Udine. L'indagine ha avuto origine da un filone collaterale dell'inchiesta sul Mose nella quale erano emersi comportamenti sospetti, tenuti da un dirigente dell'amministrazione finanziaria. Dalle indagini, fa sapere la guardia di finanza, sono emersi diversi episodi di corruzione. Nel primo caso, secondo la Gdf di Venezia, "è emerso un patto tra un imprenditore jesolano e un dirigente dell'Agenzie delle Entrate che, trasferito in un'altra regione, si è poi avvalso di un collega in servizio a Venezia". Secondo i finanzieri, le tangenti pagate ammontano a 140.000 euro, pagati in varie tranches tra il settembre 2016 ed il maggio 2017. "In cambio - spiega la Gdf - i due funzionari si sono adoperati per ridurre di circa l'80% le imposte dovute da tre società, con sede in provincia di Venezia, riconducibili all'imprenditore, che erano state sottoposte a verifica fiscale da altri funzionari della stessa Agenzia fiscale, passando così da 41 milioni di euro dell'originaria pretesa di gettito, a poco più di 8 milioni di euro effettivamente pagati". Un altro caso emerso dalle indagini, è quello di "due funzionari", riferisce la guardia di finanza, che si "sono accordati con un commercialista di Chioggia, per ricevere 50.000 euro, in cambio della promessa di 'accomodare' un accertamento tributario relativo ad un'impresa del posto". Nel corso della indagini, sono emerse le tracce di un secondo episodio corruttivo, il cui scopo era di ridimensionare l'esito di verifiche eseguite regolarmente, dal Nucleo di polizia tributaria di Venezia, nei confronti di una società immobiliare ed un'azienda di trasporti di Venezia. Sospesi dipendenti Agenzia Entrate. L'Agenzia delle Entrate, che sta coadiuvando l'autorità giudiziaria, ha comunicato di aver sospeso i dipendenti coinvolti nella vicenda. "Pur nella speranza che possano dimostrare la propria innocenza, l'Agenzia delle Entrate ha provveduto all'immediata sospensione dei dipendenti coinvolti nell'inchiesta ancora in servizio. - si legge -. Al fine di tutelare la dignità delle lavoratrici e dei lavoratori che operano onestamente e scrupolosamente, nonché al fine di garantire l'immagine dell'Agenzia delle entrate e l'indispensabile rapporto di fiducia che i contribuenti devono poter avere con essa, saranno avviate tutte le misure sanzionatorie e risarcitorie".
Corruzione nell'Agenzia delle entrate: i casi. Non c'è anno senza arresti. L'Amministrazione: "solo lo 0,2% in tre anni su 40 mila dipendenti". Ma quanti la fanno franca? Scrive Stefano Caviglia il 16 giugno 2017 su "Panorama". "Mi hanno detto che era un regalo. Non avrei dovuto andare a Napoli, ma con Pelella siamo amici da anni…". Arrestato l’11 aprile scorso nell’atto di intascare una mazzetta da 7.500 euro, il direttore provinciale dell’Agenzia delle entrate di Genova, Walter Pardini, ha provato a difendersi di fronte al giudice con queste sconcertanti parole. L’avvocato la cui amicizia invocava candidamente come un alibi è un ex collega dell’Agenzia delle entrate e se si pensa che l’azienda napoletana di cui è ora consulente, la Securpol, ha aperto una sede fantasma a Genova, nel mezzo di un contenzioso con l’Agenzia, proprio in concomitanza con il trasferimento di Pardini nel capoluogo ligure, è difficile immaginare una storia di corruzione fiscale più inquietante di questa. Inquietante ed esemplare, ma non unica e neppure rara. Qualcosa di non troppo diverso, solo per fare un esempio, accadde nel febbraio del 2013 a Firenze, con il direttore dell’Agenzia delle entrate Nunzio Garagozzo che attraverso un commercialista complice chiedeva soldi per ridurre l’evasione accertata sotto i limiti del penale (licenziato dieci mesi dopo l’arresto in flagrante e successivamente condannato dopo il patteggiamento). Ed ecco altri personaggi con ruoli di spicco finiti nei guai nei quattro anni che separano i due casi più clamorosi: il capo dell’ufficio controlli di Pesaro (arrestato a ottobre 2013 e condannato a dicembre 2016); l’ex responsabile della Campania (messo ai domiciliari il 15 luglio 2014); un giudice della Commissione tributaria di Roma (arrestato il 9 marzo 2016); il capo dell’ufficio legale dell’Abruzzo (ai domiciliari il 29 aprile 2016); l’ex direttore dell’ufficio dell’Agenzia di Forlì-Cesena (indagato il 16 febbraio 2016), il capo del team funzioni ispettive di Reggio Emilia (arrestato il 16 giugno 2014). Tutti accusati di aver messo in piedi rapporti di do ut des simili a quello di cui è accusato Pardini e per cui fu condannato Garagozzo. È diversa, ma solo in parte, la posizione dell’ex vicedirettrice Gabriella Alemanno, indagata a maggio 2016 e per cui è stato richiesto il rinvio a giudizio il 1° marzo 2017, che in questo momento non è più vicedirettrice ma resta dirigente di vertice dell’Agenzia delle entrate. L’ipotesi di reato nel suo caso è di abuso di ufficio, in quanto avrebbe chiesto e ottenuto dal direttore regionale di Equitalia Lazio di sospendere il debito esattoriale di un’amica, evitandole con ciò il rischio di pignoramento dell’ultimo stipendio, della tredicesima e della liquidazione. Attenzione: le vicende citate riguardano solo persone con funzioni dirigenziali o comunque di alto livello (i giudici tributari non sono dipendenti dell’Agenzia, ma fanno parte comunque del sistema fiscale, e quello arrestato a Roma operava in combutta con un ex dipendente). Contando anche i livelli più bassi riguardanti i dipendenti sia dell’Agenzia delle entrate che di Equitalia, si supera largamente la trentina di casi di cui è stata data notizia a livello nazionale o locale negli ultimi quattro o cinque anni. A parte un paio di storie anomale, come quelle del dipendente dell’Agenzia che spacciava cocaina e dei due funzionari appropriatisi di casse di prodotti Chanel che avrebbero dovuto distruggere, si trova anche qui la solita sfilza di aspiranti «esattori in proprio». Si va dal funzionario dell’Agenzia di Genova che nel 2014 ha cercato di farsi dare 10 mila euro dal titolare delle cantine del famoso spumante Bisson (che lo ha denunciato) agli ispettori di Roma che giravano per ristoranti chiedendo 25 mila euro per non far scattare severissime verifiche, passando per le decine di accessi sospetti al sistema informatico di Equitalia. Nel periodo fra il 2012 e il 2016, secondo i dati forniti dalla stessa Agenzia delle entrate, si arriva a 493 indagati e 30 condannati in via definitiva. Sono tanti o pochi? Dall’Agenzia chiedono giustamente di valutare questi numeri in proporzione al totale dei dipendenti. "Nell’ultimo triennio" osservano "solo 83 su 40.000 sono stati i casi passibili di licenziamento e solo 27 su 40.000 sono stati i dipendenti tratti in arresto per reati contro la Pubblica amministrazione come la corruzione, l’abuso d’ufficio, la concussione. Si tratta, dunque di un fenomeno circoscritto allo 0,2 per cento dei dipendenti in tre anni". Già, ma se a fare lo stesso senza essere scoperti fossero il doppio o il triplo? Le cronache raccontano che a denunciare i corrotti sono spesso contribuenti spremuti senza ritegno che non ne possono più. Anche ammesso che la maggior parte sia motivata dalla sacrosanta indignazione degli onesti, resta il sospetto che a tariffe convenienti (con mazzette adeguatamente inferiori a quel che si dovrebbe pagare di tasse) la faccenda fili liscia e senza intoppi almeno in un buon numero di casi. Non ci vuole molto a immaginare che cosa passi per la testa di un contribuente onesto, magari tartassato dal Fisco per un’inadempienza formale, di fronte alla scoperta di episodi del genere, ed è forse anche per questo che le istituzioni tendono un po’ a minimizzare. In occasione degli episodi di corruzione più gravi l’Agenzia emette di solito un comunicato in cui si dichiara a fianco degli inquirenti, deplora i comportamenti disonesti e preannuncia provvedimenti disciplinari nei confronti dei dipendenti colti sul fatto, cosa che effettivamente avviene quando la legge lo consente. Dalle verifiche fatte per questo articolo risulta che su 34 casi di corruzione presunta o accertata di dipendenti dell’Agenzia siano scattati 21 licenziamenti (di cui uno revocato dopo un contenzioso, ahimé, per presunto vizio di notifica) e 11 provvedimenti disciplinari, di cui 9 sospesi "per carenza di elementi istruttori", più un collocamento a riposo e un caso di dimissioni spontanee. Per quanto riguarda Equitalia, su dieci casi segnalati ci sono stati 7 licenziamenti e una sospensione disciplinare in attesa del giudizio. In qualche caso l’Agenzia delle entrate sottolinea con orgoglio come le indagini della magistratura siano partite proprio su segnalazione dei suoi organismi di vigilanza. Peccato che tale circostanza si verifichi assai di rado e la grande maggioranza delle indagini sia dovuta a iniziative autonome della magistratura. C’è un problema di scarsa efficacia dei controlli? Qualche perplessità è sollevata sicuramente dall’identità dei controllori. "La legge istitutiva dell’Agenzia delle entrate" ricorda l’ex sottosegretario all’Economia Enrico Zanetti "prevedeva testualmente che il ministero dell’Economia avrebbe esercitato un’azione di vigilanza sul nuovo organismo. Ma questa non è mai stata effettuata se non a livello puramente formale. In altre parole, l’Agenzia si controlla da sola, cosa che rappresenta indiscutibilmente un’anomalia e che non favorisce certo la fiducia dei cittadini". Qui il tema della corruzione si intreccia con quello del potere eccessivo che secondo i più critici sarebbe concentrato nell’Agenzia delle entrate. "Anche gli accordi sui contenziosi fiscali con i contribuenti maggiori, come quello appena chiuso con Google" prosegue Zanetti "non rassicurano affatto. Ci vogliono regole trasparenti e valide per tutti, mentre i vertici attuali dell’Agenzia sono abituati a muoversi con la più grande discrezionalità. E sono perfino riusciti a convincere Ocse e Fondo monetario, autori ciascuno di un rapporto sull’Agenzia a cavallo fra il 2015 e il 2016, che c’è bisogno una dose maggiore di autonomia!". Un ruolo centrale nella lotta alla corruzione è affidato all’Audit dell’Agenzia. Alle persone che fanno capo a questa direzione spetta il compito di svolgere indagini per prevenire tutto ciò che possa impattare negativamente sulla attività degli uffici (dalle frodi interne ai possibili danni erariali), anche tenendo conto dei reati riscontrati in passato nei singoli territori. In pratica i suoi funzionari e dirigenti vano in giro per le sedi tenendo d’occhio ogni tipo di criticità: la regolarità amministrativa e contabile, il rispetto dei principi di autonomia e di indipendenza da parte del personale, la presenza di eventuali casi di incompatibilità. Per far questo raccolgono documenti, accedono a banche dati, registrano dichiarazioni sia di dipendenti dell’Agenzia che di contribuenti. E all’occorrenza, segnalano gli episodi sospetti all’autorità giudiziaria. L’area responsabile di questi controlli è stata ampiamente ridisegnata a dicembre scorso e il nuovo assetto è entrato in funzione poche settimane fa. La novità principale è rappresentata dalla nascita di quattro macroaree (Nordovest, Nordest, Centro e Sud) al posto delle vecchie strutture regionali, con lo spostamento del personale che prima era sparso in giro per l’Italia in quattro città: Milano, Venezia, Roma e Napoli. Ma più che dall’intento di migliorare le performance l’operazione sembra dettata da esigenze di taglio dei costi, visto che nella relativa disposizione interna è indicato, fra gli altri, l’obiettivo di eliminare 32 posizioni dirigenziali e 31 posizioni organizzative speciali. E c’è chi se ne lamenta apertamente. "Rispetto all’organico precedente" protestano dal sindacato di dirigenti e funzionari Dirstat "la diminuzione sfiora il 50 per cento. Ed è grave, perché fra corruzione ed evasione fiscale c’è una correlazione strettissima, con gli effetti perniciosi sui conti pubblici che tutti conoscono. Ma come è possibile fare controlli più accurati se le persone che se ne occupano sono sempre di meno?". Resta la strada della vigilanza degli stessi dipendenti, a cui si chiede di tenere gli occhi aperti per stanare i colleghi infedeli. Si chiama whistleblowing una procedura sperimentata nel mondo anglosassone per consentire di segnalare comportamenti illeciti nella Pubblica amministrazione senza esporsi in prima persona. All’Agenzia delle entrate un apposito indirizzo email è stato attivato a febbraio 2015. Da allora sono arrivate 223 segnalazioni, un numero non proprio trascurabile (l’email dell’Anticorruzione per tutta la Pubblica amministrazione italiana ne ha contate 299 in un anno e mezzo) che si spera funzioni da deterrente per i malintenzionati che ci rendono più amaro il dovere di pagare le tasse.
Una storia esemplare. Una per tutte. Nell’agenda del corrotto due milioni di tangenti. Un alto funzionario del ministero teneva una minuziosa contabilità dei soldi ricevuti in cambio di favori. Quel quaderno adesso racconta oltre un ventennio di malaffare, scrive Luana De Francisco il 9 febbraio 2017 su "L'Espresso”. Lui è un funzionario ministeriale con incarichi di controllo nel campo della sicurezza sul lavoro, loro sono le aziende interessate a superare l’esame e, se possibile, a farlo in tempi brevi e certi. Eppure, tra l’ingegner Michele Candreva e molti di quegli imprenditori, almeno dal 1989, si era instaurato un rapporto anomalo. Loro pagavano e lui elargiva autorizzazioni. Uno scambio di favori puntualmente annotato in un libro mastro, da cui emergono oltre due milioni di euro di tangenti. Un bilancio mensile e annuale preciso, neanche fosse stato un commerciante o un libero professionista. Da una parte la colonna delle entrate, e cioè delle tangenti che gli investigatori ritengono abbia intascato, dall’altra quella delle uscite, con tanto di nomi (o sigle) e date d’incasso. È la contabilità del corrotto. Quella che nessuno, fuorché lui, avrebbe mai dovuto conoscere, aggiornata con certosina precisione su una comunissima agenda dalla copertina in pelle marrone scoperta dagli investigatori nell’abitazione a Roma del funzionario ministeriale. Per l’accusa sarebbe stato al servizio delle società che avrebbe dovuto giudicare e che intanto, sottobanco e dietro congruo pagamento, consigliava con le sue autorevoli consulenze. La doppia vita professionale dell’ingegnere Michele Candreva, 56 anni, originario di Spezzano Albanese, in provincia di Cosenza, è conservata lì, nelle pagine vergate a mano di un’agenda: poche lettere e tante cifre, al ritmo di due o tre missioni al mese, che la Guardia di finanza di Udine è riuscita a decriptare quasi per intero e che è diventato ora l’asso nella manica dei magistrati che hanno aperto un’inchiesta. Perché quello che Candreva faceva nel tempo libero, quando, salito sul treno con i suoi tre telefoni cellulari, il timbro ministeriale e la valigetta ventiquattr’ore piena di documenti, si recava di persona dagli imprenditori che lo chiamavano e remuneravano, e questo per gli investigatori era l’inizio del viaggio della corruzione del funzionario. Quell’odiosa consuetudine di violare le regole e credere di arrivare da qualunque parte, sbaragliare qualsiasi concorrenza e bypassare ogni ostacolo, semplicemente oliando il sistema. Versando e riscuotendo tangenti. La forza di Candreva stava nella strategicità degli incarichi che occupava all’interno del ministero del Lavoro e delle Politiche sociali: coordinatore della commissione Opere provvisionali, presidente della commissione che disciplina le modalità per effettuare le verifiche periodiche sulle attrezzature di lavoro e, all’interno della stessa, arbitro della commissione per la sicurezza sul lavoro, che ha esteso agli enti privati l’abilitazione a svolgere le verifiche. Una complessa gabbia amministrativa in cui ad avere l’ultima parola era sempre e soltanto Candreva. La Procura di Udine sta coordinando le indagini di questa inchiesta che dopo avere travolto il funzionario, promette di allargarsi anche a tutto il mondo amministrativo e professionale che gli ruotava intorno, fuori e, eventualmente, anche dentro il ministero. Quando i finanzieri del Nucleo di polizia tributaria sono entrati nell’abitazione di Candreva, nel quartiere Africano a Roma - una delle cinque che possiede nella capitale e delle quattordici proprietà sparse per l’Italia - gli investigatori hanno trovato mazzette di banconote suddivise in singole buste, probabilmente le stesse in cui gli erano state consegnate dai corruttori. Per il suo potere era chiamato “Re sole”. Arrestato il 18 novembre scorso, è stato scarcerato il 27 gennaio. Nelle pagine del libro mastro ci sono, secondo gli inquirenti, le prove della corruzione. Difficile sbagliarsi: alla voce “uscite” corrispondevano i soldi anticipati per far visita alle aziende che nel funzionario del ministero del Lavoro avevano trovato una facile scorciatoia nella tortuosa burocrazia ministeriale, e a quella delle entrate, trascritta alla rovescia, le somme intascate a fine trasferta, con tanto di rimborso delle spese di viaggio, vitto e alloggio, talvolta anche sotto forma di buoni benzina. Colonna a parte per i “fitti”, cioè i canoni che mensilmente riceveva per le proprietà date in locazione. Alla fine di ogni anno, tirava una riga e tracciava il bilancio: tutto “kesc” (forse intendeva denaro contante) e suddiviso per tipologia di commissioni. Tra un conteggio e l’altro, capitava che ci scappasse anche il tempo per le statistiche: un foglio volante trovato nella copertina del diario assomiglia in tutto e per tutto a una graduatoria delle tangenti, dal primo al quinto posto, con nome del cliente ed entità dell’importo. Il meccanismo, sopravvissuto anche ai colpi di Tangentopoli, era ormai rodato. Una consulenza dopo l’altra, per evitare agli imprenditori errori nella compilazione delle domande da sottoporre al vaglio delle Opere provvisionali. In ballo, l’autorizzazione a vendere sui mercati nazionale e internazionale costosissime macchine industriali. Secondo gli inquirenti, Candreva non avrebbe esitato a intervenire anche su pratiche già spedite e protocollate, emendandole e sostituendole a quelle originarie. E visto che tra i suoi poteri c’era anche quello della commissione per la sicurezza sul lavoro e che il riscontro incrociato tra le 102 società iscritte dal 2012, quando a decidere era lui, e gli appunti trovati nel libro mastro è stato in buona parte positivo, tutto lascia supporre agli inquirenti che le bustarelle servissero anche a spianare la strada agli enti privati candidati a ottenere l’abilitazione. Al di là degli aspetti strettamente giudiziari, basta di per sé a gettare un’ombra sulla catena di controllo che sovrintende al delicato settore della sicurezza sul lavoro, in un Paese dove, solo nel 2016, la media degli infortuni, in particolare le morta bianche, ha toccato l’impressionante record di due vittime al giorno. Nel fascicolo aperto dai magistrati sono confluite anche fatture emesse da Candreva ad alcune ditte a titolo di rimborso per la sua partecipazione a seminari: il punto, ora, è chiarire se quegli incontri siano mai realmente avvenuti. I nomi delle aziende legate a doppio filo al funzionario del ministero del Lavoro sono ancora coperti da segreto investigativo, in attesa della notifica dei relativi avvisi di garanzia. Perché l’inchiesta si è allargata dopo la scoperta del diario delle tangenti. Nel registro degli indagati sono così finiti amministratori e imprenditori di società inserite in vari campi. Proprio come la Pilosio spa di Feletto Umberto, storica azienda di costruzioni dell’hinterland udinese, l’unica finora sottoposta a perquisizione da parte della Guardia di Finanza. I sospetti erano partiti proprio da qui. Le intercettazioni autorizzate nell’ambito di una precedente indagine avevano catturato le conversazioni tra un dipendente e Candreva e questo aveva insospettito i finanzieri guidati dal tenente colonnello Davide Cardia spostando così le indagini su un filone più ampio. Per pagare l’onorario fuori sacco all’ospite romano, Pilosio si appoggiava a un consulente esterno compiacente. La triangolazione permetteva all’azienda di fatturare e, quindi, di scaricare comunque il costo, e al funzionario di incassare moneta sonante. Altrove, specie su Roma, la medesima operazione era prerogativa di un professionista di fiducia. Interrogato per la seconda volta in due settimane, a fine gennaio Candreva ha cominciato a rompere il muro di silenzio dietro il quale si era trincerato dopo l’arresto. Era stato lui, all’approssimarsi delle festività natalizie, a chiedere al pm Marco Panzeri di essere sentito. Il primo faccia a faccia, però, si era chiuso con un niente di fatto: assistito dallo studio legale dell’avvocato Giulia Bongiorno - che ha deciso di non rilasciare alcuna dichiarazione - il funzionario si era limitato a ricondurre le consulenze nell’alveo dell’attività privatistica e a giustificare iPad e computer portatili, a loro volta messi a registro nel libro mastro, come normalissime regalie per la disponibilità dimostrata a chi gli chiedeva una mano. Ci sono regolamenti, però, che non consentono a un dipendente pubblico di accettare regalie. Candreva, tornato in cella, ci ha ripensato e al secondo appuntamento con il Pm si è sbottonato, collaborando nella ricostruzione degli ultimi sei anni di consulenze, le sole per le quali non si prospetti ancora la spada di Damocle della prescrizione. Prime crepe di un puzzle ancora pieno di punti interrogativi e foriero, forse, di verità sotterranee che rischiano di smascherare un castello di complicità. Del resto, prima che il palco cascasse, a schermarlo era la sua stessa posizione più o meno defilata nel labirintico mondo dell’amministrazione ministeriale: un ufficio sicuro, una rete consolidata di contatti e nessuna ambizione di avanzamenti di carriera. Decidere chi accreditare e chi no significava detenere un potere esponenziale e mantenere un tenore di vita decisamente più alto di quanto, con la moglie - peraltro al suo fianco alle Opere provvisionali - avrebbe potuto permettersi. La direzione generale del ministero preferisce astenersi da qualsiasi commento. «Stiamo assicurando massima collaborazione alla Procura di Udine», si limita a confermare il neo dirigente Romolo De Camillis, al lavoro con l’inventario della documentazione che risulta sparita dall’ufficio di Candreva. Non le manda a dire, viceversa, il procuratore di Udine, Antonio De Nicolo: «Purtroppo, questa vicenda conferma come molte imprese preferiscano pagare e tacere. Mentre a gran voce, sulla stampa, si demonizza la corruzione come fosse la rovina dell’economia italiana, poi nei fatti non si fa niente per denunciare i taglieggiatori». Per non dire della difficoltà oggettiva di scoprirla. «L’unico modo per penetrare la segretezza di reati come questo, in cui testimoni e tracce sono pressoché assenti, è il ricorso alle intercettazioni telefoniche e ambientali. Ma la legge in vigore, che ne autorizza l’utilizzo soltanto in presenza di ipotesi di reato che prevedano un certo numero di anni di pena, non aiuta. È anzi evidente come ci sia un interesse a complicare l’attività inquirente e anche questo spiega perchè la nostra macchina giri spesso a vuoto», dice il procuratore. Con il risultato di vedere l’Italia relegata ancora nella parte bassa della graduatoria sull’indice di percezione della corruzione nel settore pubblico e politico, elaborata da Transparency International: nel 2016 eravamo terzultimi in Europa e sessantesimi su 176 nel mondo.
CORROTTI E CORRUTTORI. UN POPOLO DI COMPRATI E DI VENDUTI. L’ITALIA DEI BONUS E DEI PRIVILEGI.
L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro che non c’è e sui bonus per comprare l’elettorato predisposto a vendersi. Quell’elettorato, specialmente di sinistra (ma non solo), che si vende per un piatto di lenticchie. E per mantenere quel piatto di lenticchie è ostile ad ogni cambiamento, barattando la loro schiavitù ideologica in danno della libertà.
Corrompere un parlamentare per ottenere una legge? In Italia non è reato. A Trapani è appena esploso il caso di presunte tangenti con al centro l'ex sottosegretaria Vicari. Ma una sentenza inedita recuperata dall'Espresso e raccontata nel numero in edicola da domenica 21 maggio mostra come un politico beccato a modificare una legge in cambio di denaro può farla franca, scrive Paolo Biondani il 20 maggio 2017 su "L'Espresso". Pagare un parlamentare per ottenere una legge “su misura” non è reato. Nemmeno se il deputato o senatore italiano vende i suoi voti a un regime dittatoriale straniero. È quanto emerge da una sentenza che L'Espresso, in edicola da domenica 21 maggio con La Repubblica, racconta in esclusiva. Una decisione dei giudici del tribunale di Milano a favore di Luca Volontè, 51 anni, parlamentare dell'Udc fino al 2013. In quella legislatura il politico lombardo è stato uno dei più influenti rappresentanti italiani al Consiglio d'Europa, accusato di aver incassato oltre due milioni di euro dall'Azerbaijan. Gli inquirenti lo accusavano di aver sfruttato il suo ruolo di capogruppo dei popolari europei per convincere altri parlamentari a votare contro la condanna dell'Azerbaijan. Volonté è stato prosciolto dall'accusa di corruzione con una motivazione tecnica: in Italia non è possibile indagare su nessuna attività dei parlamentari, perché vanno considerate insindacabili. La sentenza spiega che la magistratura non è autorizzata a valutare leggi, emendamenti, mozioni e ogni altra presa di posizione politica: deve archiviare tutto e subito, perfino quando il voto del parlamentare risulta comprato con tangenti milionarie. La sentenza di cui parla L'Espresso si incrocia con l'inchiesta della procura di Palermo nell'ambito della quale è indagata per corruzione la senatrice Simona Vicari (Ap) che venerdì si è dimessa da sottosegretario alle Infrastrutture. Per i pm Vicari avrebbe introdotto un emendamento legislativo che abbassava l'Iva sui trasporti marittimi facendo risparmiare milioni all'armatore Ettore Morace anche lui indagato per corruzione. In cambio la senatrice avrebbe avuto un Rolex dall'imprenditore.
Legge mancia, da enciclopedia Treccani. Dici legge e pensi – memore magari delle alate parole di Immanuel Kant poste a conclusione della Critica della ragion pratica («Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me») – a una definizione di questo genere: «ogni principio con cui si enunci o si riconosca l’ordine che si riscontra nella realtà naturale o umana, e che nello stesso tempo si ponga come guida di comportamenti in armonia con tale realtà» (vedi la voce legge nel Dizionario Treccani.it). Di qui, scendendo uno scalino, si può passare più concretamente, ma senza alcuna diminuzione di onore ed elevatezza morale, alla legge intesa come norma «emanata dagli organi che esercitano il potere legislativo». Gli attributi seri, tecnici, rigorosi, denotativi, cui si accompagna, in questa accezione giuridica, la parola legge, non mancano, dai tempi dei tempi. Basterebbe partire, qui da noi, in Italia, dalla cosiddetta legge fondamentale dello Stato, ovverosia la Costituzione della Repubblica, approvata definitivamente dall’Assemblea costituente il 22 dicembre del 1947 e promulgata cinque giorni dopo, il 27 dicembre, dal Capo provvisorio dello Stato, Enrico De Nicola. C’è un corredo di locuzioni che determina e qualifica il significato della parola legge (come atto normativo e giuridico) in relazione con le tipologie di funzioni, contenuti e finalità che la legge può assumere: legge ordinaria, legge speciale, legge costituzionale, legge elettorale, legge finanziaria (o Finanziaria con uso assoluto). Un corredo che è cresciuto e si è arricchito nel tempo, anche per rispondere alle necessità di volta in volta emergenti dal contesto politico, sociale, economico e culturale sempre in mutazione: ecco allora, per fare un esempio, legge quadro (o cornice), legge delega e legge interpretativa, legge stralcio e legge regionale, legge sui pentiti (legge 29 maggio 1982, n. 304 Misure per la difesa dell'ordinamento costituzionale)…Con la denominazione legge sui pentiti siamo già entrati, in realtà, nel terreno della connotazione: la locuzione appartiene alla lingua comune, vi è filtrata dentro percolando dalle cronache giornalistiche, e porta con sé un segno ben poco tecnicistico. Il pentito in giurisprudenza non esiste (esisterà, caso mai, un neutro collaboratore di giustizia, con altre, ulteriori, sotto specificazioni), ma la lingua comune coglie, col riferimento molto nazionalpopolare alla dimensione religiosa del rito cattolico, la sostanza della faccenda, anche se deformata. Prima ancora (in occasione del tentativo di imporre una legge elettorale di tipo fortemente maggioritario, nel 1952-1953, da parte dello schieramento comprendente Dc, Psdi, Pri e Pli), con chiarezza esemplarmente connotativa, era stata coniata, dall’opposizione social-comunista, la locuzione legge truffa. Alla stessa sfera connotativa, diremmo, ancor prima che la legge sui pentiti – e forse addirittura con maggiore forza espressiva – appartiene la parola leggina… La forza della grammatica! Basta quell’alterazione diminutiva per farci sentire tutt’intera la grandezza della piccineria, della meschinità, della italica furbizia. Perché, attenzione a quel che, a proposito di leggina, scriveva un giornalista parlamentare di razza, Onofrio Pirrotta, nel suo Dizionario politico e parlamentare (del 1976: ma è lustro e fresco ancora oggi): «Legge apparentemente di secondaria importanza […]. Di progetti per leggine sono affollati gli archivi delle Camere e finiscono per essere varati a migliaia, nelle commissioni in sede legislativa. […] Ma, spesso, proprio in questo tipo di leggi si manifestano problemi tutt’altro che secondari: la loro soluzione, in un modo o nell’altro, chiama in causa forti interessi» (p. 189, ed. Newton Compton del 1977). Insomma, nella cosiddetta Prima Repubblica, queste leggine creavano ingorghi nell’attività parlamentare e poteva succedere che, presi per stanchezza, gli onorevoli facessero passare leggine soltanto in apparenza piccoline e innocenti. La cosiddetta Seconda Repubblica (dalla prima vittoria elettorale berlusconiana del 1994 in poi), si sa, è in maniche di camicia. Comunica, potremmo dire, per via di connotazione, cioè all’ennesima potenza. Figli della guerra tra i due schieramenti politici principali, ci sono elenchi chilometrici di locuzioni che associano legge a vocaboli che marchiano in modo anche pesantemente negativo il provvedimento in questione. Una serie molto prolifica è quella che utilizza l’elemento formativo salva- (dal verbo salvare): legge salva-tangenti (o salva-tangentisti), legge salva-ladri, legge salva-premier (o, per essere più diretti, salva-Berlusconi), legge salva-Previti, legge salva-calcio, legge salva-compagnie (ci si riferisce alle compagnie d’assicurazione; e state a vedere che bella accoppiata, ché non di vera legge si tratta… : «“È una leggina salva-compagnie” tuona l’Intesa dei consumatori», dal «Corriere della sera» dell’8 febbraio 2003, p. 19), legge salva-Parmalat e via salvando ciò che, si sottintende, magari bisognerebbe pensarci due volte se salvare o lasciare al proprio destino. Figlia di questi tempi (nasce nel 2004, governante Silvio Berlusconi) e di questi Governi, a far sorridere, forse, gli economisti, perché si riferisce a somme modeste, messe a paragone con l’entità del bilancio statale, è la legge mancia. Una leggina nel senso letterale del termine: davvero particolaristica e limitata, «il resto mancia», «grazie!». Mentre si stanno per chiudere i giochi della Finanziaria, deputati e senatori, improvvisamente memori del proprio elettorato territoriale di riferimento, cercano di far passare una mancia(ta) di finanziamenti per operine di ristrutturazione che riguardano il campanile della chiesa pievana danneggiato dalle piogge acide, le siepi deperite che cingono il giardino dove sorge lo stabile che ospita la pregiata associazione cittadina dei giocatori di canasta, la terrazza panoramica del Country Club “Vecchie glorie dei reality show”…Proponi che ti proponi, alla fine si ammonticchia una sommetta ragguardevole, agli occhi del comune mortale (548 milioni di euro nel 2004, per esempio): le ipotesi di finanziamenti da spargere per l’Italia dei cento(mila) campanili vengono raccolte e così prende forma il gruzzolo complessivo della mancia, che troverà adeguata collocazione nella legge apposita, recante, in realtà, denominazione ufficiale rigorosamente denotativa, del genere «interventi in materia di programmazione dello sviluppo economico e sociale territoriale». Viene un po’ di tristezza a pensare che necessità locali di spesa, magari (chissà) giustificabili, debbano infilarsi di straforo in una leggina che trasforma in diritto un atto di carità pelosa – un pezzetto di campagna elettorale dell’onorevole soccorrevole.
Legge mancia loc. s.le f. (iron.) Legge che, su sollecitazione di singoli parlamentari, finanzia svariati interventi particolari e limitati, da realizzare sul territorio, venendo incontro in particolar modo alle richieste delle realtà amministrative locali più piccole. Elaborato dalla redazione di “Lingua italiana” del Portale Treccani. Esempi d’uso:
Spunta di nuovo, infine, con una delle norme contenute nel complesso emendamento sugli enti locali, presentato dal relatore alla Finanziaria Guido Crosetto (FI), la cosiddetta «legge mancia», cioè il finanziamento degli «interventi in materia di programmazione dello sviluppo economico e sociale», bloccato nell’ottobre scorso tra mille polemiche. Roberto Petrini, «La Repubblica», 16 novembre 2004, p. 11.
L’Aula del Senato ha anche bocciato un ordine del giorno che impegnava il governo ad assumere iniziative «legislative» per abrogare la cosiddetta «legge mancia». Le norme erano contenute nella Finanziaria 2005 che prevedevano un meccanismo a pioggia per enti pubblici, privati, chiese, associazioni ed assimilabili basato sulla discrezionalità del ministero dell’Economia e delle commissioni Bilancio di Camera e Senato. Bianca Di Giovanni, «L’Unità», 14 novembre 2007, p. 7.
Ricordate la «legge mancia»? «Mai più», aveva decretato il governo Prodi, che l’aveva abolita con la Finanziaria del 2008 per iniziativa dell’Idv di Antonio Di Pietro. «Mai più», aveva convenuto anche il governo Berlusconi, a quella sconcia distribuzione a pioggia prevalentemente dettata da esigenze clientelari. Un sistema per dare un contentino ai singoli parlamentari, ansiosi di foraggiare un po’ i loro collegi: questa era la «legge mancia». Sergio Rizzo, «Corriere della sera», 19 dicembre 2009, p. 17.
Rifinanziamento di 150 milioni per la cosiddetta legge mancia. Lo prevede l’emendamento omnibus del relatore al disegno di legge di stabilità presentato in commissione Bilancio al Senato. I fondi andranno a finanziare microinterventi proposti dai parlamentari, che dovranno essere approvati dalle Commissioni competenti attraverso una risoluzione. Il Sole 24 Ore.com, 10 novembre 2011, Economia.
Ogni anno un centinaio di milioni di euro finiscono in mille rivoli a finanziare le opere e gli interventi più disparati anche nei posti più sperduti del Paese: 20 mila euro qua, 30 mila là. Sono i parlamentari a segnalare i progetti da promuovere che poi tutti assieme vanno a formare la cosiddetta «legge mancia». «La Stampa», 21 febbraio 2012, p. 3.
Legge di Bilancio: da San Patrignano al cimitero in Virginia. I deputati tentano colpi di mano, mance e regali agli amici. La carica degli emendamenti-mancia. C'è chi chiede di introdurre una speciale "indennità sismica" per i sindaci del terremoto. Chi soldi per una sfilza di teatri, fondazioni e associazioni. Ma su 1.500 emendamenti alla manovra cala la scure del nuovo regolamento che boccia interventi "localistici o microsettoriali", scrive Thomas Mackinson il 16 novembre 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Arriva la legge di Bilancio e scatta l’assalto alla diligenza tra mance, colpi di mano e regali agli amici degli amici. Non c’era solo la proposta del Pd di introdurre l’Imi che accorpa Imu e Tasi, poi ritirata a furor di polemiche. C’era chi, al solito, chiedeva soldi per San Patrignano, per il teatro Eliseo o per il Regio di Parma. Ma anche chi, come la deputata Angela Nissoli eletta all’estero, li voleva per un cimitero monumentale in Virginia occidentale, a ottomila chilometri da Roma. Qualcuno del Pd si preoccupa invece che le barche non paghino il canone per le tv installate a bordo, altri propongono poi “speciali indennità” per lenire fatiche e dolori dei sindaci dei Comuni colpiti da terremoti. E non manca il deputato messinese che ci riprova col Ponte sullo Stretto. Ma a molti, stavolta, è andata male. E’ un piccolo assaggio dei 1.500 emendamenti alla manovra, su 4.639 presentati, che sono stati cassati in commissione alla Camera dal suo presidente, il deputato Pd Francesco Boccia, che ha fatto valere in maniera rigorosa i nuovi criteri di formazione della legge di contabilità pubblica (era stato il primo firmatario del testo che li ha riformati, lo scorso luglio), nonché i regolamenti procedurali che escludono espressamente norme e interventi “di natura localistica o microsettoriale ovvero norme che dispongono la variazione diretta delle previsioni di entrata o di spesa contenute nella seconda sezione del predetto disegno di legge”. In altre parole: un argine al rischio di gonfiare i costi della manovra facendone la consueta “legge mancia” da inghiottire presto, forse venerdì in aula, per farla digerire poi agli italiani. Gli onorevoli, d’ogni partito e colore, erano avvertiti ma non si sono dati per vinti. Bussano e ribussano, col piattino in mano, per perorare piccole o grandi cause dei loro “territori”, gruppi d’elezione o settori di provenienza. A volte improbabili, a volte insidiose. Ecco una selezione (non esaustiva) della creatività messa in campo a questo giro. Il Ponte sullo Stretto resta sempre nel cuore ai deputati messinesi. Tra gli altri a Vincenzo Garofalo, capogruppo Ncd in commissione trasporti che ha presentato un emendamento per rendere l’opera “prioritaria”, cioè da finanziare assolutamente a valere sui fondi di programmazione da qui al 2019. Il testo inserisce anche la previsione dell’aggiornamento definitivo del progetto. E già che c’è, Garofalo dice anche chi deve occuparsene, suggerendo la nomina del presidente dell’Anas a commissario. Ma il Ponte, per disgrazia o fortuna, non passa. Altri pensavano di forzare la mano. Filippo Crimì (Pd), per dire, chiede la stabilizzazione del personale civile nelle basi Nato, questione che si trascina irrisolta da sempre. La Bergamini di Forza Italia voleva fare incorporare all’Agenzia delle entrate tutto: sia il demanio che le dogane. Filippo Busin, Lega Nord, insiste invece su “nuove disposizioni a favore del Mose per effettuare nuovi mutui”. Non di solo cemento si vive. Nel capitolo “prebende culturali” si trova di tutto. Fabrizio di Stefano, deputato abruzzese di Forza Italia chiede che venga assegnato un contributo di 200mila euro per il 2017 per il bicentenario della Fondazione del Teatro Marruccino di Chieti. A quello Regio di Parma, tempio della lirica per eccellenza, di anni ne compie 187, vuoi non dare un milione di euro l’anno da qui al 2019? Così la pensa Catia Polidori, Forza Italia, che ha vergato un emendamento per finanziare la Fondazione del teatro. In campo musicale i suoi gusti spaziano fino al jazz: e infatti promette analoga dote per la fondazione dell’omonimo festival umbro. Ben cinque milioni di euro ha richiesto Lorenza Bonaccorsi (PD) per l’Eliseo di Roma. Poi ci sono le associazioni. Come San Patrignano. Sergio Pizzolante, ex deputato Psi e ora vicepresidente di Area Popolare, chiede non una ma due volte di assegnare un contributo da un milione di euro alla comunità fondata da Muccioli, cui è molto vicino. E già che c’è, con un terzo emendamento, chiede di riconoscergli la qualifica di “sistema efficiente di utenza”. Cadono sotto la scure anche iniziative a scopo di ricerca e di cura. Non perché non meritevoli, ma perché il canale per finanziarle è sbagliato. Quella di Buttiglione per chiedere un milione di contributo statale per la Fondazione Ebri che dal 2002 gestisce il Centro Europeo di Ricerca sul cervello voluto da Rita Levi Montalcini per il contrasto a malattie neurodegenerative. Oppure quella di Boccadutri che autorizza la spesa di 15 milioni di euro annui per garantire continuità alle iniziative di ricerca nel campo della biomedicina e delle biotecnologie condotte dalla Fondazione Rimed e valorizzare le attività cliniche per la ricerca condotte da Ismett. Non mancano richieste a prima vista originali. Polidori, sempre lei, chiede ad esempio di introdurre speciali “indennità di funzione” per i sindaci dei comuni colpiti dal sisma di agosto e ottobre 2016. E viene da chiedersi: quelli del 2012 o del 2009? Tacendo il fatto che per molti sindaci, probabilmente, l’indennità sismica sarebbe fonte di imbarazzo.
Regali di fine legislatura: prorogati i dirigenti senza concorso. La norma nella manovra fa slittare a giugno 2018 l'obbligo dei concorsi e la validità delle posizioni a tempo. Il Dirstat: «E' andata anche bene: sventato il rischio di una sanatoria permanente», scrive Stefano Caviglia l'1 giugno 2017 su Panorama. La maggioranza in Parlamento prepara le valigie e nel bagaglio mette l’ennesima proroga dei dirigenti promossi senza concorso nelle agenzie fiscali. Di questa vicenda, una delle più imbarazzanti della pubblica amministrazione italiana, Panorama.it ha già dato conto in passato. Si tratta di centinaia di posizioni di livello elevato assegnate nell’arco di una quindicina d’anni aggirando l’articolo 97 della Costituzione, in base al quale “agli impieghi nella Pubblica amministrazione si accede mediante concorso”. La situazione si è fatta più che mai delicata nel marzo 2015, quando la Corte Costituzionale ha dichiarato decaduti per questo motivo ben 800 dirigenti delle agenzie fiscali, chiedendo di svolgere i concorsi mai fatti e invocati inutilmente da anni. Ne è seguita una legge che ha fissato come termine ultimo per mettersi in regola il 31 dicembre 2016. Ma i vertici delle Agenzie (anzitutto quelli dell’Agenzia delle entrate) hanno scelto un’altra strada, assegnando a molti dei dirigenti decaduti, sempre senza concorso, posizioni operative temporanee (di fatto una pre-dirigenza che non esiste in alcuna altra branca dell’amministrazione) valide anch’esse fino alla fine del 2016. La coincidenza di date non è senza ragione, perché una volta effettuate le prove pubbliche, come previsto dalla Costituzione per la promozione dei dirigenti, le posizioni a tempo non avrebbero più avuto ragion d’essere. Peccato che quelle prove non si siano mai tenute. Così, per evitare che il comportamento dei vertici delle agenzie fiscali finisse in “fuori-gioco”, il Parlamento ha approvato nella legge di Stabilità del dicembre scorso una proroga della validità delle posizioni temporanee al 30 settembre del 2017 e nel Milleproroghe di febbraio 2017 una norma quasi gemella per far slittare l’obbligo di tenere i concorsi al 31 dicembre dello stesso anno. Ora sarebbe il momento di cominciare a pensare alla legge di Stabilità del 2018, ma qui entra in ballo l’imprevedibilità della politica. Con il precipitare della situazione verso la fine anticipata della legislatura tutto è diventato incerto. A parte il rischio (considerato residuale ma non da escludere) che la legge di Stabilità 2018 sia rimpiazzata dall’esercizio provvisorio, resta l’estrema incertezza sul prossimo Parlamento. La futura maggioranza accetterà di far slittare ancora una volta i concorsi che una sentenza della Corte Costituzionale aveva stabilito si tenessero entro la fine 2016? Da qui la decisione di muoversi in anticipo e di inserire nella manovra economica appena approvata alla Camera due emendamenti ad hoc che prorogano sia le posizioni temporanee che l’obbligo di fare i concorsi al 30 giugno 2018. «Ed è andata anche bene» fanno sapere dal sindacato dei dirigenti pubblici Dirstat «perché erano stati presentati emendamenti per una sanatoria permanente, con tanti saluti alla sentenza della Corte Costituzionale. Poi qualcuno si deve essere reso conto che questo non sarebbe stato il viatico ideale per la campagna elettorale e non sono stati approvati. Di questo siamo molto contenti. Resta invece l’amarezza per l’ennesimo slittamento dell'obbligo dei concorsi e per la proroga delle posizioni assegnate illegittimamente nel frattempo». La scelta è stata insomma di mettere una nuova toppa. Per quanto si può prevedere oggi, un'altra sarà necessaria il 30 giugno 2018. Sempre che non si ritenga di poter fare a metà del prossimo anno senza troppi contraccolpi, con la legislatura iniziata da pochi mesi, la sanatoria ritenuta impraticabile oggi.
Italia, dalla Repubblica dello spread a quella dei bonus, scrive il 26.05.2015 Marco Fontana. Uno sport molto in voga tra gli opinionisti politici è quello di identificare per titoli le discontinuità storiche del Parlamento italiano. Un esempio classico è la distinzione tra Prima e Seconda Repubblica, che sintetizza il cambio di assetto istituzionale avvenuto nel 1992-94 dopo che sui partiti politici si abbatté lo tsunami Tangentopoli. Originale la più recente spartizione ideata dall'editorialista dell'Espresso, Marco Damilano, che nel suo ultimo saggio afferma: C'è stata la Repubblica dei partiti, che aveva come religione la Rappresentanza. Poi è arrivata la Repubblica del Cavaliere, fondata sulla rappresentazione. Quella che sta nascendo è la Repubblica dell'Auto-rappresentazione. Una Selfie-Repubblica, con un'unica bandiera: l'Io. Riteniamo che la classificazione di Prima, Seconda e Terza Repubblica sia uscita pesantemente sconfitta dai colpi della cronaca giudiziaria. In sostanza, niente è davvero cambiato dal ‘92 ad oggi. Che differenza c'è tra l'inchiesta Mafia Capitale (con le presunte commistioni tra sistema delle cooperative e partiti), le operazioni Minotauro e Quadrifoglio (che hanno svelato le infiltrazioni mafiose al Nord e negli appalti di Expo 2015), i casi Monte dei Paschi — Unipol/Sai e le "mazzette" di Tangentopoli? La corruzione continua a dilagare dentro e fuori dalla politica: intanto sarà lievitato il prezzo da pagare, ma nulla è mutato. La percezione della corruzione nelle istituzioni da parte dei cittadini sfiora il 90%, un vero record tra i paesi dell'Ocse. Secondo un recente studio di Unimpresa, è un fenomeno che costituisce una pesante zavorra per l'Italia: ha fatto diminuire gli investimenti stranieri del 16% e aumentare del 20% il costo complessivo degli appalti; ha divorato in dieci anni circa 100 miliardi di euro di PIL; le imprese sotto lo scacco della corruzione sarebbero cresciute in media un 25% in meno rispetto alle concorrenti che operano in un'area di legalità. Sono cifre terribili che l'Italia non riesce a combattere efficacemente, anche perché il sistema giudiziario sembra colpire soltanto i comprimari, le zampe di quella bestia che è il sistema clientelare, senza andarne a recidere la testa. E negli ultimi anni anche la fiducia dei cittadini nella magistratura è crollata. In un contesto del genere, dove tutto sembra uguale ai tempi prima di Tangentopoli, pare fuori luogo parlare di Prima e Seconda o Terza Repubblica. Il passato è tornato d'attualità, dimostrando che sotto il profilo etico possono cambiare i personaggi, ma il copione rimane il medesimo. Sulla classificazione di Damilano non v'è nulla da eccepire, se non che tale visione è figlia di un'ideologia radical chic che preferisce per la sua classe politica grigiore e anonimato rispetto all'identificazione con un leader forte e carismatico. D'altra parte non si comprende il motivo per cui tale fervore critico, molto generoso nei giudizi in patria, non si abbatta con lo stesso impeto su politici stranieri quali Clinton, Obama o Tsipras, individui dall'Io forte che vengono innalzati ad icone senza neppure aspettare che ottengano successi reali per i propri cittadini. Personalmente, credo sarebbe molto più semplice concentrarsi sugli ultimi anni della politica italiana, che hanno visto alternarsi tre governi non votati dal popolo e che hanno prodotto risultati nefasti per la qualità della vita e per le aspettative sul futuro delle persone. L'Italia ha visto tramontare la sua forma di governo conosciuta e ha abbracciato un nuovo modello, la Repubblica dello Spread, nella quale la democrazia si piega a parametri economici soggettivi ed esterni. Dopo le rivelazioni di Alain Friedman è ormai palese che nel 2011 elementi al di fuori del nostro Paese abbiano agito per piegare il Parlamento italiano ad accettare rappresentanti più graditi alla Troika. Non è fantapolitica, altrimenti avremmo visto partire smentite e querele. Nessuno fiata neppure di fronte a inchieste giudiziarie di cui si parla poco, ma di cui media si dovrebbero occupare, perché hanno determinato un'ingerenza esterna alla nostra democrazia. Dal caos venuto dalla finta austerity di Monti e Letta si sarebbe scatenata prima o poi una reazione. La richiesta di continui sacrifici senza poter vedere l'uscita dal tunnel ha necessariamente portato ad aggrapparsi a chiunque racconti belle favole di speranza. Ed ecco che la parabola di ascesa di Renzi ha trovato il suo terreno fertile. In Italia è tornato il tempo di chi promette mirabolanti soluzioni ai problemi quotidiani. E non importa se in realtà sta solo concedendo una parte del dovuto, anche in termini costituzionali. Si è così passati alla nuova fase: la Repubblica dei bonus. Una continua elargizione dello Stato magnanimo, prima con gli 80 euro, poi coi bonus bebè e infine il bonus pensioni. Chissà che un domani, dopo un paio di anni di nuova local tax, non arrivi anche il bonus casa. Perchè quando in Italia si parla di bonus, è meglio coprire con le mani il portafoglio e assicurarsi che sia ancora in tasca.
La repubblica dei bonus, scrive il 14 ottobre 2016 la Redazione di WORLD TODAY. L’Italia è da sempre la repubblica dei bonus, nessun governo è mai riuscito a mantenere la fiducia parlamentare e degli elettori senza elargire denaro pubblico alle più disparate classi sociali per avere consensi elettorali, senza distinzione di colore politico. Questa politica è la causa di tutti i problemi del nostro paese, dal rapporto debito / pil che continua ad aumentare (se la spesa pubblica finisce in bonus è improduttiva e non permette l’incremento del PIL, vedi approfondimento) alla situazione giovanile che non riesce ad inserirsi in un sistema fatto per gli anziani che a causa della piramide demografica sono la stragrande maggioranza dei votanti. In passato, essendo la demografia inversa, la politica cercava voti nella classe giovanile, così sono state approvate leggi su assunzioni pubbliche di massa, pensioni baby e retributive (vedi approfondimento), articolo 18 ecc. ecc. Ovviamente politiche fatte a debito intestato alle generazioni future, queste politiche però non erano legate alla produttività ma al consenso elettorale e quindi nel tempo hanno reso il PIL italiano la cenerentola dell’occidente (mentre gli altri paesi utilizzavano la spesa pubblica per investimenti in previsione futura). Queste politiche sono a tutt’oggi attive (salvo alcune riforme di facciata per tranquillizzare la comunità internazionale, visto il debito immane che l’Italia ha sui mercati appunto utilizzato in passato per le politiche elencate) e continuano ad essere perpetrate. Passata momentaneamente la crisi finanziaria grazie all’intervento della BCE si è tornati a parlare di prepensionamenti (a debito), aumento delle pensioni (a debito), assunzioni casuali e non mirate di dipendenti pubblici (a debito) e così via. Visto che queste non sono politiche per la crescita ma è spesa improduttiva a fini elettorali, si è tornati a fare quello che l’Italia ha sempre fatto, il problema è che oggi il nostro paese riesce a stare a galla grazie all’aiuto della banca centrale europea (vedi approfondimento), la quale quando terminerà le politiche di allentamento monetario lascerà il debito italiano in balia del mercato come nel 2011 dove il fallimento del paese è stato ad un passo. Questa finestra temporale concessa dalle politiche espansive della BCE (che non può essere infinita per le distorsioni economiche che creerebbe alla lunga) dovrebbe essere sfruttata per fare riforme improntate su una crescita duratura, sull’abolizione di regali finanziari consessi per legge ad alcune classi sociali e sull’inclusione dei giovani nel sistema. Viceversa se si proseguirà con la politica dei bonus il risultato sarà una migrazione forzata dei giovani all’estero (vedi situazione), lasciando un paese di soli anziani a cui sarà impossibile pagare una pensione con relativa implosione del sistema…
Dagli 80 euro agli incentivi: il Paese dei bonus. Ma non sempre hanno funzionato. In tre anni cinquanta miliardi destinati a famiglie e imprese: dovevano trainare la crescita ma l'effetto non è stato esplosivo, scrive Valentina Conte il 30 aprile 2017 su "La Repubblica". Cinquanta miliardi di bonus. Dagli 80 euro allo sconto sulle assunzioni. Dal bonus Stradivari a quello per insegnanti e diciottenni. Dagli 80 euro anche per i militari al bonus bebè. In tre anni di governo Renzi, e per trascinamento in quello Gentiloni, tanti soldi sono arrivati nelle tasche di 15 milioni di italiani. Con quale effetto? Non proprio esplosivo sull'economia. Il Pil, a lungo oscillante attorno allo zero virgola, ora sfiora l'1% e lì pare rimanere, quasi la metà della media Ue. I consumi, risvegliati dal lungo letargo della deflazione, non brillano. Il tasso di occupazione inchiodato al 57% è lo stesso del 2004, peggio di noi solo Grecia, Turchia e Macedonia. E i prezzi, da poco più vivaci, devono tutto al caro-energia. Certo, non esiste controprova di come sarebbe andata senza stimoli. Ma fanno impressione quei 50 miliardi spesi in bonus. Dodici volte la tassa sulla prima casa. Due volte la manovra dello scorso anno. Due volte e mezzo la clausola di salvaguardia di Iva e accise che incombe sui conti pubblici italiani. E colpisce anche la filosofia della loro distribuzione: tutto a tutti, quasi sempre senza limiti né di reddito né di territorio, fascia sociale o settore economico.
UN INSEGNANTE SU TRE - Ma agli italiani i bonus piacciono? Di sicuro non dispiacciono. Anche se non sempre è andata liscia. Prendiamo ad esempio i bonus cultura. I 500 euro dati a 762 mila docenti di ruolo (1,1 miliardi in due anni), pur tra le polemiche che hanno travolto la riforma della Buona Scuola, alla fine hanno funzionato. Libri, tablet, teatro, mostre, corsi di aggiornamento. Non così l'altro, il bonus merito (200 milioni all'anno), su cui pende una sentenza del Tar attesa in questi giorni e sollecitata da due sindacati. A dicembre solo un insegnante su tre (circa 248 mila) l'aveva preso. E solo per l'80% dell'importo, in via prudenziale (dai 200 ai 1.800 euro, deciso dai singoli comitati per la valutazione dei docenti, in tutto 23 mila euro a scuola). Perché il Tar potrebbe confermare che questo bonus spetta solo a chi è di ruolo. Oppure potrebbe dar ragione ai sindacati e dunque estenderlo pure ai supplenti precari.
DICIOTTENNI CON LO SPID - Anche il bonus ai diciottenni da 500 euro - e oltre mezzo miliardo di spesa totale nel biennio - fatica. I disagi iniziali per ottenere lo Spid, chiave digitale di identità, hanno indotto Palazzo Chigi a prorogarne i tempi di richiesta sino a giugno. Sin qui, a due mesi dal termine, solo 373 mila ragazzi su 580 mila si sono dotati di Spid. E di questi, 336 mila si sono poi iscritti a 18App, solo 11 mila in più tra marzo e aprile e appena il 58% di quanti hanno compiuto 18 anni nel 2016. Poco più della metà, quindi. E che per giunta non hanno speso granché: circa 50 milioni su 168. Motivo? Aspettano settembre per comprare i libri di scuola. Oppure faticano a trovare esercenti, negozi, musei, teatri, siti convenzionati, come molti lamentano sui social. Va poi sottolineato che i bonus cultura di quest'anno, sia per insegnanti sia per chi compie 18 anni nel 2017, devono ancora essere attivati, a fronte di risorse già stanziate. E copiose: 2,2 miliardi nel biennio 2016-2017 ai cinque bonus cultura, come risulta dalla ricognizione condotta per Repubblica dall'Ufficio studi della Uil. Oltre ai due bonus per i docenti (gli unici strutturali) e alla 18App, c'è anche il bonus Stradivari - mille euro a 15 mila studenti di musica, se acquistano uno strumento - e lo Student Act, una no tax area sull'iscrizione all'università di ragazzi con famiglie dall'Isee basso. Per capire com'è andata in questi ultimi due casi, occorre aspettare la dichiarazione dei redditi del prossimo anno.
UN LAVORO STABILE - Più semplice fare un bilancio del bonus occupazione, andato alle imprese in cambio di assunzioni stabili secondo il Jobs Act (dunque senza articolo 18). Nella doppia versione: decontribuzione totale per tre anni nel 2015 ed esonero parziale per due anni del 40% dei contributi nel 2016. A fronte di una spesa totale di 19,3 miliardi per entrambi gli sconti (spalmata fino al 2019), l'Istat ha registrato solo 325 mila occupati - e dunque posti - aggiuntivi, tolte le cessazioni. Ovviamente i contratti chiusi grazie allo sgravio sono stati molti di più, al lordo dei licenziamenti e tenuto conto che i lavoratori possono cambiare occupazione e dunque intestarsi più di un contratto nell'anno: circa 1,4 milioni nel 2015, secondo l'Inps, tra assunzioni a tempo indeterminato e stabilizzazioni, quasi un quarto di tutti i rapporti instaurati. Ma poi solo 616 mila nel 2016, neanche il 10% del totale, con lo sgravio ridotto e il rinato slancio per apprendistato e contratti a termine.
IN FAMIGLIA - Grande attenzione anche a bimbi e mamme. Il bonus bebè (80 euro al mese per 3 anni, il doppio per le famiglie povere) è andato molto bene. Se sulla carta era destinato a 330 mila bimbi nati o adottati tra 2015 e 2017 (per una spesa di 1,8 miliardi), l'Inps ha fin qui già accettato 409.519 domande (il 25% in più) e rigettate 35.708. Senza il requisito Isee da 25 mila euro (e 7 mila euro per il bonus doppio) - che il governo all'inizio non voleva, inserito poi dal Parlamento - la misura sarebbe esplosa. Per il 2017 poi il governo Renzi ne ha pensati altri due, anche dietro suggerimento degli alleati centristi: il premio alla nascita o bonus "mamma domani" da 800 euro una tantum solo quest'anno, anche per le adozioni, e il bonus nido (mille euro l'anno per tre anni per l'asilo o il sostegno domiciliare), entrambi senza limiti di reddito e patrimonio e 559 milioni di stanziamento. Tutte e tre le misure - bebè, nascita, nido - finiscono quest'anno. E dunque dovranno essere rifinanziate. Contando anche il bonus baby sitter del governo Letta (che ha dato qualche problema, poi risolto, perché era erogato in voucher), tutti e quattro i bonus famiglia scadono nel 2017 (ma per alcuni già assegnati, come detto, gli effetti sono triennali).
AIUTI AL REDDITO - E infine il re di tutti i bonus: quello da 80 euro mensili, strutturale dal 2014, inserito in busta paga come credito Irpef. Alla fine ne hanno beneficiato 11,7 milioni di lavoratori dipendenti privati e statali - esclusi gli incapienti che stanno sotto gli 8 mila euro di reddito annuo - per una spesa sin qui di 25 miliardi. La metà di tutti i bonus Renzi. Ma per via dei paletti di reddito - spetta per intero fino ai 24 mila euro lordi annui e in misura ridotta tra i 24 e i 26 mila euro - circa 1,8 milioni di italiani l'hanno restituito tutto o in parte perché non dovuto, magari a causa di altri redditi oltre quello da lavoro. Mentre però 1,5 milioni di contribuenti l'hanno incassato a sorpresa, per intero o una fetta, in sede di 730 perché le loro entrate sono salite sopra quota 8 mila o scese sotto 26 mila. Paletti reddituali scomparsi del tutto però nel caso dello stesso bonus da 80 euro, elargito alle forze dell'ordine nel 2016: stanziati 510 milioni all'anno per 510 mila militari, senza distinzioni.
La giungla dei privilegi. Stipendi folli, auto blu, biglietti gratis, poltrone assicurate, bonus faraonici. Dai politici ai manager, dai religiosi ai sindacalisti, tutti i benefici-scandalo. Che gli italiani vedono crescere sempre di più. Scrive “L’Espresso” il 30 novembre 2006. Ancora di più. Le caste dei diritti acquisiti non si arrendono e continuano a fare incetta di nuovi privilegi. C'è chi si muove personalmente, con modi tra il piratesco e l'autoritario. E chi marcia compatto nei ranghi delle corporazioni, unica istituzione che sopravvive allo sfascio di partiti e pubblica moralità. Ma tutti puntano a un solo obiettivo: ritagliarsi quell'orticello di vantaggi protetti, svincolati da meriti e risultati. Un po' per interesse, spinti dalla brama di guadagni sicuri; un po' per la voglia di emergere ostentando status symbol come l'auto blu; un po' per una mai sopita vocazione da hidalgo che fa sentire superiori ai comuni mortali e all'obbligo di pagare biglietti. Certo: il vizio è atavico. Ed è sopravvissuto a ogni rivoluzione egualitaria, a ogni processo di razionalizzazione, a ogni ondata di modernità e moralità: particolarismo, egoismo e protezionismo; la sacra trinità di una passione italica immortale. Che nessuna crisi e nessuna stretta riesce a sconfiggere. Anzi, come dimostra il sondaggio Swg realizzato per conto de L'espresso, la maggioranza degli italiani è convinta che il fronte dei “lei non sa chi sono io” stia costantemente crescendo. E non si illude di sconfiggerli: per la metà degli intervistati nessuno può far arretrare i sistemisti del benefit a spese altrui. Solo un terzo ritiene che il premier Romano Prodi possa scendere in campo con successo contro il dilagare dei cavalieri dell'indennità facile e ancora meno (il 14 per cento) ripone fiducia nelle capacità del suo predecessore Silvio Berlusconi: insomma, per il 49 per cento entrambi sono impotenti. Intanto però il bestiario si arricchisce di nuove figure: di baroni del posto nepotista che assieme alle università colonizzano anche il futuro del Paese, di procacciatori di prebende federaliste che proliferano nelle regioni, di speculatori squattrinati che vivono da nababbi sulle spalle del risparmiatore. Ne studiano tante e così velocemente da spiazzare la popolazione. Perché le indennità record dei parlamentari, le lunghe vacanze di molti magistrati, i posti prioritari dei figli di boiardi sono vantaggi che tutti comprendono e tutti indignano. Mentre il top manager che con un investimento minimo sale al timone di una holding quotata a piazza Affari e si riempie le tasche di stock option riesce a sottrarsi all'ira delle masse. Come fa? Sfrutta l'ignoranza e la diffidenza per la Borsa: il sondaggio realizzato da 'L'espresso' dimostra che quattro italiani su dieci non sanno cosa siano le stock option e quindi non le vivono come un privilegio. Forse se si rendessero conto che con questo escamotage finanziario una pattuglia di capitani d'industria porta a casa milioni di euro extra, allora rivedrebbero le loro hit parade. Che oggi restano molto convenzionali. Al primo posto tra i benefici che provocano irritazione ci sono gli stipendi dei politici: detestati dall'83 per cento degli italiani, con una quota che sale fino al 94 tra gli elettori del centrodestra e scende all'80 tra quelli dell'Unione. Seguono le paghe dei manager pubblici, da sempre sospettati di inefficienza e lottizzazione, invisi al 73 per cento del campione. Infine i vantaggi diretti, la Bengodi delle auto di servizio, dei passaggi gratis in aereo e dei pranzi a ufo di cui approfittano tante categorie tra il pubblico e il privato: il 72 per cento li vorrebbe cancellare. Molte volte ci sono anche luoghi comuni, difficili da sfatare: l'ondata di baby pensionati nelle amministrazioni statali ha creato una massa di invidia e malcontento consolidati nel 58 per cento. La stessa premessa vale per le ferie lunghe che vengono attribuite a insegnanti e magistrati, il segno di una scarsa considerazione nella produttività delle due categorie. Quello che invece finisce nel conto di manager privati non sorprende più di tanto e non sembra scatenare sentimenti particolarmente negativi. In generale, il disgusto per questa corsa al tesserino e al piedistallo lascia spazio a una grande rassegnazione. No, la speranza non viene né dai politici, né dai sindacati, percepiti anzi come alfieri del beneficio garantito: c'è il sogno della rivolta di base, animata dalle associazioni dei cittadini (31 per cento) e magari mobilitata da un ruolo più pungente dei mass media (28). Perché il privilegio si allarga e contagia nuove categorie, tutte avide di ritagliarsi una fettina di onnipotenza. Pubblico, privato; laici e cattolici; guardie e ladri; tutti uniti nel difendere la loro isoletta dorata.
Stipendi smisurati e una vita spesata, questo è il bello del rappresentare i cittadini. Forse troppo, tanto che, come dimostra il sondaggio Swg per L'espresso, gli italiani sarebbero felici di limare questo montepremi. Già, perché deputati e senatori incassano ogni mese più di 14 mila euro tra indennità, diaria e rimborsi vari. Allo stipendio di 5 mila e 500 euro bisogna aggiungere il rimborso di 4 mila euro per il soggiorno a Roma e altre 4 mila e 200 euro per 'le spese inerenti il rapporto tra il deputato e l'elettore'. Al Senato questa voce è aumentata di circa 500 euro al mese. Poi c'è il capitolo trasporti: il parlamentare si muove come l'aria nel territorio nazionale. Infila la porta del telepass in autostrada senza ricevere nessun estratto conto, al check-in prende posto in business senza mettere mano al portafoglio e all'imbarco del traghetto non fa fila né biglietto. E i taxi? Niente paura. È previsto un rimborso trimestrale pari a 3 mila e 300 euro. Mentre per i deputati che abitano a più di cento chilometri dall'aeroporto più vicino, il rimborso sale a 4 mila euro. L'angelo custode del bonus non abbandona il parlamentare nemmeno quando varca i confini nazionali per 'ragioni di studio o connesse alla sua attività': gli spettano fino a 3.100 euro all'anno. Per avere un'idea del costo degli 'onorevoli viaggi' basti un dato: i soli deputati nel 2005 sono costati alla collettività 40 milioni. Non paga nemmeno il telefono, fisso o mobile, fino a una bolletta massima di 3.100 euro. E ha diritto a un computer portatile e alla fine della legislatura (per tutelare la riservatezza dei dati) può tenerselo. Di tutti i privilegi, però quello che costa di più è il dopo. Ossia il trattamento pensionistico. Deputati e senatori, anche se in carica per una sola legislatura, maturano il diritto a una pensione straordinaria. Si chiama vitalizio e dovrebbe maturare al compimento dell'età di 65 anni. In realtà, se ha fatto più legislature il deputato, come un lavoratore usurato, può andare in pensione a 60 anni (che scendono a 50 per quelli delle precedenti legislature). Il vitalizio varia da un minimo del 25 per cento dell'indennità (2.500 euro circa) per chi ha versato solo i canonici cinque anni di contributi della singola legislatura. Ma arriva fino a un massimo dell'80 per cento dell'indennità per chi ha più legislature alle spalle. Comunque, per maturare il diritto alla pensione non è necessario restare in carica cinque anni. In passato bastavano pochi giorni. Ora ci vogliono due anni, sei mesi e un giorno. E gli eletti dal popolo contano doppio: possono sommare la pensione dovuta per la loro attività professionale a quella ottenuta per rappresentare i cittadini. La liquidazione parlamentare, poi, non è meno regale: 80 per cento dell'indennità moltiplicato per gli anni della legislatura, ossia minimo 35 mila euro.
Evviva il federalismo, evviva le regioni: ogni capoluogo si sente capitale, ogni assemblea vuole imitare Montecitorio. Ma che bel mestiere fare il consigliere: Lombardia, Lazio, Abruzzo, Emilia Romagna, Calabria gli elargiscono il 65 per cento del compenso riconosciuto al deputato. E più si sentono autonomi, più si premiano. I sardi, infatti portano a casa l'80 per cento dell'indennità nazionale a cui vanno aggiunte tutte le voci previste alla Camera: la diaria, i rimborsi, la segreteria. A conti fatti si superano i 10 mila euro. E non è finita qui. I consiglieri isolani hanno inventato anche i fondi per i gruppi: 2 mila e 500 euro per ogni consigliere più altri 5 mila al gruppo di almeno cinque persone. Inoltre, quando sono a Roma, hanno diritto a un auto blu con autista. In passato la Sardegna si distingueva anche per le sue generose buonuscite: 117 mila euro per consigliere. La chiamavano 'indennità di reinserimento', come si fa con i tossici usciti da San Patrignano. Ora è stata ridotta a 48 mila euro, speriamo che non ricadano nel vizio. Quella del reinserimento è una moda diffusa. Il Molise ha appena varato un sostanzioso "premio di reinserimento nelle proprie attività di lavoro" a tutti i consiglieri trombati o non ricandidati: così l'onorevole Aldo Patricello dell'Udc, dimessosi per diventare europarlamentare, si prende più di 72.700 euro ed è primo della speciale classifica, al pari dei diessini Nicolino D'Ascanio (attuale presidente della Provincia di Campobasso) e Antonio D'Ambrosio e a Italo Di Sabato di Rifondazione. Ai privilegi infatti ci si affeziona. L'ex governatore pugliese Raffaele Fitto di Forza Italia aveva ottenuto l'auto blu per alleviare i primi cinque anni senza carica. La delibera è stata cambiata dopo le contestazioni, ma la giunta di sinistra non si è dimenticata degli ex: le pensioni sono state ritoccate. Al rialzo. Perché in Puglia il benefit è ecumenico: anche alcune delle 19 Lancia Thesis noleggiate dalla Regione sono a disposizione dei 12 assessori uscenti. Le strade del bonus sono infinite. Un'altra veste giuridica per coprire l'ennesima erogazione va sotto il nome di indennità di funzione per i vertici di giunte e commissioni su misura. Per questo ogni giorno ne nasce una nuova. La Campania deteneva il record nazionale: l'anno scorso le commissioni erano 18. Ognuno dei presidenti intasca 1.650 euro in più al mese, oltre allo stipendio di consigliere regionale (circa 7 mila euro). Poi ci sono le spese di rappresentanza (in media 400 euro mensili) e quelle per il personale distaccato (9.550 euro al mese per un massimo di sei dipendenti a organismo): totale, 180 mila euro. La settimana scorsa, dopo un'ondata di indignazione, la Regione ne ha abrogate sei. Ma dal 2000 al 2005 le indennità dei consiglieri sono passate da 18 milioni a 30 milioni di euro all'anno mentre i benefit sono saliti da 18 a 30 milioni. Nella regione dell'emergenza perenne quei fondi potevano trovare impiego migliore.
I bilanci aziendali grondano utili e il titolo vola in Borsa? Complimenti ai manager: si meritano un bell'aumento di stipendio. Profitti in calo e quotazioni in ribasso? La musica non cambia: i compensi di amministratori delegati e direttori generali crescono comunque. In Italia, quasi sempre, funziona così. Le retribuzioni dei massimi dirigenti delle società quotate in Borsa si muovono a senso unico: verso l'alto. Stock option, bonus o incentivi vari corrono a gran velocità se l'azienda fa faville. In caso contrario aumentano più lentamente, ma aumentano comunque. Prendiamo l'esempio di Mediaset. L'anno scorso il titolo ha perso lo 0,3 per cento e gli utili sono aumentati del 9 per cento. Difficile definirla una performance brillante. Eppure il presidente Fedele Confalonieri ha visto raddoppiare il suo compenso a 4,7 milioni grazie anche a un bonus di 2 milioni. Telecom Italia, che ha chiuso l'ultimo esercizio con utili di gruppo in aumento del 77 per cento, ha invece deluso in Borsa con un calo del 17,6 per cento tra gennaio e dicembre del 2005. Insomma, per i soci c'è poco da festeggiare, ma i compensi del presidente (dimissionario dal 15 settembre scorso) Marco Tronchetti Provera sono comunque aumentati del 66 per cento: da 3,1 a 5,2 milioni. Se non bastassero premi e incentivi vari, i manager italiani sono riusciti a cavalcare alla grande anche il gran rialzo di Borsa che dura ormai da quasi tre anni. Come? Grazie alle stock option, cioè le azioni a prezzi di favore assegnate ai manager come forma di retribuzione. Con la riforma fiscale varata dal governo in piena estate questo strumento è diventato molto meno conveniente per i dirigenti, obbligati a inserire nella dichiarazione dei redditi i guadagni derivanti dall'esercizio delle opzioni. Nel frattempo, però, qualcuno era già passato alla cassa. Ai primi posti nella speciale classifica dei super compensi da stock option troviamo così un paio di banchieri protagonisti di grandi operazioni societarie varate in questi mesi. Corrado Passera di Banca Intesa, prossima sposa di Sanpaolo Imi, ha guadagnato 9,9 milioni e poi li ha reinvestiti in titoli del suo istituto. Scelta quanto mai azzeccata, visto che dall'inizio del 2006 le quotazioni di Banca Intesa sono cresciute del 25 per cento. Anche Giampiero Auletta Armenise numero uno di Bpu (Banche Popolari Unite) si prepara alla prossima fusione con Banca Lombarda forte di un guadagno extra di 7,5 milioni realizzato nel 2005 grazie alle sue stock option. Il gran rialzo del listino azionario ha finito per creare anche un altro gruppo di privilegiati. Banchieri, avvocati, consulenti d'immagine e pubblicitari: sono loro i veri vincitori della grande lotteria delle matricole di Borsa. Una febbre da quotazione che ha portato sul listino una ventina di nuove società negli ultimi mesi, coinvolgendo migliaia e migliaia di risparmiatori. Solo che gli investitori si sono presi il rischio di bidoni e ribassi. I banchieri invece guadagnano comunque. Come è puntualmente successo anche per lo sbarco in Borsa della Saras, l'azienda petrolifera della famiglia Moratti. L'operazione ha fruttato circa 2 miliardi alla famiglia di industriali milanesi. Ai risparmiatori è andata molto peggio, visto che in meno di sei mesi dalla quotazione il titolo ha perso quasi il 30 per cento. Un disastro, ma i banchieri del consorzio di collocamento guidato dalla banca d'affari americana Jp Morgan, affiancata da Caboto (Banca Intesa), hanno comunque incassato la loro provvigione: quasi 40 milioni di euro. A cui vanno aggiunti altri 12 milioni da dividere tra consulenti legali, d'immagine e altri ancora. Mica male per un flop.
Il 16 dicembre, quando lasceranno i vertici dell'intelligence, avranno già distrutto molti segreti. Qualche carta, invece, la porteranno con sé a futura memoria. Niente di strano: funziona così in tutto il mondo. Emilio Del Mese, Nicolò Pollari e Mario Mori stanno facendo le valigie e si preparano al passaggio di consegne con i loro successori. Ma i conteggi della loro pensione, con relativa buonuscita, sono già pronti. Così, secondo quanto risulta a 'L'espresso', ai tre illustri pensionandi il governo avrebbe riconosciuto una liquidazione che sfiora quota un milione e 800 mila euro. Una somma che forse farà alzare qualche sopracciglio, ma che sarà certamente stata costruita nel pieno rispetto di leggi e contratti e che, in ogni caso, riguarda tre persone che hanno servito lo Stato ad alto livello per oltre 40 anni. Più anomala l'entità della pensione: ogni mese 31 mila euro lordi. A questo importo-monstre si è arrivati cumulando lo stipendio con l'indennità di funzione, che nei servizi chiamano “indennità di silenzio”. Chi presta servizio al Sisde o al Sismi, infatti, di solito guadagna il doppio rispetto al parigrado che è rimasto in divisa. E l'avanzamento nei servizi è molto discrezionale e rapido. Quando la barba finta va in pensione, però, non si porta dietro quella ricca indennità: il privilegio dei privilegi riconosciuto solo ai capi. Per il resto, chi fa il militare o il poliziotto, di privilegi veri ne ha pochi. Gli stipendi sono bassi e spesso poco rispettosi dell'alto grado di rischio o di stress. Con il tesserino si può viaggiare gratis sui mezzi pubblici e, spesso, godersi gratis la partita di calcio. Ma definirli privilegi sarebbe un po' ardito.
Non ci sono più gli affitti agevolati negli immobili di proprietà della banca. Né il caro-legna, un sussidio alle spese per il riscaldamento, o la speciale indennità per gli autisti della sede di Venezia, che guidano il motoscafo invece dell'auto blu. Così come sono un ricordo del passato gli straordinari benefici pensionistici di quando si poteva andare a casa con 20 anni di servizio e un assegno che restava ancorato alle retribuzioni. Anche nell'era di Mario Draghi la Banca d'Italia continua però a dispensare un trattamento ultra-privilegiato ai suoi dipendenti. Basta pensare che gli stipendi dei magnifici quattro del Direttorio di palazzo Koch (il governatore, il direttore generale e i due vice) sono segreti. Scavando un po' si può scoprire che oggi i funzionari generali hanno un lordo annuo di 110 mila euro. Gli oltre 200 direttori di filiale stanno a quota 64 mila; i funzionari di prima a 49 mila e 200. Ma allo stipendio-base si aggiunge una giungla di altre voci che arrotonda la cifra finale. Siccome lavorare stanca, c'è per esempio uno stravagante premio di presenza: chi va in ufficio per almeno 241 giorni in un anno si porta a casa una sorta di quattordicesima: il premio Stachanov. A dicembre c'è la cosiddetta gratifica di bilancio: vale circa 35 mila euro per i funzionari generali; 18 mila per i direttori e oltre 6 mila per i funzionari. Siccome poi la banca ha un suo decoro, i più alti in grado incassano anche un'indennità di rappresentanza, una specie di buono-sarto, che è semestrale, forse per rispettare il cambio di stagione: poco meno di 8.500 euro per i funzionari generali; 4 mila per i direttori; 1.200 per i funzionari.
In teoria i professori universitari non dovrebbero godere di chissà quali privilegi, ma in realtà la loro posizione è unica. Perché da noi i controlli di produttività non esistono e una volta conquistata la cattedra i prof restano incollati ritardando pure la pensione. Per arrivare sulla poltrona, poi, fanno di tutto; ma nell'immaginario collettivo e negli atti di parecchie indagini penali domina la catena del nipotismo. Si ereditano posti da ordinario o li si scambia, creando intrecci o addirittura facendo nascere nuove facoltà per gemmazione. La summa del 'tengo famiglia' viene registrata a Bari dove nell'ateneo prosperano tre clan principali: uno vanta ben otto parenti-docenti, gli altri due si attestano a sei. Insomma, l'ateneo è cosa nostra. Il discorso non cambia quando in cattedra sale il medico, che di sicuro dovrà rispondere della sua produttività clinica, ma che rappresenta anche la vetta di una categoria molto corteggiata. Soprattutto dalle case farmaceutiche, prodighe di viaggi per convegni e presentazioni di mirabolanti macchinari: prodotti che poi vengono pagati dalle Asl. Una casta sono sempre stati considerati anche i giornalisti, soprattutto quelli stipendiati per far poco o imbucati in qualche meandro della tv di Stato. Il tesserino rosso, in realtà, si è molto scolorito. Gli sconti delle Fs non sono più automatici, ma richiedono l'acquisto di card annuali (60 euro per avere il 10 per cento in meno sui treni), Alitalia e Airone invece tagliano del 25 per cento i biglietti a prezzo intero. L'unico vero privilegio è l'ingresso gratuito nei musei statali e in numerose gallerie comunali. È chiaro che le eccezioni non mancano. Alcune sono frutto di operazioni di public relation: viaggi, show, vetture in prova, riduzioni su acquisto di auto, sconti su alcuni noleggi. Altre sono concessioni ad personam, come i cadeaux natalizi.
Un vero e proprio Carnevale di privilegi è stato per anni il contratto di lavoro dei dipendenti dell'Alitalia. In un'azienda dove la definizione di giorno di riposo sembrava scritta da Totò & Peppino ("Deve avere una durata di almeno 34 ore") e dove i dirigenti riuscivano a farsi infilare nella mazzetta dei giornali i fumetti di Topolino per (si spera) i pupi di casa, alla fine i soldi sono davvero finiti. I piloti hanno così perso via via dei benefit, come il buono-sarto per farsi confezionare la divisa su misura, il diritto all'autista da casa all'aeroporto, o la cosiddetta indennità Bin Laden, istituita dopo l'11 settembre 2001 sulle tratte mediorientali. Sono rimasti, però, i ricchi sconti al personale sui voli: i dipendenti (e i pensionati) hanno diritto ad acquistare (anche per figli e coniugi o conviventi) i biglietti con una riduzione del 90 per cento sulla tariffa piena se rinunciano al diritto di prenotazione. Altro capolavoro di sindacalismo all'italiana è il contratto dei ferrovieri. Quando un macchinista guida un treno da solo come in tutto il resto del mondo, invece che in coppia secondo la procedura made in Fs, ha diritto a incamerare anche la paga del compagno assente. Tutti i dipendenti dispongono inoltre di una carta di libera circolazione, che consente di viaggiare gratis (con coniugi e figli) su treni regionali, interregionali e Intercity.
Sono decine di migliaia alla Cisl. Altrettanti alla Cgil. Un po' meno alla Uil. Nel complesso, si parla di ben 200 mila persone a fronte di oltre 10 milioni di iscritti: un folto esercito comunque di distaccati, delegati, quadri e dirigenti che mantengono saldi nelle proprie mani privilegi e facilitazioni che riguardano soprattutto la possibilità di contrattare direttamente condizioni preferenziali con le controparti; di sedere nei consigli di amministrazione di enti e banche e assicurazioni; di gestire le attività legali, assistenziali e fiscali tramite patronati e sportelli di servizio; di curare un patrimonio immobiliare di non poco conto. Privilegi e facilitazioni che, in particolare, partono dalla fine della carriera. E soprattutto dalla garanzia di arrivare all'età pensionabile con un buon livello economico. In tempi di incertezze previdenziali, infatti, i sindacalisti si trovano in una botte di ferro. Prima la legge Mosca del '74 e poi un provvedimento approvato dall'Ulivo nel '96 (e promosso dall'ex ministro del Lavoro, Tiziano Treu, uomo di area Cisl) prevedono una contribuzione che vale doppia e la possibilità di beneficiare di un ulteriore versamento da parte del sindacato. Inoltre, nello statuto dei lavoratori è previsto che ai dipendenti in aspettativa per lo svolgimento di incarichi sindacali vengano riconosciuti e versati contributi figurativi a carico dell'Inps, che sono calcolati sulla base dello stipendio che non viene più versato dall'azienda o dell'ente di provenienza. Stessa situazione viene riconosciuta ai sindacalisti che usufruiscono del regime di distacco per attività sindacale e che percepiscono lo stipendio di un'azienda privata o di un ente pubblico anche se lavorano a tempo pieno solo per il sindacato. Secondo alcuni dati, sono diverse migliaia di persone a godere di questo regime speciale di doppia contribuzione. Tra distacchi, diarie e rimborsi, un sindacalista di medio profilo porta a casa circa 2.500 euro al mese, ma per i dirigenti la retribuzione supera i 5 mila.
Per i semplici componenti, 370 mila euro l'anno; oltre 444 mila per i presidenti. Questo il tetto massimo delle retribuzioni lorde di quasi tutte le Authority: telecomunicazioni, energia, antitrust e Consob. I compensi sono fissati per legge e sono identici agli stipendi di giudici e presidente della Corte costituzionale, a loro volta legati agli andamenti della retribuzione del primo presidente della Cassazione. Il calcolo dei compensi è semplice. Il primo presidente della Cassazione può arrivare a guadagnare fino a 246 mila 800 euro lordi l'anno, come (unica eccezione tra le autorità di garanzia) il Garante della privacy, il cui stipendio nel 2006 sarà in totale di 216 mila euro. I giudici della Corte costituzionale hanno diritto invece a uno stipendio superiore del 50 per cento all'appannaggio del primo presidente di Cassazione, cioè 370 mila euro. Mentre il presidente della Consulta incassa la stessa cifra (370 mila) maggiorata del 20 per cento. Totale: 444 mila euro lordi l'anno. Tutti i membri della Consulta hanno diritto all'auto blu e a una struttura di segreteria. Il presidente ha diritto anche ad utilizzare i voli di Stato. Gran parte dei membri della Consulta ne diventano prima o poi presidenti, poiché la scelta ricade ormai sempre sul giudice in carica da più tempo, magari per pochi mesi (negli ultimi sette anni sono stati dieci). I presidenti emeriti sono attualmente 16: ciascuno di loro ha diritto vita natural durante a un'auto blu con autista. Ma anche da defunti possono contare su un particolare onore: una delibera del Comune di Roma stabilisce che a tutti gli ex presidenti della Corte trapassati sia dedicata una strada nel quartiere Aurelio. I magistrati italiani hanno stipendi in media con l'Europa. Il meccanismo più discusso, in ogni caso, è quello degli scatti automatici. In parte tutela la toga coraggiosa dagli ingranaggi più odiosi del potere e della politica, ma non sfugge a nessuno che consenta anche carriere garantite e spesso sganciate dal merito. E paradossalmente a guadagnare di più sono quelli sospettati dai colleghi di lavorare di meno, ovvero i magistrati amministrativi. Ci sono poi i doppi canali: il Csm poi può autorizzare incarichi remunerati come le docenze. E un malcostume più volte denunciato riguarda il numero crescente di magistrati che lasciano sguarniti uffici di periferia delicati per assieparsi al ministero con ricche diarie. La vera variabile poi è il prestigio. In Italia, il magistrato, specie se maneggia inchieste penali, è un vero vip; all'estero non lo conosce nessuno. Tutto qui? Alla fine, il privilegio forse più vistoso è quello delle ferie: due mesi e mezzo ogni estate. I pm che hanno in mano le inchieste più scottanti lavorano lo stesso, con pc e cellulare sempre acceso. Ma se un avvocato prova a cercare un magistrato della fallimentare a metà giugno, è facile che lo trovi intorno alla fine di settembre. La legge è uguale per tutti, i privilegi invece no.
Il regno dell’omertà e del privilegio. Perché in Italia vincono i mediocri. Il nuovo libro di Sergio Rizzo, «La Repubblica dei Brocchi», denuncia i comportamenti senza vergogna della classe dirigente pubblica e privata, scrive Ferruccio De Bortoli l'1 novembre 2016 su "Il Corriere della Sera". Il dominio esercitato dal ceto dirigente burocratico su un’Italia bendata che non è in grado di controllarlo. La Repubblica dei Brocchi di Sergio Rizzo (Feltrinelli) è un tagliente atto d’accusa nei confronti della classe dirigente italiana. Spietato. Non risparmia nessuno. Nemmeno i giornalisti. Nel leggerlo mi è venuto in mente, non solo per assonanza, un pamphlet pubblicato nella Francia d’inizio secolo scorso. La République des Camarades, ovvero dei compari, di Robert de Jouvenel, riproposto in Italia, qualche anno fa, a cura di Emanuele Bruzzone. Quando la democrazia deperisce nella ragnatela delle amicizie compiacenti, gli interessi particolari e le relazioni oscure. Ma il racconto giornalistico di Rizzo è così ricco di episodi di malcostume o di semplice incoerenza o stupidità da ridurre, nel confronto, lo scritto sui mali della Terza Repubblica francese alla mera fisiologia del potere. Nel caso italiano di normale c’è molto, troppo. La furbizia elevata a dote ostentata della vita sociale, la facilità con cui si violano le norme senza pagarne mai un dazio in termini di minore reputazione, la tendenza a sentirsi sempre vittime, imputando agli altri i mali del Paese. Al punto che lo straordinario saggio di Rizzo sul declino della classe dirigente (pubblica e privata, sia ben chiaro) italiana, poteva benissimo avere un altro titolo. I brocchi hanno talento. Sono inaffondabili. Sono esempi di successo. E a volte abbiamo la netta sensazione che, alla fine, vincano loro. Rizzo ha la freddezza del giornalista e commentatore d’inchiesta, attento al dettaglio, che non fa sconti, ma non è privo di speranza. Riconosce le tante qualità del Paese, le molte eccellenze, il capitale sociale della solidarietà e termina il suo libro con quelli che lui chiama piccoli consigli. Codici etici, per esempio, che non siano solo foglie di fico stese sul miope corporativismo italiano. Quello che fa dire ai tanti che si comportano bene: siamo tutti colleghi, dunque diamoci una mano. E chiudiamo un occhio, non si sa mai, prima o poi potrebbe accadere anche a noi. Un impegno autentico nel moralizzare la politica, magari attuando quell’articolo 49 della Costituzione sulla trasparenza e la democraticità della vita dei partiti. Oppure accogliendo, quando si formano le liste per le elezioni di qualsiasi natura, il «piccolo consiglio» di Gustavo Ghidini, storico fondatore del Movimento consumatori: dichiarare pendenze penali, situazione patrimoniale, interessi in conflitto. Proposta tanto semplice da essere caduta sempre nel vuoto. Del resto l’articolo 54 della Costituzione recita: «I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina e onore». Sia l’articolo 49 sia il 54 della Costituzione del 1948 sono rimasti largamente inattuati. È giusto riformare, ma forse è anche doveroso attuare. Senza vergogna. Ecco il filo conduttore delle tante storie raccontate da Rizzo. A volte si rimane senza parole, potremmo persino dire ammirati, nel costatare l’immensa fantasia giuridica degli italiani. Che cosa non si fa per mantenere un vitalizio, per giustificare un privilegio, e persino per aggirare i risultati di un concorso. Come quello della Asl (oggi si chiamano Ats) di Pavia, vinto da un’unica candidata, evidentemente sgradita, e annullato perché le domande sono state ritenute «troppo difficili». Un’eccezione si trova sempre. Per far sì, ad esempio, che i dirigenti statali chiamati a ricoprire incarichi negli organi collegiali delle società pubbliche, siano pagati a dispetto della gratuità inizialmente prevista per legge. O consentire a un prefetto di assumere la carica di sindaco della sua città. La burocrazia è refrattaria ad essere giudicata (le resistenze alla pur lieve riforma Madia ne sono una prova). Rizzo ricorda un’indagine del 2014, secondo la quale tutti i dirigenti pubblici di prima fascia hanno avuto una valutazione non inferiore a nove su dieci. Tutti geni o tutti, in qualche modo, complici. Il sindacato non è da meno, specie quello nel pubblico impiego e nelle municipalizzate. All’Azienda trasporti di Roma è prevista la concessione, nel 2016, di 131 mila ore di agibilità sindacale, corrispondenti al lavoro di 82 persone, per un costo di 4,3 milioni. Il dopolavoro, cioè il sindacato, gestisce mense ed altri servizi. A costi d’affezione. Chi ha proposto di sostituire la mensa, costosa come un ristorante stellato, con i buoni pasto si è visto tagliare le gomme della sua auto. A proposito di gomme, quelle dei mezzi circolanti in città sono fornite da una società esterna gestita da un funzionario Atac in aspettativa. C’è posto per tutti, parenti e amici, meglio se di sindacalisti importanti. Il servizio, o quello che resta, per gli utenti, può aspettare. Non stupisce nessuno che un ex giudice della Corte costituzionale difenda contro lo Stato un condannato per truffa. Né che membri dell’Avvocatura si rivolgano al Tar contro la decisione del governo di mandarli in pensione a 70 (settanta!) anni, o che magistrati si rivolgano alla Corte costituzionale per contestare un taglio in busta paga. Certo, sono cittadini come gli altri. L’esempio, come servitori dello Stato, censurabile. La classe dirigente privata non è migliore di quella pubblica. Spesso persino peggiore. «Burocrazia, concorrenza inesistente, incarichi affidati sulla base di relazioni personali. Eccole qui — scrive Rizzo — le cause del degrado generale di certe professioni». Le vicende dei dopo terremoto sono assai significative per giudicare il ruolo, non sempre professionale, dei tecnici chiamati a fare le perizie. Rizzo ricorda che il cratere del sisma che colpì, nel 2002, il Molise riguardava 14 comuni. Aumentati in seguito a 83, ovvero tutti quelli della provincia di Campobasso. Tranne uno. Guardiaregia, il cui sindaco non aveva denunciato danni. E probabilmente non è passato come un custode della legalità. I troppi scandali bancari pongono un interrogativo sulla qualità e la moralità di diversi manager, consiglieri d’amministrazione, sindaci, revisori e sulla loro incapacità di vedere o denunciare pratiche sospette. E aprono uno squarcio — che Rizzo indaga in profondità — su una certa omertà territoriale, sull’orgoglio delle appartenenze che sconfina spesso in complicità. Anche la Confindustria, nel suo gigantismo rappresentativo, fa parte della Repubblica dei Brocchi. Emergono le figure dei professionisti delle associazioni, collezionisti d’incarichi. Un mondo che riproduce al proprio interno difetti che denuncia come inaccettabili per la politica e per il resto della società.
LA SANITA’ MALATA.
Le falle del 112. Nelle Regioni in cui è partito il call center unificato, è spesso in affanno. Nella Capitale la crisi più grave: l'allarme del Viminale. La procura di Roma apre un'inchiesta dopo la denuncia di "Repubblica". Indagine per omicidio colposo sul decesso di Ruggiu. I medici del soccorso: il nuovo sistema di chiamate è da cambiare, scrive Michele Bocci il 10 agosto 2017 su "La Repubblica". Un incendio di sterpaglie e la centrale inizia a zoppicare, cinque o dieci incendi e va in tilt. Il 112, numero unico che doveva cambiare in meglio i sistemi di emergenza, è ancora lontano dall'aver portato una svolta. Non solo perché è attivo solo in alcune regioni ma anche perché dove è presente talvolta sembra aver peggiorato le cose. Venerdì scorso al Viminale c'è stata una riunione straordinaria per discutere del caso Roma, dove a tanti cittadini sono toccate estenuanti attese prima di parlare con un operatore.
La riforma Europea. Lo chiamano uno-uno-due per distinguerlo dal 112 dei carabinieri. È il Nue, "numero unico di emergenza" che da anni l'Europa ha chiesto all'Italia di attivare per gestire le chiamate di chi ha bisogno dell'ambulanza, dei vigili del fuoco o della forze dell'ordine. Una sala operativa di primo livello che smista poi le telefonate a quelle di secondo. La prima ad istituirla, nel 2010 quando già il nostro Paese era stato sanzionato per i ritardi, è stata la Lombardia. Adesso la Regione, con 3 centrali, è il punto di riferimento. Nel 2015 è partita Roma, nella zona del prefisso 06, poi quest'anno Liguria, Piemonte, Sicilia orientale, Trentino e Friuli.
A cosa serve. Dove il Nue è attivo, chi fa un qualunque "vecchio" numero di emergenza viene indirizzato automaticamente alla centrale unica, che dovrebbe servire soprattutto a tre cose: localizzare la richiesta grazie al Ced (centro elaborazione dati) del Viminale, compilare la scheda anagrafica di chi chiama, tagliare le richieste improprie. L'ultimo punto è fondamentale, si stima infatti che il 30-40% delle telefonate ai numeri di emergenza sia per avere informazioni o comunque per motivi non urgenti. A 112, 113, 115 e 118 dovrebbero essere girate solo chiamate per le quali l'intervento è necessario. In Lombardia in media la centrale unica fa tutto in 50 secondi.
Il caso Roma. Quest'estate i tracolli del Nue della capitale sono frequenti. Le attese per chi telefona certi giorni sono lunghissime per due motivi. Il primo ha a che fare con il numero degli operatori, che non sarebbe sufficiente. E infatti si è deciso di assumere. Il secondo, il più grave a detta degli esperti, sono gli incendi. Come sottolineano dalla centrale, nelle altre stagioni arrivano in media 350-400 chiamate al giorno da girare al 115. Quest'estate si è saliti in certi casi a ben 5mila. In un'ora i telefoni possono squillare anche 1.200 volte. Questo perché tanti di coloro che passano vicino a un incendio, anche 100 alla volta, telefonano per segnalare. Il sistema così va in tilt, perché la centrale del Nue non è in grado di rispondere a tutti subito, e a cascata entra in crisi anche il 115. Centinaia di chiamate restano in attesa e ne fanno le spese gli altri servizi di emergenza, a partire dal 118. Alla riunione del Viminale si è deciso di non passare più ai pompieri tutte le telefonate che arrivano per lo stesso evento, come si faceva fino ad ora, e di liquidarle prima possibile.
Le Altre aree critiche. Forse Lombardia a parte, nessun Nue ha evitato polemiche riguardo a problemi e falle. A Torino a fine luglio l'annegamento di un bambino di 10 anni ha fatto partire all'attacco il sindacato autonomo dei pompieri Conapo: "I vigili del fuoco sono stati avvertiti ben 15 minuti dopo la richiesta di soccorso al 112". Il dato è contestato dalla Regione. In Sicilia lo Smi, il sindacato dei medici più forte nei 118 descrive una situazione delicata. "I cittadini ci dicono che i tempi di risposta si sono allungati parecchio con la centrale unica - dice Emanuele Cosentino - Ci vogliono anche 4 minuti per passare la chiamata dal 112 al 118. E poi talvolta ci vengono dati interventi non di nostra pertinenza, magari risse per le quali ci vogliono i carabinieri. Il numero unico andava fatto ma così, anche nel resto d'Italia, è un'esperienza negativa". Punta sulla formazione degli operatori Felice Romano, segretario del sindacato di polizia Siulp. "Ci sono problemi con i centralinisti "laici" - dice. Insieme a loro in centrale ci vorrebbero anche persone formate per i vari tipi di emergenza, da vigili del fuoco a sanitari e forze dell'ordine. Solo loro hanno l'esperienza per inquadrare i vari casi. Senza una formazione specifica finisce che è come se rispondesse un disco e basta". Disco che purtroppo in molti conoscono bene.
Mio padre stava morendo e al 118 rispondeva solo un disco. Questo racconto è perché nessun altro padre, marito o figlio, possa morire con una voce che ti dica "Rimanga in attesa", scrive Valentina Ruggiu il 9 agosto 2017 su "La Repubblica". "Rimanga in attesa". Una cordiale voce di donna me lo ripete in italiano, inglese e spagnolo. Il telefono è tra orecchio e spalla, mentre con tutta la forza cerco di sollevare mio padre che è mezzo steso a terra, una gamba piegata sotto l'addome, l'altra tesa indietro. Respira, si lamenta e dal viso scendono a terra gocce di sangue. "Rimanga in attesa". Dentro di me sono convinta di poterlo rialzare, ma il solo sforzo per impedirgli di scivolare ancora è enorme, soprattutto per me che sono uno scricciolo e lui un omone. Gli dico che gli voglio bene, che andrà tutto bene e che arriverà presto qualcuno ad aiutarci.
"Rimanga in attesa". Sono passati più di due minuti ed è la seconda chiamata al 118. Attacco e riprovo a chiamare: "Rimanga in attesa ". La terza chiamata la faccio dal mio cellulare e parte alle 3:19. Nel frattempo arrivano mio fratello e la compagna. "Rimanga in attesa ". Lo sollevano, lo poggiano sul letto e vedo mio padre che si sta spegnendo. La chiamata è ancora aperta, sotto le grida di mia madre sento la voce registrata: "Rimanga in attesa". Non so cosa fare, vorrei solo un'ambulanza, qualcuno che ci aiuti. Urlo contro la voce registrata. Prendo una spugnetta bagnata e gliela passo sul viso, provo a mettergli qualche goccia d'acqua in bocca. Poi il dubbio: "Forse non dovevo farlo, forse non può ingoiare. E se soffoca?". Ma a suggerirmi cosa fare non c'è nessuno, al telefono ho solo la voce di donna. Mio fratello nel frattempo va in cerca di un'ambulanza al pronto soccorso di Albano Laziale, il paese in provincia di Roma in cui ci siamo trasferiti per fuggire dal caos della Capitale. La cosa buffa è che da casa mia si può quasi vedere nelle camere per la degenza perché abitiamo nella via proprio sotto l'entrata principale della struttura. In totale ci separano 300 metri, praticamente un minuto di macchina. Mio fratello però torna a mani vuote, dal pronto soccorso dicono che "non hanno ambulanze a disposizione al momento". "Rimanga in attesa", continua la voce. Questa volta però decido che in attesa non rimango più: lascio la chiamata aperta e corro fuori. Intanto, alle 3:26 parte un'altra chiamata al 118 dal telefono della ragazza di mio fratello. La sua attesa si aggiunge alla mia. Fuori, scalza, suono ai vicini. In casa c'è solo la figlia minore. Le chiedo di aiutarmi a chiamare i soccorsi e anche lei ci prova. Poi, d'improvviso la vocina dal mio smartphone si interrompe, mi rispondono. All'operatore dico dove abito, gli spiego del rumore tremendo che mi ha svegliata e di come ho trovato mio padre. Gli dico che è ancora vivo, ma che sta per morire. Gliel'ho visto in faccia. Serve un'ambulanza urgentemente. Mi dice "Ok, trasferisco la chiamata alla centralina del 118 più vicina a lei". E anche qui la beffa, uno dei punti da cui partono è a pochi minuti da casa. Ritorno in attesa, di nuovo la voce cordiale di donna. Urlo, mi sembra un incubo. Al telefono della vicina risponde un altro operatore: gli spiego tutto di nuovo. Sottolineo che ho già parlato con loro, che mi hanno già messo in attesa con il 118, ma che mio padre non ha più tempo, morirà se non si sbrigano. Torna la voce di donna. Mollo il telefono con la chiamata aperta alla vicina, le dico di non riagganciare e di ripetere cosa ho detto io casomai qualcuno dovesse rispondere. Corro in mezzo alla strada e comincio a urlare aiuto. Anche la vicina urla, vede un uomo uscire dalla casa di fronte. Lo raggiungo gli dico di entrare in casa mia, che deve correre perché papà sta morendo e il 118 non risponde e devo portarlo al pronto soccorso.
"Rimanga in attesa", continua la voce dal telefono della mia vicina. Quella del mio cellulare si è zittita, non so se ho riagganciato io o lo hanno fatto loro. Continuo a urlare ed esce un altro uomo. Imploro aiuto anche a lui mentre alla vicina il numero per l'emergenza sanitaria riaggancia il telefono. L'attesa è finita, ma in tutti i sensi: papà è morto. Alle 3:34 e alle 3:36 mi chiama un numero privato: "Signora se la vuole ancora, le mando un'ambulanza ". Volevo aiuto e ho avuto solo una voce registrata. L'autopsia forse dirà che si è trattato di un ictus o di un'ischemia, in ogni caso darà una spiegazione a quel tonfo che ho sentito. Forse però non saprò mai perché ho atteso così tanto una risposta dal centralino unico del 112, perché abbiamo dovuto chiamare in tre, perché mi hanno rimesso altri minuti in attesa dopo aver parlato con l'operatore. Mi domando se fosse accaduto mentre non c'era mia madre che correva a prendere il telefono o mentre non c'ero io che mi sono svegliata e che, dopo averla calmata, le ho detto di prenderlo quel telefono. O se non ci fossero stati, nella casa accanto, mio fratello e la ragazza. Mi chiedo a quante persone quella vocina abbia detto di rimanere in attesa, a quanti quei minuti sarebbero potuti servire per non perdere la vita. Per mio padre forse non avrebbero potuto fare nulla, ma una voce umana mi avrebbe almeno aiutata, guidata, supportata. Ho dovuto caricare mio padre in macchina. Mio fratello ha dovuto guidare con le gambe tremolanti. Alle 3:34 o alle 3:36, quell'ambulanza a noi non serviva più. Eravamo già al pronto soccorso, qualche minuto più tardi ci hanno ufficializzato la morte.
Mio padre si chiamava Gianfranco e faceva il cameriere, era un uomo devoto al suo lavoro. Un padre e un marito con i suoi pregi e i suoi difetti. E questo racconto è perché nessun altro padre, marito o figlio, nessun altro amico o cugino, possa morire con una voce che ti dica "Rimanga in attesa".
"Qui 112, rimanga in attesa", le mie tre inutili chiamate in un mese. Tre episodi - per fortuna non drammatici come quello segnalato da Valentina Ruggiu - danno il quadro del caos (almeno a Roma) per chi chiama il numero di emergenza. In questo caso per un incendio, un allarme sanitario, la segnalazione di un conflitto a fuoco in strada, scrive Claudio Gerino il 9 agosto 2017 su "La Repubblica". "Rimanga in attesa". Ho vissuto - anche se in circostanze sicuramente meno drammatiche e tragiche - l'esperienza sconvolgente di Valentina. Per ben tre volte, nell'ultimo mese. Il Nue, numero unico per le emergenze, il 112, evidentemente non funziona come dovrebbe essere una linea telefonica H24 dedicata appunto a tutte le emergenze possibili. E con la necessaria rapidità d'intervento adeguata all'emergenza che viene segnalata. Perché è così, qualcuno dovrebbe spiegarlo, che si dovrebbe rispondere a tutti quegli utenti che - come Valentina - si sono rivolti al 112 sicuri di avere un aiuto immediato.
Primo episodio. In una di queste caldissime mattine d'agosto, stavo andando al lavoro in auto, sulla via del Mare da Ostia a Garbatella. All'altezza di Vitinia (per chi non conosce Roma e la periferia, basta spiegare che è più o meno vicino a dove dovrebbe sorgere il nuovo stadio della Roma), vedo sul ciglio della strada le fiamme che stanno divorando la fitta boscaglia che circonda l'arteria a grande scorrimento. Fiamme alte, fumo che rende anche pericoloso il passare in auto, per la scarsa visibilità. Telefono cellulare, vivavoce, chiamo il 115, il numero dei vigili del fuoco. Automaticamente, la telefonata viene inoltrata al 112, numero unico d'emergenza. E comincia l'attesa. Voce registrata, varie lingue, resto in attesa. Intanto proseguo il viaggio verso il lavoro. Da casa mia a Garbatella, se non è l'ora di punta, ci vogliono un venti-trenta minuti per arrivare. "Rimanga in attesa". Arrivo al lavoro, parcheggio la macchina e sono ancora in attesa. Entro al lavoro e attendo ancora. 35-40 minuti circa. Alla fine, miracolo, risponde un operatore. A cui spiego ciò che ho visto, cosa stava succedendo e quando. "Resti in attesa, le passo i vigili del fuoco". Altra attesa, pochi minuti per fortuna, e finalmente parlo con qualcuno "competente" per l'eventuale intervento. Segnalo l'incendio, mi risponde che sì, anche altri erano riusciti a superare il "rimanga in attesa" e avevano fatto analoga segnalazione. E che una squadra di vigili del fuoco si stava recando sul posto o forse era già lì. Bene. Ho fatto il mio dovere di cittadino, sperando che quella lunga attesa non abbia prodotto danni gravi, che nessuno sia rimasto coinvolto dalle fiamme e dal fumo, che non ci siano stati incidenti stradali dovuti alla scarsa visibilità. Dimenticavo: uno degli avvertimenti registrati in quel "rimanga in attesa" era "non riagganci, se no siamo costretti a richiamare il suo numero". E' andata bene, tornando a casa vedo che sono andati in fumo solo un po' di alberi, un vecchio canile per fortuna abbandonato da tempo (anzi posto sotto sequestro per irregolarità) e tanta sterpaglia. Ma c'è ancora fumo, sono passate otto ore da quel primo "resti in attesa".
Secondo episodio. Questo è ben più grave. Di notte, verso l'una, si sentono intorno casa colpi d'arma da fuoco, spari ripetuti. A distanza di una decina di minuti l'uno dall'altro, da direzioni diverse. Si sente anche qualcuno correre. Ancora una volta provo a chiamare direttamente il 113, la polizia, ma vengo dirottato sul numero unico d'emergenza. E ricomincia l'attesa. Vicino a casa mia c'è anche la linea metropolitana Ostia-Lido/Roma, quei colpi sembrano provenire da quella parte, lungo la massicciata ferroviaria. 25 minuti di attesa prima di una risposta. L'operatore sembra cadere dalle nuvole su cosa fare. Mi dice, ad un certo punto, "la metto in contatto con i vigili urbani". Io protesto, dico che se quelli che sento sono effettivamente colpi d'arma da fuoco, forse è il caso che la mia telefonata venga dirottata a carabinieri o polizia. L'operatore sembra dubbioso, non sa prendere una decisione. Intanto passano i minuti e si continuano a sentire, sporadici, altri colpi. Alla fine mi collega al 113, la polizia. E alla fine posso spiegare cosa sta accadendo, o perlomeno quello che presumibilmente penso sta succedendo, a qualcuno che ha potere d'intervento. Ma passa un'altra mezz'ora prima che arrivino le "volanti". So bene quante poche siano in servizio di notte e quanti interventi i poliziotti devono fare. Nonostante questo, ne arrivano 4 e subito - anche perché gli agenti sentono anche loro "in diretta" i colpi - si mettono a caccia di chi li sta esplodendo. Scacciacani, revolver vero, qualcuno che si divertiva a sparare in aria, non lo saprò mai. Gli agenti inseguono una persona in fuga verso la ferrovia metropolitana, ma lo perdono di vista. Girano con le auto, si allontanano e poi ritornano una ventina di minuti dopo. Non riuscendo però a individuare gli autori o l'autore degli spari, vanno giustamente a fare altri interventi. Non è stata una rapina, non è stato uno dei tanti femminicidi che ormai siamo abituati purtroppo a leggere sulle cronache. Ma se fosse stato uno di questi casi? 25 minuti di attesa solo per parlare con un operatore e altrettanti, alla fine, per comunicare con chi poteva intervenire realmente sono francamente troppi. Anche per un possibile falso allarme, per qualcosa che comunque non aveva le stesse tragiche dimensioni vissute da Valentina.
Terzo episodio. La faccio brevissima, perché memore delle esperienze precedenti, alla fine ho saltato tutti i passaggi. Mio figlio, per un banale incidente casalingo, si procura una leggera lesione alla cornea. Dolorosa, fastidiosa e problematica. Anche in questo caso, il primo istinto è chiamare il 118, la Guardia Medica, perlomeno per farsi indicare dove portarlo eventualmente per un controllo urgente. Per sapere quale ospedale della zona ha un pronto soccorso oftalmico. Il 118 però viene prima dirottato sul Nue, il 112. Che ripete per una quindicina di minuti, "rimanga in attesa", sempre in tutte le lingue. Riaggancio, lascio perdere, vado su Internet e cerco un'oculista che faccia pronto soccorso. Ovviamente a pagamento. Lo trovo, lo chiamo e alla fine fisso un appuntamento per un'ora dopo. Problema risolto, potendo pagare però 110 euro per una visita privata, accuratissima e completa, ma comunque privata. La lesione alla cornea di mio figlio è curata. Particolare non secondario: nonostante quel quasi minaccioso avvertimento - "Non riagganci se no la dobbiamo richiamare - nessuno mi ha mai richiamato per chiedere qual era il tipo di emergenza per cui mi ero rivolto al 112. Ora in casa ho affisso vicino al telefono tutti i numeri di ambulanze private (per le emergenze mediche), quelli dei centri di diagnostica privata della zona e qualche altro numero di cellulare di medici a cui rivolgermi se avessi un problema sanitario serio. E per possibili tentativi di intrusione nella mia casa da parte di malintenzionati, ho stipulato un contratto con un'agenzia di vigilanza privata collegata con un sistema d'allarme e una centrale operativa che opera H24 (e che, devo dire, risponde subito). Una spesa, certo. Ma in qualche modo obbligata e dettata da queste esperienze. Ah, tra l'altro, l'agenzia di vigilanza non fa solo "protezione antifurto e rapina", ma si collega anche a guardie mediche private, se ce ne fosse bisogno. Ma per incendi, rapine, aggressioni o qualche altra emergenza di questo tipo che non avvengono in casa o nei dintorni dovrò sempre rivolgermi al Nue, al 112. Sperando che quel "resti in attesa" non si dimostri purtroppo talmente lungo da rendere inutile poi l'eventuale intervento, come ha vissuto drammaticamente sulla sua pelle Valentina.
Torino, il numero unico finisce in procura: esposto dei vigili del fuoco sul "112". Il sindacato Conapo attacca: "Peggiorati gli standard dei soccorsi". Polemiche sulle eliambulanze: "Costano care e paga la Regione, dovrebbero chiamare noi". Dalla seggiovia in tilt al ragazzo annegato, i dieci casi sotto accusa, scrive Carlotta Rocci il 10 agosto 2017 su "La Repubblica". I sindacati piemontesi dei vigili del fuoco si rivolgono alla procura di Torino: "Da quando è in funzione il numero unico 112 — accusano — sono peggiorati gli standard di attivazione dei soccorsi". Nell’esposto — firmato da Conapo, Cisl, Cgil, Uil e Confsal, e protocollato questa mattina in procura dagli avvocati Roberto Capra e Claudia Paolini — sono elencati almeno una decina di casi, nei quali i vigili del fuoco non sono stati informati di un soccorso nel quale sarebbe stato necessario il loro intervento. "Serve una razionalizzazione del soccorso che oggi non permette sempre interventi tempestivi», spiega Claudio Cambursano, segretario piemontese del Conapo che la settimana scorsa aveva sollevato il problema dopo la morte di un bambino di 10 anni annegato nel parco delle Capanne di Marcarolo, nell’Alessandrino. "Vogliamo che si faccia chiarezza su tutte le inadempienze, le mancate attivazioni e i ritardi», proseguono i sindacati che chiedono una sala operativa interforze in cui siano presenti i rappresentanti di tutti gli enti che si occupano di soccorso. «Il numero unico è già oggi un sistema interforze — replica Danilo Bono, responsabile del 112 in Piemonte — Come in tutte le cose ci sono dei margini di miglioramento delle nostre performance". Secondo i firmatari dell’esposto l’analisi di chi risponde al centralino del numero unico non è sempre corretta o non rispetta il protocollo firmato a marzo prima dell’attivazione del servizio. «Ci sono numerosi problemi, come l’ingerenza del soccorso alpino nella gestione del soccorso tecnico urgente». Un’accusa che il presidente del soccorso alpino piemontese Luca Giaj Arcota, rispedisce al mittente: «Noi svolgiamo il nostro lavoro secondo le competenze che ci sono riconosciute per legge». Un altro capitolo dell’esposto riguarda i costi: «Le eliambulanze hanno un costo elevato sostenuto dalle Regioni mentre dovremmo essere noi l’istituzione di riferimento».
IL DOSSIER. C’erano 60 persone bloccate su una seggiovia in balia del vento, il 6 marzo scorso a Prato Nevoso. Un “soccorso tecnico urgente”, nel gergo dei vigili del fuoco che, però, quel giorno non sono stati avvertiti dalla centrale del numero unico 112. «Siamo stati chiamati da un collega che ha telefonato in centrale dopo aver sentito la figlia, bloccata sulla seggiovia», racconta chi era in servizio. Gli operatori del numero unico — potendo scegliere un solo ente — avevano indirizzato la chiamata al 118 che era partito per Prato Nevoso in elicottero insieme a un’equipe del soccorso alpino. I vigili del fuoco erano arrivati circa due ore dopo. Gli sciatori bloccati erano stati messi tutti in salvo con l’intervento del soccorso alpino ma per i sindacati dei vigili del fuoco — che hanno inserito questo episodio nella lista di casi contenuti nell’esposto consegnato in procura — è uno dei tanti esempi di «mancata applicazione del disciplinare e in aperta violazione delle norme che prevedono una chiamata immediata dei vigili del fuoco», spiegano. Sullo sfondo di questa vicenda c’è un sistema del soccorso che — indipendentemente dall’attivazione del numero unico — rischia in molti casi di pestarsi i piedi piuttosto che collaborare. L’attivazione del 112, sul modello europeo, non ha fatto altro che sollevare il coperchio su vecchie ruggini. È successo anche il 19 giugno quando il suv di Federico Bellono aveva tamponato sull’A5 la macchina dell’imprenditore Andrea Doria,79 anni, uccidendolo. «Non è stato calcolato il rischio evolutivo dell’intervento — spiegano i vigili del fuoco — parliamo di auto gravemente danneggiate che potrebbero essere pericolose». La statistica, estrapolata dai dati raccolti dai sindacati tra aprile e agosto 2017, dice che in 5 casi su 12, circa il 40 per cento, la chiamata viene «erroneamente indirizzata al 118, generando ritardi».
Il 6 luglio scorso, a Torino, un’anziana è caduta in casa e ha chiamato il 112 per chiedere aiuto. La squadra del 118 che è arrivata sul pianerottolo del suo appartamento e lì è rimasta bloccata in attesa che un’equipe dei vigili del fuoco arrivasse per aprire la porta. Il ritardo calcolato sul soccorso è stato di 16 minuti. Delle 824 aperture porte fatte, tra aprile e agosto, nel 60 per cento dei casi il 118 arrivato sul posto si è reso conto della necessità di chiamare i pompieri per riuscire ad entrare in casa. "La gestione dell’intervento con l’entrata in vigore del numero unico, almeno per quanto ci riguarda, non cambia. Spesso avvertiamo la centrale dei vigili del fuoco quando abbiamo anche solo il sospetto che serva un intervento tecnico", spiega Egle Valle, responsabile del 118 piemontese. Nell’elenco dei soccorsi che avrebbero dovuto passare per le linee della centrale di corso Regina Margherita, secondo i firmatari dell’esposto — c’è un lungo elenco di ricerche persona. Il 5 luglio scorso alla centrale e di Grugliasco è arrivata una richiesta d’aiuto per un uomo con un braccio infilzato in una cancellata. È un intervento sanitario è la telefonata passa al 118. Ma è anche un soccorso tecnico perché per poter soccorrere il malcapitato bisogna prima sfilare il braccio dalla ringhiera. Il 115 però viene allertato solo quando l’ambulanza è già sul posto. Il caso più eclatante contenuto nel documento consegnato in procura è quello di Leonardo Pecetti, 10 anni, annegato nell’Alessandrino il 29 luglio. All’indomani dell’incidente su cui ora la procura indaga per omicidio colposo il Conapo aveva denunciato che i vigili del fuoco erano stati allertati con 15 minuti di ritardo. La denuncia dei sindacati ha sollevato anche l’interesse della politica. La deputata Pd Paola Bragantini porterà la questione in Parlamento, Davide Bono vuole aprire la discussione in consiglio regionale.
Errori, sciatteria e morti Sanità malata, Paese infetto. Dai chirurghi in lite per la sala parto mentre il bebè muore all'aorta tagliata per sbaglio. Una deriva letale, scrive Stefano Zurlo, Mercoledì 14/06/2017, su "Il Giornale". Lo scambio delle barelle e, peggio ancora, quello degli organi. Numeri da circo e non solo: le attese interminabili e il degrado, con i malati buttati per terra come fossimo a Kabul e non a Roma o Milano. Le morti senza un perché e quelle con un perché che mette i brividi e suscita rabbia. La malasanità, dal Nord al Sud ma giù, in fondo allo stivale ancora di più, è ormai un genere a sé. Quasi una forma di narrativa con vicende surreali, incredibili e però dolorosissime e devastanti.
Come il caso, terribile, che arriva nei giorni scorsi da Palermo. Un uomo di 38 anni, Filippo Chiarello, viene ricoverato al Villa Sofia per togliere alcuni calcoli. Un intervento di routine, come si dice in un gergo tranquillizzante, da effettuare in laparoscopia e dunque poco invasivo. Invece l'operazione si allunga per sei ore, diventa uno scempio, un disastro senza rimedio: tre arresti cardiaci, danni cerebrali gravissimi, il coma e infine la morte del giovane che lascia due figli piccoli. Ma che cosa è successo? È il chirurgo stesso ad ammettere l'errore: «Ho tagliato per sbaglio l'aorta addominale e ho perforato l'intestino».
A Bari va anche peggio: quel che succede è inimmaginabile. Due medici dell'ospedale Di Venere si contendono la sala operatoria, manco fossimo in un'adrenalinica puntata di Grey's Anatomy. Si perde un'ora mezzo mentre Marta Brandi aspetta il momento per poter partorire con taglio cesareo. Impuntature, negligenze, sciatteria: va tutto storto. Prima la sala operatoria occupata, perché ci sono altri due cesarei programmati. Non è finita. La quasi mamma viene dirottata in chirurgia generale dove però hanno prenotato i ferri per un'appendicite. Chi deve avere la precedenza? Inizia una discussione, i toni si accendono, nessuno volle cedere il passo. È in quei minuti drammatici che Marta perde la sua bambina. Il cordone ombelicale la strozza prima di nascere. Quando finalmente arriva il suo turno è troppo tardi. Otto persone, fra medici e infermieri, vengono messe sotto indagine. I due litiganti si difendono sostenendo che nessuno aveva loro spiegato l'urgenza di quel cesareo. Certo, il sistema non ha funzionato.
È un ritornello che si ripete tante volte. Troppe. Pagine vergognose che offendono la dignità di chi soffre. A Tivoli, al San Giovanni Evangelista, un paziente viene confuso per un altro. La barella che doveva partire per la rianimazione va in chirurgia e viceversa. Caos e confusione, ritardi. I due, tutti e due, muoiono. Intendiamoci: erano anziani e conciati molto male, forse il finale non sarebbe cambiato o forse sì, magari per uno solo. La procura indaga per omicidio colposo, aprendo l'ennesima inchiesta su quel che accade nelle nostre strutture sanitarie.
A Vigevano, è cronaca recente, portano via il rene sinistro a un signore di 78 anni. Una scelta sconsiderata perché la patologia diagnosticata era benigna. Quella maligna era dall'altra parte. Infatti passa il tempo, le condizioni di salute non migliorano neanche un po', alla fine i medici sono costretti asportare anche il secondo organo, gravemente compromesso. Il destro. In questo modo il poveraccio, per sopravvivere, deve attaccarsi tre volte la settimana alla macchina per la dialisi. Per carità, in medicina è meglio non dare nulla per scontato, ma almeno la differenza fra destra e sinistra dovrebbe essere conosciuta e così il reparto cui indirizzare il malato.
Ma c'è pure chi è stato dimesso ed è andato a mani alzate, disarmato, incontro alla morte. Cosi Antonio Francolino che muore a Tropea a gennaio scorso. Francolino arriva al pronto soccorso alle 18 di una domenica con forti dolori alla pancia. Attende tre ore, sempre in difficoltà, poi l'elettrocardiogramma rivela una sofferenza del cuore. Si tratta di aritmia, ma alle nove di sera l'anziano viene mandato a casa. Dove muore poco dopo. Il figlio, disperato, scrive al ministro Lorenzin: un'altra lettera che aspetta risposta.
Sanità, la grande beffa dei ticket: "Così i veneti pagano il quadruplo dei siciliani". Gli squilibri Nord-Sud su analisi e visite specialistiche. Allarme falsi esenti. Ma tra i motivi c'è anche la crisi, scrive Michele Bocci il 12 marzo 2017 “La Repubblica". Tutti lo criticano, lo vorrebbero cancellare, lo accusano di allontanare i malati dal sistema sanitario pubblico, eppure le Regioni non potrebbero farne a meno. L'odiato ticket dà alle casse della sanità locale un po' di respiro, facendo entrare soldi freschi in fondi sempre più spompati. Il problema è che la tassa non assicura introiti uguali per tutti. I dati di Agenas, l'Agenzia nazionale delle Regioni, rivelano grandi differenze di incasso per le varie realtà locali e quindi di spesa pro capite. A pagare meno sono gli abitanti delle regioni del Sud, dove le false esenzioni sono più diffuse ma anche dove la crisi batte più duramente. I siciliani sborsano in media 8,7 euro, i veneti 36,2. Non solo, analizzare il gettito del ticket per la specialistica (visite, analisi e esami) permette di capire quanto lavora il sistema sanitario nazionale. La risposta? Sempre meno. L'attività si è contratta: tra il 2012 e il 2015 la spesa dei pazienti italiani è calata del 9%, arrivando a un miliardo e 400 milioni di euro. E questo malgrado ogni tanto qualche Regione ritocchi verso l'alto le tariffe, spesso assai diverse da una all'altra. Non è facile dire perché sono state richieste meno prestazioni pubbliche. Secondo alcuni osservatori, i pazienti si sono spostati nel privato puro, dove non ci sono le liste di attesa e talvolta si spende lo stesso o addirittura si risparmia rispetto al costo del ticket. Però anche i dati, sempre di Agenas, sulla libera professione intramoenia, che è a pagamento, raccontano di un calo di prestazioni del 9%. E allora, a voler essere ottimisti, potrebbe esserci anche un po' più di appropriatezza nelle prescrizioni, cioè un'attenzione di medici e pazienti a evitare gli esami inutili. L'unica grande Regione a non aver visto un calo degli introiti da ticket sulla specialistica nel 2015 rispetto al 2012 è l'Emilia-Romagna, che ha segnato un +4,8%. I suoi cittadini spendono in media quasi 36 euro l'anno per la tassa su esami e visite. Il dato pro capite è in linea con quelli di Toscana, Veneto, Friuli, Trento e Bolzano. Al Sud cambia tutto, e c'è chi non arriva nemmeno ai 10 euro, come Campania e Sicilia, o li sorpassa di poco, tipo Puglia e Calabria. Altri stanno comunque sotto ai 23 euro di media spesi in Italia. Il sospetto è che le regioni meridionali siano zavorrate dalle esenzioni, che possono essere per patologia, invalidità o reddito-età (riguardano chi ha meno di 6 o più di 65 anni e un reddito familiare sotto i 36mila euro). Si stima che in certe realtà addirittura l'80% di coloro che si rivolgono alla sanità pubblica abbiano un certificato di esenzione, un dato enorme che fa pensare a una alta diffusione di falsi esenti. Finisce così che la Campania incassi in un anno 56 milioni di euro e l'Emilia Romagna, che ha oltre un milione di abitanti in meno, 159 milioni. La Regione che più avrebbe bisogno di soldi ne vede entrare molti meno. Tra falsi esenti, tariffe ballerine e bilanci in difficoltà si è completamente perso il significato iniziale dei ticket. "Sono nati come strumento per migliorare l'efficienza, rendere le prescrizioni più appropriate e dare equità al sistema", dice Francesco Bevere, direttore generale di Agenas: "Ora dobbiamo evitare che un eccesso di ticket allontani le persone dal servizio pubblico. Inoltre non dovrebbero esserci queste differenze tra i diversi territori regionali". Secondo il direttore dell'agenzia "sarebbe utile ridefinire la regolazione dei ticket, così da consentire da una parte una possibilità di applicazione differenziata a seconda delle regioni, e dall'altra, soprattutto nelle realtà in piano di rientro, stabilire tetti massimi di spesa a salvaguardia dell'accesso alle prestazioni che sono nei livelli essenziali di assistenza. Così da evitare che chi non ha reddito sufficiente si allontani da cure importanti". Ma di una riforma del ticket si parla senza arrivare a risultati ormai da troppo tempo.
Il pronto soccorso, un girone infernale, scrive Aldo Cazzullo il 10 gennaio 2017 su "Il Corriere della Sera".
"Caro Cazzullo, ha suscitato scandalo il caso dei malati curati per terra nei locali del Pronto Soccorso dell’ospedale «Santa Maria della Pietà» di Nola, nel Napoletano. Ma che cosa avrebbero dovuto fare i medici? Piuttosto che rimandare a casa i pazienti, li hanno assistiti come meglio potevano. Qui la responsabilità è dei continui tagli alla sanità e ai servizi offerti sul territorio; è di chi, pur conoscendo la gravità della situazione denunciata due anni fa in Parlamento, non è intervenuto. Gabriele Salini".
Caro Salini, la situazione è grave. Le racconto la mia esperienza. La scorsa estate ho passato una notte al pronto soccorso di una piccola città. Non le dirò il nome perché, accanto a personale scostante e scortese, ho trovato persone gentili e competenti e non voglio che si offendano. Scene da girone dantesco, e non solo perché eravamo al terzo piano sotto terra. Bambini figli di extracomunitari che attendevano da ore urlando con arti fratturati a penzoloni. Anziani con l’influenza che erano lì dal mattino in attesa di essere visitati. Barelle ovunque. Bagni che non venivano puliti dai tempi del pentapartito. Il giorno dopo sono andato per un controllo in ospedale, nello stesso edificio. Al sesto piano fuori terra pareva di stare a Houston, in una delle cliniche dove vanno a farsi operare i miliardari: infermieri sorridenti, macchinari all’avanguardia, medici rilassati, nessuna coda, vista sul verde. Ma spostare un po’ di gente da un piano all’altro, e rivedere orari e investimenti?
Altro esempio: lunedì mattina il Frecciarossa Roma-Milano delle 11 è partito con 56 minuti di ritardo perché una passeggera si è sentita male. Ovviamente non la si poteva sbarcare sui binari, così i ferrovieri hanno avvisato la polizia che ha chiamato un’ambulanza. La risposta è stata che ambulanze – nel centro di Roma - non ce n’erano. La passeggera nel frattempo si è ripresa e ha accettato di partire; altrimenti il treno sarebbe rimasto fermo ancora, per lo sconcerto degli stranieri e la rassegnazione degli italiani. Ma pensare a un posto di prima assistenza, in una stazione dove passano migliaia di persone? O in stazione devono esserci solo negozi?
REATO DI ANZIANITA'. ADOTTABILITA' DEI FIGLI: NEGATA AGLI ANZIANI, MA PERMESSA A GAYS E LESBICHE.
Quando la Giustizia è ideologizzata. Se da una parte si nega il diritto alla maternità ed alla paternità per una coppia normale e regolare, dall'altra parte i giudici riconoscono lo stesso diritto ad una coppia di lesbiche.
Reato di anzianità, scrive Martedì 14 marzo 2017 Massimo Gramellini su “Il Corriere della Sera”. Da oggi in Italia esiste il reato di anzianità e la pena consiste nella sottrazione di un minore ai genitori biologici da parte della cosiddetta Giustizia. Una signora del Monferrato ha avuto il torto inemendabile di mettere al mondo sua figlia a 56 anni. Il marito ne ha dodici di più, ma i padri brizzolati non fanno scalpore: il problema è lei. Basta un episodio risibile - la bimba che rimane da sola in macchina qualche minuto, mentre i genitori scaricano le borse della spesa e le scaldano il biberon - per accendere il falò del pregiudizio. I vicini di casa sbirciano dalla finestra e denunciano, gli assistenti sociali prontamente intervengono. Come ha osato quella donna partorire a un’età simile? Deve essere perversa, degenere. La piccola viene data in affido e poi in adozione, nonostante una sentenza definitiva assolva i genitori dall’accusa di abbandono. Fino al capolavoro kafkiano di ieri. Chiamata a pronunciarsi sull’adottabilità della creatura, la Corte d’Appello riconosce che la madre e il padre non hanno fatto niente di male, eppure si rifiuta di restituire loro la figlia perché ormai sono passati sette anni e per lei si tratterebbe di un trauma. Ma quel tempo è trascorso per colpa dell’apparato burocratico, che prima ha sottratto senza motivo la bambina ai suoi genitori e poi ha tardato a riportarla a casa in nome di un pregiudizio legato all’anagrafe. Tutto questo nel Paese che non toglie la patria potestà ai mafiosi, si riempie la bocca con la sacralità della famiglia e tira avanti grazie all’impegno quotidiano di milioni di nonni. Saranno dichiarati fuorilegge anche loro?
La rabbia di Luigi e Gabriella: «Non ci permettono di darle il nostro amore». Nel Monferrato la battaglia legale era iniziata nel 2010, pochi giorni dopo la nascita. Lui ha 75 anni, lei 63. La coppia non ha contatti con la figlia da 4 anni: non ci arrendiamo, scrive Giusi Fasano, inviata a Mirabello il 13 marzo 2017 su "Libero Quotidiano". Gomiti puntati sulle ginocchia e testa bassa fra le mani. Luigi Deambrosis è seduto davanti alla porta di casa. Segue il filo di chissà quale pensiero fissando la punta dei suoi scarponi e nemmeno si accorge che c’è qualcuno al cancello. Sente chiamare il suo nome, alza gli occhi. «Mi spiace deluderla ma io non so più che cosa dire, a sto’ punto, mi creda. Non ci capisco più niente». Sono le tre del pomeriggio e quest’uomo disperato rimane immobile sotto il sole, scuote appena la testa, dice frasi lasciate a metà. «Stavolta ci avevamo sperato... Ma come si fa...».
Come si fa ad accettare che un bel giorno qualcuno venga a casa tua e ti porti via la bambina sognata e voluta da una vita? Se lo sono chiesti milioni di volte, lui e sua moglie Gabriella. «Non ci hanno lasciato il tempo di dimostrare che saremmo stati buoni genitori» ha ripetuto lei più volte da quando la sua bambina è stata dichiarata adottabile. Il tempo è sempre stato il loro nemico più feroce. È da quando la piccola è arrivata nelle loro vite che lo sentono pesare addosso, insopportabile. Sono anni che la Giustizia gli ricorda che il loro tempo non sta passando, sta finendo. Anni a sentirsi dire che, se la loro bambina tornasse a casa, il rischio sarebbe creare quel paradosso per cui sono i bimbi a occuparsi dei genitori.
«Ma i periti della corte d’Appello hanno detto che siamo a posto, che non abbiamo nessuna patologia, che non siamo due genitori indegni e che l’età non conta» prova a ragionare Luigi alzando la testa. «Conta l’amore che le avremmo dato» per dirla con vecchie parole di Gabriella che adesso non è a casa. Luigi non fissa più la punta dei suoi scarponi. Piange e guarda un pezzetto del suo giardino appena seminato. Ha degli ematomi fra il naso e l’occhio destro. «È una cosa da niente, mi sono fatto male lavorando in campagna» si giustifica, «tempo qualche giorno e passa tutto, e invece mi sa che quell’altro dolore non passerà mai».
L’altro dolore ha una faccina e una famiglia che Luigi e Gabriella non conoscono. Non sanno niente delle persone che stanno crescendo la loro figlia e non la vedono da più di quattro anni. «Noi siamo la mamma e il papà, capisce? Provi a immaginare che cosa significhi non vederla più...». Con gli occhi pieni di lacrime Luigi ribadisce che «anche la Cassazione ha detto che l’età non conta e che non siamo genitori indegni. Io non sono un avvocato e non so a questo punto che cosa si possa fare ma quello che so è che non tiriamo su nessuna bandiera bianca. Non ci arrenderemo neanche stavolta, ci mancherebbe altro». A Mirabello — era già successo in passato — sono schierati tutti con loro, ma è una magra consolazione: «Purtroppo lei sa meglio di me che questo non conta proprio niente». Sembra sfinito, Luigi. Le parole con il contagocce. Dice che «la notizia l’ho sentita alla radio», giura che «prima o poi ce la faremo» e ripete che non sa spiegarsi «perché ci hanno fatto di nuovo tutto questo». Non capisce perché, ieri, ancora una volta la Giustizia ha preso le loro speranze e le ha fatte a pezzi.
Torino, il giudice toglie la bimba ai genitori-nonni: "È adottabile, resterà con la sua nuova famiglia". Luigi Deambrosis e Gabriella Carsano "genitori nonni" di Casale Monferrato in tribunale a Torino con la loro avvocata. Ai coniugi di Casale Monferrato, 75 anni lui e 63 lei, la piccola era stata tolta nel 2010 a causa di una denuncia per abbandono poi rivelatasi infondata, scrive il 13 marzo 2017 "La Repubblica". La Corte d'Appello di Torino ha confermato lo stato di adottabilità della bimba che era stata allontanata dalla coppia di "genitori-nonni" di Casale Monferrato (Alessandria)(75 anni lui, 63 lei) a pochi mesi dalla nascita. I giudici hanno respinto il ricorso presentato dalla coppia: la bambina contesa, dunque, resterà con la famiglia adottiva. È stata accolta la tesi del procuratore speciale della piccola che, tre settimane fa, aveva chiesto. L'avvocato della coppia, Adriana Boscagli, intende impugnare il provvedimento: "Certamente la sentenza tiene conto dello stato attuale della bimba, che vive con un'altra famiglia e dell'eventuale trauma conseguente alla separazione, ma prima o poi bisognerà spiegarle che i suoi genitori sono altri e come mai è stata allontanata da loro" dice il legale, e annuncia: "Confidavamo in una Corte più coraggiosa - ha aggiunto il legale - che considerasse i genitori naturali come una coppia assolutamente in grado di prendersi cura della bambina. Ora faremo ricorso in Cassazione".
A Mirabello tutto il paese si schiera dalla parte dei genitori-nonni. "Il tribunale ha fatto una cavolata". È questo il commento unanime degli abitanti di Mirabello, il piccolo centro del Monferrato dove abitano i genitori-nonni, dopo la sentenza della Corte d'Appello di Torino di non revocare lo stato di adottabilità per la bimba che era stata allontanata dalla coppia a pochi mesi dalla nascita. È stato nel 2013, quando la Corte d'appello civile ha confermato il giudizio del tribunale, che la piccola è stata inserita in una famiglia adottiva, e sottratta per sempre alla coppia di Casale Monferrato. Mentre i Deambrosis lottavano da un tribunale all'altro per riaverla indietro, lei cresceva accudita da altri genitori che l'avevano legittimamente per effetto di un terzo procedimento giudiziario: una sentenza di adozione. Anche la Cassazione, in un primo momento, ha ritenuto valide le motivazioni dei giudici torinesi che avevano "tagliato il cordone". Il motivo? Si sarebbe scoperto dopo, a giugno 2016: quando, con un iter straordinario, l'avvocata Adriana Boscagli ha chiamato di nuovo in causa la Suprema corte in un ricorso per revocazione, riuscendo a ottenere il ribaltamento della sentenza. La sua idea, poi confermata dai giudici, era che alla base di tutte le precedenti sentenze c'era stato un errore: quell'originaria accusa di abbandono della bambina da parte del papà, che invece è stato assolto in tutti e tre i gradi di giudizio perché di sette minuti di "abbandono" si era trattato, in realtà. Giusto il tempo di prepararle il biberon. "Andavamo e venivamo tra l'auto e l'appartamento, la tenevamo costantemente d'occhio: è stata nel seggiolino 7 minuti, il tempo di scaldarle il latte " aveva spiegato Deambrosis. Non solo. Secondo la Cassazione, che aveva disposto il nuovo processo d'appello, tutte le sentenze precedenti avevano sullo sfondo un pregiudizio riguardo all'età di Luigi e Gabriella, che non a caso sono stati ribattezzati dall'opinione pubblica "genitori nonni". Lui adesso ha 75 anni e lei 63. Quando è nata la figlia ne avevano 69 e 57. E c'è chi sostiene che già in ospedale, dopo il parto, fossero stati allertati i servizi sociali per la questione dell'età. Ma la legge non prevede limiti "per chi intende generare un figlio" ha scritto la Cassazione. Ora si attendono le motivazioni: che, come aveva specificato la Suprema Corte, non potranno tenere conto né dell'età avanzata dei due genitori, né della vicenda di "abbandono" poi finita in un nulla di fatto.
Bimba tolta ai genitori-nonni, lo psicologo: 'Un giorno dovrà conoscere tutta la sua storia". "La bambina ormai da parecchi anni sta con la famiglia affidataria. Sarebbe problematico tornare indietro". Questa l'opinione di Massimo Ammaniti, professore di psicopatologia dell'età evolutiva, in merito alla decisione della Corte d'Appello di Torino che ha confermato l'adottabilità della bambina nata dalla coppia di "genitori-nonni" di Casale Monferrato (75 anni lui, 63 lei). Ma lo psicologo aggiunge: "Bisognerebbe trovare una soluzione che faccia coesistere i genitori biologici con quelli affidatari o adottivi. E poi un giorno va ricostituita la verità storica della sua nascita, la figlia dovrà conoscere i suoi genitori biologici". A monte di tutta questa vicenda, un allontanamento della piccola dalla famiglia di origine in seguito a una denuncia di abbandono dalla quale madre e padre biologici furono pienamente assolti". Intervista di Giulia Santerini.
Genitori-nonni, Melita Cavallo: ''Giudicati inadatti all'adozione già prima della nascita della bimba''. L'età dei "genitori-nonni" di Casale Monferrato nella storia della loro bimba data in affido a un'altra famiglia c'entra relativamente. Così la pensa l'ex Presidente del Tribunale dei Minori di Roma, Milano e Napoli Melita Cavallo. Che ricorda: "La coppia era stata giudicata inadatta all'adozione nazionale e internazionale. Poi la donna a 57 anni praticò l'inseminazione artificiale eterologa, che ai tempi era vietata per legge. Il rapporto madre figlia venne messo sotto osservazione a lungo in ospedale. E solo in seguito ci fu l'elemento scatenante dell'allontanamento della piccola per la denuncia per abbandono di minore a 18 giorni di vita". Accusa dalla quale i genitori vennero pienamente assolti. Spiega Cavallo: "I giudici dei minori devono guardare all'interesse del bambino anche a costo di causare un grande dolore agli adulti". Intervista di Giulia Santerini.
Se da una parte si nega il diritto alla maternità ed alla paternità per una coppia normale e regolare, dall'altra parte i giudici riconoscono lo stesso diritto ad una coppia di lesbiche.
Roma, Tribunale riconosce stepchild adoption a coppia di donne. Le due mamme romane hanno avuto una bambina grazie alla fecondazione eterologa, scrive il 13 marzo 2017 "La Repubblica". Una nuova sentenza del Tribunale civile di Roma ha riconosciuto la stepchild adoption per una coppia di mamme romane che hanno avuto una figlia grazie alla fecondazione eterologa. La vicenda riguarda una coppia di donne, una giornalista e una scrittrice, che hanno avuto una figlia grazie alla fecondazione eterologa. "Vivevo nel terrore, senza esagerazioni, che mi potesse accadere qualcosa o che potesse accadere qualcosa a nostra figlia. Vivevo nel terrore di non essere in grado di fare nulla: adesso con questa sentenza per quanto non si tratti di un'adozione piena, per quanto si sia dovuto ricorrere ad avvocati e tribunali per veder riconosciuto un diritto fondamentale, adesso, dopo quasi quattro anni, posso finalmente respirare". E' quanto afferma la giornalista di Repubblica Rory Cappelli, mamma non biologica ma riconosciuta oggi grazie alla sentenza del Tribunale civile di Roma, in un comunicato dell'associazione Famiglie Arcobaleno. "La bambina che ho cullato, consolato, che ho visto crescere, che ha imparato a parlare anche insieme a me, che ho curato quand'era malata, che mi ha fatto commuovere perché con le sue manine mi faceva una carezza, la bambina che mi ha sempre chiamato mamma, adesso la mamma, l'altra mamma, ce l'ha per davvero, anche per lo Stato. Potrò stracciare la delega che mi permette di andare a prenderla a scuola. Potrò rifare i documenti, metterci anche il mio nome e partire con lei. Potrò esserle accanto senza che nessuno si possa domandare chi sono".
Adozioni gay, nuovo ok dal tribunale di Roma a una coppia di donne. Il tribunale civile di Roma riconosce la stepchild adoption ad una coppia di donne gay. La bambina nata con la fecondazione eterologa avrà due mamme, scrive Alessandra Benignetti, Lunedì 13/03/2017, su "Il Giornale". Dopo la sentenza del tribunale dei minori di Firenze, che la scorsa settimana ha riconosciuto nell’interesse dei minori l’adozione di due bambini da parte di una coppia di uomini gay, oggi il tribunale civile di Roma ha riconosciuto la "stepchild adoption", ovvero l’adozione del figlio del partner, ad una coppia di donne. Le due donne, una giornalista ed una scrittrice, entrambe romane, hanno avuto una figlia attraverso la fecondazione eterologa ed oggi i giudici del tribunale civile di Roma hanno stabilito che la piccola potrà avere due mamme, riconoscendo anche la mamma non biologica come genitore della bambina. Si tratta della “prima sentenza della Corte di Appello passata in giudicato senza che vi siano stati ricorsi dalla procura”, ha specificato in una nota l’associazione Famiglie Arcobaleno, che definisce la sentenza “un nuovo passo in avanti”.
“Con questa sentenza, per quanto non si tratti di un'adozione piena, per quanto si sia dovuto ricorrere ad avvocati e tribunali per veder riconosciuto un diritto fondamentale, adesso, dopo quasi quattro anni, posso finalmente respirare”, ha commentato Rory Cappelli, giornalista e compagna della madre biologica della bimba, “la bambina che ho cullato, consolato, che ho visto crescere, che ha imparato a parlare anche insieme a me, che ho curato quand'era malata, che mi ha fatto commuovere perché con le sue manine mi faceva una carezza, la bambina che mi ha sempre chiamato mamma, adesso la mamma, l'altra mamma, ce l'ha per davvero, anche per lo Stato”. Dopo la sentenza del tribunale dei minori di Firenze, però, ancora una volta i giudici hanno sostituito il legislatore. La "stepchild adoption", non è, infatti, contemplata nella legge sulle Unioni Civili approvata lo scorso maggio e attualmente non esiste in Italia una legge sulle adozioni gay. Il 29 marzo dello scorso anno è stato depositato al Senato un disegno di legge sulla stepchild adoption, dal titolo “Norme per l'adozione coparentale” a firma del senatore PD, Luigi Manconi. Il testo del ddl, secondo quanto riporta l’Ansa, prevede “la piena parificazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso alle coppie unite in matrimonio in punto di adozione coparentale” e una più ampia “revisione della normativa sulle adozioni”. Ma sul testo del disegno di legge, fermo dallo scorso maggio in commissione Giustizia al Senato, non è stato ancora avviato l’esame.
Le mamme quarantenni e la solitudine dei figli unici. In passato le famiglie numerose erano una comunità di soccorso, scrive Francesco Alberoni, Domenica 12/03/2017, su "Il Giornale". Le donne avevano il primo figlio già a diciotto anni e molti altri dopo, per cui, cresciuti, i ragazzi avevano dei fratelli e delle sorelle. Avevano poi degli zii e dei cugini. Sebbene in questa comunità parentale ci potessero essere degli screzi e dei dissapori essa costituiva un'area di soccorso. Anche se eri malato, se non avevi lavoro, c'era sempre un tuo fratello o una tua sorella o un tuo cugino che correva in aiuto, ti assisteva. Nel linguaggio corrente è il fratello colui che ti sta più vicino, colui su cui puoi sempre contare. Ancor oggi diciamo «mi ama come un fratello». La grande famiglia poteva essere povera, ma ti proteggeva contro le avversità del mondo esterno. Ma oggi, con il crollo delle nascite, sono poche le famiglie in cui ci saranno dei fratelli. Ci sono solo figli unici che vedono i loro compagni a scuola o al circolo sportivo ma poi a casa sono soli e dipendenti dai genitori. Dopo i vent'anni molti si innamorano e spesso questo potrebbe essere il vero grande amore della loro vita. Ma non sempre va bene. Alcuni sono impegnati nello studio, altri negli stage e nella carriera; altri, soprattutto i maschi, non vogliono ancora legami ma continuare la loro vita adolescenziale. Così spesso questo amore non riesce a sbocciare in tutto il suo splendore e non genera una stabile coppia amorosa che desidera un figlio. Ci sono molte separazioni precoci e molte donne deluse perché non hanno realizzato quello che sognavano, e a trent'anni non sono sicure di volere dei figli. Lo decideranno a quaranta e sarà un figlio unico. Ma la vita di questi figli unici, quando i loro genitori invecchieranno e avranno bisogno di aiuto, sarà triste. E sarà ancor peggio quando invecchieranno loro perché non avranno nemmeno un fratello che li va a trovare. Già adesso le case sono piene di costose badanti, ma un giorno saranno troppe e non ci sarà più il denaro per mantenerle. Saranno fortunate le coppie che avranno un figlio e un nipote e soprattutto quelle che avranno saputo tener acceso fra loro una scintilla dell'amore e dell'innamoramento, vincendo il pregiudizio che l'invecchiamento sia la morte dei sensi e dell'amore.
GENITORIALITA' MALATA.
Padri e separati: la «guerra» dei figli. Molte leggi sono cambiate, anche se l’Italia resta un Paese arretrato. Ma c’è chi prova a rompere la regola che vuole i bambini «proprietà» delle mamme, scrivono Martina Pennisi e Maria Silvia Sacchi il 2 luglio 2017 su "Il Corriere della Sera”. Sale sull’autobus con il passeggino e lo infila con manovra svelta nell’apposito spazio dedicato. Dopo, è un continuo di «eh», risolini, rimandi tra il padre e la bambina nel passeggino. Se c’è una cosa che si vede a occhio nudo a Londra è la quantità di padri che si occupano dei propri figli. Di qualunque nazionalità o religione siano. «Mia moglie è stata chiara — dice un imprenditore italiano sposato con una inglese –. Mi ha detto subito che dei figli mi sarei dovuto occupare anche io esattamente come lei». Ne hanno tre e adesso che si sono separati, e lui è tornato in Italia, fa continuamente Milano-Londra per occuparsi, appunto, dei figli. Anche perché, racconta un altro padre italiano, «qui molti hanno un lavoro flessibile o comunque si esce presto dall’ufficio». Londra non è la panacea del mondo e non è nemmeno rappresentativa di un intero Paese così come tutte le grandi metropoli e come ha dimostrato il voto su Brexit. Ma certo fa effetto vedere così tanti uomini camminare con neonati nel marsupio, spingere carrozzine, dare biberon. E senza che ci sia la madre a fianco a controllare “le manovre”. A Milano qualcosa si muove, eppure sul tema padri-figli in caso di separazione siamo ancora lontani. Non che qualcuno non ci provi. E se ci prova vive su di sé il pregiudizio che vuole i figli delle mamme. È guardato «strano»: dagli avvocati, dagli assistenti sociali, dai giudici. «Mi serve sempre almeno un’ora per giustificarmi e convincere gli interlocutori che voglio continuare a occuparmi di mia figlia perché l’ho sempre fatto, non per ripicca nei confronti della mia ex, e che il tempo che mi sarà concesso sarà sicuramente meno di quello che le ho dedicato quotidianamente durante il mio matrimonio», racconta un padre 39enne che si sta separando nel capoluogo lombardo. Non dimentichiamo che nel 2013 questa tendenza ad adottare misure automatiche in favore della madre sono costate all’Italia una condanna dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Una delle dieci negli ultimi sei anni per violazione del diritto alla bigenitorialità. Il Paese si trova in mezzo a una transizione profonda e non si sa se andrà avanti o tornerà indietro. Molte leggi sono cambiate negli ultimissimi anni. Sulla spinta delle prime associazioni dei padri separati, come «Crescere Insieme» fondata da Marino Maglietta, è stata introdotta la norma che ha previsto come regola l’affidamento condiviso dei figli a entrambi i genitori perché non perdessero il sacrosanto rapporto con il genitore che usciva di casa; anche se poi dovendo dare a questi figli/e una residenza quest’ultima continua a essere soprattutto quella della madre e il sistema di mantenimento degli stessi quello dell’assegno mensile (l’Istat dice che continuano a pagarlo i padri con poche variazioni: dal 93,9 per cento del 2007 al 94,1 per cento del 2015). Nel nostro Paese sono state, inoltre, accelerate le procedure di separazione-divorzio (2015) e previste forme alternative ai giudici: ci si può separare e divorziare con la sola assistenza dell’avvocato o direttamente in Comune (2014). Lo si è fatto per “disingolfare” la giustizia, oberata da cause su cause. Il punto è che i genitori italiani separati/divorziati hanno finito per delegare ai giudici ogni decisione, abdicando alla loro funzione primaria: quella di essere genitori, appunto. Lo conferma il procuratore presso il Tribunale per i minorenni di Milano Circo Cascone: «Il giudice, i servizi sociali, i consulenti devono agire in via residuale: quando i genitori scelgono di non decidere per i loro figli e danno sfogo al conflitto e quindi al processo. Sono loro a scegliere la macchina risolutiva del conflitto che poi criticano per le decisioni che emette. Basterebbe allora scegliere di comporre la lite con un accordo avvalendosi della mediazione familiare o della negoziazione assistita. Ma questo avviene raramente». Cascone chiosa, centrando uno degli aspetti più delicati: «Una cultura della mediazione probabilmente è quello che manca ancora oggi nei genitori che litigano». Se manca, sono i giudici a iniziare a fare da sbarramento. A Milano, ai due genitori che non riuscivano a mettersi d’accordo sulle vacanze, la sezione Famiglia, guidata da Anna Cattaneo, ha fissato l’udienza per discutere il ricorso dopo le vacanze, costringendo i due a mettersi d’accordo da soli. A Catania il giudice Felice Lima è andato oltre: ha deciso la stabile collocazione del figlio (ovvero nella casa di chi il figlio dovesse avere la residenza principale) presso il padre, anziché la madre, nonostante fossero entrambi adatti. Secondo Lima, dando maggiori responsabilità ai padri si otterrebbe una diminuzione del numero di «padri disimpegnati» e di «madri proprietarie». In sostanza: ai padri ed ex coniugi (italiani) va concesso più spazio anche per educarli alle conseguenze relazionali, economiche e professionali che comporta crescere in casa, da soli, i figli. «Ci si prende a bambinate», è stato detto durante l’incontro organizzato in Tribunale a Milano dal Centro per la riforma del diritto di famiglia. Effettivamente è emerso che l’intero sistema che ruota alla famiglia sta scadendo di qualità. Tutti parlano del diritto dei bambini e delle bambine, ma nella pratica tutti cercano di far vincere il proprio cliente. E questa è parte importantissima del problema della crisi della famiglia in Italia. Manca la legge più importante, quella dei patti prematrimoniali: la possibilità di decidere, quando ci si sposa, quali saranno le condizioni del divorzio. Senza questa legge l’Italia è nella situazione di avere una famiglia che parte con una certa logica (quella basata sulla comunione dei beni, ancorché la maggioranza scelga il regime della separazione dei beni) e una fine in cui è come se non ci si fosse mai visti prima. Lo dimostra la cosiddetta «sentenza Grilli», emessa dalla Corte di Cassazione, secondo la quale nel determinare l’assegno di mantenimento all’ex coniuge non si deve più tener conto del «tenore di vita» goduto durante il matrimonio. Molti, anche molte donne, hanno detto che spingerà le mogli all’autonomia. «La verità – dice Anna Danovi, avvocata matrimonialista e presidente del Centro per la riforma del diritto di famiglia – è che si chiede a donne ampiamente adulte che hanno lasciato il lavoro e la propria carriera per seguire la famiglia di rimettersi sul mercato del lavoro. Cosa trovano a quell’età? Una mia cliente di 50 anni, con tre figli, che ha lasciato tutto d’accordo con il marito, non ha trovato altro che mettersi a dare ripetizioni private». Nel frattempo, però, il marito grazie al fatto che la moglie si occupava dei figli ha potuto fare una carriera brillante. Ed è qui che l’avvocata vedere una differenza nei padri. «Le donne chiedono che gli uomini si facciano carico dei figli, ma quando il padre è un uomo che ha un lavoro che lo impegna 10 ore al giorno difficilmente accetta di farsi carico dei figli. Anche se magari a parole lo dice». Perché alla fine un punto centrale sta proprio lì. Se si vive per il lavoro, non si può vivere per gli affetti. E qualcuno dei figli si deve occupare.
Denunce, visite, pianti: storia di un bimbo «usato» come arma tra mamma e papà. Il ragazzino soffre di disturbi psicologici a causa dello scontro decennale tra i genitori. Per i giudici entrambi sono inadatti a seguire il figlio e dargli le cure necessarie, scrive Elena Tebano l'11 gennaio 2017 su "Il Corriere della Sera". Dieci anni sono molti per un adulto, sono un tempo infinito nella vita di un bambino. Tanti ne sono passati da quando Marco, che ne ha solo 13 (il nome è di fantasia), è finito al centro della guerra tra i suoi genitori, «usato come strumento del conflitto di coppia», scrivono i giudici del Tribunale dei minori di Venezia nel decreto che a fine novembre ne ha disposto l’allontanamento dalla madre, dopo che già poteva vedere il padre solo con gli assistenti sociali. Non perché sarebbe troppo effeminato (come sostiene l’avvocato della madre appigliandosi a un infelice passaggio del dispositivo), ma perché Marco non sta bene. In una vicenda in cui l’esistenza di questo bambino è diventata campo di battaglia, è l’unica cosa su cui tutti sono d’accordo: giudici, psicologi, avvocati, famiglia. Intanto il tempo passa e le condizioni psicologiche di Marco — si legge ancora negli atti — peggiorano. In principio di questa storia, c’è una separazione apparentemente come tante, nel Padovano: i genitori di Marco smettono di convivere nel febbraio del 2007. Marco sta con la madre, Monia Gambarotto, consulente amministrativa di 43 anni, e va a trovare il padre accompagnato dalla sorella più grande, di 11 anni, nata da una precedente relazione della donna. Presto però arriva un sospetto pesantissimo: ad agosto 2007 Gambarotto denuncia l’ex compagno, che all’epoca ha 35 anni, per molestie nei confronti della figlia. Il bimbo prosegue le visite da solo. A novembre una nuova denuncia: per abusi fisici e sessuali, questa volta nei confronti di Marco (lo avrebbe toccato impropriamente). Sia quella riguardante la figlia che quella riguardante il bambino vengono archiviate. Nell’agosto 2008 Gambarotto denuncia ancora l’ex, portando nuovi elementi. A febbraio 2012 viene rinviato a giudizio con l’accusa di aver costretto il figlio ad atti sessuali. Su quanto è successo non c’è ancora una verità giudiziaria definitiva: nel novembre del 2014 il Tribunale di Padova ha assolto l’uomo perché il fatto non sussiste, ritenendo che le ripetute testimonianze del bambino possano essere «state in qualche misura influenzate dal desiderio di compiacere l’interlocutore adulto di riferimento (nel caso di specie la madre) e di adeguarsi alle sue aspettative», ma il pm Emma Ferrero ha fatto appello nel gennaio successivo, convinta che i giudici abbiano sbagliato a non considerare attendibili i racconti di Marco. Il procedimento andrà avanti. La guerra tra i genitori anche. Nelle parole degli adulti si intravede a stento il profilo di questo bambino fragile. Dagli atti emerge la sua sofferenza per le visite al padre, un bimbo che (si legge in una testimonianza di un’amica della mamma) «al rientro» è «sconvolto, piangeva, si abbracciava alla mamma, non parlava più con nessuno», i tentativi sempre più disperati di sottrarsi ai colloqui protetti presso i servizi sociali, i pomeriggi in comunità e le difficoltà crescenti a scuola. «Nell’agosto 2011 presso gli uffici del Servizio sociale veniva tirato fuori dall’auto dalla dottoressa, mentre lui si aggrappava con forza ai sedili perché non voleva vedere il padre», si legge nella memoria conclusiva presentata a luglio dall’avvocato Francesco Miraglia (legale della madre) per chiedere la sospensione degli incontri tra Marco e il padre. È una scena che ricorda quella terribile avvenuta poco lontano da casa di Marco nel 2012, a Cittadella, quando un altro bambino conteso venne prelevato a forza dalla polizia che doveva eseguire l’ordine di allontanamento dalla madre. L’epilogo (parziale) è triste per tutti: il decreto con cui il Tribunale di Venezia ritiene entrambi i genitori inadatti a seguire Marco nel percorso terapeutico di cui ha bisogno. Ci sono scritte parole durissime sulle condizioni del bambino. La madre, che adesso si mostra in tv (ed è pronta «a correre il rischio di renderlo riconoscibile per impedire che lo portino via») quando l’ha ricevuto l’ha fatto leggere al bambino, perché — si è giustificata — «è grande abbastanza per sapere quello che succede».
"Troppo effeminato", tredicenne tolto alla madre. E a Padova scoppia la polemica. Il Tribunale dei Minori allontana il ragazzino dalla famiglia perché "è diverso e ostenta atteggiamenti in modo provocatorio". Una storia di abusi e disagio in cui la vittima è sempre l'adolescente, scrive Enrico Ferro il 10 gennaio 2017 su "La Repubblica". "Tende in tutti i modi ad affermare che è diverso e ostenta atteggiamenti effeminati in modo provocatorio". Parole con cui il Tribunale dei Minori definisce il comportamento di un ragazzino di 13 anni della provincia di Padova. Parole che incidono pesantemente sulla sua vita perché ora quell'adolescente non potrà più stare con la sua mamma. L'atteggiamento 'ambiguo', secondo la relazione dei Servizi sociali, sarebbe dovuto al fatto che "il suo mondo affettivo risulta legato quasi esclusivamente a figure femminili e la relazione con la madre appare connotata da aspetti di dipendenza, soprattutto riferendosi a relazioni diadiche con conseguente difficoltà di identificazione sessuale". La notizia è stata pubblicata dal "Mattino di Padova". Secondo il quotidiano, in alcune occasioni il ragazzo era andato a scuola con gli occhi truccati, lo smalto sulle unghie e brillantini sul viso, contestano nella relazione che ha generato il decreto di allontanamento dal nucleo familiare. Ma la madre ribatte, sostenendo che si trattava di una festa di Halloween. Il disagio in questa famiglia parte da lontano. C'è un'accusa di abusi sessuali da parte del padre. Il processo si conclude con un'assoluzione per l’uomo, anche se nella sentenza si dice che "non c’è motivo di dubitare dei fatti raccontati dal bambino". Tutto e il contrario di tutto, in una girandola di accuse in cui la vittima è sempre una: lui, con i suoi 13 anni. Da quei presunti abusi sessuali scaturisce il primo affidamento a una comunità diurna, dalle 7 alle 19. I responsabili della struttura notano gli atteggiamenti effeminati del ragazzino, li segnalano ai servizi sociali e così prende corpo un secondo provvedimento dei giudici. Quello del definitivo allontanamento dalla madre. "Trovo scandalosa la decisione di allontanare un ragazzino solo per l'atteggiamento effeminato", dice l’avvocato Francesco Miraglia, specializzato in diritto di famiglia. "Mi sembra un provvedimento di pura discriminazione". La decisione del Tribunale dei Minori è stata impugnata dal legale che annuncia battaglia.
«Quel 13enne sembra femmina: toglietelo alla madre», scrive Simona Musco l'11 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Allontanato dalla madre e dal padre per «segnali di disagio psichico», tra i quali «difficoltà di identificazione sessuale». Luca – il nome è di fantasia -, 13 anni, il 24 novembre scorso è finito nel decreto di un giudice del tribunale dei minori di Venezia, che per risolvere il «disturbo della personalità» che lo affligge, far fronte alla «necessità di metterlo in contatto con i propri desideri» e avviare un percorso di revisione del suo mondo interno, ha deciso di interrompere temporaneamente i rapporti coi genitori. Decaduta la patria potestà, almeno temporaneamente. Perché Luca, secondo gli assistenti sociali che già lo hanno preso in carico sarebbe aggressivo e maleducato, bugiardo e provocatorio. Ma il problema più grave, a sentire gli assistenti sociali, sarebbe un altro: Luca «ostenta atteggiamenti effeminati» e ha «difficoltà di identificazione sessuale» legate al rapporto di dipendenza con la madre. La storia è delicata e articolata. Ma Francesco Miraglia, il legale esperto di diritto di famiglia che segue la madre di Luca, parla di «rischio discriminazione». Arrivare in una casa famiglia, un ambiente molto delicato e difficile, col marchio di omosessuale, infatti, potrebbe compromettere ulteriormente l’equilibrio di un ragazzino conteso tra due genitori che, più volte, si sono sfidati in tribunale. Il decreto del tribunale dei minori parte da qui: il padre di Luca vuole riavere suo figlio. E la madre non vuole lasciarlo andare. In mezzo c’è il pubblico ministero, che ha chiesto – e ottenuto – il collocamento del tredicenne in una struttura residenziale idonea, che sarà compito dei servizi sociali individuare, il decadimento della patria potestà da parte di entrambi i genitori e l’incontro con gli stessi in modalità protetta. Luca, dal 2007, vive solo con la madre. Gli incontri col padre sono stati sospesi da un anno e mezzo, dopo la denuncia sporta dalla donna contro di lui per una pesante accusa: maltrattamenti e abusi ai danni del figlio. Il procedimento a carico dell’uomo, però, si è chiuso con un’archiviazione, essendo emersa, da una perizia disposta dal gip, «l’incapacità del bambino a rendere testimonianza a causa di un vero e proprio blocco emotivo rispetto alla tematica del padre». Insomma, non è stato possibile accertare fino in fondo se le accuse fossero fondate o un’invenzione. Luca, infatti, non riesce a dire com’è andata. Il tribunale dei minori ha quindi disposto un percorso di ripresa graduale dei rapporti tra il padre e il figlio, guidato dai servizi sociali, e un sostegno che consentisse ai genitori di rapportarsi tra loro nell’interesse del bambino. Ma per il giudice ciò non è avvenuto, anzi il bambino sarebbe stato usato come «strumento del conflitto di coppia». Il ragazzino era stato così affidato ai servizi sociali per le attività scolastiche e ricreative. Dalle 7 alle 19 sono gli assistenti sociali a vigilare su di lui, a farlo studiare e relazionare con i coetanei. Ma dall’analisi effettuata dagli esperti in quel contesto sarebbero emersi i problemi del ragazzino. Luca, appunta il tribunale riferendosi alla relazione tecnica, «presentava problematiche relazionali profonde e segnali di disagio psichico», come aspetti regressivi e aggressivi. Violento, irascibile, in opposizione con tutti. Ma, soprattutto, «il suo mondo affettivo risultava legato quasi esclusivamente a figure femminili e la relazione con la madre appariva connotata da aspetti di dipendenza, soprattutto riferendosi a relazioni diadiche con conseguente difficoltà di identificazione sessuale – si legge -, tanto che in alcune occasioni era andato a scuola con gli occhi truccati, lo smalto sulle unghie o brillantini sul viso». Una festa di Halloween in terza elementare, ha chiarito la madre. Ma la storia travagliata di questo ragazzo è andata avanti così. Il bambino, nel 2014, è stato infatti inserito in un gruppo famiglia, per consentire «l’intervento psicoterapico ed educativo». Le denunce non mancano nemmeno in questo caso: la madre di Luca, infatti, ha denunciato per percosse il responsabile della comunità diurna. E ha poi denunciato, nuovamente, il padre per abusi sessuali sul figlio. Un padre passivo, dice il tribunale, e una madre che in alcun modo si sente responsabile della situazione. Il percorso di recupero, per il tribunale, è dunque fallito per colpa dei genitori. In mezzo ci sta Luca, conteso e statalizzato. Destinato, forse, ad arricchire l’esercito dei bambini rapiti dallo Stato.
FILIAZIONE MALATA.
Mentre Manuel li colpiva nel letto, loro chiamavano il figlio Riccardo. L’interrogatorio dei due amici: «Abbiamo deciso di ucciderli il giorno prima». Vincelli e la moglie Nunzia non sono stati colti nel sonno: si sono svegliati quando Manuel è entrato in camera impugnando l’ascia con cui li ha uccisi, o forse non erano addormentati, scrive Giusi Fasano il 13 gennaio 2017 su "Il Corriere della Sera". Dopo l’interrogatorio per la convalida del fermo, venerdì, ecco altri dettagli dalla notte dell’orrore. Salvatore Vincelli e sua moglie Nunzia non sono stati colti nel sonno — come si era pensato inizialmente — dalla furia omicida di Manuel. Si sono svegliati quando lui è entrato nella camera da letto impugnando l’ascia con la quale li ha uccisi, o forse non si erano ancora addormentati. Hanno fatto appena in tempo a capire che quelli erano i loro ultimi istanti di respiro, hanno guardato quel ragazzino che avevano visto crescere mentre saltava sul letto, mentre alzava le braccia per colpirli, e hanno urlato una sola parola: il nome del loro figlio, Riccardo. Lo chiamavano, speravano nel suo aiuto. E invece lui, Riccardo, si era accordato con Manuel aprendogli la porta di casa: «Io ti aspetto qui. Tu li uccidi e quando hai fatto mi chiami». «Qui» era la sua stanza-rifugio ricavata da un garage proprio dietro la villetta della strage, a Pontelangorino, frazione di Codigoro, angolo sperduto del Ferrarese alle spalle del Delta del Po. Manuel ha eseguito. Li ha colpiti in testa: tre volte lui, sei volte lei. Poi è andato dall’amico di sempre. «Fatto». Avevano comprato dei sacchetti neri della spazzatura, Manuel e Riccardo, perché avevano progettato di liberarsi dei corpi di Salvatore e Nunzia buttandoli in un canale con delle pietre al collo e Riccardo aveva detto a Manuel che lui avrebbe aiutato a trasportarli, sì, «ma non voglio guardarli in faccia». È difficile perfino immaginarli mentre l’uno lega i sacchetti sulla testa sfondata dei due poveretti e l’altro, il loro figlio, lo aspetta nella stanza accanto. Al giudice delle indagini preliminari Luigi Martello, che venerdì ha interrogato tutti e due e ha poi convalidato il fermo per entrambi, hanno risposto con spiegazioni disarmanti. Qualche esempio. «Perché hai accettato di ucciderli?», «Perché Riccardo è un amico, mi ha chiesto di aiutarlo e io l’ho aiutato. Lui è uno che non ha mai fatto male a nessuno e allora l’ha chiesto a me». «Da quando stavate pensando di farlo?», «Dal pomeriggio del giorno prima». Quel pomeriggio Riccardo ha detto a Manuel di aver avuto l’ennesima discussione per la scuola che andava male, di non poterne più di mamma e papà, che voleva farli fuori perché non sopportava più tutte le loro imposizioni. Probabilmente ci pensava da tempo. «Ma scherzi o lo dici davvero?» ha chiesto Manuel. «Non scherzo per niente». E allora eccoli al super a comprare i sacchetti, a studiare un minimo di piano d’azione, ad aspettare che fosse notte per provare a sorprendere le vittime nel sonno. Nella ricostruzione fatta fin qui, i soldi promessi o dati da Riccardo a Manuel restano sullo sfondo, non sembra che siano stati la molla del massacro. E anche il movente: nessuna causa scatenante precisa. «Perché ucciderli?», ha chiesto il gip. «Perché mi sgridavano sempre» ha risposto Riccardo. «Litigavamo di continuo per la scuola, volevano che tornassi a casa entro certi orari, mi dicevano che se avessi continuato a non combinare niente nella vita a 18 anni mi avrebbero cacciato di casa...». Altra domanda: «Perché hai chiesto a Manuel?» «Perché io non ne sarei stato capace». Nella sua ordinanza di custodia il gip accoglie l’ipotesi del pubblico ministero della Procura dei minori Silvia Marzocchi, cioè la necessità del carcere perché, aveva scritto il pm nel provvedimento di fermo, «considerato ciò che hanno mostrato di saper fare» è possibile per entrambi la reiterazione del reato. Potrebbero tornare a uccidere data la «disinvoltura e la facilità» con le quali hanno commesso il duplice omicidio.
Omicidio Ferrara, i videogame, il bar e gli spinelli. Così hanno preparato il delitto. Manuel e Riccardo, i due killer di Ferrara, vivevano la loro vita tra il bar della piazza, la console e i giri in scooter. Nel loro futuro nessun progetto di vita o di lavoro, scrive Gabriele Bertocchi, Venerdì 13/01/2017, su "Il Giornale". I videogiochi, il bar del Paese, i giri in scooter. E ancora, le partite di calcetto, le sigarette e la scuola. Si riassume così la vita di Manuel Sartori e Riccardo Vincelli, i due killer di Ferrara che hanno ucciso i coniugi Vincelli, madre e padre di Riccardo. Una vita vissuta sempre insieme, trascinandosi l'un l'altro. Una vita divisa tra videogame e spinelli. Le giornate dei due scorrevano nello schermo di un televisore: i videogiochi erano il loro massimo divertimento. La scuola veniva saltata per passare ore con il joystick in mano, e la notte capitava che non si dormisse per giocare ai videogame. A pochi metri dalla casa del massacro, un altro luogo di svago dei due assassini: il Club One. Un bar di paese come ne esistono ovunque. Qui li ricordano tutti tra partite di calcetto, giri al centro commerciale di Comacchio e il sigarette consumate discutendo in piazza. Riccardo era appassionato di sigarette elettroniche e non. "Lo vedevi seduto qui magari per un pomeriggio intero a chiacchierare e fumare, quasi sempre Manuel era con lui", racconta un ragazzino intervistato da Il Corriere. Poi c'erano le serate in discoteca, poche, per di più divise tra l'Ipanema d’estate e il Caprice d'inverno. Qui il tempo si divideva tra la pista da ballo e le fotografie da postare sui social network, con un superalcolico in mano o con qualche ragazza. Nella loro adolescenza, Manuel, a differenza di Riccardo, ci sapeva fare con le coetanee, Riccardo secondo tutti era più timido e insicuro. Le ex fidanzate e le amichette non commentano, ma qualche compagno di scuola però parla del loro rapporto con la droga. Gli spinelli, per entrambi, era all'ordine del giorno, e lo confermano anche le analisi fatte dopo l'arresto. Non solo, Riccardo si vantava di aver sniffato cocaina: "Mi ha fatto sentire potente", avrebbe confessato nel solito bar. Divertimento, svago e poca scuola. Per non parlare del lavoro. Nelle giornate dei due amichetti c'era spazio per tutto. Il telefonino, le chat e qualche discussione con gli altri amici. Una vita destinata al nulla più assoluto. I loro genitori ci avevano provato a metterli in riga, gli insegnanti anche. Ma non c'era nulla da fare. Nessun progetto di vita o aspirazione lavorativa. L'unico piano che i due coltivavano era quello di uccidere i genitori di Riccardo.
Ristoratori uccisi dal figlio, l'ex fidanzatina dell'omicida: "Teneva più al cane che a me". "Da lui mai un regalo. Non era aggressivo ma stava chiuso in camera per ore". Parlano le ragazze che di recente hanno frequentato il sedicenne Vencelli e l'amico, scrive Brunella Giovara il 14 gennaio 2017 su "La Repubblica". La villetta in cui è avvenuto il duplice omicidio (ansa)CODIGORO (Ferrara) - Una lacrima sul viso di Silvia, che ha solo 13 anni e l'altro giorno ha scoperto di aver amato, anche se la parola può sembrare enorme, un ragazzo che ha deciso di ammazzare i genitori, assieme a un amico. E i due l'hanno fatto davvero. Perciò Silvia piange, mentre ascolta la canzone che "lui mi aveva mandato questa estate. Me l'aveva dedicata. Ascoltala, è dolce". "Tra tutte le persone solo tu mi conosci davvero, quant'è difficile riuscire a camminare senza farsi male...". La canzone si chiama Carillon, la canta un certo Mr. Rain e la conosce solo chi è nato dopo l'anno 2000. Silvia è tenera, e spaventata: "Mi fa piangere perché penso a com'era. Era un timido, uno che certe volte stava chiuso nella sua camera perché non aveva voglia di niente. Però voleva bene più al suo cane Zac che a me. Strano, no? Zac era la cosa più importante per lui". Poi le scappa da ridere: "Pensa che una volta suo fratello Alessandro voleva portarlo a Mirabilandia, per farlo distrarre e divertire un po'. E lui non c'è voluto andare! Non voleva lasciare solo Zac, ecco". In un piccolo bar vicino al mare, in un paese non lontano da Pontelangorino, due ragazzine raccontano come erano i loro fidanzati. Silvia, e Francesca, che ha 16 anni ed era la fidanzata dell'amico, del ragazzo che ha materialmente ucciso Salvatore Vincelli e Nunzia Di Gianni. I nomi non sono quelli veri, ma se li sono scelti loro, "sono i nomi che ci sarebbe piaciuto avere". Silvia è bionda, l'altra è nera di capelli, e anche di umore, se ripensa alle giornate passate con quello che nel giro di poco tempo ha visto trasformarsi, "diventare cattivo, menefreghista, anche stronzo con me, che pure cercavo di aiutarlo. Ma non ci siamo mai fidanzati per davvero, perché per me non era uno serio". Perché? "Gli piacevano anche altre ragazze, appena poteva scappava da un'altra. Io ci stavo male, ma mi piaceva. Era un bel tipo". Uno povero, "che o fumava o mangiava. Quindi fumava. Non mi ha mai fatto un regalo. Anzi, mi aveva promesso una collana, ma ci siamo lasciati prima". Per la cronaca, l'ha lasciato lei. E queste cose contano, nella vita dei ragazzi. Così, Francesca non piange per il destino del fidanzato della scorsa estate, "se ha fatto quella cosa, è diventato matto". Arriva un'amica, più dura: "La vigilia di Natale è arrivato qui al bar, e ha detto "auguri" con un tono così lugubre che ci siamo zittiti tutti. E l'altro, il figlio dei Vincelli, quest'estate in spiaggia era in crisi, e diceva a tutti "io quella la faccio fuori", e voleva dire la mamma". Le altre si spaventano, e Silvia spiega che "a me non ha mai detto niente, non mi ha mai parlato dei suoi, se gli voleva bene o no". Allora racconta come è cominciata, tra loro. "È capitato qui, mi guardava sempre, poi ci siamo messi insieme". Subito. "Non proprio, dopo qualche giorno. E anche il primo bacio, non glie l'ho dato subito, certe cose non le faccio". Silvia e il suo fidanzato, alto, bello e ricco, non sono mai stati da soli: "Lui mi chiedeva di andare a fare un giro in scooter ma io avevo paura. Stavamo qui, in gruppo. Parlavamo tutti insieme, noi del paese, maschi e femmine, e loro due che arrivavano da Pontelangorino ogni giorno, e d'estate al lido di Volano. Ma sempre tutti insieme". Di cosa si parlava? "Di musica, di canzoni, se avevo bisogno di qualcosa mi dava dei consigli". Era "un pezzo di pane, con me non è stato mai aggressivo". Andava d'accordo con il fratello Alessandro, quello che abita a Torino? "Sì, avevano un buon rapporto, ridevano e scherzavano. Si volevano bene". Sei mai andata a casa sua? "No. Sapevo che aveva una casetta tutta per lui, in giardino, ma non l'ho mai vista. Lì ci stava con gli amici maschi". Ma la scorsa estate è stata meravigliosa, di tuffi dai pontili, tutti nello stesso bagno, un'estate che sembrava non finire più. "Mi faceva ridere, ma anche arrabbiare, perché pensava solo al cane, era sempre in giro con il cane. Mi diceva "te lo porto lì sullo scooter", ma come faceva, il cane è grosso. Mi mandava le foto di Zac, in una gli dà le croccantelle al pomodoro, quelle che piacevano anche a lui. E io gli dicevo che allora amava più il cane di me. Ed era così, l'ho capito poi". Arrivano altre ragazze, son tutte piccole, strette nei loro piumini, nel vento gelido che arriva dal mare. Una dice che i due "avevano i cuori molto ghiacciati, per fare una cosa simile". E per cosa, poi. I soldi? Silvia: "Lui non mi ha mai fatto un regalo. Io non glie l'ho mai chiesto". Che erano stati loro due, quei due bei ragazzi di un paese vicino, che facevano i chilometri per venire a trovare proprio loro, l'hanno saputo su Facebook, Silvia mentre era dal parrucchiere, "mi stavano facendo il taglio, ho visto quella cosa e ho cominciato a tremare". Perché l'hai lasciato? "Un giorno è arrivato e gli ho detto: non sto bene con te. Sei troppo chiuso, sei sempre chiuso nella tua cameretta, e io ho simpatia per un altro ragazzo, che è il mio attuale ragazzo e adesso mi sta aspettando fuori". E lui? "Mi ricordo benissimo cos'ha detto: "Rispetto le tue scelte. Non voglio farti star male". E se ne è andato. L'ho rivisto un mese fa, qui in questo bar. Era molto cambiato. Non mi ha neanche salutata".
Quando i figli uccidono i genitori: i delitti più famosi della cronaca nera italiana. Il duplice omicidio di Ferrara riporta alla memoria altri casi in cui genitori sono stati uccisi dai figli. Un filo nero che parte da Doretta Graneris e passa per Pietro Maso ed Erika e Omar, scrivono Claudio Del Frate e Angela Geraci il 14 gennaio 2017 su "Il Corriere della Sera".
1. Erika e Omar, le bugie e l’intercettazione finale - 2001. Alle nove di sera di una fredda sera di inverno una ragazza vaga per il suo paese chiedendo aiuto. È il 21 febbraio del 2001, siamo a Novi Ligure (Alessandria) e la giovane si chiama Erika De Nardo, 16 anni. Quando le forze dell’ordine entrano nella villetta dove abita con la sua famiglia si trovano davanti a una mattanza: in cucina c’è il corpo della madre della ragazza, massacrata da 40 coltellate, circondata da oggetti in disordine e dal tavolo spezzato in due, scena che racconta di una dura lotta della donna per la vita. Susy Cassini aveva 41 anni. Ma non è finita: al piano di sopra, nella vasca da bagno, c’è anche il cadavere del fratello di Erika, Gianluca che ha 11 anni. Anche il piccolo è stato accoltellato ma prima l’assassino ha provato ad avvelenarlo facendogli bere del topicida, poi ha tentato anche di affogarlo. L’assassino o gli assassini? Erika dice che sono stati due extracomunitari, forse albanesi, che volevano fare una rapina. Lei è stata risparmiata, così come il padre Francesco De Nardo, ingegnere di 44 anni, che non era in casa al momento dell’aggressione perché stava giocando a calcetto. In paese si scatena un’ondata di xenofobia, viene addirittura fermato un giovane albanese che corrisponde all’identikit fornito dalla ragazza. Ma presto le indagini svelano tutta un’altra storia. Nessuno ha forzato porte o finestre della villetta, non è stato rubato nulla, gli schizzi e le impronte di sangue esaminati dai carabinieri del Ris «parlano». Erika e il suo fidanzato Omar Favaro, 17 anni, vengono convocati in caserma e lasciati soli per un po’ di tempo. Soli ma circondati di microspie. È così che gli inquirenti e l’Italia intera scoprono la verità sul delitto di Novi Ligure: a massacrare Susy e Gianluca sono stati proprio Erika e Omar (leggi l’articolo del Corriere di allora). Hanno usato due coltelli da cucina e indossato anche guanti di gomma durante alcune fasi del delitto della mamma. Sia la donna che il bambino hanno lottato con disperazione e forza mentre venivano assassinati. Il piccolo ha anche morso a sangue la mano di Omar. Proprio questa ferita e «la stanchezza» dopo il massacro hanno salvato la vita del padre di Erika: Omar infatti se ne è andato a casa sua e ha lasciato la ragazza da sola. I due fidanzati diventano per tutti l’immagine del male. Il movente dei due delitti? I cattivi rapporti di Erika con la madre che era preoccupata per i brutti voti della figlia e temeva che facesse uso di droghe con il fidanzato. Erika e Omar vengono condannati nel 2001 - e poi anche negli altri due gradi di giudizio - a 16 anni lei, a 14 lui. Oggi sono usciti entrambi dal carcere, lei si è anche laureata in Filosofia nel 2009 durante la detenzione. Il padre l’ha perdonata e le è rimasto accanto in tutti questi anni. L’attenzione mediatica su Erika non si è mai spenta, così come la terribile forza simbolica di quel delitto che ha sconvolto l’Italia e ha ispirato canzoni, film, documentari e fumetti.
2. Pietro Maso, il Nordest e gli «schei» - 1991. I soldi, le auto, la bella vita: accecato da questi «miraggi» il 17 aprile 1991 l’allora ventenne Pietro Maso massacra i genitori Antonio e Rosa nella loro abitazione di Montecchia di Crosara (Verona). Al delitto partecipano anche gli amici di Pietro, Giorgio Carbognin, Paolo Cavazza e Damiano Burato, quest’ultimo minorenne. Dopo due tentativi andati a monte, i tre riescono nel loro intento: aspettano il rientro dei coniugi Maso nel villino di famiglia e li aggrediscono con un tubo di ferro e una pentola. Il massacro crea grande scalpore anche perché alimenta un dibattito sul boom economico del Nordest di quegli anni e sul mito degli «schei» da guadagnare con ogni mezzo. Tutti gli imputati vengono dichiarati sani di mente, Maso è condannato a 30 anni, Carbognin e Cavazza a 26, il minorenne a 13. Nel 2008 Pietro ottiene la semilibertà e grazie all’indulto finisce di scontare la pena nel 2013. L’anno scorso è stato nuovamente indagato per un tentativo di estorsione nei confronti delle sorelle.
3. Ferdinando Carretta e la famiglia sparita con il camper - 1989. La sera del 4 agosto del 1989 a Parma scompare un’intera famiglia, i Carretta. A finire nel nulla sono il padre Giuseppe, la madre Marta Chezzi e i due figli Nicola e Ferdinando. Anche il camper di casa non si trova più. Iniziano mesi di congetture, avvistamenti e ipotesi fantasiose: la famiglia è partita per un tour del Mediterraneo e si è persa nel deserto. No, sono scappati tutti in un paradiso fiscale. Sì, sono a Barbados nei Caraibi. Un primo colpo a queste teorie viene dato dal ritrovamento del camper a Milano: il Ford Transit dei Carretta è in un parcheggio di viale Aretusa. È il 19 novembre 1989. La svolta arriva 9 anni dopo la sparizione della famiglia, il 22 novembre 1998, quando a Londra un poliziotto ferma un uomo di 36 anni per multarlo. Leggendo il suo nome sulla patente, il «bobby» si rende conto che è inserito nella lista degli scomparsi: è Ferdinando Carretta. Il procuratore di Roma si precipita in Gran Bretagna e lo interroga ma Ferdinando dice di non sapere nulla dei suoi cari. Ma poi, il 30 novembre, l’uomo confessa tutto davanti alle telecamere di «Chi l’ha visto?»: «Ho impugnato quell’arma da fuoco e ho sparato ai miei genitori e a mio fratello». Il ragazzo odiava il padre da anni e - dirà - voleva uccidere soltanto lui. Ma poi aveva dovuto eliminare anche la madre e il fratello più piccolo. Aveva messo i loro corpi insanguinati nella vasca da bagno aspettando il buio. Intanto aveva portato il camper lontano, a Milano, per depistare. Di notte aveva poi messo i cadaveri nel cellophane, li aveva caricati sull’auto del padre e seppelliti in una discarica. Gettata via l’arma e ripulito l’appartamento, era scappato a Londra, dove aveva vissuto per 9 anni di espedienti e lavoretti precari. Il Dna entra in gioco perché dà la conferma del suo racconto. Nel 1999 gli uomini del Ris, allora guidati dal colonnello Luciano Garofano, riescono infatti a trovare delle tracce di sangue grazie alle nuove tecniche scientifiche: sono state nascoste per 10 anni dietro il portasapone, nel bagno della mattanza. Ferdinando Carretta viene processato e assolto per incapacità totale di intendere e volere. Trascorre sette anni e mezzo nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere (Mantova) e uno e mezzo in una comunità a Barisano (Forlì). Nel 2015 Carretta è tornato in libertà e ora vive nella casa di Forlì che ha comprato con il ricavato della vendita della casa del massacro della sua famiglia. L’arma del delitto e i corpi dei Carretta non sono mai stati trovati.
4. Elia e il piano (sfumato) della fuga ai Caraibi - 1998. Sembra ricalcare il copione del delitto Maso un altro massacro che ha come sfondo la provincia italiana che avviene sette anni più tardi. A Cadrezzate (Varese) il 7 gennaio del ‘98 Elia Del Grande uccide a fucilate il fratello Enrico, il padre Enea e la madre Alida, proprietari di alcune panetterie. Elia, dipendente dalla cocaina, ha in mente un piano: impossessarsi dei soldi di famiglia e scappare a Santo Domingo dove i Del Grande avevano alcune proprietà: viene fermato per un controllo casuale dai gendarmi svizzeri alla frontiera e arrestato poche ore dopo il triplice omicidio. La sentenza, oltre a condannare Elia a 30 anni, lo fa decadere da ogni diritto sull’eredità di famiglia. Nel dicembre del 2015 tenta un’evasione dal carcere di Pavia, dove sta scontando la condanna: il piano viene sventato dalla Digos che ne viene a conoscenza in anticipo. Un’auto parcheggiata a pochi chilometri dal carcere era già pronta da giorni per garantire la fuga a Elia e a un complice albanese.
5. Il selfie di Federico dopo aver ucciso la madre - 2015. Solo la dichiarata incapacità di intendere e di volere ha risparmiato il carcere a Federico Bigotti, 22 anni, che il 30 dicembre del 2015 colpì con otto coltellate la madre Anna Maria Cenciarini nella casa di famiglia alle porte di Città di Castello (Perugia). Subito dopo il delitto Federico posta una sua immagine sorridente su Facebook, un selfie accompagnato da una frase: «Le carezze sui graffi si sentono di più». Subito fermato, Bigotti si ostinerà a dire che la mamma si è suicidata e che lui non è riuscito a fermarla. In realtà gli inquirenti raccoglieranno testimonianze che parlano di continui litigi, minacce, aggressioni del figlio nei confronti della madre. Il gip di Perugia ne ha dichiarato l’incapacità di intendere e di volere e ora Bigotti si trova in una struttura psichiatrica.
6. Patrizia, la strana caduta per le scale e il tatuaggio del figlio - 2015. Patrizia Schettini, insegnante di musica di 53 anni, viene trovata morta il primo aprile del 2015 nella sua casa di Donnici (Cosenza). A chiamare il 118 è suo figlio di 17 anni: la mamma è caduta dalle scale e ha battuto la testa. Forse è stato un malore. Il giorno dopo il ragazzo si fa un tatuaggio: «Nemmeno la morte ci potrà separare, ti amo mamma». Ma gli inquirenti trovano che nella morte di Patrizia ci sia qualcosa di strano, troppo affrettato archiviare tutto come morte naturale. Poi arriva l’autopsia: sul corpo della donna ci sono anche segni di strangolamento. L’attenzione si sposta tutta sul ragazzo, adottato da piccolo insieme a un altro fratello. Salta fuori che aveva un rapporto conflittuale con la madre. Poi dopo meno di un mese cede e la sua confessione al padre viene registrata dalle microspie piazzate in casa: «Sì papà, l’ho uccisa io la mamma». L’aggressione, racconta il 17enne, è avvenuta durante una lite scoppiata perché Patrizia lo ha sgridato mentre lui stava suonando il pianoforte: l’ha strangolata e poi ha gettato il corpo giù per le scale. Il 13 maggio è stato portato nel carcere minorile di Catanzaro con l’accusa di omicidio volontario.
7. Igor, l’infanzia in Russia e l’incidente stradale - 2016. Giuseppe e Luciana Diana, 67 e 62 anni, si preparano ad andare a dormire quando vengono uccisi a colpi di mazza da baseball. Poi una coltellata alla gola. È l’11 maggio 2016. Restano così, in pigiama lui, seminuda lei, abbandonati nel sangue dentro la loro villetta di Settimo San Pietro (Cagliari). Quasi vent’anni prima la coppia, senza figli, aveva deciso di adottare Igor e Alessio, due fratelli russi trovati in un asilo per bimbi abbandonati di San Pietroburgo. A far scoprire i corpi dei genitori è proprio Alessio, militare di stanza nella base di Teulada che chiama a casa ma nessuno gli risponde: dà l’allarme. Igor, 28 anni, è sparito. Il giovane, adorato dai genitori, ha un carattere opposto a quello del fratello: arruolatosi nell’esercito non ha retto al peso della disciplina. Si è congedato e la sua vita ha preso all’improvviso una piega triste: in un’incidente stradale ha urtato un motociclista che poi è morto. Da allora Igor è cambiato, scivolando pian piano in una dipendenza da alcool e droga che lo ha portato a essere un violento sempre a caccia di soldi. Neppure la nascita di una figlia lo ha aiutato a cambiare, anzi poi la storia tra lui e la compagna è finita. Adesso fa il pizzaiolo ed è sparito nel nulla proprio quando i genitori sono stati ammazzati con una violenza inimmaginabile: la mazza da baseball usata per ucciderli si è spezzata in due ed è rimasta sulla scena del crimine insieme al coltello. E ai vestiti del ragazzo sporchi di sangue. «Sì, sono stato io. Abbiamo avuto un litigio e ho perso la testa». Con queste parole, due giorni dopo il ritrovamento dei corpi dei coniugi Diana, Igor confessa la sua responsabilità al magistrato che lo interroga in ospedale. Durante la cattura, infatti, il 28enne è rimasto ferito: aveva puntato una pistola contro gli agenti della squadra mobile che lo avevano individuato su una strada provinciale in Sulcis ed è stato colpito alle braccia prima che potesse fare fuoco. Il suo racconto del delitto è freddo e lucido.
8. Doretta Graneris, il massacro davanti alla tv - 1975. Per trovare l’archetipo di tutte le stragi familiari compiute in Italia occorre comunque risalire fino al 1975; nella notte tra il 13 e il 14 novembre di quell’anno, in un appartamento di Vercelli, la diciottenne Doretta Graneris ammazza a colpi di pistola cinque componenti della sua famiglia: la madre Italia, il papà Sergio, il fratellino tredicenne Paolo e i nonni materni Romolo e Margherita. Complice del massacro è il fidanzato di Doretta, Guido Badini. La ragazza era in rotta con la famiglia e da alcuni mesi era andata a convivere con il fidanzato. Tutti i cadaveri vennero trovati la mattina dopo nel salotto, uccisi mentre guardavano la tv, che era ancora accesa. Doretta e Guido vennero arrestati la mattina successiva al delitto, mentre facevano acquisiti in un mercatino rionale. La ragazza all’inizio cercò di scagionare il fidanzato; il quale invece scaricò tutte le responsabilità su di lei. Entrambi gli imputati vennero dichiarati sani di mente e vennero condannati all’ergastolo. Nel ‘92 la ragazza ha ottenuto la libertà condizionale.
9. Il killer di Mestre, ricercato in tutta Europa - 1981. Una storia che invece sembrava non voler finire mai è quella di Roberto Succo: non solo nel 1981, allora diciannovenne Succo uccise entrambi i genitori a Mestre, il padre a colpi d’ascia, la madre annegandola nella vasca da bagno. Una perizia psichiatrica lo giudica schizofrenico e finisce al manicomio criminale di Reggio Emilia. Qui sembra placarsi: studia, mantiene un comportamento impeccabile tanto che nel 1985 gli viene concesso un permesso per uscire. Non farà più ritorno: passa il confine con la Francia, rapina una villa dove violenta una ragazza di 23 anni, uccide un poliziotto transalpino, un medico e altre due ragazze. Succo è ormai uno dei ricercati più pericolosi d’Europa. Viene arrestato a Treviso il 28 febbraio nel 1988 ma la sua parabola criminale non è finita: si rende protagonista di una plateale protesta salendo sul tetto del carcere di Vicenza, dal quale cade, ferendosi. Poco tempo dopo, la mattina del 23 maggio 1988 gli agenti carcerari di Vicenza lo trovano nel letto della sua cella. Morto: si era asfissiato inalando una bomboletta di gas da campeggio.
I no impossibili dei genitori ai loro ragazzi. Forse dovremmo rassegnarci al fatto che non abbiamo un diritto all’amore dei nostri figli. La santa alleanza per l’educazione è venuta meno: la scuola è l’epicentro del conflitto. La cultura del narcisismo, scrive Antonio Polito il 13 gennaio 2017 su "Il Corriere della Sera". Forse dovremmo rassegnarci al fatto che non abbiamo un diritto all’amore dei nostri figli. Da quando si aggrappano a noi per tirarsi in piedi facendoci sentire onnipotenti, a quando noi ci aggrappiamo a loro per frenarne il delirio di onnipotenza, passa tanto tempo. Ci sembrano sempre nati ieri; ma sedici, diciotto anni sono abbastanza per fare del nostro bambino un individuo dotato di libero arbitrio, di conseguenza diverso da noi. Talvolta estraneo. O addirittura nemico. Riccardo e Manuel, i due complici del parricidio e matricidio di Pontelangorino di Codigoro, sono una storia a sé. Il loro è un comportamento deviante, materia per giudici e psichiatri. Ma anche quei due adolescenti in fin dei conti sono millennials, come chiamiamo con enfasi anglofona i ragazzi di oggi. E lo sappiamo, ce lo raccontiamo ogni giorno, che tra la generazione Y (ormai quasi Z) e quella dei genitori è aperto oggi un conflitto molto aspro. Ce l’hanno con noi. Sostanzialmente perché stiamo lasciando loro meno benessere di quello che abbiamo trovato. Insieme con il trasferimento del reddito, si è però interrotto il canale di trasmissione di molti altri beni dai padri ai figli. Di valori, per esempio; di conoscenza storica, di credi religiosi, di senso comune, perfino di lingua (si diffonde un italiano sempre più maccheronico). Si è aperto un vuoto di tradizione, insomma; parola la cui etimologia viene per l’appunto dal latino «tradere», trasmettere. I ragazzi vivono così in un mondo in cui le cose che contano sono diverse da quelle che contano per i genitori. Ma il guaio è che è il loro mondo a essere quello ufficiale e riconosciuto, vezzeggiato e corteggiato, perché sono loro i nuovi consumatori. Al centro di questo mondo c’è una cultura del narcisismo, per usare l’espressione resa celebre da Christopher Lasch. Lo spirito del tempo ripete come un mantra slogan da tv del pomeriggio: «sii te stesso», «realizza tutti i tuoi sogni», «non farti condizionare da niente e nessuno», «puoi avere tutto, se solo lo vuoi». Più di un’educazione sentimentale è un’educazione al sentimentalismo. Al culto del sé, del successo facile, e del corpo come via al successo, sul modello dei calciatori e delle stelline. I genitori, anche i migliori, sono rimasti soli. È finito il tempo in cui «i metodi educativi in famiglia non venivano smentiti o condannati dal contesto», protesta Massimo Ammaniti ne Il mestiere più difficile del mondo, il libro scritto con Paolo Conti e pubblicato dal Corriere. Oggi invece la smentita è continua. Nessun rifiuto, nessun limite, nessun «no» che venga detto in famiglia trova una sua legittimazione nel mondo di fuori. Il fallimento educativo che ne consegue è una delle cause, non una conseguenza, della crisi italiana. Ne è una prova il fatto che a parlare del disagio giovanile oggi siano chiamati solo gli psicologi e gli psicanalisti, e non gli educatori: come se il problema fosse nella psiche dell’individuo e non nella cultura della nostra società, come se la risposta andasse cercata in Freud e non in Maria Montessori o in don Bosco. È dunque perfino ovvio che l’epicentro di questo terremoto sia la scuola. E che il conflitto più aspro con i nostri figli avvenga sul loro rendimento scolastico. A parte una minoranza di dotati e di appassionati, per la maggioranza dei nostri figli lo studio è inevitabilmente sacrificio, disciplina, impegno, costanza. Tutte cose che non c’entrano niente con il narcisismo del tempo. Chiunque abbia figli sa quanto sia dolorosa questa tensione. I ragazzi fanno cose inaudite pur di sottrarsi. L’aneddotica è infinita. C’è la giovane che riesce a ingannare i genitori per anni, fingendo di fare esami che non ha mai fatto ed esibendo libretti universitari contraffatti. C’è il ragazzone che scoppia a piangere come un bambino ogni volta che il padre accenna al tema dello studio. C’è quello che dà in escandescenze. Quello che mette il cartello «keep out» sulla porta della cameretta. Quello che non toglie le cuffie dell’iPod. Padri e madri non sanno che fare: fidarsi dei figli e del loro senso di responsabilità, rischiando di esserne traditi? O trasformarsi in occhiuti sorveglianti, rischiando di esserne odiati? Lo spaesamento è testimoniato dall’espressione che usiamo correntemente nelle nostre conversazioni: «Ciao, che fai?». «Sto facendo fare i compiti a mio figlio». «Far fare», un unicum della lingua italiana, una costruzione verbale che si applica solo alla lotta quotidiana con gli studi dei figli. Bisognerebbe invece fare qualcosa. Ci vorrebbe una santa alleanza tra genitori, insegnanti, media, intellettuali, idoli rock, stelle dello sport, per riprendere come emergenza nazionale il tema dell’educazione, e sottoporre a una critica di massa la cultura del narcisismo. Ma i miei figli cantano, insieme con Fedez: «E ancora un’altra estate arriverà/ e compreremo un altro esame all’università/ e poi un tuffo nel mare / nazional popolare/ La voglia di cantare non ci passerà».
PARENTICIDI: OMICIDI FAMILIARI.
Omicidi famigliari: come la libertà distorta genera mostri. Domande e riflessioni sugli ultimi fatti di cronaca in un mondo in cui la violenza virtuale aumenta i danni di una realtà percepita come "fumettizzata", scrive Marco Ventura il 16 gennaio 2017 su "Panorama". Quanto inchiostro sui quotidiani, quante analisi in Tv, quante argute riflessioni morali, filosofiche e giornalistiche o semplici reazioni sui social. Siamo tutti sgomenti davanti a Riccardo che incarica l’amico del cuore, Manuel, di uccidergli padre e madre a colpi d’ascia e lo aspetta nella stanza accanto mentre i genitori invocano il suo nome contro i fendenti di quel ragazzo che considerano di famiglia. Quante domande dovremmo porci... Il vuoto nel quale matura un delitto così efferato è il frutto dei tempi o una patologia nel cervello dei “piccoli assassini” (per dirla col titolo di un racconto di Ray Bradbury del 1946)? Chi ha l’età ricorda il clamore per la strage domestica di Doretta Graneris che insieme al fidanzato uccise padre, madre, nonni materni e fratellino di 13 anni. Era il 1975: non c’erano le playstation, non c’era Internet, non c’erano gli smartphone. Ma la lucida incoscienza era forse la stessa di Riccardo e Manuel, o di Erika e Omar. Anche allora, nel delitto della Graneris, c’era uno stringente rapporto di coppia nel quale il delitto era stato vissuto in anticipo come in un mondo a parte, lontano dalla realtà e dalla legge (del codice penale come del cuore e dell’amor filiale). E che dire delle deviazioni dell’amore paterno e materno? Non sono solo i figli a uccidere i genitori. Ci sono genitori che sopprimono o tentano di sopprimere i figli. È di questi giorni la storia della mamma che mette nel biberon della figlia di 3 anni sedativi in grado di spezzarle il cuore. In questo caso è stata evocata una sindrome precisa. Nel caso di Riccardo, difficilmente qualcuno potrà incasellare clinicamente (credo) la decisione di togliere la vita ai genitori che lo rimproveravano per i pessimi risultati scolastici. C’è chi ha sottolineato che nei parricidi e matricidi più recenti ricorrono tre elementi: l’overkilling (la sproporzione dei mezzi per uccidere, la stra-uccisione), l’incoscienza rispetto al delitto commesso (quindi l’assenza di pentimento) e la futilità dei motivi. Non so quanti di questi ingredienti siano davvero nuovi. Non so quanto siano legati alla vita virtuale che peraltro ciascuno di noi vive quando si affida agli strumenti della contemporaneità. Si può uscire di testa se lo spazio di vita si riduce allo schermo di un telefonino o a un videogioco in cui la crudeltà sembra perdere la terza dimensione, quella della realtà, ovvero l’effettiva incidenza nella carne e nel corpo delle persone. E il sangue non è più sangue. Papà e mamma non sono più papà e mamma. Io non sono più io ma mi vedo agire e quello che faccio è un sogno. E ogni mezzo va bene, pur di conquistare la libertà dei miei eroi. Io non ho certezze. Ho però il sospetto che la natura umana non sia oggi diversa da ieri, e che non abbia senso suggerire che i genitori siano più severi o affermare che l’educazione può impedire queste derive. I ragazzi che uccidono non hanno probabilmente motivi per essere più frustrati di altri: più poveri o più sfortunati nelle vicende personali. Piuttosto, è la loro percezione del mondo, della famiglia e di se stessi a proiettarli in un altro universo, criminale, in cui tutto è possibile. Questo succede oggi come succedeva ieri. Oggi forse la violenza virtuale rende più facile, quasi più naturale, fare danni in un mondo fumettizzato. Ma i meccanismi del cervello umano, la criminalità dei singoli, la crudeltà dei figli come dei padri, dei mariti, dei fidanzati, dei fratelli, non hanno età né epoca proprie. Dobbiamo convivere con la malvagità umana e con la violenza, per quanto più facilmente innescata dall’abuso di scene squallide e cruente in Tv, al cinema o su Internet, oppure dal vuoto di valori o da morbosi rapporti di coppia tra amanti o amici, o da raptus e malattie mentali. Nell’uomo, in certi uomini, da sempre il senso di onnipotenza e il desiderio di libertà deviato generano mostri. Dobbiamo anche rassegnarci a pensare che certi delitti non sono evitabili, forse neanche prevedibili, e che molto di quello che leggiamo sui segnali da capire è senno di poi o materia per esperti. Personalmente, di fronte agli ultimi fatti di cronaca, allargo le braccia e rinuncio a stupirmi, perché gli annali del crimine sono pieni di stragi familiari dalla notte dei tempi. E mi ostino a pensare alla normalità della famiglia come luogo in cui genitori e figli si amano di un amore vero.
Quei figli che uccidono i genitori. La psichiatra Dell’Osso (Aoup) su “La Nazione” del 15 gennaio 2017: «Mai semplificare. Dietro l’etichetta della follia omicida si celano spesso motivazioni e disagi molto più profondi». Da Pietro Maso a Ferdinando Carretta, dai fidanzatini di Novi Ligure, Erika ed Omar, ai recenti casi di Ferrara e di Volterra, nella cronaca italiana ricorrono, con una certa regolarità, gli omicidi familiari. Non conosciamo i contorni precisi dei casi recenti, sui quali pertanto non è corretto esprimersi, ma conosciamo la verità processuale degli altri. Quello che emerge è che non sempre la motivazione del delitto efferato è psicopatologica, anche se, quasi invariabilmente, i difensori legali di questi soggetti fanno ricorso a valutazioni psichiatriche sospettando, se non auspicando, una qualche forma di infermità mentale. Anche i cronisti utilizzando espressioni come «dramma della follia» o «follia omicida» o raptus, spesso contribuiscono ad apporre una rassicurante etichetta di disturbo mentale a questi episodi. In realtà, dietro questi omicidi familiari si nasconde una gamma molto ampia di condizioni, che comprende dal disturbo mentale grave (nel caso di Carretta, per esempio, tutti i periti riconobbero una schizofrenia paranoide), a gravi disturbi di personalità (come il disturbo narcisistico di personalità di Pietro Maso), a semplici tratti personologici abnormi, in soggetti per altri versi «normali». Il tutto, poi, frammisto ad altri disturbi come l’abuso di sostanze, che spesso fa da detonatore, e i motivi patrimoniali. Separando l’ambito forense, che deve evidenziare una patologia conclamata, clinicamente rilevante, in grado di scemare o abolire totalmente la capacità di intendere e volere, dal piano clinico, che impone una valutazione più sottile, multidimensionale, che tenga cioè conto sia dell’assetto psichico del soggetto che commette un crimine sia del mileu ambientale, culturale e sociale in cui certi delitti maturano. Mi spiego meglio: in alcuni, famigerati, casi che ho citato sopra, non è stata accertata alcuna infermità mentale dei rei, ritenuti pertanto capaci di intendere e volere, quindi imputabili, senza attenuazione della pena, che è stata scontata in un comune carcere. Sono spesso persone che hanno un marcato deficit relazionale, della risonanza affettiva e dell’empatia, cioè della capacità di mettersi nei panni dell’altro, di comprenderne i sentimenti e di provarne a propria volta. Sono molto frequenti i tratti narcisistici, quelli per cui il soggetto ha una certa immagine di sé, che nessuno può permettersi di scalfire, e a cui tutto è dovuto. Molti casi esplodono a seguito di un semplice diniego dei genitori o di banali rimproveri per le scarse performance scolastiche, quindi a seguito di un giudizio che viene misinterpretato rispetto al suo intento educativo o che, comunque, non viene tollerato. Ricordo un caso in cui i genitori furono uccisi perché il figlio non voleva che scoprissero che non aveva mai sostenuto gli esami che aveva dichiarato di aver superato all’università. Al di là degli aspetti psichiatrici, è evidente che, su un piano sociologico e pedagogico, in questi nuclei famigliari manca la capacità di comunicazione efficace oppure la comunicazione è completamente assente: in questo risiede la «responsabilità» familiare e sociale di questi agiti. E poi l’immaturità di fondo, l’incapacità di provare rimorso: premeditazioni lunghe ma strampalate e superficiali, motivazioni futili, farsi un panino o giocare ai videogiochi dopo il delitto, in attesa di dare l’allarme.
Perché i figli uccidono i genitori, scrive Alice Dutto il 13 gennaio 2017. Parricidio, matricidio e parenticidio: sono diversi i casi di cronaca in cui i figli si sono macchiati di questi terribili delitti. Ma quali sono le cause di questo comportamento? Lo abbiamo chiesto a Lino Rossi, specialista in criminologia clinica e docente di psicologia dello Sviluppo all'Istituto Universitario Salesiano di Venezia. L'ultimo in ordine di tempo è il delitto di Ferrara. Le vittime, Salvatore Vincelli e Nunzia di Gianni, sono state uccise dal loro figlio 16enne, che ha confessato il delitto, aiutato da un amico. Il movente sarebbe da ricondurre a forti contrasti tra il ragazzo e i genitori. Ma sono molti i casi di parenticidio: alla mente tornano molte storie di figli che uccidono i genitori, come quella di Pietro Maso, nel 1991, che uccise i genitori Antonio e Rosa, nella loro abitazione di Montecchia di Crosara, in provincia di Verona, o quello di Erika e Omar, nel 2001, che ha visto i ragazzi uccidere la madre di lei e il fratello di 11 anni. Secondo gli ultimi dati disponibili, gli omicidi in famiglia sono i più frequenti, soprattutto al Nord. Il rapporto Eures-Ansa sull'omicidio volontario evidenzia che nel decennio 2003-2012 si sono contati poco meno di 2mila omicidi volontari all'interno della sfera familiare o affettiva, con una media annua di 184 vittime, pari a 1 morto ogni 2 giorni. Sempre secondo l'Ansa, sarebbero più contenuti i casi di “parenticidio”, cioè di omicidio di entrambi i genitori, che rappresenta circa il 4% degli omicidi degli ultimi 20 anni (tenendo presente che il dato potrebbe comprendere anche alcuni casi nei quali a essere ucciso è stato solo la mamma o il papà). In 5 casi su 6 a commettere questo tipo di omicidi sono gli uomini, perlopiù tra i 22 e i 35 anni.
Ma perché i figli uccidono i genitori? «Non esiste una sola causa di fronte a situazioni così particolari – ha spiegato Lino Rossi, specialista in criminologia clinica e docente di psicologia dello Sviluppo all'Istituto Universitario Salesiano di Venezia –. La prima cosa da non escludere è la presenza di problematiche psicopatologiche gravi, come le patologie psichiatriche che spesso si manifestano con l'aggressività». Un secondo fattore da prendere in considerazione è l'interazione con sostanze stupefacenti «che spesso ha una duplice radice: una si esprime nella dipendenza patologica e l'altra nell'agito criminale». Infine, ci sono tutte le problematiche che riguardano la storia della relazione affettiva all'interno della famiglia. «Un elemento che ha particolare valore soprattutto oggi, in cui c'è la tendenza a creare rapporti più freddi con i figli rispetto al passato». Se i figli vengono considerati e si sentono come realtà marginali per i loro genitori, può verificarsi un allontanamento, che si scatena con manifestazioni di aggressività. Una mancanza di attenzione può essere dunque combattuta dai figli con un atteggiamento ostile nei confronti della madre e del padre. Spesso, in queste condizioni di vuoto relazionale i ragazzi finiscono per isolarsi ricercando attenzione in altri modi, ad esempio attraverso l'utilizzo diffuso di social network o strumenti digitali, «che però suppliscono solo in parte a questo vuoto». «Non è vero che chi soffre non invia segnali di disagio. Per poterli interpretare, però, bisogna essere vicini a queste persone – sottolinea l'esperto –. E spesso nei casi più gravi i genitori non ne sono stati capaci». Essere vicini significa riconoscere i turbamenti e i cambiamenti di personalità del proprio figlio: e per questo «occorre avere una grande sensibilità e capacità di lettura. Soprattutto, bisogna essere disponibili ad ascoltare, senza spaventarsi, il dolore dei propri figli, superando la sofferenza causata dal loro disagio. Solo in questa condizione si percepiscono i segnali».
In particolare, bisogna fare attenzione a:
cambiamenti umorali;
cambiamenti delle consuetudini;
momenti di distacco (ad esempio, quando i figli stanno molto tempo fuori casa, può voler dire che in casa non stanno bene ed esprimono così la loro sofferenza);
atteggiamenti di isolamento (come quando smettono di parlare);
Questi segnali devono essere interpretati come messaggi di un disagio percepito dai nostri figli.
«Sono tutti elementi che possono preparare a una fase di depressione. Ma prima di accettare la depressione, che è uno stato che ci avvicina molto alla morte, è possibile che si combatta questa sofferenza, generalmente diventando aggressivi. Dunque, si butta fuori la morte che si ha dentro di sé riversandola sugli altri. È questo il momento in cui possono scaturire comportamenti violenti o aggressivi fino anche agli omicidi». Ma perché si passi dalla fantasia alla realtà «la persona deve alienarsi da sé, portare la propria azione al di fuori del senso di responsabilità, considerarla come un'azione virtuale» ha spiegato all'Ansa Claudio Mencacci, presidente della Società italiana di psichiatria.
DI CHI È LA RESPONSABILITÀ?
Genitori, scuola, ma anche amicizie: è la società in generale a essere responsabile di questi fatti.
Secondo Francesco Bruno, criminologo intervistato dall'Agi, la responsabilità sarebbe in ogni caso dei genitori assenti: «I parenticidi, seppur orribili, si possono capire. Nessuno nasce omicida, ma se un giovane arriva a compiere un delitto è chiaro che la responsabilità sia dei genitori». Troppo spesso, infatti, i genitori sono distratti: «Ai genitori non frega niente dei figli. È fallita la famiglia, la scuola e la società: i ragazzi sono le vittime» ha aggiunto. E il risultato di tutto questo disinteresse sarebbe dunque il fatto che i ragazzi arrivino «a compiere delitti di questo genere come se usassero i videogiochi». Condivide questo punto anche lo psichiatra Paolo Crepet, intervistato dall'Agi. «Intorno ai giovani c'è solo il deserto, viviamo in una società dove i ragazzi sono abbandonati a se stessi, ai loro pc e alle loro paghette». In questo contesto, continua lo psichiatra «sono fin troppo pochi gli episodi di parenticidi, ne meritiamo di più. Per le poche cose che offriamo, questi ragazzi sono fin troppo buoni». Gli episodi di violenza sarebbero dunque generati dalla mancanza di stimoli: «Un ragazzo lasciato solo, in una società che non ha nulla da offrire, dove le scuole sono un far west, non può che maturare sentimenti di odio e violenza». «Di sicuro tutto nasce in ambito familiare - riprende Lino Rossi - ma c'è da sottolineare come alcuni comportamenti siano ormai il riflesso del tipo di società in cui viviamo e del fatto che la sensibilità nei confronti del disagio sociale dei gruppi amicali e scolastici si sia ridotta. Siamo testimoni di una forte richiesta di libertà, ma senza che questo corrisponda ad atteggiamenti di assunzione di responsabilità. È anche possibile che un amico si accorga che c'è qualcosa che non va, ma ascoltare ciò che l'altro gli comunica vorrebbe dire prendersi la responsabilità di quel disagio. E nella maggior parte dei casi, ciò non avviene: si preferisce fuggire o far finta di non aver capito».
PERCHÈ UCCIDONO DI PIÙ GLI UOMINI DELLE DONNE?
Nella maggior parte dei casi, sono gli uomini giovani a uccidere i loro familiari. «Questo perché le femmine sono più capaci di tenere il dolore mentale dentro di sé: sanno soffrire perché sanno curare, si ammalano piuttosto che diventare aggressive. Gli uomini, invece, fanno più fatica e pertanto preferiscono spostare la sofferenza all'esterno. Quando sentono un dolore, invece di pensare di curarsi, spostano la sofferenza all'esterno e tentano di vendicarsi nei confronti di quelli che pensano essere le cause della loro sofferenza».
CHE COSA SI PUÒ FARE?
Ascoltare il disagio e parlare con i propri figli, mantenendo un filo diretto con loro e con i loro vissuti, per correggere eventuali comportamenti che fanno loro soffrire. Allo stesso tempo, non è il caso di allarmarsi per fatti che sono comunque ridotti nei numeri e che rappresentano l'eccezionalità piuttosto che la normalità.
Gli omicidi in famiglia sono uno scandalo troppo grosso perché li si consideri semplice “cronaca nera”, scrive Enrico Galoppini su "Discrimine" il 12 gennaio 2017. È accaduto un’altra volta e purtroppo accadrà ancora, fintanto che l’essere umano calcherà le scene del mondo. Un figlio di sedici anni, col concorso di un amico quasi maggiorenne, avrebbe massacrato a colpi d’ascia i suoi genitori. Quando si viene a sapere di tragedie come questa, il pensiero della maggior parte della gente (lo si può constatare dai commenti in calce agli articoli dedicati) corre immediatamente ed unicamente alla condanna da infliggere agli autori dell’efferato delitto: carcere duro a vita, lavori forzati, pena di morte e magari anche torture prima. Io lo capisco benissimo che la prima reazione è questa, e ci mancherebbe altro che questi due ragazzi, se verrà riconosciuta la loro colpevolezza, non dovessero pagare per il male – oserei dire lo scandalo! – che hanno commesso. Eppure la sensazione prevalente che mi pervade ogni volta davanti a un figlio che ammazza i genitori (o di genitori che ammazzano i figli, talvolta in fasce) non è quella di partecipare, anche solo idealmente, alla vendetta contro l’assassino, ma una percezione chiara e distinta della tragedia immane che si è consumata con un delitto del genere. Come si fa a non immaginare che un tempo questa famiglia può essere stata unita e felice? Com’è possibile non andare col pensiero alle cure amorevoli che questi genitori massacrati avranno dedicato al loro futuro carnefice allevato tra le mura di casa? Non si può, poi, non considerare che, alla fine, se accadono cose simili è anche perché spesso si lascia che le cose degenerino fino ad un punto di non ritorno. Non c’è dialogo, non c’è comprensione e non c’è voglia di spiegarsi e perdonarsi. Ogni volta le domande che mi faccio quando leggo notizie del genere sono le stesse. Ci saranno stati di mezzo i soldi? La droga avrà avuto un ruolo in tutto questo? Che si saranno mai fatti d’inescusabile, genitori e figli, per arrivare a tanto? Possibile che non si riesca a fermarsi prima di compiere l’irreparabile? Probabilmente non ci si può fare più nulla quando si giunge alle soglie del tragico epilogo. La questione è, semmai, non arrivarci e saper come fare. E forse sarebbe anche il caso di stendere un velo pietoso su questo tipo di vicende tanto dolorose, lasciando che gl’inquirenti (quando non vi è di mezzo qualche trama dai risvolti oscuri com’è in vari episodi di “cronaca nera”) svolgano il loro lavoro arrivando alle corrette conclusioni. Tanto più che in tutto “l’intrattenimento” morboso e inconcludente dei rotocalchi pomeridiani raramente si sentirà qualche considerazione dettata dal buon senso, per non dire da umana pietà, non di certo per l’assassino in quanto tale (che, ribadisco, deve pagare), ma per queste famiglie italiane, sempre più sole e disperate di fronte al nulla nel quale sono state spesso abbandonate (e si sono cacciate anche con le loro mani). Dove sono i preti? Quelli che non vedi nemmeno più per la benedizione pasquale delle case (e quando li vedi puntano dritto all’obolo). Si dirà che se non si frequenta la parrocchia non si può pretendere che quelli vengano a trovarti. Ma dove sta scritto questo? Forse che i sacerdoti non dovrebbero essere anche e soprattutto dei “pescatori di uomini” che annaspano nelle “acque” del mondo? E dove sono questi famosi “assistenti sociali” con stipendio fisso garantito? Il più delle volte incapaci, stante la povertà dei loro strumenti d’analisi (almeno i preti avrebbero, teoricamente, la Parola di Dio), di aiutare persino se stessi. E tacciamo infine dei parenti e degli amici, che salvo rare eccezioni non hanno mai tempo (ma per stare su Facebook sì), salvo poi sbalordirsi se, a un certo punto, il ragazzotto fa a pezzi mamma e papà e li ficca nel sacco nero dell’immondizia. A volte mi chiedo se tutto questo vivere nella bambagia abbia fatto bene ai giovani, poi futuri adulti ed incapaci di crescere altri giovani. Se ore ed ore davanti alle Play Station, il più delle volte a simulare massacri, non abbiano reso decerebrate intere generazioni, “programmando” gli elementi più indifesi a compiere atti d’inusitata ferocia. Penso anche all’inevitabile tragedia interiore che, passata la furia, investirà questo ragazzo, al quale, durante la necessaria espiazione dovrà essere assicurato un conforto morale e spirituale, che non vuol dire né sconti né “premi” anzitempo. Penso anche che se non facciamo mai nulla per capire dove s’annida “la follia” – che è molto più vicina a noi di quanto si pensi – e cosa si debba fare per debellarla, saranno sempre più dolori per tutti. Il mondo stesso diventerà un Inferno. Al catechismo insegnavano “onora il padre e la madre”, e fra un po’ ci manca poco che anche questo basilare pilastro della civiltà venga giudicato – in nome di chissà quale ideologia alla moda – obsoleto e non “al passo coi tempi”, perché comunque si deve far esistere una pretesa “questione giovanile”. La missione dell’uomo, fino a che l’ego perennemente insoddisfatto non aveva conquistato la prima fila, era sempre stata quella di darsi un “carattere”; non pretendere di avere una “personalità” fasulla e per giunta che questa venisse rispettata, dai genitori e dagli altri là fuori dall’atmosfera viziata di casa. Ma a forza di buttarsi dietro le spalle tutto, persino i Dieci Comandamenti, non ci si è resi conto che, come ebbe a dire profeticamente Dostoevskij, “se Dio è morto, tutto è permesso”. Che si creda o non si creda, la questione resta drammaticamente la stessa per tutti: quella di coltivare il senso della misura e del limite, che ha sempre rappresentato la base di ogni Civiltà, ma che l’uomo non può illusoriamente pensare di trovare in un vago e laico “buon senso”. Servono piuttosto istituzioni forti, sane ed autorevoli incarnate in Uomini degni di tal nome. Non le scuole-parcheggio governate da nullità dove si stravaccano frotte di ragazzotti perditempo. Non le università-diplomificio, ma scuole di vita, dove prima che immagazzinare nozioni su nozioni si viva a stretto contatto con dei Maestri. S’indicono “fertility day” del tutto effimeri quando si sa benissimo che si sta scientemente, su tutta la linea, dalle politiche del lavoro alla “cultura” che inonda le menti di ragazzi e adulti, massacrando il concetto stesso di famiglia. E fermiamoci qua, che è meglio, tanto anche queste saranno le ennesime parole al vento, in attesa della prossima “tragedia familiare” sulla quale si getteranno come sciacalli cronisti ed “esperti” per puro dovere professionale, senza che – non sia mai detto! – qualcheduno provi a far capire che il miglior antidoto contro simili tragedie starebbe nell’invertire diametralmente rotta rispetto a quella senza bussola che ha preso questa cosiddetta civiltà dell’uomo che non concepisce altro che se stesso ed il suo tirannico ego.
Omicidi in famiglia: se il mostro vive in casa. Tre le mura domestiche 147 delitti con 175 morti, scrive il 22 agosto 2014 Cristina Brondoni su "Lettera 43". Nel 2012, ci sono stati 159 omicidi in famiglia che hanno provocato 175 vittime. Padri che uccidono i figli nel sonno. Mariti che sparano alle mogli. Genitori che vengono eliminati da chi hanno messo al mondo. È solo la cronaca degli ultimi giorni, piena di delitti commessi tra le mura di casa. In Sicilia un uomo ha accoltellato le figlie di 12 e 14 anni mentre dormivano e poi ha tentato di togliersi la vita. La più piccola è morta, l'altra bambina versa in gravi condizioni in ospedale. A fermare l'uomo è stato l'intervento degli altri due figli che, in quel momento, erano in casa. Qualche giorno prima, un padre di 34 anni ha ucciso la sua bimba di 18 mesi con cinque coltellate mentre era nella culla. Giustificandosi, una volta tratto in arresto, dicendo che ha «sentito una voce» che gli ordinava di uccidere. Sempre nel mese di agosto, un uomo ha sparato in testa alla moglie: i due avevano due figli e la donna aveva deciso di andarsene. Ma perché tra le mura domestiche, il luogo più protetto, si compiono così tanti delitti efferati? Parlare di raptus di follia, in questi casi, è errato. L'omicidio in famiglia non è mai frutto di un colpo di testa. In genere è il tragico culmine di situazioni complicate che, a un certo punto, arrivano a un epilogo tragico. Non si tratta di un qualcosa che accade all'improvviso, dunque, ma della classica goccia che fa traboccare il vaso. Sebbene la cronaca tenda ad amplificare il fenomeno ogni volta che avviene una nuova uccisione, i numeri sono rimasti invariati da tempo: in famiglia non si muore di più rispetto al passato. Il dato rimane costante nel tempo. Nonostante in Italia il numero delle vittime di omicidio volontario sia inferiore rispetto al passato - secondo il Rapporto Eures Ansa 2013, in Italia sono in calo (negli Anni 90 si è arrivati a quasi 2 mila omicidi all'anno, nel 2012 sono stati 526) - resta fisso il numero dei delitti commessi in famiglia: nel 2012, ce ne sono stati 159 che hanno provocato 175 vittime (147 omicidi con un solo morto, 10 duplici omicidi e due con quattro decessi). Il dato è quindi piuttosto allarmante: significa che la famiglia non è quell'approdo sicuro in cui ci si può rifugiare dal mondo esterno. Ma ogni delitto che avviene tra membri dello stesso nucleo famigliare può avere cause diverse:
1. Stragi di famiglia: quasi sempre il killer è uomo. Le uccisioni in famiglia possono essere distinte in base all'autore e alla vittima del reato. Nella maggior parte dei casi si tratta di uomini che uccidono le loro compagne (mogli, conviventi, partner o fidanzate). Assassinii di genere per i quali è stato coniato il termine «femminicidio». Una tendenza che non stupisce, visto che la maggior parte degli omicidi (in Italia più del 90%) è commessa da uomini. Non stupisce, quindi, che anche tra i delitti tra consanguinei l'autore sia quasi sempre maschio. In particolare, quando viene uccisa tutta la famiglia si tratta sempre di un uomo. Ma, fortunatamente si tratta ormai di casi isolati: nel 2012, sempre secondo il Rapporto Eures Ansa 2013, ce ne sono stati due che hanno provocato quattro vittime.
2. Uxoricidio: il movente spesso è la gelosia. Quasi la metà degli omicidi commessi in famiglia sono uxoricidi. Stando al Rapporto Eures Ansa 2013, nel 49,1% dei casi chi soccombe erano donne legate sentimentalmente all'autore di reato. Il movente, nella maggior parte dei casi, è la gelosia, o meglio, la non accettazione della fine di un rapporto. Anche se le statistiche non possono andare a fondo di ogni singolo caso, la cronaca racconta di rapporti già deteriorati. Motivo per cui parlare di raptus potrebbe stravolgere i fatti.
3. Padri e figlicidio: il 20% era affetto da depressione. Nel 17,1% degli omicidi in famiglia del 2012 è stato un genitore a uccidere il figlio. Chi compie tali delitti può avere motivazioni, ovvero moventi, differenti. In qualche caso si tratta di padri che non riescono più a sopportare un figlio violento, perché affetto da patologie psichiatriche o perché sotto l'effetto di sostanze stupefacenti. Spesso sono genitori, in genere piuttosto anziani, che non possono più prendersi cura degli eredi disabili e che hanno paura che, morti loro, finiscano in una casa di cura. Un caso del tutto diverso è il padre che uccide i figli per fare un torto alla madre che, magari, lo ha lasciato (come il caso dell'uomo che ha accoltellato le due figlie uccidendone una). Nel 20% dei casi considerati dal Rapporto Eures Ansa 2013 ci si trova di fronte persone che hanno manifestato un disagio psichico prima dell'omicidio. Non è da escludere la depressione (o un'altra patologia psichiatrica, come la schizofrenia, per esempio).
4. La sindrome di Medea: «Io ti ho fatto, io ti distruggo». Le donne che uccidono se la prendono nel 60% dei casi con il compagno e nel 20% dei casi con i figli (nel 2012 le madri che hanno ammazzato la prole sono state tre. Nove quelle che hanno eliminato i partner). Quando una madre elimina la propria prole, la criminologia parla Sindrome di Medea. La donna, più dell'uomo, quando arriva a uccidere i figli ha la convinzione che questi siano una sorta di un suo prolungamento. La giustificazione che si danno si può sintetizzare in questa affermazione: «Io ti ho fatto, io ti distruggo». Molto frequentemente la madre che decide di suicidarsi, porta con sé anche la sua prole, soprattutto se si tratta di bambini o minorenni. Siamo di fronte, ancora una volta, a situazioni di profonda depressione (che spesso non è stata notata dai familiari): se nulla ha più senso e se il mondo è un 'posto brutto', ammazzare i figli prima di suicidarsi pare, nella mente malata di una persona che vive il suo disagio in solitudine, un ragionamento lineare. Ci sono anche le madri affette dalla Sindrome di Munchausen per procura. Si tratta di donne che vogliono stare (patologicamente) al centro dell'attenzione e, per farlo, si servono dei figli cui somministrano farmaci o veleni (in qualche caso tentano anche di soffocarli). I bambini stanno male e loro, a quel punto, hanno l'occasione di frequentare ospedali e farsi notare nel loro dolore. Non sempre arrivano a uccidere i figli, ma può succedere se non vengono fermate in tempo. È il caso dell'infermiera torinese arrestata il 12 agosto dopo essere stata sorpresa a iniettare dosi di insulina (usata per curare il diabete) al figlio di 4 anni.
5. Figli che uccidono i genitori: la liberazione dal giogo. Nel 2012 i figli che hanno ucciso uno o entrambi i genitori sono stati in tutto 12 (di cui nove delitti sono attribuibili a maschi e tre a femmine). È ancora vivo nella memoria il caso di Erika e Omar che, nel 2001 a Novi Ligure, uccisero premeditatamente la madre e il fratellino di lei. Ma pure il caso di Pietro Maso che, con complici e premeditatamente, ammazzò entrambi i genitori per entrare in possesso dell'eredità. SI AMMAZZA PURE PER DENARO. In molti casi si tratta di figli che uccidono un padre padrone, o che ritengono tale. A questo punto, per liberarsi dal giogo, non resta che l'omicidio, soprattutto quando il genitore è un violento, un prevaricatore, o addirittura ha comportamenti incestuosi. Ma ci sono anche figli affetti da disturbi psichiatrici o che abusano di sostanze stupefacenti e, per una serie di motivi (dalle allucinazioni al denaro), arrivano ad ammazzare il genitore.
I parenti uccidono più della mafia. In particolare al Nord. I delitti compiuti fra le mura domestiche sono al primo posto nella classifica degli omicidi volontari in Italia. Ed è la Lombardia a detenere il primato delle stragi familiari: "Nel Sud è il concetto di famiglia allargata a salvare la stessa famiglia dalla strage", dice Fabio Piacenti, presidente dell'Eures. "Dalle nostre indagini emerge poi che i casi più efferati si verificano nei periodi di forte di stress, come ad esempio il rientro al lavoro dopo le ferie", scrive Nadia Francalacci su "Panorama". Omicidio-suicidio o suicidi allargati. Crescono in Italia del 12,1 per cento, secondo i dati Eures, i delitti compiuti all'interno delle mura domestiche. La tragedia di Reggio Emilia - dove un uomo ha ucciso la moglie e un figlio, ha ridotto in fin di vita l'altro figlio e la padrona di casa e poi ha tentato di togliersi la vita conferma il primato dei delitti in famiglia nelle statistiche degli omicidi volontari compiuti in Italia. Ad essere interessato dal fenomeno è in particolare il Nord Italia: 94 vittime pari al 48,2 per cento del totale. Nella triste graduatoria è seguito dal Sud con 62 le vittime (31,8 per cento) e infine dal Centro Italia (Toscana, Marche, Lazio e Abruzzo) dove sono state 39 (20 per cento) le vittime di stragi e follie familiari. Dalle analisi vittimologiche, del movente ma anche degli indici di rischio e disagio sociale ed economico effettuate dell'Eures è la Lombardia ad essere la regione italiana più interessata dal fenomeno assieme al Veneto e dalla Campania. Le vittime più frequenti sono le donne con 134 casi nel 2006 (+36,7 per cento rispetto al 2005) e pari al 68, 7 degli omicidi-suicidi familiari. I casi più frequenti di delitti hanno come vittime coniuge o ex compagno (35,9 per cento con 70 casi). Il 23, 6 per cento dei casi, invece, riguarda gli omicidi genitori-figli o viceversa: 21 genitori uccisi e 23 i figli. Il 5,1 per cento riguarda i casi di omicidi tra parenti. Tra i moventi principali: litigi e dissapori (24,6%), passione (in particolare al Nord con il 28,7% dei casi) e denaro (al Sud con il 16,1%). Spesso si sente parlare del periodo estivo come il momento il cui si verificano più frequentemente casi di omicidio-suicidio. Esiste una "stagione" in cui si uccide di più? No. È sbagliato parlare dell'estate come il momento di maggior picco del fenomeno o imputare al caldo la perdita della lucidità che porta a consumare stragi familiari" spiega a Panorama.it, Fabio Piacenti, presidente dell'Eures. "Dalle nostre indagini emerge invece che tragedie come quelle avvenute a Reggio Emilia, dove un padre uccide nel sonno la famiglia e tenta il suicidio, avvengono la domenica o nei primi giorni della settimana, spesso di lunedì e nelle prime ore del mattino. I dati raccolti da Criminalpol, Carabinieri, Prefetture e Procure di tutta Italia mostrano che i casi più efferati si sono verificati proprio nei primi giorni dell'anno (gennaio è uno dei mesi più interessati, ndr) e nel cambio di stagione. Insomma nei periodi di forte di stress come, per esempio, il rientro al lavoro dopo le ferie". Tra i delitti compiuti in famiglia aumentano, con percentuale spaventosa, quelli che si concludono con il suicidio o il tentativo di togliersi la vita da parte dell'autore della strage. Dal 2000 ad oggi si sono verificati 340 casi, quasi mille morti, per una media di 3 al mese, ovvero 1 ogni 10 giorni. Nel 93 per cento dei casi la mano assassina è quella di un uomo.
Perchè, secondo lei, chi uccide il proprio familiare sempre più spesso tenta di togliersi la vita?
"L'omicida-suicida non riesce a superare e ad affrontare le difficoltà di ricominciare una vita e ricostruire un persorso affettivo e professionale. Questo è quanto emerso negli ultimi nove anni".
La crisi economica quanto incide? Nella strage di Reggio Emilia, l'omicida era un ex operaio disoccupato...
"Incide in modo significativo. È il clima di sfiducia generale che non fa vedere uno spiraglio di luce e di speranza per il futuro questo porta alla voglia di cancellare tutto: la famiglia e se stessi".
Il Nord, Lombardia in particolare, detiene il primato delle mattanze. Perchè?
"Nel Sud è il concetto di famiglia allargata a salvare la stessa famiglia dalla strage. Di fronte ai problemi esiste ancora una mediazione ampia di più soggetti familiari come i nonni gli zii i cugini e di conseguenza anche un'assistenza familiare che diventa la salvezza nei momenti di crisi. Nel Nord, invece, come nel centro Italia questo legame si annulla e le famiglie sono sempre di più nuclei isolati senza punti di riferimento".
ABRUZZO. GIUSTIZIERI, TERREMOTO E VALANGHE. HOTEL RIGOPIANO. I MORTI SONO STATI UCCISI.
Vendetta di Vasto, i farmaci e l'arma. E quella cupa scoperta sull'eredità, scrive il 4 febbraio 2017 “Libero Quotidiano”. "Ho sbagliato, mi sono rovinato la vita". Lo ripete di continuo Fabio Di Lello, lo ha ripetuto ieri davanti al suo avvocato che è andato a trovarlo in carcere, dove è rinchiuso in isolamento dopo che ha freddato con tre colpi di pistola Italo D'Elisa, il 22enne che a luglio scorso aveva travolto e ucciso in un incidente stradale la moglie di Di Lello, Roberta Smargiassi. In cella Di Lello è apparso confuso e dispiaciuto, ma è riuscito comunque a ricostruire con il suo legale che cosa gli sia passato nella testa quando ha esploso quei colpi con la sua calibro 9: "È successo tutto in modo imprevedibile - ha detto al suo avvocato, riportato dal Corriere della sera - Non volevo uccidere. Stavo tornando con la mia macchina dal campo di calcio del Cupello. A un certo punto ho visto il ragazzo in bicicletta. Veniva in senso opposto, ci siamo guardati". Di Lello aveva tirato dritto, ha visto però il ragazzo fermarsi al bar, così ha parcheggiato ed è sceso dall'auto. Di prima intenzione Di Lello sostiene di non aver avuto nessuna intenzione di uccidere, voleva solo parlare con quel ragazzo che da quel giorno ritiene che lo provocasse ad ogni occasione. Cosa facesse per provocarlo, però, non ha mai saputo spiegarlo. E così è successo di nuovo quando si è avvicinato l'ultima volta: "Mentre stava tornando a riprendere la bici, mi sono avvicinato a lui. Quando mi ha visto ha fatto il provocatore, come sempre. Non ci ho visto più. Sono tornato in macchina, ho preso la pistola e l'ho ucciso". Da quel tragico incidente che gli ha strappato via la moglie, Di Lello aveva cominciato una cura psichiatrica, assumeva psicofarmaci eppure a settembre gli è stato permesso di comprare una pistola, con regolare porto d'armi. Secondo gli inquirenti, fino a quel momento non c'era il minimo sospetto che potesse arrivare a un gesto estremo come quello. I sospetti che Di Lello avesse premeditato l'omicidio aumentano con l'ultima scoperta portata in procura dall'avvocato della famiglia della vittima, Pompe Del Re: "Lo scorso primo dicembre - ha detto l'avvocato - Fabio Di Lello si è spogliato di tutti i suoi beni per intestarli ai genitori. Questo deporrebbe a favore della premeditazione del gesto. Potrebbe averlo fatto per non essere aggredito nel patrimonio dopo il delitto che stava forse meditando".
Tragedia di Vasto, il testimone: lo scambio di battute tra Di Lello e D'Elisa prima della sparatoria, scrive il 4 febbraio 2017 “Libero Quotidiano”. A Vasto si celebrano i funerali di Italo D'Elisa, il 22enne ucciso a colpi di pistola per vendetta da Fabio Di Lello, l'uomo che aveva perso la moglie Roberta, travolta e uccisa. E nelle ore del cordoglio emergono nuovi dettagli sulla vicenda. Dai verbali, certo, ma anche da un testimone oculare citato da Il Messaggero, il quale non solo ha assistito la sparatoria, ma ha visto e soprattutto udito ciò che la ha preceduta. Di Lello avrebbe incrociato D'Elisa, che - pare - gli avrebbe riservato uno sguardo di sfida. Quantomeno gli sguardi si sono incrociati, come non accadeva da tempo. A quel punto Di Lello lo ha apostrofato: "Hai ancora il coraggio di farti vedere in giro?". La risposta del ragazzo: "Lasciami stare, non puoi farmi nulla". Pochi istanti dopo i tre colpi di pistola, fatali, davanti al Cafè and wine bar di Viale Perth. Di Lello, insomma, avrebbe sfruttato il primo momento, o quasi, in cui era riuscito a fronteggiare Italo, che da mesi, vittima di una campagna d'odio, non si faceva vedere in città. Dopo lo scambio di battute di cui vi abbiamo dato conto, Fabio sarebbe tornato alla sua auto per prendere la pistola, con la quale ha poi ucciso a sangue freddo Italo, che era un volontario della Protezione civile (da qui, la pettorina che si vede nelle foto).
Tragedia di Vasto, Fabio Di Lello aveva un complice che lo ha avvertito: "Italo è al bar", scrive il 5 febbraio 2017 “Libero Quotidiano”. Il giorno successivo ai funerali di Italo D'Elisa, l'indagine sulla tragedia di Vasto si arricchisce di due elementi che potrebbero rivelarsi decisivi. Uno in particolare: la presenza di un complice che avrebbe aiutato Fabio Di Lello a compiere la sua vendetta a colpi di pistola contro il ragazzo che aveva travolto e ucciso sua moglie. Pare infatti che qualcuno abbia avvertito il killer del fatto che D'Elisa si trovasse a quel maledetto bar, al Drink water cafè dove è stato ucciso. Una telefonata, rapida: "L'omicida di tua moglie è al bar". Poi, il raid e l'omicidio. La procura di Vasto ha infatti chiesto un incidente probatorio, che verrà effettuato nella mattinata di lunedì, per verificare le telefonate fatte e ricevute dal cellulare di Di Lello (verranno inoltre documentati traffico e contenuti del computer dell'uomo). Si vuole insomma scoprire se qualcuno, mercoledì pomeriggio, abbia davvero scatenato la sua furia omicida (una circostanza che, trapela da fonti vicine alla procura, potrebbe essere facilmente confermata). Si cerca dunque il complice che, come spiega Pompeo Del Re, avvocato del ragazzo assassinato, "ha segnalato gli spostamenti del povero Italo". C'è poi la seconda novità, che riguarda la premeditazione. Tutto depone contro Di Lello. In particolare tre punti. Il primo, il fatto che all'inizio di dicembre abbia deciso di donare i suoi beni e la sua casa ai genitori. Dunque l'acquisto della pistola, avvenuto un mese dopo la morte della moglie, pistola che ha sempre tenuto in auto. Infine, i continui post su Facebook nei quali manifestava la sua sfiducia nella giustizia e quello che per gli inquirenti sarebbe "un chiaro desiderio di vendetta". Tra punti che con assoluta probabilità giustificheranno l'aggravante della premeditazione, dalla quale l'omicida sta provando a difendersi, parlando di un raputs. Se la premeditazione venisse confermata, Di Lello rischia l'ergastolo.
Vasto, i genitori di Fabio Di Lello: “Avevamo chiesto il ricovero perché stava male. Roberta era incinta”. Il giorno dopo i funerali di Italo d'Elisa e il silenzio dell'uomo che lo ha ucciso per vendicare la morte della moglie si aggiungono due nuovi particolari a questa storia di rancore e morte. I genitori del fornaio diventato killer avevano chiesto a uno degli specialisti che lo avevano in cura perché depresso di farlo ricoverare e confermano che la donna aspettava un bambino, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 5 febbraio 2017. Il giorno dopo i funerali di Italo d’Elisa e il silenzio di Fabio Di Lello, l’uomo che lo ha ucciso per vendicare la morte della moglie, si aggiungono due nuovi particolari a questa storia di rancore e morte. I genitori del fornaio diventato killer avevano chiesto a uno degli specialisti che lo avevano in cura perché depresso di farlo ricoverare e confermano che Roberta Smargiassi era incinta e che avrebbe comunicato la notizia a tutta la famiglia il giorno dopo. A Corriere e Repubblica Lina e Roberto Di Lello, che non hanno trovato il coraggio di andare al funerale di D’Elisa ma hanno inviato fiori, raccontano di aver tentato di sottrarre il figlio a quell’ossessione che lo ha portato il 1 febbraio a impugnare la calibro 9, regolarmente detenuta, e sparare tre colpi contro il 22enne che il 1 luglio dell’anno scorso aveva investito con la sua Punto nera il motorino della donna. “Fabio stava male, molto male… – racconta la donna ai cronisti – L’incidente ha cambiato la vita di tutti. Fabio non è riuscito ad accettare la morte di Roberta. Andava al cimitero anche di notte, saltava il muro e stava lì con lei. Sempre, notte e giorno. Poi ha smesso con le notti ed entrava alle 7 del mattino, quando aprivano i cancelli, tornava a mangiare un boccone, poi di nuovo lì fino alle 6 di sera, l’orario di chiusura. Un’ossessione: suo fratello lo invitava a Roma e lui rifiutava: “E poi chi ci sta con Roberta?”. Gli dicevo Fabio tu non puoi vivere così, ma lui si arrabbiava”. Il medico aveva spiegato ai genitori che per ricoverarlo sarebbe stato necessario il suo consenso. L’ex calciatore dilettante dal giorno della morte della moglie continuava a chiedere giustizia: ma D’Elisa, al momento dell’incidente, non era ubriaco né drogato. E comunque l’udienza preliminare era stata già fissata a sei mesi dai fatti.
Il padre di Fabio, che ieri davanti al giudice per le indagini preliminari non ha ripetuto la versione fornita ai suoi avvocati e cioè che il ragazzo lo aveva sfidato, spiega di provare vergogna verso tutti e che il figlio era ossessionato da Italo: “Io l’accido quello lì”. Ma l’uomo dice di non aver saputo dell’arma, anche se Fabio aveva da tempo il porto d’armi: “Non sapevo che avesse una pistola. Lui aveva il porto d’armi sportivo perché andava a tirare al poligono. Dovevano toglierglielo. Chissà dove l’ha presa poi la pistola”. “Io so che a sei mesi dal lutto o ti riprendi o finisci nel tunnel e Fabio è finito nel tunnel. Non ce l’ha fatta anche perché non accettava certe cose che leggeva sull’incidente prima di Natale, tipo che Roberta non aveva il casco allacciato eccetera. Da quei giorni è andato sempre più giù” aggiunge la signora. La donna ricorda anche come ha saputo quello che era avvenuto. Il padre di Roberta ha chiamato: Vieni qui perché è successa una cosa grave. Oddio, si è ucciso, ho pensato. Sono corsa al cimitero e lui mi è venuto incontro. Mi ha abbracciato fortissimo, così forte da lasciarmi i segni qui. “Ti voglio bene”, mi ha detto. Aveva ucciso il ragazzo… Ma perché, perché l’hai fatto? Non potevi fare una scazzottata che almeno non moriva nessuno?”. “Questa è stata una guerra, ci sono tre famiglie distrutte dal dolore. Roberta è morta e – dice il signor Di Lello – ora è morto anche quel ragazzo e io sento un grande dolore per lui e per la sua famiglia. Devono morire i vecchi, non i giovani. Non so più cosa dire, cosa pensare. Spero almeno che torni la pace fra tutti”.
La claque dei giustizieri, una tragedia italiana. Omicidio Vasto: legale Di Lello: "D'Elisa non ha mai chiesto scusa". Intervista di Jean Paul Bellotto. Dopo l'incidente nel quale ha perso la vita Roberta. "Italo D'Elisa non ha mai chiesto scusa, non ha mostrato segni di pentimento. Anzi, era strafottente con la moto. Dava fastidio al marito. Quando lo incontrava, accelerava sotto i suoi occhi". Così, intervistato da Radio Capital, l'avvocato Giovanni Cerella, già legale di parte civile per il procedimento che riguardava l'incidente, ora difensore del marito, Fabio Di Lello, che ha sparato a D'Elisa.
Vasto, parla il padre di Italo: "Hanno ucciso un morto: contro di lui una campagna d'odio". Angelo D'Elisa racconta suo figlio dopo l'incidente nel quale ha travolto e ucciso una giovane donna: "Abbiamo scritto alla famiglia di Roberta. Non ci hanno risposto", scrive Paolo G. Brera. Seduto sul sedile posteriore dell'auto del suo avvocato, Angelo D'Elisa ha lo sguardo perso nel vuoto. Ha appena nominato il perito di parte, tra poco inizierà l'autopsia sul corpo di suo figlio. Abbassa il finestrino. Accenna persino un sorriso; gentile, stravolto.
È troppo tardi, Angelo, ma cosa direbbe all'uomo che ha ucciso suo figlio?
"Hai ammazzato un morto. L'odio non porta a niente".
Era inevitabile?
"L'unica cosa che dovevano fare, Italo e Fabio, era incontrarsi. Parlarsi, abbracciarsi e piangere insieme. Magari sarebbero diventati amici, erano due persone buone. Insieme avrebbero cancellato questa maledetta campagna d'odio che seppellirà mio figlio e distruggerà del tutto anche lui: tutti noi, da allora, abbiamo sempre convissuto con il dolore per la morte di Roberta. Ne siamo ancora addolorati, sa? Anche oggi, dopo quello che è successo".
Come stava Italo, dopo quell'incidente? Alcuni dicono che era a pezzi, altri che faceva le impennate davanti a Fabio.
"Stava male, malissimo. Chiunque di noi se si trovasse in una situazione così tragica come starebbe? È un inferno. Aveva paura a uscire di casa. Si era chiuso in se stesso, poi un giorno mi ha detto: non ce la faccio più, voglio uscire, ho bisogno di aria".
Che vita faceva? Aveva una fidanzata?
"C'era qualche ragazza che gli girava intorno, ma nessuna fissa. Nessuna che gli stesse accanto e lo aiutasse, e d'altronde in questa situazione aveva altro a cui pensare che l'amore".
Impennava in motorino davanti a Fabio?
"Ma quale motorino! Non ce l'ha, e non aveva più la patente. L'auto non l'ha nemmeno toccata. Era in uno stato di shock pazzesco, non vi rendete conto".
Dov'era andato, mercoledì pomeriggio?
"Alla ciclabile sulla riserva di Punta Aderci".
Che ragazzo era, suo figlio? A Vasto c'è chi dice "poverino" ma anche che "Fabio ha fatto bene".
"Non ho parole, per queste persone: Fabio Di Lello ha commesso un atto osceno. Italo era un ragazzo buono, semplice. Era sempre disponibile. Le assicuro, una persona di cuore. Aveva la passione per i vigili del fuoco e per il volontariato nella Protezione civile. Quest'estate, un paio di mesi dopo l'incidente c'era stato il terremoto. Era distrutto, ma voleva partire, sognava di andare là a dare una mano. Papà - mi disse - non ci posso mica andare, con sto guaio sulle spalle come faccio? Non posso nemmeno guidare...".
Torniamo all'incidente.
"La rivedeva tutte le notti, quella donna. Quelle immagini, quella scena orrenda non si dimenticano. Ma io gli dicevo: forza e coraggio, Italo, piano piano passerà. Cercavo di tenergli su il morale. I medici mi dicevano di aiutarlo, rischiava di chiudersi definitivamente in sé stesso. Nessuno può sapere cosa si prova, se non lo vive".
Lo perseguitava l'odio o il rimorso?
"Entrambi, credo. Si metteva a letto, e dopo due ore si svegliava di soprassalto con quell'immagine negli occhi. E poi di giorno tutto questo odio. Il sito in cui lo attaccavano con parole orribili aveva 1500 adesioni, tantissime in una cittadina come Vasto che ha 40mila abitanti".
Quando è stata l'ultima volta che lo avete visto?
"Mia moglie è distrutta. L'ha visto l'ultima volta a pranzo. C'ero anche io: stavo uscendo per andare a lavorare e lui le ha detto: mamma, vado a farmi un giretto in bicicletta, è una bella giornata. Provo a svagarmi un po'. Non è più tornato".
Avevate paura che potesse succedere?
"Veramente ho sempre avuto fiducia nella magistratura. Vivo in un paese civile. Ma certo sentivo tante voci in giro. C'era chi mi diceva che dovevo difendermi perché avrebbe fatto quello che poi ha fatto davvero, sì".
In questi mesi suo figlio era stato emarginato dalla comunità di Vasto?
"Sì, e le pugnalate più gravi sono proprio quelle che non ti arrivano direttamente. Quelle che ti colpiscono alle spalle. Lo hanno lasciato solo, e si sono divertiti alle sue spalle sui social network".
Cosa le disse, dell'incidente?
"In ospedale mi disse: non correvo, te lo giuro, non sono scappato, ho chiamato subito i soccorsi. È stato un dramma".
Forse non siete riusciti a comunicarlo a Fabio e alla famiglia di Roberta?
"Abbiamo scritto subito una lettera di condoglianze, con il nostro dolore per quello che era accaduto. L'abbiamo firmata tutti".
Vi hanno risposto?
"No, nessuna risposta. E sono iniziate le fiaccolate, le pagine su Facebook. Neanche se mio figlio fosse stato un killer di professione. Era un bravo ragazzo di vent'anni, non un super ricercato di mafia".
L'oscura tentazione di giustizia fai da te: "Hai fatto bene Italo andava ucciso". Dopo l'assassinio del 22enne, sui social network si moltiplicano i commenti a sostegno del killer Denuncia della Procura: «Clima di odio morboso», scrive Manila Alfano, Venerdì 3/02/2017, su "Il Giornale". A Vasto sventolano ancora gli striscioni dai balconi che chiedono «giustizia per Roberta» e ci sono parole pesanti e insulti che rimbalzano addosso all'impazzata. Il giorno dopo la vendetta resta l'odio che non si placa. Una campagna di odio intorno al ragazzo ucciso per vendetta. Subdola, silenziosa, partita dalla rete e solidale solo nel voler spingere avanti chi, infine, ha sparato sperando di trovare sollievo. Restano tre famiglie distrutte, ognuna ha perso un figlio. Roberta Smargiassi morta a 34 anni, investita da Italo D'Elisa, il 22enne che non si era fermato al semaforo rosso, ucciso l'altro ieri da Fabio Di Lello, marito di lei, che l'ha freddato con tre colpi al cuore. Era distrutto da un dolore che niente è servito a lenire. Intorno parole che diventano coltelli. C'è il popolo della rete, scatenato, esaltato che scrive, commenta, condivide. A sostegno dell'uomo che davanti ad un immenso dolore non ha retto e si è vendicato. I commenti sui social che fanno paura: «Hai fatto bene». «Siamo con te». «Lo avrei fatto anche io». «Quando la giustizia non arriva bisogna farsi giustizia da sè». A Radio Capital l'avvocato Giovanni Cerella, il difensore di Fabio Di Lello butta benzina sul fuoco: «Italo D'Elisa, dopo l'incidente, non ha mai chiesto scusa, non ha mostrato segni di pentimento. Anzi, era strafottente con la moto. Dava fastidio al marito di Roberta. Quando lo incontrava, accelerava sotto i suoi occhi». Italo che era stato sottoposto a tutte le analisi e non era stato trovato né in stato alcolico né sotto effetto di sostanze. Non resta in silenzio neppure l'arcivescovo della diocesi di Chieti- Vasto, monsignor Bruno Forte: «Con un intervento rapido della giustizia e una punizione esemplare, la tragedia si sarebbe potuta evitare. La magistratura deve fare il suo corso ma nel modo più rapido possibile. Una giustizia lenta è un'ingiustizia». C'è un dolore che cresce e che monta, che si può solo immaginare, che cova al buio la notte, diventa chiodo fisso. È rancore e rabbia e frustrazione, disperazione nera. Ci può essere un'umana empatia, per un giovane marito che perde tutto. Vasto non solo si era stretto accanto a lui, si era proprio schierato con lui. Manifestazioni con cortei per «chiedere giustizia» da parte dei familiari di Roberta, con Fabio in testa, scontri sui social, liti mediatiche, la fiaccolata passando davanti all'ospedale fino al Palazzo di Giustizia, la preghiera nella Cattedrale San Giuseppe. Si organizzavano partite di calcetto sotto alla sigla «Giustizia per Roberta». E la rete, Internet, Facebook, hanno propagato l'onda di rabbia, impotenza, dolore. Per il procuratore della Repubblica di Vasto Giampiero Di Florio è grave. Parla di clima di odio, ingestibile per una mente indebolita da una perdita del genere. «Claque di morbosi - dice Di Florio - che ha portato avanti un'incomprensibile campagna di Giustizia in assenza di un procedimento entrato nell'aula del Tribunale e quindi di una discussione indirizzata. Questa claque doveva aiutare Fabio a venirne fuori, invece hanno alimentato il suo sentimento della vendetta ogni giorno». Da quando aveva perso la moglie, Fabio Di Lello non aveva più avuto pace. La sua vendetta si è consumata mercoledì pomeriggio, dopo mesi di dolore e rancore. Fabio che non si rassegnava a una vita davanti andata in frantumi senza neppure il tempo di un ciao. Su Facebook aveva messo un'immagine del film «Il gladiatore», accanto la foto di lei, sorridente, una colomba di pace e la scritta: «giustizia per Roberta». Dopo l'esecuzione non ci hanno messo molto i carabinieri a trovarlo. Sono andati al cimitero e lo hanno trovato vicino alla tomba della moglie; l'arma con cui ha ucciso Italo era vicino alla tomba. «La mia Roberta mi è stata rubata, rubata ai propri sogni». Fabio si sfogava e scriveva nello spazio dedicato ai lettori del portale zonalocale, una messa in suffragio per la moglie. «Mi chiedo, dov'è giustizia? Mi rispondo, forse non esiste! Non dimentichiamo, lottiamo, perché non ci sia più un'altra Roberta». Segnali di un malessere che nessuno ha fermato.
L'omicidio di Vasto e la nostra violenza: questa vendetta è il contrario della giustizia e del sentimento d'amore, scrive Francesco Merlo il 3 febbraio 2017 su "La Repubblica". Stiamo attenti al fascino ambiguo della passione e della follia romantica. Purtroppo c'è solo l'odio malato in questa vendetta di Vasto che è il contrario sia della giustizia sia del sentimento d'amore. Ed è orribile il dettaglio, da reality macho-noir, della pistola che l'assassino ha deposto come un mazzo di fiori sulla tomba della moglie vendicata, un gesto teatrale da carogna per bene, da giustiziere spietato ma di cuore, virile ma lieve, duro per necessità. La verità è che, nella tragedia di Vasto, terribile ed esemplare in questa Italia eccitata e imbruttita dalla rabbia sociale, c'è la forte complicità ambientale. C'è la grande responsabilità del coro, non solo virtuale, il "dalli al colpevole" che è in libertà, "una claque di morbosi", come l'ha definita il procuratore di Vasto, che ha istigato Fabio Di Lello a farsi giustizia da solo, a sentirsi come quel gladiatore cinematografico di cui ha postato la foto su Facebook. E di nuovo dobbiamo fare attenzione perché è capitato a Vasto, ma poteva capitare in qualsiasi altra parte d'Italia di sentire l'incitamento e l'applauso alla giustizia fai da te. Vasto, che è un bellissimo paese con la malinconia e la sapienza del mare Adriatico, non è certo abitato da sadici. Evidentemente anche lì si è fatto strada il livore, "un'incomprensibile campagna di giustizia", ha detto il procuratore Giampiero Di Florio: "Questa claque doveva aiutare Fabio a venirne fuori, e invece ha alimentato, giorno dopo giorno, il suo sentimento di vendetta". Dunque, incitato e protetto da manifestazioni, fiaccolate e istigazioni all'odio che duravano da sette mesi, Fabio Di Lello, calciatore e panettiere molto popolare, si è sentito protagonista di un film, di un fumettone, di una canzone maledetta o di un manga giapponese. Non si è accorto che si era invece infilato nella nevrosi caricaturale raccontata da Vincenzo Cerami e Alberto Sordi (Il borghese piccolo piccolo) e nella paccottiglia eroica dell'assassino per bontà. Dunque si è procurato la pistola, ha aspettato in strada Italo D'Elisa, quel ragazzo di 22 anni che era passato col rosso e aveva investito e ucciso la sua Roberta. L'omicidio colposo gli sembrava una raffinatezza e una trappola giuridica, lo voleva in galera, lo voleva morto e dunque, con la miserabile solidarietà della parte peggiore e più plebea del paese, ha interpretato il ruolo del cane di paglia, del Charles Bronson, della 44 Magnum per l'ispettore Callaghan o del bravo ragazzo di paese costretto a surrogare l'imbelle magistratura e a mettere le sue buone intenzioni al servizio del peggio, del sangue chiama sangue, a farsi selvaggio che emette la sentenza ed esegue la condanna perché non crede alla giustizia delegata, ai giudici e ai tribunali che non capiscono: tre colpi di pistola contro quel povero ragazzo, il quale - speriamo che Fabio Di Lello cominci a rendersene conto - è molto più vittima della sua vittima perché lui ha avuto un carnefice volontario, freddo, premeditato e pure infiammato da una folla fanatica che ancora lo acclama e lo celebra sui social, mentre lei, la povera Roberta, è morta in ospedale, il giorno dopo l'incidente. Stava sul motorino e quell'altro l'ha investita: è passato col rosso, ma sicuramente non voleva ucciderla e solo il processo avrebbe potuto stabilire quanta colpa c'era stata nella scelta di non rispettare il semaforo. Il procuratore di Vasto ha spiegato che era giusto lasciare libero Italo D'Elisa e che anzi non si poteva proprio arrestarlo, perché si era fermato a soccorrere Roberta, non era drogato, non aveva bevuto, non correva. Era passato con il rosso, ma questo non basta perché la libertà va rispettata, anche se meno di quanto va rispettata la vita. Si può capire che un marito senta dentro di sé la pulsione di sparare al mondo se sua moglie viene uccisa per strada. Ma è una pulsione oscura e primitiva che va tenuta a bada, specie con il passare del tempo, con la riflessione, con l'aiuto dell'ambiente e della civiltà diffusa. La forza della Giustizia è il distacco; ha sempre bisogno di una distanza e non può confondersi con il legittimo dolore dei familiari e con la loro rabbia, che è comprensibile ma non può ispirare il codice penale né consentire che il castigo diventi delitto. Anche noi cronisti che raccontiamo, interpretiamo e ci infiliamo dentro i fatti dovremmo tenere a bada tutto ciò che dà plausibilità al mito reazionario della giustizia privata, e stare attenti a evocare l'amore, le canzoni di De André, i presunti buoni sentimenti dell'individuo che precede lo stato, salta i processi e i tribunali, diventa giudice e boia. E non ci sono scuse per le reazioni sguaiate, eccessive e convulse della folla che ha sempre torto quando invita all'odio, quando si fa tribunale cieco. Andate a rivedere quel video girato da Andrea Lattanzi tre giorni fa, prima della sentenza che avrebbe condannato a 7 anni Mauro Moretti per il disastro colposo di Viareggio. C'è un una piccola folla che ritma gli insulti - "pezzo di m..." - contro Moretti. Sono così brutti da vedere che forse, chissà, gli stessi scalmanati, se si guardassero dall'esterno, capirebbero che lì, in quei cori, ci si smarrisce e si smarriscono le ragioni fondanti della civiltà dei diritti. Ebbene, proprio lì succede quel che non ti aspetti: interviene Marco Piagentini, che nella strage perse moglie e due figli. Determinato e cortese, li ringrazia per la solidarietà, ma li invita a smetterla: "Le offese no". Ecco: se qualcuno lo avesse fatto anche a Vasto, chissà ...Insomma, è una tragedia così estrema questa di Vasto che ci permette di dirci chiare certe cose oscure. E, per esempio, che ci sono pulsioni ancestrali e profonde che tutti abbiamo e alle quali, a caldo, ci piacerebbe abbandonarci. Ebbene, solo la legittima difesa, che peraltro richiede quel coraggio che non c'è mai nella viltà dell'agguato, ci consentirebbe di fare le cose che non si fanno e che a volte tutti vorremmo poter fare. Solo la legittima difesa rende giusti il cazzotto che non diamo, la "bella lezione" che non impartiamo, la violenza che non liberiamo, il colpo di pistola che non spariamo.
Le scarpe nuove per i terremotati? Vanno ai migranti. Scandalo in Abruzzo. Dopo averle abbandonate in un magazzino, 5mila paia di scarpe "Vans" raccolte da CasaPound finiranno alle associazioni che si occupano di accoglienza, scrive Giuseppe De Lorenzo, Mercoledì 01/02/2017, su "Il Giornale". Oltre 5mila scarpe di marca destinate ai terremotati sono state donate alle associazioni che si occupano di accoglienza. Ovvero ai migranti. È l'ultima, assurda puntata di una storia di sprechi e mancati controlli, burocrazia e negligenze, che ha finito col penalizzare gli sfollati del sisma dell'Aquila del 2009. Privandoli di scarpe, giacche e pantaloni che ora verranno indossati dagli immigrati. Facciamo un passo indietro e torniamo a quei drammatici momenti della primavera del 2009, quando una scossa di magnitudo 6.3 piegò il capoluogo abruzzese. Nel pieno dell'emergenza, il 5 agosto CasaPound riceve dall'azienda di abbigliamento statunitense «Vf International Sagl» un'ingente donazione destinata ai terremotati. Si trattava di 5.493 paia di calzature della «Vans», un vero e proprio tesoro in una situazione in cui un paio di scarpe avrebbero potuto fare davvero la differenza. CasaPound le affida all'amministrazione del Comune di Poggio Picenze che, in attesa di poterle distribuire, le stipa nel bocciodromo del paese. Per qualche motivo, però, nessuno si occupa di consegnarle agli sfollati e così inizia un tour di spostamenti infinito: a gennaio 2011 le calzature vengono portate in un magazzino comunale a l'Aquila e nel 2012 approdano nell'Autoparco Comunale. Un viavai ingiustificato con l'unica conseguenza di far cadere nel dimenticatoio quei doni dal valore complessivo di 39.175 euro. E infatti, col tempo, il magazzino si riempie di sampietrini e materiale elettorale, nascondendo le scarpe sotto la sporcizia. Solo nel febbraio dell'anno scorso gli agenti del Nipaf della Forestale si accorgono, casualmente, degli scatoloni colmi di beni intonsi e mai utilizzati. L'assurdo ritrovamento fa scattare le indagini coordinate dal pm Roberta D'Avolio. Nessuno però si assume la responsabilità di tanto spreco e nel fascicolo non ci sono indagati. Così, nel frattempo, i mesi passano e l'attenzione mediatica sollevata dal consigliere di circoscrizione Francesco De Santis pian piano si spegne. Fino a quando, pochi giorni fa - nel bel mezzo dell'emergenza neve che ha investito l'Abruzzo -, le autorità decidono di liberare le «Vans» dal blocco burocratico che le aveva imprigionate e di donarle ai bisognosi. Una nota positiva, direte. Certo, ma con una sorpresa. Alcune scarpe, infatti, sono state destinate ad associazioni impegnate nell'emergenza del recente sisma del Centro Italia, ma la maggior parte sono finite alle associazioni che gestiscono l'accoglienza. E andranno così a rivestire i richiedenti asilo ospitati nei centri profughi dispersi in tutto l'Abruzzo. La decisione di «preferire i migranti agli italiani» ha irritato (e non poco) i vertici abruzzesi di CasaPound che quelle scarpe si era impegnata a raccogliere: «Siamo sconcertati - scrive in una nota il responsabile abruzzese, Simone Laurenzi -. La volontà degli italiani di aiutare i propri compatrioti è stata tradita ancora una volta dalle istituzioni».
I 28 milioni donati con gli sms ai terremotati non sono ancora arrivati a destinazione, scrive il 19/01/2017 Ilario Lombardo su "La Stampa”. Nel giorno in cui la terra è tornata a tremare con forza nelle zone dell’Italia centrale, già fiaccate da uno sciame infinito, si viene a scoprire che i 28 milioni di euro donati dagli italiani per i terremotati di Marche, Lazio e Abruzzo sono ancora fermi nel conto aperto presso la Tesoreria Centrale dello Stato. Il Movimento 5 Stelle ha chiesto conto al governo di questi soldi raccolti attraverso sms e bonifici bancari durante il question time alla Camera, in un botta e risposta tra la deputata Laura Castelli e il neo-ministro dei Rapporti con il Parlamento Anna Finocchiaro. E così veniamo a sapere che, per una logica che appare puramente burocratica, i soldi ci sono ma non si possono toccare: il «protocollo d’intesa per l’attivazione e la diffusione dei numeri solidali», firmato con le società di telefonia che raccolgono gli sms solidali, e disponibile sul sito della Protezione civile, prevede un percorso preciso che sembra non tener conto del freddo, della neve, delle esigenze del territorio, dei bisogni della popolazione, del terrore delle nuove scosse. Come ricorda Finocchiaro in aula, prima si deve predisporre un’analisi dei danni nelle singole regioni e poi si sottopone a un comitato di garanti, che deve verificare il rispetto delle norme nell’utilizzo dei fondi. Alla fine, i soldi dovrebbero arrivare. «Una procedura incredibilmente lenta che stride rispetto all’emergenza - spiega Castelli – il paradosso è che la solidarietà resta ostaggio della burocrazia». In effetti, la particolare conformazione montuosa del territorio, la prevedibilità della stagione rigida dalla quale non si scappa, avrebbe dovuto rendere la macchina della solidarietà più flessibile per mettere a disposizione i 19 milioni di euro raccolti (in due tranche, al 30 novembre 2016) via sms tramite il numero 45500, e i quasi 8 milioni arrivati con bonifico bancario al 10 gennaio 2017. Il primo terremoto, di questa lunga serie che ha sconvolto il cuore del Paese, è del 24 agosto. Se si tiene conto solo di questo evento, quello più indietro nel tempo, e delle prime donazioni via cellulare chiuse il 9 ottobre, si contano 15 milioni fermi da oltre tre mesi. E tre mesi valgono come tre anni per chi non ha una casa e vede la neve sommergere le macerie senza che dia l’illusione di dimenticare. Per dire, altre forme di raccolta fondi, promosse da aziende private, hanno già prodotto risultati concreti e visibili. Il 29 gennaio, salvo proroghe, si chiuderà la terza donazione tramite sms, che, partita il 31 dicembre, ha già fruttato oltre un milione di euro. Sono 2 euro per ogni messaggio. Servono per ricostruire case, scuole, per salvare allevamenti e colture. L’importante è farli arrivare presto a chi sono destinati.
Quando, dove e perché si usano i soldi degli sms solidali. Secondo un accordo siglato con le società di telefonia, la raccolta si chiuderà a meno di proroghe il 29 gennaio: 28 milioni di euro raccolti finora, scrive Monica Rubino il 19 gennaio 2017 su "La Repubblica". La polemica è montata sui social ma il caso è stato sollevato dai 5stelle che, dopo il nuovo sisma che ha scosso il Centro Italia flagellato dalla neve, hanno accusato il governo di aver messo in naftalina i fondi per i terremotati raccolti dalla Protezione civile con gli sms solidali invece di utilizzarli subito per fronteggiare l'emergenza. Ma come funziona veramente il meccanismo delle collette di solidarietà per le popolazioni colpite dal terremoto? Quando e come si possono usare quei soldi? Ecco le risposte della Protezione civile.
Dove vanno a finire i soldi raccolti con gli sms? Le donazioni raccolte tramite il numero solidale 45500, nonché i versamenti sul conto corrente bancario attivato dal Dipartimento della protezione civile, confluiscono nella contabilità speciale intestata al commissario straordinario aperta presso la Tesoreria dello Stato.
A che cosa servono? Le somme servono a finanziare gli interventi di ricostruzione nei territori. Quindi è esclusa ogni utilizzazione per scopi emergenziali. Alla fine della raccolta viene nominato un Comitato di garanti, che ha il compito di valutare e finanziare i progetti presentati dalle Regioni in accordo con i Comuni interessati. Del progetto viene seguito anche tutto l'iter della realizzazione. Ad esempio in Emilia, dopo il terremoto del 2012, i fondi solidali sono stati usati per ricostruire scuole e palestre.
Quando si possono usare? Secondo un accordo siglato con le società di telefonia, che raccolgono gli sms solidali e versano i proventi senza alcun ricarico sul conto corrente della Protezione civile, la raccolta si chiuderà a meno di proroghe il 29 gennaio. Fino a che non si sa con esattezza quanti soldi siano stati raccolti (finora la cifra si aggira attorno ai 28 milioni di euro) non si può decidere quali progetti finanziare. Gli operatori che hanno aderito all'iniziativa senza scopo di lucro sono Tim, Vodafone, Wind, 3, Postemobile, Coopvoce, Infostrada, Fastweb, Tiscali, Twt, Cloud Italia e Uno Communication.
Casette per i terremotati: 18 e piene di bla bla bla. Mentre la gente dell'Italia centrale crepa guardando una casa che nessuno gli sistema, la malapolitica impera e il populismo ne detta l'agenda, scrive Giorgio Mulè il 3 marzo 2017 su Panorama. Dovremmo vivere il tempo della palingenesi della politica, e cioè un tempo del rinnovamento. Un’esigenza di rinascita legata principalmente alla necessità di depotenziare la disaffezione verso il Palazzo e con alcune derivate specifiche per ogni schieramento riassumibili così: nel centrosinistra Matteo Renzi sa di dover riparare al disastro del referendum e alla caduta della sua leadership; i 5Stelle, alla luce dell’avvilente gestione del Campidoglio, sono coscienti della crisi scatenata dall’accusa di incapacità di governare; il centrodestra non può sfuggire all’obbligo di tornare a essere un fronte unito e coeso se vuole riproporsi come forza di governo. Ad oggi, quel che manca in assoluto è la capacità di adempiere al primo compito che ci si aspetta dalla politica: scrivere un’agenda e rispondere così al compito principale richiesto a chiunque aspiri a guidare il Paese: qual è la visione dell’Italia? Invece, è il populismo a dettare l’agenda con la rincorsa spasmodica a inseguire l’avversario sul terreno del consenso immediato. Valga per tutti il mistificazionismo dei vitalizi, che rappresenta certamente un’odiosa stortura del sistema ma che non dovrebbe essere collocata in cima ai pensieri di partiti e movimenti. E invece il dibattito è tutto concentrato lì con uno scambio interminabile di accuse sterili, di battute ottime per i social network e i programmi televisivi. Se invece l’agenda fosse quella del Paese reale, tanto per restare ai fatti della stretta attualità, pensate che dopo quasi due lustri non si sarebbe approvata la legge sul fine vita? O che il provvedimento su concorrenza e liberalizzazioni starebbe ancora a galleggiare, non a caso, dentro un minestrone chiamato "decreto milleproroghe"? O che altri correttivi sulla giustizia (ragionevole durata dei processi, intercettazioni, diffamazione) non riuscirebbero a vedere la luce? Non è "colpa" del bicameralismo se per approvare una legge sono necessari in media almeno sette mesi: la responsabilità è in capo solo e soltanto alla malapolitica. E nulla c’entra il bicameralismo se il terremoto, con la tragedia della gestione dell’emergenza e della ricostruzione, non viene issato dagli schieramenti come vessillo della capacità di dare risposte concrete al Paese. Ma vi rendete conto che dopo sei mesi sono state consegnate agli sfollati soltanto 18 casette di legno? Che allevatori, artigiani e cittadini senza più un tetto sono ancora abbandonati al loro destino? Quale iniziativa concreta si è vista dopo che Panorama ha fatto ascoltare l’ammissione unilaterale della sconfitta da parte di Vasco Errani, commissario straordinario del governo per la ricostruzione? Nessuna, il vuoto pneumatico. L’incapacità della politica è rinchiusa tutta in quelle 18 casette di legno perché nessuno ha saputo tagliare le unghie alla burocrazia e nessuno ha pensato di predisporre una reale corsia di emergenza per rimettere in moto le regioni colpite dal sisma. Nell’agenda attuale trovate invece formulette semantiche vuote: al reddito di cittadinanza si oppone il lavoro di cittadinanza. Oppure alla palingenesi si preferisce il palindromo: al Pd si contrappone il Dp. Fino al prossimo insulto sui vitalizi. Mentre la gente dell’Italia centrale crepa, proprio così crepa, mentre guarda una casa che nessuno gli rimette in piedi.
Amatrice, il villaggio donato agli sfollati rimasto nei container. Posti letto per quattrocento persone. Il piano appoggiato dalla Croce Rossa. Ma tutto si è arenato. L'ira del sindaco. Dietro lo stop i dubbi della Protezione civile, anche se ufficialmente nessuno ha detto no. Alla fine la società che si era offerta di realizzare il campo ha deciso di rivolgersi altrove, scrive Fabio Tonacci il 5 marzo 2017 su “La Repubblica”. La più grossa donazione ai comuni terremotati del Centro Italia non s'ha da fare. E non si capisce perché. Si tratta di un intero campo di moduli abitativi che potrebbe ospitare 400 persone: 14 palazzine per un totale di 5mila metri quadrati di camere con bagno e riscaldamento, spazi comuni, cucine. Un piccolo villaggio smontabile e multiuso, dunque. Che sarebbe stato utilissimo durante l'ultima emergenza maltempo, quando chi aveva finalmente trovato il coraggio di rientrare nelle propria casa piombò di nuovo nella paura per i terremoti del 18 gennaio e finì a dormire nelle tende della Protezione civile, sotto un metro di neve. Eppure, la pratica della donazione finora più consistente (il campo vale un milione di euro) si è persa nel labirinto della burocrazia. "Io m'arrendo... ma che devo fare?", ringhia Sergio Pirozzi, il primo cittadino di Amatrice. Da due mesi insegue quei moduli, senza successo. E ora non sa nemmeno più con chi si deve arrabbiare. Il "campo dono" non è nuovo. È stato fabbricato otto anni fa e utilizzato prima in Somalia e poi, più di recente, nei cantieri della metropolitana di Milano. Da tre anni giace impacchettato in 37 container da quaranta piedi all'Interporto di Livorno. E da qui che bisogna cominciare a raccontare questa storia. Da Livorno, dove ha sede la Ciano International, un'azienda che si occupa del catering nelle basi della Nato e delle Nazioni Unite. A inizio anno i dirigenti della Ciano si rivolgono a Maurizio Scelli, ex deputato di Forza Italia ed ex capo della Croce Rossa italiana: vogliono donare quei container ad Amatrice, sostengono che siano conservati molto bene. Scelli, con il quale hanno collaborato già in Iraq, li mette in contatto con Pirozzi. "Ero entusiasta della proposta", ricorda il sindaco. "La mia idea era di farne due centri di Protezione civile nei comuni vicini ad Amatrice: a Posta e a Cittareale. Due aree attrezzate al servizio dell'Alta Valle del Velino, che potevano ospitare i volontari e, alla bisogna, gli sfollati". Siamo a metà gennaio, e tutto lascia presupporre che la donazione andrà a buon fine. Un'azienda con una certa reputazione internazionale regala un intero campo smontabile ai terremotati. Si offre pure di montarlo gratuitamente nel cratere. Con l'intercessione di Scelli, la Croce Rossa mette a disposizione i tir per trasportarlo da Livorno nel Lazio. E ci sono i sindaci di Posta e Cittareale che hanno trovato sia i terreni dove installarlo, sia chi getterà il cemento dove saranno piazzati. Ancora Pirozzi: "A quel punto decido di coinvolgere la Protezione civile nazionale, che mi rimanda a quella del Lazio. Da lì in avanti, le cose sono diventate confuse". Il primo a esprimere dubbi pare essere in realtà un dirigente della Protezione civile Toscana, tanto che l'ingegnere della Ciano Andrea Chiesa scrive un messaggio a Scelli: "La tipologia della nostra donazione (non essendo moduli abitativi pronti alla consegna) non rientra nei loro interessi visto che hanno acquistato e che stanno continuando ad acquistare moduli abitativi nuovi". Da Amatrice, però, insistono per averli. Allora da Roma, intorno a metà febbraio, sempre la Protezione civile manda a Livorno due funzionari per verificarne lo stato di conservazione. "Li ho portati all'Interporto e ho fatto vedere loro il materiale", dice l'ingegner Chiesa. "Mi hanno detto che avrebbero scritto una relazione per i loro superiori entro un paio di giorni. Da allora non li ho più sentiti". Da Amatrice lo staff del sindaco si agita e sollecita più volte la Protezione civile del Lazio per il trasferimento. Oggi no, domani no, dopodomani forse. Nell'attesa, si diffonde la convinzione che non vogliano il campo perché non è nuovo. Che esista, cioè, una precisa disposizione che vieti, nonostante l'emergenza, l'acquisizione di materiale usato. "Assolutamente falso", dichiara a Repubblica Carmelo Tulumello, direttore dell'Agenzia regionale di Protezione civile del Lazio. "La verità è che quel campo è una struttura mastodontica che richiede cementificazione e opere di urbanizzazione. Non c'era la garanzia dello stato in cui si trova, perché durante l'ispezione i moduli erano visibili soltanto in parte. E poi chi li avrebbe smaltiti 37 container navali?". Il punto è che non si riesce a capire chi abbia materialmente fermato l'operazione. Perché da una parte Tulumello sostiene di non avere posto alcun veto, e di aver fatto "solo delle osservazioni ai Comuni su cui ricadeva l'onere della gestione del campo". Dall'altra Pirozzi e gli altri sindaci aspettavano un via libera, che non è arrivato. Nessuno ha detto formalmente no, ma nessuno si è preso la responsabilità di accettare la donazione. L'epilogo è di pochi giorni fa: la Ciano sta cercando qualcun altro cui potrebbe servire un campo abitabile da 5mila metri quadrati e 400 posti.
Dio non è abruzzese. Dopo il terremoto e la tragedia all'hotel Rigopiano, lo schianto dell'elisoccorso. Dio, perché tante piaghe sull'Abruzzo? Scrive Tony Damascelli, Mercoledì 25/01/2017, su "Il Giornale". Dal libro del profeta Isaia: «Ricordatevi i fatti del tempo antico, perché io sono Dio e non ce n'è altri. Sono Dio, nulla è uguale a me. Io dal principio annunzio la fine e, molto prima, quanto non è stato ancora compiuto; io che dico: Il mio progetto resta valido, io compirò ogni mia volontà! Io chiamo dall'oriente l'uccello da preda, da una terra lontana l'uomo dei miei progetti. Così ho parlato e così avverrà; l'ho progettato, così farò». Il progetto, dunque. Ma quale progetto? Dove è Dio in Abruzzo? Non si hanno notizie da quelle parti della presenza del Creatore perché ormai tutto è distrutto, esistenze e dimore, natura e oggetti, il Creato formato dal nulla, nulla è tornato a essere. Il terremoto di Montereale, la valanga di Rigopiano, l'elicottero precipitato nella nebbia di Campo Felice, il tempo malvagio, il buio del lutto e dell'assenza di elettricità, il freddo, il gelo, il silenzio della morte e quello del mattino disperato, quando la luce fa capire che non è stato un incubo ma è vero tutto, maledettamente vero, tragicamente effettivo come il passare dei secondi, dei minuti, di ore che sembrano ormai inutili da vivere. Non nominare il nome di Dio invano, secondo comandamento. Ma non è invano che oso nominarlo, è proprio perché il pontefice di Roma ha detto che Dio è vicino all'Abruzzo. In che senso è vicino? A chi è vicino? Quando lo è stato? Durante il tempo imprevisto e terribile dei terremoti, che sono stati e sono ancora mille e più di mille? Quando la montagna di neve si è staccata per correre giù, sconvolgendo e travolgendo tutto quello che avrebbe incontrato lungo il pendio? Quando l'aria umida si è fatta nebbia fitta così ingannando l'elicotterista, precipitando nel vuoto. Nelle preghiere di chi chiede a che ora tutto questo sarà finito? Nelle candele accese, presenze di calore e di fede, fragile memoria per chi è scomparso? Nei volti dei disgraziati, sfigurati dallo strazio, dal dolore eterno? Uomini e donne che hanno perduto figli, madri, mogli, mariti e, insieme, la grazia, la benevolenza di Dio, perché questa è davvero la disgrazia, l'assenza di quell'atto di amore divino. La colpa è degli uomini, d'accordo, la responsabilità è degli atti delinquenziali, di chi costruisce abusivamente sulle macerie, di chi sfrutta la miseria altrui, di chi commette reati e, maledetto lui, trova la via d'uscita a differenza di quelle povere vite sotto la slavina dell'albergo o ancora altrove, sepolte prigioniere della neve mortale. Dove era, ancora, Dio, sull'autostrada verso Verona, sopra, di fianco, dentro quell'autobus magiaro che ha bruciato i corpi dei ragazzi in gita? Prevedo la risposta, la ascolterò ma è la stessa che viene ripetuta quando un fatto luttuoso colpisce e cancella in modo feroce, ingiusto anche, un'esistenza. Poi rileggo la Bibbia e il passo di Isaia (46:9) e chiedo perché «io compirò ogni mia volontà». La volontà di cancellare la vita di un infante o quella di un uomo di grandi speranze? No, non credo, non penso, lo escludo. Allora diventa un esercizio impossibile, un muro da scalare ogni minuto, con il vento cattivo che soffia contro. È il destino, è un Dio anonimo, che nessuno conosce, l'alibi per proseguire.
GLI ANGELI DI RIGOPIANO TRADITI DAL CAMBIO TURNO: BUCCI E DE CAROLIS NON DOVEVANO ESSERE SUL VELIVOLO, scrive Mercoledì 25 Gennaio 2017, Stefano Dascoli su "Leggo". Walter Bucci e Davide De Carolis, abruzzesi di L'Aquila e Teramo, su quell'elicottero non dovevano esserci ieri mattina: due cambi turno hanno disegnato un destino tragico. Ettore Palanca, romano, aveva scelto Campo Felice per trascorrere il suo giorno di riposo: il suo infortunio sulla neve ha innescato il drammatico schianto dell'elisoccorso del 118 dell'Aquila. Sono tre delle sei storie di questa assurda vicenda, di un velivolo che si alza come tante volte, atterra sulle piste da sci, soccorre un ferito, ma al momento del decollo percorre pochi chilometri e si schianta. Tra le vittime c'è, appunto, il romano Ettore Palanca, 50 anni, sposato con Roberta, un figlio piccolo. Il suo è un destino doppiamente sfortunato. Si è infortunato mentre sciava, riportando la frattura di tibia e perone. Una volta visitato, la centrale del 118 dell'Aquila ha optato per l'intervento dell'elicottero. Quell'elicottero che avrebbe dovuto soccorrerlo e che invece si è trasformato nella sua tomba. Ettore lavorava come maitre al ristorante L'Uliveto del Rome Cavalieri, l'albergo a cinque stelle di Monte Mario. La moglie è una sua collega, al front desk. Uno strazio nello strazio: ha saputo della morte del marito mentre era al lavoro. Capelli brizzolati, tifoso della Juventus, era attaccato alla famiglia e appassionato di sport: Ettore amava la corsa, che lo aveva portato a partecipare alla Roma-Ostia, e il calciotto. Ma soprattutto amava la montagna. «Proprio l'altro giorno mi ha detto che sarebbe andato perché amava sciare, mentre non gli piaceva molto il mare. Era un tipo allegro, salutava sempre tutti» ha ricordato ieri un suo collega. L'Abruzzo, ovviamente, ha pagato il prezzo più alto. Tra le sei vittime c'è Walter Bucci, una sorta di eroe della montagna: centinaia di interventi alle spalle, una disponibilità e una passione che non hanno mai conosciuto confini. Un dato, su tutti: era stato tra i primi ad arrivare a Rigopiano, una volta appresa la notizia della valanga che ha spazzato via l'hotel. Lì era rimasto ulteriormente, per giorni, come medico del 118. Rianimatore, 57 anni, sposato e con due figlie, ieri non doveva essere su quel volo: fatale è stato un cambio turno. Stessa sorte per Davide De Carolis, il 39enne teramano, sposato e con una figlia piccola, che a 13 anni era già nel Cai e a 21 gestiva un rifugio sul Gran Sasso. Anche la sua è stata una vita tutta dedicata alla montagna: gestiva un ristorante nella sua Santo Stefano di Sessanio che, sebbene sepolta dalla neve, non ha esitato ad abbandonare nei giorni scorsi per andare a scavare a Rigopiano. A Roma aveva trascorso la sua infanzia Giuseppe Serpetti, 58 anni, aquilano. Un omone buono cresciuto con la passione del soccorso in elicottero, coltivata fin da giovanissimo. Lascia la moglie Lucia e due figli piccoli, di 7 e 8 anni. Alla guida dell'elicottero c'era Gianmarco Zavoli, 47 anni, di San Giuliano a Mare (Rimini), dove viveva. Pilotava l'Agusta modello Aw139. Era un appassionato ciclista, iscritto alla Cicli Matteoni. Nel tempo libero partecipava a escursioni su strada con il team amatoriale. Mario Matrella, 42 anni, di Foggia, tecnico di volo, era l'esperto del verricello. Viveva a Putignano, in provincia di Bari. Lascia la moglie e quattro figli. Dipendente della Inaer Aviation spa, ma con un passato da tecnico dell'Alidaunia, faceva parte anche del soccorso alpino.
STRAGE HOTEL RIGOPIANO: DOPO UNA SETTIMANA E’ FINITA, scrive il 26 Gennaio 2017 "Prima Da Noi". La parola fine arriva ad una settimana esatta dalla valanga che ha travolto tutto: attorno alle 23 di ieri i vigili del fuoco tirano fuori da quel groviglio di macerie, neve, tronchi d'albero e detriti i corpi degli ultimi due dispersi. Quel che resta dell'hotel Rigopiano, a questo punto, è ormai solo un monumento all'orrore sotto il Corno Grande del Gran Sasso d'Italia. Che fosse questo, il finale, lo si era capito ormai da un paio di giorni e mercoledì se ne è avuta la certezza: nei discorsi ufficiali, nelle dichiarazioni ai tg, non c'erano neanche più quelle parole formali che servivano a lasciare aperta comunque una seppur minima speranza. E l'unico obiettivo rimasto a chi stava scavando senza sosta da giorni, era quello di trovare prima possibile tutti i corpi sepolti sotto la neve e le macerie. Per chiudere finalmente la macabra conta delle vittime, restituire i corpi alle famiglie e abbandonare prima possibile quella montagna piena di dolore. La svolta è arrivata lunedì notte e da allora, in 48 ore, i vigili del fuoco hanno tirato fuori da quel che resta dell'hotel 18 vittime; 9 le hanno estratte martedì e 9 mercoledì. Queste ultime sono sei donne e tre uomini: i loro corpi, come la maggior parte di quelli usciti da quell'inferno poche ore prima, erano incastrati tra pilastri, pezzi di cemento, neve e tronchi. Ed erano tutti in un unico ambiente: quello dove, prima che sul Rigopiano si abbattessero centinaia di tonnellate di neve, era il bar. I vigili del fuoco, in quella zona, c'erano arrivati due giorni fa. Erano entrati passando dalle cucine e lì avevano avuto già un brutto presentimento: alcuni di quegli ambienti erano rimasti miracolosamente intatti, ma non c'era nessuno. «Speravamo di trovare qualcuno ancora vivo - hanno ripetuto fino a ieri - anche se sapevamo bene che stavano per lasciare l'albergo e dunque erano tutti radunati da un'altra parte. Però magari qualcuno era tornato indietro, o si era attardato per qualche motivo in cucina. E se fosse stato così si sarebbe forse salvato». Concluse le verifiche nelle cucine, gli Usar, gli specialisti delle ricerche tra le macerie, sono passati al bar. Un'ampia zona tra la sala del camino, dove c'erano alcuni dei sopravvissuti, e l'area ricreativa, dove sono stati estratti vivi i tre bambini. Ma lì dentro la situazione era molto peggio: un unico groviglio di macerie e neve. E di corpi. Qualcun altro, invece, lo hanno recuperato nella zona dove erano le camere: quattro piani venuti giù completamente e schiacciati uno sull' altro. E gli ultimi due, un uomo e una donna, li hanno trovati sempre lì: nella zona tra il bar e la hall. Dove tutti gli ospiti e i dipendenti dell'albergo attendevano l'arrivo dello spazzaneve che avrebbe dovuto portarli via. Ma il mezzo non si è mai visto e al suo posto è arrivata la valanga maledetta. Alla fine di una giornata lunghissima, i morti sono quindi 29, quindici uomini e quattordici donne. Sommati agli 11 sopravvissuti, fanno tutte e quaranta le persone che mercoledì pomeriggio si trovavano nel Rigopiano. Non c'è più nessuno da cercare. Almeno non c'è più nessuno di ufficiale da rintracciare. Per questo le ricerche sono state sospese ieri notte, anche se è probabile che riprenderanno in mattinata per bonificare l'intera area ed escludere con certezza che non vi siano altre persone che non erano finite in nessun elenco. Delle 29 vittime, 20 sono state identificate: si tratta di 9 donne e 11 uomini: Rosa Barbara Nobilio e suo marito Piero di Pietro, Nadia Acconciamessa e il marito Sebastiano di Carlo, l'estetista dell'hotel Linda Salzetta, Paola Tommasini, Ilaria De Biase, Luana Biferi, Jessica Tinari, Sara Angelozzi, Marinella Colangeli, il maitre dell'hotel Alessandro Giancaterino, il cameriere Gabriele D'Angelo, Stefano Feniello, Marco Vagnarelli, l'amministratore dell'hotel Roberto Del Rosso, il receptionist Alessandro Riccetti, il rifugiato senegalese Faye Dame, Claudio Baldini, Emanuele Bonifazi. Gli ultimi 9 corpi da identificare sono all'obitorio dell'ospedale di Pescara, dove i parenti attendono di poterseli riportare finalmente a casa. Per i duecento uomini che hanno scavato per giorni, dopo aver capito che non ci sarebbe stato più nessuno vivo, ritrovarli tutti era l'unico obiettivo. E ci sono riusciti. E' finito lo strazio di una macabra e luttuosa contabilità, non finirà tanto presto, invece, lo stillicidio delle ricostruzioni di eventuali responsabilità che sembrano annidarsi ovunque. Uno stillicidio di omissioni e sviste che tutte insieme hanno creato la valanga che è venuta giù. Marco Tanda, il pilota 25enne della Ryanair originario di Gagliole (Macerata) e la fidanzata Jessica Tinari, di Lanciano, sono fra le vittime della slavina di Rigopiano. Il corpo di Marco è stato riconosciuto ieri sera dal fratello Gianluca: «ora che Marco non c'è più - le sue uniche parole - è il momento del silenzio». I due fidanzati sono stati ritrovati senza vita nella sala tv dell'albergo distrutto. Tanda era cresciuto a Castelraimondo, ma si era poi trasferito a Roma con la famiglia.
HOTEL RIGOPIANO. SOPRAVVISSUTI E VITTIME: TUTTI I NOMI. E' finita. Undici sopravvissuti, 29 morti, zero dispersi.
Tra la notte di mercoledì 25 gennaio e giovedì 26 la tragica contabilità della strage all'hotel Rigopiano è terminata. L'ultimo disperso è stato trovato. Cadavere, come tutti gli altri da sabato mattina in poi. Sono quindi 29 le vittime in quel resort travolto da una slavina mercoledi' di una settimana fa. Non ci sono più dispersi da cercare, le ultime speranze - già molto, molto ridotte - sono cadute intorno a mezzanotte, quando la prefettura di Pescara ha dato notizia del recupero del corpo di un uomo e di una donna. Degli ultimi corpi che mancavano all'appello. Un comunicato, due righe per dire appunto 29 vittime e 0 dispersi.
I SUPERSTITI SONO 11
I superstiti recuperati in macchina, all’esterno dell’hotel:
Il cuoco Giampiero Parete (che ha lanciato l’allarme) e il manutentore dell’hotel Fabio Salzetta.
I superstiti recuperati vivi sotto le macerie:
Adriana Vranceanu, 37 anni, (moglie di Parete) e il figlio Gianfilippo sono stati i primi ad essere stati estratti il 20 gennaio, venerdì mattina, e sono arrivati all’ospedale di Pescara nel primo pomeriggio.
Nella serata del 20 gennaio sono arrivati altri tre bambini: Ludovica Parete (che si è ricongiunta così ai suoi parenti già in salvo), Edoardo Di Carlo, 9 anni di Loreto e Samuel Di Michelangelo, 7 anni.
Sabato mattina, 21 gennaio, poco prima delle 6, in ospedale a Pescara sono arrivati Francesca Bronzi 25 anni di Montesilvano e i fidanzati di Giulianova Vincenzo Forti di 25 anni e Giorgia Galassi di 22 anni.
Alle 10.30 è arrivato in ospedale anche Giampaolo Matrone di 33 anni di Roma. I soccorritori lo hanno trovato grazie alla strumentazione della Scientifica che ha segnalato la presenza del suo cellulare.
LE VITTIME SONO 29
Mercoledì 25 gennaio, poco prima della mezzanotte, si sono spente definitivamente tutte le speranze di ritrovare qualcuno ancora in vita e sono stati recuperati tutti i 29 corpi dei dispersi.
Il primo ad essere stato trovato è stato Alessandro Giancaterino, 42 anni, meitre dell’hotel Rigopiano. Lascia la moglie Erika e un bimbo di 9 anni.
Seconda vittima identificata Gabriele D’Angelo, 30 anni, cameriere del resort e volontario della Croce Rossa.
Deceduti anche Nadia Acconciamessa, e Sebastiano Di Carlo, genitori del piccolo Edoardo, ricoverato in ospedale da venerdì sera. I due gestivano due pizzerie, una Loreto Aprutino e l'altra a Penne, aperta da poco. Oltre al piccolo Edoardo, che era in vacanza con loro, lasciano altri due figli, uno di 16 anni e l'altro di 20 al quale sarà affidato il sopravvissuto.
Non ce l'ha fatta nemmeno Barbara Nobilio, di 51 anni, anche lei di Loreto Aprutino.
Identificati martedì 24 gennaio anche il marito Piero Di Pietro, 53 anni, dirigente di Tua, l'azienda unica di trasporto regionale abruzzese. I due coniugi erano partiti per questa breve vacanza insieme ai loro amici Di Carlo.
Lunedì 23 gennaio era stata invece estratta dalle macerie, senza vita, Linda Salzetta, 31 anni di Penne che lavorava al centro benessere dell'hotel. Per il prossimo 7 maggio erano in programma le sue nozze. Linda era la sorella di Fabio, il manutentore che insieme a Parete ha dato l'allarme. «Ci mancava solo il terremoto, spero di tornare a casa ma non so come. Non ci libereranno», il suo ultimo sms ad un’amica.
Identificato dopo un lungo strazio per la famiglia anche Stefano Feniello, 28 anni, della provincia di Salerno, fidanzato di Francesca Bronzi (salvata). Nei giorni scorsi i familiari per quasi 24 ore avevano atteso l’arrivo del ragazzo in ospedale perchè la prefettura, per errore gli aveva annunciato che era stato trovato in vita.
Senza vita sono stati ritrovati anche Paola Tomassini, 44 anni, e Marco Vanarielli. I due avevano terminato la loro vacanza e stavano per far ritorno nelle Marche, dove vivevano. Vagnarelli era un dipendente dell'Ariston, mentre la compagna, originaria di Montalto Marche, lavora per la società Autogrill.
«Non ci posso credere, noi rimaniamo quassù per sempre», aveva detto lei la mattina del 18 gennaio, in un video che la ritrae immersa nella neve a poche ore dalla valanga che ricoprirà l'hotel Rigopiano. Il loro ultimo segnale è stato un accesso su Whatsapp alle 16.35 di mercoledì. Poco dopo, la valanga che ha travolto tutto e tutti.
L’ultimo corpo identificato nella giornata di martedì è stato quello del proprietario dell'hotel Roberto Del Rosso. Il suo ultimo messaggio alla moglie era stato inviato il giorno della tragedia, due minuti prima delle 17. L’uomo aveva raccontato che non si era quasi accorto delle forti scosse di terremoto della mattina perché impegnato a spazzare la neve.
La giornata più drammatiche sono state sicuramente quelle di martedì 24 di mercoledì 25 gennaio. Le macerie dell'hotel hanno continuato a restituire in rapida successione solo cadaveri. I soccorritori hanno estratto l'ultimo corpo, il 29° poco prima della mezzanotte.
Dunque non ce l'ha fatta Valentina Cicioni, 32 anni, moglie di Matrone, ancora in ospedale dopo un intervento al braccio. La donna era di Mentana, infermiera al blocco operatorio del policlinico 'Gemelli' di Roma. Su Facebook aveva pubblicato poche ore prima della tragedia le immagini del resort innevato.
Tra le vittime anche Tobia Foresta, 60 anni, dipendente della direzione provinciale dell’Agenzia delle Entrate di Pescara e sua moglie Bianca Iudicone, 50 anni, ClaudioBaldini e la moglie Sara Angelozzi di Atri.
Nell'hotel c'erano anche Domenico Di Michelangelo, 40 anni, di Chieti e Marina Serraiocco, 36 anni di Popoli. Loro sono i genitori di Samuel, il bimbo tratto in salvo nella sala da biliardo insieme ad altri due bambini. Nei giorni scorsi il sindaco di Osimo, che aveva citato fonti di polizia e della famiglia, i due adulti si sarebbero salvati ma i loro nomi non sono mai comparsi nella lista diffusa dalla Prefettura.
Recuperati anche Marco Tanda, 25 anni, di Macerata, pilota di Ryanair e la fidanzata Jessica Tinari, 24 anni, di Vasto. E poi ancora i coniugi Luciano Caporale, 54 anni, Castel Frentano e Silvana Angelucci, 46 anni, entrambi parrucchieri di Castel Frentano.
Sepolti dalla valanga anche Emanuele Bonifazi, 31 anni, di Pioraco, e il portiere della struttura Alessandro Riccetti, 33 anni, di Terni, l’estetista dell’hotel Cecilia Martella, la responsabile del centro estetico Marinella Colangeli, Ilaria Di Biase, 22 anni, era da tre anni impegnata nell’attività di cuoca e aveva vinto la selezione per prestare servizio in hotel, Luana Biferi dello staff e calciatrice dell'Acqua e Sapone, di Bisenti che poco prima della tragedia aveva scritto su facebook agli amici «Sono bloccata a Rigopiano con tre metri di neve... e il terremoto».
Il 22 gennaio una coppia di turisti tornata a casa prima della tragedia ha segnalato la probabile presenza all’interno dell’hotel di un extracomunitario che non figura in nessuna lista. Parlavano di Faye Dame, impiegato tuttofare arrivato dal Senegal con la voglia di crearsi una nuova vita.
Rigopiano, da Giorgia Galassi e Stefano Feniello, storie di chi torna e di chi non ce l'ha fatta. Il 28enne originario di Salerno è l'unico, tra le due coppie intrappolate nella stanza dell'hotel, ad essere morto, scrive L'"Ansa" il 25 gennaio 2017. Speranze, illusioni, gioia, rabbia. La vicenda di Rigopiano ha incrociato destini diversi per storie simili. Tanto da scatenare analogie e confronti. Nel ventre della montagna di neve che ha mangiato il Rigopiano c'erano anche due coppie di fidanzati, intrappolati a pochi metri di distanza: Giorgia Galassi e Vincenzo Forti, Francesca Bronzi e Stefano Feniello. Tra loro l'unico a non essere sopravvissuto è Stefano Feniello, 28enne originario di Valva (Salerno). Già prima che il corpo privo di vita venisse estratto dalle macerie, suo padre Alessio gridava la sua disperazione: "Quelli che sono morti sono stati uccisi, quelli che ancora non si trovano sono stati sequestrati contro il loro volere. Avevano le valigie pronte e volevano rientrare". E intanto aspettava notizie del figlio. Proprio lui, a cui venerdì sera, forse a causa di un errore nelle comunicazioni, le autorità, tra cui il Prefetto, avevano detto che Stefano era vivo e faceva parte di un gruppo di cinque persone in arrivo in ospedale. "A sentire il nome di mio figlio sono caduto faccia a terra - racconta - il giorno dopo ho penato fino al pomeriggio e ho atteso che qualcuno mi venisse a dire guardate abbiamo sbagliato". Poi la rabbia nel giorno dell'identificazione del corpo del figlio: "È una settimana che sono qui in ospedale". A non darsi pace era anche Francesca Bronzi, la 25enne di Pescara. La sua vita è cambiata mentre beveva un tè col fidanzato Stefano. Lo sconforto aveva di nuovo preso il sopravvento, dopo la gioia esplosa quando erano stati comunicati i nomi di cinque persone estratte dai resti dell'hotel, tra cui quello di Stefano. Un errore di comunicazione, forse, all'origine dell'informazione errata. Era la prima vacanza insieme per Stefano e Francesca. Lui aveva compiuto 28 anni martedì e lei, per il compleanno, gli aveva regalato due giorni di relax nella storica struttura di Rigopiano. Subito dopo la notizia della valanga, i due papà si erano messi in marcia per cercare di raggiungere il luogo del disastro. "E' una tragedia, ho mia figlia lì sotto - aveva detto Gaetano Bronzi con le lacrime agli occhi - era andata a fare una giornata con il ragazzo, c'è suo padre qui accanto a me. Volevano passare un week end, ma sono rimasti su". "Non erano mai venuti qui - aveva detto papà Alessio - Ma la speranza c'è ancora e noi aspettiamo. Non ce ne andremo". E ora le due famiglie criticano i metodi di comunicazione e le poche informazioni. Parlano di "mancanza di organizzazione", i Bronzi. "Nessuno ci fa sapere niente, apprendiamo informazioni solo dai giornalisti. Nessuno si degna di dirci nulla", ripetevano i Feniello. E non potevano fare altro che attendere. Tra muri di neve in quella stessa stanza d'albergo, immobili, al buio, senza poter comunicare con gli altri e senza udire alcun suono o rumore, neanche quelli dei soccorritori. Vincenzo era insieme alla fidanzata, Giorgia Galassi, 22 anni, per passare qualche giorno all'insegna del relax. Entrambi sono stati recuperati e ora sono in buone condizioni. Ora tutto è affidato a testimonianze, acquisizioni, documenti, autopsie. E se in quell'albergo a stabilire la sorte di Stefano è stata la roulette del caso, lo decideranno i magistrati.
Hotel Rigopiano, Francesca Bronzi scopre in diretta a Porta a Porta che il suo fidanzato è morto, scrive “Libero Quotidiano” il 26 gennaio 2017. Il lutto e una beffa tremenda. La tragedia dell'Hotel Rigopiano arriva nello studio di Porta a Porta, dove c'è Francesca Bronzi, che intervistata parla del suo fidanzato, Stefano Feniello, e della speranza di ritrovarlo vivo. Ma la speranza si spegne nel corso della diretta di martedì sera: arriva la conferma che uno dei corpi recuperati in serata è proprio di Stefano, riconosciuto grazie a un tatuaggio.
Bufera a Porta a Porta: Francesca parla del fidanzato disperso, ma lui è già morto. Bruno Vespa segue la tragedia di Rigopiano ma con una puntata registrata. Quando va in onda su Rai1 l'intervista alla sopravvissuta Francesca Bronzi, che spera di ritrovare ancora vivo il fidanzato, arriva la conferma: Stefano Feniello è tra le vittime, scrive Chiara Cecchini il 25 gennaio 2017 su "Today". Era l'ottobre 2010. Davanti a milioni di telespettatori la madre di Sarah Scazzi fu informata in diretta che sua figlia non era scomparsa, come si temeva e in fondo ancora si sperava in quel momento, ma era stata uccisa e del suo omicidio si era autoaccusato lo zio Michele Misseri. Successe a "Chi l'ha visto?", la tv-verità per eccellenza. Il bello e l'osceno della diretta, la necessità di fare informazione e servizio pubblico (mentre i concorrenti mandavano in onda puntate registrate su altri temi) ma anche il dilemma etico e il buonsenso di chiudere in tempo il collegamento, di allontanare le telecamere, di non riprendere il viso impietrito di Concetta Serrano. Sul Corriere della Sera Aldo Grasso difese la scelta di Federica Sciarelli. "Con le telecamere ormai accese 24 ore su 24, in una società organizzata attorno ai media, nella piena consapevolezza che ormai gli strumenti multimediali rappresentano il nuovo ambiente in cui viviamo, è inutile chiedersi se questo strazio collettivo in diretta andasse fermato o no. Da tempo viviamo nel post-Vermicino", scrisse il critico di via Solferino, cercando di contestualizzare un episodio che aveva aggiunto una nuova pagina alla lunga e atroce storia della spettacolarizzazione del dolore in tv. Sono passati sette anni. Altri milioni di telespettatori seguono con il cuore in gola i tremendi aggiornamenti dall'hotel Rigopiano, che ormai continua a restituire solo morti. Bruno Vespa e il suo Porta a Porta sono "sul pezzo", ma con una puntata registrata. Nessun collegamento fiume dai luoghi della tragedia modello Vermicino, niente "telecamere ormai accese 24 ore su 24", solo l'intervista a Francesca Bronzi, una dei sopravvissuti alla tragedia del resort distrutto dalla slavina. La giovane, estratta viva e trasportata all'ospedale di Pescara, racconta quelle 50 ore passate nel buio e al freddo, stringendo la mano del fidanzato Stefano Feniello. Al momento della registrazione della puntata, Feniello era ancora nella lista dei dispersi. Mentre il racconto di Francesca, e la sua speranza di poter riabbracciare il suo Stefano, si diffonde su Rai1 arriva la tragica conferma: il ragazzo è morto, suo padre lo ha riconosciuto ufficialmente da alcuni tatuaggi. Aveva un senso quell'intervista, in quel momento, in quel contesto, "nella piena consapevolezza che ormai gli strumenti multimediali rappresentano il nuovo ambiente in cui viviamo"? Tra gli "strumenti multimediali" citati da Grasso ormai c'è anche Twitter e proprio sul social network si è sfogata la rabbia di chi ha assistito all'ennesimo scollamento tra realtà e informazione. "#francesca scusa per come sei stata USATA da #vespasciacallo credimi non siamo tutti così!..non tutti gli #abruzzesi sono così #portaaporta", tuona un utente.
Morte di Stefano Feniello all’hotel Rigopiano, lo straziante racconto della fidanzata, scrive Angela Bonora su "Info Cilento" il 25 gennaio 2017. La giovane Francesca Bronzi, durante un noto programma Rai, racconta la sua testimonianza della valanga all’Hotel Rigopiano. Lei e il suo fidanzato Stefano Feniello avevano deciso di passare una notte fuori per festeggiare in modo romantico il compleanno di lui. A Stefano, originario di Valva provincia di Salerno, questo compleanno però gli è costato la morte. È stato il padre infatti, a riconoscere il suo corpo attraverso un tatuaggio. Francesca durante l’intervista a “Porta a Porta”, racconta che tutti gli ospiti dell’Hotel Rigopiano erano terrorizzati per aver avvertito circa 5 scosse fino a quel momento. Erano stati più volte rassicurati dal personale della struttura sulla stabilità dell’albergo, ma nonostante questo erano tutti in attesa che arrivasse uno spalaneve per liberare la strada. Francesca continua dicendo che prima del boato, lei era di fronte al suo fidanzato davanti al caminetto, quando hanno avvertito un forte rimbombo ed un urto che ha fatto spostare lei di alcuni metri in avanti, da quel momento riusciva a vedere solo il braccio di Stefano attraverso la torcia del cellulare. Durante le 50 ore passate sotto le macerie Francesca dichiara “ero al buio, in uno spazio piccolissimo, senza acqua né cibo, sono stata sempre rannicchiata con le ginocchia al petto”, per fortuna accanto a lei c’era un’altra coppia di fidanzati Vincenzo Forti e Giorgia Galasso, che le passano della neve per potersi dissetare. I giovani, appena hanno sentito dei rumori provenire dalla superficie, hanno gridato aiuto molte volte fino a quando i vigili del fuoco li hanno salvati. La giovane Francesca con le lacrime agli occhi, dopo aver raccontato l’orribile tragedia che l’ha divisa per sempre dal suo amore, conclude rivolgendo un ringraziamento ai suoi soccorritori, in particolare ad alcuni di loro.
Gossip Barbara D'Urso criticata in tv da Giorgia Galassi dell'hotel Rigopiano, scrive il 25 gennaio 2017 Domenico Mungiguerra, Esperto di Tv e Gossip su "it.blastingnews.com". Giorgia Galassai, sopravvissuta alla tragedia dell'Hotel Rigopiano attacca Barbara D'Urso in tv. Colpo di scena durante la diretta tv di oggi 25 gennaio di #Pomeriggio 5, la trasmissione di #Barbara D'Urso che in questi giorni sta continuando a tenere alta l'attenzione sulla tragedia dell'Hotel Rigopiano: diverse le vittime che sono state estratte morte dalla struttura così come diversi sono state anche le persone che miracolosamente sono state estratte vive dall'Hotel. Ebbene durante la diretta di oggi di Pomeriggio 5 la D'Urso ha avuto la possibilità di intervistare la coppia di sopravvissuti di questa tragedia: parliamo di Giorgia Galassi e del suo fidanzato Vincenzo Forti, i quali al termine della conferenza stampa ufficiale che hanno fatto per parlare alla stampa di quanto è accaduto in quelle ore in cui sono stati sommersi sotto la neve all'interno dell'albergo, hanno concesso un'intervista alla conduttrice del talk show di Canale 5. Ebbene le gossip news rivelano che nel momento in cui Giorgia Galassi si è collegata in diretta con Barbara D'Urso ha subito mosso una critica alla conduttrice di Pomeriggio 5 per una lettera che lei avrebbe letto nel corso dei giorni scorsi, presentandola al pubblico da casa come una missiva scritta da Vincenzo Forti, fidanzato della Galassi. Ebbene la donna ha precisato che quella lettera non è stata scritta dal suo compagno e quindi quanto letto dalla D'Urso non era vero. A quel punto, però, ecco che la padrona di casa di Pomeriggio 5 ha preso la parola e si è difesa dalle accuse e dalle critiche di Giorgia Galassi, affermando che in realtà lei si è solo limitata a leggere quanto riportato in questi giorni sui vari quotidiani, tra cui Corriere della Sera e La Repubblica. A quel punto la reazione della sopravvissuta dell'#hotel Rigopiano è cambiata e ha precisato che non sapendo questo particolare, muoveva la sua crtica contro chi ha riportato queste false notizie, affermando di non avere nulla contro la D'Urso e ringraziandola per la possibilità che le è stata data di fare chiarezza in diretta tv.
Rigopiano, trovati due corpi nel caminetto trascinati della valanga. Le persone recuperate, tutte senza vita, sono salite a 29 e all'interno dell'albergo non dovrebbe esserci più nessuno, scrive Marta Proietti, Giovedì 26/01/2017, su "Il Giornale". Il bilancio delle vittime dell'hotel Rigopiano è salito a 29 e quasi sicuramente all'interno della struttura non c'è più nessuno. Nella straziante ricerca, i vigili del fuoco hanno trovato due persone dentro il caminetto, con le mani davanti al volto probabilmente per proteggersi dai crolli del soffitto. Dalle prime ricostruzioni sembra sia stata la forza della valanga a spingerli dentro a quella che è diventata la loro tomba. Al momento non è ancora possibile identificarli perché i volti sono totalmente sfigurati.
La mappa dell'hotel-cimitero: uno per uno, dov'erano i morti, scrive il 27 gennaio 2017 “Libero Quotidiano”. Una mappa agghiacciante e allo stesso tempo commovente. E' quella che pubblica oggi il quotidiano Il Messaggero sulle vittime dell'hotel Rigopiano. Una per una, nome per nome con tanto di numerino, il quotidiano romano mostra dove sono state trovate le vittime della slavina dello scorso 28 gennaio. Stanza per stanza: si scopre così che ben 13 di loro erano distribuite tra la reception la hall, dov'erano in attesa dello spazzaneve che avrebbe dovuto arrivare per aprirgli la strada verso la fuga e la salvezza, ma che non è mai arrivato lassù. Dieci erano nella zona bar, una tra quella e la sala biliardo. Una al bancone del bar e tree in cucina, al lavoro. Nessuno al ristorante. Nelle camere stavano in pochi. E quelli si sono salvati, perchè stavano più in alto, nella parte di hotel colpita solo in parte dalla massa di neve. Tutti quelli che invece erano giù in attesa di partire sono invece morti.
Rigopiano, alcune vittime trovate con il cellulare in mano altre con il volto coperto dal gomito. Le operazioni per il recupero dei corpi all'hotel Rigopiano sono ormai concluse. Ora, i soccorritori raccontano dettagli agghiaccianti su come sono state trovate quelle 29 persone prive di vita, scrive Serena Pizzi, Venerdì 27/01/2017, su "Il Giornale". La tragedia dell'hotel Rigopiano è una di quelle tragedie che si farà fatica a dimenticare, due giorni dopo dal recupero di tutti i corpi rimasti sepolti sotto la slavina che ha travolto il resort, emergono particolari terribili di quella morte arrivata all'improvviso. I soccorritori hanno raccontato alla stampa scene che rimarranno impresse nella memoria per la loro drammaticità e allo stesso tempo per la loro quotidianità. Sì perché gli ospiti dell'hotel Rigopiano, che mercoledì 18 gennaio hanno perso la vita sotto cumuli di macerie e neve, stavano trascorrendo un normale mercoledì pomeriggio. "Gli angeli" che hanno salvato 11 persone, ma che non hanno potuto fare nulla per altre 29, hanno confessato di aver trovato nella tomba glaciale dell'hotel Rigopiano corpi totalmente schiacciati dalle macerie e dal peso della valanga. Nella cucina, invece, - si legge su il Messaggero - c’erano le due cuoche ancora intente nella preparazione dei cibi. La slavina le ha colte all'improvviso e allo stesso modo la morte se le è portate via. Anche l’addetto al ricevimento si trovava sul posto di lavoro, nella reception della struttura. Il giovane, probabilmente si occupava anche del bar, collocato nella stessa stanza, perché aveva ancora in mano il braccio della macchina del caffè quando è stato trovato. Gli ospiti, invece, erano radunati nella hall del resort. Alcuni di loro erano seduti accanto al camino che in quel momento ardeva. Quel camino che tanto era amato perchè riscaldava, probabilmente, è costato la vita a quelli che gli sono finiti contro. Altri ancora sono stati trovati dai soccorritori con in mano il cellulare. Forse stavano aspettando il segnale per mandare un messaggio per rassicurare i parenti o forse per inviare messaggi di aiuto. Tanti forse e nessuna risposta. La furia della slavina non ha risparmiato nessuno. Alcuni corpi sono stati trovati fra le ante delle porte. Poi, c’è stato anche chi è morto con il volto coperto dal gomito per ripararsi dai crolli. Un'immagine terribile. Quasi tutte le vittime indossavano un abbigliamento sportivo da montagna. Altre, invece, sono state estratte senza indumenti. Tra le macerie sono emersi molti effetti personali di uomini e donne rimasti sepolti e dei sopravvissuti. C’era una bambola, un accendino, dei fogli, brandelli di borse, materassi, scarpe, valige, giochi, tanti giochi. Tutti testimoni di vite vissute e spezzate. Ora, le operazioni di recupero delle vittime si sono concluse. La "zona rossa" sarà presidiata ancora per qualche giorno, per consentire di concludere la seconda fase, cioè quella dello smontaggio di tutte le attrezzature utilizzate dai soccorritori. "Le operazioni di soccorso all’hotel Rigopiano sono state tra le più complesse che abbiamo mai gestito - ha dichiarato il direttore centrale delle emergenze dei Vigili del fuoco, Giuseppe Romano - un crollo di un edificio di 4 piani sotto una valanga in uno scenario di terremoto, con l’impossibilità di arrivare sia via terra che via aria e con le comunicazioni difficili".
Il racconto dei superstiti a Rigopiano: "Salvi mangiando neve". Giorgio e Vincenzo prigionieri per 58 ore della neve al Rigopiano: "Quando sono arrivati i soccorsi abbiamo urlato", scrive Claudio Cartaldo, Giovedì 26/01/2017, su "Il Giornale". Il tavolino, la tazza di tè, la tranquillità di una vacanza particolare. Sì, c'era tanta neve. Ma quando cadono i fiocchi pensi solo a qualcosa di bello, forse romantico. Non ad una tragedia. Giorgia Galassi e Vincenzo Forti invece hanno vissuto la tragedia della valanga che ha travolto l'hotel Rigopiano. Erano lì sotto. A lottare tra la vita e la morte. In attesa che qualcuno, come poi successo, li salvasse. Di fronte ai microfoni dei giornalisti, Giorgia e Vincenzo hanno ripercorso quelle drammatiche ore. "Quando la batteria del telefonino si è scaricata siamo piombati in un buio profondissimo, ermetico - dice Vincenzo - Non si vedeva più nulla e ci si poteva orientare solamente con la voce". Grazie a quella flebile luce i due fidanzati sono riusciti a capire dove si trovassero e a vedere la parete di ghiaccio che sarebbe diventata la loro fonte di acqua necessaria per sopravvivere. Con loro c'era anche Francesca Bronzi, la fidanzata di Stefano Feniello morto intrappolato sotto le macerie. "Il terremoto di quella mattina si era sentito molto forte e aveva terrorizzato gran parte degli ospiti. Piangevo di paura", ammette Giorgia. La sua mano è sorretta da quella di Vincenzo: "Quelli dell’albergo — dice il ragazzo, riportato da Repubblica — ci ripetevano che non c’era pericolo. Poi ci hanno invitato ad aspettare nella sala grande, accanto al camino, il posto più sicuro della struttura. Eravamo seduti su un divanetto a bere un tè. Che ci potesse essere un rischio valanghe? Nessuno ne ha parlato, non ci abbiamo pensato. Abbiamo sentito un boato tremendo, abbiamo pensato a un sisma, ma in un baleno ci siamo trovati sotto la neve". Sotto quella coltre di detriti, neve e alberi la più grande sofferenza, dicono i superstiti, era la sete. "Per fortuna che abbiamo trovato subito la parete di ghiaccio e neve - racconta Giorgia - Ogni volta che ne staccavo un pezzo — racconta Giorgia — ne passavo la metà a Francesca: soffrivamo maledettamente la sete". Ma dicono di non aver mai avuto paura di non farcela: "Sapevamo che qualcuno sarebbe arrivato, prima o poi". E infatti li hanno tirati fuori. Un miracolo. Quando hanno capito che li avevano individuati hanno "urlato come dei matti". "Un pompiere toscano che ci ha aiutati e sorretti - ricorda Giorgia - e parlato con noi per tutto il tempo. 'State tranquilli, ci ha detto subito, noi non ce ne andremo mai di qui, se non insieme a voi'. Non me lo dimenticherò mai". Sulla morte di Stefano Feniello perdurano alcune polemiche. Il padre nei giorni scorsi ha denunciato la poca chiarezza con cui sono state date le comunicazioni ai familiari su dispersi, morti e sopravvissuti. Ma soprattutto Francesca, la fidanzata di Stefano, continua a dire che lui era lì accanto a lei. Che ha visto la sua mano con l'orologio che gli aveva regalato. Eppure, Giorgia e Vincenzo dicono che lì con loro il ragazzo non era presente. Ma solo Francesca. "Probabile che si tratti di una sorta di piccola allucinazione", spiegano dall’ospedale di Pescara Repubblica. Un modo per riempire il vuoto dell'assenza di Stefano. Quel fidanzato che ora purtroppo nessuno le riporterà indietro.
Rigopiano, i superstiti: “Così siamo sopravvissuti”, scrive Maddalena Carlino su "L'Unità TV" il 22 gennaio 2017. Le storie di chi è riuscito a sopravvivere si mescolano a quelle di chi non ce l’ha fatta. Undici sopravvissuti, cinque corpi senza vita recuperati e 24 dispersi segnalati: è questo il bilancio attuale della tragedia dell’hotel Rigopiano. Le storie di chi è riuscito a sopravvivere si mescolano a quelle di chi non ce l’ha fatta. Dolore e sollievo si uniscono così nel dramma dell’Hotel Rigopiano. Drammatiche le testimonianze di chi è rimasto imprigionato per 58 ore sotto i ghiacci: “La paura, il buio, la fame. Ci siamo salvati succhiando neve”, racconta Giorgia Galassi, la donna giuliese scampata insieme al fidanzato Vincenzo Forti dopo due giorni di prigionia sotto le macerie de Rigopiano di Farindola. “Il momento peggiore – racconta Giorgia – è stato il secondo giorno lì sotto. Eravamo chiusi in una scatola, senza la cognizione del tempo. Non sentivamo rumori da fuori. Continuavamo a dissetarci succhiando ghiaccio, ma non mangiavamo, e le forze e le speranze cominciavano a venire meno”. Poi quei rumori che non erano più solo scricchiolii del ghiaccio, le voci. “Allora abbiamo cominciato a bussare sul soffitto a più non posso. Loro ci hanno chiamati. Io subito ho urlato “sono Giorgia e sono viva”. Ed è stata la cosa più bella che abbia mai detto”. “E’ stata una bomba, mi sono ritrovato i pilastri addosso. Ero seduto sul divano e i pilastri sono scivolati in avanti tagliandolo in due. Ci siamo salvati per questo”. Così invece Vincenzo Forti ha raccontato all’amico Luigi Valiante, l’esperienza della valanga. Con l’amico pescatore che è andato a trovarlo ha ripercorso tutti i momenti della tragedia: “Io sono rimasto senza scarpe. Indossavo i leggings che mi aveva prestato la mia fidanzata. In un attimo ci siamo ritrovati in tre in un metro quadrato. Ci siamo abbracciati, nutrendoci di neve”. Poco distante Forti sentivano anche le voci di un altro ragazzo e dei bambini, con i quali non è stato possibile comunicare. “La paura è stata tanta e abbiamo pregato”, ha detto il sopravvissuto. Triste e drammatico il destino che unisce Edoardo e Samuel, anche se per il secondo c’è ancora la speranza che possa riabbracciare entrambi i genitori. Otto e sette anni, i due bambini sono ora al caldo e coccolati dopo la tragedia che li ha travolti il 18 gennaio quando l’immensa valanga ha spazzato via l’hotel di Farindola, dove erano in vacanza con le loro famiglie. Sono riusciti a venire fuori da quell’inferno di neve. Tratti in salvo dai soccorritori, sono stati portati all’ospedale di Pescara. Fisicamente stanno bene. La loro tempra è forte. Hanno superato anche una leggera ipotermia ma, dicono i medici che li tengono sotto osservazione “psicologicamente sono provati”. I due bimbi in ospedale attendono le loro mamme e i loro papà. Solo nel tardo pomeriggio di sabato la notizia che nessuno avrebbe voluto sentire. Viene riconosciuta la terza vittima: è la mamma di Edoardo, Nadia Acconciamessa, 48 anni, moglie di Sebastiano Di Carlo. Lei dipendente della Asl di Pescara, lui titolare di una pizzeria a Loreto Aprutino (Pescara). Di Sebastiano nessuna notizia, fino a stasera: è lui una delle vittime recuperate nelle ultime ore. Nessuna informazione, invece, sui genitori di Samuel Di Michelangelo, il piccolo della famiglia del poliziotto, Domenico, 41 anni, di Chieti, e Marina Serraiocco, che vivono a Osimo (Ancona). Risultano ancora tra i dispersi. Nella notte sono poi state estratte vive altre quattro persone, due uomini – Giampaolo Matrone (lievemente ferito) e Vincenzo Forti – e due donne, Francesca Bronzi e Giorgia Galassi. “Abbiamo altri segnali da sotto la neve e le macerie – ha detto il funzionario dei vigili del fuoco Alberto Maiolo – stiamo verificando. Potrebbero essere persone vive, ma anche le strutture dell’albergo che si muovono sotto il peso della neve”. “Le tenevo la mano, poi nulla” riferisce Giampaolo Matrone uno degli 11 sopravvissuti. Ha raccontato con parole strazianti ai soccorritori di come ha dovuto lasciare la moglie lì. “Le stringevo la mano e le parlavo per tenerla sveglia perché volevo che rimanesse sempre vigile. La chiamavo, poi a un certo punto non l’ho sentita più e ho capito che mi stava lasciando”. Vicino a lui, Matrone ha raccontato di un’altra donna che non dava segnali di vita. Parla anche il manutentore, Fabio Salzetta: chiamavo ma nessuno ha risposto “Ho cercato di chiamare qualcuno fino a quando ha fatto buio. Ma nessuno rispondeva. Poi ha continuato a nevicare, è venuto giù un altro mezzo metro di neve. Era troppo rischioso rimanere là”. Fabio Salzetta, il manutentore dell’hotel Rigopiano, racconta per la prima volta quei momenti maledetti. “Erano tutti raggruppati nella speranza di andarsene ma non avevamo paura, nessuno si immaginava che potesse succedere una cosa cosi'”. Ma cosa ricordi? “Neve, neve e basta”. Nella serata di venerdì, la prefettura di Pescara aveva fornito un elenco di cinque nomi, indicandoli come quelli che si trovavano sotto le macerie, erano stati individuati e dovevano essere estratti vivi: oltre a Matrone, Bronzi, Forti e Galassi anche Stefano Feniello, del quale al momento non ci sono notizie. Il bilancio ufficiale delle vittime è salito a cinque: ai primi due corpi recuperati, quello del maitre dell’hotel Alessandro Giancaterino e del cameriere Gabriele D’Angelo, si sono aggiunti quelli estratti nella notte dai soccorritori: Nadia Acconciamessa e Sebastiano Di Carlo, genitori del piccolo Edoardo, che si è salvato e Barbara Nobilio, 51 anni, di Loreto Aprutino (Pescara), che era in vacanza con il marito, di cui non si hanno ancora notizie. All’appello, infine, secondo quanto reso noto dalla prefettura di Pescara mancherebbero 23 persone, tutte disperse.
Estratta viva dall'hotel di Rigopiano, Giorgia viene insultata su Facebook. Giorgia Galassi è stata estratta viva dalle macerie dopo 58 ore insieme al fidanzato Vincenzo Forti. Entrambi sono in buone condizioni, scrive Marta Proietti, Mercoledì 25/01/2017, su "Il Giornale". È una dei sopravvissuti alla tragedia dell'hotel Rigopiano e ha voluto condividere su Facebook la sua gioia e gratitudine. Ma il popolo del web, invece di essere felice per lei, ha deciso di riempirla di insulti. "Giorgia Galassi si sente rinata". Inizia così il post della studentessa di Giulianova che ha fatto infuriare gli utenti. La ragazza è stata estratta viva dalle macerie dell'hotel Rigopiano dopo 58 ore sotto la slavina insieme al fidanzato Vincenzo Forti e condotta all'ospedale di Pescara in condizioni di salute buone. Ha continuato Giorgia: "Volevo ringraziare tutte le persone che si sono preoccupate per me in questi giorni e che mi sono state vicine col pensiero. Grazie a tutti". E un cuoricino rosso. Gli internauti hanno accusato Giorgia di mostrare poca empatia verso i suoi compagni di vacanza di cui ancora non si conoscono le sorti. "Ma un minimo di sensibilità per chi è ancora là sotto non le passa per il cervello e per il cuore?" commenta uno degli iscritti a Facebook sotto il post della studentessa di scienze dalla comunicazione. Mentre invece un altro non ha preso bene neanche i ringraziamenti della ragazza: "Non ringraziare le persone che ti sono state vicine con il pensiero, ma ringrazia Dio e i soccorritori", le suggerisce. Fortunatamente molte altre persone hanno preso le difese di Giorgia. "Se questa ragazza ha già trovato la forza, almeno apparente, di andare avanti e vivere la sua vita normalmente, tanto di cappello!" commenta una donna, mentre un'altra spiega: "E come sempre tutti bravi a parlare, criticare e giudicare quando non si è dentro una situazione".
Rigopiano, dalla neve recuperate tutte le vittime: sono 29. Gentiloni: "Sui soccorsi fatto tutto il possibile". Recuperati tutti corpi, tra loro anche l'amministratore dell'albergo Roberto Del Rosso e il receptionist Alessandro Riccetti. 11 le persone tratte in salvo. Il premier difende la macchina dei soccorsi. In un colloquio col nostro giornale, la funzionaria che disse: "La valanga sull'albergo inventata da imbecilli" risponde alle accuse. Procura: "Nei risultati delle prime sei autopsie, molti morti per schiacciamento, altri per varie concause: schiacciamento, asfissia, ipotermia. Nessuno deceduto per solo assideramento", scrive il 25 gennaio 2017 "La Repubblica". E' il bilancio finale: 29 vittime, 11 sopravvissuti. Non c'è più nessuno da salvare all'hotel di Rigopiano è un immenso cantiere che di ora in ora ha fatto emergere nuove vittime. Nella notte sono stati recuperati i corpi di tre uomini e questa mattina i vigili del fuoco hanno estratto all'interno della struttura crollata due donne e un altro uomo senza vita, non ancora identificati. Nel pomeriggio, poi, il cadavere di un'altra donna e, in serata, gli ultimi. Sono 11 le persone salvate. Tra le vittime recuperate c'è anche l'amministratore del Gran Sasso Resort Roberto Del Rosso. "Viveva praticamente lì, non lo abbandonava mai" dicevano a Contrada Mirri, l'avamposto più vicino all'hotel. Fino a sei, sette anni fa era in società con i fratelli. Poi si era ricomprato tutto e aveva ristrutturato il resort con la piscina, la spa, il centro benessere. Ed è stato trovato anche il corpo del suo collaboratore, Alessandro Riccetti, 33 anni, il receptionist ternano dell'albergo. Nelle ore precedenti erano stati identificati anche i corpi di Paola Tomassini, Marco Vagnarelli, Piero Di Pietro e Stefano Feniello, quest'ultimo erroneamente inserito in una prima lista di persone salvate. E mentre il premier Gentiloni, in audizione al Senato, difende la macchina dei soccorsi, con "una capacità di reazione del sistema all'altezza di un grande paese", anche la Procura oggi 'assolve' i soccorsi dalle accuse di eventuali ritardi: "Dalle autopsie su sei vittime risulta che nessuno di loro è morto solo per assideramento. Molti hanno perso la vita subito per schiacciamento". La pm: "Autopsie per sei vittime, nessuno morto per solo ipotermia". "Abbiamo i risultati delle prime sei autopsie: molti morti per schiacciamento, altri per varie concause concorrenti: schiacciamento, asfissia, ipotermia. Nessuno, a quanto ci risulta, morto per solo assideramento", così riferisce nel punto pomeridiano con la stampa il procuratore aggiunto di Pescara, Cristina Tedeschini. Dunque, aggiunge la pm, in questi primi sei casi eventuali ritardi nei soccorsi non sarebbero stati causa diretta di morte. "Ma altre sei autopsie sono in programma, e comunque le eseguiremo su ogni vittima", aggiunge Tedeschini. La pensa diversamente il legale di parte della famiglia di una delle vittime, Gabriele D'Angelo: "Sul mio assistito non ci sono segni di traumi, né di asfissia come emorragie congiuntivali - spiega Domenico Angelucci, medico di parte della famiglia D'Angelo, "secondo noi è morto per assideramento e se fosse stato soccorso entro due ore probabilmente poteva essere salvato". In un palatenda gremito da centinaia di persone si sono svolti a Loreto Aprutino, in provincia di Pescara, i funerali religiosi di Sebastiano Di Carlo, 49 anni, e Nadia Acconciamessa, 47 anni. In prima fila il figlio della coppia, Edoardo, di 8 anni, scampato alla sciagura e fino a ieri ricoverato all'ospedale di Pescara. Accanto a lui i parenti, tra cui il fratello Riccardo poco più che ventenne, al quale il bambino dovrebbe venire ora affidato. C'é anche l'altro fratello, Piergiovanni, sedicenne. Tra le due bare di legno marrone una foto dei Di Carlo abbracciati e sorridenti. E Loreto Aprutino, poche migliaia di abitanti, piange da ieri quattro vittime, dopo il riconoscimento del corpo di Piero Di Pietro, che si va ad aggiungere tra le vittime alla moglie Barbara Nobilio. Le due coppie erano amiche ed erano andate assieme in vacanza all'albergo sul Gran Sasso. Gentiloni al Senato "Soccorritori esemplari, no capri espiatori": "Siamo orgogliosi dei soccorritori. All'inizio le azioni sono state ritardate in modo drammatico per l'impossibilità di usare elicotteri, per il rischio di altre slavine e per le condizioni della viabilità. E avete visto in che modo l'albergo è stato poi raggiunto alle 4,30 del mattino. Da allora, è stato messo in atto ogni sforzo possibile umano, organizzativo e tecnico per raggiungere l'albergo, per trovare i dispersi e cercare di salvare vite umane. Abbiamo mostrato una capacità di reazione del sistema all'altezza di un grande paese. Nella nostra memoria rimarranno impresse le immagini dei lutti che ci hanno colpito ma anche le immagini dei soccorritori, cittadini italiani esemplari, due di loro hanno perso la vita". Così il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni riferendo in aula al Senato sulla situazione di emergenza in Centro italia e sulla slavina dell'hotel Rigopiano. "Ci sono stati ritardi, malfunzionamenti, responsabilità? Saranno le inchieste a chiarire questo punto. La verità serve a fare meglio, ma non ad avvelenare i pozzi. Non condivido la voglia di capri espiatori e giustizieri". E ancora: "A Rigopiano c'è stata una coincidenza micidiale che non si ricorda a memoria d'uomo, con le scosse di terremoto e una nevicata di dimensioni eccezionali". Dighe, 40 in tutta l'area del sisma ma no a voci incontrollate: "Abbiamo lavorato con il ministero delle Infrastrutture per la verifica della tenuta delle 40 dighe nella zona interessate dal sisma, dighe che vengono verificate di prassi ogni volta che si verifica una scossa di magnitudo superiore a quattro. E che quindi sono state ripetutamente verificate negli ultimi mesi. Evitiamo il diffondersi di voci incontrollate su rischi esagerati". "Black out di energia, cause da verificare": "Nel momento di picco della crisi, il 19 gennaio, le utenze non allacciate hanno raggiunto il numero considerevole di 177mila, oggi ne sono rimaste solo alcune centinaia nel Teramano. E' giusto, da parte del governo, verificare quanto abbiano inciso le circostanze eccezionali o quanto ciò abbia messo in luce problemi più generali di manutenzione", dice Gentiloni. La protesta del senatore-sindaco "Basta! Ditemi quanto tempo ho a disposizione per parlare, altrimenti sfascio tutto e me ne vado! Come si fa a parlare con questa lucetta che ti lampeggia davanti!". Così sbotta in aula il senatore marchigiano di Fi, Remigio Ceroni, sindaco di Rapagnano, comune della provincia di Fermo colpito dalle scosse, "apprezziamo i toni di Gentiloni" dice Ceroni "ma noi sindaci vogliamo essere consultati". Intanto, in un colloquio con Repubblica, risponde alle polemiche la funzionaria della prefettura che aveva ignorato l'allarme sulla valanga, la telefonata disperata di Quintino Marcella, definendola una "bufala" inventata da imbecilli. "Ci saranno modi e tempi per chiarire tutto. L'importante è avere la coscienza a posto, e io ce l'ho".
HOTEL RIGOPIANO, LA TRAGEDIA MINUTO PER MINUTO. I punti fermi di quella giornata maledetta, scrive il 24 Gennaio 2017 Alessandra Lotti su "Prima da Noi".
HOTEL RIGOPIANO, 6° GIORNO SPERANZE DIETRO UN MURO. 15 MORTI, 11 SALVI, 14 DISPERSI. Ore lunghissime, passate dai sopravvissuti ad aspettare aiuto, vissute con fatica e lavoro da parte dei soccorritori impegnati a fronteggiare condizioni meteo estreme, trascorse via via con maggiore apprensione da parte di chi aspettava notizie. E' la giornata che ha portato alla tragedia dell'hotel Rigopiano, iniziata con un altro dramma, un nuovo sciame sismico che per la quarta volta dal 24 agosto ha squassato l'Italia centrale.
ORE 5.00 – Esonda il fiume Pescara, segnale evidente di quella ondata di maltempo che ha colpito in modo particolare l'Abruzzo pescarese, con nevicate anche a bassa quota e pioggia che ha appesantito la neve caduta in abbondanza nelle ore precedenti.
18 GENNAIO 2017
ORE 9.00 – L’hotel Rigopiano scrive sulla propria pagina Facebook un post "Causa maltempo le linee telefoniche sono fuori servizio! Vi invitiamo a contattaci all'indirizzo info@hotelrigopiano.it".
ORE 10.25 - Prima scossa di terremoto, di magnitudo 5.3, con epicentro nell'aquilano. Scattano i soccorsi in tutto il centro Italia ma ci si accorge subito che il problema maggiore non sono i nuovi crolli, ma le condizioni meteo.
ORE 11-14 – Seconda forte scossa con epicentro, ancora una volta nell’aquilano. Magnitudo 5.4. La neve alta in molte zone, compreso il versante adriatico del Gran Sasso, impedisce di operare agli uomini della protezione civile, mentre continua a nevicare.
ORE 11.27 – Terza forte scossa. Magnitudo 5.3. Altro problema la mancanza di corrente, che disturba anche le comunicazioni.
ORE 13.00 – Alcuni clienti, tra i quali Stefano Feniello, chiamano a casa per informare i parenti che hanno già caricato le auto e pagato il conto perché torneranno a casa. Aspettano il passaggio dello spazzaneve. Sono tutti radunati nella hall.
ORE 13.30 – E’ questa l’ora precisa in cui il presidente della Provincia di Pescara, Antonio Di Marco, sostiene di aver scritto al Governo Gentiloni per ottenere nuovi mezzi spazzaneve.
ORE 13.57 – I clienti pranzano e il direttore dell’hotel Rigopiano, Bruno Di Tommaso che si trova a Pescara, invia una email alla polizia provinciale (che poi la inoltrerà al presidente della Provincia alle 15.44) nella quale si chiede l’intervento dello spazzaneve perché «la situazione è diventata preoccupante». In quel momento in contrada Rigopiano c’erano 2 metri di neve, i telefoni fuori uso, e i clienti «terrorizzati per le scosse» come scrive Di Tommaso sono disposti a trascorrere la notte in macchina. A quest’ora con le pale e il loro mezzo lo staff dell’hotel era riusciti a pulire il viale d'accesso, dal cancello fino alla Ss42.
ORE 14 - La sorella del proprietario Roberto Del Rosso incontra il presidente della Provincia, Antonio Di Marco, e viene rassicurata sul fatto che entro sera sarebbe andata una turbina a liberare la strada.
ORE 14.33 – Quarta forte scossa. Magnitudo 5.1.
ORE 15.00 - L'arrivo dello spazzaneve viene posticipato alle 19.00. I clienti si agitano. Stefano Feniello chiama alla mamma arrabbiato e racconta, come riferito dal padre: «non riusciamo a tornare a casa perché quei pezzi di merda che dovevano pulire non si sono degnati di arrivare».
ORE 15.44 - La Polizia Provinciale di Pescara inoltra alla Provincia l’email di aiuto firmata da Di Tommaso quasi 2 ore prima. Il presidente Di Marco la leggerà comunque il giorno seguente ritenendola superata perché dopo l’invio del direttore lui aveva avuto un colloquio diretto con la sorella del titolare.
ORE 17.08 - Parte la prima chiamata di Giampiero Parete dall'Hotel Rigopiano: viene agganciata da un operatore del 118 di Chieti, che chiede a Parete di attendere in linea, ma la linea cade immediatamente.
TRA LE 17.08 E LE 18.20 - Parete riesce a contattare il 113 e lancia l'allarme: in questo stesso arco di tempo Di Tommaso viene contattato per sapere se è vero che si è verificata una valanga. Ma lui non sa niente perché si trovava a Pescara.
ORE 17.40 - «E' caduto, è caduto l'albergo», è l'appello disperato di Giampiero Parete al telefonino con Quintino Marcella, suo datore di lavoro.
ORE 18.00 - Inizia ad arrivare l'allarme alle centrali operative: «C'è un hotel completamente isolato in una frazione di Penne». Marcella ha difficoltà a farsi credere, in particolare dalla prefettura di Pescara che due ore prima aveva ascoltato il direttore dell'albergo non riscontrando problemi.
ORE 19.00 - Le avanguardie dei soccorritori arrivano in contrada Cupoli a 11 km da Rigopiano. Ma la neve raggiunge già i due metri e i telefoni non prendono.
ORE 22.00 – La colonna dei mezzi imbocca l'ultimo tratto di strada: mancano 9 km all'hotel ma la salita si ferma.
ORE 23.00 - Ultimo contatto della notte di Giampiero Parete con Quintino Marcella. Lo richiama la mattina, una volta raggiunto dai soccorritori e messo sull'elicottero.
19 GENNAIO 2017
ORE 0.00 - Quattro uomini del soccorso alpino e della Guardia di Finanza partono con gli sci con le pelli di foca per raggiungere sotto la bufera di neve Rigopiano.
ORE 4.00 - Dopo avere letteralmente scalato muri di neve arrivano all'hotel e si rendono conto della situazione. Ma, intanto, salvano i due superstiti Fabio Salzetta e Giampiero Parete.
ORE 6.30 – E’ l'alba quando arrivano i primi elicotteri che portano a valle i due uomini: inizia la faticosa ricerca dei dispersi.
ORE 9.30 – Viene estratto il corpo della prima vittima. E’ Alessandro Giancaterino, dipendente dell’hotel.
ORE 12.00 - La colonna dei mezzi dei soccorsi arriva a poche centinaia di metri dall'albergo. Dopo 20 ore, facendo l'ultimo tratto a piedi, raggiungono il luogo del disastro.
ORE 15.00 – I primi soccorritori arrivati ritornano verso valle dopo aver ricevuto il cambio: «Non c'è più niente».
Hotel Rigopiano: chi sono le vittime e i dispersi della slavina. È salito a 15 il bilancio dei morti: 9 uomini e 6 donne. 14 le persone di cui non si hanno notizie. Compreso un giovane senegalese, scrive Ilaria Molinari il 24 gennaio 2017 su Panorama. Sono 6 giorni che la tragedia dell'Hotel Rigopiano, resort a 4 stelle di Farindola in provincia di Pescara sommerso sotto una slavina, tiene con il fiato sospeso l'intera Italia. Il lavoro instancabile dei Vigili del Fuoco e del Soccorso Alpino ha consentito finora di estrarre vive 9 persone (oltre alle 2 scampate alla slavina) e tre cuccioli di cane figli delle due mascotte della struttura, ma restano ancora 14 dispersi, tra turisti e personale. C'erano 40 persone nell'hotel Rigopiano quando la valanga, nel pomeriggio di mercoledì, ha investito la struttura: 28 ospiti, di cui 4 bambini, e 12 dipendenti, compreso il titolare Roberto Del Rosso e il rifugiato senegalese Faye Dane. E la tragedia c'è. È la tragedia del piccolo Edoardo, vivo, ma che ha perso sotto la neve i genitori Nadia e Sebastiano. È la tragedia di Gabriele e Alessandro, cameriere e capo dei camerieri dell'Hotel, morti nel luogo a cui dedicavano la maggior parte della loro giornata. È la tragedia di tutte le famiglie che ancora non sanno se i loro cari sono vivi o meno.
Le vittime. Sono 15 i corpi estratti senza vita dalla neve, 9 uomini e sei donne: quelli di Nadia Acconciamessa e di Sebastiano Di Carlo, madre e padre del piccolo Edoardo tratto in salvo, quello di Barbara Nobilio, 51 anni, di Loreto Aprutino (Pescara) in vacanza con il marito di cui non si hanno tracce. A queste tre vittime si aggiungono Gabriele D'Angelo, cameriere dell'hotel e Alessandro Giancaterino, capo dei camerieri e del bar dell'albergo. D'Angelo, volontario della locale Croce rossa, era conosciuto da diversi soccorritori presenti nel centro di coordinamento allestito al Palazzetto dello Sport di Penne. Infine, 5 uomini e tre donne estratte morte il 23 e il 24 gennaio e ancora non identificate insieme al corpo di Linda Salzetta, l'estetista del Rigopiano e sorella di Fabio, il tuttofare dell'hotel. Linda "si doveva sposare il 5 maggio". Lo ha detto una parente della giovane dopo il funerale a Farindola di Alessandro Giancaterino, dello stesso paese di Linda. "Per guadagnarsi un pezzo di pane, guarda che fine che ha fatto", ha commentato la parente della ragazza morta.
I dispersi. Ancora 14 i dispersi tra cui il titolare della struttura Roberto Del Rosso. Tra loro ci sono Marco Vagnarelli e Paola Tomassini di Castignano (Ascoli Piceno) che si trovavano nella località abruzzese per una vacanza di due giorni e stavano per ripartire alla volta del Piceno. Vagnarelli è un dipendente dell'Ariston, mentre la compagna, originaria di Montalto Marche, lavora per la società Autogrill. Nessuna notizia anche di Stefano Feniello indicato come una delle persone che avevano dato segni di vita sotto le macerie, di Domenico Di Michelangelo, 41enne poliziotto, e dalla moglie Marina Serraiocco, entrambi di Osimo in vacanza con il figlio Samuel estratto vivo. Non si hanno notizie poi di Emanuele Bonifazi, 31 anni, di Pioraco, dipendente dell'hotel, e Marco Tanda, 25 anni, residente a Macerata. Era con la fidanzata abruzzese Jessica Tinari, anche lei dispersa. Tra i dispersi c'è anche un altro cittadino umbro: è Alessandro Riccetti, 33 anni, di Terni. Risulta dispersa anche una coppia di Castel Frentano (Chieti). Si tratta di Luciano Caporale, 54 anni, e la moglie, Silvana Angelucci, 46 anni, entrambi di professione parrucchieri. La coppia era giunta in hotel domenica pomeriggio per ripartire martedì sera ma, a seguito del peggioramento delle condizioni meteorologiche, ha deciso di trattenersi fino a mercoledì. I figli della coppia, unitamente ad altri famigliari, sono già in viaggio verso Penne al centro di coordinamento per avere notizie certe sulla sorte degli scomparsi. All'appello manca anche un giovane senegalese, Faye Dame, che aveva da poco rinnovato il suo permesso di soggiorno presso gli uffici della Questura di Torino dove risulta residente. L'uomo, 42 anni, aveva ottenuto il rinnovo del permesso esibendo il contratto di lavoro con l'albergo. Incensurato, agli uffici della Questura risulta regolare in Italia dal 2009.
Le testimonianze. "Sono salvo perchè ero andato a prendere una cosa in automobile" ha riferito ai medici Giampiero Parete, 38 anni, che ieri ha lanciato l'allarme per la valanga che ha travolto l'hotel. La moglie e i due figli di Parete sono sotto le macerie dell'albergo. "È arrivata la valanga - ha detto ancora ai sanitari il 38enne, ricoverato in Rianimazione - sono stato sommerso dalla neve, ma sono riuscito a uscire. L'auto non è stata sepolta e quindi ho atteso lì l'arrivo dei soccorsi". L'uomo residente a Montesilvano (Pescara), è cosciente ed è assistito dal personale della Rianimazione dell'ospedale di Pescara e dagli psicologi della Asl. È arrivato in stato di ipotermia, ma il quadro clinico non è preoccupante. È stato lui ieri a lanciare l'allarme al suo datore di lavoro. Poi la lunga attesa dell'arrivo dei soccorsi, insieme all'altro superstite. "Giampiero e tutti gli altri ospiti dell'albergo avevano pagato ed avevano raggiunto la hall, pronti per ripartire non appena sarebbe arrivato lo spazzaneve" ha raccontato poi Quintino Marcella, ristoratore. Gli avevano detto che sarebbe arrivato alle 15, ma l'arrivo è stato posticipato alle 19. Avevano preparato già le valigie, tutti i clienti volevano andare via". Così Quintino Marcella, ristoratore e datore di lavoro di Giampiero Parete, superstite della valanga sull'hotel Rigopiano. E' proprio al ristoratore che Parete ha lanciato l'allarme dopo la valanga.
I giornali stranieri. La tragedia segna l'apertura dei più importanti siti web di informazione del mondo: dalla Cnn alla Nbc News, dalla Bbc ad Al Jazeera, dal Telegraph al Guardian, da El Pais alla Vanguardia. I titoli rispecchiano l'ansia dei soccorritori: "Molti dispersi", scrive la Bbc, "si temono molti morti dopo che una valanga ha sepolto un hotel in seguito ad una scossa di terremoto", riferisce la Cnn. Con un taglio poco più basso la notizia è riportata anche dal Washington Post, che a sua volta titola su "decine di dispersi", così come il New York Times, il Wall Street Journal e Le Monde, mentre Le Figaro titola con "numerosi morti". La tragedia è riportata in homepage anche su Times of India, Russia Today, il Japan Times.
Rigopiano: allarme ignorato, spazzaneve in ritardo, mezzi senza gasolio, elicotteri fermi, le 4 falle dei soccorsi. Le istituzioni respingono però le accuse: situazione eccezionale, scrive Michael Pontrelli su Tiscali News il 19 gennaio 2017. La Procura di Pescara ha aperto una indagine per omicidio colposo sulla vicenda della valanga che ha travolto l’hotel Rigopiano a Farindola sul Gran Sasso. Le cose da chiarire sono tante in particolar modo sulla tempestività dei soccorsi. Secondo le prime ricostruzioni uno dei superstiti, Giampiero Parete, avrebbe raccontato che tutti i clienti erano pronti a lasciare l’hotel già dal primo pomeriggio perché in un primo momento era stato detto loro che lo spazzaneve sarebbe arrivato alle 15. L’arrivo è stato successivamente posticipato alle 19. Quattro ore di ritardo fatali dato che la prima notizia sull’avvenuta tragedia è stata data da Parete tramite sms ad un amico, Quintino Marcella, alle 17.40. Perché l’invio dello spazzaneve è stato ritardato? Seconda area grigia riguarda poi la tempestività della messa in moto della macchina dei soccorsi. "Quando ho dato l’allarme all’inizio non volevano credermi, la dirigente della prefettura di Pescara per due volte mi ha risposto che non era successo nulla" ha raccontato Quintino Marcella (come testimoniato dall'audio video di sopra). La partenza della carovana dei soccorsi è avvenuta intorno alle ore 20 come documentato dalla diretta dell'emittente televisiva locale Il Centro. Dal momento dell'invio dell’sms di allarme di Giampiero Parete a Quintino Marcella alla messa in moto dei soccorsi sono trascorse perciò oltre 2 ore. Si poteva fare più in fretta? I primi soccorritori sono giunti all’Hotel poco prima delle 4 e mezzo del mattino. Sulle operazioni hanno inciso le terribili condizioni meteorologiche. I mezzi di soccorso, comprese le ambulanze, diretti all'hotel Rigopiano sono rimasti bloccati a circa 9 chilometri dall'albergo. La neve caduta, almeno due metri, ha impedito loro di proseguire. I soccorritori hanno dovuto marciare per ore nella neve. Durante le operazioni non sono però mancati gli imprevisti. La prima colonna di soccorsi è rimasta bloccata per mancanza di gasolio e ha potuto riprendere grazie alla taniche di carburante trasportate a piedi dagli uomini della Protezione Civile. Questo rallentamento era evitabile? Secondo quanto appreso dall'Ansa l'ex base operativa degli elicotteri del Corpo Forestale dello Stato di Rieti, presso l'aeroporto Ciuffelli, nonostante l'emergenza risulta chiusa con ben tre elicotteri fermi. Il blocco, che si protrae da giorni, sarebbe dovuto al passaggio, dopo la riforma Madia, di uomini e mezzi della Forestale ai Carabinieri e ai Vigili del Fuoco. Durante l'emergenza sisma del 24 agosto la base e il suo personale avevano garantito l'operatività con decine di interventi di soccorso nelle zone terremotate, anche a supporto delle squadre del Soccorso Alpino. Sarebbe stato possibile superare gli impedimenti burocratici e far volare gli elicotteri? Altro aspetto poco chiaro che sarà sicuramente approfondito dalla magistratura riguarda l'allerta valanghe emesso giorni fa dal Meteomont, cioè il servizio nazionale prevenzione neve e valanghe, che indicava livello 4, il massimo è 5, di pericolo nella zona del Gran Sasso. Il rischio emesso è stato rispettato o valutato? C'erano le condizioni per far emettere dagli enti locali le ordinanze di evacuazione nelle zone a rischio? Gli uomini delle istituzioni hanno respinto qualsiasi accusa. “In azione uomini valorosi che hanno lavorato in condizioni al limite” ha affermato il numero uno della Protezione Civile Fabrizio Curcio. “Situazione eccezionale” gli ha fatto eco il ministro dei Trasporti Graziano Delrio. Per il premier Gentiloni si è creata una "tenaglia senza precedenti" tra terremoto e maltempo e “di fronte a questa morsa tutte le istituzione dello Stato si sono mobilitate". Ma il fronte istituzionale non è compatto. La presidente della Camera, Laura Boldrini ha definito “intollerabili le inefficienze e i ritardi sugli aiuti”. Anche l’ex capo della Protezione Civile Guido Bertolaso ha utilizzato parole dure riferendosi all’emergenza maltempo che imperversa nelle zone terremotate parlando di “Stato assente” e di "punto più basso" per la macchina dei soccorsi. Gli uomini che ieri hanno marciato tra muri di neve e un vento gelido per arrivare il prima possibile all'hotel Rigopiano sono degli eroi. Questo va detto senza se e senza ma. Purtroppo però l'eroismo dei singoli non basta se chi guida la macchina dei soccorsi non è efficiente al 100%. Sarà compito della magistratura fare chiarezza su quanto accaduto e dare una risposta ai dubbi che purtroppo rimangono nonostante le rassicurazioni dei vertici istituzionali.
Soccorsi in ritardo. La scoperta imbarazzante: la verità sulla turbina rotta, scrive il 22 gennaio 2017 “Libero Quotidiano”. Sarà l'inchiesta della procura di Pescara a chiarire se la tragedia dell'hoterl Rigopiano poteva essere evitata e chi non ha fatto fino in fondo il proprio dovere. Nel giorno dei primi interrogatori e del sopralluogo dei magistrati sull'area del disastro, il procuratore Cristina Tedeschini concentra l'attenzione su chi aveva il compito di disporre l'evacuazione dell'albergo, dopo che era stata diramata l'allerta meteo, e chi poi doveva liberare le vie d'accesso. Nel mirino ci sono le comunicazioni partite dall'hotel nelle ore precedenti la slavina di mercoledì scorso, oltre che quelle partite dalla provincia verso Palazzo Chigi. Tra le attrezzatture a disposizione della provincia di Pescara è noto che ci fosse una sola turbina del 1988, oltre che un Unimog, un camioncino in grado di tagliare l'erba d'estate e spalare la neve d'inverno, nelle disponibilità dell'ente pescarese dal 2000. Questo mezzo però si è rotto lo scorso 7 gennaio e da allora nessuno avrebbe autorizzato la spesa, variabile tra i 10 mila e i 25 mila euro, per poterlo riparare, nonostante la neve fosse cominciata a cadere copiosa. Uno dei dettagli che i magistrati dovranno chiarire è il motivo per cui dopo le richieste d'aiuto siano passate diverse ore prima che i mezzi di soccorso si muovessero. L'allarme del cuoco di Rigopiano è partito alle 17.40, raccolto dal suo datore di lavoro, Quintino Marcello che a sua volta ha chiamato la Prefettura. Alle 18, quando ormai l'emergenza è conclamata, l'Anas riceve la richiesta di una turbina idonea, l'unica funzionante in zona, visto che quella della provincia è inutilizzabile. Quel mezzo però doveva fare gasolio e svolgere tutta una serie di adempimenti tecnici, quindi è arrivato sulla strada provinciale solo alle 19.30. Ha dovuto superare 28 km ostruiti da neve, detriti, rami sechi per raggiungere la destinazione 12 ore dopo.
L'inchiesta: una turbina rotta da 12 giorni e l'altra ferma nel parcheggio. I primi testimoni rivelano: nessun mezzo a Rigopiano e uno lasciato spento a Penne. L'ansia dei clienti dopo le scosse, la mail del direttore: "Sono terrorizzati, vogliono stare fuori", scrive il 22 gennaio 2017 “La Repubblica”. Nel giorno della valanga sull’Hotel Rigopiano, una turbina della Provincia di Pescara avrebbe dovuto ripulire la neve proprio nella zona del resort di Farindola. Ma è stato impossibile: quella turbina è rotta dal 6 gennaio scorso ed è ferma in un’officina. Un’altra turbina sarebbe stata pronta a intervenire già dal primo pomeriggio dello stesso mercoledì ma è rimasta ferma a Penne in attesa di ordini che non sono mai arrivati. Sembra una favola e, invece, lo hanno raccontato i primi testimoni chiamati dai carabinieri del Nucleo investigativo e dai forestali. L’inchiesta, per omicidio colposo plurimo e disastro colposo, punta dritta alla strada bloccata da un muro di neve. Quel muro che ha rallentato la corsa dei soccorsi. Turbina rotta e strada bloccata: la procura va a caccia dei responsabili. E presto potrebbero partire i primi avvisi di garanzia. Quello che è successo dopo le scosse di terremoto della mattina e prima della slavina (intorno alle 17) è scritto nella mail spedita dall’amministratore dell’albergo Bruno Di Tommaso alla Provincia, alla Prefettura, alla polizia provinciale e al Comune di Farindola intorno alle 13. La mail, sequestrata dagli investigatori, racconta la paura dei clienti: «I clienti sono terrorizzati dalle scosse sismiche e hanno deciso di restare all’aperto. Abbiamo cercato di fare il possibile per tranquillizzarli ma, non potendo ripartire a causa delle strade bloccate, sono disposti a trascorrere la notte in macchina. Con le pale e il nostro mezzo siamo riusciti a pulire il viale d’accesso, dal cancello fino alla ss 42». E poi, «chiediamo di predisporre un intervento al riguardo». I racconti dei testimoni dicono che la Provincia ha due turbine: una a Passo Lanciano e l’altra a Rigopiano. Ma la turbina di Farindola è rotta dal 6 gennaio scorso e la Provincia non avrebbe i soldi per aggiustarla: una cifra compresa tra 10 e 25 mila euro. E, dal 6 fino al 18 gennaio, giorno della tragedia, nessuno ha pensato di sostituire quel mezzo con un altro e lasciando scoperta la zona di Farindola. Nonostante l’allerta meteo della Protezione civile sulle forti nevicate in arrivo; nonostante l’allerta valanghe che a partire da lunedì scorso segnala un pericolo sempre crescente; nonostante le scosse di terremoto del 18 gennaio che a Farindola si sono sentite forti. Dodici giorni di niente, poi, la tragedia. Eppure, proprio nella mattinata di mercoledì, un’altra turbina, dell’Anas, ha spalato neve anche nell’area vestina, lungo la strada statale 81 a Penne che è di competenza dell’Anas. Poi, in attesa di indicazioni dalla Prefettura di Pescara, nel primo pomeriggio, la turbina è rimasta ferma nel parcheggio della casa cantoniera di Penne. Impossibile non notarla e così hanno riferito i testimoni agli inquirenti. Se fosse stata avvertita, la turbina dell’Anas avrebbe potuto pulire in tempo anche la strada per Rigopiano? Forse sì: secondo l’Anas, nella stessa giornata, la turbina ha lavorato anche a Guardiagrele, Bucchianico, Fara Filiorum Petri, Pianella e, infine, a Penne. Farindola dista da Penne 20 chilometri. Ieri mattina, il procuratore capo Cristina Tedeschini e il pm Andrea Papalia sono andati sul luogo della tragedia, accompagnati dal comandante del Nucleo investigativo dei carabinieri Massimiliano Di Pietro e dal tenente colonnello dei carabinieri forestali Annamaria Angelozzi. Una visita per studiare di persona l’albergo distrutto dalla slavina. «È una ferita grande per l’Abruzzo, questi sono morti nostri». Poi, la Tedeschini ha parlato del rischio valanghe e del conseguente disastro colposo: «Le valanghe sono cicliche: prima o poi ritornano. Ci sono luoghi dove le valanghe sono elemento costituente. Ecco perché bisogna capire cosa sia stato fatto al di là del semplice censimento del rischio, ossia: chi censisce i rischi e come li gestisce. Il solo censimento di un luogo a rischio valanga potrebbe non bastare». Il pm Papalia ha conferito al medico legale Ildo Polidoro l’incarico delle autopsie.
Terremoto Centro Italia, sindaci del Teramano: “Lasciati soli, senza elettricità. Gli spazzaneve? Abbiamo dovuto noleggiarli”. Tanti Comuni abruzzesi sono senza energia elettrica e con i cittadini bloccati dalla neve alta 3 metri. "Impreparazione imbarazzante nel coordinare i lavori. La nevicata era prevista, mica come il terremoto", dice il primo cittadino di Valle Castellana. A Prati di Tivo un assessore ha accolto tutti gli abitanti del paese nel suo hotel. La turbina che dovrebbe liberarli è ferma a Pietracamela. Antonio Paride Ciotti, che amministra Villa Santa Lucia: "Case a rischio slavina", scrive Valerio Valentini il 21 gennaio 2017 "Il Fatto Quotidiano". “Rigopiano è senz’altro la tragedia peggiore. Ma non è sola”. Tra le poche cose che Giuseppe Del Papa, il sindaco di Cellino Attanasio, riesce a dire, prima che la comunicazione s’interrompa, c’è questa. La linea è molto disturbata: c’è tempo solo per comunicare le informazioni più importanti. Ed evidentemente, per il primo cittadino di questo piccolo Comune del Teramano, rivendicare l’attenzione dei media è una priorità: “Non possiamo permettere che un solo evento, per quanto impressionante, oscuri la sofferenza di altre migliaia di persone”.
Non c’è solo Rigopiano. Parlando con i cittadini e gli amministratori di tanti Comuni abruzzesi arroccati tutt’intorno al massiccio del Gran Sasso, sui versanti aquilano e teramano, ce lo si sente ripetere decine di volte. “Raccontate anche i nostri drammi”. Storie di paesi e frazioni isolate, di strade sommerse dalla neve, di attese e di rabbia per aiuti che sembrano non giungere mai, o che quando finalmente arrivano si presentano sotto la forma di mezzi vecchi e inadeguati, ruspe che non servono o turbine che s’inceppano dopo pochi minuti di lavoro. Drammi che piccoli lo sono soltanto se si fa riferimento alla dimensione dei paesini che li vivono; storie periferiche solo perché i nomi di certi Comuni – Cermignano, Pietracamela, Capitignano – suonano così strani, quasi esotici. Ma l’emergenza che queste comunità stanno affrontando è reale: terremoto e maltempo hanno condannato all’isolamento e al buio, per giorni, un numero impensabile di cittadini dell’entroterra abruzzese. E se nel nord della provincia dell’Aquila, nei pressi dell’epicentro delle scosse del 18 gennaio, la situazione va lentamente migliorando, alle pendici dei Monti della Laga, ai confini con le Marche, e un po’ dovunque nella Val Vomano le testimonianze che si raccolgono sono preoccupanti. “L’emergenza è grave, e le forze in campo per risolverla insufficienti”, ammette chi è impegnato in queste ore nella sala operativa allestita dalla Prefettura di Teramo. “Inutile girarci intorno. Se si evita di fare polemica, è solo per calcoli politici: molti sindaci, e magari anche qualche alto dirigente della Provincia, non se la sentono di sparare contro il proprio stesso partito”.
Valle Castellana. L’intero paese isolato con una bimba malata. Il sindaco: “Ieri ho sbroccato con la Protezione civile, ma non è servito” – Era già stato duramente colpito dai terremoti del 24 agosto e del 20 ottobre scorsi, questo Comune teramano di meno di mille abitanti a una manciata di chilometri dal confine marchigiano. “Ma la tragedia, stavolta, è anche peggiore”, dice al telefono un residente di Valle Castellana, prima che la telefonata s’interrompa. Da lunedì 16 gennaio, gli abitanti del paese sono tagliati fuori dal mondo, privi di energia elettrica e bloccati da cumuli di neve alti fino a 3 metri, nelle frazioni più montagnose. Come Pietralata, dove una bimba soffre da giorni, pare, di febbre altissima. Pare, perché le notizie sono frammentate: riuscire a parlare con chi si trova lì è praticamente impossibile. A risponde subito, al telefono, è invece il sindaco, Vincenzo Esposito, che è a Teramo per richiedere l’intervento dell’Esercito e della Protezione civile. Ed è furioso: “Ieri ho sbroccato durante una riunione qui alla sala operativa. C’è una impreparazione imbarazzante nel coordinare i lavori. Le attese sono enormi, e la nevicata era abbondantemente prevista: mica come il terremoto”. Il tutto aumenta la frustrazione. “Ricevo telefonate dei miei concittadini che mi rivolgono preghiere, lacrime, insulti. Non ce la faccio più”. Solo nella serata di venerdì, tramite un elicottero dell’esercito, sono stati portati i primi medicinali ai residenti di Pietralta e Valle Castellana. Ma per aprire una via d’accesso, e di fuga, ci servirà ancora tempo. I tecnici dell’Enel parlano di lavori che procedono a rilento anche per il rischio continuo di slavine e valanghe. Da Trento sono arrivate delle turbine: ma sulla strada da Ascoli a Valle Castellana hanno subìto dei guasti e sono state costrette a fermarsi.
Prati di Tivo. L’assessore accoglie tutti nel suo albergo: “Siamo 23, tra cui un cardiopatico. Siamo salvi, ma c’è il rischio di slavine” – Mirko De Luca è l’assessore al Turismo di Pietracamela, borgo montano di 271 abitanti: il comune più piccolo della provincia di Teramo. Ma Mirko De Luca è anche il gestore di un hotel che si trova nella frazione di Prati di Tivo, a due passi dagli impianti sciistici. È in questo hotel che De Luca ha accolto tutti gli abitanti del paese: “Con il nostro gatto delle nevi siamo andati a recuperare casa per casa, residence per residence, tutte le 23 persone che ora stanno qui da noi. Da più di 5 giorni, con 4 metri di neve e le minime che sfiorano i meno 10. Per fortuna siamo riusciti a far partire il generatore elettrico del mio albergo, e ora attendiamo i soccorsi”. Che però tardano ad arrivare. “Venerdì mattina siamo stati raggiunti da un elicottero dei Vigili del Fuoco: ne sono scesi 4 pompieri per verificare quale fosse la nostra condizione. Ci sarebbe poi una turbina, che però è ferma a Pietracamela e, ci dicono, dovrà lavorare almeno per 20 ore, salvo imprevisti, per venirci a liberare”. Prima del tardo pomeriggio di sabato, dunque, inutile sperare. “Tra noi c’è anche un cardiopatico: non accusa gravi problemi, per ora, ma comunque non stiamo tranquilli. E poi c’è l’altro rischio”. Quale? “Quello delle slavine. Nelle scorse ore se ne è già staccata una molto grande, che fortunatamente non ha investito il centro abitato. Ma altre potrebbero verificarsene. La situazione è molto difficile”.
Isola del Gran Sasso, dove l’isolamento è totale. “Un anziano è morto sotto un capannone. Strutture d’emergenza allertare in ritardo” – Se negli altri Comuni sommersi dalla neve un contatto, benché a fatica, lo riesce a stabilire, con Isola del Gran Sasso – 5mila abitanti e il santuario di San Gabriele come centro di gravità – non sembra proprio possibile. Neppure per la stessa Prefettura di Teramo. “Il sindaco? Neanche noi riusciamo a comunicarci in modo stabile. Sono saltati i ponti radio. Non funzionano né i fissi né i mobili”. Soltanto nella mattinata di sabato una residente, che a Isola gestisce un ristorante, riesce a rispondere via WahtsApp: “La situazione è drastica. Un uomo anziano è morto sotto un capannone. Intere frazioni sono del tutto isolate. Le linee telefoniche sono saltate. Vediamo arrivare solo adesso i primi soccorsi, grazie all’Esercito”. Dopo 6 giorni dall’inizio dell’emergenza. Come se lo spiegano, a Isola del Gran Sasso, questo ritardo? “Le nevicate sono state oggettivamente straordinarie. Ma qui erano previste. Le strutture dei soccorsi sono state allertare in ritardo”. Il cellulare del primo cittadino Roberto De Marco, nel frattempo, continua a risultare irraggiungibile. Ma tutto ciò non vale solo per i giornalisti. Roberto è un universitario nato e cresciuto a Isola che ora studia a Bologna: “E’ da giorni che va avanti così. Provo ad avere notizie dei miei famigliari, ma non riesco a parlarci a telefono”. La ricerca di amici e parenti corre allora su Facebook, su pagine collettive dove si chiede conto di una cugina, di una amica invalida, di una zia ultranovantenne, dove s’invoca l’intervento di un medico. Si organizzano perfino delle staffette: “Per favore, ogni due ore qualcuno si rechi nella stazione dei Carabinieri a riportare ciò che ci diciamo online, perché lì sono senza telefono e senza internet”.
Cellino Attansaio e Cermignano. “Siamo abbandonati a noi stessi. Proviamo a sbrigarcela da soli” – Quando scopre che a contattarlo è un sito web, il sindaco di Cermignano non trattiene un urlo di sollievo: “Finalmente! Ma allora esiste qualcuno che s’interessa di noi!”. È un sollievo amaro, però, quello di Santino Di Valerio, che subito si corrompe in protesta: “Siamo stati abbandonati da tutti. C’è un’incapacità a tutti i livelli: non capiscono il dramma che stiamo vivendo. Gli aiuti arrivano in ritardo, e calati dall’alto. Il risultato è che l’emergenza viene gestita da persone che qui non hanno mai messo piede”. Cermignano è un Comune di circa 1.700 abitanti a metà strada tra Teramo e Atri. L’isolamento in cui si trova da domenica notte è lo stesso che patisce, pochi chilometri più a est, Cellino Attanasio. Il primo cittadino, Giuseppe Del Papa, al telefono sfoga una rabbia che è quasi desolazione: “Ma che Italia è questa? Non sappiamo più nemmeno affrontare una nevicata a gennaio che, per quanto straordinaria, era comunque ampiamente prevista? Riceviamo aiuti col contagocce, senza un minimo di coordinamento e per giunta attraverso macchinari obsoleti”. A Cellino una turbina è arrivata, infatti, ma si è rotta dopo pochi minuti di attività. “Era vecchissima”, sentenzia Del Papa, che prosegue: “Ci sentiamo lasciati soli. Alla fine abbiamo provveduto in proprio: abbiamo noleggiato da ditte private dei mezzi spalaneve. Ma aprire così le vie nel centro storico sarà difficilissimo. E nel frattempo, da ormai quasi una settimana, restiamo senza energia elettrica”. Chi può, da questi paesi scappa, nell’attesa che si superi la crisi. Come Cesare, che venerdì mattina è riuscito a raggiungere la Statale e ha portato i suoi genitori sulla costa: “Ma io sono fortunato, perché abito vicino alla strada principale. Chi sta nelle frazioni interne, è condannato a restare”.
Villa Santa Lucia, a pochi chilometri da Farindola. “Una slavina minaccia il centro abitato” – “Magari la valanga non investirà le case: ma preferisco lanciare un allarme di troppo piuttosto che correre il rischio di dover contare i morti”. Antonio Paride Ciotti, sindaco di Villa Santa Lucia, risponde così quando gli si chiede se davvero il suo Comune possa essere travolto dalla slavina staccatasi da Monte Cappucciata. E del resto Rigopiano è a pochi chilometri di distanza, impossibile non fare paragoni. Anche se qui siamo in provincia dell’Aquila, non lontani dalla Rocca di Calascio, set di molti film e pubblicità. “Per il momento la slavina è a distanza dalle case. Ma per precauzione ha chiesto una verifica alle forze dell’ordine. Monitoriamo l’evolversi della situazione”. Gli abitanti di Villa Santa Lucia, poco più di cento, da giovedì hanno ritrovato anche la corrente elettrica, grazie a dei gruppi elettrogeni. Una delle strade che porta a paese è ormai sgombra: “Si va verso il meglio, speriamo”.
Capitignano e Campotosto: “Non più isolati, ma le scosse non si fermano. Situazione difficilissima” – Sull’altro versante del massiccio del Gran Sasso c’è l’epicentro del terremoto del 18 gennaio. Montereale è rimasto bloccato per quasi 2 giorni, la strada che saliva dall’Aquila era bloccata all’altezza di Arischia. Ancor più grave, però la situazione a Campotosto, Comune di 540 abitanti sparsi nelle varie frazioni tutt’intorno all’omonimo lago: a 1.400 metri d’altitudine. La vicesindaco Gaetana D’Alessio mercoledì aveva protestato: “Sentiamo scosse in continuazione, ma siamo impossibilitati a uscire: siamo bloccati dentro casa, come i topi”. Due giorni dopo appare più serena. Quando risponde al telefono sono le 18 di venerdì: la strada Provinciale da Aringo ormai è percorribile, la Statale 80 quasi. Solo la via verso la frazione di Mascioni rimane in parte non accessibile. Roberto, che lì ha la sua seconda casa, è arrivato dall’Aquila per recuperare alcune cose all’interno: “Non mi è stato permesso. Ma spero che tutto si sblocchi entro il fine settimana”. D’Alessio precisa: “I ritardi sono stati tanti e gravi. Ma c’è da dire che l’emergenza era davvero estesa. La cosa più pesante da sopportare, ora, è il prolungarsi dello sciame sismico. La situazione, pure dal punto di vista psicologico, è difficilissima”.
Anche a Capitignano, nel fondovalle tra Campotosto e Montereale, è ormai la paura il nemico peggiore. Le vie d’accesso al paese sono state aperte, agli sfollati sono stati assegnati degli alloggi nei progetti C.A.S.E. dell’Aquila: quelli costruiti dopo il terremoto del 2009, e ora in parte vuoti. “Il disagio c’è, ma è sempre meglio che restare in un palazzetto dello sport ammassati tutti insieme”, confessano i residenti. Luigi, uno di loro, mentre è in fila per fare richiesta di un alloggio, precisa: “Per le perizie e i controlli alle strutture ci sarà tempo. Ora pensiamo a smaltire il ricordo di quello che abbiamo vissuto pochi giorni fa: sentire le mura della propria casa tremare sotto i colpi del terremoto e sapere di non poter scappare perché fuori dal portone ci sono cumuli di neve, non è bello. Ma tutto si supera”.
Rigopiano, la rabbia del papà di Stefano: "Se è morto faccio una strage". Dopo la disgrazia dell'hotel di Rigopiano, la rabbia dei familiari per le mancate comunicazioni e le lamentele per la gestione dell'emergenza, scrive Claudio Cartaldo, Martedì 24/01/2017, su "Il Giornale". Non si dà pace Alessio Feniello, il papà di Stefano, 28enne ancora disperso sotto la valanga dell'hotel di Rigopiano. Già ieri, dopo aver parlato con Francesca Bronzi, la fidanzata di suo figlio, aveva esternato tutta la sua rabbia per la gestione dell'emergenza. "I morti sono stati uccisi", ha urlato ai microfoni dei giornalisti, mettendo in stato di accusa chi non era riuscito a salvare i morti e i dispersi. La fidanzata di suo figlio, infatti, gli ha spiegato di essere stata a fianco del ragazzo per molto tempo e di averlo illuminato con una torcia del cellulare finché ha retto la batteria. A far scattare la rabbia di Alessio Feniello è stato un errore della Protezione Civile nel comunicare l'elenco dei superstiti. Stefano sarebbe finito nella lista dei miracolati per errore, quando invece ancora lottava tra la vita e la morte sotto la coltre di neve. Alessio ora parla di "arroganza e prepotenza" delle Istituzioni. "È arrivato il prefetto, insieme al presidente della Regione Abruzzo e del Questore, che con arroganza ci ha detto: 'È vero solo ciò che vi diciamo noi, tutto il resto sono cazzate", racconta. Il prefetto ha fatto i nomi dei superstiti, inserendo anche quello di Stefano. Ma il giorno successivo, all'arrivo delle ambulanze, nessuna di queste trasportava Stefano. Perché in realtà non era tra i superstiti. "Hanno agito con arroganza e senza umanità verso un padre che ha il figlio sotto le macerie", urla il papà. Poi aggiunge: "Mi aspettavo che qualcuno mi dicesse che si era trattato di un errore". Da tre giorni i familiari dei dispersi e dei defunti attendono comunicazioni ufficiali. Vorrebbero sapere se i loro cari sono vivi, se ci sono speranze o se tutto è ormai perduto. "Quelli che sono morti sono stati uccisi e quelli che ancora non trovano sono stati sequestrati contro la propria volontà, perché volevano ripartire e avevano già fatto le valigie. Li hanno messi tutti nella sala camino come carne da macello - incalza - la responsabilità è delle autorità", aveva detto ieri il papà di Stefano. Ma ora, come riporta il Messaggero, affonda: "Se mio figlio è morto faccio una strage".
Strage Hotel Rigopiano, il papà di Stefano: «andrò avanti all’infinito per avere giustizia». «A chi devo dire grazie Al presidente di regione? Al prefetto? Al direttore dell’hotel?», scrive il 26 Gennaio 2017 "Prima da Noi". Identificato anche Stefano Feniello, il giovane inserito nella lista dei vivi. Il dramma doppio dei Feniello: «mio figlio sotto le macerie, nessuno è sceso a recuperarlo». «Perché nessuno si è attivato per tempo e li ha liberati? Perché lassù non c’era il figlio del prefetto, non c’era il figlio di un magistrato, non c’era il figlio del senatore. C’era solo la povera gente che si faceva una vacanza con i risparmi guadagnati con i sacrifici». Alessio Feniello, papà di Stefano, tra le vittime già estratte da quello che resta dell’hotel Rigopiano, è tornato nuovamente a gridare la sua rabbia per quello che è accaduto a Farindola. Dopo la tragica beffa dei giorni scorsi, quando la prefettura gli ha annunciato per errore che il figlio era vivo, adesso chiede con tutta la voce che ha in corpo che venga fuori la verità. E ha fatto una promessa: «andrò avanti all’infinito, mi venderò tutte le proprietà che ho se serve. Non voglio soldi, voglio solo giustizia, voglio che in Italia non accada più quello che è successo lì sopra». Secondo Feniello le responsabilità sono molteplici, non solo da parte delle istituzioni ma anche dei gestori dell’hotel perché «un 4 stelle deve avere un gatto delle nevi, deve avere un trattore, anche quello dei contadini. Non esiste che si fa ridurre quella strada in quello stato. Se l’Abruzzo non è in grado di gestire questa situazione deve chiudere gli alberghi». Papà Feniello è stremato. Ormai da una settimana vive nell’ospedale di Pescara. Così anche ieri quando il corpo di suo figlio è stato trasportato a Chieti per l’autopsia. Le sale del nosocomio di Pescara sono infatti impraticabile perché in ristrutturazione e quindi è stato necessario il trasferimento. La mamma non affronta le tv ma ieri ha voluto incontrare i vigili del fuoco perché ha voluto sapere come sono andate veramente le cose, se il suo Stefano ha sofferto. «Ho al polso l’orologio di mio figlio e il suo braccialetto. Al collo ho la sua catenina. Questo è tutto quello che mi è rimasto di lui. Chi devo ringraziare? Grazie a Bruno, il direttore dell'hotel? Grazie al presidente della Regione? Grazie al prefetto?» Feniello vuole verità e giustizia e si domanda chi dovesse intervenire prima della tragedia a recuperare quelle persone lassù in montagna: «chi sono i responsabili? Chi deve evitare che accada questo nel 2017? Di chi è la responsabilità? Non dovevano farli salire. Mio figlio prima di partire ha mandato una mail all'hotel che gli ha risposto di non preoccuparsi perchè garantivano il servizio. Al cantante del Volo, Gianluca Ginoble, invece, lo stesso giorno l'hotel ha mandato un messaggio in cui si diceva di non andare. E' una vergogna. Il sindaco ha chiuso le scuole per la neve, ma non ha chiuso l'hotel. Perche'?». Alessio Feniello poi ha parlato di «un prefetto che mi viene ad annunciare la sera che tra i cinque nomi dei superstiti c'è anche quello di mio figlio e che fino alla sera del giorno dopo non ha avuto la dignità e il coraggio di venirmi a dire 'ci siamo sbagliati'. Gli ho chiesto informazioni e mi ha risposto con arroganza, mi ha liquidato come uno straccio. Che persone sono queste? A chi paghiamo lo stipendio? A delle persone disumane». Feniello se la prende anche con il sindaco di Farindola che ha incontrato la mattina del 19 gennaio quando è arrivato a 50 metri dall’hotel insieme alla carovana dei soccorsi: «mi ha detto ‘siamo abituati a questa cosa. In caso di emergenza mandiamo i viveri su’. Ma quali viveri… si doveva preoccupare di liberare quelle persone. Ora qualcuno dovrà pagare, non voglio soldi, voglio solo giustizia».
L'ira dei parenti in lacrime «Morti? Ce li hanno uccisi» I pm: «Ritardi da valutare». A Rigopiano estratto il corpo della settima vittima La Procura indaga per omicidio e disastro colposo, scrive Stefano Zurlo, Martedì 24/01/2017, su "Il Giornale". Ora la cronaca lascia il posto all'inchiesta. E al corredo di polemiche che la tragedia si porta puntualmente dietro, come tutti i disastri italiani. Certo, si scava ancora fra le rovine del Rigopiano ma la fiammella è quasi spenta. E la contabilità del dolore si muove appena: dopo il ritrovamento vicino alla zona cucina di una donna, i morti ufficiali non sono più 6 ma 7 e di conseguenza calano i dispersi, termine sempre più logoro, scesi a 22. Undici i sopravvissuti. Dunque, in primo piano c'è l'indagine, alimentata a sua volta da retroscena, rivelazioni, persino dagli sfoghi dei parenti delle vittime. Alessio Feniello, il papà di Stefano che per qualche ora era stato dato per vivo e invece è svanito nelle viscere dell'hotel, è durissimo: «Quelli che sono morti sono stati uccisi. Sì, li hanno sequestrati contro il loro volere perché volevano rientrare. Li hanno sequestrati. Avevano le valigie pronte. Li hanno riuniti tutti vicino al caminetto come carne da macello». Gli ospiti, questo ormai è assodato, attendevano con ansia l'arrivo dello spazzaneve che avrebbe dovuto liberare la strada. Tutti, dopo le ripetute scosse, volevano andarsene al più presto ma, fra ritardi e difficoltà, il mezzo tanto atteso non è mai arrivato. O meglio, è stato anticipato dall'immane valanga che nel pomeriggio di mercoledì si è abbattuta sulla struttura, travolgendola. E ora il padre attende una parola definitiva sul destino del figlio. La fidanzata di Stefano, Francesca Bronzi, si è salvata e dall'ospedale di Pescara sembra cancellare anche quell'ultimo dubbio: «Con la luce del telefonino, finché la batteria ha retto, ho illuminato il braccio di Stefano. Si lamentava, lo chiamavo ma non rispondeva. Poi non l'ho sentito neanche più lamentarsi». Comprensibile che il genitore, illuso per qualche ora dalle autorità su un probabile lieto fine, erutti tutta la tensione accumulata. E si chieda come mai l'hotel non sia stato «liberato» in tempo dall'assedio del ghiaccio. Anche la mail spedita alle 7 del mattino dal direttore dell'albergo Bruno Di Tommaso a un nugolo di autorità accende gli animi con la sottolineatura di una «situazione preoccupante» e la richiesta di un «intervento urgente». La procura, che procede per omicidio colposo plurimo e disastro colposo, valuta tutti gli elementi ma frena nel tirare conclusioni che sarebbero premature. In particolare sul versante delle comunicazioni e dell'avvio delle ricerche nella serata di mercoledì: «Ci sono state inefficienze e interferenze - spiega il procuratore aggiunto Cristina Tedeschini - sono però da valutare gli effetti di eventuali ritardi». Il riferimento è alle telefonate fatte a ripetizione da Quintino Marcella al 118 senza però essere creduto. «Che ci sia stata - aggiunge Tedeschini - una serie di disfunzioni e magari di ritardi da parte della sala operativa nel recepire l'importanza di una segnalazione da parte di un soggetto non istituzionale è un fatto registrato. Che questo possa aver avuto una qualunque conseguenza causale sull'efficacia dell'azione di soccorso, è da vedere». Si studia il dossier senza clamori. Senza teoremi. E si aprono nuovi capitoli. Secondo la denuncia di Forum H2O Abruzzo l'hotel è stato realizzato su accumuli di detriti e precedenti valanghe. Insomma, sarebbe marchiato da un peccato originale gravissimo. D'altra parte, in un clima che a posteriori pare di incoscienza collettiva, si scopre che la mappa del rischio valanghe, prevista dalla legge del 1992, non è stata completata. Vale per l'Abruzzo come per molte altre Regioni. Ora, solo ora, tutti i nodi vengono al pettine.
Rigopiano, l’email con l’Sos ignorata dell’hotel: “I clienti sono terrorizzati, intervenite”. Il 18 gennaio, dopo le forte scosse di terremoto e poche ore prima della terribile valanga, Bruno Di Tommaso, amministratore unico e direttore dell'hotel Rigopiano, aveva inviato una mail al Prefetto di Pescara, alla polizia provinciale, al presidente della provincia ed al sindaco di Farindola, con cui si richiedeva assistenza immediata ed un intervento urgente, scrive Andrea Antinori il 23 gennaio 2017 su "Bergamo News". Il 18 gennaio, dopo le forte scosse di terremoto e poche ore prima della terribile valanga, Bruno Di Tommaso, amministratore unico e direttore dell‘hotel Rigopiano, aveva inviato una mail al Prefetto di Pescara, alla polizia provinciale, al presidente della provincia ed al sindaco di Farindola, con cui si richiedeva assistenza immediata ed un intervento urgente. “La situazione è diventata preoccupante” si legge, ed ancora: “Abbiamo cercato di fare il possibile per tranquillizzare i clienti, ma, non potendo ripartire a causa delle strade bloccate, sono disposti a trascorrere la notte in macchina. Con le pale e il nostro mezzo siamo riusciti a pulire il viale d’accesso, dal cancello fino all ss 42”. E inoltre “chiediamo di predisporre un intervento al riguardo”. Il presidente della Provincia Di Marco ha letto l’email dell’hotel Rigopiano il giorno successivo, giovedì 19 Gennaio. “Nessuno l’ha sottovalutata – dice Di Marco – io alle 14 avevo incontrato la sorella del proprietario ed avevo dato loro rassicurazioni che entro la serata sarebbe arrivata una turbina a liberare le strade. Ai fini dell’emergenza avevo già spedito una lettera al Governo nella quale chiedevo aiuto e mezzi per liberare anche quelle zone. Per me è una mail ininfluente: non ci siamo mai fermati”. La Provincia di Pescara, tuttavia, sapeva che Rigopiano era isolata, che gli spazzaneve non sarebbero potuti arrivare all’hotel e che per raggiungerlo sarebbe servita una turbina già la mattina del 18 Gennaio, grazie alle segnalazioni da parte degli operatori degli spazzaneve, intenti a pulire già alle 3 di notte e che, bloccati dalla troppa neve, si erano dovuti fermare ad un bivio che porta all’albergo. A quel punto è scattata la ricerca di una turbina, rintracciata alle 13 nell’Aquilano, ma alla quale sarebbero occorse ore per giungere nel Pescarese. A tal proposito, Di Marco afferma: “La turbina dell’Anas di Penne, che ha poi materialmente liberato la strada per Rigopiano nella notte, nel pomeriggio non era ferma ma stava ripulendo la ss 81.” Queste informazioni sono entrate nel fascisolo dell’inchiesta condotta dalla Procura di Pescara per disastro ed omicidio colposo plurimo. Intanto a Rigopiano continua incessantemente la corsa contro il tempo delle operazioni di ricerca, nonostante la nebbia e la pioggia che indurisce la neve. Il conto dei dispersi, nonostante l’accertamento della sesta vittima (si tratta di un uomo), è rimasto fermo a ventitrè: si è aggiunto, infatti, Faye Dame, senegalese regolare di 30 anni che lavorava nell’hotel.
Rigopiano, la prima drammatica telefonata del superstite al 118: “L’hotel non c’è più”. Giampiero Parete, il cuoco sopravvissuto alla tragedia del Rigopiano perché al momento della valanga si trovava fuori dall’hotel, è stato il primo a lanciare l’allarme. Al telefono ha detto che c’era stata una valanga, ma i soccorsi sono partiti solo ore dopo, scrive il 26 gennaio 2017 Susanna Picone su "Fanpage". La prima volta che Giampiero Parete, il cuoco sopravvissuto alla valanga sull’Hotel Rigopiano perché al momento del dramma si trovava fuori dalla struttura, è riuscito a mettersi in contatto con il 118 erano le 17.08 del 18 gennaio. Ma solo circa due ore dopo, alle 19.01, la macchina dei soccorsi ha capito che nella località abruzzese era successo qualcosa di grave. Lo si evince dai tabulati telefonici e dalle testimonianza rese agli inquirenti. A quell’ora, infatti, Parete riesce a parlare per la seconda volta con il 118. Nella prima di quelle drammatiche telefonate si sente Parete tentare di spiegare quanto appena accaduto a Farindola. La telefonata, agganciata dal 118 di Chieti, viene subito girata ai colleghi di Pescara. “Cosa è successo all’Hotel Rigopiano?”, chiede l’operatrice del 118 al superstite, che risponde: “C’è stata una bufera, l’hotel non c’è più, non c’è più niente. Ci sono dei dispersi, c’è stata una grossa valanga”, tenta di spiegare Parete che comunica di trovarsi insieme a un'altra persona. “È crollato l’hotel?”, chiede il 118, “è crollato tutto”, risponde il cuoco. “Per quello che può tenga il telefono libero”, si sente rispondere dal 118. Dopo la prima telefonata la Prefettura parte con le verifiche e cerca di ricontattare il cuoco ma non ci riesce, e a quel punto chiama al numero fisso dell'albergo che ovviamente non risponde perché sotto la valanga. Si cerca di allertare l'elicottero della Guardia Costiera, che però non può volare a causa del maltempo. Alle 17.40 la Prefettura riesce a contattare il direttore dell'albergo Bruno Di Tommaso che “depista” la sala operativa spiegando di aver “chattato mo' con l'albergo”, e che non gli risultava nulla di grave. Però il contatto risale almeno a un’ora prima ed è questo secondo gli inquirenti che dà vita al primo grave “equivoco” della vicenda. La sala operativa si convince che si tratta di un falso allarme. Alle 18.03 Parete riesce a mettersi in contatto con il suo amico Marcella il quale continua a chiamare 112 e 113. Ma anche questa seconda segnalazione viene considerata un falso allarme. Quando l’uomo alle 18.20 richiama gli viene risposto che è già stato tutto verificato. Poi arriva la telefonata di Parete alle 19.01. Giampiero Parete è stato poi salvato dai soccorritori arrivati con gli sci all’alba del 19 gennaio insieme all’altro superstite che come lui era fuori dall’albergo al momento della slavina, Fabio Salzetta. Il cuoco era in vacanza insieme alla moglie Adriana e i due figli Gianfilippo, di 8 anni, e Ludovica, 6 anni. Dopo oltre 40 ore di attesa l’uomo ha potuto riabbracciare tutti i suoi cari, che risultano tra gli undici sopravvissuti dell’hotel. Ventinove, invece, le vittime del dramma.
"Slavina? Inventata da imbecilli" Così è stato ignorato l'allarme. La telefonata tra Marcella e l'operatrice: "Questa storia gira da stamattina, non è successo nulla". Poi una serie di equivoci, scrive Franco Grilli, martedì 24/01/2017, su "Il Giornale". Non sono bastate quelle parole chiare al telefono che davano l'allarme per mettere in moto immediatamente la macchina dei soccorsi. Emerge adesso la trascrizione della telefonata tra il ristoratore, Quintino Marcella che per primo ha chiamato l'operatrice della Protezione Civile. Ecco la chiamata al 112. La telefonata chiave è quella di mercoledì 18 gennaio alle 18:20. "Sono Marcella di cognome, Quintino di nome", esordisce il ristoratore che aveva ricevuto un messaggio vocale da un amico che si trovava a Rigopiano.
Marcella: "Mi sente?"
Funzionaria: "Sì che la sento".
M: "Sono Marcella di cognome, Quintino di nome. Il mio cuoco mi ha contattato su WhatsApp cinque minuti fa, l'albergo di Rigopiano è crollato, non c'è più niente... Lui sta lì con la moglie, i bimbi piccoli... intervenite, andate lassù".
F: "Questa storia gira da stamattina. I vigili del fuoco hanno fatto le verifiche a Rigopiano, è crollata la stalla di Martinelli".
M: "No, no! Il mio cuoco mi ha contattato su WhatsApp 5 minuti fa, ha i bimbi là sotto... sta piangendo, è in macchina... lui è uno serio, per favore".
F: "Senta, non ce l'ha il suo numero? Mi lasci il numero di telefono (...). Ma è da stamattina che circola questa storia, ci risulta che solo la stalla è crollata. Che le devo dire?".
In questo scambio di frasi si consuma l'equivoco fatale: nella mattinata una scossa aveva fatto crollare il tetto di una stalla di un allevatore nei pressi di Farindola. L'operatrice quando sente la parola Rigopiano, come sottolinea Repubblica, pensa immediatamente alla stalla ed esclude l'ipotesi che ci sia qualche problema all'hotel. Così da questo momento in poi Marcella prova a far ragionare l'operatrice:
F: "Come si chiama quel cuoco?".
M: "Giampiero Pareti. È quello della pizzeria, è il figlio di Gino...".
F: "Sì, lo conosco benissimo il figlio di Gino, conosco lui, conosco la mamma. È da stamattina che gira 'sta cosa. Il 118 mi conferma che hanno parlato col direttore due ore fa, mi confermano che non è crollato niente, stanno tutti bene".
M: "Ma come è possibile?".
F: "La mamma dell'imbecille è sempre incinta. Il telefonino... si vede che gliel'hanno preso...".
M: "Ma col numero suo?".
F: "Sì".
A questo punto entra in campo un altro equivoco. Il direttore dell'hotel Di Tommaso era stato contattato dal centralino del Css per informarsi sulla situazione. Marcella aveva chiamato anche il 118 prima di chiamare il Css. Ma Di Tommaso quando viene contattato non è a Farindoli ma a Pescare e non può sapere cosa sia successo all'hotel. E così la funzionaria non crede alle parole di Marcella:
F: "Due ore fa, le confermo, al 118 hanno parlato con l'hotel. Non le dico una bugia! Ma se fosse crollato tutto, pensa che che rimarremmo qua?"
M: "Si metta in contatto col direttore...".
F: "Non so se si rende conto della situazione... Abbiamo gente in strada, gente con la dialisi, anziani. E io per lei... Provi lei a mettersi in contatto con il direttore. Non è scortesia. Arrivederci".
Il resto della storia è noto. Da lì a qualche ora la scoperta del disastro.
Hotel Rigopiano, la telefonata che frenò i soccorsi. L'amministratore alla prefettura dopo la slavina: "Li ho sentiti ora: è tutto a posto". Ma lui si trova altrove, scrive il 2 febbraio 2017 "Quotidiano.net". "L'albergo crollato? No è tutto a posto". Così l'amministratore dell'Hotel Rigopiano, Bruno Di Tommaso, risponde alla prefettura di Pescara che intende verificare le prime notizie arrivate al 118. La telefonata risale alle 17.40 di mercoledì 18 gennaio, quando la slavina ha già travolto la struttura. Di Tommaso in quel momento si trova altrove ma spiega alle autorità di avere da poco avuto contatti con il personale e assicura che nel resort la situazione, compatibilmente con l'enorme nevicata, è sotto controllo. Ecco la trascrizione dell'audio che viene diffuso oggi da alcune testate online.
Funzionario prefettura: «Oh Bruno ciao, senti fammiti chiedere una cosa, tu fai il direttore su a Rigopiano?».
Di Tommaso: «Sono l'amministratore».
Funzionario: «Sai com'è la situazione su?».
Di Tommaso: «Tragica. Sto rientrando a casa in questo momento».
Funzionario: «La strada è chiusa?».
Di Tommaso: «Certo che è chiusa... ma pure Farindola».
Funzionario: «Io sto alla sala operativa della prefettura: ma tu riesci a parlare con qualcuno su?».
Di Tommaso: «No, solo whatsapp».
Funzionario: «Allora vedi un pochettino, perchè abbiamo ricevuto... aspetta un attimo che ti faccio parlare direttamente col direttore... abbiamo ricevuto una telefonata un pò strana, volevamo accertarci un attimino... Dottor Lupi dove sta? Aspetta che ti passo direttamente il dirigente, il responsabile».
Lupi: «Pronto? Sono il dottor Lupi... sono stato spesso ospite da voi, ultimamente proprio quando è successo il secondo terremoto e ho visto che la struttura è in cemento armato. Adesso abbiamo avuto una telefonata di una persona che diceva che all'hotel Rigopiano c'erano feriti per crolli, etc. Abbiamo una telefonata registrata alla nostra centrale operativa...»
Di Tommaso: «Ma no...chi l'ha fatta...»
Lupi: «...attenzione, questa telefonata registrata al nostro sistema 118... non risponde poi più.. a noi il numero ci appare sempre benchè ci si metta trucco, trucchetto, 'anonimò eccetera... Tu hai notizia?»
Di Tommaso: «Ma certo che ho notizia, no no..»
Lupi: «quindi tutto a posto...»
Di Tommaso: «cioè tutto a posto nel senso che...».
Lupi: «Benissimo, mi fa grande piacere. Tra poco a metà febbraio sarò di nuovo vostro ospite. Che devo dire? L'importante è che è sicuro che non ci sia niente».
Di Tommaso: «No.. Io sono stato fino a mò in collegamento tramite whatsapp...».
Lupi: «perfettissimo...» .
Di Tommaso: «...noi abbiamo una parabola per cui il segnale Internet è garantito, io riesco a comunicare con whatsapp. Tutto qua, insomma».
Lupi: «Perfetto…direttore mi dà un gran sollievo... Noi dobbiamo sempre accertarci, con l'aiuto qui del nostro amico comune. Va benissimo, grazie grazie».
Di Tommaso: «Niente, grazie, arrivederci».
L'allarme era arrivato al centralino di emergenza mezz'ora prima con la telefonata di Giampiero Parete, il cuoco scampato alla tragedia. Le parole di Di Tommaso tranquillizzano le autorità, che riterranno inattendibile anche l'sos successivo, quello lanciato da Quintino Marcella (documentato da un altro audio).
Intanto prosegue l'inchiesta sulla tragedia, che al momento non vede nessun nome sul registro degli indagati. Gli esperti che hanno partecipato ai primi sopralluoghi raccontano che la valanga sarebbe stata causata dal distacco di uno strato di neve di quasi 3 metri, accumulatosi sopra un altro strato di neve particolarmente compatto che avrebbe fatto da piano di scorrimento. Un fatto re che aggiunto alla pendenza accentuata, avrebbe prodotto l'effetto slavina del 18 gennaio.
Charlie adesso rincara la dose e pubblica la rabbia degli italiani. Dopo le polemiche per la vignetta di Charlie Hebdo sulla valanga di Rigopiano vengono pubblicati i messaggi pieni di rabbia degli italiani, scrive Luca Romano, Sabato 4/02/2017, su "Il Giornale". Dopo le polemiche per la vignetta di Charlie Hebdo sulla valanga di Rigopiano con la morte in tenuta da sci, diversi vignettisti di casa nostra hanno risposto con altrettanti disegni per sottolineare quel pugno allo stomaco ricevuto dalla Francia. Ma c'è anche chi sul web ha commentato e non poco il gesto di Charlie. Pareri, commenti ed opinioni forti cariche di rabbia per quella vignetta poco opportuna con 29 morti sotto la neve. E Charlie ha abbandonato l'autocritica per riaprire il duello con l'Italia pubblicando proprio quei commenti a caldo apparsi in Italia sul web dopo la vignetta. E linkiesta.it ne ha selezionati alcuni: "Questa provocazione - scrive la "Dottoressa Myriam Ambrosini" - è uno schiaffo all’italianità. Peccato che mentre NOI esportavamo la cultura nel mondo, VOI, francesi, portavate ancora i copricapi con le corna e le pelli delle bestie per coprirvi il corpo”. E ancora: "Senza bidet, culi sporchi. Razza bastarda. Ladri di opere d’arte e di territori. Falsi vincitori della guerra, leccaculo degli Alleati. Vi auguro di morire”. C'è chi la butta ancora sul calcio: “Il gol di Materazzi a Berlino nel 2006 vi fa ancora male al culo? Massa di merde". Un duello che non accenna a spegnersi...
Charlie Hebdo risponde (di nuovo) agli italiani, scrive Federico Iarlori il 3 Febbraio 2017 su “L’Inkiesta”. C’era da aspettarselo. Dopo la risposta alle polemiche sulle (audaci) vignette pubblicate da Charlie all’epoca del terremoto di Amatrice, anche questa volta il settimanale satirico francese non è rimasto a guardare. Nuovo polverone - a causa dell’ormai famoso disegno (anch’esso audace) con la morte sugli sci -, nuova reazione pubblicata sul numero in edicola questa settimana. Anche in questo caso, la redazione di Charlie ha dimostrato di sapere come si colpisce nel vivo l’orgoglio del nemico, lasciando perdere - come era avvenuto nell’editoriale di Gérard Biard - le argomentazioni politico-amministrative e le insinuazioni su eventuali infiltrazioni mafiose, e decidendo semplicemente di tradurre alcuni dei terribili commenti ricevuti da altrettanti “lettori” italiani. Ed eccoci ancora una volta ridicolizzati davanti ai francesi. E’ stata una mossa di una finezza spietata e crudelissima, quella di recuperare dei commenti scritti a caldo, sull’onda dell’indignazione, e di sbatterli sul giornale due settimane dopo la polemica. Per me, lettore italiano (e abruzzese), è stato un bel pugno nello stomaco. Lo ammetto. Ma c’è anche un lato positivo in questa bomba ad effetto ritardato: la possibilità di analizzare a freddo l’articolo e di rendersi conto che in Italia ci vuole davvero poco per trasformare un dibattito sui limiti della satira (e/o sulla qualità editoriale e la valenza ideologica di un prodotto come Charlie) in una partita di calcio tra due nazioni, Italia e Francia, che - diciamocelo chiaramente - non perdono occasione di massacrarsi a vicenda. “[...] questa provocazione [...] - scrive la "Dottoressa Myriam Ambrosini" (notare come abbiano riportato anche il "titolo" della persona che ha scritto il commento) - è uno schiaffo all’italianità. Peccato che mentre NOI esportavamo la cultura nel mondo, VOI, francesi, portavate ancora i copricapi con le corna e le pelli delle bestie per coprirvi il corpo”. Pincopallino Jack rincara la dose: “Senza bidet, culi sporchi. Razza bastarda. Ladri di opere d’arte e di territori. Falsi vincitori della guerra, leccaculo degli Alleati. Vi auguro di morire”. Mentre il commento di Davide Rivolta ci riporta esattamente al punto di cui sopra: “Il gol di Materazzi a Berlino nel 2006 vi fa ancora male al culo? Massa di merde". Insomma, è giusto indignarsi per la satira di cattivo gusto, ma perché continuiamo a confondere Charlie con i francesi?
Hotel Rigopiano, la telefonista che non ha creduto all'allarme: "Ho la coscienza pulita, del resto non me ne frega niente", scrive il 25 gennaio 2017 “Libero Quotidiano”. Suo malgrado, è una delle protagoniste della tragedia dell'Hotel Rigopiano. Lei è la donna che ha ricevuto la telefonata che segnalava che la struttura fosse stata travolta bollandola come una bufala. La donna è stata individuata dagli investigatori: si tratterebbe di una dirigente del Ccs, il Centro di coordinamento dei soccorsi. A lei il 118 ha girato la famigerata telefonata da Quintino Marcello, amico di Giampiero Parete, lo chef superstite della tragedia. Come è noto, con toni sprezzanti, non ha voluto credere a quanto denunciato. E ora, quella donna, è stata interrogata, ascoltata dagli investigatori che stanno valutando la sua posizione. E quello che la signora ha detto, forse, fa ancor più rabbia che quella maledetta telefonata. "L'importante è essere a posto con la coscienza - ha spiegato secondo quanto trapelato da fonti investigative, indiscrezioni di stampa e dalla diretta interessata -. E io lo sono. Questo è quello che mi preme. Del resto non me ne frega niente". Dritta per la sua strada, insomma. Nessun pentimento e, soprattutto, la "coscienza pulita". E ancora, a verbale ha spiegato che "mercoledì ero appena rientrata in ufficio da una malattia. Prima è scoppiata l'emergenza della neve, poi quella del terremoto. C'era bisogno di gente nell'unità di crisi e io avevo dato la mia disponibilità. Il mio compito era rispondere alle chiamate che arrivavano dall'esterno". E ancora, prosegue la signora sulla hotel travolto a cui non ha creduto, sostenendo che si trattasse di una stalla: "La storia della stalla me l'ha ricordata, mentre ero al telefono, chi era con me nella sala operativa. Eravamo in tanti, non c'ero solo io". Un riferimento molto, troppo vago con il quale, in una qualche misura, la donna sembra tentare di scaricare le responsabilità. "Piuttosto che parlare coi giornalisti - ha aggiunto - preferirei parlarne col Padre Eterno. Comunque ci saranno modi e tempi per chiarire tutto. L'importante - ha ribadito - è essere a posto con la coscienza. Del resto, delle polemiche, non me ne frega nulla".
Rigopiano, la funzionaria: "Ho ignorato l’allarme? L’importante è avere la coscienza a posto". Il colloquio. La donna che non credette al primo Sos: "Chiarirò, basta polemiche", scrive Fabio Tonacci il 25 gennaio 2017 su "La Repubblica". La giornata più amara è cominciata con una telefonata all'ora di pranzo. "Era la questura, sono stata convocata", dice la funzionaria della prefettura di Pescara che ha confuso la slavina sull'hotel Rigopiano con il crollo di una stalla di pecore lì vicino. Si affaccia alla porta dell'ufficio del suo capo, comunica che deve essere sentita come testimone informata dei fatti, si infila la giacca nera pesante, prende la borsa, inforca gli occhiali neri. "Sì, sono io quella della telefonata...". Pallida in volto, evidentemente agitata, si avvia a spiegare alla polizia perché ha liquidato come bufala l'allarme di Quintino Marcella. Nei successivi 200 metri, tanta è la distanza tra prefettura e questura, la signora parla a malapena. Cerca di sfuggire alle domande, prova ad opporre un "assolutamente no" quando le si chiede di spiegare come sia potuto accadere un equivoco di tali proporzioni. "Piuttosto preferirei parlarne col Padreterno...", sbotta. Salvo poi riportare il discorso su un terreno più laico: "Ci saranno modi e tempi per chiarire tutto. L'importante è avere la coscienza a posto, e io ce l'ho. Tutto il resto, le polemiche di questi giorni, non m'interessa". Ecco. Un intero stato d'animo in una frase. Ne seguono altre, alla spicciolata. Perché è evidente che non ci sta a passare come il capro espiatorio di una gestione sicuramente discutibile delle comunicazioni tra chi, in quel giorno di neve, valanghe e terremoti, stava cercando di segnalare una disgrazia e chi doveva garantire i soccorsi in modo tempestivo. "Mercoledì ero appena rientrata in ufficio da una malattia. Prima è scoppiata l'emergenza neve, poi quella del sisma. C'era bisogno di gente nell'unità di crisi (il cosiddetto Ccs, Centro coordinamento soccorsi che si attiva quella mattina stessa al piano terra della Prefettura, ndr) e ho dato la mia disponibilità". Nella sala operativa la mettono a una scrivania, in una delle tre stanzette che in quelle ore sono una sorta di suk dell'emergenza. Gente che entra, gente che esce, il telefono che non smette di squillare, richieste d'intervento su urgenze reali e segnalazioni fasulle. "Il mio compito era rispondere alle chiamate dall'esterno", racconta. Quella delle 18.20 di Quintino Marcella però non era come le altre. È vero che il direttore dell'hotel, un'ora prima, vi aveva detto che non era successo niente a Rigopiano, ma come avete fatto poi a confondere la valanga col crollo della stalla? "Non devo dare spiegazioni a lei... Nella sala operativa eravamo in tanti, non c'ero solo io". Agli investigatori, più tardi, spiegherà: "La storia della stalla me l'ha ricordata, mentre ero al telefono, qualcuno più alto in grado che era con me". La persona in questione sarebbe una dirigente di area con incarichi al vertice della prefettura. Anche lei finita al Ccs per dare una mano alla macchina dei soccorsi in quella giornata convulsa. Si sente in colpa per quello che è successo? La funzionaria, che in prefettura si occupa del settore economico e contabile, accelera ulteriormente il passo verso la questura. "Senta, ho da fare... Arrivederci". Al momento non è indagata. È vero che alle 17.30, dal Ccs, chiamarono il direttore Bruno Di Tommaso per verificare la primissima segnalazione del superstite Giampiero Parete, che al 113 aveva parlato espressamente di una valanga, del crollo dell'hotel, e di dispersi. Ed è vero pure che Di Tommaso, che trovandosi a Pescara ignorava cosa fosse realmente successo, tranquillizzò gli operatori. In ogni caso rimarrà il tono, di quella conversazione tra Marcella e la funzionaria della prefettura. Assai fuori luogo.
Ida De Cesaris: “Telefonata su hotel Rigopiano? Eravamo in tanti, coscienza pulita…”, scrive la Redazione di "Blitz Quotidiano" il 25 gennaio 2017. “Non sono io il capro espiatorio che cercate non sono io ad aver preso quella telefonata, basta ascoltare la registrazione per averne conferma. A quel tavolo eravamo in tanti, noi della prefettura, i radioamatori, i rappresentanti delle forze dell’ordine e del soccorso pubblico”. Così il viceprefetto Ida De Cesaris, ricostruisce in un’intervista al Messaggero la mancata reazione dopo l’allarme di Quintino Marcella sull’hotel Rigopiano. Nel mirino dei mezzi di informazione è finita soprattutto una funzionaria della Prefettura che non avrebbe creduto alla telefonata, tanto da confonderla per una bufala o uno scherzo. L’equivoco era nato dal fatto che pochi minuti prima era stata segnalato un allarme per una possibile valanga su una stalla. “Per tutta la giornata sono entrata e uscita dalla stanza del prefetto, dove vertici e riunioni operative si susseguivano a getto continuo – afferma De Cesaris – A un certo punto ho chiesto di deviarmi sul cellulare di servizio soltanto le telefonate dei sindaci. Non ho valutato personalmente altre richieste di soccorso perché l’esperienza mi dice che in situazioni di tale gravità, specialmente nelle comunità più piccole il primo terminale delle popolazioni sono i sindaci”. “Nessuna superficialità nella gestione di un’emergenza estremamente complessa”, rivendica. Le procedure seguite sono state corrette? “C’è un’inchiesta in corso. Di certo – risponde – non tocca ai giornali distribuire patenti di colpevolezza”.
Rigopiano, falla nei soccorsi: "Quella chiamata ricevuta per errore". Un volontario della Protezione civile ha ricevuto "per errore" la chiamata di aiuto dal Rigopiano. E ha fatto partire i soccorsi, scrive Claudio Cartaldo, Giovedì 26/01/2017, su "Il Giornale". Che qualcosa non abbia funzionato nella catena dell'emergenza a Rigopiano è chiaro. I soccorsi non sono partiti immediatamente dopo la chiamata, allarmata, di Quintino Marcella, il capo di Giancarlo Parete, lo chef ospite dell'hotel tratto in salvo insieme alla sua famiglia. Nei giorni scorsi si è parlato della funzionaria che ha bollato come "bufala" la notizia della valanga caduta sull'albergo. Ora emerge anche la spiegazione di come si siano attivate, in ritardo, le procedure per il salvataggio dei superstiti. A spiegarlo è Massimo D'Alessio, volontario della protezione civile che ha ricevuto la chiamata di Quintino Marcella. "Avevo appena finito il turno - racconta alla Stampa - mi avevano mandato alla golena nord del fiume Pescara per monitorarne l'esondazione. Proprio per questo motivo ero passato in questura e avevo dato il cellulare. Ma non dovevo essere io a ricevere quella telefonata, è stato un errore...". La telefonata arriva "alle 18.57" e solo in quel momento scattano i soccorsi. Grazie alla rapidità di pensiero di D'Alessio. E pensare che alcune ore prima in Prefettura era stata bollata come menzogna "inventata da imbecilli". "La questura aveva il mio numero per le esondazioni - continua D'Alessio - È una procedura standard: al 113 lascia il proprio numero chi si trova più vicino all'emergenza. Solo che nel mio caso l'emergenza era il fiume, non una valanga in montagna a chilometri di distanza. È stato bravo Quintino a insistere". Quando riceve la chiamata di Quintino lo sente agitato ed "esasperato". "Gli ho detto 'aspetta un attimo, calmati, così non capisco' - racconta il volontario - Gli chiedo il nome e il cognome e cerco di tranquillizzarlo. Gli spiego che avevo necessità di avvisare almeno chi avevo intorno, non potevo certo dirgli che partivo subito io per il Rigopiano. Metto giù e chiamo il mio capo dei Volontari senza frontiere, Angelo Ferri che si attiva immediatamente, mentre io chiamo la prefettura". D'Alessio è stato sentito in questura come testimone. La procura vuole capire perché si sia atteso tanto prima di inviare i soccorsi al Rigopiano. Solo grazie a D'Alessio si è risvegliata la macchina. "Noi della Protezione civile non diciamo mai forse, non credo o cose così. Noi partiamo, subito".
Soltanto gli uomini. La tragedia e le macchine impotenti, scrive Marina Corradi venerdì 20 gennaio 2017 su "Avvenire”. l primo allarme, lanciato con un sms da un sopravvissuto. I telefoni che nell’albergo di Farindola suonano a lungo, ostinatamente muti. Ci sono più di trenta persone lassù, sotto al Gran Sasso, ma nessuno risponde. I soccorsi partono che è ormai buio. La strada è sepolta da oltre tre metri di neve, è travolta da massi, e da alberi con le radici per aria. Non ce la fanno le grosse jeep dell’Esercito, non ce la fanno nemmeno gli spazzaneve. Una colonna di mezzi di soccorso si blocca tra due muraglie di neve, i fari accesi, i lampeggianti che illuminano a intermittenza di un bagliore azzurrino la montagna ghiacciata. (E intanto, lassù, forse qualcuno è vivo, qualcuno prega, forse qualcuno aspetta). È allora che le squadre del soccorso alpino della Guardia di Finanza si mettono in marcia. C’è un video, sul web. È notte fonda ormai e attorno c’è tempesta. Si sente bene l’ululato torvo del vento fra le montagne, come una voce cattiva. Si vede bene la neve che cade, rabbiosa, a mulinelli; si immagina quasi come quei fiocchi, sulle guance degli uomini, brucino. Le jeep affondano, gli spazzaneve sono inerti, e adesso è l’ora degli uomini. Semplicemente dei piedi, delle gambe di uomini abituati alla montagna. I cingoli dei mezzi sono incrostati di ghiaccio, i motori potenti di centinaia di cavalli non muovono le ruote impantanate, l’energia elettrica è caduta. Ma le gambe degli uomini vanno invece, procedono tenacemente in questa notte d’inferno, dove il terremoto e un’onda di gelo artica si sono dati un maledetto convegno. Il cellulare di un collega inquadra i soccorritori, hanno una torcia sulla fronte e procedono a capo chino. La neve dura scricchiola sotto gli sci. Vanno di buona lena. Non c’è dubbio, almeno loro arriveranno. (I possenti motori dei mezzi di soccorso che girano in folle, il loro rombo impotente, nella notte). Quelle gambe, quelle facce in marcia sopra a tre metri di neve fanno pensare. Come anche le immagini di certi salvataggi di questi giorni, in contrade sperdute colpite dal sisma e dalla tempesta. Posti irraggiungibili perfino per le turbine degli elicotteri. Ma qualcuno dei soccorritori si è inerpicato fin lassù: le foto raccontano l’istante in cui con delicatezza sorreggono vecchi smarriti, avvolti in coperte, e tenendoli dolcemente per mano li tirano fuori dalle loro case. Le mani, ecco, quelle mani tese, dentro ai grossi guanti. Soltanto gli uomini restano, quando i motori e le tecnologie più potenti si fermano. Arrivano, certo, a fatica, con sforzi di cui non si sarebbero creduti capaci, con rabbia, in una drammatica sfida. Magari, a momenti, si teme che non ci sia più nulla da fare. (È inutile, è inutile, sibila quel vento cattivo). Eppure si va, per una testarda speranza. Chi è a casa, magari, stenta a capire. Magari si scandalizza che tante ore ci siano volute per raggiungere l’hotel sommerso dalla slavina. Chi è a casa forse arriva a polemizzare coi tempi della Protezione civile. Ma bisogna capire che cosa è un terremoto con sopra tre metri di neve, in zone impervie e disabitate o quasi. Quando i telefoni non funzionano, i motori tacciono, i cingoli si fermano, e i mezzi di soccorso si accodano, fermi, arresi. Solo pensando a questo si può capire la ostinazione di quegli uomini con gli sci ai piedi, cocciuti, nella notte. E, nei paesini feriti, lo scavare coi badili, e il prendere in braccio i vecchi intrappolati nelle cascine. Le gambe, le braccia, le mani: in una notte d’inferno restano solo gli uomini, infine. Che vanno avanti, e si affannano a rimuovere rovine. I cani non sentono più nulla, e non si muovono. Ma, forse, là sotto, protetto da una trave, qualcuno ancora respira? Quelle mani, quelle voci spezzate dalla fatica, che non si arrendono. È nei giorni d’inferno, che si riconoscono gli uomini.
L’Hotel Rigopiano costruito sui detriti della valanga del 1936. Aperta una nuova indagine sui lavori di ampliamento. Le ultime modifiche del Rigopiano avevano superato indenni l’esame della magistratura, scrive Marco Imarisio il 23 gennaio 2017 su "Il Corriere della Sera". Carta canta. Per almeno due volte. Nel 1991 la Regione Abruzzo decide di dotarsi di una mappa che segnala eventuali criticità sul proprio territorio. Si tratta di un debutto, reso necessario dalle alluvioni e dallo sciame sismico del biennio precedente. La carta ufficiale mostra come l’hotel Rigopiano sia al centro di un’area con colate detritiche, dette conoidi. A farla breve, un lembo di terreno rialzato rispetto alla superficie intorno per via dell’accumulo di materiale caduto dall’alto. Nel dicembre del 2007 quel documento diventa una specie di Vangelo ambientale, perché viene adottato tale e quale com’era dalla Giunta che sulla base delle sue segnalazioni approva il nuovo Piano di assetto idrogeologico. Con il senno di poi si può fare di tutto, ma è vero che quelli riportati sopra non sono giudizi, ma semplici dati rilevati dai documenti ufficiali presenti sul sito della Regione. Sono stati resi pubblici dal Forum H2O, filiazione diretta dei comitati per l’acqua pubblica. Attivisti, ingegneri e operatori ambientali militanti. I due puntini rossi che indicano il Rigopiano, ponendolo all’interno di una zona che gli esperti della Regione hanno considerato a elevato rischio di «anche precipitazione ambientale» sono il punto di partenza che ha portato la Procura di Pescara ad acquisire la loro denuncia. «L’elemento conoscitivo non è stato trasformato in un vincolo che avrebbe obbligato a non costruire o a farlo seguendo direttive che avrebbero fatto impennare i costi». Da qui in poi ogni elemento diventa opinione, quindi confutabile. Come quella di Augusto De Sanctis, presidente del Forum, convinto che non sia stata sciatteria, ma una pura questione di soldi. L’hotel Rigopiano era una struttura preesistente, in una zona dove nel 1936 si era verificata una valanga di portata paragonabile a quella che mercoledì scorso ha fatto strage. A quel tempo, nella valle sorgeva solo un rifugio. Secondo il Forum H2O questo non è importante, perché i tempi di ritorno di questi fenomeni estremi sono molto lunghi. Come per le piene dei fiumi, possono avere una ciclicità plurisecolare, raggiungendo aree che ai non addetti ai lavori sembravano tranquille. «È per questo» aggiunge De Sanctis «che esistono le carte del rischio, basate sugli eventi già noti ma soprattutto sulle caratteristiche specifiche del terreno in questione». L’accusa esplicita è questa: l’ultima ristrutturazione, avvenuta tra il 2007 e il 2008, «ha ampliato le capacità ricettive della struttura e quindi il rischio intrinseco», quando invece c’erano tutti gli elementi per accorgersi dei problemi. Almeno una parte di colpa nel disastro sarebbe quindi da attribuire a quegli ultimi lavori, autorizzati da una delibera del comune di Farindola il 30 settembre 2008 che divenne oggetto di una inchiesta e di un processo per corruzione e abuso di ufficio, chiusi nell’aprile del 2016 con l’assoluzione «perché il fatto non sussiste» di tutti gli imputati. Sindaco, assessore e consiglieri comunali. I reati erano prescritti da tempo. «Ma la completezza dell’istruttoria impone il vaglio delle risultanze dibattimentali» scrissero i giudici nelle motivazioni della sentenza. La Del Rosso srl, titolare dell’hotel, aveva preso possesso di alcuni terreni limitrofi dei quali era proprietario il Comune, e li aveva utilizzati per espandere la ristrutturazione in corso. I magistrati ipotizzarono uno scambio di denaro in cambio della sanatoria, che si rivelò inesistente. La valutazione dei giudici su quei lavori differisce non poco da quelle di Forum H2O. «Non soltanto non emerge alcun profilo di illegittimità nella delibera adottata, ma non può ravvisarsi neppure un esercizio dei pubblici poteri non improntato a imparzialità e buon andamento. Infatti, l’occupazione abusiva, che riguardava una porzione di terreno piuttosto esigua (1.700 metri quadrati), tenuto conto della collocazione geografica, un’area di montagna totalmente disabitata e destinata a pascolo, fu sanata e stabilito per la sua occupazione un canone ritenuto congruo». Non è un precedente da poco. Le ultime modifiche del Rigopiano hanno superato indenni il verdetto dell’aula. Quelle meno recenti risalgono alla notte dei tempi. La nuova inchiesta della Procura su come e perché l’hotel Rigopiano sia stato costruito in un’area dove sono presenti colate di detriti, rischia di avere un valore esclusivamente storico.
"A quelli gli abbiamo dato pure il cu...". L'inchiesta dimenticata dietro l'hotel, scrive il 24 gennaio 2017 “Libero Quotidiano”. La tragedia dell'hotel Rigopiano ha riportato a galla le vicende controverse legate agli ultimi anni della struttura di Farindola. Lo scorso novembre il Tribunale di Pescara ha assolto i cinque imputati - ex amministratori comunali e gli ex titolari dell'albergo - coinvolti nell'inchiesta sui presunti abusi avvenuti dopo gli ampliamenti del 2007. Oggi gli atti di quell'indagine, riporta il Tempo, sono stati acquisiti al fascicolo del procuratore capo Cristina Tedeschini e del sostituto procuratore Andrea Papalia che indagano per omicidio plurimo colposo e disastro colposo. L'inchiesta del pm Varone si basava sull'accusa che l'amministrazione comunale dell'epoca, guidata da una maggioranza del Partito democratico, era "piegata" alle richieste degli imprenditori, in quel caso i cugini Del Rosso, eredi della struttura alberghiera. In un'intercettazione, per esempio, gli inquirenti avevano raccolto uno sfogo emblematico: "C'hanno manipolato come gli pare e piace, qualsiasi cosa gli serviva, pronto, pronto, pronto (...) Gli è stato dato pure il culo a livello di amministrazione, ogni richiesta esaudita e... alla fine ecco il risultato!". Nel mirino degli inquirenti era finita per esempio la delibera che sanava l'ultimo ampliamento della struttura, approvata in cambio di "promessa di versamento di denaro destinato verosimilmente a finanziamento di un partito politico", oltre che "assunzioni preferenziali per propri protetti" nella società dei Del Rosso. L'unico che ha votato contro la suddetta delibera è stato un consigliere di minoranza che ha ricordato ai carabinieri come il giorno del consiglio comunale aveva ribadito la sua contrarietà: "La ditta Del Rosso, senza nessuna preventiva autorizzazione, aveva occupato abusivamente una parte del terreno". In quella seduta poi c'era un'altra situazione imbarazzante e riguardava altri membri del Consiglio: "C'erano delle incompatibilità che riguardavano alcuni consiglieri, i cui parenti all'epoca lavoravano presso l'Hotel Rigopiano: la figlia di... la nipote di..., la moglie di... e tutti e tre hanno votato favorevolmente". Dopo quella delibera, secondo la procura ci sarebbero state altre concessioni sospette e intercettazioni in cui c'erano amministratori che esortavano altri ad accelerare i tempi e a convincere anche l'opposizione perché i Del Rosso non subissero ritardi. L'assoluzione finale da parte dei giudici è stata piena con sentenza passata in giudicato, con la linea della difesa sposata in pieno: "L'ampliamento oggetto dell'indagine riguarda un terreno su cui non è stata costruita nessuna depandance dell'hotel - ha detto l'avvocato di Paolo Del Rosso, Romito Liborio - e comunque non è stato interessato dalla slavina".
"Occhio, ci arrestano tutti quanti...". Horror: chi ha la coscienza sporca, scrive “Libero Quotidiano” il 25 gennaio 2017. Il clima tra i consiglieri di maggioranza del Comune di Farindola non appariva proprio disteso anche il giorno dopo l'approvazione della arcinota delibera che aveva permesso ai titolari dell'Hotel Rigopiano, i cugini Del Rosso, di occupare un'area di 3500 mq per 10 anni davanti alla struttura. Una situazione verificatasi nel 2007 e sanata il 30 settembre 2008 con un voto a maggioranza del Consiglio Comunale. Secondo l'accusa della procura, con quel voto favorevole dei consiglieri era arrivato in cambio di una "promessa di un versamento di denaro destinato verosimilmente a finanziamento di partito politico" e di "assunzioni preferenziali per propri protetti" nella struttura alberghiera. I cinque imputati, ricorda il Tempo, sono stati assolti dall'accusa di corruzione, con sentenza passata in giudicato. Dopo il disastro dopo la slavina che ha distrutto l'hotel Rigopiano, la Procura di Pescara ha aperto una nuova indagine, contro ignoti, per omicidio plurimo colposo e disastro colposo. In quei fascicoli, i procuratori Cristina Tedeschini e Andrea Papalia hanno voluto aggiungere anche gli atti del processo sull'ampliamento sospetto dell'hotel. In quelle carte, gli inquirenti avevano riportato le intercettazioni che hanno coinvolto alcuni politici locali, in particolare un ex assessore che, il giorno dopo l'approvazione della delibera - ha chiamato un ex consigliere del Pd, entrambi imputati e assolti nel processo. In quella telefonata, l'ex assessore chiedeva spiegazioni sulla telefonata della sera precedente: "Ti volevano prendere in giro - gli è stato risposto - e dirti che…te n'eri andato per consumare le ultime sere... a casa, visto che a breve mo' ci arrestano tutti quanti". Apparentemente parole dette in leggerezza, anche se i carabinieri di Penne non la pensavano così. Nell'informativa dei militari quelle dichiarazioni: "dimostrano in maniera emblematica quanto già emerso dall'attività investigativa, ovvero che la maggioranza dell'amministrazione comunale farindolese ha approvato la delibera favorevole ai Del Rosso con coscienza e volontà, sapendo perfettamente di violare leggi e regolamenti". Pochi giorni dopo, un'altra telefonata tra due politici farindolesi aveva insospettito i carabinieri: "A loro non succede niente - dice al telefono un consigliere - semmai succede a noi, ai consiglieri che hanno votato... ma a loro proprio no (i Del Rosso, ndr). Dovrebbero semmai apprezzare che questi consiglieri hanno votato... ulteriormente".
PARLA L'INGEGNERE DINO PIGNATELLI, CHE HA REDATTO IL PIANO PER IL MONTE TERMINILLO: ''AREA HOTEL NON DOVEVA ESSERE EDIFICABILE''. ''IN ABRUZZO NON ESISTE CARTA VALANGHE, LA TRAGEDIA DI RIGOPIANO ERA EVITABILE''. Scrive il 20 gennaio 2017 Marco Signori su "Abruzzo web”. "La Regione Abruzzo non ha mai adottato una Carta delle valanghe, che avrebbe ad esempio potuto scongiurare il dramma dell'hotel Rigopiano di Farindola". L'ingegnere Dino Pignatelli, esperto di impianti a fune ed esperto abilitato di valanghe con una formazione anche in Svizzera, non ha dubbi: "Anche da un'osservazione superficiale del posto si capisce che non è immune dal rischio valanghe, è sicuramente una zona esposta a valanghe, che poi negli ultimi anni non ce ne siano state non significa nulla". Mentre i soccorritori scavano ancora, nella speranza di trovare qualche sopravvissuto tra la trentina di persone che dovrebbero essere sepolte da neve e macerie, Pignatelli spiega ad AbruzzoWeb che "non c'è un serio Piano regionale valanghe, che si trasforma nella Carta che deve essere adottata dai Piani regolatori fatti dai Comuni". "Sul monte Terminillo abbiamo fatto esattamente questo, un paio d'anni fa: mappa del rischio che stabilisce le zone pericolose", racconta. "C'è tutto un sistema attraverso il quale si studiano le valanghe - spiega - Abbiamo metodologie di calcolo molto raffinate, riusciamo ad individuare con una certa precisione sia l'entità, sia l'altezza della neve accumulata, la pressione che esercita su quello che incontra e la velocità che raggiunge la neve". "Lo studio delle valanghe è oggi assolutamente puntuale e precisa nelle determinazioni", aggiunge, spiegando come "ci riferiamo alla normativa svizzera che è la più aggiornata". Tra le soluzioni che si possono adottare per difendersi, ci sono le protezioni attive e quelle passive. "Le prime vengono messe a monte - dice Pignatelli - ed impediscono la formazione di una valanga. Le seconde più a valle e sono dei deviatori, ma si tratta di opere importanti anche perché per deviare quella massa servono infrastrutture di un certo impatto". All'hotel Rigopiano di Farindola, insomma, interventi di questo tipo magari non sarebbero stati possibili, ma semmai ci fosse stata una Carta regionale delle valanghe, ragiona Pignatelli, "il Comune di Farindola avrebbe sicuramente messo quell'area tra quelle non edificabili". E la Carta delle valanghe "è sovraordinata rispetto al Piano regolatore, che deve recepirla altrimenti l'applicazione viene imposta per legge". Certo, un intervento edilizio preesistente "a livello urbanistico può essere sanato, ma possono essere imposte precauzioni e fatto un progetto per queste", come Pignatelli ha ad esempio fatto a Campo Staffi, nel comune di Filettino (Frosinone), dove "c'era un impianto che non si poteva aprire perché era stato denunciato un pericolo valanghe che in effetti c'era, e grazie a degli interventi ha potuto riaprire". Pignatelli non esclude poi che il distacco possa essere stato scatenato dalle forti scosse di terremoto registrate mercoledì mattina in Alta Valle Aterno, visto che "anche il passaggio di un aereo può produrre una valanga, quindi un elemento di trazione anomalo può senza dubbio esserci stato". "È strano che siano passate alcune ore ma anche questa è una cosa possibile", aggiunge. Non ha aiutato, nel ridurre l'impatto sull'albergo, neppure il bosco: "È troppo a valle, può aver prodotto il ritardo nell'arrivo della valanga, ma la massa di neve è un insieme compatto che tende a spingere". L'attenzione torna dunque ora sulla Carta delle valanghe che si attende dalla Regione Abruzzo: "È stato pubblicato un bando un paio d'anni fa per la sua redazione, ma è stata assegnata al massimo ribasso senza tener conto delle esperienze e dell'importanza di utilizzare metodologie di calcolo innovative", è l'amara considerazione dell'ingegnere.
"Rischio valanga su Rigopiano". Ma i lavori all’hotel partirono lo stesso. Gli allarmi degli esperti dal ‘99 fino al 2005. Poi smisero di riunirsi e scattò l’ampliamento, scrive Fabio Tonacci il 28 gennaio 2017 su "La Repubblica". Si afferra finalmente una certezza, nella storia dell'Hotel Rigopiano e della valanga che lo ha seppellito. Quel resort di lusso, vanto e serbatoio occupazionale per i cittadini di Farindola, è stato costruito su un versante montano conosciuto per essere "soggetto a slavine". Collegato da una viabilità provinciale che, d'inverno, rimaneva più chiusa che aperta. Oggetto di un report della guida alpina Pasquale Iannetti che nel 1999, dopo un sopralluogo, scriveva: "In merito alla possibilità di caduta di masse nevose, slavine o valanghe nell'area di Rigopiano, non vi è dubbio che sia il piazzale antistante il rifugio Acerbo che la strada provinciale che porta a Vado di Sole possano essere interessate da caduta di masse nevose o valanghe". Già, proprio il rifugio Acerbo. Quello che si trova a poche decine di metri dal resort e che è stato solo sfiorato dalle tonnellate di neve venute giù il 18 gennaio. A rileggerli ora i verbali della Commissione valanghe del comune di Farindola, istituita nel 1999 e per qualche strano mistero sciolta nel 2005 quando invece sarebbe servita di più, si incontrano molte inconsapevoli Cassandre. Ecco cosa scriveva Iannetti, appena nominato consulente della neonata commissione: "La zona (parla di Rigopiano, rifugio Acerbo e la provinciale 31, ndr) deve essere tenuta sotto stretto controllo". Era il 18 marzo 1999. "Vero è che si ha memoria di un fenomeno rilevante risalente al 1959, ciò non deve essere considerato un fatto che non si possa ripetere". E poi, quasi che l'istinto gli volesse suggerire qualcosa che allora nessuno immaginava, la guida alpina Pasquale Iannetti chiudeva così il suo primo verbale: "Con questi dati la Commissione valanghe potrà fornire indicazioni certe affinché per il futuro si possa garantire la sicurezza delle infrastrutture alberghiere, delle strade e dei parcheggi di Rigopiano". Nelle carte della Commissione (acquisite dalla procura di Pescara che indaga per disastro colposo e omicidio colposo plurimo) il nome del resort Rigopiano non appare mai. Né può esserci, visto che il vecchio alberghetto estivo viene comprato, ristrutturato e ampliato tra il 2006 e il 2007. Esattamente quando il Comune ritenne con decisione incomprensibile di disfarsi dello "strumento" Commissione. Eppure non erano pochi gli elementi già raccolti, che dovevano mettere in guardia sia chi voleva costruire, sia chi doveva autorizzare l'ampliamento. Verbale del 11 marzo 1999: "La montagna di Farindola risulta soggetta a valanghe, pertanto al fine di garantire la pubblica e privata incolumità la Provincia di Pescara ha ritenuto di chiudere la strada d'accesso alla località Vado Sole da Rigopiano". Verbale del 12 marzo 1999, anticipato ieri dal quotidiano il Tempo: "Si è ritenuto opportuno di tenere sotto controllo la zona di Valle Bruciata, piazzale di sosta Rigopiano in prossimità del bivio di accesso per Castelli e Fonte della Canaluccia mediante controlli quotidiani a vista nelle ore più calde, se si notassero distacchi e principi di scivolamento si potrà prendere tempestivamente precauzioni a garanzia di eventuali calamità". Verbale del 4 marzo 2003: "La Provincia ha ritenuto di non provvedere allo sgombero della neve tra Vado Sole a Rigopiano in modo da non consentire il transito, per garantire l'incolumità pubblica e privata ". Vado Sole, Castelli, Valle Bruciata. Tutte località che si trovano più o meno nei pressi del piccolo casolare isolato non ancora divenuto resort 4 stelle. Ancora nel febbraio 2003 la commissione sottopone il caso della provinciale a valle di Rigopiano alla Scuola di Montagna abruzzese. "Il rischio valanghe su entrambi i versanti risulta di livello 4, con condizione di pericolo forte, per cui sono da aspettarsi valanghe spontanee di medie dimensione anche singole grandi", si legge nella relazione finale. In Commissione, dunque, è noto a tutti che le vie d'accesso al sito dell'albergo e località ad esso molto vicine possono rappresentare un grave pericolo per l'incolumità delle persone in certi periodi dell'anno. L'ultimo verbale, datato 24 febbraio 2005, offre uno spunto di riflessione in più. Quel giorno presiede il sindaco Massimiliano Giancaterino, che il 18 gennaio scorso nella catastrofe ha perso un fratello. "La volontà politica del Comune di Farindola è quella di tenere sgombera dalla neve la provinciale fino alla località Fonte Vetica, al fine di non precludere le attività legate al turismo invernale nella zona". Fonte Vetica ospita un rifugio e si trova sul versante opposto. Ha con l'hotel Rigopiano un paio di similarità: è difficile da raggiungere quando nevica forte; stimola l'indotto. Dall'inverno del 2005 in poi, della Commissione valanghe di Farindola si perde ogni traccia. I carabinieri forestali che stanno indagando per conto della procura non hanno trovato ulteriori verbali in Comune. Per dieci anni di fila la Prefettura di Pescara ha ribadito ai sindaci la necessità di ricostituirla, ogni volta che ha dovuto trasmettere un bollettino Meteomont di rischio 4 (su scala 5). Lo fa ancora il 10 marzo 2015, con una lettera firmata dalla vice prefetto Ida De Cesaris: "Si prega di valutare l'eventuale attivazione della Commissione, prevista dalla legge regionale del 1992". Ma la Commissione non è più risorta.
Gran Sasso: il massiccio “magico” tra tragedie ed esperimenti nucleari. Il Gran Sasso non solo è il massiccio più alto degli Appennini continentali, ma è anche la montagna che ospita il traforo a doppia canna più lungo d'Europa, scrive Filomena Fotia il 20 gennaio 2017 su "Meteo Web". Il Gran Sasso non solo è il massiccio più alto degli Appennini continentali, ma è anche la montagna che ospita nelle sue viscere il traforo a doppia canna più lungo d’Europa e i laboratori di ricerca sotterranei più grandi del mondo. Oltre diecimila metri di lunghezza collegano Assergi a Colledara, e permettono un collegamento veloce tra Lazio e Abruzzo. Per scavare il primo tunnel negli anni ’60 ci sono voluti centinaia di uomini, macchinari e tonnellate di esplosivo per un costo di oltre 1700 miliardi di lire. Nella realizzazione dell’opera – ricorda Maria Elena Ribezzo per LaPresse – persero la vita 11 operai. Il massiccio abruzzese è costituito per lo più da calcare permeato da enormi falde di acqua – salvo la parte verso Teramo che è costituito da rocce marnose impermeabili -. Il 15 settembre 1970, durante gli scavi, per un errore di calcolo l’escavatrice bucò l’enorme serbatoio sotterraneo di acqua. Un getto di acqua e fango dalla pressione enorme di 60 atmosfere travolse ogni cosa. La parte bassa della città di Assergi fu allagata, costringendo a una evacuazione, e il corso di molte sorgenti fu compromesso. Il livello della falda acquifera si abbassò di 600 metri e la portata delle sorgenti del Rio Arno e del Chiarino fu quasi dimezzata. I due versanti sono paesaggisticamente opposti: quello aquilano scosceso, ma prevalentemente erboso, e quello teramano, a maggior dislivello, più aspro e roccioso. Le operazioni di disboscamento intensivo, per restituire terreno alla pastorizia per nuovi pascoli, iniziarono già tra il 16esimo e il 17esimo secolo, sconvolgendo pesantemente il paesaggio. Tanto è vero, che più volte si dovette vietare alle popolazioni del luogo di insistere nel taglio degli alberi. Questo, nei secoli, ha portato a tantissime frane. Recentemente, il 22 agosto 2006 nella parete Nord-Est (il paretone) del Corno Grande, si è verificata una frana di grandi dimensioni: da 20mila a 30mila metri quadrati di roccia si sono distaccati dal quarto pilastro. Il 23 agosto scorso, dopo il primo terremoto che ha colpito Amatrice, Accumoli, Arquata del Tronto e altri paesi dell’Appennino Centrale è franato un pezzo del Corno Piccolo. Gli scienziati dell’Istituto Nazionale di Fisica pensarono di affiancare al traforo il Laboratorio di ricerca di Fisica Nucleare, creando i più grandi laboratori sotterranei del mondo. L’intuizione venne al professore Antonino Zichichi: i 1.400 m di roccia che sovrastano i Laboratori costituiscono infatti una copertura tale da ridurre il flusso dei raggi cosmici di un fattore un milione; inoltre, il flusso di neutroni è migliaia di volte inferiore rispetto alla superficie grazie alla minima percentuale di uranio e torio nella roccia dolomitica della montagna. Situati L’Aquila e Teramo, a circa 120 chilometri da Roma, sono utilizzati come struttura a livello mondiale da scienziati provenienti da 22 paesi diversi. Al momento ci sono circa 750 persone impegnate in circa 15 esperimenti in diverse fasi di realizzazione.
Gran Sasso: tutti gli incidenti della storia. Dal XVI secolo alla tragedia dell'hotel Rigopiano. Le sciagure all'ombra della montagna, dovute al clima, alla guerra, all'uomo, scrive il 20 gennaio 2017 Edoardo Frittoli su Panorama.
Nell'inverno 1569 una grande valanga si staccò dalle pendici sopra il passo della Portella. Fu il primo incidente sul Gran Sasso riportato dalle cronache di Francesco De Marchi, ingegnere ed alpinista (fu il primo a compiere la scalata della cima più alta della catena appenninica). Le vittime dell'incidente furono 18, travolte dalla massa nevosa in seguito alle precipitazioni eccezionali di quell'inverno.
È rimasta impressa nella memoria locale la tragedia di Fonte Vetica, sotto il Monte Bolza. Era il 13 ottobre 1919 quando il pastore Pupo Nunzio di Roio fu colto da una improvvisa bufera di neve che anticipò un rigido inverno. Con il pastore morirono i suoi due figli piccoli e la moglie che aveva disperatamente cercato di raggiungerli e che non aveva retto al dolore. Nella tormenta persero la vita anche 5.000 pecore tra gli alpeggi del Gran Sasso.
Dieci anni dopo, nel 1929, fu la volta di due studenti alpinisti rimasti bloccati dalle avverse condizioni meteorologiche. Mario Cambi ed Emilio Cichetti rimasero isolati all'interno del rifugio Garibaldi, senza che i soccorritori potessero raggiungerlo. Cicchetti morì nel tentativo di raggiungere il paese di Pietracamela quando era a meno di 3 km dall'abitato. Nel 1942 la famosa guida ampezzana Ignazio di Bona fu travolto dalla valanga nel tentativo di soccorrere alcuni sciatori rimasti bloccati nella neve.
Venne la guerra ed il Gran Sasso fu teatro della liberazione di Benito Mussolini da parte dei parà tedeschi di Otto Skorzeny. Durante l'azione nota come "Operazione Quercia" furono uccisi il carabiniere Giovanni Natali e la guardia forestale Pasqualino Vitocco, oltre a diversi feriti tedeschi causati dallo schianto di uno degli alianti atterrati a Campo Imperatore.
Passano pochi giorni dalla liberazione di Mussolini quando le pendici del Gran Sasso echeggiano il rombo assordante dei B-25 dell'Usaaf. Il loro obiettivo sono gli snodi ferroviari de L'Aquila. Dalle pance dei bombardieri piovono le bombe che generano una tragedia nella tragedia. I convogli colpiti dagli ordigni trasportavano prigionieri alleati e italiani, tra cui alcune tra le famiglie deportate dal ghetto di Roma. Muoiono oltre 200 persone.
Il 15 settembre 1970, durante gli scavi per la costruzione del traforo del Gran Sasso, la "talpa" scavatrice provocò la foratura di un serbatoio sotterraneo naturale d'acqua. La pressione altissima provoca l'allagamento di parte dell'abitato di Assergi.
Il 16 agosto 2002 un altro incidente generato dall'opera dell'uomo: dai Laboratori dell'INFN nelle viscere del Gran Sasso fuoriescono da un recipiente 50 litri di trimetilbenzene causando l'inquinamento della falda acquifera a valle del massiccio.
PARLIAMO DELLA BASILICATA.
DI POTENZA… Basilicata, professoressa universitaria vince causa contro Eni: la multinazionale l’aveva querelata per diffamazione. La professoressa Albina Colella aveva svolto uno studio sulle acque affiorate vicino a qualche chilometro di distanza da un impianto gestito da Eni. E la multinazionale aveva chiesto oltre 5 milioni di euro di risarcimento danni. Il tribunale ha dato ragione alla docente, condannando il Cane a Sei Zampe per lite temeraria, scrive "Il Fatto Quotidiano" l'11 agosto 2017. Lei, professoressa universitaria di geologia, aveva fatto degli studi. E ne aveva parlato in televisione, anche durante trasmissioni trasmesse a livello nazionale. Le ipotesi scientifiche di Albina Colella, ordinaria all’università della Basilicata, riguardavano le acque sotterranee ricche di idrocarburi, gas, metalli e tensioattivi che 6 anni erano affiorate in Contrada la Rossa, a Montemurro, a poco più di 2 chilometri dal pozzo di reiniezione di scarti petroliferi di Costa Molina 1 in Val d’Agri. E le acque – sosteneva la professoressa – mostravano diverse affinità con i reflui di scarto petrolifero. Così Eni, che gli impianti della Val d’Agri li gestisce, l’aveva querelata per diffamazione e danni morali e patrimoniali, chiedendo un risarcimento di poco più di 5 milioni euro. Ma lo scorso 19 luglio, la Prima Sezione Civile del tribunale di Roma ha rigettato integralmente la richiesta di risarcimento danni avanzata da Eni, dando ragione alla professoressa. Sancendo, di fatto, la legittimità dell’informazione scientifica. Gli avvocati di Colella, Giovanna Bellizzi e Leonardo Pinto, hanno spiegato che la sentenza stabilisce il diritto all’informazione in materia ambientale e riconosce la valenza costituzionale della libertà di opinione: “Non vi è dubbio che la divulgazione dei risultati della ricerca costituisca legittima espressione del diritto di libertà di manifestazione del pensiero, sancito dall’art. 21 della Costituzione, e di libertà della Scienza garantita dall’art. 33 della Costituzione, senza limiti e condizioni”, si legge nel testo con cui il tribunale ha dato ragione alla professoressa. Non solo: perché vista la somma richiesta dalla multinazionale, sganciata da qualsiasi parametro che regola il risarcimento in materia, hanno spiegato i legali, Eni è stata anche condannata per lite temeraria.
SARA’ ANCHE UNA “ROMPI…”, MA LA COLELLA VA RINGRAZIATA, scrive Rocco Rosa il 10/08/2017 su "Talenti Lucani". Avevamo già scritto nei mesi scorsi che il clima è cambiato e anche quelli che la facevano da padrone debbono tenere conto del fatto che c’è una nuova consapevolezza dei sacrifici che la popolazione della Val D’Agri sta facendo in nome della necessità di Stato e che a questa prova di solidarietà bisogna rispondere con serietà e non con arroganza. Un ultimo commento da me fatto si intitolava “Il Re è nudo”, nel senso che oggi tutti vedono i danni che comportamenti scorretti e connivenze sospette hanno determinato. E Dio voglia che ci si fermi qui e non si scopra che il danno, come dire, è più profondo di quanto si pensasse. In tutta questa storia c’è chi, sapendo, ha taciuto, chi, non sapendo, ha dato per scontato che fosse tutto secondo legge, chi, sapendo, ha parlato e scritto. E queste persone, comunque si chiamino o qualunque idee o ideologie abbiano, hanno pagato per tutti, subendo, in maniera diretta o indiretta, il pugno di ferro di un potere che è più organizzato di quello che si suppone e che tocca gangli vitali dell’apparato statale e non. La storia della prof. Colella è una storia tutta particolare perché, a quanto sembra, allo strapotere dei potenti si sono aggiunte le viltà di quelli che si fanno strada servendo i potenti e non vedono l’ora di poter essere utili idioti del potere. Ma, a ben guardare, tutta la vicenda origina in un solo punto: ed è il monumentale studio sulle risorse idriche in Basilicata e sui bacini imbriferi, nel quale c’era scritto, cacchio cacchio, che i pericolo di un inquinamento delle risorse da petrolio in val d’Agri, a ridosso della diga del Pertusillo, erano reali e non ipotetici e che ci volevano altri studi per capire quali ulteriori azioni bisognava fare per fugare ogni dubbio in proposito. La prof. Colella dovrebbe mandare un maxifile di quello studio a tutti i parlamentari europei, ai ministri dell’ambiente che si sono succeduti in Italia, ai presidenti della Regione che si sono succeduti per chiedere appunto se e come si è risposto al quesito che lo studio poneva. Per fortuna però le cose sono cambiate e il fermo dell’impianto Cova ne ha segnato, anche politicamente, la svolta. Da ora questa supersovranità territoriale di un Ente che fa il privato spacciandosi per Stato, non c’è più e farebbe un errore gravissimo chi rinunciasse alla rigidità dei comportamenti assunti da un anno in qua come controparte pubblica. Ma alla prof. Colella forse l’ambiente accademico non può rispondere facendo finta di niente, o con congratulazioni private, perché, dopo essere stata lasciata sola a difendersi da accuse e da querele, lei oggi, con questa sentenza, dimostra che non solo ha difeso la sua persona ma anche la dignità di un Ateneo. Si torni ad un rapporto corretto, fatto di serietà, di relazioni trasparenti e di comportamenti pubblici o privati improntati al massimo di rigore, alla migliore prevenzione, alla migliore tecnologia di cui il cane a sei zampe dispone per poter lavorare nella tranquillità e assicurando la tranquillità.
Potenza, figlio del boss rivela: giudici, avvocati e poliziotti erano vicino al clan, scrive il 20 gennaio 2017 Giovanni Rivelli su "La Gazzetta del Mezzogiorno". Non ci sono solo i servizi di guardiania. Natale Stefanutti accusa tutto e tutti. Politici, vertici di organismi del mondo produttivo, avvocati, esponenti delle forze dell’ordine, addirittura un giudice di Cassazione. E se il racconto sui servizi di guardiania ha prodotto l’operazione venuta alla luce martedì scorso con le tre ordinanze di custodia cautelare in carcere eseguite dalla Squadra Mobile, (che ha pure curato le indagini con cui la Procura ha chiesto e ottenuto le misure dal Gip), ci sono almeno altri due filoni «in gestazione» sulle presunte attività poste in essere da uomini vicini ai boss attualmente detenuti Renato Martorano e Dorino Stefanutti. Elementi diversi, ma che nelle «notizie di reato» sembrano trovare una congiunzione in quella che in alcune «Cnr» (comunicazioni di notizia di reato) viene inquadrata come una «416 bis», ossia una associazione a delinquere di stampo mafioso. E che lascia pensare che sugli altri filoni possano esserci sviluppi. Il filo conduttore è sempre Natale Stefanutti, figlio dell’ex boss in carcere e ora testimone di giustizia in località protetta. Nei tanti verbali (molti dei quali spesi a supporto delle ordinanze di tre giorni fa ma con numerosissimi «omissis»), nei racconti che spesso iniziano con «tizio mi ha detto che» o «ho appreso da che» parla di estorsioni e droga. Dall’impresa che pagava 60mila euro all’anno al clan ai viaggi per approvvigionarsi. «Il clan Martorano-Stefanutti - assicura - esiste ancora come è sempre esistito». E fa elenchi di «battezzati» (ossia affiliati) con nome e cognome. «Attualmente - aggiunge - il clan Stefanutti-Martorano commettono estorsioni». Racconti che continuano, come nel caso dell’avvicinamento di un giudice di cassazione ad opera di due esponenti di un’azienda in relazione col clan. «Dovevano aiutare Martorano per un procedimento in cassazione, mio padre ha consegnato un biglietto a.... con l’indicazione del Giudice di Cassazione che doveva occuparsi del processo di Martorano: questo biglietto è stato consegnato da Tancredi a Roma a uno dei due che ho sopra indicato. Costui avrebbe avvicinato il giudice». E qualcosa di simile gli sarebbe stato prospettato per il padre. Natale consegna anche una serie di appunti agli inquirenti, scritti su un block notes di 41 pagine. «Appunti relativi a personaggi e fatti che possono essere utili alle vostre indagini» precisa il figlio del boss. E, ad esempio, fornisce i nomi di quelli che a sua conoscenza sono gli affiliati potentini. Ci sono pregiudicati, ma anche due avvocati, un consigliere comunale, un ex assessore a comporre una lista di 18 nominativi, tra cui figurano i tre arrestati martedì. Per ciascuno indica anche il presunto ruolo. C’è chi riscuote i soldi e chi segnala le ditte, c’è l’avvocato che segnala le persone che devono dare i soldi per effettuare i recuperi e quello che porta le ambasciate in carcere, l’uomo che va ad acquistare cocaina a Genzano e quello che prova ad approvvigionarsi nel Napoletano. Parla anche di chi fa il piccolo spaccio di marijuana «a 3,50 in contanti a 4,50 a mantenere», precisa. Il piccolo Stefanutti si dilunga poi sui rapporti con la ‘Ndrangheta e in particolare il clan Grande Aracri. Rapporti fatti di regali, come la pistola che sarebbe stata data al padre, di forniture di cocaina e anche di un ruolo «regolatore». Come quando avrebbero dato il giuramento di affiliazione, ma precisando di non volere il capo dei pignolesi, o quando sarebbero intervenuti per chiarire che se questi avessero fatto attentati al clan potentino «avrebbero avuto tutta la Calabria contro». I Vip in contatto col padre. Ma ci sono anche altre accuse. Come quella rivolta a un noto esponente del mondo produttivo che avrebbe contattato il padre addirittura per commissionare un omicidio. La prova? «Ha un vigneto al Pantano e gli regalava il vino» scrive di suo pugno. O un politico influente che avrebbe aiutato il genitore «a far aprire un lago artificiale dietro Bucaletto». Racconti tutti da verificare (e il fatto che siano stati resi da un paio di anni lascia pensare che verifiche siano state fatte e si sia oramai oltre) ma l’incrocio di nomi e personaggi con operazioni già fatte lascia pensare a un inquadramento più complessivo che, magari, circostanze o strategie investigative hanno portato a frazionare in diversi filoni. Anche se è difficile pensare che possano viaggiare in modo totalmente slegato, nell’inquadramento come nel tempo.
PARLIAMO DELLA CALABRIA.
DI CATANZARO… Il paladino dell’antindrangheta era socio di un boss. Calabria: il presidente della commissione antimafia era socio di un boss. Le quote della Gife sas imbarazzano Arturo Bova. I suoi rapporti con Leonardo Catarisano, capoclan di Roccelletta di Borgia, negli anni in cui prendeva il via la carriera politica che lo avrebbe portato in consiglio regionale, scrive Lunedì, 29 Maggio 2017 Alessia Truzzolillo su "Il Corriere della Calabria". Nei brogliacci dell’inchiesta “Jonny” ci sono passaggi imbarazzanti per il presidente della commissione Antindrangheta del consiglio regionale Arturo Bova. Svelano i suoi rapporti d’affari con un uomo, Leonardo Catarisano, 63 anni, che gli investigatori dell’antimafia catanzarese ritengono uno dei vertici del clan di Roccelletta di Borgia, finito nel mirino dell’operazione coordinata dalla Dda di Catanzaro. Legata agli Arena di Isola Capo Rizzuto, la famiglia, secondo quanto ricostruito in maniera capillare dalla Direzione distrettuale antimafia e dai militari del Nucleo investigativo, sarebbe impegnata in reati «contro il patrimonio, in materia di armi, stupefacenti, estorsioni, nonché acquisire in modo diretto o indiretto, la gestione o comunque il controllo, di attività economiche, infiltrandosi nella relativa gestione nei diversi ambiti commerciali e imprenditoriali, anche nel settore i villaggi turistici e delle attività recettive, forniture per la realizzazione di opere pubbliche o private, forniture per servizi vari sul territorio». L’organizzazione è stata peraltro riconosciuta da due procedimenti penali: 3563/2009 e 3968/2011. Ma le indagini di Jonny ci mostrano anche un Leonardo Catarisano imprenditore. L’esponente di vertice della cosca viene indicato anche quale amministratore della Gife sas di Catarisano e C, un’azienda di rivendita di materiali edili che subirà dei cambiamenti nel corso del tempo. Istituita il 27 gennaio 1997 – «(socio accomandatario Leonardo Catarisano, soci accomandanti Antonio Severini e Teresa Pilò, Leonardo Catarisano) con sede in via Risorgimento di Roccelletta di Borgia» –, il 5 gennaio 2001 la Gife sas cede l’impresa alla Gife srl (appositamente costituita a novembre del 2000) e passa da società di persone a società di capitali la cui caratteristica principale è quella di avere un patrimonio separato rispetto quello dei singoli soci. La Gife srl risulta attiva nel commercio all’ingrosso e/o al dettaglio del settore non alimentare; nonché la costruzione e l’acquisto di edifici civili, commerciali e industriali e di opere connesse; movimento terra, costruzione, gestione di strutture turistico alberghiere; noleggio a caldo e/o a freddo di automezzi, macchinari ed attrezzature edile. Attualmente la Gife risulta composta da due soci, il socio di maggioranza Antonio Severini, 50 anni, che detiene il 66,67% delle quote e Leonardo Catarisano che ne detiene il 33,33%. La Gife srl da gennaio 2001 a settembre dello stesso anno ha avuto come amministratore unico Giovanni Bova il quale è stato poi sostituito in questo ruolo da Arturo Bova, attuale consigliere regionale di maggioranza in quota Dp e presidente della commissione regionale Antindrangheta. Le visure camerali conducono gli inquirenti al politico, che da settembre 2001 ha ricoperto il ruolo di amministratore unico della Gife srl, ruolo confermato nel 2005 e rimasto invariato fino ad aprile 2008. Bova risulterebbe inoltre già titolare di 6.800,12 quote nominali pari ad un terzo dell’intero capitale della Gife srl. Secondo quanto si è potuto apprendere da fonti investigative, il politico avrebbe donato le proprie quote al socio Antonio Severini nel marzo 2012. Leonardo Catarisano viene considerato dagli inquirenti «esponente di vertice della cosca di ndrangheta sinteticamente denominata come cosca Catarisano». L’epicentro del territorio controllato dal clan è Roccelletta di Borgia. Per Leonardo Catarisano, 63 anni, detto Nando, il percorso per salire al vertice della cosca non è stato facile e non è avvenuto in tempi brevi ma al termine di una sanguinosa guerra di una «sanguinosa faida scatenatesi tra Borgia e Roccelletta di Borgia, consumatasi negli anni 2000». Ma il sangue a Borgia ha radici lontane, in un territorio sottomesso alla violenza. Secondo quanto ricostruito dai carabinieri del Nucleo investigativo «storicamente, il comune di Borgia ricadeva sotto l’influenza criminale di Antonino Giacobbe, classe 1920, che era coadiuvato nella sua attività criminale da Saverio Barbieri, alias “u tirannu”». I due vennero arrestati per omicidio nel 1975 e nel corso della loro assenza le redini della cosca vennero rette da Virgilio La Cava. Quando, nel 1989, i due ottennero la semilibertà e cercarono di riprendere la guida della compagine ‘ndraghetistica, trovarono l’opposizione di La Cava che creò una scissione coi vecchi capi. Nel 1989 si registra la prima faida interna alla cosca che lasciò sul campo i corpi senza vita di otto persone, compreso Virgilio La Cava e suo figlio Antonio. In questo contesto sanguinoso e violento era emersa la figura di Salvatore Pilò, ritenuto vicino alla cosca Arena, che aveva cementato il suo legame col vecchio Giacobbe grazie a matrimoni e vincoli di parentela. La sua presenza e l’influenza che Pilò aveva col boss non piacevano a Barbieri “u tirannu”. Nel 1993 le armi riprendono a farla da padrone nel territorio di Borgia e fino al 1998 si contano otto morti. Nel frattempo, all’interno del gruppo di Salvatore Pilò emergono i nomi di Salvatore Abruzzo e Leonardo Catarisano il quale aveva sposato una nipote di Salvatore Pilò, figlia di suo fratello Francesco, cementando a doppia mandata il suo rapporto con la cosca e avviandosi a diventarne il reggente. Dalle indagini dei carabinieri, coordinati dalla Dda di Catanzaro, emerge che Catarisano «a seguito della sanguinosa faida scatenatesi tra Borgia e Roccelletta di Borgia, consumatasi negli anni 2000, assumeva la reggenza del sodalizio di Roccelletta di Borgia». A contendere il potere a Salvatore Pilò, soprattutto per assumere il controllo di attività illecite come estorsioni e traffico di droga, c’è un gruppo nel quale emerge il gruppo dei Cossari di cui è a capo Salvatore Cossari. È questa la ragione che farà scoppiare la terza faida, quella degli anni 2000, nella quale il 28 maggio del 2004 verrà assassinato, nel parcheggio del centro commerciale “Le fornaci”, di Catanzaro Lido lo stesso Salvatore Pilò. Non solo. Nel rosario di morti che si susseguono lo stesso Nando Catarisano ha subito un attentato mentre accompagna la figlia a scuola il 23 maggio 2008. Erano le 7:30 del mattino quando, a bordo della sua Nissan Micra viene affiancato da due soggetti a bordo di una moto di cui uno indossava un casco nero. Gli esplodono contro diversi colpi di pistola calibro 9×21. Catarisano rimane ferito e ricoverato all’ospedale Pugliese di Catanzaro mentre sua figlia riporterà lievi ferite a un braccio. I killer non avevano usato particolari “riguardi” con la loro raffica di proiettili. Sarà comunque il 2008 l’anno decisivo. Pochi giorno dopo l’attentato a Catarisano, il 31 maggio 2008, verrà assassinato Salvatore Cossari e partirà l’ascesa di Nando Catarisano. A quel tempo, quando le pallottole mietono vittime nella jonica catanzarese, il futuro presidente della Commissione antindrangheta Arturo Bova condivide con Catarisano un posto nella compagine sociale della Gife. E ha una carriera politica in rampa di lancio: confermato consigliere comunale ad Amaroni nel 2004, ne diventerà sindaco cinque anni dopo. È il suo trampolino verso lo scranno in consiglio regionale conquistato nel 2014.
Quanti favori da Lumia, il senatore dell'Antimafia. La Procura di Termini Imerese mette in luce un caso di voto di scambio in Sicilia. Che coinvolge pure l'ex presidente della Commissione parlamentare, scrive Antonio Rossitto il 14 marzo 2017 su Panorama. In nome dell’antimafiosità, è diventato il cardinale Richelieu della politica siciliana. Da quasi un decennio, il senatore del Pd Giuseppe Lumia fa e disfa: governi, alleanze e strategie. E’ stato l’artefice dell’appoggio dei democratici all’ex presidente della Regione Raffaele Lombardo, poi condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. Ed è il puparo che muove i fili dell’attuale giunta, guidata da Rosario Crocetta. I due, in vista delle imminenti elezioni regionali, hanno lanciato a Palermo un nuovo movimento: Riparte Sicilia. Ancora nel nome della giustizia e delle magnifiche sorti che attendono l’isola. Nelle settimane scorse la Procura di Termini Imerese ha chiuso le indagini su Giuseppe Volante, primo degli eletti nelle file del Pd alle amministrative termitane del 2014. Un atto che solitamente è il prodromo della richiesta di rinvio a giudizio. L’accusa è corruzione elettorale: Volante avrebbe promesso posti di lavoro, trasferimenti, intercessioni. Assieme a lui, sono indagate altre cinque persone: in cambio di «utilità», avrebbero dirottato il loro voto su Volante, già assessore alle Attività produttive a Termini Imerese. Ma cosa c’entrano queste presunte clientele locali con Lumia? E’ presto detto. L’ultralegalitario senatore del Pd è proprio di Termini Imerese. E Volante è un suo uomo di fiducia. Raccoglie curriculum, documenti, messaggi, richieste di assunzione e domande di trasferimento. Che poi gira a Lumia. Le carte dell’inchiesta svelano l’arcinoto copione delle elezioni siciliane. Voti in cambio di supposti favori. Niente di nuovo. Se non fosse che il collettore delle richieste è la segreteria politica di un senatore che è stato presidente della Commissione parlamentare antimafia. «Legalità è sviluppo. Sviluppo è legalità». Lo slogan elettorale di Lumia, a leggere le carte della Procura, potrebbe aver goduto di un momento di stasi nella primavera del 2014. A Termini Imerese è in pieno svolgimento la campagna elettorale. In corsa per diventare sindaco c’è Salvatore Burrafato, pure lui fedelissimo del senatore. Tra i candidati al consiglio comunale c’è poi Volante. Il 9 aprile 2014 invia alla mail personale di Lumia la richiesta del maresciallo Emanuele Brucato, anche lui indagato. Il militare, scrive il pm Giacomo Brandini, «accettava le offerte e promesse di Volante di interessamento presso la segreteria di Lumia per una domanda di trasferimento già presentata, in cambio del suo voto elettorale».
Il 21 maggio 2014, a quattro giorni dalle elezioni, Volante invia un sms a Lumia: «Puoi vedere per Brucato Emanuele? Alessandra sa tutto: uscita graduatoria trasferimenti, lui e 100esimo...». Alla fine, il maresciallo ottiene quanto sperato. I documenti dell’inchiesta confermano: «La domanda di trasferimento ha trovato accoglimento nel mesi di giugno 2015, consentendogli di essere trasferito presso la stazione dei carabinieri di Bagheria». Volante si attiva, sempre tramite la segreteria del senatore, pure per un’altra domanda di trasferimento in Sicilia di un agente di polizia penitenziaria in servizio in Valle d’Aosta: Giuseppe Moreci, anche lui indagato per corruzione elettorale. Il 20 maggio 2014, nell’imminenza del voto, il militare chiede notizie dell’«istanza»: «Già a Roma, segreteria Lumia» risponde Volante. Che, come emerge dagli atti dell’inchiesta, invia alla segreteria del politico almeno altre tre domande di trasferimento, con indicazioni precise. E, di fronte, alle richieste di aggiornamenti, rassicura: «Mi ha chiamato Lumia, ti devi fidare» scrive a un questuante il 3 giugno 2014, a un giorno dal ballottaggio. Anche Salvatore Calafato, altro concittadino del senatore, è indagato. Interrogato il 4 maggio del 2016, spiega: «Nei mesi precedenti al maggio 2014 mi rivolsi a Lumia per chiedere aiuto a trovare un impiego. Quest’ultimo mi diceva che avrebbe fatto qualcosa per aiutarmi e mi comunicava di rivolgermi, quale suo referente, al signor Volante. Lumia mi chiedeva quindi di aiutare Volante nella campagna elettorale per le elezioni del consiglio comunale». Calafato esegue. Il suo voto e quello della sua famiglia finisce all’esponente del Pd. Come riprova, invia una foto della scheda elettorale a Volante. «Successivamente, fino agli inizi del 2015, sono andato diverse volte nella segreteria di Lumia» racconta l’uomo ai carabinieri. «Il senatore mi ha più volte comunicato che mi avrebbe aiutato a trovare un’occupazione, che però non è mai arrivata». Lo stesso capita a un altro indagato: Giuseppe Vuono. Avrebbe chiesto al senatore un posto di lavoro per il genero.
Il 7 giugno 2014 Burrafato vince il ballottaggio e viene eletto sindaco di Termini Imerese. Volante è il candidato più votato: 349 preferenze. La mattina del 20 giugno 2014, però, una pattuglia dei carabinieri bussa a casa sua. In mano hanno un decreto di perquisizione. Volante è indagato per voto di scambio. L’inchiesta impensierisce Lumia. Lo rivela un’annotazione di polizia giudiziaria del 24 giugno 2014 finita agli atti. E’ firmata dal capitano Gennaro Petruzzelli, comandante dei carabinieri di Termini Imerese. Petruzzelli riferisce di aver ricevuto, il 21 giugno 2014, una telefonata da parte del senatore. L’ex presidente della Commissione antimafia gli chiede un incontro. Che avviene il giorno successivo: «Lumia» scrive il capitano «mi chiedeva cosa pensavo in merito alla vicenda giudiziaria che vedeva coinvolto Volante». Il comandante mette a verbale di aver glissato. Lumia gli chiede se, a suo parere, il consigliere comunale perquisito si sarebbe dovuto dimettere. «A questa domanda rispondevo che non conoscevo gli sviluppi dell’indagine, e che comunque si trattava di una valutazione politica che non mi riguardava». Volante si dimette il 24 giugno 2014: tre giorni dopo il colloquio tra Lumia e Burrafato. Due anni anni più tardi, il 5 luglio 2016, si dimette anche il sindaco Burrafato, travolto da un’indagine per truffa, abuso d’ufficio, falso e peculato. Il sistema di potere locale legato a Lumia è stato smantellato dai magistrati. Il senatore, invece, è pronto per la sua nuova avventura politica al fianco di Crocetta. Lo slogan è quello di sempre: «Legalità è sviluppo. Sviluppo è legalità».
DI REGGIO CALABRIA…Pornografia minorile, arrestato giudice a Messina. Gaetano Maria Amato è in servizio alla Corte d’appello di Reggio Calabria, scrive il 2 ottobre 2017 "Il Corriere della Sera". Un giudice in servizio alla Corte d’appello di Reggio Calabria, Gaetano Maria Amato, è stato arrestato dalla polizia a Messina per pornografia minorile. Nei suoi confronti il Gip della città dello Stretto, su richiesta del procuratore Maurizio De Lucia e dell’aggiunto Giovannella Scaminaci, ha emesso un’ordinanza di custodia cautelare in carcere. La notizia è stata confermata all’Ansa da fonti giudiziarie, che non forniscono altri particolari a tutela delle vittime.
Rischia la sospensione. Rischia la sospensione dalla funzione e dallo stipendio, con la collocazione fuori dal ruolo organico della magistratura, da parte della sezione disciplinare del Csm, il giudice in servizio alla Corte d’appello di Reggio Calabria, Gaetano Maria Amato, arrestato dalla polizia per pornografia minorile. La sezione disciplinare del Csm dovrà valutare la richiesta dei titolari dell’azione disciplinare, ossia il Pg della Cassazione e il ministro della Giustizia, di applicazione delle misure cautelari nei confronti del magistrato. Solitamente nei casi di arresto, tale misura è obbligatoria, e dopo l’istanza, il Csm agirà quindi in tempi rapidi.
A giugno la difesa di un collega. Amato nel giugno dello scorso anno, quando era ancora al Civile, partecipò ad una conferenza stampa, insieme a tutti i colleghi giudicanti della Corte, per spiegare e difendere l’operato di una collega finita al centro delle polemiche per non avere osservato i tempi per la redazione delle motivazioni della sentenza del processo «Cosa mia» sulle cosche di ’ndrangheta di Rosarno, circostanza che avrebbe portato alla scarcerazione di tre presunti affiliati alle ’ndrine. In quell’occasione, tutti i giudici della Corte d’appello reggina fecero presente che le scarcerazioni erano dovute «ad una rimodulazione dei termini all’indomani delle assoluzioni dei tre dai reati più gravi, tra cui omicidio ed estorsione aggravata, e ciò al fine di dare esecuzione alle scansioni processuali del Codice di procedura penale». I giudici sottolinearono anche le gravi condizioni di carenze di organico dell’ufficio.
Messina, pornografia minorile: un giudice finisce in carcere. Gaetano Maria Amato, 57 anni, era in servizio alla corte d'Appello di Reggio Calabria. Il gip ha emesso un'ordinanza di custodia cautelare. Nel 2009 aveva subito una sanzione dal Csm per i ritardi nella pubblicazione delle sentenze, scrive il 2 ottobre 2017 "la Repubblica". Un giudice in servizio alla corte d'Appello di Reggio Calabria, Gaetano Maria Amato, è stato arrestato dalla polizia a Messina per pornografia minorile. Nei suoi confronti il gip della città dello Stretto, su richiesta del procuratore capo Maurizio de Lucia e dell'aggiunto Giovannella Scaminaci, ha emesso un'ordinanza di custodia cautelare in carcere. Gli investigatori non forniscono particolari, a tutela delle vittime. Gaetano Maria Amato, 57 anni, nato a Messina, ha iniziato la sua carriera giudiziaria come pretore a Naso. Si era poi spostato a Messina, prima al tribunale civile e poi a quello fallimentare. Infine, nel 2009, il trasferimento alla corte d'Appello di Reggio Calabria. È padre di tre figli. Il giudice Amato nel 2009, quando era in servizio a Messina, subì un procedimento del Consiglio superiore della magistratura per presunti ritardi nel deposito degli atti. Nella contestazione si rilevava come ci fossero troppe sentenze del magistrato depositate oltre i termini. Per questi ritardi il Csm lo aveva dichiarato colpevole e sanzionato con l'ammonizione. Il reato di pedopornografia configura vari tipi di comportamento, dalla sola detenzione di materiale pornografico alla cessione e diffusione, fino alla produzione di immagini con lo sfruttamento di minori. Il reato prevede, in caso di condanna, la reclusione fino a 12 anni.
'Ndrangheta, il boss Morabito intercettato: "Qua lo Stato sono io". Tra le oltre cento persone arrestate nel blitz condotto dai carabinieri contro le cosche della provincia di Reggio Calabria c'è anche il Rocco Morabito, figlio del boss Peppe il tiradritto. E nelle intercettazioni l'erede designato afferma: "Qua lo Stato sono io, la mafia originale, non quella scadente".
"Operazione Mandamento". Così la 'ndrangheta comanda ancora. A sette anni dai 300 arresti sull'asse Calabria-Lombardia, una nuova indagine con più di cento fermi documenta lo strapotere dei clan della zona jonica della provincia di Reggio Calabria. Ventitrè famiglie criminali da cui dipendono le cosche stanziate al Nord e quelle all'estero. E un controllo capillare del territorio, dell’economia e della politica, scrive Giovanni Tizian il 4 luglio 2017 su "L'Espresso". Voti, appalti, frodi comunitarie, riciclaggio, affiliazioni, cocaina, estorsioni e controllo degli operai forestali. Centosedici arresti, 23 cosche in 90 chilometri di costa, che in passato ha avuto decine di comuni sciolti per mafia contemporaneamente. E una certezza, la 'ndrangheta si rigenera alla velocità della luce. Manette, carcere duro e confische hanno solo parzialmente neutralizzato alcune grandi famiglie, ma non l'organizzazione che continua a dettare legge in Calabria e fuori regione. Lo dimostrano i risultati dell'operazione in corso dalle prime luci dell'alba, nome in codice “Mandamento Jonico”, coordinata dalla procura antimafia di Reggio Calabria guidata da Federico Cafiero De Raho e condotta dal Ros dei carabinieri diretto da Giuseppe Governale. Tra le oltre cento persone arrestate nel blitz condotto dai carabinieri contro le cosche della provincia di Reggio Calabria c'è anche il Rocco Morabito, figlio del boss Peppe "il tiradritto". E nelle intercettazioni l'erede designato afferma: "Qua lo Stato sono io, la mafia originale, non quella scadente". A sette anni esatti dalla storica operazione Crimine, quella dei 300 tra capi bastone, colletti bianchi e imprenditori finiti in manette sull'asse Calabria-Lombardia, le cosche della provincia di Reggio Calabria subiscono un altro duro colpo. Sono i clan del mandamento Jonico, appunto, localizzati tra il Reggino e la Locride, inclusa l'area dell'Aspromonte e Platì, dove gli investigatori hanno riscontrato peraltro gravi anomalie negli appalti di un importante opera pubblica. Non è l'unico appalto finito nel mirino degli inquirenti. Numerosi lavori, grandi e piccoli, sono stati condizionati dalle imprese mafiose. A farne le spese pure noti committenti pubblici. In alcuni casi è emersa una pressione estorsiva pari al 10 per cento del totale dell'opera o di imposizione di forniture. Una tassa fissa da mettere in conto, ancora oggi. Le indagini hanno permesso di ricostruire l'attività di 23 Locali (cosche ndr) di ‘ndrangheta, operanti nei tre Mandamenti in cui è criminalmente suddivisa la Provincia di Reggio Calabria che sono quelle di Reggio Calabria, Sinopoli, Roghudi, Condofuri, S. Lorenzo, Bova, Melito Porto Salvo, Palizzi, Spropoli, S.Luca, Bovalino, Africo, Ferruzzano, Bianco, Ardore, Platì, Natile di Careri, Cirella di Platì, Locri, Portigliola, Saline, Montebello Jonico e S.Ilario. Famiglie che hanno un coordinamento nelle strutture di vertice dell’organizzazione. Gli investigatori hanno scoperto, per esempio, l’esistenza di veri e propri "tribunali" competenti a giudicare gli affiliati accusati di aver violato le regole o di non aver rispettato le procedure da applicare per sanare faide all’interno delle cosche. Luoghi che a molti non dicono nulla, paesi sconosciuti, esotici e distanti. Eppure da qui provengono le famiglie che con il narcotraffico hanno conquistato l'Europa e l'America. Da qui si decidono quante le tonnellate di cocaina dovranno invadere le piazze italiane. Feudi in cui ancora oggi riti arcaici di affiliazione e tradizioni criminali si intrecciano a modernissimi sistemi di riciclaggio. Non è un caso che gli inquirenti e gli investigatori puntualizzano ancora una volta che le “Locali” radicate in Piemonte e Lombardia dipendono saldamente da quelle calabresi ed in particolare da quelle del Mandamento Jonico. Lo stesso vale per per le ‘ndrine del Canada, dell’Australia, della Germania e del resto del mondo. Oggi come un tempo ciò che non sembra immutato è l'atteggiamento prono di certi sindaci e imprenditori. I primi in ginocchio per ottenere il sostengo del clan, i secondi sempre disponibili a pagare o diventare faccia pulita dei padrini. Le indagini hanno permesso di ricostruire alcuni di questi rapporti e documentare il sostegno elettorale di alcune 'ndrine in diverse competizioni elettorali. Relazioni istituzionali spesso nate in circoli riservati, all'ombra della massoneria. Logge e fratelli massonici con un piede nella 'ndrangheta è un altro dato acquisito dagli inquirenti. I detective del Ros dei carabinieri, poi, sono riusciti a individuare una trentina di persone sospettate di essersi arricchiti distraendo ingenti risorse comunitarie, tra il 2009 e il 2013. Sempre nello stesso periodo è stato documentato come falsi assunti presso un consorzio pubblico locale percepivano indennità di disoccupazione erogate dall’Inps provocando un danno erariale. In questo contesto è emersa la figura di un mammasantissima del comune di Platì che avrebbe avuto il controllo totale di fatto degli operai forestali della zona. Alcuni di loro avrebbero svolto persino lavori in casa del boss durante l'orario di lavoro. Padrini che possono tutto, segno evidente del potere di cui godono nelle loro roccaforti.
Le mani della 'ndrangheta sugli appalti della legalità e della curia. A sette anni dai 300 arresti sull'asse Calabria-Lombardia, una nuova indagine con più di cento fermi, e 291 indagati, documenta lo strapotere dei clan della zona jonica della provincia di Reggio Calabria. Capaci di guadagnare persino con la Chiesa, scrive Giovanni Tizian il 4 luglio 2017 su "L'Espresso". Il clan Cataldo di Locri si è ripreso ciò che un tempo, prima della confisca, era roba di sua proprietà. L'ha fatto in maniera discreta, osservando le parate dell'antimafia che promettevano grandi rivoluzioni a partire da quel palazzo sottratto ai boss. Hanno lasciato sfilare istituzioni e paladini senza batter ciglio. Lasciavano fare gli uomini di don Ciccio e don Vincenzo Cataldo, perché conoscevano già l'epilogo della storia. Avrebbero messo le mani sull'appalto della legalità, quasi 2 milioni di euro provenienti del ministero dell'Interno nell'ambito dei progetti Pon per la sicurezza. E in effetti hanno trovato il modo per ottenere vantaggi da quei lavori che hanno trasformato la palazzina dei boss in ostello della gioventù nella cittadina che il 21 marzo scorso ha ospitato la giornata della memoria per le vittime delle mafie. L'affare ha fruttato alla cosca Cataldo 80 mila euro. Una richiesta estorsiva che vale molto di più del valore numerico. Rappresenta, infatti, una tassa obbligata su un bene riconsegnato alla collettività. L'imposta sul progetto della legalità. Neppure i lavori per la realizzazione del centro di solidarietà Santa Marta sono sfuggiti alla cosca di Locri. Una commessa di oltre un milione di euro appaltata dalla Diocesi a un imprenditore che secondo gli investigatori è legato da vincoli di amicizia alla famiglia Cataldo, ma che nonostante tutto è stato costretto a versare una tangente per mettersi in regola con il Fisco della 'ndrangheta. Non solo, ma parte del denaro dell'imprenditore sarebbe finito anche in mano all'altra cosca dei Cordì. Una beffa se pensiamo a tutte le volte che dalla diocesi sono stati lanciati proclami contro la violenza criminale. E proprio sul muro dell'arcivescovado di Locri il giorno prima della grande manifestazione antimafia del 21 marzo scorso mani ancora ignote avevano scritto «più lavoro meno sbirri, don Luigi Ciotti sbirro». Anche l'altra cosca di Locri, Cordì, ritenuta quella egemone, non ha rinunciato alla sua fetta di territorio. Le indagini del Ros dei carabinieri hanno documentato l'infiltrazione nei lavori, tuttora in itinere, per il nuovo palazzo di giustizia. Anche in questo caso l'ennesimo paradosso. E c'è anche un riferimento alle elezioni comunali del 2013, per gli inquirenti proprio i Cordì e i Cataldo hanno sostenuto loro candidati. Dalle intercettazione emerge come i Cordì abbiano sostenuto la lista dell'attuale sindaco, mentre i Cataldo l'avvocato eletto poi consigliere d'opposizione. Del resto è la naturale contrapposizione di quel luogo tra due famiglie che alla fine degli anni '60 avevano imbracciato le armi in una sanguinosa faida per poi riappacificarsi. Da quel conflitto la famigli Cordì uscì vincente. Nell'inchiesta “Mandamento Jonico” della procura antimafia di Reggio Calabria c'è molto altro. Centosedici arresti, 291 indagati, 13 società sotto sequestro. Ma c'è anche, per esempio, il capo 'ndrina di Africo, il paese raccontato meravigliosamente da Corrado Stajano, che intercettato ammette ciò che la politica finge di non vedere: «Qui lo stato sono io». E c'è una lunga sfilza di fatti che descrivono un potere mai tramontato della mafia calabrese. Tra le oltre cento persone arrestate nel blitz condotto dai carabinieri contro le cosche della provincia di Reggio Calabria c'è anche il Rocco Morabito, figlio del boss Peppe "il tiradritto". E nelle intercettazioni l'erede designato afferma: "Qua lo Stato sono io, la mafia originale, non quella scadente". Voti, appalti, frodi comunitarie, riciclaggio, affiliazioni, cocaina, estorsioni e controllo degli operai forestali. Centosedici arresti, 23 cosche in 90 chilometri di costa, che in passato ha avuto decine di comuni sciolti per mafia contemporaneamente. E una certezza, la 'ndrangheta si rigenera alla velocità della luce. Manette, carcere duro e confische hanno solo parzialmente neutralizzato alcune grandi famiglie, ma non l'organizzazione che continua a dettare legge in Calabria e fuori regione. Lo dimostrano i risultati dell'operazione in corso dalle prime luci dell'alba, nome in codice “Mandamento Jonico”, coordinata dalla procura antimafia di Reggio Calabria guidata da Federico Cafiero De Raho e condotta dal Ros dei carabinieri diretto da Giuseppe Governale. A sette anni esatti dalla storica operazione Crimine, quella dei 300 tra capi bastone, colletti bianchi e imprenditori finiti in manette sull'asse Calabria-Lombardia, le cosche della provincia di Reggio Calabria subiscono un altro duro colpo. Sono i clan del mandamento Jonico, appunto, localizzati tra il Reggino e la Locride, inclusa l'area dell'Aspromonte e Platì, dove gli investigatori hanno riscontrato peraltro gravi anomalie negli appalti di un importante opera pubblica. Non è l'unico appalto finito nel mirino degli inquirenti. Numerosi lavori, grandi e piccoli, sono stati condizionati dalle imprese mafiose. A farne le spese pure noti committenti pubblici. In alcuni casi è emersa una pressione estorsiva pari al 10 per cento del totale dell'opera o di imposizione di forniture. Una tassa fissa da mettere in conto, ancora oggi. Le indagini hanno permesso di ricostruire l'attività di 23 Locali (cosche ndr) di ‘ndrangheta, operanti nei tre Mandamenti in cui è criminalmente suddivisa la Provincia di Reggio Calabria che sono quelle di Reggio Calabria, Sinopoli, Roghudi, Condofuri, S. Lorenzo, Bova, Melito Porto Salvo, Palizzi, Spropoli, S.Luca, Bovalino, Africo, Ferruzzano, Bianco, Ardore, Platì, Natile di Careri, Cirella di Platì, Locri, Portigliola, Saline, Montebello Jonico e S.Ilario. Per molti sono luoghi sconosciuti, distanti. Eppure da qui provengono le famiglie che con il narcotraffico hanno conquistato l'Europa e l'America. Da qui si decidono quante le tonnellate di cocaina dovranno invadere le piazze italiane. Feudi in cui ancora oggi riti arcaici di affiliazione e tradizioni criminali si intrecciano a modernissimi sistemi di riciclaggio. Non è un caso che gli inquirenti e gli investigatori puntualizzano ancora una volta che le “Locali” radicate in Piemonte e Lombardia dipendono saldamente da quelle calabresi ed in particolare da quelle del Mandamento Jonico. Oggi come un tempo ciò che non sembra immutato è l'atteggiamento prono di certi sindaci e imprenditori. I primi in ginocchio per ottenere il sostengo del clan, i secondi sempre disponibili a pagare o diventare faccia pulita dei padrini. Le indagini hanno permesso di ricostruire alcuni di questi rapporti e documentare il sostegno elettorale di alcune 'ndrine in diverse competizioni elettorali. Relazioni istituzionali spesso nate in circoli riservati, all'ombra della massoneria. Logge e fratelli massonici con un piede nella 'ndrangheta è un altro dato acquisito dagli inquirenti. I detective del Ros dei carabinieri, poi, sono riusciti a individuare una trentina di persone sospettate di essersi arricchiti distraendo ingenti risorse comunitarie, tra il 2009 e il 2013. In pratica sono state denunciate 29 persone tra titolari di imprese agricole, dottori agronomi, dirigenti e funzionari della Regione Calabria, proprietari di terreni agricoli beneficiari di contributi comunitari, che hanno frodato la comunità europea drenando ingenti risorse. Sempre nello stesso periodo è stato documentato come 60 falsi assunti da due aziende locali percepivano indennità di disoccupazione erogate dall’Inps provocando un danno erariale. In questo contesto è emersa la figura di un mammasantissima del comune di Platì che avrebbe avuto il controllo totale di fatto degli operai forestali della zona. Alcuni di loro avrebbero svolto persino lavori in casa del boss durante l'orario di lavoro. Padrini che possono tutto, segno evidente del potere di cui godono nelle loro roccaforti.
L'antimafia accusa la politica: una certa classe dirigente è prona e collusa. Ampie sacche dell'amministrazione hanno abdicato al loro ruolo permettendo la realizzazione di opere pubbliche per interesse personale e non perché utili alla collettività. Il j'accuse della superprocura, scrive Giovanni Tizian il 22 giugno 2017 su "L'Espresso". Una classe dirigente che ha abdicato al proprio ruolo. Spesso corrotta da mammasantissima con profili da manager, pronti a pagare mazzette pur di ottenere ciò che desiderano. Boss che gestiscono eserciti armati ma anche squadre di broker e di facilitatori vestiti da insospettabili. Intermediari-procacciatori d'affari al soldo delle famiglie criminali, figure centrali nelle mafie-holding moderne. Sono loro, infatti, che aprono le porte dei palazzi del potere, locale e nazionale, dove si decidono le rotte dei finanziamenti europei e di quelli nazionali per realizzare grandi e piccole opere pubbliche. Ma anche riciclaggio di cifre mostruose, narcotraffico internazionale che produce utili a 9 zeri, clan che funzionano da banche parallele e moltissimo altro. È la fotografia, al giugno scorso, delle cosche d'Italia scattata dalla procura nazionale antimafia guidata da Franco Roberti. Un viaggio nella criminalità mafiosa del Paese, dove nonostante centinaia di arresti e sequestri per miliardi di euro i padrini continuano a dettare legge. Cosche che non destano allarme sociale, che fanno dell'indifferenza collettiva un arma segreta e della corruzione la moderna lupara. Del resto in questi ultimi anni la lotta alle mafie non si può certo dire che sia stata inserita in cima alle priorità dei governi.
Nel rapporto letto da L'Espresso e presentato dal procuratore nazionale e dal presidente della commissione antimafia, Rosy Bindi, ciò che salta più all'occhio è il j'accuse a una certa classe dirigente, collusa e prona ai voleri dei capi bastone. «Ampie sacche della politica e dell’amministrazione locale hanno abdicato al loro ruolo», si legge nel documento, «non solo non hanno una propria idealità politica, una propria visione della società (che, peraltro, ove sentita in modo coerente, qualunque essa sia, sarebbe già di per sé il migliore antidoto alle collusioni e alle corruzioni) ma non hanno, neppure, una propria idea o strategia sul come investire il denaro pubblico sul territorio al fine di modificare in meglio vita stessa dei cittadini. Il politico locale, non di rado, è un mero gestore di un potere autoreferenziale. E, conseguentemente, si determina ad investire le risorse pubbliche, non sulla base dell’interesse generale, ma sulla base del suo unico parametro, del suo unico interesse: la valutazione di quanto, quell’opera o servizio consente l’autoconservazione di quel potere...E così l’individuazione esatta dell’opera o del servizio che dovrà essere finanziato e poi messo a gara, avviene sulla base delle circostanze più diverse. Ma non in base al criterio del pubblico interesse». Un'analisi durissima, a cui segue la descrizione della figura fondamentale alla conservazione del potere mafioso: il facilitatore, colui, cioè, che mette in contatto il mafioso con l'entità politica. «Posto che, di norma, non solo l’ente locale ma, neppure, il gruppo mafioso hanno, nel contesto regionale, queste sofisticate conoscenze tecnico-contabili-amministrative unite alla conoscenze politiche giuste. Il facilitatore allora apre la strada. E la contro-partita che richiede la politica per il finanziamento dell’opera e/o del servizio, come emerge dalla concreta esperienza, si atteggia, poi, in modo multiforme. Si passa dalla controprestazione direttamente in denaro, alla richiesta di assunzioni da parte dell’impresa che si aggiudicherà l’opera finanziata, passando per la richiesta di associare all’impresa mafiosa altre imprese di gradimento politico, fino alla richiesta di un impegno per un incondizionato sostegno elettorale. Ed è assolutamente evidente che in quest’ultimo caso sia chiaro che, anche per il politico corrotto, l’impresa rappresentata dal facilitatore sia espressione dell’entità mafiosa». Ma il ruolo del facilitatore non si esaurisce nel garantire il contatto. Una volta ottenuto il finanziamento il lavoro prosegue. «E così, in primo luogo, viene in rilievo la necessità di bandire la gara per l’opera o il servizio pubblico d’interesse. E non è operazione che viene lasciata al caso, laddove ci troviamo in un ambito d’interesse del crimine organizzato e laddove, l’ente mafioso, si è già speso e ha già investito per riuscire a finanziare l’opera. Bandita la gara, si innesta, a questo punto, l’attività corruttiva-collusiva tesa a fare coincidere il nome del vincitore con quello della ditta del cartello che aveva prima fatto finanziare l’opera e, poi, aveva impostato il bando di gara (al fine di aggiudicarsela). Recenti indagini mostrano, quello che sembra l’uovo di colombo della corruzione, cioè la pianificazione scientifica e preordinata della composizione delle Commissioni di gara, più esattamente la nomina dei diversi componenti eseguita indirettamente, ma non per questo in modo meno puntuale, dal futuro vincitore della gara stessa». In pratica, denuncia la super procura, si falsano le regole del gioco: il partecipante alla gara sceglie l’arbitro, una nuova tendenza, che l'ufficio guidato da Roberti definisce «il punto di approdo più alto della corruzione intesa quale sistema». E in effetti seguendo uno schema di questo tipo avremmo che la stessa impresa (con facilitatore o meno) ha reperito il finanziamento, ha deciso, quindi, in quale direzione debba muoversi la spesa pubblica, ha pianificato il contenuto del bando di gara, se poi, decide, e nomina, sia pure indirettamente, buona parte dei componenti della Commissione di gara, il cerchio si chiude «con geometrica precisione: non sarà necessario inseguire nessuno e non sarà necessario trattare con nessuno. I giochi saranno chiari dall’inizio. Chi fa parte di quella Commissione sulla base del descritto metodo, sa bene perché e per quale ragione è stato nominato, sa chi deve agevolare e sa anche, grosso modo, quanto ci guadagnerà dall’affare».
Il riciclaggio del denaro delle cosche è un reato che non desta particolari timori tra i cittadini e la politica, e, anzi, per alcuni è una risorsa per il territorio. Secondo l'analisi della procura nazionale «è notevolmente aumentata la capacità di tali organizzazioni criminali di produrre ricchezza illecita». Dall'analisi delle segnalazioni sospette, infatti, che riguardano uomini delle organizzazioni mafiose, i magistrati di via Giulia hanno stimato in 60 miliardi di euro le transazioni a rischio riciclaggio. Il dato è significativo perché non è una cifra buttata lì a casaccio, ma è il frutto di uno studio delle movimentazioni di denaro segnalata da Bankitalia agli investigatori antimafia. Per la procura nazionale «le attività e i flussi finanziari illeciti sono talmente compenetrati con attività e fondi di origine lecita da rendere quasi inestricabile la distinzione fra riciclaggio e reati presupposto, fra denaro “sporco” da ripulire e fondi “puliti” che confluiscono verso impieghi criminali». Insomma, distinguere il bianco dal nero è sempre più complicato. Ricchezza lecita e illecita si mischiano, trasformando l'economia italiana in una vasta area grigia.
Il “cono d’ombra informativo” sulla condanna al magistrato Alberto Cisterna, scrive Claudio Cordova il 29 Giugno 2017 su “Il Dispaccio”. Gli ultimi due giorni sono stati importanti per la Calabria sotto il profilo giudiziario. L'operazione della Dda di Catanzaro sulla potente cosca Giampà di Lamezia Terme, la cattura del boss latitante Pantaleone Mancuso, le condanne per gli omicidi di Gianluca Congiusta e Fabrizio Pioli, vittime innocenti della 'ndrangheta e della mentalità mafiosa. Ma non solo. Il Tribunale Monocratico di Reggio Calabria ha condannato a un anno di reclusione (con la sospensione della pena) il magistrato Alberto Cisterna per falso, avendo egli attestato in maniera non veritiera di aver svolto lezioni presso l'Università Mediterranea, di cui era docente esterno, quando, invece, si sarebbe trovato altrove. Cisterna è un magistrato molto noto a Reggio Calabria, ma non solo. Era vice procuratore nazionale antimafia quando fu travolto dall'affaire Lo Giudice. Il magistrato Cisterna sarà indagato per corruzione in atti giudiziari sulla scorta delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Nino Lo Giudice. Un'accusa che verrà archiviata su esplicita richiesta della Dda di Reggio Calabria, ma che costerà a Cisterna il trasferimento dalla Dna al ruolo di giudice civile presso il Tribunale di Tivoli. Verrà poi indagato e assolto, anche in Appello, per il reato di calunnia nei confronti dell'allora dirigente della Squadra Mobile di Reggio Calabria, Luigi Silipo. In quella sede, Cisterna rispondeva per un esposto presentato nei confronti di Silipo, redattore di un'informativa sui presunti contatti tra l'ex numero due della Direzione Nazionale Antimafia e Luciano Lo Giudice, considerato l'anima imprenditoriale dell'omonima cosca di 'ndrangheta. La condanna di un magistrato della Repubblica Italiana è sempre una notizia. Lo è ancor di più, però, se non si parla di un magistrato qualunque, ma di un togato che, prima di essere travolto dallo scandalo, aveva una carriera lanciatissima. Sebbene in più parti d'Italia – Consiglio Superiore della Magistratura compreso - Cisterna abbia visto frustrate le proprie doglianze, qualcuno continua a considerare l'ex numero due della DNA un perseguitato della Procura della Repubblica di Reggio Calabria. Ma raccontare i fatti è nostro compito anche perché essi contribuiscono alla formazione di un'opinione pubblica. E la condanna in primo grado è un fatto. Ebbene, provate a ricercare la notizia su internet, anche stamattina a distanza di molte ore dalla pronuncia del giudice Valeria Fedele. Troverete solo l'articolo del Dispaccio e quello del Quotidiano del Sud, unico organo di stampa, insieme alla Gazzetta del Sud sull'edizione cartacea odierna, a dare menzione di una notizia che in qualsiasi altra parte del mondo sarebbe considerata tale. Una Notizia. E invece, la quasi totalità del web ignora il fatto, per motivi oggettivamente oscuri. Sia gli organi di informazione più istituzionali, sia quelli che si glorificano della propria indipendenza e del proprio (presunto) giornalismo d'inchiesta tacciono. E nemmeno le agenzie di stampa hanno inteso "lanciare" in maniera asettica la notizia. Sia chiaro: la notizia della condanna di primo grado nei confronti di Cisterna non è uno scoop del Dispaccio. Non ci stiamo vantando di nulla, abbiamo, semplicemente, anzi, banalmente, svolto l'abc dell'attività di cronisti: Cisterna è stato condannato all'esito di un processo pubblico, di cui, va detto, siamo stati sostanzialmente gli unici a dare menzione nel corso degli anni (compresa la requisitoria dell'accusa, di cui nessuno ha dato menzione). Un processo pubblico e complesso, in cui non sono mancati i colpi di scena, le insinuazioni, da parte dell'imputato Cisterna, nei confronti di suoi colleghi assai valorosi come il procuratore Federico Cafiero De Raho, solo per citarne uno. Non sono mancate le notizie, appunto. Raccontare i processi può essere una scelta editoriale, ma le pronunce dei tribunali devono essere assolutamente rese pubbliche, anche per prevenire potenziali abusi. Pensate cosa accadrebbe se non si spiegasse più ai cittadini l'attività della magistratura: la gente potrebbe essere arrestata e condannata senza un valido motivo. Roba da regimi dittatoriali del Sud America. Per questo il caso Cisterna è una notizia. Perché il magistrato è stato condannato a un anno di reclusione con una sentenza pubblica, proclamata "in nome del popolo italiano". Quello stesso "popolo italiano" che Cisterna dovrebbe servire e che noi giornalisti dovremmo informare. E il tema è proprio questo: come può essere credibile gran parte della stampa calabrese che non considera una "notizia" (o che la oscura deliberatamente) la condanna in primo grado di un magistrato del calibro di Cisterna? Un magistrato punito per falso, che per il proprio ruolo a Tivoli decide ancora del destino e della libertà di altri cittadini. Non si offenda, Cisterna, se in questo articolo si menziona l'azzeccatissima definizione di "cono d'ombra informativo", coniata dall'allora procuratore di Reggio Calabria, Giuseppe Pignatone, per esplicitare come in Calabria possano passare sotto traccia, senza acquisire notiziabilità, notizie che altrove avrebbero ben altra ribalta. Notizie come la condanna per falso di un magistrato in servizio non trovano nemmeno un trafiletto sulle testate nazionali, che invece dedicano spazio a notizie meno importanti, provenienti da altri territori. Una comunità può crescere solo se correttamente informata. Ma sul caso Cisterna, per tanti colleghi i cittadini non devono sapere.
Con ingenuità, continuiamo ancora a chiederci perché.
Falso all'Università Mediterranea: il magistrato Cisterna condannato a un anno di reclusione, scrive Claudio Cordova il 28 Giugno 2017 su “Il Dispaccio”. Al termine di un procedimento lungo e complicato come un maxiprocesso, la giustizia si abbatte (seppur in forma lieve rispetto alle richieste dell'accusa) sul magistrato Alberto Cisterna. Un anno di reclusione con la sospensione della pena il verdetto emesso dal giudice monocratico di Reggio Calabria, Valeria Fedele per il reato di falso. Il pm Annamaria Frustaci, ormai diversi mesi fa, aveva richiesto due anni e sei mesi di reclusione. La vicenda è quella delle lezioni, presso l'Università Mediterranea, del magistrato, all'epoca dei fatti numero due della Direzione Nazionale Antimafia. Stando alle indagini, svolte dai pm Beatrice Ronchi (adesso in servizio presso la Dda di Bologna) e Annamaria Frustaci, nell'anno accademico 2009-2010; Cisterna, secondo la Procura reggina, avrebbe attestato falsamente nel registro didattico dell'Università di avere svolto regolarmente lezioni anche in alcuni periodi del 2009 e 2010 mentre in realtà si trovava fuori da Reggio Calabria. Per lo stesso reato di falso in atto pubblico è stata condannata in primo grado l'ex assistente di Cisterna, Grazia Gatto, punita con un anno e quattro mesi di reclusione. Nell'anno accademico 2009-2010 il magistrato quindi avrebbe dovuto tenere lezioni universitarie, ma, in realtà si sarebbe trovato altrove. Una conclusione cui il pm Ronchi sarebbe arrivata ascoltando in Procura decine di studenti reggini, ma anche confrontando le celle telefoniche agganciate dal cellulare di Cisterna. Durante le indagini infatti, molti sono stati gli ex studenti della Mediterranea a riferire in Procura: alcuni hanno depositato degli appunti, altri addirittura le registrazioni delle lezioni. A tenerle sarebbe stata invece Grazia Gatto, aiutante di Cisterna in quegli anni: proprio Grazia Gatto, co-indagata di Cisterna, confermerà la circostanza in sede di incidente probatorio, ricordando come in diversi casi abbia provveduto lei a tenere le lezioni, nonostante sul registro risultasse la presenza di Cisterna. "Soggetto non idoneo e non qualificato per lo svolgimento dell'attività didattica", la dottoressa Gatto, in possesso di una semplice laurea triennale conseguita all'estero e non riconosciuta come "cultore della materia" dal Consiglio di Facoltà. In alcuni casi, la Gatto avrebbe sostituito integralmente Cisterna (addirittura lontano da Reggio Calabria), in altri casi il magistrato avrebbe svolto solo una parte minima dell'attività didattica prevista. Nel registro, depositato presso l'Ufficio di Presidenza dell'Università, non si farà alcuna menzione di tutto ciò. Nel corso degli ultimi anni, il magistrato Cisterna sarà indagato per corruzione in atti giudiziari sulla scorta delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Nino Lo Giudice. Un'accusa che verrà archiviata su esplicita richiesta della Dda di Reggio Calabria, ma che costerà a Cisterna il trasferimento dalla Dna al ruolo di giudice civile presso il Tribunale di Tivoli. Verrà poi indagato e assolto, anche in Appello, per il reato di calunnia nei confronti dell'allora dirigente della Squadra Mobile di Reggio Calabria, Luigi Silipo. In quella sede, Cisterna rispondeva per un esposto presentato nei confronti di Silipo, redattore di un'informativa sui presunti contatti tra l'ex numero due della Direzione Nazionale Antimafia e Luciano Lo Giudice, considerato l'anima imprenditoriale dell'omonima cosca di 'ndrangheta. Ora la condanna in primo grado a un anno di reclusione con la sospensione della pena. Una decisione che arriva al termine di un dibattimento durato anni, in cui Cisterna ha provato più volte a impedire al giudice Fedele di emettere la sentenza: diverse le istanze di ricusazione presentate nei confronti del magistrato, nel frattempo trasferito ad altra sede. Le lamentele (e in alcuni casi le congetture e le illazioni) di Cisterna si concentrarono sul giudice Fedele, moglie dell'allora pm antimafia Luca Miceli. Tutte argomentazioni frustrate dalla Corte d'Appello di Reggio Calabria: sul punto verrà anche investita la giustizia amministrativa. Tutte azioni che sono sembrate più una difesa dal processo, che non nel processo e che, però, non hanno evitato la condanna in primo grado per l'ex numero due della Direzione Nazionale Antimafia. Ora la prescrizione incombe: a Cisterna la decisione se rinunciarvi nel corso del procedimento di secondo grado.
In cella tre anni e mezzo e azienda fallita: innocente! Scrive Francesco Altomonte il 7 gennaio 2017 su "Il Dubbio".
IN CELLA TRE ANNI. IMPRENDITORE CALABRESE CHIEDE ALLO STATO UN RISARCIMENTO DI 516 MILA EURO. SECONDO L’ACCUSA AVEVA MESSO A DISPOSIZIONE DEI CLAN CALABRESI LE SUE DITTE PER CONSENTIRE L’INFILTRAZIONE NEGLI APPALTI DELLA SALERNO- REGGIO.
Ha trascorso 3 anni e mezzo in cella, mentre le sue aziende venivano mandate in malora dagli amministratori giudiziari. Dopo che la sua assoluzione è divenuta definitiva Vincenzo Galimi, presenta il conto allo Stato. Ha trascorso 3 anni e mezzo in carcere, mentre le sue aziende venivano mandate in malora dagli amministratori giudiziari. Dopo che la sua assoluzione è divenuta definitiva Vincenzo Galimi, presenta il conto allo Stato. Un conto salato. L’imprenditore di Palmi, in provincia di Reggio Calabria, ha infatti chiesto un risarcimento di 516mila euro per l’ingiusta detenzione. In più lo Stato italiano dovrà farsi carico della sue aziende di movimento terra che non ha saputo amministrare e che prima del suo arresto davano lavoro a 60 persone. Durante l’amministrazione giudiziaria, infatti, una società delle due è fallita, l’altra versa in grandi difficoltà, sommersa da una montagna di debiti. I fratelli Galimi erano finiti nella maxi operazione della Distrettuale antimafia denominata “Cosa mia”, nella quale erano state arrestate 52 persone, accusate di essere affiliate, o comunque vicine, alle cosca Gallico di Palmi e a quelle di Barritteri di Seminara. Tra le accuse mosse alla potente cosca di Palmi, oltre all’associazione mafiosa, anche quella di avere infiltrato i lavori di ammodernamento della Salerno- Reggio Calabria. Ha trascorso 3 anni e mezzo in carcere, mentre le sue aziende venivano mandate in malora dagli amministratori giudiziari. Dopo che la sua assoluzione è divenuta definitiva Vincenzo Galimi presenta il conto allo Stato. Un conto salato. Attraverso il suo legale, l’avvocato Domenico Putrino, l’imprenditore di Palmi, in provincia di Reggio Calabria, ha chiesto un risarcimento di 516mila euro per l’ingiusta detenzione. In più lo Stato italiano dovrà farsi carico della sue aziende di movimento terra che non ha saputo amministrare e che prima del suo arresto davano lavoro a 60 persone. Durante l’amministrazione giudiziaria, infatti, una società delle due è fallita, l’altra versa in grandi difficoltà, sommersa da una montagna di debiti. La stessa somma è stata richiesta anche dal fratello di Galimi, Pasquale, coinvolto nell’inchiesta per una presunta questione di armi non provata durante il dibattimento. I fratelli Galimi erano finiti nella maxi operazione della Distrettuale antimafia di Reggio Calabria denominata “Cosa mia”, nella quale erano state arrestate 52 persone, accusate di essere affiliate, o comunque vicine, alle cosca Gallico di Palmi e a quelle di Barritteri di Seminara. Tra le accuse mosse alla potente cosca di Palmi, oltre all’associazione mafiosa, anche quella di avere infiltrato i lavori di ammodernamento della Salerno- Reggio Calabria nel cosiddetto V macrolotto, quello compreso tra lo svincolo di Gioia Tauro e di Scilla. Secondo la Dda, che ha coordinato le indagini della Squadra mobile, la ditta Galimi era riconducibile ai Gallico e grazie alle due aziende, il clan sarebbe riuscito a aggiudicarsi alcuni appalti peri lavori sull’autostrada. Vincenzo Galimi, per l’accusa titolare di fatto della ditta “Galimi” intestata al figlio Giuseppe, secondo i pm avrebbe messo a disposizione dei Gallico la sua azienda, consentendo l’infiltrazione sia nei lavori di ristrutturazione dell’A3, sia in quelli di manutenzione e somma urgenza del Comune di Palmi. Alla fine del processo di primo grado, la Procura ha chiesto una condanna a 16 anni di carcere. Ma a prevalere è stata la linea della difesa: Vincenzo Galimi aveva pieno titolo a avere rapporti con le ditte e le amministrazioni pubbliche, non solo perché fosse dipendente della stessa, ma anche perché era stato nominato procuratore speciale dell’azienda Galimi con vari poteri. La società, prima del sequestro del 2010, assumeva decine di operai e aveva appalti per svariate centinaia di migliaia di euro, oltre a mezzi tecnici per milioni di euro. Il giorno della sentenza di assoluzione dall’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso e intestazione fittizia di beni, la Corte d’assise di Palmi ha disposto la restituzione dell’intero patrimonio aziendale. Che a quel punto, però, era ridotto a poca cosa. Nel corso del processo di primo grado la Procura aveva chiamato a deporre l’imprenditore e testimone di giustizia Gaetano Saffioti, che negli anni ’ 90 si ribellò alle imposizioni del clan Gallico denunciando estorsioni e facendo nascere il processo denominato “Tallone d’Achille”. Mentre per altri imprenditori attivi nel movimento terra Saffioti fu in grado di collegarli alla cosca Gallico, per Galimi disse: «Credo che siano imprenditori che si sono adeguati al sistema, ma non so se siano collegati alla ‘ndrangheta». Dopo l’assoluzione in primo grado è arrivata anche quella in secondo grado, non appellata dalla procura generale. Una decisione che ha portato le misure di prevenzione della Corte d’appello di Reggio Calabria alla revoca della misura di 3 anni imposta dal Tribunale dopo la sentenza di primo grado. E subito dopo la maxi richiesta di risarcimento per l’ingiusta detenzione, mentre per quella relativa alle aziende è ancora in fase di quantificazione da parte dei periti nominati dalla difesa.
PARLIAMO DELLA CAMPANIA.
DI NAPOLI… Napoli, la Baghdad della Camorra, nelle roccaforti dei clan tra mamme pusher e killer ragazzini, scrive il 25 luglio 2017 Amalia De Simone su "Il Corriere della Sera". È la nuova camorra che racconta se stessa. Un viaggio nei quartieri del centro storico di Napoli, patrimonio dell’Unesco e preda delle gang criminali. Un percorso filmato con una tecnica che mostra gli ambienti a 360° e che ci porta nelle loro roccaforti raccontate dalla viva voce degli affiliati ai clan. I loro dialoghi originali, molti dei quali mai sentiti prima, svelano ferocia, disumanità e miseria di giovanissimi che si combattono per contendersi le attività illecite in fette di quartieri. Dalla selezione di quelle intercettazioni (abbiamo potuto ascoltare ore di conversazioni e procedere ai tagli) si capisce tutto il male ma anche la disperazione di una vita da deboli, ragazzi che cercano nel crimine un modo per affrancarsi, affascinare e autocompiacersi. Sparano e godono delle loro azioni di morte. Sparano e si terrorizzano a vicenda. Sparano e poco importa se i proiettili finiscono nei balconi della gente per bene o se colpiscono a morte per errore giovani che si guadagnano il pane onestamente come Maicol Russo o Luigi Galletta e che affrontano la notte e la gioventù in strada con i loro amici, come nel caso di Genny Cesarano.
Teatri di guerra. «Sembrava Bagdad» dicono descrivendo le battaglie rione per rione con kalashnikov e pistole scaricate a raffica. Ma non è Bagdad. È Napoli dove mentre la camorra di primo livello fa affari in tutto il mondo, il sottoproletariato camorrista fatto di ragazzini tossicodipendenti e feroci, tiene sotto scacco alcuni quartieri della città. Centro storico, Sanità, a ovest il rione Traiano e Soccavo e ad est Ponticelli. Le indagini della procura antimafia guidata da Filippo Beatrice e Giuseppe Borrelli sono riuscite ad entrare nel cuore dei «sistemi» di quartiere e hanno fatto scattare arresti e processi. Ma il ricambio sembra sempre pronto e le nuove leve fatte di giovanissimi emulano i loro predecessori e ne preservano e celebrano le gesta criminali con tatuaggi, scritte sui muri. Nel quartiere Sanità nonostante tutti gli sforzi delle forze dell’ordine si spara ancora: agguati contro le bande rivali ma anche dimostrazioni armate chiamate stese con piogge di proiettili esplosi «random» lungo la strada, mentre si corre sugli scooteroni. E così oltre ai cosiddetti morti di camorra ci sono anche gli effetti collaterali: 10 vittime innocenti negli ultimi cinque anni in tutta la città.
Gli invisibili. In strada c’è tanta polizia e in azione c’è una nuova squadra, «gli invisibili», messa in piedi dal questore Antonio De Iesu e dal vicequestore Michele Spina. Si confondono tra la gente e riescono a prendere terreno sui criminali con sequestri di armi e droga. La strada ci porta fino a via Fontanelle, quartier generale del clan Vastarella. L’anno scorso ci fu un regolamento di conti in cui furono uccisi due affiliati. Come al solito i parenti si danno la voce per segnalare la nostra presenza. E qui ascoltiamo un’intercettazione in cui si parla proprio di quell’agguato e della strategia del terrore da parte del gruppo Esposito – Genidoni, avversario del clan delle Fontanelle. Decidiamo poi di spostarci nei cosiddetti «Cristallini» area della «Sanità» che prende il nome da una strada. Sarebbe un borgo bellissimo con case che si accavallano e si intrecciano. Ma purtroppo questa caratteristica è diventata un vantaggio per gli spacciatori che non potendo più vendere in strada per la presenza costante della polizia, lo fanno sui tetti. Entriamo in uno dei palazzi e ci affacciamo su un ballatoio: da lì si vedono i tetti comunicanti dove si appostano i pusher che fanno passare le dosi.
Il ruolo delle donne. La polizia sospetta che il ruolo delle donne in questo traffico sia molto incisivo. Per questo motivo suonano alla porta di casa di una signora che vorrebbero controllare. Lei perse il marito (pregiudicato) in un agguato di camorra. Apre una bambina di una decina di anni che sembra abituata ai controlli e spiega che la mamma sta riposando. I poliziotti che ormai la conoscono, le chiedono se abbia pranzato e da quanto la madre non si alza dal letto (sospettano che possa lei stessa aver assunto stupefacenti e lasciato la figlia da sola a badare alla casa). Pochi minuti dopo ci raggiunge la zia della ragazzina, anche lei ha un bimbo molto piccolo che tiene in braccio e che scarrozza su e giù per i pianerottoli soprattutto mentre viene scoperta, dietro una porta chiusa di una casa apparentemente disabitata, una centrale di confezionamento di dosi di crack. Tutto normale, anche che il bambino assista. D’altronde solo pochi giorni prima il marito della donna cercando di fuggire durante un blitz, nascose gli stupefacenti proprio nei pannolini di quel bimbo. I bambini in questi contesti subiscono una sorta di educazione criminale passiva. A loro non viene risparmiato nulla e se si ascoltano con attenzione le intercettazioni allegate alle inchieste della dda spesso si sentono anche le loro voci anche in momenti in cui vengono decisi agguati o preparate armi. Come per esempio nelle conversazioni tra gli esponenti del clan Buonerba (molti di loro come anche alcuni esponenti dei clan della sanità sono difesi dall’avvocato Leopoldo Perone).
Stragi come partite di pallone. Quella dei Buonerba è una cosca che ci riporta nel centro antico, in via Oronzio Costa, denominata la via della morte. Una strada ricca di storia, con una chiesa antica vandalizzata, depredata e spesso anche utilizzata come deposito dalle bande criminali. In questa strada sentiamo dalle voci dei camorristi una spietata conta dei morti: è come una partita a calcio. «Abbiamo fatto 2 a 1 anzi 6 noi e 1 loro...». E poi la pianificazione di una spedizione punitiva contro un parente di un avversario che gioca a calcio: «Non lo ucciderei, quello gioca a pallone gli distruggiamo proprio la vita». E infatti decidono di sparargli nelle gambe. Gli avversari di questa crudele partita sono i Sibillo, che vivono ad una manciata di vicoli di distanza: via Santi Filippo e Giacomo (centro storico). All’interno del portone c’è un altarino con il busto del boss Emanuele Sibillo ucciso a 19 anni. Appena arriviamo con le telecamere la mamma di Emanuele si precipita a difendere fisicamente il suo «territorio» e a chiudere il portone custode della statuetta in memoria del figlio. Di fronte c’è una scuola e si spera che quell’altarino più che ad imperitura memoria rimanga invece come un monito per i ragazzi che inevitabilmente lo incrociano tutti i giorni. Sui muri i simboli del clan 17 FS o ES, gli stessi che in tanti affiliati o simpatizzanti del clan si sono fatti tatuare. Vaghiamo in quelle strade e in quelle dei loro avversari ascoltando al precisa ricostruzione di quell’omicidio fatta da un testimone vicino al clan Buonerba. È l’assassinio di un ragazzo loro coetaneo. Ma per loro la vita non vale niente e così ricordano le pallottole, il sangue, il corpo accasciato sull’asfalto, il terrore della gente... e ci ridono su.
"La città di Napoli è l'inferno". E il Sun la paragona a Raqqa. Omicidi, spaccio di droga e bande di malavitose. E il Sun inserisce Napoli tra i dieci posti più pericolosi al mondo, scrive Enrica Iacono, Martedì 18/07/2017, su "Il Giornale". "Vedi Napoli e poi muori", dice un detto popolare per indicare la bellezza del capoluogo campano. Oppure "Vai a Napoli e vai all'inferno", come dice un articolo pubblicato oggi dal tabloid inglese The Sun. Il capoluogo campano, governato ormai da sei anni dal sindaco arancione Luigi De Magistris, è stato infatti inserita tra i posti più pericolosi del pianeta, "most dangerous corners of Earth". Omicidi, spaccio di droga e bande di malavitose. Per gli inglesi Napoli è molto simile a una città in guerra. E, così nell'infografica inserita dal Sun, sul capoluogo campano è stato "appiccicato" il bollino rosso. A farglielo "guadagnare" sarebbero stati i continui omicidi e lo spaccio della droga. Le altre città incluse nella classifica sono Raqqa, Caracas, Groszny, Mogadiscio, Saint Louis, Kiev, Perth, Karachi e San Pedro Sula. Napoli è quindi la città più pericolosa d'Europa. "A Napoli è di casa la camorra", scrivono nell'articolo. Mentre fino a pochi anni fa veniva chiamata "neapolitan mafia", con il fenomeno di Gomorra adesso viene chiamata con il proprio nome. Nell'approfondimento del Sun si parla, poi, dei clan partenopei che si distinguono da altri consessi mafiosi italiani per l’assenza di gerarchie nell’organizzazione. Le gang, invece, spesso composte da dodicenni, compiono ogni giorno atti di microcriminalità. "Napoli è la città italiana famosa per i suoi legami con la criminalità organizzata", si legge nell'articolo. Per questo motivo Napoli è definita come sistema in cui gruppi rivali si scontrano soprattutto per il predominio del traffico di stupefacenti. Fino alla frase conclusiva: "La città gode di una reputazione talmente brutta in Italia che la frase "go to Naples" si accosta a “go to the hell", andare all’inferno’".
Napoli come Raqqa? Croce direbbe: fate finta di sì, la migliorerete. «The Sun» l’ha inserita nella lista delle più pericolose: involontaria citazione da «Benvenuti al Sud» dove Claudio Bisio indossava il giubbotto antiproiettile, scrive Marco Demarco il 18 luglio 2017 su “Il Corriere della Sera”. Napoli come Raqqa, Caracas e Karachi? Napoli tra le prime undici città più pericolose del mondo insieme con Grozny, Mogadiscio, Manila, St. Louis, Kiev, San Pedro Sula e Perth in Australia? Di fronte a certe notizie come questa appena sparata dall’inglese Sun bisognerebbe reagire come un secolo fa, in situazioni analoghe, consigliava di fare don Benedetto. Allora si parlava della diversità in senso antropologico dei napoletani, e anche della loro predisposizione alla vita criminale, e Croce suggeriva di non inalberarsi più di tanto, ma, per quanto possibile, di stare al gioco. Meglio: di far buon viso, e cioè, sapendo che la cosa non era vera, di comportarsi come se lo fosse, così da approfittarne per migliorare sempre di più le condizioni generali della città e del Mezzogiorno. Di fatto, però, poi è quasi sempre successo il contrario: c’è stato molto fumo vittimistico e identitario nel rispondere alle provocazioni, ed è mancata, invece, la sostanza necessaria per rimuovere le troppe condizioni di svantaggio. Anche questa volta è probabile che il primo a mettersi in moto sarà l’ufficio comunale che il sindaco de Magistris ha di recente istituito per difendere in sede legale la buona immagine della città, mentre gli ultimi saranno quelli che dovrebbero occuparsi, in senso generale, della sicurezza urbana. Che pur non essendo ai livelli indicati dal Sun, non è neanche, bisogna dirlo, al pari degli standard europei. Quelli del servizio giornalistico ricordano, semmai, per un verso, gli scenari di «Gomorra» e per l’altro quelli ipotizzati in «Benvenuti al Sud», quando il povero Claudio Bisio è costretto a lasciare la sua Brianza per il Cilento e lo fa solo dopo aver indossato il giubbotto antiproiettile. E infatti il Sun è lì pronto a ricordare che Napoli è la città della camorra, pardon, de «’O sistema», come scrive a conferma di un certo aggiornamento professionale, e delle «baby gangs», quelle delle sparatorie tra la folla, le cosiddette «stese», delle piazze di spaccio da difendere con i Kalashnikov. L’unica concessione che nella sua infografica il tabloid fa a Napoli è di evitarle le icone peggiori, quelle relative al terrorismo, il simbolino della bomba a mano, e alla violazione dei diritti umani, il martelletto giudiziario. Ci sono invece le icone relative agli omicidi, alla droga e alla criminalità comune. Il finale, poi, è tutto un programma: «La città gode di una reputazione talmente brutta in Italia che la frase “go to Naples” si accosta a “go to the hell”, “andare all’inferno’». Proprio come pensava Angela Finocchiaro, la moglie di Bisio, nel film di Luca Miniero.
Il Censis: «A Napoli deficit di senso civico». Contraffazione. Polemiche dopo la presentazione del rapporto 2016. Il sindaco de Magistris: «Non è vero. C’è un forte livello di partecipazione, di antimafia sociale dei fatti», scrive Adriana Pollice su "Il Manifesto" il 13.6.2017. Due anni fa era stata Rosy Bindi a dichiarare: «La camorra è parte costitutiva» della società napoletana. Ieri il segretario generale del Censis, Giorgio De Rita, ha spiegato: «Napoli è un territorio dove il senso civico e la cultura della legalità risultano particolarmente deficitari» e di nuovo è scoppiata la polemica. L’occasione è stata la presentazione della ricerca realizzata per il ministero dello Sviluppo economico sul fenomeno della contraffazione nella provincia partenopea. «I consumatori si rivolgono all’industria del falso per acquistare prodotti griffati a prezzi sostenibili – ha proseguito De Rita – con l’errata percezione che produzione e vendita di merce falsa non siano un crimine. Fa parte della cultura, della storia, del modo di vivere napoletano». Per arginare il fenomeno, la conclusione, «occorre spingere sul pedale della sensibilizzazione dei cittadini-consumatori». La replica è arrivata dal sindaco, Luigi de Magistris: «Non è vero che il senso civico sia inferiore rispetto ad altre città. Da quando amministriamo, Napoli ha il maggior numero di luoghi affidati esclusivamente per senso civico ai partenopei, oltre 400. C’è un forte livello di partecipazione, di antimafia sociale dei fatti». Il tema è non confondere la cultura con i reati: «C’è contraffazione, anche tanta, e c’è criminalità, tanta – ha proseguito de Magistris -. Quindi c’è un tema di repressione come in tutte le grandi città del mondo e c’è un tema di prevenzione. Il comune ha fatto uscire migliaia di persone in questi anni da un circuito di abusività: attività artigianali e autoimprenditorialità che abbiamo regolarizzato, chiedendo il rispetto del decoro e l’emersione dal nero. Altra cosa sono le attività illegali e criminali, che non possono essere tollerate». L’analisi del Censis fornisce l’istantanea del settore, particolarmente redditizio per la camorra, che si è infiltrata in tutti i livelli della catena produttiva: acquisto e gestione tramite prestanome degli opifici del falso; distribuzione attraverso l’imposizione ai commercianti dei prodotti da acquistare o chiedendo il pizzo. I clan sfruttano anche gli ambulanti («la vendita avviene principalmente su strada a opera di cittadini extracomunitari») ma si stanno già spostando sul web. Nel 2016, rileva la nota, il 24% degli articoli contraffatti intercettati da Agenzia delle dogane e Gdf, per un totale di oltre 6milioni di pezzi, è stato scoperto nella provincia partenopea. Tra il 2008 e il 2016, sono stati confiscati 68.942.099 articoli falsi, il 15% del totale nazionale. I prodotti più frequenti nell’ultimo anno sono stati occhiali, accessori e abbigliamento. E poi 900mila strumenti da ferramenta; oltre 500mila tra stampe, litografie e incisioni; 20mila ricambi per auto. Il business si sta espandendo su agroalimentare, giochi, medicinali e detersivi. Accanto ai prodotti finiti, ci sono i kit per l’assemblaggio: etichette, contenitori, marchi, buste che trasformano un capo neutro in uno griffato. Gli scarti di lavorazione finiscono bruciati illegalmente nell’hinterland vesuviano. Nei sottoscala e negli appartamenti convivono i padroni locali con quelli stranieri: le sartorie illegali producono a ritmi altissimi sfruttando manodopera a basso costo, sul mercato finisce merce indistinguibile dall’originale accanto a copie scadenti. Dalla Cina viene il 57,7% dei prodotti sequestrati l’anno scorso. La spesa media in oggetti falsi per ogni italiano è di 100euro all’anno. La contraffazione vale 7miliardi che diventano 19 con la filiera completa, mentre lo stato perde 6miliardi di imposte.
"A Napoli mancano legalità e senso civico", l'analisi del Censis, scrive il 13/06/2017 "L'Adnkronos". Napoli "è la provincia italiana in cui si sequestrano i maggiori quantitativi di merce falsa" e sul suo territorio "sono rappresentate tutte le fasi della filiera" della contraffazione, dalla produzione alla vendita abusiva di merce contraffatta, anche perché è "un territorio dove il senso civico e la cultura della legalità risultano particolarmente deficitari" e "ciò induce i consumatori a rivolgersi all'industria del falso per acquistare prodotti griffati a prezzi sostenibili con l'errata percezione che produzione e vendita di merce falsa non siano un crimine, o comunque siano un reato di lieve entità". L'analisi è del Censis, che in una nota illustra i risultati della ricerca realizzata per il ministero dello Sviluppo Economico e presentata nell'ambito della 2ª Settimana nazionale anticontraffazione da Loredana Gulino, direttore generale Lotta alla contraffazione-UIBM, e Giorgio De Rita, segretario generale del Censis. Nel 2016, rileva la nota, il 24% degli articoli contraffatti intercettati da Agenzia delle Dogane e Guardia di Finanza sul territorio nazionale, per un totale di oltre 6 milioni di pezzi, è stato scoperto nel territorio partenopeo: come dire che un articolo contraffatto ogni quattro è stato rinvenuto qui. Complessivamente, tra il 2008 e il 2016 nella provincia sono stati confiscati 68.942.099 articoli falsi, il 15,1% del totale nazionale. Tra le categorie merceologiche più presenti nei sequestri dell'ultimo anno figurano gli occhiali, gli accessori e l'abbigliamento. Ma ci sono anche circa 900.000 strumenti da ferramenta, oltre 500.000 tra stampe, litografie e incisioni, oltre 20.000 pezzi di ricambio per auto. E soprattutto etichette, contenitori, marchi, buste, kit per l'assemblaggio e il confezionamento di merce che arriva neutra sul territorio e poi viene falsificata sul posto. L'impresa locale del falso si basa sulla equilibrata coesistenza di soggetti appartenenti a etnie diverse ed è in grado di sostenere elevati ritmi di produzione e di coprire diverse gamme di prodotti: da quelli finemente rifiniti realizzati da artigiani locali a merce di bassa qualità in arrivo dall'Estremo Oriente e assemblata da lavoratori stranieri. La Cina è il Paese di provenienza del 57,7% dei prodotti sequestrati alle Dogane nel 2016. Sul territorio della città e nella provincia la produzione in appartamenti, sottoscala, magazzini prosegue senza sosta, nonostante le attività di contrasto delle Forze di polizia e della Polizia locale. Nel 2016 i reparti provinciali della Guardia di Finanza hanno sequestrato complessivamente oltre 11 milioni di beni di consumo, oltre 4 milioni di accessori e abbigliamento, più di 3 milioni di prodotti elettronici e oltre 1 milione di giocattoli contraffatti o non norma. La Polizia locale di Napoli ha effettuato 2.632 controlli antiabusivismo e elevato 495 verbali. Nella sola zona della Duchesca nel 2016 sono stati posti sotto sequestro 40 locali tra magazzini e depositi. Ma Napoli, osserva il Censis, "non è solo produzione: sul territorio sono rappresentate tutte le fasi della filiera del falso, fino a quella della vendita abusiva di merce contraffatta. Il commercio abusivo è un fenomeno molto diffuso nella città, dove la vendita avviene principalmente su strada ad opera di cittadini extracomunitari, principalmente senegalesi e nigeriani entrati irregolarmente nel nostro Paese". "Napoli - sottolinea il Censis - è anche un territorio dove il senso civico e la cultura della legalità risultano particolarmente deficitari. Ciò induce i consumatori a rivolgersi all'industria del falso per acquistare prodotti griffati a prezzi sostenibili con l'errata percezione che produzione e vendita di merce falsa non siano un crimine, o comunque siano un reato di lieve entità. La camorra non è stata a guardare: di fronte a un business poco rischioso ma assai redditizio si è infiltrata in tutti i livelli della catena produttiva, inserendosi a monte della filiera, con l'acquisto e la gestione tramite prestanome degli opifici del falso, e a valle, interessandosi direttamente della distribuzione dei prodotti falsi attraverso l'imposizione ai commercianti dei prodotti da acquistare o chiedendo il pizzo per le postazioni di vendita". Per arginare il mercato del falso, è la conclusione del Centro studi, "la sola azione di repressione e di contrasto non è sufficiente. Occorre anche spingere sul pedale della sensibilizzazione e dell'informazione dei cittadini-consumatori, al fine di disincentivare l'acquisto e togliere ossigeno al commercio della merce contraffatta". "Non è affatto vero che a Napoli il senso civico sia inferiore rispetto ad altre città". Questo il commento del sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, a quanto contenuto nell'analisi del Censis sulla contraffazione. "Non è solo l'opinione di un napoletano e del sindaco - ha sottolineato de Magistris - basta vedere che Napoli, da quando noi amministriamo, ha il maggior numero di luoghi affidati e adottati esclusivamente per senso civico dei napoletani, oltre 400, e basta vedere il livello di partecipazione popolare, di antimafia sociale nei fatti, di schieramento delle forze in campo. Detto questo a Napoli c'è contraffazione, c'è criminalità e anche tanta. C'è un tema di repressione, come in tutte le grandi città del mondo, né più né meno, e c'è un tema di prevenzione". A Napoli, ha ricordato de Magistris, "in questi anni abbiamo fatto uscire migliaia di persone dal circuito di illegittimità e di abusività, nel quale si trovavano semplicemente perché facevano attività creativa, di artigianato partenopeo, a volte anche di autoimprendiotorialità, ma non avevano le autorizzazioni che noi abbiamo dato in cambio del rispetto del decoro, di alcune regole. E' la riemersione dal nero in attività legali. Altre cose sono le attività criminali, che non possono essere tollerate e non si deve mai sottovalutare che dietro alcune attività di contraffazione e abusivismo c'è la criminalità organizzata". De Magistris ha poi evidenziato l'impegno "delle forze di polizia e soprattutto della Polizia Municipale" che hanno fatto sì che "diverse aree della città non siano più invase da attività abusive. Oggi mi sento di dire che bisogna fare molto di più sul traffico di rifiuti in alcune ore della giornata, per il quale ho chiesto un impegno più forte delle forze di polizia. Ma il senso civico è alto, l'amministrazione è molto schierata, in modo chiaro e non solo sulla repressione ma anche nell'ottica della prevenzione, e ci auguriamo che anche altre articolazioni dello Stato diano il loro contributo".
Loreto Mare, aspetta 4 ore per il trasferimento in un altro ospedale: muore 23enne in codice rosso. Il responsabile del pronto soccorso, Alfredo Pietroluongo: "Inosservanza dei più elementari doveri professionali". La denuncia è stata diffusa dal consigliere regionale Francesco Borrelli, scrive Anna Laura De Rosa il 19 agosto 2017 su "La Repubblica". Al pronto soccorso dell'ospedale Loreto Mare di Napoli è arrivato alle 21.46 dello scorso 16 agosto. Vittima di un incidente stradale, un ragazzo di 23 anni aveva un politrauma, fratture multiple. Scatta il ricovero in codice rosso. E iniziano ore di attesa che, secondo quanto denunciano i sanitari, potrebbero essere risultate fatali. Il ragazzo il giorno dopo è morto. E' il consigliere regionale della Campania, Francesco Borrelli, a rendere nota la storia. E lo fa diffondendo la denuncia presentata dal responsabile del Pronto soccorso dell'ospedale Loreto Mare, Alfredo Pietroluongo. "Dopo le indagini radiografiche e Tac veniva riportato in codice rosso dove i rianimatori constatavano un progressivo peggioramento delle condizioni generali ed un progressivo calo dell'emoglobina ai valori 7 - si legge nella denuncia - Si provvedeva a richiedere il sangue in urgenza e alle ore 1.04 avveniva il ricovero in Chirurgia con prognosi riservata ed in imminente pericolo di vita". "Ciò nonostante - continua la denuncia - il paziente rimaneva in codice rosso impegnando due unità infermieristiche del Pronto Soccorso con visibile disagio per il resto delle attività dello stesso pronto soccorso mentre le anestesiste intervenute rientravano in rianimazione". Passa ancora del tempo, fino alle ore 1.45 quando Pietroluongo scrive che "venuto a conoscenza del fatto che il paziente era in attesa da circa due ore di essere trasportato in un altro Presidio per eseguire una angioTac e la cosa si rallentava perché non vi era accordo su quali infermieri avrebbero dovuto eseguire il trasferimento" chiede al medico che aveva in carico il 23enne "di provvedere ad accelerare i tempi dell'iter diagnostico anche perché il codice rosso era bloccato da circa quattro ore". Il medico di turno risponde che "sapeva lui cosa doveva fare e che le cose andavano bene così". Nel frattempo viene deciso chi doveva accompagnare il paziente. Ma intanto "alle ore 3.30 il padre del ragazzo quasi in lacrime, infuriato, mi veniva a chiedere cosa si stava aspettando, preoccupato delle condizioni del figlio che peggioravano". Pietroluongo cerca di parlare con il medico che stava seguendo il caso e scoppia uno scambio di accuse. A quel punto "mi precipitavo al Pronto soccorso chiedendo che un infermiere del Pronto soccorso si offrisse volontario per l'accompagnamento e raccomandavo di far partire immediatamente l'ambulanza con rianimatore e chirurgo a bordo". Il gruppo parte "ma senza rianimatore". Il 23enne arriva all'ospedale Vecchio Pellegrini: gli vengono trasfuse altre tre sacche di sangue e i medici criticano l'assenza dell'autoambulanza rianimativa, mezzo che non è stato ottenuto neanche per il ritorno al Loreto Mare dove il paziente rientra alle ore 8.30. Viene condotto in rianimazione dove muore. "A motivo di quanto esposto credo che i fatti evidenzino una superficialità di comportamento ed un disprezzo per la tutela dell'utenza ancora prima dell'inosservanza ai più elementari doveri professionali - conclude la denuncia - Chiedo ove mai si dovesse ravvisare una condotta omissiva di intervenire e di denunciarle alle autorità competenti". Chiederò al direttore dell'ospedale Loreto Mare di avviare un'indagine interna - dichiara Borrelli nel post - per fare luce sulla gravissima vicenda che ci è stata segnalata, relativa alla morte di un giovane di ventitrè anni, giunto al Pronto Soccorso in gravissime condizioni lo scorso 16 agosto e morto il giorno seguente dopo aver atteso per ore il trasferimento presso l'ospedale Vecchio Pellegrini". "La denuncia di ritardata assistenza, firmata proprio dal responsabile del Pronto Soccorso Alfredo Pietroluongo - continua il consigliere regionale - parla chiaramente di oltre quattro ore trascorse tra l'arrivo in codice rosso al Loreto Mare, la stabilizzazione del paziente e il successivo trasferimento al Vecchio Pellegrini, per di più senza ambulanza rianimativa. Un fatto gravissimo che deve essere approfondito in modo capillare poiché occorre comprendere la natura di questo ritardo e verificare se lo stesso abbia compromesso ulteriormente il quadro clinico del ragazzo già complesso".
«Tra liti e ritardi, vi racconto le 4 ore di mio figlio morto in ospedale». Il padre di Antonio Scafuri ricostruisce la drammatica notte al Loreto Mare: «Me lo hanno ucciso. Litigavano per decidere quale infermiere dovesse accompagnarlo in ambulanza», scrive Roberto Russo il 20 agosto 2017 su “Il Corriere della Sera”. Napoli «Me lo hanno ucciso. Mio figlio era lì che moriva e intanto al pronto soccorso litigavano per decidere quale infermiere dovesse accompagnarlo in ambulanza per fare l’AngioTac. Qualcuno dovrà pagare per quello che è successo, non posso rassegnarmi a questa morte assurda». Raffaele Scafuri non si dà pace. Il suo Antonio, un bel ragazzo di 23 anni di Torre del Greco, è morto la mattina del 17 agosto nel reparto di rianimazione dell’ospedale Loreto Mare di Napoli, dove era arrivato in codice rosso la sera precedente, alle 21.45, dopo un grave incidente stradale mentre era alla guida della sua moto.
Il racconto del padre è avvalorato anche dall’importante testimonianza del dottor Alfredo Pietroluongo, responsabile del Pronto soccorso del Loreto Mare, che ha inviato alla direzione sanitaria un rapporto da brividi. Si persero 4 ore di tempo, è scritto, perché non c’era accordo su quale infermiere dovesse accompagnare il giovane in gravissime condizioni al «Vecchio Pellegrini», distante appena un chilometro. Ma Pietroluongo chiama in causa anche un suo collega per la «libera interpretazione dei percorsi assistenziali». Ora il rapporto arriverà in Procura, come ha annunciato la direzione sanitaria, mentre il ministro della Salute Beatrice Lorenzin invierà gli ispettori.
Cosa sia successo durante quelle drammatiche quattro ore dovrà stabilirlo l’inchiesta. Intanto prova a ricostruirlo il padre. «È certo — accusa— che seppure preso in carico dalla chirurgia, è rimasto parcheggiato in pronto soccorso per ore». «All’arrivo in ospedale — aggiunge— inizialmente lo hanno assistito, poi è stato steso su un lettino in attesa di effettuare quella Tac che avrebbe evidenziato eventuali problemi ai vasi sanguigni. Antonio aveva fratture multiple e l’emoglobina in discesa, si temeva un’emorragia interna, ma lui era sempre lì sul lettino».
Quindi ulteriori attese, mentre i medici delle urgenze pressavano per il trasferimento. E qui il paradosso: quale infermiere avrebbe dovuto accompagnarlo in ambulanza? «Tra i paramedici di turno sembrava non esserci accordo, erano tutti occupati a fare altro. Saranno state le 4 del mattino quando ho perso la pazienza e ho alzato la voce — ricorda il padre — solo a quel punto medici e infermieri si sono messi d’accordo, dopo che li avevamo visti litigare».
Al giovane vengono trasfuse quattro sacche di sangue, è evidente che c’è un’emorragia interna ma non si riesce a localizzarla. Pietroluongo fa presente al collega di chirurgia che occorre fare presto, ma nemmeno la sua preoccupazione serve ad abbreviare i tempi. Così, dopo una burrascosa telefonata tra i due, il primario chiede aiuto all’ispettore sanitario e si riesce finalmente a trovare un infermiere per il trasferimento. Antonio viene trasportato al vicino ospedale, su un’ambulanza priva di rianimatore. Intanto le sue condizioni peggiorano e lo sottopongono ad altre due trasfusioni, poi con i risultati dell’esame viene rispedito al Loreto Mare e sono ormai le 8 del mattino. «In quel momento — dice il padre— hanno informato me e mia moglie che si trovava in rianimazione e che i risultati delle analisi erano favorevoli».
Invece tutto precipita. «Ci fu consentito di vederlo solo dopo le 15 — accusa il padre — quando era già deceduto. Era freddo, segno che era morto da tempo. Ci dissero che aveva avuto tre infarti». I familiari ci tengono a chiarire un altro aspetto: «Qualcuno in ospedale ha provato a insinuare che Antonio fosse malato. Falso, lui scoppiava di salute e aveva giocato a calcio fino ai 16 anni. Era un leone — ripete il papà disperato — e l’ho perso per la totale negligenza di quelli che dovevano curarlo. Voglio tutta la verità sull’accaduto e lotterò ogni giorno della mia vita per ottenerla». La famiglia del giovane si è affidata all’avvocato Luigi Ascione per la denuncia. E adesso tutta la comunità di Torre del Greco si stringe attorno a quei due genitori disperati, Raffaele e Rosaria, molto noti nella città vesuviana, perché lavorano in un parco giochi privato sul litorale. In attesa dell’autopsia e dell’ispezione ministeriale, esplode anche un caso politico. Valeria Ciarambino, consigliera regionale dei Cinque Stelle, accusa: «Da mesi denunciamo al ministero della Salute che in Campania l’assistenza sanitaria è fuori controllo e ci sono gravi rischi per i cittadini».
Napoli, formiche nel letto di una paziente, Lorenzin: "Fatto indegno". E la Procura apre un'inchiesta. In arrivo Task force. Controlli della Regione. De Luca: "Sanità penalizzata dalla politica politicante, inquinata da delinquenti, camorristi e affaristi di ogni tipo", scrive il 13 giugno 2017 "La Repubblica". "Una cosa indegna": commenta così il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, il caso dell'ospedale San Paolo di Napoli dove una donna ricoverata si è ritrovata il letto invaso dalle formiche. E la Procura di Napoli apre un'inchiesta. "Abbiamo immediatamente mandato i Nas e oggi arriverà una task force. Dalle prime indagini è emerso che c'erano dei lavori all'interno del reparto. Poi sono state trovate queste lenzuola infestate in un magazzino". Lo ha detto, a margine di un convegno alla Luiss sulla sicurezza alimentare tra Italia e Cina, il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, commentando il caso dell'ospedale San Paolo di Napoli dove una donna ricoverata si è ritrovata il letto invaso dalle formiche. "La task force - ha aggiunto il ministro - dovrà appurare tutte le responsabilità e fare un accertamento sulla direzione dell'ospedale e su quello che è accaduto nel reparto e agli altri pazienti. Ovviamente è stato bloccato l'accesso al reparto per altri pazienti".
La bonifica. Partiranno già da oggi le attività di bonifica del reparto di Medicina generale dell'ospedale San Paolo di Napoli e, a seguire, dell'intero nosocomio. Lo spiega all'Adnkronos il direttore sanitario dell'ospedale Vito Rago, all'indomani dello scandalo scatenato dalla diffusione della foto delle formiche sul letto di una paziente. "Abbiamo posto in essere tutte le procedure necessarie affinché un episodio del genere non si verifichi mai più", spiega Rago, da appena 20 giorni direttore sanitario dell'ospedale San Paolo. "Serve un intervento radicale e per questo - aggiunge - ho già incaricato una ditta affinché svolga le attività di bonifica prima nel reparto in questione, poi dell'intero nosocomio".
Il presidente della Regione. Il presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca, questa mattina ha visitato l'ospedale San Paolo con il nucleo ispettivo regionale. I controlli effettuati dai sanitari dell'Asl sono andati avanti per tutta la mattina dopo l'episodio denunciato dal consigliere regionale dei Verdi, Francesco Emilio Borrelli, di una paziente ricoverata e stesa su un letto colmo di formiche. "Mi sono recato nel reparto, è pulito. Sono stati fatti lavori per l'impianto di ossigeno e abbiamo un problema degli alberi perchè i rami sporgono fino al balcone. Mi hanno detto - ha detto De Luca dop ola visita - che ci sono problemi di questo tipo quando ci sono pazienti alimentati con sacche nutrizionali ricche di glucosio e zuccheri". E ha concluso: "Al di là di questo la sanità in Campania è un disastro. Stiamo lavorando fino all'ultimo respiro affinchè torni un centro di eccellenza. Per troppi anni è stata penalizzata dalla politica politicante, inquinata da delinquenti, camorristi e affaristi di ogni tipo".
L'indagine interna. E intanto "un'indagine interna per attribuire, quando vi fossero le dovute responsabilità" è stata avviata nell'ospedale San Paolo, spiega all'Ansa, Rago, che si sta recando in Regione a seguito di una convocazione. "Sto cercando di fare in modo di debellare questo fenomeno che, mi dicono (Rago è direttore sanitario del San Paolo da soli 20 giorni, ndr), duri da anni e non deve mai più ripetersi". Sul fronte della bonifica dei luoghi, Rago ha dichiarato che "sono state messe in essere tutte le procedure necessarie dalla mia persona e da altri organi interni".
Il sindaco di Napoli. La foto delle formiche su un letto dell'ospedale San Paolo di Napoli "è talmente inaccettabile, inqualificabile e grave che è difficile trovare le parole per commentare". Così il sindaco di Napoli Luigi de Magistris, commentando anche "la notizia di stamattina di altri arresti nel settore della sanità per truffa". Alla luce di entrambi gli episodi, spiega de Magistris, "consiglierei, senza voler fare polemica, a chi ha competenza sulla sanità che ogni giorno fa propaganda nel dire che da quando è arrivato qualcuno la sanità nella nostra regione è diventata più efficiente, di impegnare un pò meglio le risorse pubbliche, di scegliere con maggior cura le persone ai vertici delle aziende responsabili della sanità e forse, prima di fare una serie di inaugurazioni che non producono nulla, di chiudere qualche pronto soccorso e qualche ospedale in meno e far funzionare meglio qualche reparto". Secondo de Magistris "sarebbero molto più felici i cittadini e anche chi ha competenza politica sulla sanità godrebbe di maggior plauso da parte di tutti, e di maggior consenso".
Infermieri. "La sanità, soprattutto quella pubblica, ha un solo grande referente: il cittadino bisognoso di cure. Quando ciò non avviene vuol dire che la sanità nel suo complesso e gli operatori hanno fallito. Gli infermieri, che da sempre hanno legato la propria missione professionale ai bisogni del cittadino/ammalato, sono coinvolti al pari di chi ha la responsabilità della direzione sanitaria del presidio. Chiediamo che si accertino subito le reali responsabilità, a partire da chi non ha vigilato sull'igiene della struttura e sulla sicurezza del paziente. Il Collegio professionale, da parte sua, se necessario, è pronto ad adottare i provvedimenti opportuni". Lo chiede Ciro Carbone, presidente Ipasvi (che raccoglie infermieri professionali e assistenti sanitari) di Napoli.
Cgil. "Siamo di fronte ad un altro episodio di degrado in una struttura pubblica, un episodio vergognoso di una gravità inaudita che lede la dignità della persona, che lascia sgomenti i cittadini e che offende i tanti lavoratori che quotidianamente si prodigano per garantire la migliore assistenza ai pazienti". Lo affermano Alfredo Garzi segretario generale FP CGIL Campania e Giosué Di Maro segretario Sanità FP CGIL Campania in relazione alle immagini diffuse ieri di una donna ricoverata all'ospedale San Paolo e coperta di formiche. "Non esistono attenuanti - proseguono i sindacalisti - per coloro che dovevano controllare e non lo hanno fatto. È necessario che si individuino nel più breve tempo possibile eventuali responsabilità e si ripristini l'immagine decorosa dell'ospedale e di tutta la ASL Napoli 1". Secondo i rappresentanti sindacali, l'episodio è "l'emblema del degrado organizzativo in cui versa la sanità in Campania a causa delle politiche di austerità e di tagli che stanno negando il diritto alla salute ai cittadini e il diritto a un lavoro dignitoso ai professionisti della sanità". Garzi e Di Maro concludono sottolineando che "non c'è più tempo da perdere. E' ora di dire basta, di gridare la nostra indignazione, di reagire, di dare voce ai cittadini, come stiamo facendo da tempo purtroppo inascoltati".
L'attacco della Lega. "Quanto sta accadendo negli ospedali campani è l'ennesima testimonianza dell'incapacità del governatore De Luca di gestire il sistema sanitario regionale. Ieri una donna ricoverata è stata costretta a dormire tra le formiche, oggi è la volta di 7 arrestati nei centri di diagnostica convenzionati di Napoli e Caserta per tac e risonanze mai effettuate in favore di pazienti del tutto ignari. De Luca al suo arrivo si è ritrovato una macchina efficiente grazie alla precedente esperienza del governo di centrodestra e ora sta distruggendo tutto. E a pagarne le conseguenze sono sempre i cittadini. Presenterò un'interrogazione al governo per chiedere interventi immediati per porre fine a questo scempio. Mi domando infatti come mai De Luca e il ministro Lorenzin siano tanto impegnati alla ricerca del nuovo commissario per la sanità invece di migliorare i servizi e garantire un sistema quantomeno dignitoso. Basterebbe poco: una normale disinfestazione e una pulizia costante per aver almeno strutture pulite. Aspettiamo fatti e non le solite note sceneggiate teatrali deluchiane". Lo dichiara la deputata della Lega-NcS Giuseppina Castiello firmataria dell'interrogazione.
Napoli, referendum per l'autonomia sullo stile di quello di Lombardia e Veneto: asse De Magistris-De Luca, scrive il 26 Maggio 2017 “Libero Quotidiano”. Non solo Veneto e Lombardia: anche Napoli vuole un referendum per l'autonomia fiscale. Un punto sul quale Luigi De Magistris, sindaco partenopeo, e Vincenzo De Luca, governatore campano, vanno d'accordo. Infatti hanno deciso di sostenere il referendum nordista, poiché, spiega Italia Oggi, per loro la Lega Nord di oggi non è più quella che combatte contro il Sud. L'iniziativa del Carroccio, dunque, sarebbe un'ottima possibilità per reclamare altrettanto. Tanto che Arturo Scotto, deputato ex Ulivo, poi Sel e oggi con la "cosina rossa" Mdp, ha presentato addirittura una proposta di legge affinché Napoli abbia la stessa autonomia di Roma. Stando al testo, Napoli rinuncerebbe ai 259 milioni di euro del fondo di solidarietà in favore di una parte di due imposte destinate al territorio. Una legge con cui si farebbe un passo in avanti verso il decentramento. Peccato che il passo in avanti sarebbe fatto a Napoli, capitale italiana degli sprechi, laddove il controllo del denaro pubblico è ancor più difficile che altrove. Napoli, insomma, si trasformerebbe in Napoli Autonoma: il territorio sarebbe quello attuale del Comune, il consiglio comunale prenderebbe il nome di Assemblea partenopea. Lega Nord ed Mdp sono pronti a votare la legge in parlamento, ma se la legislatura finirà anzitempo sarà difficile che l'aula riesca ad occuparsene. Curioso, infine, il fatto che la Lega appoggi l'autonomia campana: hanno trovato un modo "elegante" per realizzare il vecchio pallino della secessione?
Napoli, mezzo miliardo di multe che nessuno riesce a riscuotere. Solo un automobilista su cinque paga per le infrazioni al codice della strada. E anche la gestione del patrimonio immobiliare fa acqua. Ora si spera in “Napoli Riscossione”, scrive Gian Antonio Stella il 25 maggio 2017 su "Il Corriere della Sera". Mezzo miliardo! Quante cose si potrebbero fare, coi 479 milioni di euro di multe che il comune di Napoli non riesce a riscuotere dai suoi cittadini? Quanti lavori e lavoretti urgenti e vitali potrebbero essere avviati? Macché: la voragine resta lì. E continua a sprofondare. Avete presente i numeri pubblicati qualche settimana fa dall’inserto «L’Economia» del Corriere? Dicevano, sulla base di Elaborazione ImpresaLavoro su dati Istat e Siope, che a Milano si pagano mediamente 138 euro di multe a residente l’anno, a Firenze 109, a Parma 107, a Bologna 103, a Rimini 72, a Brescia 71, a Roma 60 e giù giù a scendere verso le città del Sud «con Bari e Napoli che hanno multe pro capite rispettivamente di 32 e 31 euro». Quasi un quinto rispetto al capoluogo lombardo. In fondo al ranking, «Potenza e Latina con meno di nove euro a testa». Era l’ennesima conferma di un andazzo che va avanti da decenni. Basti ricordare un’inchiesta di Gianni Trovati sul Sole 24 Ore del marzo di due anni fa sui «residui attivi» per mancati versamenti che superavano già allora, complessivamente, in Italia, i 32 miliardi. Nel 2013 la capacità di riscossione sulle entrate extra-tributarie (multe e tariffe accertate) risultava del 92% a Bergamo, 87% a Bolzano e Sondrio, 82% a Massa e ancora giù giù (ma con lodevoli e non rare eccezioni come Enna, Barletta o Sassari...) verso Sud con Napoli, al 95° posto col 36,4%. È in questo contesto, già pesante, che Alessio Gemma ha spiegato ieri mattina sulle pagine di cronaca della Repubblica di Napoli, che nella città partenopea «solo un napoletano su cinque paga i verbali al codice della strada» e che nel rendiconto 2016 in arrivo oggi in consiglio comunale «su 78,8 milioni di euro, il totale delle infrazioni elevate, sono stati incassati 15,8 milioni». Un trend che «fa crescere anno dopo anno la montagna di multe ancora da riscuotere». Per un totale a fine 2016, e possiamo scommettere che negli ultimi cinque mesi la cifra è cresciuta ancora, di 479 milioni. Numeri che hanno obbligato il collegio dei revisori del municipio napoletano, nel parere allegato al rendiconto, a «osservare una notevole difficoltà nel recupero delle entrate da sanzioni al codice della strada». Il tutto a distanza di pochi giorni da quando Luigi de Magistris, dopo aver dato più volte l’annuncio a vuoto della nascita di «Napoli Riscossione» («Il Comune di Napoli è il primo ad aver detto addio a Equitalia: obiettivo raggiunto», tuonò ad esempio il 9 giugno 2016) aveva lanciato sulla sua pagina Facebook un grido di dolore sui conti comunali: «Non so come abbiamo pagato stipendi e garantito servizi. Il Governo doveva intervenire per far togliere il pignoramento. Non lo ha fatto. Bastava un segnale. Non è arrivato». E ancora: «Il Comune di Napoli ha il conto bloccato per circa 80 milioni di euro da Natale scorso per un pignoramento derivato da un commissariamento post terremoto 1980. Un debito quasi integrale dello Stato. Questo pignoramento per un soffio non ha provocato l’impossibilità di approvare il bilancio e pensate, solo per un attimo, come facciamo a governare in questo contesto avendo anche la cassa bloccata». Di più: «Abbiamo resistito anche questa volta. Ma che ingiustizia ennesima! Ora si daranno soldi a Roma, Milano e Torino. Questa è l’Italia giusta e solidale che volete? Da noi la pazienza per le ingiustizie è terminata». Per carità, uno sfogo comprensibile, per chi deve governare quella che per Curzio Malaparte «è la più misteriosa città d’Europa», la sola al mondo «che non è affondata nell’immane naufragio della civiltà antica». Una città che «non è una città: è un mondo». Difficile, governare Napoli. Tanto più dopo i tagli ai comuni di questi anni fatti da un po’ tutti i governi. Ma restano alcune domande. È vero che in altre parti della stessa Campania ci sono realtà estremamente diverse come Puglianello, 1.370 anime nel Beneventano, che ha conquistato nel 2015 addirittura il primato italiano delle multe da autovelox facendo di queste entrate una voce pari al 10% del bilancio? È vero che lo stesso de Magistris aveva già dato una «ripulita» ai conti stralciando tre anni fa 866 milioni di crediti (tra i quali le multe) quasi impossibili da recuperare? E allora come può essersi allargata così in fretta, di nuovo, la voragine di quelle multe non pagate? Può bastare, per recuperare terreno, l’acquisto sbandierato di cento iPad perché i vigili urbani possano distribuire più in fretta le contravvenzioni? Domande che vanno fatte in parallelo a quelle sul patrimonio immobiliare. Se è vero che la gestione di quel tesoro sterminato era già uno scandalo nel 2002 (per la Corte dei Conti valeva il doppio di quello della intera Lombardia ma dalle 59.927 case, uffici e terreni il municipio ricavava meno di 30 milioni di euro spendendone quasi 46 per la manutenzione) come è possibile che tre lustri dopo i magistrati contabili siano costretti a indagare ancora su una evasione degli affitti pari al 50% e su una gestione (quella di Alfredo Romeo, vedi anche «affare Consip») assai opaca? Sia chiaro: sarebbe scorretto scaricare tutte le responsabilità sul sindaco di oggi. Ereditò un pantano. Ma è mai possibile che siamo ancora fermi alle multe non pagate?
De Magistris: “Chi diffamerà Napoli sarà querelato”. Allo sportello online del Comune si potranno segnalare le offese, gli eventuali risarcimenti saranno usati per «migliorare l’arredo, il decoro e la qualità dei servizi». Ma c’è già chi parla di «caccia alle streghe» e di «metodi da Gestapo», scrive "la Stampa" il 18/04/2017. C’è chi ha definito Napoli «fogna d’Italia» e chi ha auspicato l’intervento del Vesuvio per «lavare con il fuoco» i napoletani. C’è chi ha chiamato in causa la camorra, chi i rifiuti, chi perfino il colera. In tanti, negli anni, a Napoli e ai napoletani hanno rivolto un bel po’ di offese. Ora il Comune, sindaco in testa, dice basta. E chi diffamerà la città sarà querelato, promette, senza se e senza ma. Benvenuti nello sportello online “Difendi la città”, dove si potranno segnalare offese, allegare screenshot dei profili social, foto. «Una novità assai interessante, una comunità che difende la propria comunità», la definisce il sindaco Luigi de Magistris. Ma sui social non tutti ne sono convinti e in barba a minaccia di querela, c’è chi parla di «caccia alle streghe» e di «metodi da Gestapo». La presentazione dello “sportello” che si legge online è più che chiara: «Da tempo ma sempre più spesso si assiste ad una narrazione distorta e a volte diffamatoria della città di Napoli rendendola oggetto di pregiudizi, stereotipi e dannose generalizzazioni. In riferimento alle attività promosse nell’ambito della delega Napoli Città Autonoma, il Comune istituisce lo sportello online “Difendi la Città” per raccogliere le segnalazioni dei cittadini napoletani relative alle offese contro Napoli, chiedendo attraverso gli uffici comunali interessati precisazioni ed apposita rettifica ma eventualmente avviando, previa attenta valutazione dell’Avvocatura comunale, iniziative legali per tutelare la dignità del territorio, l’immagine e la reputazione della città di Napoli e del popolo partenopeo». Il sindaco, tutto questo, lo spiega così: «Non si tratta di essere insofferenti alle critiche delle quali abbiamo bisogno». Il discorso è un altro e lo sintetizza in una frase che, in conferenza stampa, pronuncia in dialetto: «Hanno fatto di tutto per “schiattarci”». A chi gli chiede se così i napoletani non rischiano di passare per permalosi e vittimisti, il sindaco risponde: «No, il vittimismo, il piagnisteo, le manie di persecuzione non c’entrano proprio nulla. Non è una santificazione della città o una insurrezione razziale». É, piuttosto, una «contro narrazione»: «Non intendiamo fare una propaganda o fare un mezzo di comunicazione alternativo ma vogliamo difendere la città quando chiunque, chiunque esso sia, fa una ricostruzione contraria al vero della città che frena le potenzialità». E così se un sindaco al pari di un cittadino, se un italiano al pari di uno straniero offenderà Napoli sarà querelato. Anche i cori da stadio rientreranno nella valutazione dell’Avvocatura. E se poi qualcuno sarà condannato a pagare i danni, i soldi ricavati dal risarcimento saranno destinato a questo: «Faremo soprattutto azioni civili, piccoli azioni per migliorare l’arredo, il decoro e la qualità dei servizi».
Lo sportello rientra nel progetto Napoli città autonoma. «Napoli sarà la prima città ad avere uno statuto autonomo nell’Italia del terzo millennio - conclude de Magistris - Il nostro è un progetto vero che non è contro nessuno ma è per la città».
Pronta la reazione dei nordisti. Vedi Napoli e poi ti querela, scrive Mercoledì 19 aprile 2017 Massimo Gramellini su "Il Corriere della Sera". La stima incommensurabile che il genere umano nutre per il sindaco De Magistris rischia di essere messa a dura prova dalla sua ultima iniziativa. Uno sportello giudiziario a cui potranno rivolgersi vittime e testimoni di diffamazione ai danni di Napoli e dei napoletani. La nobiltà dell’intento è inconfutabile. Napoli è città fuori dal comune bersagliata dai luoghi comuni. Ma non è un luogo comune il vittimismo alimentato dalla sua classe dirigente, che da secoli, per non procurarsi il fastidio di affrontare i problemi, trova decisamente più comodo attribuire la loro mancata soluzione a un complotto esterno. I razzisti da operetta - come quel sindaco lombardo che nei giorni scorsi l’ha definita “una fogna” - offrono un alibi di ferro a questa ricostruzione fasulla della realtà, che ha consentito a pochi privilegiati di tenere nell’indigenza tutti gli altri, ergendosi pure a difensori della napoletanità offesa. La trovata di De Magistris offre nuovi strumenti, compresa la delazione, a una battaglia retorica e consolatoria che presterà il fianco al sorgere di altri luoghi comuni. “Napule è ’na carta sporca e nisciuno se ne importa”, cantava Pino Daniele, con l’amore e il dolore di un innamorato vero. Chissà se anche lui sarebbe passibile di denuncia presso lo sportello del Comune. O se lo sarebbe quel tassista che così mi riassunse i lavori infiniti per la metropolitana: “Non la stanno scavando. La stanno cercando.” Ma a Napoli si perdona tutto. Persino di avere eletto sindaco un incrocio tra Mao e il fratello narciso di Masaniello.
Napoli, Luigi De Magistris apre lo sportello Difendi la tua città: "Quereleremo tutti quelli che parlano male di noi", scrive il 19 Aprile 2017 “Libero Quotidiano". Napoli spesso è invasa dai rifiuti, i cittadini si lamentano dei disservizi, alcuni territori sono zona franca per la camorra, i black bloc devastano tutto quando arriva Matteo Salvini ed eccetera eccetera. Ma guai a dirlo. E non solo per il rischio di diventare bersagli del "piagnisteo napoletano", ma anche perché ora, il sindaco-Masaniello Luigi De Magistris, ha deciso di querelare tutti coloro che criticheranno il gioiellino partenopeo. Già, il sindaco ex magistrato, piuttosto che occuparsi degli evidenti, cronici e macroscopici problemi della città, ha pensato bene di inaugurare lo sportello online "Difendi la città". A che serve? Presto detto: a segnalare "offese" a Napoli, a raccogliere i profili di tutti quelli che si "permettono" di dire che a Napoli ci sono cose che non funzionano. Dunque, scatteranno le querele. "Una novità assai interessante, una comunità che difende la propria comunità", ha affermato De Magistris commentando l'iniziativa. La presentazione dello “sportello” di cui si può fruire online è più che chiara: "Da tempo ma sempre più spesso si assiste ad una narrazione distorta e a volte diffamatoria della città di Napoli rendendola oggetto di pregiudizi, stereotipi e dannose generalizzazioni. In riferimento alle attività promosse nell'ambito della delega Napoli Città Autonoma, il Comune istituisce lo sportello online Difendi la Città per raccogliere le segnalazioni dei cittadini napoletani relative alle offese contro Napoli, chiedendo attraverso gli uffici comunali interessati precisazioni ed apposita rettifica ma eventualmente avviando, previa attenta valutazione dell’Avvocatura comunale, iniziative legali per tutelare la dignità del territorio, l’immagine e la reputazione della città di Napoli e del popolo partenopeo". Eccola, dunque, l'ultima "mirabolante" iniziativa del sindaco. Tempo, soldi e forze dedicati a questo fantomatico sportello, perfetta espressione del "piagnisteo napoletano". Dito puntato contro gli altri, autocritica zero. E soprattutto querele per tutti: italiani, stranieri, napoletani, nordici. E anche i cori da stadio rientreranno nella "valutazione dell'Avvocatura". Già, perché da che mondo è mondo, per quanto sbagliati e orribili siano, i cori da stadio sfottono, deridono e insultano le altre città. Tutte. Ma soltanto Napoli ritiene di dover querelare i tifosi per una canzoncina allo stadio...
Mille set da Gomorra alla Ferrante: così Napoli diventa Hollywood. Spot e serial televisivi. Fantascienza e commedie. La città è tutta una ripresa. Così rilancia la sua immagine nel mondo. Mentre il turismo scopre le zone meno note: il centro direzionale di Kenzo Tange, le “stazioni d’arte”, il porto, scrive Emanuele Coen il 6 aprile 2017 su "L'Espresso". Esterno giorno. Nello slargo con l'obelisco di San Gennaro le note di "Tu vuo' fa' l'americano" si confondono con il trambusto del mercato e le voci di decine di fan in attesa di Emilia Clarke, attrice britannica della serie "Il trono di spade" e ora protagonista del nuovo spot di un profumo di Dolce&Gabbana. A dieci anni dalle riprese del suo “Gomorra”, Matteo Garrone si muove con la camera a mano tra le comparse in costume, sul blindatissimo set in piazza cardinale Sisto Riario Sforza. Nel frattempo, tra i casermoni scrostati di Scampia, nella stessa mattina piena di sole Francesca Comencini gira un episodio della terza stagione della serie tv ispirata al bestseller di Roberto Saviano. E nella storica roccaforte del clan dei Casalesi un altro regista, Bruno Oliviero, è impegnato nel lungometraggio “Nato a Casal di Principe”, tratto dall’omonimo libro (Minimum Fax) di Amedeo Letizia e Paola Zanuttini. La storia di Paolo Letizia, fratello di Amedeo, rapito nel 1989 in circostanze misteriose e mai tornato a casa. Ogni giorno Napoli è un set a cielo aperto tra uno spot e una serie televisiva, un documentario e una commedia, un film d’autore e una grande produzione internazionale. In principio fu “Un posto al sole”, la più longeva soap opera italiana, quasi cinquemila puntate in oltre vent’anni, poi la serie televisiva “Gomorra” - prodotta da Sky e Cattleya in collaborazione con Beta Film - ha preso il sopravvento. Le riprese della terza stagione termineranno a giugno (in onda su Sky Atlantic in autunno), coinvolgendo 100 attori e 160 location in tutta la Campania. Da qualche tempo però l’atmosfera è cambiata e i ciak si moltiplicano nei quattro angoli della città, ribaltando l’immagine senza scampo di una terra soffocata dalla camorra. E così Joaquin Phoenix ha prestato il volto a Gesù per il kolossal “Mary Magdalene”, girato nel colonnato di piazza del Plebiscito trasformato nel tempio di Gerusalemme; Rupert Everett, in veste di attore e regista, si è innamorato di Napoli, dove ha realizzato “The happy prince”, film dedicato alla vita di Oscar Wilde con cast internazionale (Colin Firth, Emily Watson). E ora è in preparazione la serie tratta dal bestseller mondiale di Elena Ferrante, “L’amica geniale” con la regia di Saverio Costanzo, prodotta da Fandango e Wildside con partner stranieri e Rai Fiction. La scrittrice dall’identità misteriosa contribuirà alla sceneggiatura, mentre le riprese inizieranno a fine estate, nei luoghi più significativi della saga: dal Rione Luzzatti, periferia est, alla chiesa della Sacra Famiglia. Una, cento, mille Napoli. Quella borghese dei conflitti familiari nel nuovo film di Gianni Amelio, “La tenerezza” (al cinema dal 24 aprile) con Elio Germano, Giovanna Mezzogiorno e Micaela Ramazzotti; quella intrigante di “Napoli velata” di Ferzan Ozpetek (primi ciak da maggio), che dal 23 aprile curerà la regia de “La Traviata” di Giuseppe Verdi al teatro San Carlo.
Attraversa la città l’onda nuova del cinema partenopeo, e svela al pubblico zone meno conosciute che diventano mete turistiche: i grattacieli del Centro direzionale orientale disegnato dall’architetto giapponese Kenzo Tange (nel film opera prima “I peggiori” di Vincenzo Alfieri, con lo stesso Alfieri e Lino Guanciale, nelle sale dal 18 maggio) e l’aeroporto di Capodichino, le “stazioni dell’arte” della metropolitana e il porto, il cimitero inglese e l’Ospedale degli Incurabili. Ma anche il Vomero e Posillipo. Perché Los Angeles sarà pure Los Angeles ma anche “Napollywood” ha le sue colline. Sulla sommità di quella di Pizzofalcone si trova il commissariato della serie tratta dai best seller di Maurizio de Giovanni, un successo su Rai1: “I bastardi di Pizzofalcone”, regia di Carlo Carlei, protagonisti Alessandro Gassmann e Carolina Crescentini. La fiction “anti-gomorra”, così come l’hanno ribattezzata - non necessariamente un complimento - si trova agli antipodi della serie tv ispirata al romanzo di Saviano: raffinati edifici ottocenteschi, panorami sul Golfo, delitti ordinari e, soprattutto, niente criminalità organizzata.
«Per le riprese abbiamo scelto zone e quartieri di straordinaria bellezza, poco rappresentati: Chiaia, Posillipo, Sanità. Abbiamo bussato ai portoni e ci hanno aperto con grande disponibilità», dice Massimo Martino, uno dei produttori, che aggiunge: «La vera novità riguarda le maestranze. Oggi a Napoli lavorano professionisti di alto livello: direttori della fotografia, scenografi, costumisti. La città è autosufficiente al 70-80 per cento, 10 anni fa sarebbe stato impensabile».
Eppure il cinema a Napoli c’è sempre stato - basti pensare a Totò, che nei prossimi mesi verrà celebrato a 50 anni dalla scomparsa - anche se l’attuale scena partenopea resta molto distante da quella, ad esempio, degli anni Novanta. «Erano i tempi di Martone, Capuano, Incerti, De Lillo. Autori con un immaginario personalissimo, nei film raccontavano il loro mondo e i loro sogni», dice a cena in un ristorante sul lungomare Cristina Donadio, la spietata boss “Scianèl” nella serie “Gomorra”, attrice diretta spesso da Pappi Corsicato. «Oggi è diverso: Napoli diventa protagonista, ognuno vuole narrarla a modo suo: c’è la Napoli di Castel Volturno, quella di “Gomorra” e quella di “Made in Sud”, quella delle periferie e quella del Vomero. I registi hanno voglia di raccontare questa contraddittoria, meravigliosa, insopportabile città», prosegue l’attrice, tra i protagonisti insieme a Pina Turco e Massimiliano Gallo de “La parrucchiera”, deliziosa commedia tra “Bollywood” e Pedro Almodóvar, canzoni di Tony Tammaro, Foja ed Emiliana Cantone, diretta da Stefano Incerti (al cinema dal 6 aprile).
Nel film Donadio indossa i panni e i capelli rosso fuoco di Patrizia, parrucchiera titolare insieme al marito Lello del negozio in cui lavora anche Rosa (Pina Turco), bellissima ragazza dei quartieri spagnoli. Per promuovere il film, la produzione ha affittato un camper che fino al 9 aprile sarà on the road: a bordo attrici, attori e parrucchieri faranno a chi ne avrà voglia un “taglio contro la crisi”.
Tra il mare e il Vesuvio si respira un’aria nuova, circolano storie originali raccontate con maestria. È il caso di “Indivisibili” di Edoardo De Angelis, 38enne regista napoletano tra i più brillanti della sua generazione (“Mozzarella Stories”, “Vieni a vivere a Napoli”): protagoniste Dasy e Viola, gemelle siamesi diciottenni, cantanti neomelodiche nella Castel Volturno di oggi, tra amore e sfruttamento. «A Napoli tutto assume un significato simbolico: la dimensione conflittuale, l’integrazione e disintegrazione delle etnie. E in un chilometro quadrato ritrovi il mondo intero», dice il regista del film, sei statuette ai David di Donatello 2017: «È il frutto delle innumerevoli dominazioni che questa città ha conosciuto. Nasce da qui l’idiosincrasia nei confronti del potere, che si manifesta sotto forma di anarchia sociale e culturale».
Su un punto concordano registi, attori, sceneggiatori e produttori: negli ultimi anni nel capoluogo campano è stato fatto molto, ma adesso bisogna dare continuità, formare le maestranze, lasciar sedimentare il fermento. Dopo sette anni di black out, la Regione Campania ha destinato un fondo di 4 milioni di euro al sostegno di progetti cinematografici, televisivi e web. Una boccata d’ossigeno, dopo l’approvazione della legge “Cinema Campania” da parte del Consiglio regionale, lo scorso ottobre, che finalmente riconosce la funzione e i compiti della Film Commission Regione Campania. A partire dal 2005 la Fcrc ha aiutato più di 600 troupe italiane e internazionali, tra film, fiction, documentari, programmi tv: da “Benvenuti al Sud” diretto da Luca Miniero a “Il divo” di Paolo Sorrentino e ora “Falchi” di Toni D’Angelo, con Fortunato Cerlino e Michele Riondino nel ruolo di due poliziotti della sezione speciale della squadra mobile di Napoli. «Finalmente possiamo programmare la nostra attività, che non è mai venuta meno perfino quando non avevamo un soldo», riflette Valerio Caprara, storico e critico cinematografico, presidente della fondazione Film Commission.
«Il brand Napoli è sulla cresta dell’onda, anche per le polemiche sull’immagine della città», aggiunge Caprara alludendo alla querelle infinita tra “Gomorra” e “anti-Gomorra” che conquista le prime pagine. «È una polemica sterile e provinciale. Napoli è una città stracolma di contraddizioni, dove generosità e allegria convivono con la criminalità: la fiction è obbligata a riappropriarsi di tutti i lati di questo prisma. È vergognoso prendersela con “Gomorra” perché danneggerebbe l’immagine della città, ma è ridicolo attaccare “I bastardi di Pizzofalcone” perché sciorina stupende case o dipinge i napoletani con uno sguardo affabile».
Di questa realtà complessa Maurizio Braucci ha scelto di raccontare il lato oscuro. Scrittore, co-sceneggiatore di “Gomorra” di Garrone e di “Nato a Casal di Principe” di Oliviero, in lavorazione in queste settimane, Braucci è anche direttore artistico di “Arrevuoto”, progetto di teatro e pedagogia attivo tra le periferie e il centro, che porta in scena tanti ragazzi di rioni difficili come Montesanto, dove Braucci è cresciuto e continua ad abitare. «Voglio restare qui per dare una mano. Napoli è madre di mille storie, luogo di contraddizioni e di vita, giovinezza e disoccupazione, povertà ed esclusione», dice Braucci, che chiama in causa il ruolo pedagogico della tv. «Non ce l’ho con le serie “Gomorra” e “I bastardi di Pizzofalcone”, ben vengano se portano lavoro. Certo, la televisione potrebbe fare di più: Vittorio De Seta diceva che è un mezzo straordinariamente educativo diventato diseducativo».
In questa “nouvelle vague” napoletana, infine, non manca neppure la fantascienza, anche se in chiave comica. Il gruppo di videomaker The Jackal ha realizzato il film “Addio fottuti musi verdi” diretto da Francesco Ebbasta, che uscirà in autunno: protagonista Ciro, grafico pubblicitario in cerca di lavoro che dopo averle provate tutte decide di mandare il suo curriculum agli alieni. Ciak sul Lungomare, Santa Lucia e sopra i tetti, come è naturale considerato il soggetto.
In piazza del Gesù Nuovo, invece, nel palazzo settecentesco dove fu girato “L’oro di Napoli”, si trovano gli studi di Mad Entertainment, factory di documentari, musica e cinema di animazione che sforna titoli di qualità come il pluripremiato “L’arte della felicità” diretto da Alessandro Rak, adesso al lavoro (con Ivan Cappiello, Marino Guarnieri e Dario Sansone) su un nuovo ambizioso progetto: “Gatta Cenerentola”, dalla favola che ha ispirato l’opera di Roberto De Simone, nelle sale dopo l’estate. «Per teatro, cinema e musica la Campania è un mercato a sé, fa grandi numeri con storie e beniamini di questa terra», riflette Luciano Stella, produttore di Mad insieme a Maria Carolina Terzi: «Qui c’è un pubblico molto attento e selettivo, che allena i talenti. Non a caso a Napoli nascono Pino Daniele, Alessandro Siani, Massimo Troisi, Mario Martone, Totò».
Agli studi Mad il produttore Rosario Rinaldo ha commissionato un breve inserto di animazione per “Sirene - Una storia d’amore con le pinne”, la prima serie tv “romantic-fantasy”, per usare il neologismo coniato dallo scrittore che l’ha creata, Ivan Cotroneo, napoletano come il produttore e come il regista, Davide Marengo. Una commedia sentimentale con sirene e tritoni protagonisti, ambientata nella città partenopea, in onda in autunno su Rai1. «Non c’è nostalgia in “Sirene”, ma uno sguardo rivolto al futuro, anche dal punto di vista produttivo. Napoli si presta: è la città più avanzata del mondo perché la più vicina all’apocalisse».
“A proposito di politica, ci sarebbe qualche coserellina da mangiare?” Napoli celebra Totò al Rione Sanità, scrive Imma Pepino il 29/04/2017 su “I Siciliani”. “Mi scusi, mi sa dire dov’è che hanno messo la statua di Totò?”. “Signurì è facile, deve andare diritto. Non il primo cortile, il secondo”. Il secondo cortile è l’interno di un palazzo antico: il palazzo dello Spagnuolo, come recita la targa in legno sul corrimano della scala. La statua di Totò – realizzata da Giuseppe Desiato, in collaborazione con la Fondazione San Gennaro – non si trova qui però. L’indicazione che però mi è stata fornita dal pescivendolo all’ingresso del Borgo Vergini non è del tutto sbagliata, o meglio ha una sua logica: proprio a palazzo dello Spagnuolo dovrebbe essere realizzato il museo dedicato alla memoria di Antonio De Curtis – come deliberato nel 1996 dalla Giunta regionale. Il progetto, voluto anche dai cittadini del quartiere che diede i natali all’artista, è però fermo da vent’anni – come denunciato il 15 Aprile scorso, all’inaugurazione delle celebrazioni, dai rappresentanti della Terza municipalità (di cui il Rione Sanità fa parte) e in particolare da Francesco Ruotolo, consulente alla memoria della Municipalità stessa, che ha affisso in alcuni luoghi simbolo del rione dei manifesti di denuncia rivolti a sindaco e presidente della regione affinché “Totò non muoia una seconda volta”. Un signore di mezz’età, anche lui deluso visitatore del museo fantasma, si sofferma a descrivermi il degrado in cui versa anche la casa in cui nacque l’artista. Mi dirigo verso Piazza San Vincenzo, il cuore del quartiere. Dopo aver percorso qualche metro giungo in Largo Vita: qui campeggia il monolite raffigurante la sagoma di De Curtis. La statua è molto bella, moderna nelle forme. Si trova poco distante dal viale di ingresso dell’ospedale San Gennaro, chiuso dalla giunta regionale De Luca. Il presidente, contestato proprio in occasione dell’inaugurazione della statua, aveva avvalorato la sua decisione pronunciando un solenne e istituzionale: “Signo’ ma l’avete fatta la pastiera?”. Potrei percorrere Calata delle fontanelle e ritornare a Materdei, ma decido di dare un’occhiata anche alla casa di Totò. La strada per arrivare è lastricata di opere dedicate all’artista, come il busto posto all’angolo di Salita Capodimonte. Il vecchio appartamento, in Via Santa Maria Antesaecula, è stato acquistato da un privato e si trova in condizioni di totale abbandono. “La proprietaria ha levato pure gli infissi alle finestre, però se entrate ci sta ancora la finestra del suo bagno che si vede dal cortile” mi dice, invitandomi a entrare, un vicino dell’appartamento accanto a quello di Totò. Un pezzo di memoria storica privatizzato e sottratto alla collettività. Tra il museo fantasma di palazzo dello Spagnuolo e la casa saccheggiata. Un patrimonio che potrebbe portare al riscatto di questo quartiere, e che invece rimane incastrato da anni tra il disinteresse delle istituzioni e il marchio impresso dalla camorra. Il cinquantesimo anniversario della scomparsa di Totò sarebbe una buona occasione per spostare l’attenzione dal centro città “vetrina” a un quartiere popolare in cui l’impegno delle istituzioni arriva solo quando c’è da fare una passerella o raccattare un applauso, un voto. Il Rione Sanità non può ripartire solo dall’illustre concittadino ma da tutti i cittadini, da tutte le pance, da tutte le coscienze. Perché è “la somma che fa il totale!”.
Ascesa e caduta del Clan Potenza, scrive Roberto Saviano il 9 aprile 2017 su “L’Espresso”. Dai vicoli di Napoli ai conti in Svizzera. Dal contrabbando di sigarette a un patrimonio milionario. Che ora è sotto sequestro. Nella storia che sto per raccontarvi c’è tutto: rise and fall di una famiglia che aveva iniziato con il contrabbando di sigarette e ha finito con milioni di euro (per la precisione 8) stipati nelle intercapedini dei muri. C’è un capostipite dal soprannome risibile, Mario Potenza detto ’o chiacchierone, che però descrive perfettamente il personaggio e incredibilmente anche le sue attività: dal contrabbando di sigarette all’usura; da qualche cassa di sigarette fatta passare per gli anfratti più umidi e scuri del sottosuolo napoletano, alla “grande mamma”, la nave ancorata a largo, in acque extraterritoriali, al riparo dalla guardia di finanza, che inondava letteralmente la terraferma di bionde. E dalle sigarette si passa ai prestiti a usura per cui facevano da garante i capitoni di Miano, ovvero il clan Lo Russo. E poi il viaggio - e sono soprattutto i soldi a muoversi - lontano dal quartiere di origine, uno di quelli della Napoli bene, ma anche uno di quelli che a Napoli vedono ricchi e poveri campare gomito a gomito. A Santa Lucia ci vive chi può permettersi case milionarie o le famiglie più umili che abitano i palazzi sgarrupati, dalle facciate scrostate. Santa Lucia mostra l’anima di Napoli, la Napoli del troppo ricco o del troppo povero. Del colore locale, e il colore locale spesso è costituito da devastazione e delinquenza. Qui, a due passi dal lungomare liberato dalle automobili ma che sembrerebbe occupato dai capitali della camorra (non sono mie illazioni, ma quanto ipotizzato dall’esito di nuove indagini patrimoniali, coordinate dal capo del centro Dia Giuseppe Linares) a due passi da Piazza del Plebiscito, dal Teatro San Carlo, a due passi da dove solo pochi mesi fa è stato decimato dagli arresti il clan Elia - quello che faceva confezionare dosi di coca a bambini per via delle mani piccole e agili, quello che lasciava un tredicenne di notte solo in casa a spacciare - insiste il potere criminale di una famiglia nota a tutti, una famiglia che è arrivata finanche a possedere azioni di un ristorante accorsato nel centro di Milano e, secondo l’accusa, ha messo al sicuro ingenti somme di denaro presso l’istituto di credito Bsi Bank di Lugano. Il ristorante milanese in questione è il Donna Sophia, in corso di Porta ticinese, pieno centro, nel punto esatto in cui la folla dello shopping diurno lascia spazio alla movida serale. A due passi dalle colonne di San Lorenzo che il sabato sera i giovanissimi trasformano in una sorta di affollato locale a cielo aperto. Che tu sia un turista in visita al Duomo, un milanese reduce da un pomeriggio di shopping o uno studente fuori sede pronto per la serata, ti sarà facilmente capitato di passare davanti al Donna Sophia e magari sarai anche entrato a mangiare una pizza napoletana “a prezzi contenuti”, come avvertono le recensioni online. E così, un ristorante milanese rientra nei beni riconducibili ai fratelli Bruno, Salvatore e Assunta Potenza. Figli di Mario Potenza, morto d’infarto nel 2012 mentre era agli arresti domiciliari anche per quella storia degli otto milioni di euro nascosti fra le intercapedini delle mura di casa. Lui che aveva una pensione sociale Inps e un’altra da invalidità civile non si capisce come avrebbe mai potuto guadagnare lecitamente tutti quei soldi. Il nuovo sequestro è ancora più cospicuo e ammonta a 20 milioni di euro tra locali, autoveicoli, depositi bancari e polizze. La storia della famiglia Potenza fa pensare da una parte che la mobilità sociale, quella vera, quella che consente emancipazione, pare sia possibile ormai solo attraverso il crimine. Dite che esagero? Immaginate l’impatto che produce sul lettore la notizia di 20 milioni in beni mobili, immobili e titoli azionari sequestrati. 20 milioni di euro sono una cifra stratosferica, impensabile, inarrivabile. Per altro ormai sappiamo anche quando sia inutile mandare curriculum e quanto sia, a detta del Ministro Poletti, molto più proficuo partecipare a partite di calcetto per le relazioni che “notoriamente” si instaurano negli spogliatoi. Ché se fosse vero, uno come me nella vita non avrebbe avuto alcuna speranza, tanto sono negato per il calcio. Dall’altra mi tornano alla mente le parole di Roberto Maroni a proposito del Nord non infiltrato dalle organizzazioni criminali e l’irruzione che fece a “Vieni via con me” per dire che le mafie al Nord non ci sono. Maroni è stato smentito tante di quelle volte su questo punto, che se avessi una trasmissione televisiva lo inviterei solo per offrirgli la possibilità di chiedere scusa agli italiani per la cattiva informazione fatta da Ministro degli Interni. Ma magari questa volta resterebbe alla larga.
Comunali Napoli, tutte le liste di Valeria Valente: Pd, Napoli Vale, Udc, Napoli popolare, Psi e Cittadini per Napoli. Con la candidata anche Ala, Moderati per la Valente, Centro democratico ed En, scrive il 7 maggio 2016 “la Repubblica”. Valeria Valente, deputato del Pd, vincitrice delle primarie, è il candidato sindaco del centrosinistra: a suo sostegno, dopo le decisioni della commissione elettorale mandamentale restano dieci liste rispetto alle dodici presentate: escluse Pli-Pri e Lega Sud-Ausonia.
"Candidata a sua insaputa" alle Comunali di Napoli: "Denunciai per prima, ma nessuno ci credeva". Annachiara Sereni: "Scoprii di essere in lista mentre votavo al seggio", scrive Conchita Sannino il 3 febbraio 2017 su "La Repubblica". La Procura della Repubblica di Napoli «Era la domenica del voto, il 5 giugno. E proprio mentre eravamo al seggio, è stata mia madre ad accorgersi che tra i nomi pubblicati lì sui manifesti affissi al muro, nella lista “Napoli Vale”, figurava una candidata col mio nome, cognome e la mia data di nascita. Sembrava uno scherzo». Lo scandalo era esploso a giugno, ma nessuno lo aveva colto, o voluto capire. C’era una denuncia ufficiale trasmessa dai carabinieri alla Procura, ormai otto mesi fa. Lo scandalo era già stato segnalato da una famiglia napoletana. Ora lo racconta a Repubblica Annachiara Sereni 24 anni. Un’altra dei nove cittadini inseriti in lista alle comunali a sua insaputa. Annachiara, bionda e sottile come una modella, ha appena conseguito la laurea triennale in Economia e Commercio, alle spalle una famiglia solida, papà avvocato, mamma docente di italiano e latino, due fratelli e una bella casa a Santa Lucia. E sua madre, Alessandra, ancora non riesce «a comprendere come sia potuta accadere una cosa del genere. E soprattutto: perché».
Annachiara, per voi quella domenica del voto è stato un giorno indimenticabile.
«È avvenuta una cosa assurda. Tu entri in un seggio con tutta la famiglia, vai a votare e solo perché tua madre è una donna attenta, uno sguardo di lince dietro gli occhiali, ti accorgi che ci sei proprio tu in lista. Anche se tu non ne sai assolutamente nulla».
Quindi, la vostra scoperta è avvenuta esclusivamente per caso?
«Esattamente. Mia madre ha notato che tutto coincideva. Quindi, abbiamo subito segnalato la cosa al presidente del seggio...».
Quale seggio?
«L’Istituto d’arte di piazzetta Salazar». Interviene sua madre: «La cosa davvero avvilente è che il presidente di seggio, invece di allarmarsi e segnalare quell’inquietante faccenda, ci fa spallucce e dice che lui non può fare proprio nulla, non sa a chi dirlo, non sa neanche da dove cominciare. Allora lo segnaliamo agli uomini in divisa che stazionano a ridosso del seggio. Anche lì, spallucce e molta diffidenza. Della serie: ma siete sicuri che non avete messo qualche firma da qualche parte?».
Cosa decidete di fare?
La signora Sereni continua. «Mio marito e mia figlia impiegano alcuni giorni per venire a capo della vicenda. Vanno in Comune, accertano definitivamente che tra le persone in lista c’è una Annachiara Sereni, che tra l’altro è un’identità unica a Napoli e forse anche in Italia, con la data di nascita che è quella di mia figlia. Soltanto l’indirizzo è sbagliato. Il guaio è che, all’inizio, abbiamo dovuto superare molte diffidenze. Nessuno ci credeva, molti pensavano che tutto fosse capitato per qualche nostra leggerezza. Continuavano a chiedere a mia figlia: “Ma sei sicura che non hai dato qualche assenso, che non hai messo qualche firma in calce a un documento?” . Come se si trattasse di una ragazzina di 15-16 anni, e non di una giovane donna di 24».
Alla fine avete presentato una dettagliata denuncia.
«Devo riconoscere che alla stazione dei carabinieri di Chiaia abbiamo trovato accoglienza e anche un maresciallo che ha preso a cuore la cosa e dopo un accertamento di qualche giorno ci ha contattati e ci ha confermato quello che pensavamo: non c’erano nostre autorizzazioni, non figurava alcuna nostra iniziativa. Quindi abbiamo firmato una regolare denuncia il 20 giugno. E quando è arrivata la comunicazione della Corte d’Appello, noi abbiamo potuto mostrare che già da mesi ci eravamo accorti di quella candidatura falsa e abbiamo mostrato copia della denuncia».
Annachiara, a 24 anni qual è il suo rapporto con la politica?
«Diciamo che mi interessa, so che è importante ma non mi appassiona molto. E dopo questa disavventura, devo riconoscere, ancora di meno. Questa storia ha lasciato in tutti noi un velo di tristezza. E anche tante domande». Interviene sua madre: «Poi ci si lamenta della disaffezione verso la politica. Questa storia è davvero amara e grave. E mostra tutti i vizi della politica. E quanto sia da rifondare il rapporto tra partiti e territorio».
Napoli è una città con tanti volti. Un po’ giacobina e un po’ borbonica. Paolo Frascani, «Napoli. Viaggio nella città reale» (Laterza, pagine 232, euro 14). Paolo Frascani docente emerito di Storia della società europea in età contemporanea all’Orientale di Napoli. «Napoli. Viaggio nella città reale» di Paolo Frascani è un libro che esplora una realtà contraddittoria per capire cosa è accaduto negli utili anni all’ombra del Vesuvio, scrive il 18 gennaio 2017 Nicola Saldutti su "Il Corriere della Sera". Chiunque si accinga a scrivere di Napoli (o su Napoli) decide, più o meno consapevolmente, di assumersi un rischio. Quello di essere accusato di lesa maestà o di infilarsi nel lungo corridoio delle critiche dense di stereotipi. Un percorso a ostacoli, dunque. Che Paolo Frascani nel suo Napoli. Viaggio nella città reale (Laterza) mostra di volere (e sapere) affrontare senza timori. Un viaggio, appunto. Ma non di quelli del grand tour, pieni di riferimenti storici ma che raccontano di un fasto che fu. Un viaggio pieno di tappe, di immagini, di numeri. Di tentativi di comprendere che cosa è accaduto in questa città negli ultimi anni. Perché il sindaco, Luigi de Magistris, arriva a parlare di un progetto di città autonoma. Perché il progetto di Bagnoli, la fabbrica dismessa, fa tutta questa fatica a decollare. Perché la classe politica non riesce a governare processi che si fanno sempre più sfilacciati. È un testimone informato sui fatti, come si autodefinisce. E i fatti sono un insieme di osservazioni e cifre, analisi e domande. Per questa città spugna, come la definiva Ermanno Rea. Sempre in bilico tra delusione e speranza. Prendiamo l’industria. Da sola Napoli rappresenta il 18% dell’intera economia del Mezzogiorno. Eppure la fine del mito fordista, che aveva portato con se l’acciaio e l’industria dei trasporti, in qualche modo ha visto subentrare un altro modello. «Archiviata l’industrializzazione dall’alto sono le comunità locali a mobilitarsi per rimettersi in cammino sulla strada dello sviluppo», scrive Frascani. Una città che oscilla tra la Repubblica Partenopea del 1799 e i neo-tifosi del mito borbonico. Due verità entrambe presenti. Una città che appare sempre al bivio tra declino e movimento. Dove la comunità cinese conta 5 mila persone. Dove in certi tratti è diventata post popolare. Si fa un gran parlare del suo rinascimento turistico, delle migliaia di persone che hanno riscoperto l’antica capitale del Regno delle Due Sicilie. Iniziative come Monumentando, una formula che prevede il coinvolgimento dei privati nella valorizzazione del patrimonio cittadini e ha le sue radici nella Napoli Porte Aperte, inventata nel 1992 da Mirella Barracco. Piazza Plebiscito, cuore della città, quando venne liberata dagli autobus, non fu solo l’occasione per restituirle l’antico splendore, ma fu la liberazione di un pezzo del centro storico da un campo di battaglia (Nick Dines). Si può (e si deve fare) molto per i beni artistici, per il recupero della sua storia. Per attirare turisti. Ma guai a farla diventare un museo, lascia capire l’autore. Napoli «conserva i tratti della città industriale». La sua manifattura non è un ricordo del passato: il polo aeronautico, il polo calzaturiero, con settemila imprese e 15 mila addetti (prova di una certa fragilità). Solo due esempi tra i tanti che si incontrano nel viaggio di questo libro. L’alta tecnologia della Apple, che ha scelto la facoltà di Ingegneria a San Giovanni a Teduccio, e le sparatorie in pieno centro. Eccola Napoli. Che «la classe politica stenta a capire». Quello che è mancato, è stata «l’elaborazione di una specifica strategia di tutela e rigenerazione». Eppure il viaggio fa tappe nelle nuove possibilità, come quelle de L’Altra Napoli, nata con Ernesto Albanese e che vede in don Antonio Loffredo un punto di riferimento. Sono pagine che accompagnano il lettore nella scoperta mai banale di luoghi, persone, storie, fenomeni sociali come l’immigrazione. Con l’approccio dello studioso meticoloso. Che cerca di indagare una Napoli che «si presenta come un Giano bifronte. Da una parte sembra giunta al capolinea, come un pugile al tappeto. Dall’altro veste i panni della città allegra e chiassosa che si apre al turismo internazionale e morde la mela di Apple per rientrare nel paradiso terrestre...». Una città che non è ferma, che si compone e si ricompone continuamente. Per questo la bussola di questo viaggio reale assomiglia ad una guida, senza foto da cartolina, con tutte le domande che bisogna farsi. Per tentare di capire. Una lettura che aiuterebbe molto chi dice di governarla ad avvicinarsi a chi la vive.
Napoli si divide pure su Maradona nella disfida tra intellettuali (e no). Dopo gli attacchi a «Nalbero» sul lungomare, polemiche per il fuoriclasse al San Carlo Il nuovo fronte Al bar caro ai presidenti si sono riuniti quelli che si oppongono all’opposizione, scrive Fulvio Bufi il 17 gennaio 2017 su "Il Corriere della Sera". Ora che finalmente Maradona ha recitato al San Carlo, magari si potrebbe discutere su quanto fosse utile per il teatro, inteso come arte, che uno capace fino a vent’anni fa di giocare a pallone come mai - e mai più - nessuno, vestisse oggi i panni del narratore, che è un altro mestiere e richiede altre doti e altro talento. Magari ci si dividerebbe comunque, ma sarebbe almeno una divisione basata sul gusto personale, e non sull’appartenenza a una categoria. Invece a Napoli - dove non ci si fa mancare niente, nemmeno le cose inutili - pare che per esprimere il proprio pensiero si debba prima aderire a un fronte. Quale? Fino a poco tempo fa era prevalente quello degli intellettuali, solitamente critici con il sindaco de Magistris. Ora ne è nato un altro, che sempre di intellettuali è, anche se fingono di negarlo, e che non sta dichiaratamente con de Magistris, anche se invece sì. Per capirci qualcosa bisogna tornare alle settimane precedenti le polemiche sulla rappresentazione al San Carlo dello spettacolo con Maradona, Tre volte 10, andato in scena ieri sera. Era il periodo delle feste, e la questione centrale per questi fronti contrapposti era Nalbero, il centro commerciale a forma di abete natalizio che il sindaco de Magistris ha voluto sul lungomare. «Torre di Babele», «baraccone psichedelico», «strapaesano Albero della cuccagna», tuonarono uomini e donne autorevoli come Gerardo Marotta, Aldo Masullo, Mirella Barracco. L’iniziativa non riuscirono a fermarla, eppure non fu Nalbero la peggiore conseguenza del loro intellettuale grido di dolore. Infatti mentre l’intera città precipitò all’improvviso nel dilemma se dedicarsi a struffoli e rococò o buttare il cuore oltre l’ostacolo e trovare anch’essa il coraggio di dire sì o no a quel grande coso a punta affacciato sul mare davanti via Caracciolo, ecco che vennero fuori, dai loro non libri, dalle loro non università, dalle loro non gallerie d’arte, i «Non intellettuali». Chiamati a raccolta dal conduttore di una trasmissione su una radio locale (Gianni Simioli) e da un consigliere regionale dei Verdi (Francesco Emilio Borrelli), si ritrovarono al Caffè Gambrinus i fondatori di un nuovo schieramento: quelli che dicono no a quelli che dicono no. Gente seria, intendiamoci: il rettore della Federico II Gaetano Manfredi, l’antropologo Marino Niola, lo scrittore Maurizio de Giovanni, i giornalisti Claudio Velardi e Eduardo Cicelyn. Pure loro intellettuali, chiaramente, ma col vezzo di dichiararsi «non intellettuali» per marcare la differenza da quelli che avevano detto no a Nalbero e poi no al San Carlo per Maradona. Tra i tavolini del bar caro ai presidenti della Repubblica si parlò di un ambizioso progetto per la Napoli del 2050 e anche di «che cosa significa oggi nella post modernità fare cultura in una città come Napoli guardando al cambiamento», riferisce il rettore Manfredi, che ammette di essersi lasciato etichettare non intellettuale «per provocazione», ma intanto si ritrova il suo predecessore, all’Università, Massimo Marrelli, che dalle colonne del Corriere del Mezzogiorno lo punzecchia e gli ricorda che uno come lui intellettuale lo è e lo sarà sempre. Mentre i colti dibattono, ecco che arriva Maradona, forse l’unico che a Napoli ha sempre unito tutti. E invece: «Il San Carlo non è un posto per il calcio», si lamenta il musicologo Roberto De Simone. E l’ex sovrintendente Francesco Canessa: «Così si riduce quel gioiello a mero contenitore di eventi». Ma, senza dichiararsi non intellettuale, ma anche senza sapere di esserlo diventato d’ufficio, ecco che sull’altro fronte entra in scena il direttore del Museo Archeologico Paolo Giulierini: «Maradona non poteva andare in un altro luogo se non al San Carlo che è la struttura più rappresentativa della città». Niente, non ci è riuscito nemmeno lui a metterli d’accordo. Intellettuali e non intellettuali saranno sempre contro. Napoli dovrà farsene una ragione.
NAPOLI CONTRO SALVINI. COMUNISTI NON MERIDIONALISTI. Solo gli atteggiamenti colti ed intelligenti battono gli ignoranti pregiudizi razzisti. Insomma, bisogna dimostrare di essere migliori, quali noi siamo, e smentire le loro menzogne. Solo i reazionari tolgono il diritto di parola agli avversari politici e si nutrono di pseudo cultura ideologizzata.
6 maggio 2014. Il segretario Lega rinuncia all’intervento in piazza Carlo III. Matteo Salvini insultato e contestato al suo arrivo a Napoli. Il segretario della Lega Nord è stato apostrofato da un gruppo di persone, è poi risalito in auto ed è andato via senza tenere il previsto intervento in piazza Carlo III.
20 gennaio 2015. Un centinaio di manifestanti in occasione della presentazione del movimento fondato dal leader della Lega. Matteo Salvini e la Lega contestati di nuovo a Napoli. Dopo il lancio di pomodori subìto in piazza Carlo III questa volta però il leader del Carroccio ha preferito disertare la presentazione del neonato movimento "Noi con Salvini", lunedì per la prima volta nel capoluogo partenopeo. Il segretario leghista ha mandato in avanscoperta il senatore Raffaele Volpi, coordinatore per il Sud. Ad attendere i partecipanti all'incontro anche uova e fuochi d'artificio. Davanti all'hotel Ramada si sono radunati un centinaio di contestatori che esponevano uno striscione con scritto: "Voi con Salvini, noi con Partenope. Napoli Antifascista". I manifestanti hanno anche intonato cori contro la Lega: "Ma ora i napoletani non puzzano più?". All'interno il senatore Volpi, interrogato sulle frasi dei leghisti contro i napoletani, risponde: "Abbiamo chiesto già scusa".
8 marzo 2017. Alta tensione per l'arrivo di Matteo Salvini a Napoli. Un gruppo di ragazzi, appartenenti ai centri sociali, ha tentato di bloccarne l'ingresso in via Chiatamone al Mattino, dove il leader della Lega Nord, Matteo Salvini, è atteso per un forum con il direttore del quotidiano Alessandro Barbano e i cronisti della redazione. Le proteste all’arrivo di Matteo Salvini alla sede del Mattino di Napoli. “Eravamo seduti pacificamente davanti la sede per far capire che Salvini a Napoli non è il benvenuto – racconta Ciro del coordinamento “Mai con Salvini” e del centro sociale Insurgencia – La polizia ci ha presi di peso e portati via. Abbiamo visto manganellate anche nell’altro corto per l’8 marzo”.
9 marzo 2017. Continuano le proteste contro il leader della Lega Matteo Salvini che sabato 11 marzo sarà a Napoli. Un gruppo di antagonisti ha occupato la sala in cui parlerà Salvini: "E' un'occupazione pacifica ma determinata e a oltranza. Ci sarà un'assemblea per chiedere alla città se vuole il comizio del razzista e antimeridionale Salvini".
10 marzo 2017. Napoli, annullata la convention con Salvini: i centri sociali festeggiano. I centri sociali hanno liberato la sala occupata in mattinata alla Mostra d'Oltremare, in cui sabato era in programma una convention con Matteo Salvini. La manifestazione del leader della Lega è stata annullata in seguito alle tensioni, gli attivisti quindi hanno festeggiato davanti ai cancelli dell'ente con slogan e cori. Il leader della lega ha però annunciato che verrà lo stesso a Napoli. Napoli, annullata convention con Salvini. I vertici della Mostra: "Evitati danni". I vertici della Mostra, Donatella Chiodo e Giuseppe Oliviero, spiegano la scelta di annullare la convention con Matteo Salvini in programma nella fiera di Fuorigrotta. Video di Antonio Di Costanzo.
11 marzo 2017. Napoli, in soli duemila in corteo contro Salvini. Centri sociali, movimenti, associazioni e disoccupati: sono solo duemila i manifestanti che da piazza Sannazaro raggiungono piazzale Tecchio, in corteo contro Salvini. Video di Antonio Di Costanzo e Laura De Rosa.
Salvini a Napoli: partito il corteo, c'è anche una ruspa. Una ruspa in piazza per Salvini. È il benvenuto di comitati e centri sociali al leader della Lega. Da una parte striscioni e trovate goliardiche. Dall'altra caschi legati alla cintura di alcuni manifestanti. Video di Antonio Di Costanzo e Laura De Rosa.
11 marzo 2017. La manifestazione si fa. Il sindaco de Magistris sul caso della convention di Salvini alla Mostra d'Oltremare: "Lo Stato ha fatto prevalere il capriccio di Salvini".
Napoli, corteo anti Salvini: forze dell'ordine rispondono con manganelli a lancio di sassi e petardi. Si è trasformata in guerriglia la manifestazione organizzata da centri sociali, collettivi studenteschi e diverse formazioni politiche per protestare contro la visita del leader leghista nel capoluogo campano. Dai manifestanti sono partiti lanci di oggetti e petardi, polizia e carabinieri caricano e rispondono con manganellate.
Napoli: manifestanti lanciano sassi e petardi, polizia risponde con idrante e fumogeni. Scontri tra forze dell'ordine e manifestanti anti Salvini nei pressi della Mostra d'Oltremare di Napoli, dove è in corso una convention con il leader della Lega, con lanci di molotov e sassi da parte di giovani incappucciati e con gli agenti, in assetto anti sommossa, che hanno risposto con i lacrimogeni e con una carica. Poco prima, dal corteo, era partito un lancio di fumogeni e di petardi contro gli agenti che presidiavano l'ingresso dell'ente fieristico.
Da Eugenio Bennato a James Senese, "Terroni uniti" contro Salvini. Ecco l'inno contro Salvini, la canzone che sarà la colonna sonora del corteo in programma l'11 marzo contro l'arrivo del leader della lega a Napoli. Il brano intitolato "Gente do Sud" nasce da un'idea di Massimo Jovine, non è una canzone di odio ma un invito all'accoglienza che parla di fratellanza e solidarietà. Il collettivo di artisti fa sapere che l'arrivo di Salvini è solo il pretesto creativo. Il claim del corte dell'11 marzo sarà tuttavia: "Napoli non ti vuole". Terroni Uniti sono: Massimo Jovine (99 Posse), Ciccio Merolla, Enzo Gragnaniello, James Senese, O’ Zulu’ (99 Posse), Eugenio Bennato, Speaker Cenzou, Valentina Stella, Daniele Sepe, Franco Ricciardi, Dario Sansone (Foja), Valerio Jovine, M’Barka Ben Taleb, Pepp-Oh, Francesco Di Bella, Simona Boo, Tommaso Primo, Andrea Tartaglia, Tueff, Gnut, Nto’, Roberto Colella (La Maschera), Dope One, Gianni Simioli, Carmine D’Aniello (‘O Rom), Oyoshe, Djarah Akan, Joe Petrosino, Massimo De Vita, Giuseppe Spinelli, Alessandro Aspide (Jovine), Sacha Ricci (99 Posse).
Molotov e sassi al corteo anti Salvini. Napoli sotto scacco dei centri sociali. Feriti negli scontri con la polizia prima del comizio del leader del Carroccio. Chi sapeva dei rischi in corso. Il sindaco di Luigi De Magistris replica a chi lo accusa: non mi avete ascoltato, scrive Fulvio Bufi l'11 marzo 2017 su “Il Corriere della Sera”. Lo sapevano tutti. Lo sapevano in questura, lo sapeva il sindaco, lo sapevano i napoletani, sicuramente lo sapevano anche nei palazzi romani: con l’arrivo di Salvini a Napoli sarebbe finita male. È finita malissimo. Gli scontri causati dai contestatori sono avvenuti nel quartiere Fuorigrotta, nei pressi della Mostra d’Oltremare dove era in corso l’iniziativa con il leader della Lega. I manifestanti, aderenti per lo più ai centri sociali e alla Rete antirazzista, intendevano raggiungere la Mostra per contestare, ma il loro corteo non era autorizzato a raggiungere l’area fieristica. Già venerdì alcuni aderenti ai centri sociali avevano occupato il padiglione dove poi si è svolto il comizio. A seguito di questa iniziativa i responsabili dell’ente — che appartiene per il 70 per cento all’amministrazione comunale — avevano deciso di rescindere il contratto, temendo che le crescenti tensioni potessero provocare danni alle strutture. È però intervenuto il ministro dell’Interno Marco Minniti che ha dato disposizione alla prefettura di requisire l’area affinché la manifestazione si svolgesse così come programmato. Ieri mattina, quindi, ad aprire i cancelli della Mostra d’Oltremare ha provveduto la polizia. Il comizio era previsto per le 17 ma è iniziato con oltre sessanta minuti di ritardo. La manifestazione anti-Salvini, circa cinquemila partecipanti, il corteo era aperto da una ruspa su cui era affisso un grande manifesto che riproduceva un foglio di via nei confronti dell’esponente leghista. Presenti assessori e consiglieri comunali, assente il sindaco de Magistris (c’era invece sua moglie) che in serata ha dichiarato: «Prendo le distanze dai violenti ma critico il ministro Minniti che ha voluto imporre Salvini alla Mostra d’Oltremare». Il programma concordato con la questura prevedeva che il corteo si sciogliesse all’altezza di piazzale Tecchio. È stato invece proprio qui invece che sono cominciati gli scontri. Aperti dallo scoppio di due petardi che erano evidentemente un segnale concordato. In breve sono comparsi giovani con il volto coperto da caschi o da cappucci e fazzoletti, che hanno iniziato a lanciare contro la polizia sampietrini, bombe carta, cassonetti della spazzatura e segnali stradali divelti. Le forze dell’ordine hanno risposto con il lancio di lacrimogeni e l’uso di idranti. Successivamente i manifestanti hanno tentato di forzare il blocco ma sono stati respinti. Grazie al lavoro dei dirigenti della Digos, tutto si è risolto senza scontri corpo a corpo ma solo con cariche di alleggerimento. Bilancio finale: cinque fermati, un blindato dei carabinieri incendiato e molte auto, vetrine e arredi urbani distrutti.
Napoli: scontri al corteo anti Salvini, sassi e molotov. La polizia carica. Auto distrutte, cittadini si rifugiano nei negozi, scrivono Antonio Di Costanzo e Roberto Fuccillo l'11 marzo 2017 su “La Repubblica”. Tre arrestati, tre denunciati e 34 contusi. Tra i manifestanti anche ultrà armati di bastoni. All'interno della Mostra d'Oltremare il leader della Lega: "Porterò de Magistris in tribunale. E quando saremo al governo dopo aver eliminato i campi Rom elimineremo anche i centri sociali". Guerriglia urbana a Napoli. Un intero quartiere, Fuorigrotta, sotto assedio, con la polizia armata agli incroci stradali e manifestanti incappucciati che tentano ripetuti assalti. Salvini parla all'interno del Palacongressi e nella città la tensione è altissima. A fine serata tre persone vengono arrestate e tre vengono denunciate in stato di libertà. Si contano 34 feriti. "Solidarietà ai 400 agenti impegnati contro degli animali. Vuol dire che la prossima volta faremo la manifestazione a piazza Plebiscito, quando andremo al Governo. E dopo aver sgomberato i campi rom elimineremo anche i centri sociali. Complimenti a de Magistris sta tirando su una bella gioventù", è il commento a caldo del Leader del Carroccio. Per il sindaco Luigi de Magistris gli scontri sono stati causati da chi non ha ascoltato. Gli scontri. Tutto parte intorno alle 17 con due bombe carta lanciate vicino al commissariato di polizia di Fuorigrotta. Due esplosioni e la situazione precipita velocemente. Gli agenti in assetto anti-sommossa presidiano l'ingresso di viale Kennedy e le altre vie laterali che portano alla Mostra d' Oltremare a Napoli dove è in corso il comizio del leader della Lega Nord. Il corteo anti Salvini arriva e partono i lanci di pietre e petardi contro il cordone di forze dell'ordine. La polizia risponde con i lacrimogeni. Partono anche gli idranti contro i contestatori, che continuano a bersagliare i poliziotti con petardi e bombe carta, mentre la guerriglia si sposta rapidamente verso piazzale Tecchio e davanti alla stazione dei Campi Flegrei. I manifestanti indossano le maschere di pulcinella, rovesciano cassonetti, lanciano molotov. Alcuni sono incappucciati e armati di bastoni, potrebbero essere componenti del tifo ultrà. La polizia cerca di contenerli su più fronti. Intanto l'incitamento a sfondare il cordone arriva anche via megafono ed è un continuo susseguirsi di sassaiole, corse contro le forze dell'ordine e risposte con un idrante nel tentativo di disperdere la folla. Gli scontri si moltiplicano. Violente frizioni anche in via Giulio Cesare. Un gruppo di ragazzi assalta una camionetta dei carabinieri, che è rimasta bloccata davanti a dei cassonetti della spazzatura rovesciati. Contro il mezzo dei militari fermo petardi, bottiglie incendiarie e fumogeni. Terrore tra la gente che cerca rifugio nei palazzi circostanti. I negozianti abbassano le saracinesche. Un'ora di assalti e cariche. Poi la tregua. Alle 18 torna la calma. E mentre le strade rimangono ricoperte di cocci di bottiglie infrante, cassonetti dei rifiuti rovesciati, segnali stradali divelti, immondizia data alle fiamme e pozzanghere d'acqua (laddove sono intervenuti gli idranti) all'interno della mostra d'Oltremare il leader della lega Nord attacca il sindaco di Napoli. Poco dopo le 16, Matteo Salvini, leader della Lega Nord, entra nel Palacongessi alla Mostra d'Oltremare per tenere il suo comizio. In sottofondo la canzone degli Stadio "Ho bisogno di voi". É scandaloso, afferma il leader della Lega, "che un ex magistrato sfortunatamente sindaco, spero ancora per poco, si permetta di decidere chi può e chi non può venire a Napoli". Il fatto che il sindaco di Napoli oggi non abbia partecipato al corteo dei centri sociali a Salvini non importa: "Conta quello che ha detto in questi giorni", sottolinea Salvini. "Quello che ha dichiarato in questi giorni - annuncia - verrà portato in qualche tribunale dove, magari, qualche magistrato più equilibrato di lui deciderà se può insultare o no". E a proposito della polemica tra de Magistris e il ministro dell'Interno Minniti: "A Minniti dico grazie, ma in democrazia non deve essere un ministro dell'interno a garantire la libertà di pensiero". E sul razzismo antimeridionale di cui viene accusato: "Vent'anni fa - spiega Salvini - quando ho preso la tessera della Lega, l'Italia era diversa, ora l'Italia deve vincere tutta insieme e Napoli e il Sud sono troppo importanti per lasciarli in mano ai de Magistris o i Crocetta di turno. Napoli era una capitale mondiale prima che il centralismo romano negasse tutto e derubasse tutti e quindi penso che valorizzare questa Italia che è lunga e diversa sia importante. Vent'anni fa quando ho fatto la tessera della Lega avevamo in tasca la lira, non c'era l'Isis, l'immigrazione fuori controllo non c'era la legge Fornero, era un'Italia diversa. Io voglio parlare con i napoletani che sono fuori da questa sala e che non credono più a Renzi, de Magistris, Emiliano, a tutti questi chiacchieroni. A loro voglio parlare e sono felicissimo di essere qua". E il leader del Carroccio rotna a parlare di centri sociali e camorra: "Vorrei che i conigli dei centri sociali fossero scesi in piazza contro la camorra ma forse hanno paura perchè qualche mamma o papà con la camorra ci campa". Così Matteo Salvini a Napoli". Fermati e contusi. A fine serata sono tre le persone arrestate e tre denunciate in stato di libertà. I reati contesti, a vario titolo, sono radunata sediziosa, danneggiamento, lancio di oggetti contundenti, lesioni e violenza a pubblico ufficiale. Nei tafferugli sono rimasti contusi, complessivamente 28 componenti delle forze dell'ordine: tre funzionari e 25 tra poliziotti e carabinieri. Inoltre, altre sei persone, tra i manifestanti, sono rimaste contuse. Il corteo. Oltre duemila persone alle 14 hanno dato il via al corteo organizzato da centri sociali, comitati e associazioni contro il comizio di Matteo Salvini alla Mostra d'Oltremare. Ad aprire il corteo in mattinata una grande ruspa sulla quale i manifestanti hanno sistemato il simbolico foglio di via al leader della Lega. In piazza anche assessori comunali come Alessandra Clemente, Ciro Borriello, consiglieri comunali e Sandro Fucito, presidente del consiglio comunale. Presente anche il presidente della terza municipalità Ivo Poggiani. Mentre il corteo attraversa il tunnel Laziale, poco dopo le 16, Matteo Salvini arriva alla Mostra d'Oltremare. Bandiere e striscioni; da quella del Pci, insieme a quella palestinese, una nera con il teschio dei pirati, al movimento neo-borbonico, a quella dello Slai Cobas. C'è chi protesta provenendo da Caserta, chi da Catania, chi dagli altri capoluoghi di provincia della Campania e sono già centinaia i manifestanti radunati, alcuni dei quali vestiti di nero e con felpe col cappuccio. La decisione del prefetto di autorizzare la manifestazione con Salvini alla Mostra d'Oltremare non ha trovato d'accordo il sindaco de Magistris: "È un atto senza precedenti e lo abbiamo detto ai vertici del Viminale". Il sindaco annunciato che l'amministrazione comunale, azionista di maggioranza dell'ente, e i vertici dell'ente stanno stilando un verbale "nel quale si stabilisce la consegna delle chiavi della Mostra d'Oltremare alla Questura, delegata dal Governo e dalla Prefettura, allo svolgimento della manifestazione. Noi non disponiamo più della Mostra". Si tratta, secondo de Magistris, di un provvedimento che ricorda "quelli utilizzati all'epoca della emergenza dei rifiuti per le discariche. Non voglio ritenere che la Mostra d'Oltremare sia una discarica, perché non lo è e non posso ritenere che Salvini sia considerato un rifiuto proveniente dal Nord. Quindi respingiamo questo tipo di provvedimento dal punto di vista politico e istituzionale, perché c'era la possibilità di contemperare tutte le esigenze. Evidentemente si è ritenuto di far prevalere il capriccio di Salvini di fare la manifestazione alla mostra e per potervi e la consentire addirittura è dovuto scendere in campo il ministro dell'Interno".
De Luca: "Solidarietà a Matteo Salvini, a Napoli sono in corso scontri alimentati da centri sociali e forze estremistiche che impediscono all'onorevole Salvini di parlare. Io non la penso come lui ma Salvini ha diritto di parlare come e dove crede. La mia solidarietà anche alle forze dell'ordine, ci sono stati lanci di molotov, vittime di aggressioni irresponsabili. Mi auguro che a Napoli trovino il senso della misura". Lo ha detto il presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca, aprendo il suo intervento al Lingotto di Torino.
Lady De Magistris, dall’ombra al corteo: «I violenti? Sono infiltrati». La moglie del sindaco ha sfilato: i violenti? Infiltrati da fermare. Di Maria Teresa Dolce finora si è saputo pochissimo, né lei ha cercato di conquistarsi la scena mediatica, scrive Fulvio Bufi il 12 marzo 2017 su "Il Corriere della Sera". Di Maria Teresa Dolce, moglie del sindaco di Napoli Luigi de Magistris, e presenza a sorpresa nel corteo di sabato contro Salvini, fino a oggi si è sempre parlato e saputo pochissimo, né lei ha mai fatto nulla per conquistarsi la scena mediatica. Un paio di interviste — una al Mattino, confluita poi in un libro di Maria Chiara Aulisio, e una a Vanity Fair – sempre in qualità di moglie. E poi una polemica con il sito Dagospia, che adombrava una corsia preferenziale quando lei ottenne la cattedra di Diritto (incarico di ruolo) in una scuola superiore di Napoli («Ero informata di tentativi di trovare qualcosa di losco nella mia vicenda professionale, come del resto fanno da anni nelle nostre vite. Non trovate niente. Potete solo fare allusioni ed insinuazioni»). Per il resto solo qualche foto durante le feste in occasione delle due elezioni del marito e nient’altro. È solo per questo che sorprende che sabato abbia scelto di partecipare al corteo, come almeno altre cinquemila persone estranee agli scontri e alla violenza: perché lei in passato aveva sempre preferito stare fuori dagli appuntamenti politici. Ora però qualcosa è cambiato. Maria Teresa Dolce non è più solo la professoressa che a Catanzaro, quando ancora faceva pratica in uno studio legale, conobbe l’allora pm Luigi de Magistris, se ne innamorò e poi lo sposò nel 1998 a Soverato, e infine lo seguì a Napoli dopo la sua elezione a sindaco. Oggi Maria Teresa Dolce è una aderente all’associazione e futuro movimento politico DemA, di cui sabato era la rappresentante al corteo. Assente il sindaco, assente suo fratello Claudio, che di DemA è il segretario, c’era lei. Che, come gli assessori e la gran parte dei consiglieri comunali che pure hanno sfilato per le strade di Fuorigrotta, si è allontanata prima che la manifestazione fosse travolta dalla violenza di un gruppo piccolo ma molto agguerrito e attrezzato. Lei dalla sua pagina Facebook attacca quel gruppo ma anche altri, evidentemente i responsabili dell’ordine pubblico: «Corteo pacifico, i black bloc li abbiamo visti e non erano nel corteo. Potevano essere fermati prima che si infiltrassero. Perché non è stato fatto? Sempre la stessa storia, ma non provate a stravolgere la Storia: il corteo non era violento e, se lo è diventato, è stato per infiltrazioni esterne. Questi sono i fatti, io c’ero». Lei c’era e, giustamente, difende il diritto di esserci. Ma anche il (presunto) diritto di non volere che ci fosse Salvini: «La libertà di manifestazione del pensiero è tutelata dall’ art. 21 della Costituzione Repubblicana, certamente, ma con dei limiti. È giusto che nel nostro Paese si possa ridere del diritto alla vita altrui, solo perché di colore della pelle diverso? È giusto non rispettare la dignità della persona umana? Per me no».
Maria Teresa Dolce, chi è la moglie di De Magistris, scrive il 13 marzo 2017 “Libero Quotidiano”. Si chiama Maria Teresa Dolce ed è la moglie del sindaco di Napoli Luigi de Magistris. C'era anche lei al corteo di sabato 11 marzo contro Mattel Salvini. Di lei si sa poco, solo un paio di interviste a Il Mattino e Vanity fair, sempre come first lady del primo cittadino partenopeo, e una polemica con Dagospia, che insinuava una corsia preferenziale quando la signora De Magistris ottenne la cattedra di Diritto (incarico di ruolo) in una scuola superiore di Napoli ("Ero informata di tentativi di trovare qualcosa di losco nella mia vicenda professionale, come del resto fanno da anni nelle nostre vite. Non trovate niente. Potete solo fare allusioni e insinuazioni"). Riporta il Corriere della Sera che qualcosa è cambiato visto che la Dolce ha deciso di partecipare al corteo insieme ad altre cinquemila persone. Insomma, non è più solo la professoressa che a Catanzaro, si innamorò dell'allora pm De Magistris e poi lo sposò nel 1998 a Soverato, e infine lo seguì a Napoli dopo la sua elezione a sindaco. Oggi è una aderente all'associazione e futuro movimento politico DemA, di cui sabato era la rappresentante al corteo. Ha detto: "La libertà di manifestazione del pensiero è tutelata dall'art. 21 della Costituzione Repubblicana, certamente, ma con dei limiti. È giusto che nel nostro Paese si possa ridere del diritto alla vita altrui, solo perché di colore della pelle diverso? È giusto non rispettare la dignità della persona umana? Per me no".
Scontri a Napoli, il poliziotto accusa: "Colpa di De Magistris, ci ha abbandonato", scrive il 13 marzo 2017 “Libero Quotidiano”. Mantengono l'anonimato. Ma sono furiosi. Si parla dei poliziotti che, a Napoli, hanno dovuto fronteggiare teppisti e black bloc i quali, "benedetti" dal sindaco Luigi De Magistris, hanno esercitato tutta la loro violenza pur di non far parlare Matteo Salvini. "A pagare siamo sempre noi. Sempre noi. Sabato a Fuorigrotta abbiamo subito di tutto. Insulti, sputi, aggressioni: ci hanno lanciato sassi, spranghe di ferro, bombe carta, bottiglie - raccontano a Il Mattino -. In piazza due giorni fa c'erano sempre loro: i professionisti della guerriglia". Così gli agenti del IV Reparto mobile di Napoli. Dunque, l'accusa si fa circostanziata. A puntare il dito ci pensa un ispettore che ha alle spalle 20 anni di ordine pubblico. "Nessun lamento. Siamo abituati ai sacrifici. A noi viene chiesto ogni giorno di tutto e di più. Sia chiaro: io non ce l'ho con l'amministrazione ma con i politici. La politica fa finta di non vedere". Ogni riferimento non è puramente casuale. E ancora: "I parlamentari si vadano a guardare i turni che siamo costretti a fare. Sabato alla Mostra d'Oltremare era schierato in completo tutto il Reparto; e molti di noi, ieri mattina, dopo appena sette ore di riposo, sono tornati in servizio allo stadio per la partita del Napoli con il Crotone". Quindi Aldo e Bruno, due poliziotti che hanno meno di 30 anni. E che sono furibondi. "Quello che è successo è gravissimo. E però ciascuno si assuma le proprie responsabilità: a cominciare dal sindaco di Napoli, che volente o nolente ha avuto un ruolo fondamentale fomentando la piazza". Accuse durissime, dunque, da napoletano a napoletano, dagli agenti a Luigi De Magistris. Il sindaco, continuano "ha dimenticato, peraltro, che noi siamo gli stessi che ogni mattina siamo in servizio a palazzo San Giacomo per preservare e tutelare la sicurezza sua e dell'amministrazione comunale".
Disordini di sabato a Napoli. Renzi: "De Magistris allucinante". Ma il sindaco: "Io non sto con i violenti". E' scontro tra l'ex premier e il primo cittadino, scrive il 12 marzo 2017 "La Repubblica". Gli scontri di sabato pomeriggio a Napoli "Quando un sindaco di una delle città più belle si schiera al fianco di chi non vuole far parlare qualcuno e sfascia la città è allucinante". Così Matteo Renzi al Lingotto facendo riferimento ai fatti di sabato a Napoli. "Quando un parlamentare chiede di parlare, anche se dice cose che non stanno né in cielo né in terra, noi del Partito democratico lo lasciamo parlare", ha aggiunto. "Non possiamo fare alleanze con chi non accetta il principio della legalità in questo Paese. Non si sfascia Napoli per un principio ideologico". Ma de Magistris risponde: "Renzi e Salvini dicono che sto con i violenti. Falso. Non sto con i violenti. Mai. Le mie mani sono pulite e non colluse. Sto con la mia città, che amo e difenderò sempre, e con i napoletani, popolo difficile ma ricco di pace e amore, sto con il popolo tradito dai poteri con le mani sporche di sangue. Sto con le vittime degli atti di violenza. Non me la faccio con chi è accusato di corruzioni come fa Renzi, travolto dalla questione morale, nè sto con razzisti come Salvini". "La vicenda di ieri - commenta il ministro dell'Interno Marco Minniti, anch'egli presente al Lingotto - rappresenta un punto cruciale per la mia idea e la nostra concezione della democrazia. E' importante che i diritti costituzionali siano garantiti per tutti ed è altrettanto che sia chiaro che in democrazia c'è un confine non valicabile: la violenza. Chi pratica la violenza è contro le nostre libertà e non può pensare di zittire l'altro". La vicenda è stata commentata nche Antonio Bassolino su Facebook. "I centri sociali hanno fatto i centri sociali, i black bloc si sono infiltrati e hanno fatto i black bloc, lo Stato ha fatto lo Stato, de Magistris non ha fatto il sindaco". Questo il post dell'ex sindaco di Napoli ed ex governatore della Campania. Con de Magistris si schiera invece Michele Emiliano, governatore della Puglia e sfidante di Renzi nelle primarie per la segreteria del Pd. "Mi dispiace per quello che è accaduto ma era assolutamente prevedibile", ha detto Emiliano, presente anch'egli al Lingotto. Salvini conosce il meccanismo, lo innesca, lo fa detonare e poi finge di essere la vittima. Questa tecnica è vergognosa. Napoli è una bellissima città che non va nè irrisa nè provocata. E' evidente che chi semina vento raccoglie tempesta". Per Giuliano Pisapia, con la protesta dei centri sociali e l'appoggio del sindaco de Magistris "è stato fatto un regalo a Salvini perché un comizio che avrebbe avuto poche presenze si è trasformato in un rapporto su cosa è la democrazia". Il leader di Campo progressista ha rilasciato questa dichiarazione a Lucia Annunziata, nel corso della trasmissione "In mezz'ora". De Magistris, prosegue Pisapia, "ha fatto una scelta politica diversa dalla mia. Lui non crede che possa nascere un nuovo centrosinistra ampio, aperto e capace di governare, ha scelto di essere vicino a realtà che credono che il centrosinistra attuale sia il nemico, e spesso quello principale, mentre per me il nemico o l'avversario dovrebbe essere quello di destra".
Napoli, guerriglia contro Salvini. La vergognosa frase di De Magistris, scrive “Libero Quotidiano” il 12 marzo 2017. Il sindaco di Napoli Luigi De Magistris? "Da rimuovere", "Da commissariare". Dal centrodestra al centrosinistra, in tanti si schierano contro il Masaniello ex pm dopo il disastro di Fuorigrotta e la guerriglia di strada scatenata da antagonisti e black bloc che volevano impedire il comizio di Matteo Salvini alla Mostra d'Oltremare. Centinaia di migliaia di euro di danni, paura per i residenti, la sensazione che la democrazia sia stata sospesa per qualche ora, con un manipolo di qualche decina di delinquenti in grado di decidere chi deve parlare in pubblico e chi no. Scene già viste, ma stavolta il caso politico coinvolge direttamente il sindaco, che nei giorni scorsi ha cercato di impedire al leader della Lega di fare il suo primo comizio a Napoli e si è schierato apertamente con i centri sociali. Dopo le violenze in piazza, De Magistris non ha saputo commentare che con un vergognoso: "Non mi avete ascoltato". Come se uno dei compiti del sindaco non sia quello di garantire la sicurezza a chi arrivi in città, invece di lisciare il pelo ai violenti. E anche Salvini ora si dice disposto a denunciare il sindaco. "L'amministrazione non ha mai detto che Salvini non potesse fare la manifestazione", ha spiegato De Magistris, come in un abile gioco delle tre carte. "Noi dal primo momento abbiamo detto che, siccome Salvini impronta la sua politica e la sua propaganda in maniera profondamente razzista, xenofoba e antimeridionale, qualsiasi luogo che anche indirettamente dovesse comportare la potestà di autorizzazione da parte dell'amministrazione, noi non avremmo dato nessuna autorizzazione", Tradotto: "Salvini può venire a Napoli. Ma non può parlare a Napoli". Una presa per i fondelli, insomma. La decisione di Salvini legittima di fare campagna elettorale a Napoli è stata bollata dal sindaco arancione come "un capriccio". Roba inaudita. Tanto da costringere il ministro degli Interni Minniti e il prefetto a "requisire" la struttura comunale e metterla a disposizione del comizio leghista. La questione non riguarda solo il luogo scelto, ma è tutta politica. Alla manifestazione anti-Salvini poi degenerata erano presenti anche i consiglieri comunali di maggioranza Pietro Rinaldi ed Eleonora De Majo (che un mese fa scriveva cose tipo "Vieni bastardo, ti diamo una lezione"), l'assessore ai giovani con delega alla Polizia municipale del Comune di Napoli Alessandra Clemente, il presidente della III Municipalità di Napoli Ivo Poggiani e la moglie del sindaco, tutti alle spalle della "simpatica" ruspa portata in piazza dagli attivisti con tanto di "foglio di via dal Sud" per Salvini. Dopo il delirio di bombe carta, sassi e molotov, è partito il coro bipartisan contro Giggino. "De Magistris complice, si vergogni", ha scritto il capogruppo di Forza Italia alla Camera Renato Brunetta. "De Magistris è responsabile di istigazione alla violenza. Le forze politiche democratiche chiedano unite le sue dimissioni", rincara il segretario nazionale di Rivoluzione Cristiana Gianfranco Rotondi. Anche Fabrizio Cicchitto di Ncd definisce il sindaco "un irreponsabile allo stato puro, venuto meno al suo ruolo istituzionale che deve essere quello dell'accoglienza di tutte le forze politiche e di tutela dell'ordine pubblico". E Maurizio Gasparri è lapidario: "Rimuovere De Magistris: chi alimenta violenza non può fare il sindaco. Napoli devastata da criminali da mettere in galera".
Impunità per i devastatori Nessuno finisce in carcere. I black bloc di Napoli rischiano poco: i giudici hanno lasciato a piede libero chiunque abbia distrutto le città, scrive Luca Fazzo, Lunedì 13/03/2017, su "Il Giornale". Possono dormire tranquilli. I guaglioni che sabato hanno messo Napoli a ferro e fuoco per contestare il comizio di Matteo Salvini forse non verranno mai identificati. Ma se invece - grazie alle tecnologie moderne e all'impegno di qualche poliziotto - dovesse scoprirsi chi si nascondeva dietro le maschere da Pulcinella, se si riuscisse dare un nome a chi ha incendiato le auto, lanciato bombe carta sulla polizia, terrorizzato una città, in galera non ci finirà nessuno. Se qualcun verrà arrestato, ci resterà ben poco, il tempo per venire scarcerato in attesa di giudizio, e vedere poi derubricate le accuse a reati da pochi mesi: sospensione condizionale, affidamento ai servizi sociali, e un augurio di ravvedimento. A rendere scontato questo esito del sabato di violenza di Fuorigrotta è, semplicemente, l'analisi dei precedenti. In un paese dove le imprese dei black bloc e degli antagonisti a mano armata si ripetono con frequenza e con copioni sempre uguali - cambiano solo la città e il pretesto - la risposta giudiziaria è ispirata sovente all'indulgenza: tanto che si contano sulle dita di una mano i violenti finiti a espiare la loro pena. Sono in carcere Marina Cugnaschi, Francesco Puglisi e Alberto Funaro, condannati (forse fin troppo duramente) per il G8 di Genova; è in carcere Davide Rosci, protagonista degli assalti alle forze dell'ordine a Roma nell'ottobre 2011; a Milano è finito dentro uno dei condannati per una delle giornate peggiori del capoluogo lombardo, la guerriglia in corso Buenos Aires nel marzo 2006: ma solo perché dopo avere ottenuto l'affidamento ai servizi sociali ha preferito non presentarsi. Per il resto, tutti allegramente a piede libero. È libero Fabrizio Filippi detto er Pelliccia, quello immortalato a Roma mentre lanciava un estintore sulla polizia; libero Marco Ventura, che durante il corteo no Expo del Primo Maggio a Milano prese a bastonate insieme ad altri un poliziotto steso a terra e indifeso; liberi qua e là per il paese una quantità di habitué del cappuccio nero identificati con certezza e con altrettanta certezza miracolati dal garantismo dei giudici. Quasi mai si tratta di assoluzioni con formula piena, va detto. La mossa vincente dei difensori degli antagonisti è quasi sempre quella di far cadere l'accusa di devastazione, l'unica che il codice penale colpisce con una certa severità. Sparita la devastazione, a carico degli imputati restano reati come il danneggiamento o la resistenza a pubblico ufficiale che consentono facilmente di restare sotto la magica soglia dei tre anni di condanna: niente carcere, e affidamento in prova per essere rieducati e reinseriti nella società (sarebbe interessarne indagare sulle modalità e sull'esito di tali rieducazioni). Il problema è che ai giudici il reato di devastazione non piace, e lo usano con grande parsimonia: dei cinque estremisti milanesi incriminati per il corteo No Expo del 2015, uno solo è stato condannato per questo reato, agli altri accuse ridotte e condanne blande; la Procura ha impugnato le assoluzioni spiegando che «ogni facinoroso aveva la chiara percezione del contributo materiale e morale dato con la propria condotta al complessivo ampio scenario di devastazione»; bisognerà ora vedere cosa ne pensano i giudici d'appello. Nel frattempo, tutti liberi, in attesa del prossimo corteo.
Mara Carfagna, l'articolo con cui seppellisce Luigi De Magistris, scrive il 13 marzo 2017 “Libero Quotidiano”. "Mamme terrorizzate che cercano di proteggere i bambini, ragazzi che trovano riparo negli androni dei palazzi, anziani che si coprono il volto con le mani restando fermi, impietriti per la paura". Esordisce così, Mara Carfagna, commentando su Il Tempo i fatti di Napoli, dove i centri sociali aizzati dal sindaco, Luigi De Magistris, hanno devastato la città pur di impedire a Matteo Salvini di parlare. La Carfagna, campana, parla dei "poliziotti e carabinieri che erano lì per difendere un principio costituzionale: il diritto di esprimere le proprie idee. E in 26 sono finiti in ospedale per questo. Eppure tale diritto - attacca - è stato di fatto messo in discussione dal vero responsabile politico di questo disastro: il sindaco Luigi de Magistris". Secondo la Carfagna, la difesa di Giggino "non regge e ha il sapore del ricatto di chi pensa di essere stato incoronato Imperatore di una Repubblica autonoma fondata sull'odio e sul disprezzo verso chi non la pensa come lui. Repubblica che - prosegue -, stando a quello che abbiamo visto anche sabato, dispone di una sua falange armata pronta a rispondere agli ordini di un sindaco, che pur di pescare consenso in quello stagno che lo ha portato alla rielezione nel 2016, non ha esitato a concedere loro l'utilizzo di immobili pubblici". L'attacco di Mara è durissimo: definisce "inquietante" il "sindaco della legalità che incoraggia l'illegalità sanando occupazioni abusive, in una città in dissesto finanziario". Per la Carfagna "siamo di fronte ad un sindaco che ritiene di avere le chiavi dell'ordine pubblico a Napoli e che non appare credibile nel suo ragionamento da improbabile Masaniello o paladino della sua identità napoletana. Spregiudicato e cinico come pochi, utilizza l'orgoglio dei napoletani solo per alimentare le sue convenienze politiche. Perché Napoli - sottolinea l'azzurra - non si difende dagli inaccettabili insulti e dalle vergognose offese che ha ricevuto negando una struttura per un comizio politico". Dunque, la conclusione: "La sceneggiata lasciamola ai professionisti del genere. Chi è chiamato ad amministrare lo faccia, con serietà. Forse però, considerato il soggetto, è chiedere troppo". De Magistris colpito, umiliato ed affondato.
Salvinius nella Contea del sud, scrive il 10 marzo 2017 Luigi Iannone su “Il Giornale”. Narrano le antiche cronache di un popolo gaudente e scaltro che abitava da tempo le pendici del Vesuvius; un monte che sbuffava con indolenza ed eruttava solo quando era infastidito del frastuono della città. Poveri in canna, ma famosi in tutto il Regno perché di buon cuore, gli abitanti di Neapolis erano talmente votati alla solidarietà e alla fratellanza da destare preoccupazioni alle varie dinastie di potenti che negli anni li governarono che, invece, volevano fare di quei sudditi razza organizzata e disciplinata. L’intento non fu mai raggiunto. I popolani si dedicavano alla pesca e al piccolo commercio ma passavano gran parte del giorno discorrendo di filosofia, arte e poesia. Per questo furono invidiati dai vicini e lo furono ancora di più quando si scoprì che la generosità nei sentimenti e la spensieratezza era frutto di una metafisica profonda e non di lascivo disfattismo. Popolo di cantori e di puri d’animo sempre pronti ad accogliere lo straniero da qualunque Contea provenisse, i neapolitani serbavano un segreto inconfessabile: la diversità derivava dalla “pigrizia’’, una virtù magica donata loro dal Dio Vulcano e che nel tempo si era secolarizzata in metafisica dell’esistenza. Grazie ad essa, erano in grado di incrementare naturalmente l’ozio creativo, combinandolo con riti pagani, superstizioni e credenze ma sempre liminare al fatalismo e mai oltrepassandolo. Neapolis era anche terra di fierezze inaspettate, di briganti e di capipopolo, di Masanielli e di rivolte. Ma era la pigrizia a dominare tutto. Regolava eccessi e faceva prevalere il buon senso. Passarono gli anni e le cose cambiarono. La virtù donata da Vulcano fu scoperta dai barbari delle terre confinanti. L’incantesimo svanì e si tramutò in corruzione dei costumi e dissolutezze. Neapolis divenne periferia fatiscente dell’impero e decadde al rango di cittadella. Ricettacolo per delinquenti e cantori volgari di neo-melodie. Non più dunque poesia ad allietare le radiose giornate ma sudicia prosa su bivacchi e meretricio, su furti e rapine; non soavi melodie modulate dalla sirena Parthenope ma stranianti e strazianti nenie gorgheggiate da adiposi giovincelli impomatati e sgraziate comari. Il morbo della decadenza la assalì velocemente e penetrò le zone collinari dove vivevano i ricchi signori. Obnubilò le menti anche dei più temprati nello spirito e impedì ai corpi di affrancarsi dal male come si era sempre fatto, e cioè con un giro di ‘taranta’ e riecheggiando ancestrali canti. Delle vecchie maschere e dell’arte finissima rimasero i cascami. Sopravvissero le imitazioni sbiadite di Masaniello incarnate di volta in volta dalle nuove dinastie regnanti e dagli ultimi reggenti: Laurus, il Comandante, poi Bassetino da Afragola, per lungo tempo contrastato da Musolina la sciantosa ed infine Demagistratus, signore nato in collina ma di mestiere finto ideologo dei rivoluzionari da vicolo. Narrano le antiche cronache che un giorno, un tal Matteuccio Salvinius venne dal nord per arringare le folle. Ma la ‘pigrizia’ non era più in possesso delle genti neapolitane e tutti i moderni abitatori del luogo uscirono dai nascondigli per scagliarsi contro il nuovo arrivato. Non lo avevano mai fatto contro i signori delle colline; non si erano mai rivoltati contro i finti artisti e i criminali saldatisi in associazione. Non avevano mai cacciato a pedate i vecchi reggenti e le storiche dinastie. Ma questa volta per i neapolitani fu diverso. Presero a scrivere pure una canzone che per un giorno diventò un inno. A capo dei rivoltosi si posero i 9999Poste i cui testi da qualche anno venivano declamati nelle scuole della Contea con grave spregio alle antiche liriche. Vi fu gran frastuono per tutta la serata e nulla più. Il giorno dopo Salvinius tornò nelle brume del nord, i 9999Poste e i Centri sociali si rinchiusero nelle loro fumisterie e tutti vissero felici e contenti, nascondendosi dietro finta pigrizia.
I tifosi del Napoli perdonano Quagliarella: "Fabio, sei figlio di questa città". I tifosi del Napoli hanno definitivamente perdonato Fabio Quagliarella per il suo addio agli azzurri nell'estate del 2010, scrive Marco Gentile, Domenica 12/03/2017, su "Il Giornale". Dopo le rivelazioni shock di Fabio Quagliarella, che ha raccontato dello stalking subito ai tempi del Napoli, i tifosi azzurri hanno pace con l'attaccante della Sampdoria. I supporters partenopei, durante il match giocato oggi pomeriggio contro il Crotone di Davide Nicola, hanno esposto uno striscione in Curva A: “Nell’inferno in cui hai vissuto… enorme dignità. Ci riabbracceremo Fabio, figlio di questa città”. Quagliarella ha giocato una sola stagione al Napoli, nel 2009-2010 e in estate, a sua insaputa, fu ceduto ai rivali storici della Juventus scatenando le ire dei tifosi azzurri che non capirono la scelta dell'attaccante di Castellammare di Stabia e lo riempirono di insulti. L'attaccante della Sampdoria ha prontamente risposto allo striscione dei tifosi del Napoli con il collega di Premium Sport, Valter De Maggio, che ha riferito del messaggio whatsapp ricevuto: “Sono emozionato e super felice. Questa è una domenica speciale per me: dopo la vittoria del derby, questo striscione è un bel gesto che mi fa finalmente riappacificare con la mia gente”.
Fabio Quagliarella, lacrime alle "Iene": "Ecco perchè ho lasciato il Napoli". Lʼex attaccante azzurro racconta alla trasmissione di Italia 1 un incubo durato cinque anni, scrive il 2 marzo 2017 TgCom24. "Sono passato per l'infame della situazione e farlo davanti alla propria gente fa male. Ogni volta che tornavo a Napoli cercavo di nascondermi, camuffarmi, per evitare che qualcuno mi dicesse qualcosa". Così il calciatore della Sampdoria Fabio Quagliarella, racconta alla iena Giulio Golia cosa significa essere perseguitati da uno stalker nascosto tra le sue amicizie più fidate: il poliziotto Raffaele Piccolo è oggi condannato a quattro anni di reclusione.
Fabio Quagliarella piange a Le Iene: “Io passato per infame, sono andato via dal Napoli perché vittima di stalking”. L'incubo di Quagliarella inizia quando un amico gli presenta Raffaele Piccolo, un poliziotto della postale di Napoli che avrebbe dovuto risolvere a Fabio un problema di password e che ora è stato condannato dal Tribunale monocratico di Torre Annunziata a quattro anni e otto mesi di reclusione, al risarcimento danni e all’interdizione dai pubblici uffici per cinque anni, colpevole di aver inviato lettere calunniose contro l’attaccante allora del Napoli e della Nazionale, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 2 marzo 2017. Fabio Quagliarella ha la voce rotta e gli occhi lucidi, articola le parole a fatica nel tentativo, vano, di trattenere le lacrime: seduto davanti a Giulio Golia de Le Iene, l’attaccante della Sampdoria racconta una storia, la sua, che in pochi conoscevano fino a pochi giorni fa ma che a lui è costata una gogna insopportabile: quella dell’addio forzato al suo Napoli, quella della parole durissime dei suoi tifosi. “Sono passato per l’infame della situazione. E credimi, passarlo davanti alla propria gente fa male”, inizia a raccontare Quagliarella. Ma qual è la vicenda che ha costretto l’attaccante a lasciare la sua città e che lo oggi lo porta a piangere davanti alla telecamere di ItaliaUno? È il 2009 quando Fabio indossa la maglia della squadra della sua città per dare il via a una stagione da tempo sognata e finita troppo presto: alla fine di quell’anno, l’attaccante lascia infatti la maglia azzurra per approdare alla Juventus di Conte. In molti lo chiamano “traditore”, in molti si chiedono il perché di questa scelta ma nessuna risposta arriva a sfiorare la verità: a costringere Quagliarella a prendere quella decisione è infatti una durissima vicenda di stalking. L’incubo di Quagliarella inizia quando un amico gli presenta Raffaele Piccolo, un poliziotto della postale di Napoli che avrebbe dovuto risolvere a Fabio un problema di password e che ora è stato condannato dal Tribunale monocratico di Torre Annunziata a quattro anni e otto mesi di reclusione, al risarcimento danni e all’interdizione dai pubblici uffici per cinque anni, colpevole di aver inviato lettere calunniose contro l’attaccante allora del Napoli e della Nazionale. Sì, perché quel Raffaele che avrebbe dovuto aiutare Fabio e con il quale Fabio aveva stretto un rapporto di amicizia era in realtà l’autore di lettere anonime in cui accusava l’attaccante di partecipare a party a base di droga con esponenti della camorra e di avere rapporti sessuali con ragazzine. “Che dicevano quelle lettere?”, chiede Golia a Quagliarella: “Tutto. Da foto di ragazzine nude, dove diceva sotto con tanto scritto che io ero un pedofilo, che io avevo a che fare con la camorra, che io avevo a che fare con la droga, che io avevo a che fare col calcio scommesse. Stiamo parlando di centinaia e centinaia di lettere. Non stiamo parlando di una o due lettere o due messaggi anonimi. A mio papà, quando io ero in giro gli arrivava un messaggio dove gli dicevano “Tuo figlio ora è in giro per Castellammare e ora gli spezziamo le gambe, ora lo ammazziamo”. A volte io ero fuori casa e avevo due o tre chiamate perse di mio papà perché io ero impegnato. Quando vedevo queste chiamate perse, la mente va subito a pensare cose brutte. Magari era successo qualcosa per esserci due o tre chiamate di mio papà senza risposta, c’è qualcosa che non va. Qualsiasi piccolezza nella tua testa era un pericolo, dicevi “È successo qualcosa”, perché sapevi che queste minacce… quando uscivi di casa, a un certo punto ti guardavi intorno, ti sentivi osservato, ti sentivi minacciato. Non sapendo chi fosse, guardavi tutti con altri occhi, con occhi dubbiosi, come a dire “E se è questo, e se è quello?” Non ti nascondo il clima di tensione che c’era in famiglia, lo puoi immaginare”. Anni che per l’attaccante della Sampdoria devono essere stati un incubo buono per un film di Polanski dove la verità e la menzogna non si fanno riconoscere e viene difficile perfino chiudere gli occhi per dormire. Anche perché Quagliarella, venuto a conoscenza di quelle lettere, finisce per chiedere aiuto proprio al “suo boia”, perché chi meglio di un agente della postale per aiutarlo a sporgere denuncia e a scoprire la verità? “Lo reputavo una persona di fiducia perché comunque faceva un lavoro importante, un lavoro che comunque… dove devi dare fiducia”, ha detto ancora a Le Iene. Fiducia, a chi lo stava rovinando. “Mandava le lettere alla Direzione Distrettuale Antimafia, mandava le lettere alla società, al Napoli. Mi ricordo che dovevamo andare a giocare in Svezia. Io ero uno dei titolari. Prima della gara mi chiamarono e mi dissero “No, tu non giochi, non giochi perché…. ti abbiamo venduto, quindi fai meglio a non giocare”, continua Quagliarella. Il racconto si fa a ogni parola più difficile: l’allontanamento da parte della società, il sospetto del padre di Fabio, primo a capire che forse dietro a quel Piccolo si nascondeva lo stalker, la scoperta in questura delle denunce mai depositate, la rabbia dei tifosi. “Io dico sempre, quando ripercorro la mia carriera, mi guardo dietro e dico: “Ho lasciato qualcosa di incompiuto”. Come se tu sei arrivato davanti alla porta e stai per tirare e ti tolgono il pallone”, conclude Quagliarella. Una storia raccontata con tale trasparenza ed emozione da spingere moltissimi tifosi napoletani a chiedere scusa a Fabio: “Perdonaci”, “Grande uomo”, “Sarà per sempre il 27 azzurro”, sono solo alcuni dei moltissimi commenti sul profilo Twitter dell’attaccante.
Napoli, come cambia il codice d'onore dei boss di strada. Marco Pirone, ex autista di boss, spiega: "Un tempo la malavita aveva delle regole: donne e bambini non si toccavano. Oggi non è più così", scrive Nadia Francalacci il 5 gennaio 2017 Panorama. "Ancora una volta il sangue di una bambina macchia le strade e i vicoli stretti del quartiere di Forcella. Ieri, per fortuna, è stata solo ferita ad un piede ma in quella zona della periferia di Napoli stanno prendendo il sopravvento bande di giovanissimi boss che si “vestono” di carattere e sparano a chiunque". Marco Pirone, ex autista di un boss oggi capotreno in servizio sulla Circumvesuviana, dopo l’episodio di ieri nel quale sono rimasti feriti una bimba di dieci anni e tre extracomunitari, spiega come è cambiata la malavita del napoletano e come sono cambiati i codici d'onore dei piccoli delinquenti di strada.
Annalisa, uccisa tra i vicoli di Forcella. Era il 27 marzo del 2004, nel quartiere di Forcella, quando due killer cercarono di colpire Salvatore Giuliano, detto "O rosso", all'epoca poco più che diciannovenne, nipote dei fratelli Giuliano considerato vicino al boss Ciro Giuliano conosciuto come "O barone", ucciso poi in un agguato nel 2007, quando sbagliarono mira e colpirono a morte Annalisa. “Annalisa prima di essere uccisa aveva immortalato in un diario molte considerazioni sul degrado del suo quartiere - spiega Pirone - diceva: "Le strade mi fanno paura. Sono piene di scippi e rapine. Quartieri come i nostri sono a rischio". Ma anche: "Vorrei fuggire, a Napoli ho paura". E Annalisa non è riuscita a fuggire, anzi, è rimasta uccisa proprio da quella violenza che tanto la spaventava. “Forcella non è cambiata. Anzi, forse è peggiorata" chiarisce Pirone. "Ma oggi a differenza del passato hanno preso il sopravvento giovani boss che non hanno una identità ma se la “creano” vestendosi di un carattere che non posseggono - prosegue Pirone – si esaltano da soli e si creano degli ideali che non esistono”. Pirone, una vita passata tra i vicoli di Scampia, spiega come oggi non esista più nessuna regola. “Una volta i boss avevano un codice d’onore che veniva applicato in modo ferreo. Le donne e i bambini non venivano mai toccati. Ad esempio, a Secondigliano, un affiliato piazzò su ordine di un boss una bomba in un vicolo. Poi vide arrivare una ragazzina e corse a togliere quella bomba. Nel tentativo di proteggere quella ragazza, il mafioso perse entrambe le mani. Oggi, non sarebbe mai accaduto. Non avrebbero mai tolto la bomba e quella bambina sarebbe morta”. Napoli è, dunque, destinata a rimanere la città dove i boss “sparano” in strada? “No, ma serve un impegno concreto da parte dello Stato e delle associazioni. Scampia è molto migliorata - conclude Marco Pirone – anche se sarà difficile estirpare completamente la cultura mafiosa, ma una forte presenza di associazioni sportive, culturali che tolgono i bambini dalla strada e danno loro un obiettivo di vita e degli ideali sani, assieme ovviamente alla presenza dello Stato, possono riuscire a cambiare il volto di questa città. Napoli è una città bellissima con tanta cultura e tantissime persone oneste che proprio come Annalisa Durante soffrono, in silenzio, di questa situazione”.
"Saviano? Uno speculatore che fa soldi sulla camorra". L'affondo del sindaco di Napoli De Magistris contro lo scrittore di Gomorra, scrive Luisa De Montis, Venerdì 6/01/2017 su "Il Giornale". Non è nuova la divergenza di opinioni e la conseguente polemica fra lo scrittore Roberto Saviano e il sindaco di Napoli Luigi de Magistris. Ma dopo le ultime prese di posizione di Saviano che nel commentare il ferimento di una bambina in una sparatoria ha parlato di una città in cui non c'è cambiamento, l'affondo dell'ex pm è duro, e arriva via Facebook. Il primo cittadino partenopeo mette nero su bianco che Saviano si arricchisce sulla pelle della città, e per questo non potrà mai ammettere che a Napoli le cose stanno cambiando. "Mi occupo di mafie, criminalità organizzata e corruzione da circa 25 anni, inizialmente come pubblico ministero in prima linea, oggi da sindaco di Napoli. Ed ho pagato prezzi alti, altissimi", premette de Magistris, che prosegue: "Non faccio più il magistrato per aver contrastato mafie e corruzioni fino ai vertici dello Stato. Non ti ho visto al nostro fianco. Caro Saviano, ogni volta che a Napoli succede un fatto di cronaca nera, più o meno grave, arriva, come un orologio, il tuo verbo, il tuo pensiero, la tua invettiva: a Napoli nulla cambia, sempre inferno e nulla più, più si spara, più cresce la tua impresa. Opinioni legittime, ma non posso credere che il tuo successo cresca con gli spari della camorra. Se utilizzassi le tue categorie mentali dovrei pensare che tu auspichi l'invincibilità della camorra per non perdere il ruolo che ti hanno e ti sei costruito. E probabilmente non accumulare tanti denari". Il sindaco ammette che "a Napoli i problemi sono ancora tanti, nonostante i numerosi risultati raggiunti senza soldi e contro il sistema, ma non è possibile che Saviano non si sia reso conto di quanto sia cambiata Napoli" e che lo scrittore sia "ignorante" per "mancata conoscenza dei fatti. Saviano - scrive de Magistris - non puoi non sapere. Non è credibile che tu non abbia avuto contezza del cambiamento. La verità è che non vuoi raccontarlo - prosegue il sindaco - Saviano è in malafede? È un avversario politico? Non ci credo, non ci voglio credere, non ne vedrei un motivo plausibile. Ed allora, caro Saviano, vuoi vedere che sei nulla di più che un personaggio divenuto suscettibile di valutazione economica e commerciale? Un brand che tira se tira una certa narrazione". E se Napoli e i napoletani "cambiano la storia, la pseudo-storia di Saviano perde di valore economico. Vuoi vedere, caro Saviano, che ti stai costruendo un impero sulla pelle di Napoli e dei napoletani? Stai facendo ricchezza sulle nostre fatiche, sulle nostre sofferenze, sulle nostre lotte. Che tristezza. Non voglio crederci. Voglio ancora pensare che, in fondo, non conosci Napoli, forse non l'hai mai conosciuta, mi sembra evidente che non la ami. La giudichi, la detesti tanto, ma davvero non la conosci. Un intellettuale vero ed onesto conosce, apprende, studia, prima di parlare e di scrivere. Ed allora, caro Saviano, vivila una volta per tutte Napoli, non avere paura". "Più racconti che la camorra è invincibile e che Napoli senza speranza e più hai successo e acquisisci ricchezza. Caro Saviano ti devi rassegnare: Napoli è cambiata, non speculare più sulla nostra pelle". In ogni caso, "senza rancore", "pensala come vuoi - conclude il sindaco - le tue idee contrarie saranno sempre legittime e le racconteremo, ma per noi non sei il depositario della verità".
L'attacco di de Magistris: "Saviano specula sulla pelle di Napoli". Il lungo post del sindaco su Facebook contro lo scrittore scrive il 6 gennaio 2017 "La Repubblica". Non è nuova la divergenza di opinioni e la conseguente polemica fra lo scrittore Roberto Saviano e il sindaco di Napoli Luigi de Magistris. Ma dopo le ultime prese di posizione di Saviano (che risponde definendo de Magistris un "populista") che nel commentare il ferimento di una bambina in una sparatoria ha parlato di una città in cui non c'è cambiamento, l'affondo dell'ex pm è durissimo, con toni mai usati prima, e arriva via Facebook. Il primo cittadino partenopeo afferma che "Saviano si arricchisce sulla pelle della città, e per questo non potrà mai ammettere che a Napoli le cose stanno cambiando". "Mi occupo di mafie, criminalità organizzata e corruzione da circa 25 anni, inizialmente come pubblico ministero in prima linea, oggi da sindaco di Napoli. Ed ho pagato prezzi alti, altissimi", premette de Magistris, che prosegue: "Non faccio più il magistrato per aver contrastato mafie e corruzioni fino ai vertici dello Stato. Non ti ho visto al nostro fianco. Caro Saviano, ogni volta che a Napoli succede un fatto di cronaca nera, più o meno grave, arriva, come un orologio, il tuo verbo, il tuo pensiero, la tua invettiva: a Napoli nulla cambia, sempre inferno e nulla più, più si spara, più cresce la tua impresa. Opinioni legittime, ma non posso credere che il tuo successo cresca con gli spari della camorra. Se utilizzassi le tue categorie mentali dovrei pensare che tu auspichi l'invincibilità della camorra per non perdere il ruolo che ti hanno e ti sei costruito. E probabilmente non accumulare tanti denari". Il sindaco ammette che "a Napoli i problemi sono ancora tanti, nonostante i numerosi risultati raggiunti senza soldi e contro il sistema, ma non è possibile che Saviano non si sia reso conto di quanto sia cambiata Napoli" e che lo scrittore sia "ignorante" per "mancata conoscenza dei fatti. Saviano - scrive de Magistris - non puoi non sapere. Non è credibile che tu non abbia avuto contezza del cambiamento. La verità è che non vuoi raccontarlo - prosegue il sindaco - Saviano è in malafede? E' un avversario politico? Non ci credo, non ci voglio credere, non ne vedrei un motivo plausibile. Ed allora, caro Saviano, vuoi vedere che sei nulla di più che un personaggio divenuto suscettibile di valutazione economica e commerciale? Un brand che tira se tira una certa narrazione". E se Napoli e i napoletani "cambiano la storia, la pseudo-storia di Saviano perde di valore economico. Vuoi vedere, caro Saviano, che ti stai costruendo un impero sulla pelle di Napoli e dei napoletani? Stai facendo ricchezza sulle nostre fatiche, sulle nostre sofferenze, sulle nostre lotte. Che tristezza. Non voglio crederci. Voglio ancora pensare che, in fondo, non conosci Napoli, forse non l'hai mai conosciuta, mi sembra evidente che non la ami. La giudichi, la detesti tanto, ma davvero non la conosci. Un intellettuale vero ed onesto conosce, apprende, studia, prima di parlare e di scrivere. Ed allora, caro Saviano, vivila una volta per tutte Napoli, non avere paura". "Più racconti che la camorra è invincibile e che Napoli senza speranza e più hai successo e acquisisci ricchezza. Caro Saviano ti devi rassegnare: Napoli è cambiata, non speculare più sulla nostra pelle". In ogni caso, "senza rancore", "pensala come vuoi - conclude il sindaco - le tue idee contrarie saranno sempre legittime e le racconteremo, ma per noi non sei il depositario della verità". Nel pomeriggio, parlando con Rainews, de Magistris aggiunge: "Ho detto ciò che penso, perché un passo indietro? Io non penso che non devo fare né un passo avanti né uno indietro. Avete letto cosa sta scrivendo Saviano in questi giorni? Si chieda a lui di fare un passo indietro e se comincia con un po’ più di umiltà a vivere Napoli. La camorra si contrasta con i fatti e nessuno ha esclusiva della lotta - prosegue il sindaco - qui non si tratta di una invettiva di Luigi de Magistris contro Saviano, la mia è una risposta, in quanto sindaco di Napoli, a una inaccettabile ricostruzione dei fatti che Saviano ha fatto e che segue a un'ulteriore sequela di ricostruzioni fuori dalla realtà che lui ha fatto negli ultimi tempi".
De Magistris e Saviano, il confine superato, scrive con accorata difesa Attilio Bolzoni il 7 gennaio 2017 su "La Repubblica", collega di Saviano e che scrivono entrambi su Repubblica/Espresso. Non poteva dire nulla di più odioso, Luigi de Magistris. Lui, Roberto Saviano, che si arricchisce sulla pelle di Napoli. Lui che aspetta la “sparatina” o l’“ammazzatina“ per far lievitare il suo conto in banca. Sulla pelle di Napoli si arricchisce la borghesia camorrista, sulla pelle di Napoli si arricchiscono i pascià intoccabili del sottobosco amministrativo, politico e imprenditoriale che trafficano in tangenti e appalti, sulla pelle di Napoli si arricchiscono ruffiani e spacciatori e riciclatori. Si arricchisce un'umanità disumana che arraffa ogni giorno tutto quello che può arraffare. Ma Luigi de Magistris, ex pubblico ministero di prima linea come si definisce lui, che non fa più il magistrato "per avere contrastato mafie e corruzioni sino ai vertici dello Stato", come sindaco di Napoli sta intraprendendo un duello che non potrà mai vincere se non nel piccolo cortile di casa sua. È una mossa che supera un confine che nessuno - soprattutto un ex "magistrato di prima linea" - dovrebbe mai oltrepassare. I confini contano. Sempre. Non c'è soltanto un'eccitazione sopra le righe nelle parole contro Saviano - qui non sono importanti i dettagli o le posizioni e le opinioni sulla vera o presunta rinascita di una capitale meridionale, cruciale è la sostanza della sua dichiarazione di guerra - ma c'è anche un calcolo politico dove il sindaco sembra intravedere l'incasso di un profitto dall'attacco sferrato contro un italiano che continua a parlare e a scrivere di camorra e di quella Napoli. Inaccettabile per uno che è stato magistrato e che Napoli adesso la rappresenta, la guida, la sente come cosa sua e che non vuole scocciatori e osservatori critici fra i piedi. La reazione di de Magistris è molto più grave di come potrebbe sembrare a prima vista, fatta solo d'istinto e passione. C'è di più, c'è qualcosa di più inquietante per noi che di queste faccende di mafie ci occupiamo da tanto tempo. C'è un capovolgimento, c'è un pericoloso deragliamento di de Magistris e una scelta di campo che cancella un passato che lui stesso altezzosamente rivendica e che subito dopo rimuove attraverso un linguaggio che non piace per niente. Somiglia troppo a quello di quei personaggi che attaccano da anni Saviano con le stesse frasi, le stesse insinuazioni, lo stesso tono subdolo che serve sostanzialmente per mettere al centro della questione lui e non quello che racconta. Il problema è Saviano o una certa Napoli? Il sindaco de Magistris è scivolato o si è coscientemente e opportunisticamente gettato in questa trappola. Ne ricaverà forse vantaggio dalle sue parti con qualche titolone in queste ore, sicuramente ha fatto un passo che lo segnerà per il futuro. Troppo scaltro, troppo. E così scontato, così interessato che alla lunga il suo assalto contro Saviano - ne siamo convinti - gli si ritorcerà contro. Avrebbe potuto rispondergli garbatamente manifestando le sue perplessità, ricordandogli i cambiamenti positivi di Napoli durante la sua sindacatura, avrebbe potuto contestare le sue cronache fornendo spiegazioni. Invece ha preferito colpirlo alle spalle con il più banale e insultante rimprovero. Non è stato al suo posto come sindaco. E nemmeno come ex magistrato "di prima linea". E neanche come cittadino. Ha usato argomenti che neppure i sindaci di Palermo del grande "sacco edilizio" o quelli che assistevano muti e sordi alle carneficine degli anni Ottanta avevano osato agitare così violentemente, contro giornalisti e scrittori del tempo che descrivevano una città losca e una realtà feroce. Il sindaco di Napoli non gradisce più che si parli di quello, delle camorre, perché adesso a Napoli c'è lui. Se ne poteva parlare prima, ma ora non più. Come quegli altri sindaci o quegli altri potenti sparsi per l'Italia che non vogliono rompiballe nei dintorni. Un giorno è Lirio Abbate che raccoglie informazioni su Carminati e la banda di neri e di compagni e di verdi prezzolati che regna sul Campidoglio, un altro giorno è Giovanni Tizian che scopre i legami di Reggio (non Calabria, ma Emilia) con i boss della 'ndrangheta. Una volta tocca alla giovanissima Ester Castano che denuncia l'infiltrazione mafiosa nel tranquillo comune di Sedriano (poi sciolto per mafia, primo comune in Lombardia), un'altra volta tocca a Paolo Borrometi che per avere descritto le vergogne di Scicli è isolato come un cane rognoso anche dai suoi colleghi. Tutti, a turno. Roberto, Ester, Lirio, Paolo, Giovanni. Mentre quegli altri nei convegni continuano a riempirsi la bocca di giornalismo d'inchiesta. È bello il giornalismo d'inchiesta, vero sindaco de Magistris? Sì, ma lontano da casa propria.
Stefano Surace: Saviano? un goffo traditore della propria terra..., scrive il 3 gennaio 2017 “Affari Italiani”. Saviano? Un goffo traditore della propria terra... che con le sue panzane sistematiche contro Napoli e il Sud fa il gioco di certi ambienti polentoni che l'hanno creato appositamente dal nulla. Dopo che l'altro manutengolo che avevano creato a quello scopo prima di lui, Pino Aprile, era stato ormai smascherato, con una piccola mano di ABCnews. E così - ha ora dichiarato ad ABCnews Stefano Surace, l'asso del giornalismo d'inchiesta e maestro di arti marziali di rinomanza mondiale - quei polentoni hanno ritenuto di rimediare creando questo Saviano e pubblicizzando urbi et orbi le sue fandonie fino a farle diventare il best seller mondiale della menzogna sistematica. Ed ora il Saviano ha provato a prendersela con Luigi De Magistris, il sindaco di Napoli... E ciò non a caso, visto che il De Magistris è diventato una specie di punta di diamante dei meridionali determinati a reagire alla depredazione e distruzione sistematica della propria terra e della propria gente da parte di quegli ambienti "padani". Ma a De Magistris, per smascherare il Saviano, sono bastate tre parole: "Non conosce Napoli" Sette guardie del corpo...!!! Ma il più bello è che al questo Saviano è stata attribuita una scorta di ben... 7 guardie del corpo, sostenendo che sarebbe sotto tiro mortale della camorra...Mentre la camorra è ben contenta che resti vivo e vegeto, poiché in realtà costui le fa una bella pubblicità facendola apparire mondialmente come praticamente invincibile...E addirittura, con le trasposizioni televisive, la mitizza agli occhi dei giovani e adolescenti, spingendoli magari a farne parte, o quanto meno ad emularla in gruppetti di minorenni aggressivi. Vedere al riguardo quel suo recente libercolo "La paranza dei bambini", che sarebbe meglio intitolare "Le spaparanzate del Saviano contaballe". In effetti costui sa bene che dalla camorra non corre alcun rischio visto che, invece di attenersi alle normali cautele usate da chi è sotto scorta, non fa che passare da un intervento pubblico all'altro, perfino dando lezioni in assemblee di studenti in certe università, e da un'allocuzione televisiva all'altra. Il che non gli sarebbe certo possibile se fosse davvero sotto tiro della camorra la quale, con quei comportamenti di costui, se volesse non ci metterebbe niente a farlo fuori, scorta o non scorta. Ma vediamo qualche dettaglio...Quegli ambienti polentoni hanno dunque preso una perfetta nullità (Saviano andava presentandosi come giornalista pur non essendo neanche iscritto all'albo) e l'hanno montato a tutto spiano, facendolo passare per un vero napoletano che conosce a fondo Napoli, i suoi abitanti, i suoi vari aspetti e quartieri... In realtà costui è nato effettivamente a Napoli, ma in una clinica dove sua madre si era recata apposta per partorirlo, ritornandosene subito dopo alla sua Caserta, località ben diversa da Napoli. Per cui questo Saviano non ha mai conosciuto praticamente nulla direttamente di questa complessa, affascinante e invidiatissima Napoli, unica al mondo, avendovi soggiornato e solo saltuariamente allorché vi aveva poi frequentato bene o male l'università. Tuttavia, in esecuzione di quella "missione" da manutengolo anti-Napoli e anti-Sud per la quale è stato creato appunto dal nulla, si è dato a lanciare una valanga di panzane l'una più grottesca dell'altra, attribuendo a Napoli e al Sud una generale criminalità che affermava falsamente aver constatato direttamente di persona. Omettendo scrupolosamente di precisare che, nella travagliata Penisola, il criminale che vi impera in realtà è proprio lo stato cosiddetto italiano. Stato raffazzonato un secolo e mezzo fa (1861) da un fecciume piemontese-lombardo, accozzaglia di gente primitiva e abbondantemente tarata, calata da quelle loro zone retrograde ed affamate per depredare e distruggere un Sud prospero e civile, rendendosi autori di un sistematico crimine contro l'umanità. Degni discendenti diretti di unni, ostrogoti, visigoti e simili, col loro odio viscerale verso i popoli civili che hanno in quel caso espresso contro una gente da millenni fonte primaria di cultura e civiltà per il mondo intero: bruciando villaggi, uccidendo e seviziando in massa uomini, donne, preti, bambini, distruggendo i raccolti agricoli, incendiando foreste compresi i villaggi e gli abitanti che vi si trovavano. Praticando metodicamente il terrore, il saccheggio, la tortura e sevizie inaudite contro inermi cittadini, gesta al cui confronto quelle famigerate delle SS naziste appaiono cosette da asilo infantile. Tutto ciò reso possibile dal fatto che, col decesso prematuro dell'efficiente Ferdinando II di Borbone, si era trovato proiettato sul trono delle Due Sicilie, a Napoli, Francesco II detto “Franceschiello”, giovane lontano anni-luce dall'efficacia dei suoi predecessori, essendo affetto da tare genetiche tipicamente piemontesi ereditate dalla madre, una Savoia. Sicché, grazie alla serie-record di idiozie commesse da questo Franceschiello - dettagliate da ABCnews in precedenti servizi - poté verificarsi il fatto fino allora inconcepibile che un Piemonte, zona fra le più sottosviluppate e malandate d’Europa - la cui popolazione, come quella della Lombardia, era fra l'altro ritenuta scientificamente campione mondiale di cretinismo clinico genetico - poté invadere un regno prospero, prestigioso e infinitamente più potente anche militarmente come quello delle Due Sicilie, annetterselo, depredarlo delle sue ingenti ricchezze e raffazzonare disastrosamente uno Stato cosiddetto italiano. Con effetti particolarmente distruttivi per le popolazioni meridionali, che da 154 anni si prolungano tuttora - basti pensare alla cosiddetta "terra dei fuochi - e che, essendo ormai del tutto insostenibili, rendono indispensabile un'urgente secessione del Sud da questo stato criminale fin da quando è nato. Da notare che nel Sud certi fenomeni fuori-legge come la camorra - in realtà ben poca cosa rispetto alla colossale criminalità dello stato - sono stati creati proprio da questo, che se ne serve per i propri fini, fra cui scaricare su di essi le proprie malefatte... Stato che contrasta questi fuori-legge solo se entrano in concorrenza coi propri misfatti o interessi, o magari (succede anche questo) cercano di opporsi a certi suoi abusi contro la popolazione. 9 volte più ricco dell'intera padania. Orbene, contro questa aberrante situazione la gente meridionale e vari suoi rappresentanti - Luigi De Magistris sindaco di Napoli, Vincenzo De Luca, Michele Emiliano, Marcello Pittella, Mario Oliveiro rispettivamente governatori di Campania, Puglia, Basilicata e Calabria - stanno ormai reagendo con un sincronismo che esprime bene lo slancio ormai generale della gente del Sud. Si tratta di un fenomeno di importanza capitale. Basti considerare che finora ogni iniziativa di qualsiasi dirigente meridionale valido veniva puntualmente bloccata in un modo o nell'altro, attraverso Roma, da quegli ambienti del nord che da 155 anni depredandolo il Sud. Si eliminava insomma a Sud sistematicamente ogni dirigente valido, risparmiando solo quelli disposti a fare i manutengoli di quegli ambienti. Si assiste ora invece al fenomeno di dirigenti meridionali che, benché siano state perpetrate cose incredibili per bloccarli, reagiscono decisamente ed efficacemente, appoggiati dalla popolazione. Il che terrorizza i suddetti ambienti polentoni, poiché il 60% delle loro risorse proviene tuttora dal Sud, sicché se questo si distacca rischiano di tornare alla loro atavica miseria. Basti dire che all'atto della cosiddetta "unità" il Sud era semplicemente 9 volte più ricco dell'intera polentonia: Due Sicilie 443,2 milioni di lire-oro, polentonia tutta intera (Piemonte, Lombardia, Veneto, Liguria, Parma, Piacenza, Modena tutte insieme) 49,7 milioni di lire-oro. Insomma erano proprio dei poveracci questi polentoni, prima della cosiddetta "unità"...Situazione miseranda da cui sono poi potuti uscire solo grazie all’arrivo massiccio, in Lombardia e Piemonte, dei meridionali che, in linea con la loro tradizione di civilizzatori, hanno spinto quelle regioni al progresso. E così lombardi e piemontesi, dalla loro polenta fonte di pellagra e conseguente dilagante idiozia (che si aggiungeva al loro diffuso cretinismo clinico genetico scientificamente accertato) erano potuti passare ai salutari napoletanissimi spaghetti...Tuttavia i meridionali poterono far evolvere piemontesi e lombardi solo superficialmente, le tare di quella gente essendo appunto genetiche e quindi praticamente inestirpabili. Renzi vattene a casa... Non c'è dunque da sorprendersi se ora Saviano il manutengolo sia stato lanciato contro De Magistris, il quale parlando di "Sud ribelle", "Napoli capitale", "Renzi vattene a casa" tra la folla in delirio è diventato una sorta di punta di diamante dei meridionali determinati a reagire. Additando, in piena assonanza con lo spirito ormai generale dei meridionali, quegli ambienti "padani" come i peggiori nemici di Napoli e del Sud, e indirizzando a Renzi, capo del governo cosiddetto italiano, un bel "ti devi cagare sotto". Espressione ben adeguata rispetto agli insulti rabbiosi e le insolenze deliranti usati massicciamente contro Napoli e il Sud da quei polentoni per distogliere l'attenzione dalle loro malefatte, e dalle loro tare genetiche. Esemplare il caso di Donatella Galli, consigliere provinciale di Monza e Brianza in quota Lega Nord, che si era data a lanciare, come tanti suoi simili, contro i meridionali espressioni tipo "Forza Etna, forza Vesuvio, forza Marsili (i tre principali vulcani del meridione, compreso quello sottomarino...) distruggili". Sennonché questa tizia e suoi simili devono portare davvero iella alla loro parte, poiché i disastri tellurici si sono poi purtroppo effettivamente verificati, e particolarmente gravi, tuttavia non certo a Napoli e nel Sud ma proprio a nord (Emilia) e al centro fra Umbria e Marche (Norcia, Amatrice, Accumoli, Preci, ecc.). Comunque sia il Renzi che gli ambienti da lui rappresentati già si "cagavano sotto" abbondantemente, terrorizzati dall'idea che il Sud li molli, riappropriandosi della propria indipendenza, delle proprie risorse, riprendendo il proprio congeniale cammino di efficace progresso economico e culturale sconvolto da quella crimine cosiddetta “unità”, nel qual caso appunto le zone padani che rischierebbero di ripiombare nella loro tradizionale miseria...Ed ora il De Magistris, dopo aver smascherato il Saviano semplicemente con quelle tre parole ("non conosce Napoli") è possibile che lo tratti ancora peggio di come ha trattato vittoriosamente il Renzi. Visto che il Saviano non solo è un nemico accanito di Napoli e del Sud, ma è ancor più spregevole del Renzi poiché è nato, bene o male, proprio nel Sud ed è dunque indiscutibilmente un turpe traditore della propria terra. C'è chi afferma che comunque in fondo questo Saviano un certo talento a scrivere ce l'ha... Ma ciò, date le circostanze, lo rende ancor più indegno, poiché invece di usarlo fra l'altro ad onore e difesa della propria terra, l'ha utilizzato a sua bugiarda denigrazione mercenaria. Da aggiungere che Stefano Surace, il giornalista e scrittore specializzato in inchieste di cui alcune hanno prodotto profonde riforme non solo in Italia, appare deciso ad aggiungere alla lunga serie di sue battaglie “impossibili” ma sempre vittoriose, quella per far recuperare l’indipendenza a questa sua amata terra delle Due Sicilie in cui è nato e si è formato, e di cui non tollera l’attuale drammatica situazione. E - grazie al suo carisma di combattente vittorioso e senza paura acquistato in vari decenni di battaglie di forte interesse pubblico non solo in Italia - è diventato per coloro che intendono difendere realmente gli interessi morali e materiali del Sud Italia un punto di riferimento, una fonte di ispirazione e suggerimenti anche strategici (frutto della sua straordinaria esperienza in conflitti particolarmente duri ma appunto sempre vittoriosi) per azioni da effettuare soprattutto in piena concordia fra i vari esponenti meridionali, mettendo da parte ogni deleteria rivalità. Indirizzando così la propria combattività tutti insieme contro il nemico comune, cioè i suddetti ambienti polentoni parassiti. Da ABCnews Europa (agence européenne de presse)
Dopo Salvini si scatena la Meloni: Saviano umiliato con tre parole, scrive “Libero Quotidiano" il 5 gennaio 2017. Esilarante sfottò di Giorgia Meloni su Twitter. La leader di Fratelli d'Italia prende in giro Roberto Saviano che dice di "sognare dei sindaci africani per salvare il mio Sud martoriato". "Vada a vivere in Africa allora", cinguetta la Meloni: "Così esaudisce il suo sogno e quello di diversi italiani". Ma la risposta dell'autore di Gomorra non si è fatta attendere, così sempre su Twitter, ribatte: "In Africa con Salvini a recuperare i fondi pubblici della Lega finiti in Tanzania e con Meloni a scusarsi per le atrocità nelle ex colonie". A Giorgia l'ultima parola: "Saviano purtroppo quando non copi cose scritte da altri, spari idiozie ciclopiche. Non hai un amico che possa aiutarti coi social?".
Giorgia Meloni. "Saviano dice che sogna sindaci africani. Vada a vivere in Africa allora. Così esaudisce il suo sogno e quello di diversi italiani".
Scherza con i Fanti, ma lascia stare i Santi...Camorrista per un’istanza di rimessione.
Condannato per camorra, minacciò anche Saviano: ma può tornare a fare l'avvocato. Santa Maria Capua Vetere: Michele Santonastaso è stato condannato per tre volte. Lo scrittore: "Oggi i clan hanno vinto". Il ministro Orlando: "La sospensione non è di nostra competenza", scrive Conchita Sannino il 31 maggio 2017 su "La Repubblica". Arrestato e condannato, per tre volte. Per aver messo la sua funzione di avvocato al servizio della camorra, stando a diverse sentenze di primo grado. Eppure Michele Santonastaso, del foro di Santa Maria Capua Vetere – parte di quel Casertano che geograficamente è il cuore di Gomorra - non solo è libero, in assenza di sentenze passate in giudicato. Ma, clamorosamente, per una decisione del Consiglio disciplinare del distretto dell’Ordine degli avvocati, che ha revocato la sua sospensione cautelare dall’albo, può tornare a fare il legale. L’avvocato si trova ora costretto all’obbligo di dimora a Milano. Ma, per effetto di una decisione dei suoi colleghi, potrà esercitare nuovamente quella professione che lo avrebbe trasformato nell’ alter ego di un padrino. Storia emblematica della giustizia italiana, quella che riguarda uno dei penalisti ritenuti “colletti bianchi” del cartello criminale che fa capo ai più temibili padrini della camorra. Santonastaso è stato condannato a 11 anni, per associazione di stampo camorristico, con il clan dei casalesi, nel dicembre 2014. Ha poi collezionato altre condanne, sempre di primo grado, per le minacce aggravate dalla finalità mafiosa: rivolte sia contro Roberto Saviano (ancora 2014, sentenza del Tribunale di Napoli) sia contro i magistrati Raffaele Cantone e Federico Cafiero de Raho (Tribunale di Roma, luglio 2016). Tuttavia, Santonastaso, che per i giudici non è stato solo il difensore ma soprattutto un “complice” del padrino di camorra Francesco Bidognetti, ora potrà esercitare la professione. Il motivo? Lo spiega la risposta scritta firmata dal ministro della Giustizia, Andrea Orlando, riportata da Il Sole 24 ore. “Dalle informazioni acquisiste (…) consta che l’avvocato Santonastaso era stato sospeso dall’esercizio della professione in via cautelare", dopo l’arresto con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa dell’ottobre 2010. Decisione poi confermata nel settembre del 2014. Poi, continua il ministro Orlando, “in seguito all’entrata in vigore del nuovo regolamento del consiglio nazionale forense, (…) il fascicolo è stato trasmesso al competente Consiglio distrettuale di disciplina di Napoli che con delibera del 16 marzo 2016, secondo quanto riferito, ha revocato il provvedimento di sospensione cautelare”. Una materia che, come Orlando precisa in chiusura, “è sottratta alla vigilanza e all’ingerenza del Ministero della Giustizia". In sintesi: Andrea Orlando ne è colpito, ma non può farci nulla. Durissimo, il commento di Roberto Saviano: “Oggi la camorra ha vinto. Ha vinto definitivamente. E ha vinto nell'indifferenza di un Paese perduto e di una politica che, cercando solo consenso, fa spallucce a chi chiede giustizia. Ma un Paese in cui la giustizia non funziona, nulla altro può funzionare”. Solo un mese fa era stato trasmesso dalla Rai ("Un giorno in pretura") il processo a Santonastaso, e ai due boss Antonio Iovine e Francesco Bidognetti, tutti accusati di "minacce aggravate dalla finalità mafiosa", per quella istanza di remissione che il penalista lesse in un'aula bunker, nel 2008. Santonastaso sfidò, quel giorno durante il processo Spartacus (che avrebbe visto la conferma di dozzine di ergastoli) sia lo scrittore di "Gomorra", sia i magistrati anticamorra Federico Cafiero de Raho e Raffaele Cantone (rispettivamente fondatore e prosecutore dell’architettura delle accuse contro il gotha dell’impero criminale dei casalesi, e analoghe parole offensive usò anche per la giornalista oggi senatrice del Pd Rosaria Capacchione. Intimò a Saviano, Santonastaso leggendo quella istanza firmata da Iovine e Bidognetti, di "fare bene il suo lavoro": definendolo "giornalista prezzolato". La sua opera – sempre secondo quella lettera – stava condizionando l'esito dell'appello del maxi processo Spartacus. Il processo si chiuse, il 10 novembre 2014 al Tribunale di Napoli, con una sentenza sorprendente. Condannato Santonastato a un anno di carcere, pensa sospesa. Assolti, invece, i due padrini Francesco Bidognetti e Antonio Iovine (quest'ultimo, all'epoca già pentito) poiché non fu possibile dimostrare che i vertici ne fossero stati gli ideatori di quell’istanza-proclama, pur essendone oggettivamente coloro che avrebbero dovuto trarne il beneficio. Assolto anche l'altro avvocato imputato, Carmine D'Aniello. I pubblici ministeri in aula, Antonello Ardituro e Cesare Sirignano in più occasioni, avevano messo in risalto che dopo la lettura di quell’istanza di remissione scattò una vera e propria stagione di sangue e rappresaglia del potere mafioso dei casalesi. Che lanciò nell’arena, contro innocenti e testimoni, il killer stragista Giuseppe Setola, il cui programma di morte fece 18 morti in 7 mesi, fino al massacro di sei cittadini ghanesi. Santonastaso, solo 40 giorni dopo, sarebbe stato condannato anche a Santa Maria Capua Vetere per l'accusa più pesante: associazione di stampo mafioso. Sempre con il boss Bidognetti. Per la giustizia italiana, era un’articolazione del clan. Un colletto bianco. Che, ora, può esercitare la professione.
Saviano: "In Italia giustizia da incubo. E la lotta alla mafia è sparita dalle priorità politiche". Intervista all'autore di Gomorra dopo la decisione che riammette alla professione di avvocato l'uomo che lo ha minacciato per conto dei clan: "La camorra vince nell'indifferenza di un Paese perduto. Il ministro Orlando? Non può lavarsene le mani", scrive Conchita Sannino l'1 giugno 2017 su "La Repubblica". "Oggi la camorra ha vinto, ha vinto definitivamente". Durissimo, quasi scritto di pancia, il post su Facebook di Roberto Saviano. Lo scrittore guarda dall'America alla parabola di un avvocato accusato di collusioni per quell'istanza di remissione letta in un'aula nel 2008: eppure "riabilitato" alla professione per automatismi di garanzia interni. L'autore di Gomorra non parla solo come suo ex bersaglio di minacce. "La camorra vince nell'indifferenza di un Paese perduto e di una politica che, cercando solo consenso, fa spallucce a chi chiede giustizia", riflette. "Io ho una voce pubblica, ascolto. Tanti altri, no".
Saviano, è solo un problema di giustizia pigra e distante?
"L'amministrazione della giustizia in Italia è più che un incubo: è un dramma. E forse è il principale responsabile del collasso delle nostre istituzioni e della nostra credibilità internazionale".
Si aspettava questo epilogo?
"Non mi aspettavo certo che dopo quasi dieci anni da quella lettura in aula fatta da Santonastaso, non ci fosse ancora un giudizio definitivo. A quasi dieci anni, un uomo condannato per aver minacciato in aula per conto dei clan di camorra, un signore che - secondo la sentenza - ha cambiato per sempre la "comunicazione di camorra", diventando portavoce dei clan e indicando dei bersagli in caso di condanna, oggi torna a fare l'avvocato. Detto questo, penso che c'è anche una marginalizzazione del problema mafie".
Sta dicendo che la priorità del contrasto ai vari livelli del crimine è sempre meno sentita, anche dalla politica?
"È evidente, nel momento in cui la politica ha come unico obiettivo quello di costringere la cittadinanza a continue elezioni, la lotta ai clan non è l'unica cosa ad essere definitivamente sparita tra le priorità della politica. Il Mezzogiorno è completamente sparito dall'agenda, non esiste più. Si parla di 6mila licenziamenti all'Ilva e la risposta della politica è l'ennesima campagna elettorale. Viene voglia di stracciare la scheda elettorale".
Il ministro Orlando sottolinea che i provvedimenti disciplinari dell'avvocatura non sono materia in cui un Guardasigilli può intervenire. Sono garanzie, è la democrazia.
"Ma il collasso di una democrazia è attestato anche dal fatto che nessuno ha torto, ma nessuno ha ragione. Il ministro della Giustizia dice che la decisione è sottratta alla sua giurisdizione: vero, anche paradossale. Prendiamo il processo nato dalle minacce che mi ha rivolto Santonastaso in aula nel 2008: la condanna di primo grado è arrivata a novembre 2014. Quasi tre anni dopo, il processo di appello non è ancora iniziato tra composizione anomale del collegio giudicante, difetti di notifica, e due diverse richieste di astensione da parte del presidente del collegio a causa di rapporti di conoscenza con l'imputato. Richieste incredibilmente rigettate dal presidente della Corte di Appello di Napoli. La giustizia è al collasso, questo è il punto. Su questo, il ministro della giustizia non può lavarsene le mani. Non su questo".
La criminalità ha molti mestieri: si spara nel napoletano, ma i clan gestiscono insediamenti produttivi, dirottano voti alle amministrative.
"È evidente a chiunque conosca il Sud e le sue dinamiche criminali, a chi lo ama e vede lo stato di totale abbandono in cui versano intere province, che nessuno dei partiti sulla scena politica attuale è in grado di controllare il proprio elettorato al Sud. Perché, dopo aver lasciato morire l'economia, ha in gran parte consegnato il Sud alle cosche. I clan dirottano i loro voti, è vero, ma attenti: nel rapporto tra la politica e organizzazioni criminali, non è la politica a controllare le cosche. Sono i cartelli dei boss a controllare la politica".
Polemiche per la revoca della sospensione all’avvocato Santonastaso, condannato per aver aiutato i Casalesi, scrive il 31 maggio 2017 "Cronache della Campania". Polemiche per la revoca della sospensione cautelare dalla professione nei confronti dell’avvocato Michele Santonastaso, condannato in primo grado per associazione per delinquere esterna e per le minacce a Roberto Saviano, il procuratore Federico Cafiero De Raho e la giornalista e senatrice Rosaria Capacchione. Il Consiglio distrettuale di disciplina dell’Ordine degli Avvocati di Napoli ha revocato la sospensione cautelare dalla professione dell’avvocato. Il legale, che appartiene al Foro di S. Maria Capua Vetere, era stato sospeso nel 2010 dall’Ordine in via cautelare, e la decisione era stata confermata nel 2014. Successivamente all’approvazione del nuovo regolamento di disciplina del Consiglio nazionale forense la vicenda e’ stata rimessa al Consiglio Distrettuale di Napoli, che ha disposto la revoca del provvedimento di sospensione cautelare. L’avvocato, ex legale di boss del clan dei Casalesi aveva letto in un’aula una lettera che per i tre destinatari e i giudici era minacciosa. La decisione ha sollevato numerose polemiche, ma la revoca arriva per un automatismo di legge e non per volontà del consiglio di disciplina degli avvocati di Napoli. A spiegare cosa è accaduto Franco Tortorano, presidente del Consiglio distrettuale. “Non ha vinto la camorra. La disciplina è una materia legata strettamente agli elementi, ma soprattutto abbiamo delle regole – spiega Tortorano – la sezione non ha lo ha riabilitato, ha fatto solo quello che per legge doveva fare. La sospensione dall’esercizio della professione si divide in due fasi. Quella cautelare non può andare oltre un anno in attesa di una revoca. Se scadono i termini e non ci sono nuovi elementi per tenere la sospensione, quest’ultima automaticamente viene revocata. E gli elementi vengono valutati sulla scorta delle condanne, in questo caso solo quelle di primo grado. E poi c’è quella definitiva, dove si arriva alla radiazione che è strettamente legata alla sentenza dei tre gradi di giudizio. Santonastaso ha impugnato la sentenza di primo grado e fin quando non ci sarà l’Appello tecnicamente non può essere radiato. Oppure può essere radiato, ma se poi in Appello e al terzo grado di giudizio viene assolto decade automaticamente anche la radiazione”. Santonastaso è stato condannato nel 2014 a 11 anni per associazione di stampo mafioso, ritenuto legato al gruppo del boss Francesco Bidognetti. Tortorano ribadisce che la decisione non dipende da una loro decisione, ma di “una prassi; trascorso un anno dall’arrivo nei nostri uffici delle sospensioni dai vari Ordini e non c’è pronuncia, automaticamente la sospensione viene revocata. Ma non solo. La disciplina è legata anche all’impugnazione delle sentenze e ai tre gradi di giudizio. La pratica di Santonastaso ora è nelle mani di un nuovo istruttore del consiglio di disciplina che dovrà valutarne gli elementi in base alle condanne. Il consiglio di disciplina ha in esame attualmente circa 1.850 casi e ha costituito oltre 500 sezioni. Tra le pratiche, quella relativa a Nicola Cosentino, anche lui avvocato. “E’ ovvio che sono tante e spesso non lavoriamo in condizioni adeguate – dice il presidente – ma il problema non è nemmeno questo, il problema è che noi abbiamo un sistema giudiziario che ha determinate cautele e non facciamo altro che rispettare le leggi. Santonastaso non è stato riabilitato. Capisco che ci troviamo di fronte a una materia complessa da capire, ma gridare al lupo al lupo senza sapere quali sono le regole e le leggi che si devono rispettare mi sembra eccessivo”. “La camorra ha vinto, definitivamente. L’avvocato dei boss casalesi, condannato ad 11 anni per aver portato ordini di morte del clan Bidognetti, per aver minacciato in aula durante il processo Spartacus me e altre tre persone”, ha scritto oggi Saviano sulla sua pagina Facebook, sollevando il caso.
I giudici: ecco perché i boss non minacciarono Capacchione e Saviano. Arrivano le motivazioni della sentenza che venne criticata dallo scrittore. L’assoluzione riguardava i capoclan Iovine e Bidognetti e uno dei loro avvocati, scrive Titti Beneduce il 7 maggio 2015 su "Il Corriere della Sera". Antonio Iovine «si affidò all’opera dell’avvocato Santonastaso senza intromettersi nelle sue scelte di carattere processuale». Quanto a Francesco Bidognetti, «non si rinviene un suo specifico e concreto mandato diretto a minacciare» Rosaria Capacchione e Roberto Saviano. Ecco perché, lo scorso novembre, i giudici della III sezione del Tribunale di Napoli assolsero i due boss del clan dei casalesi dall’accusa di minacce, condannando invece a un anno di reclusione e al risarcimento dei danni il solo avvocato Michele Santonastaso. Le motivazioni della sentenza, che fu criticata da Saviano e suscitò polemiche, sono state depositate poco fa. Le minacce furono rivolte allo scrittore e alla giornalista, oggi senatrice del Pd, nel 2008. Durante il processo d’appello “Spartacus”. Santonastaso lesse in aula un’istanza di rimessione del processo, sostenendo che la Corte d’appello di Napoli non avesse la serenità per giudicare a causa di pressioni da parte dei pm Federico Cafiero de Raho e Raffaele Cantone (questo troncone della vicenda è stato trattato dal Tribunale di Roma) nonché di Capacchione e Saviano. Secondo il collegio (Aldo Esposito presidente ed estensore, giudici Salvatore D’Ambrosio ed Annamaria Casoria) «mancano sia un contributo causale sia un sostegno psicologico di Bidognetti nella forma dell’istigazione o dell’ideazione» del reato. L’avvocato Carmine D’Aniello, a sua volta assolto, non era a conoscenza dell’istanza. L’avvocato Santonastaso, invece, «era ben consapevole della capacità intimidatoria delle espressioni usate nell’istanza e del concreto rischio dell’interpretazione da parte dei propri clienti e degli altri camorristi nel senso di attribuzione ai giornalisti e ai magistrati della responsabilità per la loro sottoposizione a giudizio e di una conseguente autorizzazione a riconoscere i predetti magistrati e giornalisti quali nemici da colpire, anche tramite attentati alla vita e/o all’incolumità individuale».
Camorra, lesse proclama contro Cantone e Cafiero de Raho: l’avvocato dei boss condannato a 5 anni e mezzo. I giudici hanno assolto con la formula "per non aver commesso il fatto" Francesco Bidognetti e l’altro esponente del clan di Casal di Principe, Antonio Iovine. Come era già avvenuto nell'altro processo per diffamazione nei confronti di Rosaria Capacchione e Roberto Saviano, scrive "Il Fatto Quotidiano" l'11 luglio 2016. “Un camorrista in toga”. Così il pm della dda di Napoli Sandro D’Alessio definì Michele Santonastaso, ex difensore dei boss dei Casalesi Francesco Bidognetti e Antonio Iovine, definì l’avvocato che il 13 marzo 2018 nell’aula del processo d’Appello Spartacus, il 13 marzo del lesse una lettera-istanza per legittimo impedimento in cui venivano messi nel mirino due giornalisti e due magistrati: Rosaria Capacchione e Roberto Saviano, Raffaele Cantone (nella foto) e Federico Cafiero de Raho. Per la diffamazione della giornalista de Il Mattino e ora senatrice Pd e per lo scrittore Santonastaso è stato già condannato a un anno l’11 dicembre 2014, oggi – a distanza di quasi un anno dalla requisitoria è arrivata la condanna per diffamazione e calunnia nei confronti dell’attuale presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione e del procuratore di Reggio Calabria, Federico Cafiero de Raho. Il Tribunale di Roma lo ha condannato a 5 anni e sei mesi. I giudici hanno assolto con la formula “per non aver commesso il fatto” lo stesso Bidognetti e l’altro esponente del clan di Casal di Principe, Antonio Iovine. Come era già avvenuto nell’altro processo. A Santonastaso i reati contestati sono aggravati dal metodo mafioso. Il procedimento nato a Napoli è giunto a Roma per competenza perché sia Cantone sia De Raho erano in servizio alla Dda di Napoli all’epoca dei fatti. L’accusa aveva chiesto per tutti gli imputati sei anni di reclusione. Il legale lesse a nome dei due boss (non presenti in aula) una memoria in cui veniva messa in dubbio la serietà dell’inchiesta chiedendo, quindi, il trasferimento del dibattimento per legittimo sospetto. La lettera diffamatoria nei confronti dei magistrati conteneva espressioni minacciose e accusava i pm “di essere in cerca di pubblicità”. Nel documento venivano citati anche lo scrittore Saviano e Capacchione. A Santonastaso inoltre un anno fa furono confiscati beni mobili e immobili per 8 milioni di euro dai Carabinieri di Caserta e dagli agenti della Dia di Napoli che notificarono anche una misura di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo di dimora nel comune di residenza della durata di 4 anni. L’avvocato era stato arrestato due volte, nel settembre del 2010 e nel gennaio del 2011, per avere commesso una serie di reati finalizzati ad agevolare la fazione Bidognetti del clan dei Casalesi, il clan Cimmino e il clan La Torre. Fu nell’udienza per chiedere la confisca dei beni – che l’11 dicembre 2014 – il pubblico ministero definì Santonastaso “camorrista in toga la cui attività, iniziata negli anni ’90, ha avuto un’escalation culminata con la lettura nell’aula del processo d’Appello Spartacus, il 13 marzo del 2008, dell’istanza per legittimo impedimento in cui vengono messi nel mirino due giornalisti e due magistrati, l’estremo tentativo dei Casalesi di ricompattarsi come aveva fatto Cosa Nostra dopo l’omicidio di Salvo Lima”.
Il carabiniere infedele e la camorra che fabbrica i dossier. Operazioni della Divisione investigativa antimafia contro la camorra. Sbirri "venduti" e faccendieri, la rete di spioni che trama in segreto per politici e clan. L'ultimo caso è quello del maresciallo dei carabinieri arrestato a Napoli con l'accusa di avere passato informazioni riservate a Nicola Cosentino. C'è poi il copione visto negli affaire di Bisignani e Lavitola, due volti al centro di altri scandali, dalla P4 alla compravendita di parlamentari, scrive Roberto Saviano il 3 agosto 2016 su “La Repubblica”. La storia che sto per raccontare vi riguarda perché è storia del nostro Paese e di quei rapporti ambigui tra politica, giornalismo e forze dell'ordine che spesso ci sembra odioso persino descrivere. Figure che operano nell'ombra, che raccolgono informazioni riservate e sanno come manipolarle, amputarle, barattarle. Notizie che servono a ricattare, a disinnescare inchieste giudiziarie e a preparare agguati e che arrivano a favorire le organizzazioni criminali. Sì, perché nella storia che sto per raccontarvi c'entrano anche loro, i clan di camorra. E c'entrano politici sotto processo per presunti legami con le organizzazioni criminali, rappresentanti delle forze dell'ordine infedeli, faccendieri e giornalisti borderline. È quanto si può leggere nell'ordinanza cautelare emessa nei confronti del maresciallo dei carabinieri Giuseppe Iannini, arrestato qualche giorno fa. Il gip in uno dei passaggi più significativi del provvedimento così descrive l'indagato: "Emerge una personalità forte, arrogante e prevaricatrice con la criminalità da strada (il mondo dei pusher nel quale si impegna, anche oltre il consentito a quanto pare) e accondiscendente, disponibile e, peggio ancora, corruttibile nei confronti della criminalità di un livello superiore (...)". "Persone come Iannini Giuseppe sono funzionali ad un sistema che si oppone alle forze sane della polizia che ogni giorno si sacrificano per accertare non chi spaccia in strada, ma chi reinveste quei profitti con l'aiuto di imprenditori e amministratori compiacenti". Quanto oggi sappiamo su Iannini è frutto del lavoro dei carabinieri di Caserta, guidati dal colonnello Giancarlo Scafuri, e dell'ex comandante della stazione dei Carabinieri di Castello di Cisterna (dove Iannini ha prestato servizio fino al 2013), Fabio Cagnazzo. L'impressione è che ci sia ancora da scavare per capire se Iannini lavorava per se stesso o se fosse eterodiretto, lui che, secondo quanto ha ricostruito la Dda di Napoli, avrebbe fornito informazioni riservate e file relativi ad atti di indagine secretati a Nicola Cosentino, imputato per essere il referente politico del clan dei Casalesi. La personalità di Iannini, come descritta dal giudice, coincide con l'idealtipo dello sbirro, caratteristico di una cultura tradizionalmente di destra che ha trovato espressione politica nel centro-destra di governo, non solo in Campania. Forte con i deboli, debole con i forti e servile con i potenti. Questa politica ha riempito le carceri di tanti piccoli spacciatori e per lungo tempo ha fatto di tutto per rendere penalmente irrilevanti i comportamenti dei colletti bianchi, della politica e della camorra, quando le due non erano la stessa cosa. Questa tipologia di carabiniere corrotto, secondo le accuse dell'antimafia di Napoli, costruisce la propria credibilità negli arresti di pusher, per potersi meglio sedere al tavolo dei politici camorristi, dell'imprenditoria criminale che non sparando e non spacciando assume altro tipo di profilo. L'ordinanza offre uno spaccato desolante della situazione campana, e casertana in particolare, con un ospedale pubblico - che poi sarà di lì a poco oggetto di commissariamento per infiltrazioni camorristiche - che, nelle parole del gip, diviene quasi una "succursale" dello studio di Cosentino. L'oggetto dello scambio ipotizzato dal gip tra Iannini e Cosentino erano i documenti contenuti in una pen drive ricondotta al primo e trovata in possesso del secondo; Iannini e Cosentino, nel corso degli interrogatori, hanno poi confessato la consegna della pen drive. L'ex uomo forte di Berlusconi in Campania ha sostenuto di essere stato truffato dal carabiniere, poiché tra gli atti che gli erano stati consegnati ce n'era uno oggetto di contraffazione. Proprio così: nella memoria gli inquirenti hanno trovato un verbale che riportava dichiarazioni apparentemente riconducibili a un collaboratore di giustizia, Tommaso Prestieri, ma che in realtà era stato modificato, utilizzando il contenuto del verbale di un altro collaboratore. Ma il documento (questa volta) originale più importante tra quelli presenti nella memoria è un'informativa, al tempo del sequestro secretata, riguardante i rapporti tra la famiglia Cesaro e il clan Puca, secondo la quale "il clan Puca aveva stretto accordi con il clan dei casalesi che si manifestavano nei rapporti altalenanti tra Cosentino Nicola, ritenuto referente dei casalesi, e Cesaro Luigi, ritenuto referente del clan Puca". Luigi Cesaro è un deputato di Forza Italia, dal 2009 al 2012 presidente della Provincia di Napoli, prima fedele a Nicola Cosentino, poi suo acerrimo rivale. Cosentino, prima di confessare, era stato più volte sentito dagli inquirenti perché chiarisse l'accaduto e, secondo il gip, aveva fornito versioni ogni volta diverse e fantasiose, allo scopo evidente di proteggere Iannini. Perché esporsi tanto per un soggetto del quale secondo la prima versione di Cosentino, riportata dal giudice, gli era ignoto anche il nome? Il profilo personale del maresciallo Iannini è assai complesso e aiuta ad aggiungere un ulteriore tassello alla comprensione di quel sottobosco che trama contro la democrazia, attraverso il meccanismo tristemente noto con il nome di macchina del fango. Non è la prima volta che il carabiniere finisce nei guai negli ultimi anni, poiché da poco è stato assolto in una vicenda analoga, che lo ha riguardato assieme a un altro politico casertano in ascesa fino a qualche anno fa: Angelo Brancaccio, ex sindaco di Orta di Atella, con trascorsi nell'Udeur di Mastella e nel Partito Democratico. Anche quella volta Iannini era stato indagato e poi processato in relazione a un illecito traffico di notizie riservate, poiché avrebbe avvertito Brancaccio delle indagini a suo carico. Dalla sentenza di assoluzione si comprende che gli indizi in possesso della procura non sono stati sufficienti a provare i fatti contestati, anche grazie al silenzio di Brancaccio, che, prima e come Cosentino, ha preferito proteggere il maresciallo. Viene il dubbio che Iannini possa essere il terminale di una struttura più grande, anche se non ci sono, per adesso, elementi sufficienti per giungere a questa conclusione. E ciò che sempre conta di più per chi ha a che fare con ambienti mafiosi è darsi un'immagine antimafiosa. Questa è la prima regola. Come fare? Semplice: scrivere libri apparentemente antimafia, organizzare convegni sulla legalità, ridurre tutto il fenomeno criminale a un affare di strada, porsi in prima linea contro questi affari e poi essere referente invece della borghesia criminale. L'ordinanza cautelare dedica attenzione anche a un professore francese, Bertrand Monnet (totalmente estraneo e verosimilmente del tutto inconsapevole della reale identità dei soggetti con cui è entrato in contatto), che sarebbe stato presentato a Cosentino come esperto di dinamiche criminali. Effettivamente il nome di Monnet, insieme a quelli di Brancaccio e Iannini, si trova nel panel di un convegno (La giornata della legalità) organizzato ad Orta di Atella dalla giunta guidata dall'allora sindaco Brancaccio. La presenza del professor Monnet in questa vicenda mostra come l'intenzione di chi costruisce dossier sia quella di cercare costantemente sponde all'estero. Mancando in Italia gli anticorpi per distinguere una critica legittima da un attacco su commissione, è chiaro che un j'accuse che arrivi da lontano ha una efficacia maggiore. Quel giorno del 2012, Monnet era a Orta di Atella per la presentazione di un libro, Napoli in cronaca nera, scritto a quattro mani proprio da Iannini e da un giornalista di cronaca giudiziaria, Simone Di Meo. Insieme al carabiniere arrestato, Di Meo ha scritto due libri ed è stato in passato molto vicino a Sergio De Gregorio, senatore condannato con Valter Lavitola e Silvio Berlusconi nel processo per la compravendita dei voti che determinò la caduta del governo Prodi. Il tema dei giornalisti che si occupano di cronaca giudiziaria è assai rilevante nella comprensione della dinamica esemplificata da questa indagine. Ci sono diversi modi di fare cronaca giudiziaria e uno è chiaramente quello di sondare l'universo degli informatori, appartenenti alle forze dell'ordine e in qualche caso alla criminalità, comune o anche organizzata. L'equilibrio e la deontologia, su questo crinale, sono essenziali, poiché la possibilità di entrare in possesso di dati sensibili o di atti coperti dal segreto d'ufficio è alta: se mancano equilibrio e deontologia, si aprono le praterie del dossieraggio e del traffico di informazioni riservate; si apre il varco all'affermarsi di figure di confine, tra servitori infedeli dello stato e giornalisti pronti a costruirsi una identità parallela: informatori al soldo del migliore offerente, anche a rischio di favorire la criminalità organizzata. La procura della Repubblica di Napoli, prima che la Dda si interessasse a Giuseppe Iannini, aveva focalizzato la sua attenzione e in alcuni casi ha indagato e poi ottenuto importanti risultati su una serie di figure chiave, che in parte ritornano anche in quest'ultima indagine. I nomi sono tutti accomunati dalla raccolta illecita di informazioni, finalizzata a un utilizzo di queste nella lotta politica e in ambito economico-finanziario. Qualche settimana fa, in un'intervista rilasciata a Dario Del Porto per questo giornale, il procuratore aggiunto Vincenzo Piscitelli, uno dei pilastri della procura partenopea, nel commentare l'esito di un processo su una fuga di notizie che ha visto condannati un avvocato e un cancelliere dell'ufficio Gip di Napoli, ha parlato chiaramente di una "operazione di spionaggio". Quell'intervista riguardava non una fuga di notizie qualsiasi, ma quella che aveva favorito la latitanza di Valter Lavitola: le informazioni riservate furono pubblicate da Panorama , settimanale di proprietà di Silvio Berlusconi (che personalmente aveva consigliato a Lavitola, sulla base di quell'informazione, di stare alla larga dall'Italia), e furono acquisite da un giornalista, Giacomo Amadori, inizialmente indagato insieme al direttore del settimanale, Giorgio Mulè; le due posizioni sono state poi archiviate. Il nome di Amadori ritorna anche in un'altra vicenda napoletana, quella relativa alle minacce contenute nell'istanza di rimessione letta dall'avvocato Michele Santonastaso, nel corso del processo di appello Spartacus. All'esito dell'istruttoria di quel processo, infatti, è emerso un rapporto assai stretto tra Santonastaso e Giacomo Amadori, finalizzato secondo quanto sostenuto da Santonastaso alla acquisizione, da parte del giornalista, di un'intercettazione telefonica tra due collaboratori di giustizia, nella quale si parlava di ipotetiche pressioni - mai accertate - perché gli stessi formulassero accuse dirette al premier in carica Berlusconi. Quell'intercettazione fu effettivamente pubblicata da Panorama, pochi giorni dopo l'istanza di rimessione, mentre il giorno successivo la lettura in aula, Santonastaso, nelle parole del tribunale che lo ha condannato per le minacce nei miei confronti, "sfruttava la propria conoscenza con il giornalista Amadori per rendere proprie dichiarazioni su quanto avvenuto il giorno prima in udienza e per aumentare il clamore mediatico della notizia". Questa conclusione è impressionante se letta insieme a un altro passaggio di quella sentenza, che chiarisce come quel clamore mediatico fosse stato appositamente cercato per pubblicizzare alla platea degli affiliati casalesi e "nel linguaggio della camorra", un "perentorio invito ai magistrati e ai giornalisti a non cooperare più tra loro e a rientrare nell'ambito delle rispettive competenze, mantenendo un profilo più basso e smettendo di operare con clamore". Anche nell'indagine che riguarda Iannini tornano nomi noti: quello di Valter Lavitola, la cui abitazione è stata perquisita, come quella di un altro carabiniere a suo tempo coinvolto nell'indagine sulla cosiddetta P4 (una struttura finalizzata alla acquisizione di informazioni riservate per aggredire politici e imprenditori), Enrico La Monica. In relazione a quella vicenda è stato condannato Luigi Bisignani (ha patteggiato una pena a un anno e sette mesi di reclusione, senza la condizionale, a causa di una precedente condanna), la figura più eminente di giornalista borderline attualmente attiva in Italia. Bisignani, fino a quella indagine, era un uomo di grande potere nel sistema berlusconiano, dopo aver mosso i primi passi all'ombra di Andreotti. Nonostante la pena, Bisignani continua a camminare per le stesse strade di sempre e il 5 maggio scorso, in un editoriale su Il Tempo, passato inosservato ai più, ma ancora disponibile online, ha mandato un messaggio durissimo a un fedelissimo di Matteo Renzi, Marco Carrai. Bisignani ha scritto: "Ora che da pochi mesi ha tra le braccia la sua bimba, Florence, chi glielo fa fare di mettersi in un "affaire" del quale sa poco quando invece ha dimostrato di essere un imprenditore di successo". Carrai era in procinto di assumere un ruolo di primo piano, di nomina governativa, nell'ambito della cyber security, incarico che ad oggi pare essere tramontato. Quell'editoriale è il modello fedele del lavoro che Bisignani ha svolto nell'ombra per molti anni. E mi viene in mente un paragone, per le allusioni utilizzate, per i riferimenti più o meno metaforici e il linguaggio criptico, tra lo scritto di Bisignani e la lettera inviata in carcere al boss Michele Zagaria. In quella lettera, secondo una mia interpretazione pubblicata su questo giornale, si faceva probabilmente riferimento a Nicola Cosentino (che mi ha citato in giudizio, ma ha perso). Anche in quel caso bisognava sapere leggere tra le righe. Le informazioni ridotte a minaccia, a dossier, manipolate sono il più grande pericolo per il giornalismo italiano. Questa inchiesta della Dda di Napoli, coordinata dal procuratore aggiunto Giuseppe Borrelli e seguita dai pm Alessandro D'Alessio, Fabrizio Vanorio e Antonello Ardituro (da due anni al Csm), ha una assoluta rilevanza, poiché sta disvelando l'esistenza di un sistema di dossieraggio, realizzato attraverso il furto di atti riservati e la manipolazione delle informazioni, il cui fine era la distruzione degli avversari politici. Le indagini delineano un quadro allarmante, ai limiti dell'eversione dell'ordine democratico, popolato di personaggi inquietanti, spesso millantatori o peggio estorsori travestiti da giornalisti, e purtroppo anche da molti che dovrebbero servire lo Stato e che invece, come scrive il gip nell'ordinanza di arresto di Iannini, "sono funzionali ad un sistema che si oppone alle forze sane della polizia che ogni giorno si sacrificano per accertare non chi spaccia in strada, ma chi reinveste quei profitti con l'aiuto di imprenditori e amministratori compiacenti".
Ma quale icona di sinistra. Saviano, dettaglio imbarazzante: "A Buttafuoco disse che...", scrive Giacomo Amadori il 5 agosto 2016 su “Libero Quotidiano”. Mi sono accorto con ritardo (mica pretenderete che uno si legga Saviano il 3 agosto!) che l'autore di Gomorra mi ha dedicato più di qualche riga sulla Repubblica dell'altro ieri, in un articolo dal titolo suggestivo: "Camorra, la fabbrica dei dossier". In realtà me lo ha segnalato un amico della Direzione investigativa antimafia con un sms divertito: «Se ti hanno arrestato sono disposto a verbalizzare le tue confessioni». Dopo di che ci ho messo un giorno a decrittare le frasi di questo Milionario dell'Anticamorra e ho scoperto che mi dà del giornalista «borderline» e, se ho tradotto bene dal savianese, mi accusa pure di essere contiguo alla camorra. Nella sua lenzuolata ha ricordato un mio scoop dei tempi in cui lavoravo per Panorama, riguardante un'inchiesta che coinvolgeva l'allora premier Silvio Berlusconi: una fuga di notizie per cui la procura di Napoli ha indagato per un paio d' anni anche su di me e sul direttore del settimanale mondadoriano Giorgio Mulè. I pm partenopei dispiegarono un vero e proprio dispositivo di «spionaggio» che consentì di ascoltare per settimane decine di migliaia di telefonate sulle utenze di diversi giornalisti di Panorama. Per questo fa sorridere che oggi Saviano mi appiccichi addosso, citando il pm Vincenzo Piscitelli, un'accusa di «spionaggio» che fa a pugni con il decreto di archiviazione del gip di Roma. Giudice che ha ereditato l'inchiesta da Napoli per la palese incompetenza territoriale degli inquirenti campani e che ha riconosciuto che io e Mulè non abbiamo fatto altro che il nostro lavoro. Le accuse a Berlusconi - Nell' articolo il criptico Saviano è poi partito per la tangente e ha raccontato del rapporto «assai stretto» che avrei avuto con l'avvocato Michele Santonastaso, ex difensore di diversi boss della camorra. Dal 2010 è rinchiuso in cella per i presunti rapporti pericolosi con i suoi assistiti e anche per le minacce rivolte allo stesso Saviano. Ma all' epoca in cui lo incontrai, nel 2008, era solo un legale e molti giornalisti avevano una certa consuetudine con lui, visti i nomi dei clienti. Un giorno per esempio lo incrociai in un bar mentre parlava con la collega Rosaria Capacchione, divenuta poi senatrice del Pd. I motivi per cui ho contattato Santonastaso sono limpidi e certificati. In particolare lo avevo cercato per provare a realizzare un'intervista con il più celebre latitante dei Casalesi, Antonio Iovine, detto O' Ninno. Conservo ancora copia delle domande che gli consegnai. Informai anche il capo della squadra mobile di Caserta del tentativo che stavo facendo e lui tra il serio e il faceto mi propose di imbottirmi di microspie. Ovviamente rifiutai considerando la cosa troppo rischiosa. Alla fine non so se Santonastaso abbia mai consegnato quel mio lungo questionario, di certo le risposte non mi arrivarono. In quegli stessi giorni Santonastaso mi confidò che aveva recuperato delle intercettazioni esplosive e che le avrebbe rese pubbliche. Nei brogliacci il pentito Carmine Schiavone parlava di presunte pressioni subite da pm e investigatori per fargli accusare Silvio Berlusconi. «Da quando stava quel piecoro di omissis che andava cercando che io accusassi Berlusconi. Eh, io gli dissi: ma chi c… lo conosce!», diceva in una telefonata Schiavone. All' epoca il presidente di Forza Italia era premier e la notizia era di grande rilevanza mediatica. Il praticante maldestro - Per potermi consegnare quei brogliacci Santonastaso decise di allegarli a un'istanza di rimessione, ovvero a una richiesta di trasferimento del cosiddetto processo Spartacus ad altre toghe. I tempi erano ristretti e l'avvocato chiese a un suo praticante, tale Davide, di redigere l'atto. La sera prima del deposito il giovanotto entrò nello studio di Santonastaso, dove ero seduto anche io, e iniziò a leggere il documento che aveva preparato. Il linguaggio era colorito e minaccioso e si rivolgeva direttamente a tre presunti nemici dei boss, che secondo Santonastaso imbrogliavano le carte della tenzone giudiziaria: il pm Raffaele Cantone, Roberto Saviano e la già citata Capacchione. Mi sembrò tutto improvvisato e pasticciato. I termini erano decisamente sopra le righe e il giorno dopo successe il patatrac che tutti sanno. L'avvocato dei boss lesse quello squinternato atto d' accusa in aula e subito i giornali rilanciarono la notizia delle minacce dei Casalesi a tre paladini dell'Anticamorra. Il risultato fu che a Saviano fu confermata la scorta che aveva dall' anno prima. Anche per colpa della fretta e di un praticante alle prime armi. Nel novembre 2014 per quelle minacce venne condannato il solo Santonastaso che evidentemente per i giudici non aveva mandanti. Ma io già lo sapevo e ne informai lettori di Panorama, quando decisi di intervistare l'avvocato sul putiferio che era scoppiato e di cui ero in piccola parte responsabile avendo tanto insistito per avere quelle intercettazioni. Nell' intervista (disponibile su Internet per chi voglia verificare come il taglio delle domande fosse di riprovazione rispetto all' iniziativa dell'avvocato) tentai in tutti i modi di far recitare un mea culpa a Santonastaso, che ammise: «Probabilmente il tono era sbagliato. Solo che a scrivere ero io e non i miei clienti. I casalesi non hanno minacciato nessuno, non avrebbero potuto farlo tramite me». I giudici lo hanno confermato. Il plagiatore - Peccato che quella innocua intervista nella testolina di Saviano, forse troppo impegnato a guardare puntate di Gomorra, sia diventata un messaggio inquietante o per lo meno questo mi sembra di aver inteso negli involuti periodi che Saviano ha propinato ai suoi coraggiosi lettori agostani. «O' premio Pulitzèr», come lo ha soprannominato qualcuno, pensa di svelare complotti che non ci sono e di trovare chissà che talpe. E se non fosse chiaro il suo intento, su Facebook esplicita sobriamente il concetto: «"Sbirri" venduti, giornalisti e faccendieri, ecco la rete di spioni che trama in segreto per politici e clan, compromettendo la democrazia». Bum! Io, il bravissimo collega napoletano Simone Di Meo e pochi altri giornalisti non identificati saremmo un rischio per la democrazia. Verrebbe da ridere se non ci fosse da piangere. Su Di Meo urge aprire una parentesi: è il giornalista che ha avuto la colpa di vincere con la sua casa editrice sino in Cassazione la causa intentata contro Saviano per plagio, perché «o' Pulitzèr» è anche un signor copiatore. Tanto che dall' undicesima ristampa di Gomorra, a pagina 141, è scritto nero su bianco che diversi passi del libro sono appunto di Di Meo, coautore a sua insaputa. Purtroppo due giorni fa Saviano non ha informato i suoi lettori, mentre attaccava Simone, di questo piccolo conflitto d' interesse. Comunque se il Saviano imbronciato (quanto gli piace ostentare la sua aria pensosa) scrive su di me falsità, io adesso vi voglio raccontare due o tre cose vere che so di lui e per esperienza diretta. Macho man e il braccino - Era il 2006 e in Mondadori, dove lavoravo, si favoleggiava di un libro su cui l'azienda puntava molto. Anzi moltissimo. Era di un giovanotto campano sponsorizzato da un grande critico letterario, campano pure lui, di nome Goffredo Fofi. Rita Pinci, all' epoca vicedirettore di Panorama, mi chiamò alla sua scrivania per affidarmi un delicato compito. Avrei dovuto leggere il tomo (bisogna dirlo: la più grande operazione di marketing editoriale degli ultimi vent' anni) e presentarlo in anteprima mondiale sul nostro giornale. Mi consegnarono una bozza cartacea, in gran parte riscritta e tagliata (l'originale, Saviano lo portava in giro con la carriola) dai fenomenali editor della casa editrice di Segrate. Iniziai il primo capitolo e dopo poche righe mi ero quasi appisolato. Con un occhio semiaperto domandai in Mondadori il numero di cellulare di questo Roberto, all' epoca uno sconosciuto ventisettenne, e dandogli del tu gli chiesi di scegliere in mia vece i capitoli più interessanti. Di mio pugno volli aggiungere un breve biografia. Gli domandai due o tre informazioni personali e lui, garbatamente, mi rispose. Tra l'altro mi disse che amava la pallanuoto (non era ancora un fanatico della boxe) e che era fidanzato. Lo scrissi. Apriti cielo. Quando gli rilessi la breve bio, lui, evidentemente già compreso nel personaggio, mi chiese di cancellare quei due particolari «da rivista di gossip». Gli dissi che non ci trovavo niente di disdicevole e lo lasciai che bofonchiava. Quando tornai al giornale il vicedirettore mi disse che Saviano aveva contattato i vertici dell'azienda per far togliere quelle due righette e che dai piani alti avevano telefonato al compianto direttore Pietro Calabrese. Ma le righette rimasero al loro posto. Con grande scorno del Nostro. Nel 2009 mi trasferii nella redazione di Roma e mi piazzai nella postazione di fronte a un vero scrittore, Pietrangelo Buttafuoco, che tutto divertito mi raccontava dell'imbarazzo di Saviano per l'essere diventato un'icona della sinistra, lui che era «un vero camerata». Ridendo mi leggeva alcuni passaggi dei loro scambi epistolari. Secondo lui Saviano aveva ambizioni superomistiche e sognava di andare a fare il paracadutista in Afghanistan al seguito dei carabinieri. Non so se fosse vero, ma un'amica dell'autore di Gomorra, che aveva la ventura di incontrarlo in privato e che lo conosceva da quando era studente, me lo descrisse più che come un pensoso intellettuale di sinistra, come un ardito con la passione per i pugni e gli approcci ruvidi verso le donne. L' ultimo aneddoto riguarda la premiata coppia Fabio Fazio-Saviano. I due insieme con la scorta di sette persone al seguito del Sommo Scrittore sostarono per pranzo in un lussuoso ristorante della Riviera di Ponente, di proprietà di un mio amico. La coppia scelse il tavolo migliore, mentre i bodyguard vennero fatti accomodare un po' distanti. Fazio si avvicinò allo chef: «Una portata a testa per quei signori la offro io» disse soddisfatto della sua magnanimità. Saviano nemmeno si alzò. E il mio amico li fulminò: «Le altre portate per la scorta le offrirò io». Ora vista la parsimonia di cotanto Autore, temo che non apprezzerà la mia richiesta di risarcimento danni. Ma purtroppo, io che non ho mai citato in giudizio nessuno, mi trovo costretto a farlo per l'enormità delle accuse. In attesa di incontrarlo in Tribunale, lo rassicuro: anche se ho visto più volte il Padrino, dall' 1 al 3, non sono un picciotto e i suoi libri non mi disturbano per il contenuto, ma solo perché sono mal scritti. Giacomo Amadori
Roberto Saviano e la gente di sinistra, martiri ovunque, comunque e per sempre. Camorra, il Tribunale di Napoli assolve i boss Iovine e Bidognetti: "Niente minacce a Roberto Saviano", scrive “Libero Quotidiano”. I boss dei Casalesi Antonio Iovine e Francesco Bidognetti sono stati assolti a Napoli nel processo per le minacce allo scrittore Roberto Saviano e alla giornalista e senatrice Pd Rosaria Capacchione. Bisognetti e Iovine, che qualche mese fa ha deciso di collaborare con la giustizia, sono stati assolti "per non aver commesso il fatto". I pm avevano chiesto la condanna a un anno e sei mesi per il primo e l'assoluzione per il secondo. Assolto anche l'avvocato Carmine D'Aniello, per il quale era stata chiesta una condanna sempre di un anno e sei mesi. I giudici della terza sezione del Tribunale di Napoli hanno condannato solo Michele Santonastaso, legale di Bidognetti, a un anno di reclusione, con pena sospesa. Il legale dovrà anche risarcire i danni all'autore di Gomorra, alla onorevole democratica e all'Ordine dei giornalisti della Campania, che si era costituita parte civile al processo. Stabilita anche una provvisionale di 20mila euro alla Capacchione. "Sono un po' frastornato - è il commento a caldo di Saviano -, tutte le forze civili, la società civile, sono riuscite a creare un corto circuito e a sollevare l'attenzione. Dare la scorta a chi scrive, significa garantire un diritto costituzionale". Per lo scrittore la condanna del solo Santonastaso si tratta comunque di una mezza vittoria: le minacce ci sono state, sia pur non partite direttamente dai due boss che Saviano definisce "guappi di cartone". "Spero che questa sentenza sia un primo passo verso la libertà, spero ci sia per me una nuova vita", è l'auspicio del 35enne autore napoletano, che vive sotto scorta dal 2006, quando le sue accuse ai boss della camorra salirono alla ribalta nazionale grazie al discusso e vendutissimo Gomorra. Tutto nasce da un documento firmato da Iovine e Bidognetti letto dall'avvocato Santonastaso durante un'udienza del processo d'Appello Spartacus, il 13 marzo 2008. In quel testo, i due boss accusavano Saviano e la Capacchione di essere "pseudo-giornalisti" e "prezzolati", manovrati a fini politici per colpire i due boss. Secondo il pm antimafia Antonello Ardituro, però, quelle parole altro non erano se non "messaggi" in "linguaggio mafioso" per invitare gli altri camorristi a colpire non solo Saviano e la Capacchone, ma anche altri nemici di spicco della camorra come i magistrati di Napoli Federico Cafiero de Raho e Raffaele Cantone (accusati dai boss di "imbrogliato le carte". "Questo è un giorno decisivo e questo è un processo importante a prescindere da me, voglio essere obiettivo anche se sono coinvolto. Ciò che è certo è che sono tremendamente in ansia, lo vivo come una resa dei conti", scriveva Saviano poche ore prima sulla propria pagina Facebook. "Nella storia della camorra non era mai successo che i capi di un clan si fossero esposti così in prima persona sulla libertà di stampa, quindi questa è una novità assoluta - ricordava -. Il pentimento di Antonio Iovine è stato già anche in parte una vittoria. E' stato difficilissimo, quando sono andato in aula come testimone c'è stato un momento in cui la difesa dei boss ha cercato di processare me, di far saltare la mia credibilità".
Secondo Dagospia: Roberto Saviano, i boss dei Casalesi assolti, le minacce e la scorta: tutti i misteri dell'autore di Gomorra, scrive “Libero Quotidiano”. La sentenza da parte del tribunale di Napoli, che ieri ha assolto i boss casalesi Francesco Bidognetti e Antonio Iovine dall'accusa di aver rivolto intimidazioni a Roberto Saviano, fa sorgere un dubbio significativo: chi minaccia lo scrittore di Gomorra? Una domanda che non viene cancellata dalla condanna all'avvocato dei boss, reo di aver diffamato Saviano. I falsi allarmi - E' Dagospia a sollevare questo quesito: non è la prima volta che il clan dei Casalesi viene assolto da intimidazioni a Saviano, dato che nel 2009 il pm Antonello Ardituro archiviò l'inchiesta sull'ipotesi di un attentato ai danni dello scrittore. Il magistrato accertò che si era trattato soltanto di un falso allarme, dettato da un "eccesso di zelo" da parte di un investigatore. E ancora prima, Vittorio Pisani (ex capo della Squadra mobile di Napoli) aveva firmato una relazione di servizio con cui si esprimeva negativamente sull'assegnazione della scorta. "A noi della Mobile - spiegò successivamente Pisani - fu data la delega per riscontrare ciò che Saviano aveva raccontato sulle minacce ricevute, ma dopo gli accertamenti demmo il parere negativo". "Ma chi è Saviano?" - Infine è stato lo stesso Antonio Iovine ad affermare ai pm nello scorso giugno: "Ma chi è Saviano? Ma che ce ne importa a noi?". Resterebbero da vedere le informazioni riservate sui pericoli che corre Saviano: quelle sono in mano al ministero dell'Interno, che ha il compito di assegnare le scorte. Roberto Saviano scriveva su Twitter, alla vigilia della sentenza sui boss che lo avrebbero minacciato: “Sono in attesa della sentenza. In attesa di un passaggio essenziale della mia vita”. I boss sono stati assolti, mentre è stato condannato il loro avvocato per averlo diffamato. A questo punto, passati molti anni dall’assegnazione di una scorta a Saviano, e dopo questa sentenza, è forse lecito chiedersi: chi minaccia davvero Roberto Saviano? L'assoluzione “per non aver commesso il fatto”, decisa ieri dal Tribunale di Napoli, per i boss casalesi Francesco Bidognetti e Antonio Iovine – accusati con l'avvocato Michele Santonastaso, unico condannato a un anno (pena sospesa), di aver rivolto intimidazioni allo scrittore di Gomorra durante il processo Spartacus – più che dare una risposta solleva questa domanda. Da chi Saviano viene protetto da un imponente apparato di sicurezza secondo solo a quello del presidente della Repubblica? Nel giugno 2009, il pm della Dda Antonello Ardituro archiviò l'inchiesta sull'ipotesi di un attentato ai danni dello stesso scrittore ordito dal clan dei Casalesi. Il magistrato, oggi consigliere del Csm, accertò che si era trattato di un falso allarme dettato da un “eccesso di zelo” da parte di un investigatore. Ancor prima, era stato l'ex capo della Squadra mobile di Napoli Vittorio Pisani (autore, peraltro, dell'arresto proprio di Michele Zagaria e di Antonio Iovine) a firmare una relazione di servizio con cui dava parere negativo all'assegnazione della scorta. Spiegò tempo dopo il poliziotto al giornalista Vittorio Zincone che “a noi della Mobile fu data la delega per riscontrare quel che Saviano aveva raccontato a proposito delle minacce ricevute. Dopo gli accertamenti demmo parere negativo”. Pisani fu attaccato a furor di popolo per quelle dichiarazioni e l'unico che confermò la correttezza di quella valutazione tecnica fu il generale dei carabinieri Luigi Sementa, all'epoca comandante della polizia municipale del capoluogo. In ultimo, è stato proprio Antonio Iovine, neocollaboratore di giustizia, a raccontare com'è che lui – allora superlatitante di camorra – aveva vissuto il fenomeno Gomorra. “Tu sei scemo, ma chi è, ma che ce ne importa a noi di questo Saviano?”, ha detto il pentito ai pm che lo hanno interrogato in carcere nel giugno scorso. “Santonastà (Michele Santonastaso, il legale condannato, ndr), ma perché non ti stai zitto con questo Saviano? Ma lascialo perdere…”. Sicuramente, il comitato del ministero dell’interno che assegna le scorte, ha informazioni riservate sui pericoli che corre Saviano che il pubblico non conosce (e non potrà mai conoscere, per ragioni di riservatezza e sicurezza). Ma con la sentenza di ieri cade una delle poche (potenziali) minacce che sono emerse in questi anni.
Il pentito Iovine: “Così a Napoli si aggiustavano i processi”, scrive Emilio Lanese su “Resto al Sud”. Sentenze di condanne a trent’anni o all’ergastolo che in appello diventano assoluzioni. Per il boss pentito del clan dei Casalesi, Antonio Iovine, che di quei ribaltoni giudiziari ha beneficiato, si tratta di processi aggiustati. “C’era una struttura che girava per il Tribunale di Napoli”, racconta chiamando in causa giudici e avvocati. I verbali delle dichiarazioni rese ai pm della Dda di Napoli Antonello Ardituro e Cesare Sirignano, depositate oggi al processo per le minacce del clan allo scrittore Roberto Saviano e alla giornalista Rosaria Capacchione, aprono ora un altro fronte di indagine, dopo quelli sulla struttura “militare” del clan e sulle infiltrazioni nel sistema economico e le collusioni dei politici. Un’inchiesta di cui si sta già occupando la Procura di Roma, che procede per i presunti reati commessi da magistrati del distretto partenopeo e cha ha aperto un fascicolo per l’ipotesi di corruzione in atti giudiziari. Iovine infatti ha riferito in particolare di tre processi conclusi con assoluzioni sostenendo, sulla base di quanto gli aveva rappresentato il suo avvocato, Michele Santonastaso, che quelle sentenze favorevoli (per delitti di cui lo stesso Iovine, dopo la decisione di collaborare con la giustizia, si assumerà la responsabilità) erano in realtà state comprate. Vicende che ruotano tutte intorno alla figura discussa di Santonastaso, detenuto da diversi mesi con l’accusa di collusione con la cosca dei Casalesi e sotto processo, proprio insieme con Iovine, anche per le minacce a Saviano e Capacchione. Ebbene, Santonastaso – a dire del pentito – gli aveva prospettato il modo di venir fuori da due processi nei quali in primo grado gli erano stati inflitti rispettivamente 30 anni e l’ergastolo. Nel primo caso, a proposito del processo per l’uccisione di Nicola Griffo, vittima di “lupara bianca”, Santonastaso gli avrebbe consigliato di nominare l’avvocato Sergio Cola, ex parlamentare di AN, “che aveva un buon rapporto” con il Presidente della Corte di assise Appello Pietro Lignola. “Il discorso fu molto chiaro: mi consigliò la nomina facendo riferimento chiaramente alla sua amicizia con il presidente della Corte”, dice il pentito. Santonastaso avrebbe fatto sapere a Iovine che l’avvocato voleva 200 milioni di lire necessari per fargli ottenere l’assoluzione. “Io accettai, fui assolto e pagai i 200 milioni in due rate di 100 milioni ciascuno”. “Santonastaso non mi ha mai spiegato nel dettaglio quale strada fu percorsa per ottenere l’assoluzione ma era chiaro che essa era stata ottenuta con metodi illeciti”. L’avvocato potrebbe aver millantato? O effettivamente era in grado di condizionare l’esito dei processi? Sarà compito degli inquirenti della Procura di Roma stabilire la veridicità delle dichiarazioni, relative al delitto Griffo come ad omicidi al centro di altri due processi. In uno si fa riferimento all’uccisione di Ubaldo e Antonio Scamperti, avvenuta a San Tammaro (Caserta) nel 1985: anche per tale delitto Iovine fu condannato all’ergastolo e assolto dalla stessa sezione della Corte di Assise di Appello di Napoli. “Santonastaso mi chiedeva la disponibilità a dargli 200mila euro. Io diedi il via libera ed effettivamente fui assolto”. Alla domanda del pm sul perché avessero atteso il giudizio di appello e non fossero intervenuti prima Iovine ha dato una spiegazione. “Santonastaso spiegò per quanto riguarda la Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere non era sua competenza, perché Santa Maria era un po’ così, faceva la differenza tra Napoli e Santa Maria”. Michele Zagaria, l’altro boss che con Iovine condivideva il comando del clan, dopo aver ottenuto un’assoluzione in appello per un duplice omicidio non volle invece pagare 250mila euro a Santonastaso che aveva promesso l’aggiustamento del processo ritenendolo un truffatore. Al magistrato che lo interrogava disse che di quei delitti era responsabile in prima persona ma, dopo pesanti condanne in Corte di Assise (ergastolo e 30 anni) era stato assolto in appello. Ora il pentito dei Casalesi Antonio Iovine spiega al pm della Dda Antonello Ardituro anche come avrebbe ottenuto quei ribaltoni: corrompendo i giudici, ovvero ricorrendo a una “struttura” attiva a suo dire nel Tribunale di Napoli per gli aggiustamenti dei processi. Sono soprattutto due gli episodi citati sui quali il pentito getta l’ombra del sospetto. Il più eclatante è rappresentato da un duplice omicidio avvenuto a San Tammaro, in provincia di Caserta, nel maggio 1985. Vittime: Ubaldo e Antonio Scamperti. Erano gli anni in cui i Casalesi, all’epoca guidati da Antonio Bardellino, stavano regolando i conti con gli ex alleati di un tempo, i Nuvoletta. Uno scontro per la supremazia criminale che riproduceva, su scala ridotta, la guerra di mafia in atto in Sicilia (entrambi i cartelli erano infatti rappresentati in Cosa Nostra). Il dibattimento di primo grado si era concluso con otto ergastoli. E il massimo della pena era stato inflitto anche a lui, Antonio Iovine soprannominato ‘o Ninno. Una situazione che si capovolge nel giudizio davanti alla Corte di Assise di Appello, che assolve il giovane rampollo dei Casalesi che di lì a poco avrebbe completato la scalata ai vertici dell’organizzazione, dopo la cattura dei pezzi da novanta come Francesco Schiavone, detto Sandokan, e Francesco Bidognetti, alias Cicciotto ‘e mezzanotte. Quella sentenza, ha raccontato Iovine al pm Antonello Ardituro, fu in realtà aggiustata come gli spiegò il suo difensore, l’avvocato Michele Santonastaso da diversi mesi anch’egli detenuto con l’accusa di collusioni con la cosca casalese. Così come, sempre sulla base delle rivelazioni che gli avrebbe fatto Santonastaso, furono rimesse a posto le cose al processo per l’uccisione di Nicola Griffo, vittima di lupara bianca, scomparso a metà degli anni Ottanta. Griffo si era reso responsabile di un triplice omicidio senza “l’autorizzazione” del clan dei casalesi. Fu eliminato nel 1985 dal “tribunale della camorra” che punì con la morte il camorrista di San Cipriano d’Aversa e ne nascose poi il corpo. Un sistema, quello di far scomparire i cadaveri, in linea con la tendenza dei Casalesi ad agire sotto traccia ed evitare, se non in casi di assoluta “necessità”, di rendersi protagonisti di fatti di sangue eclatanti che avrebbero richiamavano una più massiccia presenza sul territorio di polizia e carabinieri.
Il boss e i processi aggiustati «Assolto perché ho pagato». Il racconto del sistema «Nel Tribunale di Napoli c’era una struttura per corrompere». La Procura di Roma indaga su corruzione, scrive Fulvio Bufi “Il Corriere della Sera”. «Ci stava tutta una struttura che girava nel Tribunale di Napoli». Ha usato queste parole il collaboratore di giustizia Antonio Iovine, ex boss di primo piano dei clan camorristici casalesi, per spiegare ai magistrati della Direzione distrettuale antimafia come sarebbe riuscito ad essere assolto in appello in due processi per omicidio che in primo grado gli erano costati condanne a trenta anni e all’ergastolo. Una struttura che aggiustava i processi, quindi, alla quale Iovine racconta di essere ricorso su indicazione del legale che lo assisteva prima del pentimento, l’avvocato Michele Santonastaso (oggi detenuto per rapporti con i clan). E aggiunge che pagò in una circostanza duecento milioni di lire e nell’altra duecentomila euro. È nell’interrogatorio del 13 maggio scorso che Antonio Iovine comincia a raccontare di sentenze pilotate al sostituto della Dda Antonello Ardituro. Lo fa a proposito dei suoi rapporti con Michele Zagaria, l’altro ex superlatitante dei casalesi, e di quando quest’ultimo si rifiutò di pagare all’avvocato Santonastaso 250 mila euro dopo una assoluzione. «Sono stato assolto e ho versato». «In altre due occasioni - racconta Iovine - l’avvocato Santonastaso mi aveva chiesto soldi per corrompere giudici in cambio di una sentenza di assoluzione per due miei processi sempre in Corte d’appello di Napoli e mi riferisco all’omicidio di Griffo Nicola e al duplice omicidio Scamperti, per i quali mi chiese e ottenne rispettivamente 200 milioni per il processo Griffo e 200 mila euro per il processo Scamperti. Il meccanismo che avrebbe portato al ribaltamento delle sentenze di condanna, Iovine lo chiarisce nel successivo interrogatorio, quello del 26 maggio. «Nell’occasione del processo Griffo - racconta - il Santonastaso mi suggeriva, nel grado d’appello, la nomina dell’avvocato Cola Sergio, perché aveva un rapporto con il presidente della Corte d’assise d’Appello, ossia Lignola (Pietro Lignola, oggi in pensione, ndr)». Iovine spiega che aderì subito all’indicazione del suo legale di fiducia e, anche «senza conoscerlo», nominò Cola come ulteriore difensore. Del resto lui stesso ammette che «Santonastaso era sempre poco chiaro, affrontando gli argomenti sensibili con un modo particolare», ma stavolta non se ne preoccupò molto. «Fatto sta che sono stato assolto ed ho versato, tramite i miei familiari, direttamente all’avvocato Cola la somma di 100 milioni (di lire, ndr)». Soldi che, aggiunge Iovine, furono richiesti «direttamente dall’avvocato (Cola, ndr) a mia moglie ed avevano la natura di onorario, che sebbene giudicassi molto esagerata come richiesta, essendo stato assolto pagai senza problemi». Se rapporto diretto ci fu con l’avvocato Cola, altrettanto non avvenne con il giudice Lignola, secondo quello che riferisce Iovine. Fu l’avvocato Santonastaso, che lui aveva invitato «a darsi da fare per aggiustare il processo e farmi assolvere», a rassicurarlo «dicendo che poteva trovare la soluzione giusta». «Mi tranquillizzai quando seppi che era stato assegnato a Lignola». E fu sempre da Santonastaso che gli arrivò la richiesta economica: «Mi fu detto, credo da mia moglie, che l’avvocato voleva 200 milioni che erano necessari per farmi ottenere l’assoluzione. Io accettai, fui assolto e pagai i 200 milioni in due rate da 100 milioni ciascuna che gli furono portate da persone a me vicine. Il Santonastaso, naturalmente, non ha mai spiegato nel dettaglio quale strada fu percorsa per ottenere l’assoluzione, ma era chiaro che era stata ottenuta con metodi illeciti». Il nome del presidente di Corte d’Appello, Iovine dice di averlo sentito fare prima del processo, quando «il legale mi disse che c’era bisogno di far assegnare il processo alla sezione del presidente Lignola». Cosa che accadde anche per l’appello dell’omicidio Scamperti: «Quando venni a sapere che il processo era stato assegnato al presidente Lignola, mi tranquillizzai molto, ed ero fiducioso che il Santonastaso sarebbe riuscito anche questa volta a farmi assolvere». I verbali in cui Iovine parla delle sentenze aggiustate sono stati inviati per competenza dalla Procura di Napoli a quella di Roma che ha aperto un fascicolo e iscritto nel registro degli indagati per corruzione in atti giudiziari aggravata dall’articolo 7 (aver favorito un’associazione mafiosa) sia il giudice Lignola che gli avvocati Cola e Santonastaso».
Nel tribunale di Napoli sarebbe esistita "tutta una struttura" che si occupava di aggiustare i processi di camorra. Lo dice il pentito del clan dei Casalesi Antonio Iovine. E la Procura di Roma apre subito un'inchiesta per corruzione, scrive “La Repubblica”. Iovine ha reso le sue dichiarazioni nell'interrogatorio sostenuto il 13 maggio 2014 scorso, il primo dall'inizio della sua collaborazione con la giustizia. In un altro interrogatorio, quello del 28 maggio, il pentito ha sostenuto di aver di aver saputo dall'avvocato Michele Santonastaso, suo difensore storico oggi imputato di collusioni con la camorra, "che c'era la possibilità di ottenere una sentenza di assoluzione - in un processo d'appello per un duplice omicidio n.d.r. - e per questo occorrevano 250 mila euro per comprare, per corrompere i giudici". Iovine - secondo i nuovi verbali depositati dalla Procura di Napoli nel corso del processo per le minacce dei Casalesi a Roberto Saviano e Rosaria Capacchione- avrebbe pagato tre volte. Il boss fa riferimento negli interrogatori a un sistema di corruzione per aggiustare processi che coinvolgerebbe magistrati, e fa i nomi di un presidente di Corte d'Appello a Napoli, ora in pensione, e di un altro avvocato penalista, ex deputato di An, oltre al suo difensore storico, Michele Santonastaso."Negli incontri con il mio avvocato - afferma fra l'altro - parlavamo di esigenze particolari legate ai processi ed in alcune occasioni Santonastaso mi ha chiesto dei soldi per aggiustare i processi e farmi avere delle assoluzioni".
L'omicidio Griffo. "Una prima volta - racconta Iovine - è accaduto a proposito del processo per l'omicidio di Nicola Griffo per il quale avevo avuto una condanna a trent'anni. L'avvocato Santonastaso mi promise che in appello avrebbe visto cosa si sarebbe potuto fare. Mi consigliò di nominare anche un altro avvocato in quanto aveva un buon rapporto con il presidente della sezione di Corte d'Appello dove si celebrava il processo. Io così feci e invitai l'avvocato a darsi da fare per trovarmi una soluzione per farmi uscire assolto. L'avvocato mi rassicurò dicendo che poteva trovare la soluzione per aggiustare il processo e farmi assolvere. Ad un certo punto mi fu detto che l'avvocato voleva 200 milioni di vecchie lire che erano necessari per farmi ottenere l'assoluzione. Io accettai e fui assolto, pagai i 200 milioni in due rate da 100 milioni che gli furono portate da persone a me vicine".
L'omicidio Scamperti. Un'altra occasione simile avrebbe riguardato un processo per il duplice omicidio di Ubaldo e Antonio Scamperti, a San Cipriano D'Aversa, "nel quale - racconta Iovine - fui condannato all'ergastolo in primo grado e con le medesime modalità fui poi assolto in appello". E quando il boss seppe che il processo era stato assegnato al giudice che in precedenza lo aveva già assolto, "mi tranquillizzai molto ed ero fiducioso che Santonastaso sarebbe riuscito anche questa volta a farmi assolvere. Mi rendevo conto che ci voleva qualche sforzo in più in quanto c'erano due pentiti che mi accusavano. Fatto sta che in prossimità della conclusione del processo Santonastaso, per il tramite dei miei familiari, credo sempre mia moglie, mi fece sapere che era tutto a posto e che mi chiedeva la disponibilità a dargli 200 mila euro, sempre in due rate".
Le dichiarazioni di Iovine sono al vaglio dell'autorità giudiziaria che dovrà valutarne l'attendibilità e trovare i necessari riscontri. Iovine viene interrogato dai pm Antonello Ardituro e Cesare Sirignano con il procuratore aggiunto Giuseppe Borrelli. La Procura di Roma ha aperto il suo fascicolo con l'ipotesi di reato di corruzione in relazione appunto a queste dichiarazioni. Il boss del clan dei Casalesi Michele Zagaria dopo aver ottenuto un'assoluzione in appello non volle pagare 250mila euro all'avvocato che aveva promesso l'aggiustamento del processo ritenendolo un truffatore. E' una delle circostanze raccontate dal boss pentito Antonio Iovine, nei verbali dell'interrogatorio reso ai pm della Dda di Napoli Antonello Ardituro e Cesare Sirignano. Iovine riferisce la vicenda nell'ambito delle dichiarazioni su presunti casi di corruzione per ottenere esiti processuali favorevoli. Secondo Iovine, il suo legale, avvocato Michele Santonastaso (attualmente detenuto per collusioni con il clan) si propose di "aggiustare" il processo per un duplice omicidio (Griffo-Stroffolino) in cui era imputato Zagaria. A tale proposito avrebbe organizzato un incontro in un bar di Caserta con i familiari del boss e con un "intermediario" che si era già interessato per due sentenze di assoluzione favorevoli a Iovine. "Effettivamente - racconta Iovine - questo incontro ci fu e questa persona consegnò a mia moglie un bigliettino con un numero di telefono e l'indicazione della somma di 250mila euro occorrente per ottenere l'assoluzione. Questa persona voleva che ci fosse una conferma nel caso in cui Zagaria avesse dato l'ok definitivo. Io feci recapitare questo bigliettino a Michele Zagaria...Occorreva avere una conferma immediata perchè si era in prossimità della chiusura del processo. Se non erro il giorno dopo l'assoluzione Zagaria mi incontrò e mi espresse la volontà di non voler pagare questi soldi lasciandomi intendere che a suo dire l'assoluzione non era dipesa dall'intervento di Santonastaso. Io ci rimasi molto male e questo fatto naturalmente incise sul prosieguo dei miei rapporti con Zagaria e iniziò un periodo di freddezza".
«Dinanzi ad assurde sentenze, mi sono chiesto spesso se fosse cialtroneria delle corti o complicità, scrive Roberto Saviano su Facebook. Ora Antonio Iovine confessa: 250mila euro a sentenza. 250mila euro per aggiustare un processo: giudici avvicinabili, squadre di avvocati pronti a sfruttare ogni debolezza per raggiungere il loro obiettivo. Il boss racconta di come, pur essendo responsabile di alcuni omicidi, sia stato assolto al secondo grado per aver corrotto. Sarà necessario capire gli elementi che svelerà e le prove che porterà a loro sostegno, prima di iniziare un qualsiasi ragionamento, ma per ora è importante aprire il capitolo “corruzione giudiziaria”. Sempre più la giustizia civile e quella penale in Italia risultano mercati dove il miglior offerente ottiene il risultato sperato. Se Iovine darà prove della compravendita dei giudici, si aprirà un nuovo capitolo fondamentale e trascurato: la giustizia comprata dal malaffare. Del resto, la potenza del capitalismo criminale non potrebbe esistere senza la complicità di una parte della giustizia».
Magistratura corrotta e collusa con la camorra. Iovine, la procura di Roma indaga per corruzione e sentirà il boss pentito, scrive “Il Mattino”. La Procura di Roma ha aperto un fascicolo con l'ipotesi di reato di corruzione in relazione alle dichiarazioni del pentito dei Casalesi Antonio Iovine che ha raccontato di una «struttura al tribunale di Napoli» per corrompere i giudici. Il pentito sarà ascoltato. Le carte trasmesse per competenza dai magistrati partenopei sono all'attenzione dei pm romani da alcuni giorni. Gli inquirenti capitolini, in base a quanto filtra, interrogheranno Iovine che nelle sue dichiarazioni tirerebbe in ballo anche un ex giudice della corte d'assise d'Appello di Napoli già sotto processo a Roma per il reato di rivelazione del segreto d'ufficio ed abuso d'ufficio. Quando il pentito del clan dei casalesi Antonio Iovine parla dei casi di presunti aggiustamenti di processi fa in particolare riferimento a due episodi. Si tratta di vicende che si erano concluse con la condanna in primo grado e con il ribaltamento della sentenza da parte della medesima sezione della Corte di Assise di Appello di Napoli che lo assolse. Il 26 maggio scorso Iovine è stato interrogato dal pm della Dda di Napoli, Antonello Ardituro. «In alcune occasioni l'avvocato Michele Santonastaso - ha affermato Iovine - mi ha chiesto dei soldi per farmi avere delle assoluzioni». Il collaboratore si sofferma dapprima sul processo per l'omicidio di Nicola Griffo, vittima di lupara bianca. Santonastaso, a suo dire, gli avrebbe consigliato un penalista «che aveva un buon rapporto» con il presidente della Corte di assise Appello. «Il discorso fu molto chiaro, mi consigliò la nomina facendo riferimento chiaramente alla sua amicizia con il presidente della Corte». Il pentito nei verbali fa i nomi del giudice e dell'avvocato che sarebbero stati coinvolti nella vicenda, ora all'attenzione dei pm della procura di Roma, cha ha la titolarità delle indagini in cui sono indagati magistrati del distretto partenopeo. Santonastaso avrebbe fatto sapere a Iovine che l'avvocato voleva 200 milioni di lire necessari per fargli ottenere l'assoluzione. «Io accettai, fui assolto e pagai i 200 milioni in due rate di 100 milioni ciascunò» Santonastaso non mi ha mai spiegato nel dettaglio quale strada fu percorsa per ottenere l'assoluzione ma era chiaro che essa era stata ottenuta con metodi illeciti. «Al pm Ardituro il pentito (che fu condannato a 30 anni in primo grado e assolto in appello) ha ammesso di aver commesso il delitto con la complicità di altri tre camorristi. Iovine si sofferma poi su un duplice omicidio. Si tratta dell'uccisione di Ubaldo e Antonio Scamperti, avvenuta a San Tammaro (Caserta) nel 1985. Per tale delitto Iovine fu condannato all'ergastolo in primo grado e assolto dalla stessa sezione della Corte di Assise di Appello di Napoli. Quando seppe che il processo era stato assegnato allo stesso presidente» mi tranquillizzai molto «dice Iovine». Santonastaso mi chiedeva la disponibilità a dargli 200mila euro. Io diedi il via libera ed effettivamente fui assolto. Pagai i 200mila euro a Santonastaso in due rate da 100mila a distanza di una settimana l'una dall'altra «. Anche per il duplice omicidio Iovine ha ammesso la propria partecipazione diretta. Alla domanda del pm sul perchè avessero atteso il giudizio di appello e non fossero intervenuti prima per» aggiustare «i processi, Iovine spiega:» Santonastaso mi faceva il ragionamento che per quanto riguarda la Corte di Assise di Santa Maria Capua vetere non era sua competenza, perchè Santa Maria era un pò così, faceva la differenza tra Napoli e Santa Maria». Le dichiarazioni del pentito di camorra Antonio Iovine coinvolgono anche l'ex presidente della corte d'assise d'appello di Napoli, Pietro Lignola. Il magistrato, per un'altra vicenda in cui gli viene contestato il reato di rivelazione di segreto d'ufficio e abuso d'ufficio, è attualmente sotto processo a Roma davanti alla II sezione penale. I pm della capitale gli contestano i reati aggravati anche dal vincolo mafioso. La prossima udienza del processo è fissata per il 10 luglio.
Il caso Lignola: giudice integerrimo o corrotto? Chi è, si chiede “Caserta Monitor”. “Integerrimo e severo”: così Paolo Chiariello, ora a Sky Tg24 definisce Pietro Lignola, il magistrato finito nella bufera delle dichiarazioni del boss camorrista pentito Antonio Iovine perchè é in buoni rapporti con l’avvocato Sergio Cola, già parlamentare An, destinatario dei 200 milioni oggetto della richiesta del legale casertano Michele Santonastaso al boss per aggiustare il processo davanti alla Corte d’Appello presieduta da Lignola. Di ottima famiglia, con ascendenze nobiliari, ex allievo dell’esclusivo liceo “Pontano” di Napoli, retto dai Gesuiti, l’ex presidente della Corte d’Assise d’Appello di Napoli Pietro Lignola, citato nei verbali dal boss pentito dei Casalesi Antonio Iovine, è un magistrato stimato, in pensione dal 2009. Colto, musicologo, esperto del teatro napoletano del ‘600 e animatore di una compagnia che portò’ in scena le fiabe del “Pentamerone” di Giambattista Basile, è collaboratore di quotidiani e periodici (proprio al Roma Chiariello lo ha conosciuto). Lignola è attualmente sotto processo per rivelazione di segreto d’ufficio e abuso d’ufficio, a Roma davanti alla seconda sezione penale. I pm della capitale gli contestano i reati aggravati anche dal vincolo mafioso. La prossima udienza del processo è fissata per il 10 luglio. In magistratura è rimasto 50 anni, giudicando importanti processi. Nel 1997 in primo grado presiedeva la Corte d’ Assise che condannò i killer del giornalista napoletano Giancarlo Siani. Aveva giudicato anche i sicari del sacerdote Don Giuseppe Diana e guidato il processo per l’omicidio del fratello del magistrato ed ex senatore dei Ds Ferdinando Imposimato. Noto per sentenze rigorose nei confronti della criminalità organizzata, aveva invece fatto discutere per l’assoluzione in appello, nel 2003, dell’agente di polizia Tommaso Leone, condannato a 10 anni in primo grado per l’omicidio di Mario Castellano, 17 anni, che guidava una moto senza casco e non si era fermato all’alt. I difensori della famiglia di Castellano avevano presentato istanza di ricusazione nei confronti di Lignola, che avrebbe anticipato il giudizio in alcuni articoli firmati come opinionista su un quotidiano cittadino. Spesso polemico nei suoi articoli anche nei confronti di altri magistrati, era stato querelato da alcuni colleghi per aver stigmatizzato la loro presenza in piazza in occasione delle manifestazioni contro il “Global Forum” svoltosi a Napoli nel 2001 e coinvolto in una richiesta di risarcimento economico avanzata dai magistrati, che aveva interessato anche altri giornalisti all’epoca al Roma.
PARLIAMO DELL’EMILIA ROMAGNA.
DI BOLOGNA… Bologna, scontri all'Università: studenti sgomberati dalla biblioteca occupata.
Dopo giorni di proteste contro i tornelli installati alla biblioteca di Lettere, culminate mercoledì con una porta a vetri letteralmente portata via dai collettivi, giovedì l’Ateneo ha chiuso le porte. E gli attivisti le hanno riaperte, passando dall’interno. Qualche ora dopo, improvvisa, la carica della polizia all’interno dell’edificio. Video di Maria Centuori, Corriere di Bologna Tv 9 febbraio 2017.
Caos all'Università di Bologna: la polizia ha sgomberato la biblioteca di Lettere, al 36 di via Zamboni, caricando due volte gli studenti dei collettivi asserragliati all'interno. Le proteste sono nate dopo che ieri gli attivisti hanno letteralmente "smontato" i tornelli voluti dall'Ateneo per regolare gli accessi in biblioteca. Oggi hanno deciso di occupare lo spazio, fino all'arrivo degli agenti in tenuta antisommossa. Uno studente è stato bloccato dagli agenti in tenuta antisommossa, durante la guerriglia in zona universitaria di oggi pomeriggio a Bologna. Gli scontri sono nati dopo l'occupazione della biblioteca di Lettere da parte dei collettivi, per protestare contro i tornelli che regolano gli accessi, e il conseguente sgombero della polizia. Video di Caterina Giusberti, Repubblica tv 9 febbraio 2017.
Bologna, protesta anti tornelli a Lettere, guerriglia in zona universitaria, scrive Maria Centuori su "Il Corriere della Sera", il 9 febbraio 2017. Scontri in via Zamboni, dopo il «sabotaggio» delle porte di sicurezza in biblioteca. L’Ateneo aveva chiuso l’accesso, i collettivi l’hanno riaperto. Poi, improvviso, l’arrivo del reparto mobile chiamato dall’università. Lanci di bottiglie e nuove cariche in piazza Verdi: due fermati poi rilasciati. I collettivi sfileranno venerdì in corteo alle 16. Scontri all’Università di Bologna: al culmine delle proteste dei collettivi contro i tornelli installati alla biblioteca di Lettere, la polizia è entrata all’improvviso nell’edificio di via Zamboni 36 e ha caricato. Gli attivisti parlano di feriti. Dopo giorni di proteste, e dopo che mercoledì i collettivi avevano sabotato nuovamente i tornelli sistemati all’ingresso della biblioteca, letteralmente smontando una grande vetrata, giovedì mattina l’Ateneo ha fatto trovare il portone chiuso. «Riaprire le porte dove loro le chiudono», è stato subito lo slogan di Cua, il collettivo universitario autonomo. Insieme al collettivo Lubo e altre sigle studentesche e a un centinaio di studenti, gli attivisti nel primo pomeriggio hanno riaperto le porte della biblioteca di Discipline umanistiche al 36. Lo hanno fatto dall’interno da un accesso degli altri spazi universitari. La biblioteca durante la mattinata è rimasta chiusa al pubblico, un cartello sulla porta comunicava recitava «per seguire le lezioni e sostenere gli esami nei laboratori piccolo e grande si entra da via Zamboni 34». «L’università oggi ha dimostrato cosa vuol dire interruzione di pubblico servizio, non si possono chiudere le porte di un luogo pubblico, non andremo via fino a quando l’Ateneo comunicherà qual è la propria intenzione sull’accesso alla biblioteca. Staremo qui anche di notte», rivendicavano a metà pomeriggio i ragazzi. Poi, verso le 17.30, dentro l’edificio è arrivata all’improvviso la polizia, chiamata dall’Ateneo, caricando. Le forze dell’ordine in antisommossa hanno fatto irruzione all’interno del 36, la biblioteca di Discipline umanistiche. C’è stata una prima carica all’ingresso che ha tentato di respingere gli studenti e gli attivisti che in quel momento erano all’interno degli spazi dell’Università, occupati dalle 14.30. All’interno il corri corri generale e un lungo parapiglia. L’ingresso del 36 è stato distrutto dagli scontri: piante e cartelloni divelti, panchine e sedie rovesciate e l’ingresso, quello dei tornelli più volte sabotati nei giorni scorsi, è diventato un tappeto di cocci. Un gruppo di ragazzi dopo la carica si è barricato all’interno dell’aula studio, e lì c’è stato un nuovo respingimento. È volata qualche manganellata e sono volate sedie. All’interno del 36 non è rimasto nessuno mentre un’ottantina di ragazzi e ragazze si è barricata all’interno del 38 e ha detto di volerci rimanere a oltranza. Le forze dell’ordine hanno respinto attivisti e studenti nel frattempo arrivati all’esterno di Lettere, in via Zamboni, fino a piazza Scaravilli e lì dopo un quarto d’ora di stallo c’è stata una nuova carica di respingimento, fino a via Belle Arti. Scontri anche in piazza Verdi dopo quelli nella Biblioteca di Lettere con barricate, lanci di bottiglie e nuove cariche delle forze dell’ordine. La protesta da via Belle Arti si è in seguito spostata nel cuore della zona universitaria, davanti al Teatro Comunale e i manifestanti hanno eretto barricate rovesciando le campane del vetro presenti tra la piazza e via Petroni. La polizia è partita con una lunga carica e ha sostanzialmente liberato la piazza. Molte persone si sono rifugiate nei locali per ripararsi dal lancio di oggetti e dalle manganellate. I ragazzi, una volta dispersi, si sono divisi tra largo Respighi, via Zamboni e via Petroni, che dopo gli scontri è rimasta tappezzata di cocci. Due persone sono state fermate, identificate e poi rilasciate. Saranno denunciate una volta accertate le posizioni di ognuno. Gli studenti universitari guidati dal Collettivo universitario autonomo si sono poi spostati sui viali e hanno sfilato per confluire di nuovo verso il centro di Bologna, creando forti disagi al traffico. Dopo aver attraversato via Rizzoli si sono radunati in piazza Nettuno, davanti alla Sala borsa. Gli studenti hanno dato appuntamento a venerdì, con una conferenza stampa alle 12 in piazza Verdi, e un corteo che partirà alle 16 sempre da piazza Verdi.
Guerriglia all'Università di Bologna: la polizia sgombera la biblioteca occupata. Le barricate degli studenti in zona universitaria a Bologna. Devastata aula studio dopo le cariche degli agenti e le barricate dei collettivi. Scontri in piazza, rovesciati cassonetti, tavoli e sedie. Persone nei locali per ripararsi dal lancio di oggetti. Le proteste nate dai "tornelli" per regolare gli accessi in facoltà. Salvini: "Zecche rosse in galera". Il caso in Parlamento, scrive Caterina Giusberti il 9 febbraio 2017 su "La Repubblica". Scontri e caos all'Università di Bologna, dentro e fuori le aule dell'ateneo. Gli agenti in tenuta antisommossa hanno sgomberato la biblioteca di Lettere, occupata dagli studenti dei collettivi dopo due giorni di proteste contro i "tornelli" che l'ateneo ha installato per limitare e controllare gli accessi. Biblioteca devastata. Al culmine di una giornata di tensione, la polizia ha caricato gli studenti e liberato l'aula, che alla fine è stata devastata dalla guerriglia, come mostrano anche i video realizzati all'interno. Gli agenti sono entrati nel palazzo di Via Zamboni 36, sede della biblioteca di Lettere, e ha fatto uscire gli occupanti, i quali hanno opposto resistenza anche barricandosi con sedie, banchi e panche, anche questi tirati fuori dall'edificio e al momento appoggiati sotto il portico. Violenti scontri in strada. Ma le proteste e gli scontri sono proseguite anche e soprattutto fuori dalle aule, lungo le vie del centro e infine in piazza Verdi, il cuore della zona universitaria. Lungo il corteo i manifestanti hanno lanciato più volte sanpietrini e altri oggetti contro la polizia, che ha risposto con le cariche, fino all'arrivo in piazza Verdi, quartier generale degli attivisti. Qui i manifestanti hanno rovesciato cassonetti, tavoli e sedie creando delle vere e proprie barricate, spazzate via dalle forze dell'ordine con violente cariche. Le reazioni, Salvini: "Zecche rosse in galera". Il caso in Parlamento. "Scontri fra polizia e "studenti" (zecche rosse dei centri a-sociali) all'università di Bologna, aule danneggiate, barricate e sassi contro gli agenti. Spero che qualche figlio di papà abbia avuto la lezione che merita e che certa gentaglia passi qualche giorno nelle italiche galere. Quanto farebbe bene la reintroduzione del servizio militare obbligatorio" dice il leader della Lega Nord Matteo Salvini. "Ancora scontri nella zona universitaria per colpa dei "soliti". Il questore inizi a dare i fogli di via a questa gente" dichiara Lucia Borgonzoni della Lega Nord. "Le cariche di polizia dentro una biblioteca universitaria sono un fatto grave e inaccettabile, persino inimmaginabile. Eppure è successo - scrive il parlamentare di Sinistra italiana Giovanni Paglia -credo che il ministero dell'Università e il ministero dell'Interno debbano dare delle spiegazioni". I tornelli smontati. La situazione è degenerata ieri, quando gli studenti dei collettivi (Cua e Labàs in particolare) hanno smontato con un cacciavite la porta a vetri al 36 di via Zamboni, portando pure i "resti" in Rettorato, in segno di sfida. Questa mattina la porta della biblioteca era stata sbarrata dall'ateneo, e i collettivi, per tutta risposta, sono entrati lo stesso, occupando dunque l'aula studio. "L'università vigliacca chiude il 36", recitavano i cartelli appesi dagli studenti, che si sono dati appuntamento lì di fronte per un'assemblea. "Il 36 torna libero. Chiediamo da subito che l'università ci dia delle risposte concrete" il messaggio dei collettivi universitari. Che annunciano: restiamo qui dentro finché qualcuno dell'ateneo non verrà a parlarci.
Teppistelli rossi e sovversivi, la verità: chi sono davvero (umiliati), scrive “Libero Quotidiano" il 10 febbraio 2017. Teppista ma con la paghetta di papà. E' questo il ritratto del sovversivo moderno tracciato da una ricerca dell'intelligence tedesca, il BfV (l'Ufficio Federale per la Protezione della Costituzione), e pubblicata dal settimanale Bild. Come riporta il Tempo, la ricerca analizza i reati a sfondo politico commessi a Berlino nel periodo dal 2009 al 2013. In tutto 1523 reati, la maggior parte dei quali compiuti da rappresentanti dell'estrema sinistra. Divertente, si fa per dire, sapere che il 92 per cento dei teppistelli vive ancora sotto lo stesso tetto di mamma e papà. Insomma, fuori temibili antifascisti, dentro cucciolotti e bamboccioni. Secondo la ricerca, il profilo del sovversivo è maschio (84%), di età compresa trai 18 e 29 anni (72%), studente o disoccupato (uno su tre), con istruzione bassa (34% licenza media, 29% diploma di maturità). I reati commessi dal contestatore antifascista di oggi sono violenza, aggressione, incendio doloso, resistenza a Pubblico ufficiale; più raramente tentato omicidio. Il suo obiettivo sono per lo più perso ne fisiche (60%), prevalentemente poliziotti ma non disdegna l'avversario di destra.
"Mai più un '68 a Bologna. Difenderemo i veri studenti". Il professore guida da due anni l'ateneo nel mirino dei centri sociali. Ieri nuovi scontri e cariche in piazza, scrive Nino Materi, Sabato 11/02/2017, su "Il Giornale". Il blitz dell'altroieri da parte della polizia era ormai inevitabile. Bisogna infatti ripristinare la legalità nella biblioteca di Lettere: un luogo di cultura che una minoranza di «autonomi» (riuniti nei collettivi Cus e Lubàs) pretendeva di tenere ostaggio del degrado. Sono gli stessi giovani che ieri hanno continuano a scontrarsi con la polizia dopo che giovedì sera le forze dell'ordine avevano liberato l'edificio di via Zamboni 36. Il giorno prima i più violenti avevano divelto i tornelli di accesso fatti installare dall'università. Nel corso dell'irruzione in biblioteca è volata qualche manganellata. Poi, dopo lo sgombero, gli scontri sono proseguiti in piazza Verdi in un clima che ha ricordato (ma, fortunatamente, molto alla lontana) le barricate sessantottine. Ieri il telefono del rettore, Francesco Ubertini, fuori Bologna per un impegno accademico, è stato bollente. Tutti a chiedergli se fosse «pentito» o «dispiaciuto». Nessuna intervista ufficiale, ma dal suo entourage filtra una posizione netta: «Il rettore è dispiaciuto, ma non pentito. Abbiamo dovuto chiedere l'intervento della polizia per tutelare gli studenti da una minoranza violenta che impediva loro di usufruire della biblioteca in maniera corretta». Ieri, in ateneo, anche una conferenza stampa con il prorettore Mirko Degli Esposti che ha risposto al fuoco di fila dei giornalisti. Una posizione comune concordata col rettore che ribadisce i concetti espressi nei giorni scorsi in un'altra conferenza stampa.
C'è chi sente aria di '68. Bologna deve preoccuparsi?
«No. All'Università non c'è nessun clima di violenza, ma esattamente l'opposto. Grande collaborazione tra rettorato, corpo docente e studenti».
Gli studenti sono infatti stati i primi a condannare i soprusi che avvenivano nella biblioteca di Lettere.
«Infatti si è deciso di far intervenire le forze dell'ordine proprio per tutelare gli studenti ai quali era stato sottratto un luogo di studio».
Ma vedere gli scontri tra giovani e polizia non è mai una bella scena.
«È vero. In questi casi è una sconfitta per tutti. Ma noi avevano fatto ogni sforzo per dialogare. Come risposta abbiamo trovato i tornelli d'ingresso divelti e una porta sradicata».
A questo punto avere chiamato la polizia.
«Non potevamo lasciare un patrimonio come quello della biblioteca in mano a queste persone».
La struttura ha subìto danni?
«È devastata: per ora resta chiusa e non so dire quando riaprirà. Valuteremo con calma».
Quando riaprirà?
«Lo faremo a tempo debito e nelle modalità giuste. Nell'interesse degli studenti. Quelli veri, che voglio studiare. E di cui l'Università di Bologna è orgogliosa».
Il rettore più giovane d'Italia che ha battuto i vecchi baroni. Quarantacinque anni, ingegnere perugino, si è imposto con una parola d'ordine: rinnovamento, scrive Nino Materi, Sabato 11/02/2017, su "Il Giornale". Da quando (era il primo novembre di due anni fa) Francesco Ubertini si è seduto sulla poltrona scomoda - ma prestigiosissima - di rettore dell'Alma Mater Studiorum di Bologna l'aria è cambiata. Decisamente in meglio. Ubertini è infatti l'esatto contrario di quanti lo hanno preceduto alla guida di uno degli atenei più antichi e blasonati d'Italia. Ubertini il «rinnovatore» contro il conservatorismo dei vecchi baroni. Già al momento dell'insediamento Ubertini ha già potuto contare su un «magnifico» record: essere, a 45 anni, il rettore più giovane del nostro Paese. Ma a Ubertini (docente di Scienza delle costruzioni ed ex direttore del Dipartimento di Ingegneria civile, chimica e ambientale), più che il record anagrafico, sta a cuore il record dell'efficienza e dalla modernità. Per questo ha deciso di puntare, senza compromessi, sul rinnovamento e sulla collaborazione degli studenti che rappresentano la principale risorsa del suo ateneo. E in questi primi due anni di attività, l'ateneo bolognese è rifiorito a nuova vita. Con l'intera città che pare averne beneficiato. Ottimi rapporti il rettore li ha anche con la procura, il sindaco e le forze dell'ordine. Ma in cima alle sue priorità restano sempre loro: gli studenti. Ed è proprio per tutelare questa componente fondamentale che il rettore ha chiesto che lo spazio della biblioteca di Lettera tornasse nella disponibilità degli studenti veri, quelli che studiano e di cui Ubertini è orgoglioso. È una Bologna che appare matura quella del day after. Rettorato, cittadini, procura e sindaco concordano con il blitz delle forze dell'ordine che giovedì sera hanno liberato l'edificio di via Zamboni 36. E oggi il 90 per cento degli studenti ringrazia il rettore. La biblioteca di Lettere era diventa infatti un incubo: impiegati e utenti minacciati, spaccio di droga, danneggiamenti, sporcizia; insomma il caos assoluto in un clima di anarchia e senso di impunità che avevano ampiamente superato il limite di guardia. Una situazione di cui avevano motivo di dolersi gli stessi studenti (quelli seri, cioè la maggioranza), stufi di imbattersi in presunti «colleghi» che bivaccavano birre, cani e spinelli. I padroni erano diventati loro, facevano quello volevano, compreso sradicare i due tornelli di ingresso che il rettore aveva fatto installare all'ingresso nel tentavo di monitorare minimamente gli ingressi in biblioteca. Un accesso libero ma che, opportunamente, l'università intendeva «filtrare» attraverso un badge rilasciato dall'ateneo. Ma tra gli studenti ci sono «mele marce» sono poche? «Smettiamo di chiamare studenti persone che con la nostra università non hanno nulla a che fare», ha detto ieri il prorettore in conferenza stampa.
Il rettore si piega ai violenti: via i tornelli dalla biblioteca. Dopo il contestato blitz della polizia, il senato accademico cede alle pressioni del ministro Fedeli. Vincono i black bloc, scrive Nino Materi, Venerdì 17/02/2017, su "Il Giornale". «Martedì quasi certamente si deciderà di riaprire la biblioteca, ma senza più installare i famigerati tornelli». A rivelarlo al Giornale è un autorevole membro del senato accademico che martedì ascolterà la relazione del rettore, Francesco Ubertini, sugli «incresciosi fatti» che da quattro mesi stanno avvelenando l'Università di Bologna. Si è cominciato a ottobre con gli scontri per la mensa a «prezzo autoridotto», si è proseguito con uno stillicidio di conflitti culminati due settimane fa con il clamoroso blitz della polizia chiamata dal rettore per «liberare» la biblioteca di via Zamboni 36 trasformata ormai in una piazza di spaccio: una struttura universitaria dove c'era gente che «andava a bucarsi», come ha anche ammesso il sindaco, Virginio Merola. Il rettore, impotente davanti a tanto degrado, aveva fatto istallare dei tornelli all'ingresso, prontamente divelti dai «pacifici» antagonisti del Cua (Collettivo universitario autonomo) che poi, due settime fa, se le sono date di santa ragione con i poliziotti che avevano fatto irruzione nell'edificio. Cariche che sono proseguite in piazza Verdi (territorio «autogestito» del movimento antagonista) ancora oggi presidiata da blindati di polizia e carabinieri. Intanto la biblioteca dello scandalo è stata chiusa: pare sia «devastata», ingentissimi i danni. La data della riapertura resta un mistero, anche perché pare che si vogliano prima «far calmare le acque». Tradotto: il portone rimarrà serrato ancora per molto. Ma, quando tornerà ad essere spalancato, quasi certamente non ci saranno più i contestatissimi tornelli della discordia che tutto questo caos hanno scatenato. Una retromarcia imbarazzante da parte dell'ateneo bolognese che voleva accreditarsi come apripista per un nuovo corso all'insegna della legalità e che invece si ritrova a venire a patti - se non a piegarsi del tutto - con chi la legge è abituato solo a metterla sotto i piedi. Una delusione enorme per una città, ma anche per tutti quegli studenti che nell'opera di «bonifica» del rettore più giovane d'Italia credevano davvero. Ora, invece, spunta l'ombra del bluff. Un dietrofront spacciato per «apertura al dialogo» (pare sollecitato anche dal ministro dell'Istruzione, Valeria Fedeli) che, se fosse confermato, finirebbe invece col veicolare un messaggio pericolosissimo: la prepotenza di chi ha sradicato i tornelli per poi scaraventandoli (a mo' di ulteriore prova di forza e arroganza) davanti al rettorato vince su chi deve far rispettare le regole. Insomma - esagerando (ma poi neanche tanto) - è il male che si impone sul bene. Per i collettivi sarebbe una vittoria storica. Riappropriarsi - senza più «barriere» - della biblioteca di Lettere vorrebbe dire avere zittito non solo il rettore, ma anche tutti quegli studenti che «pretendevano» di non imbattersi in spacciatori nelle sale e in siringhe sporche di sangue nei bagni; per non parlare delle minacce, dei furti e degli atti di vandalismo. Un inferno che aveva portato Ubertini a decidere di «filtrare» in qualche modo gli ingressi monitorando gli accessi attraverso il rilascio di un badge. Ora la biblioteca potrebbe riaprire all'insegna della deregulation più assoluta. Che poi significherebbe tornare al vecchio caos. Inutile chiedere conferma al rettore di Bologna. Dal lui arriva solo l'ennesimo «no comment». Anche all'indomani dell'irruzione della polizia al «36» di via Zamboni (una notizia che fu rilanciata con grande risalto dai tutti i media) il rettore decise di non partecipare alla conferenza stampa di «chiarimento». Come se la cosa non lo riguardasse.
Bologna, i collettivi linciano su Fb la bibliotecaria Emilia. Dopo la denuncia del degrado nella biblioteca di ateneo, l'autrice della denuncia, Emilia, viene linciata online dal rancore dei collettivi, scrive Ivan Francese, Lunedì 13/02/2017 su "Il Giornale". Emilia ha ventidue anni e molto coraggio. Perché ci vuole una bella dose di fegato a mettersi contro i collettivi universitari proprio all'interno di quegli atenei in cui i "kompagni" si comportano ancora come se fossero onnipotenti, denunciandone soprusi e degrado. E la giovane bibliotecaria dell'Alma Mater che ha detto "basta" allo scempio degli spazi di studio dell'ateneo felsineo ora si trova a dover pagare proprio per quel coraggio. Dopo gli scontri fra polizia e collettivi che protestavano per l'installazione dei tornelli, diverse testate hanno raccolto la testimonianza di una giovane impiegata dell'accademia, che ha svelato una realtà sconcertante. Siringhe, risse, furti e abusi sessuali: tutto all'ordine del giorno dopo la chiusura degli uffici, quando in università resta aperta solo la biblioteca. E i collettivi la fanno da padroni, mal sopportando chi, come Emilia, osa squarciare il velo di Maya su questo degrado silenziato dall'omertà. La bibliotecaria non ha fatto a tempo a denunciare la situazione in cui versa l'ateneo bolognese che subito è stata raggiunta da una ridda di insulti e parole minacciose proprio da parte di quei collettivi che non sopportano critiche ai propri abusi. La pagina personale della ragazza è stata bersagliata su Facebook dal Collettivo Universitario Autonomo, che l'ha messa nel mirino perché militante del Pd. Come se la legalità e il decoro fossero valori di una parte piuttosto che di un'altra. Nel dubbio, Emilia è stata definita "bugiarda e infame". Con tanto di foto segnaletica, come per una gogna dove esporla al pubblico ludibrio.
"Droga, sesso, violenze, furti: l'ateneo in balia dei collettivi". La bibliotecaria minacciata per aver denunciato il degrado nell'università di Bologna: "Una volta un tizio si è masturbato davanti a una ragazza", scrive Giovanni Neve, Lunedì 13/02/2017, su "Il Giornale". "Siringhe in bagno, spaccio e furti agli studenti. Oltre ai punkabbestia poi sono comparsi i collettivi anarchici: risse, minacce e insulti erano all'ordine del giorno". Emilia Garuti studia all'università di Bologna e fa il tirocinio alla biblioteca dell'ateneo. In una intervista al Corriere della Sera, Emilia racconta come è stata ridotta la biblioteca nei giorni degli scontri tra i collettivi studenteschi e le forze dell'ordine. "Un giorno - continua - un tizio si è masturbato davanti a una ragazza, all’interno della biblioteca, come se niente fosse. Lei è scappata fuori in lacrime mentre dentro scoppiava un pandemonio. Un’altra volta ho avvertito una ragazza che la stavano derubando: sono stata inseguita e minacciata di botte". Nell'intervista con il Corriere della Sera, Emilia Garuti racconta come le condizioni della biblioteca dell'università di Bologna siano degenerate nel corso del tempo. "La biblioteca nel corso degli anni ha prolungato i suoi orari, prima oltre le 17, poi fino alle 24 - spiega - uno sforzo compiuto proprio per garantire a tutti la possibilità di studiare. Ma dal pomeriggio il personale se ne va, restano solo i custodi". E in quelle ore le stanze diventano terra di nessuno. "O meglio - puntualizza Emilia - hanno cominciato a entrare i punkabbestia e gli altri gruppi che stazionano nella piazza lì davanti, facendo i loro comodi". Nei giorni degli scontri, oltre ai punkabbestia, sono comparsi i collettivi anarchici. "Sono cominciate le occupazioni, le assemblee, le risse tra gruppi rivali - continua Emilia Garuti - minacce e insulti erano all'ordine del giorno. Un inferno". Tutto il resto fa parte della cronaca della scorsa settimana. Quando i vertici dell'università di Bologna decidono di installare i tornelli all'ingresso della biblioteca, scoppia il putiferio. In un primo momento, gli antagonisti provano a sabotare i dispositivi installati all'ingresso, poi li smontano e occupano la biblioteca. A quel punto il rettore chiama la polizia che sgombera i collettivi di sinistra.
«Quella biblioteca era una piazza di spaccio». Racconto choc della direttrice della biblioteca dell'università di Bologna: «Far West tra violenza, droga, siringhe, furti e minacce», scrive Nino Materi, Domenica 12/02/2017, su "Il Giornale". Ci sono dei giovani fantasmi che si aggirano attorno all'Università di Bologna. Sono ragazzi che vorrebbero montare sulla macchina del tempo per fiondarsi nell'anno '68, quando la contestazione studentesca era una cosa drammaticamente «seria». Invece devono accontentarsi di vivere ai nostri giorni, illudendosi di ripetere quelle «mitiche» (almeno per Mario Capanna) lotte. Ma, come diceva Marx, la storia si ripete sempre due volte: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa. Ma anche le farse, a volte, possono (ri)trasformarsi in tragedie. E per questo bene ha fatto giovedì scorso il rettore dell'Alma Mater a chiedere l'intervento della polizia per sgomberare la biblioteca della facoltà di Lettera da un manipolo di studenti (?) antagonisti che l'aveva trasformata in un Far West senza legge, eccetto quella della prepotenza. A parlare di «Far West» non sono i «fascisti» nemici dei «comunisti» del Cua (Collettivo universitario autonomo) che quel «Far West» sono accusati di averlo creato, bensì una integerrima funzionaria statale, Mirella Mazzucchi, che da anni è la responsabile della biblioteca dello «scandalo» in via Zamboni 36. «Non capivamo le ragioni dei cassoni dello scarico sempre rotti, poi abbiamo trovato le graffette con le dosi e abbiamo capito» ha raccontato Mazzucchi a vari organi di informazione. Una situazione di degrado che si trascina da tempo: «Dal 2012 la nostra biblioteca si era trasformato in una piazza Verdi riscaldata (piazza Verdi è il tradizionale luogo d'incontro dei collettivi ndr). Ho ricevuto due minacce negli ultimi mesi, una volta perché era stata sorpresa una ladra con le mani nella borsa di una ragazza. I furti qui sono frequenti, l'ultimo di 1300 euro risale a poche settimane fa». E poi: «Abbiamo trovato bustine di droga nelle cassette dei bagni e siringhe per terra. Non ci sentiamo al sicuro e anche gli studenti hanno più volte chiesto di porre rimedio alla situazione». Insomma, la riprova che il problema della sicurezza è stato ala base della scelta di istallare i famigerati tornelli della discordia che, dopo essere stati divelti da quelli del Cus, hanno reso inevitabile il blitz della polizia; da quell'episodio sono scaturiti una serie di scontri tra giovani e forze dell'ordine che da giorni stanno infiammando Bologna. Ma gli studenti dell'aeneo hanno isolato del tutto i collettivi, schierandosi sulla linea della legalità voluta dal rettore: oltre 5 mila firme sono state raccolte in difesa dell'intervento della polizia che ha liberato la struttura di via Zamboni 36. Che però resta chiusa a oltranza, considerati gli ingenti danni provocati dai rivoltosi. «La biblioteca è devastata, ma il danno maggiore è per tutti noi che ci lavoriamo e per tutti gli utenti ai quali è stato sottratto un luogo di studi», testimonia Mazzucchi. E la delusione è tangibile anche tra numerosissimi studenti: «Un gruppo di esterni molto politicizzato aveva trasformato questo luogo in un centro sociale, stravolgendo completamente la funzione culturale della biblioteca - ci dice Laura, terzo anno della facoltà di Lettere -. Qui ormai si mangiava, si beveva birra, si sentiva musica ad alto volume, si dormiva, si portavano addirittura i cani. Per non parlare dei furti, delle intimidazioni, dei vandalismi e della droga. Gli accessi controllati dovevano servire a ristabilire un minimo di sicurezza e normalità. Ma le cose, alla fine, sono andate come tutti hanno visto: tornelli divelti, porte sfondate, cariche della polizia e biblioteca chiusa per inagibilità. Intanto fuori le cariche della polizia continuano e il Cua annuncia: «Zamboni 36, parola d'ordine: sabotaggio sempre». Il futuro è nero. Anzi, rosso.
Bologna: "Io, intimidita sul web per le denunce sulla violenza in biblioteca". Il racconto di Emilia Garuti, studentessa di Lettere e tirocinante: "Ho assistito a furti e a risse. E un giorno una ragazza è venuta da noi in lacrime, perchè era stata pesantemente molestata". Il Cua la attacca su Facebook: "Hanno messo una mia foto con la scritta 'Eccola', per intimidire", scrive Caterina Giusberti il 13 febbraio 2017 su "La Repubblica". "Voi lì non c’eravate. Voi che parlate di libertà e rivoluzione non avete visto cosa succede alla biblioteca di via Zamboni 36. E io sono una di sinistra". È durissima l’invettiva che Emilia Garuti, studentessa di Lettere e consigliera Pd a Rolo, ha scritto venerdì su Facebook. Ha solo ventidue anni, ma ha già pubblicato un libro, che si intitola “Le anatre di Holden sanno dove andare” e parla della difficoltà dei giovani a diventare grandi. Negli ultimi anni nella biblioteca di via Zamboni 36 non ha solo studiato, ma anche lavorato, lo scorso anno. Per queste parole, il Cua ha attaccato Garuti su Facebook: "Questa sedicente studentessa, che ha fatto il giro del web, pare farsi portavoce della versione più accreditata dagli studenti in merito alla “situazione 36”. "Scrutando un po’ lo stesso web a lei (e a tanti altri sciacalli) molto caro, si scopre che la studentessa fa parte della segreteria regionale del Partito Democratico, nel ruolo di, guarda un po!, responsabile alla legalità! Nessuno è più di sinistra di te, ma per piacere, proprio tu che stai al soldo di Poletti". E lei denuncia: "Hanno messo un post su Facebook con il mio volto e la scritta "Eccola", che sembra "Wanted", un tentativo di intimidazione. Hanno chiesto se il Pd mi paga, ovviamente no. Io comunque non me la prendevo con loro (gli attivisti del Cua, ndr) ma con il degrado della biblioteca".
Garuti, cosa ha provato vedendo le immagini della biblioteca distrutta?
"Molta rabbia: le persone non sanno minimamente cosa succede lì dentro".
E che cosa succede al 36?
"Ci può entrare a chiunque, soprattutto i “punkabbestia” che vivono sotto ai portici del Teatro Comunale. La scorsa primavera, quando ho fatto tirocinio lì, un tizio è entrato, si è masturbato su una ragazza seduta accanto a lui, poi è uscito. Lei si è messa a urlare, è venuta da noi al front desk in lacrime".
Ricorda altri episodi?
"Un’altra sera hanno fatto una rissa, spaccando le vetrine che separano l’ala ingresso da quella ristoro. E una mattina, quando stavo iniziando il turno, ho visto uno sfilare di tasca il cellulare ad una ragazza. Ho urlato per avvertirla e lui mi è venuto addosso, minacciando di picchiarmi".
Era d’accordo con l’idea dei tornelli all’ingresso, allora.
«I tornelli non erano per quelli del Cua, ma per tenere fuori il degrado. Se gli autonomi trovassero una maniera non violenta per controllare la situazione ben venga: la verità è che non li ho mai visti occuparsi del problema. L’Università usa mezzi disperati per una situazione disperata».
I collettivi dicono di rappresentare voi studenti.
"Appunto. E noi siamo stufi che parlino per noi, non ne possiamo più, non è questo il modo. Usano parole come “libertà” e “rivoluzione” senza sapere minimamente cosa significhino. Si dicono di sinistra ma ci impediscono di essere liberi, non hanno rispetto per gli altri, usano la violenza, sono anarchici nel senso peggiore del termine. Mi fa tutto molta rabbia".
Come andrà a finire?
«Finirà che tra qualche giorno si smonterà tutto, quelli del Cua troveranno un altro motivo per cui fare casino e si dimenticheranno dei tornelli. E il degrado in via Zamboni continuerà».
Scusi ma lei perché continua a frequentarlo, il 36?
"Perché Lettere è una facoltà che mi piace, i professori sono bravi e si respira davvero un bel clima, di giovani che possono fare qualcosa. C’è energia, speranza nelle persone che incontri. Peccato per tutto il resto".
«Io, bibliotecaria minacciata per aver denunciato droga e violenze in Ateneo a Bologna». La tirocinante: si viveva tra siringhe in bagno, spaccio e furti. «Una volta è successo che un tizio si è masturbato davanti a una ragazza... Un’altra ho avvertito una ragazza che la stavano derubando: sono stata inseguita e minacciata di botte», scrive Claudio Del Frate il 12 febbraio 2017 su “Il Corriere della Sera”. «È successo anche questo: un giorno un tizio si è masturbato davanti a una ragazza, all’interno della biblioteca, come se niente fosse. Lei è scappata fuori in lacrime mentre dentro scoppiava un pandemonio. Un’altra volta ho avvertito una ragazza che la stavano derubando: sono stata inseguita e minacciata di botte». Storie di tutti i giorni negli spazi della biblioteca della facoltà di Lettere a Bologna, negli stessi luoghi che nei giorni scorsi sono stati teatro dei tafferugli tra i collettivi studenteschi che occupavano i locali e imponevano la loro legge e le forze dell’ordine. Emilia Garuti, 22 anni, per aver reso pubblico quello che in tanti sapevano ma tacevano, è diventata subito bersaglio di dileggio e velate minacce. Da ieri nella sua pagina Facebook vengono «depositate» frasi e giudizi poco rassicuranti. «Spero di non dover cambiare le mie abitudini di vita, per questo». In realtà non è sola. Le ultime violenze sembrano aver compattato un fronte di studenti e personale universitario che ha deciso di dire basta. Una petizione in questo senso sul sito «change.org» ha raccolto in poche ore 6.500 adesioni e altri, dopo Emilia, hanno deciso di far sentire la loro voce. A dispetto di quanti, ad esempio la Cgil di Bologna o altre associazioni, hanno criticato l’intervento della polizia nei locali dell’università e altre misure di scurezza. «Ma se queste persone passassero qui una sola mattinata, vi garantisco che cambierebbero idea al volo». Emilia ha un legame particolare con la biblioteca di Lettere: la frequenta assiduamente in quanto iscritta alla facoltà di arti visive. Ma per quattro mesi ha svolto lì dentro anche un tirocinio come bibliotecaria, per ottenere crediti formativi; quegli spazi, insomma, sono un po’ una sua seconda casa. E allora proviamo a descrivere l’aria che tira. «La biblioteca nel corso degli anni ha prolungato i suoi orari, prima oltre le 17, poi fino alle 24. Uno sforzo compiuto proprio per garantire a tutti la possibilità di studiare. Ma dal pomeriggio il personale se ne va, restano solo i custodi. E in quelle ore le stanze diventano terra di nessuno. O meglio: hanno cominciato a entrare i punkabbestia e gli altri gruppi che stazionano nella piazza lì davanti, facendo i loro comodi». Da lì poi, per chi vuole dedicarsi ai libri, la situazione diventa insopportabile: «I bagni vengono usati come luoghi di spaccio o per drogarsi — racconta Emilia — più volte sono state trovate siringhe usate e i servizi sono rimasti chiusi per giorni. I borseggi e i furti sono all’ordine del giorno, i materiali della biblioteca danneggiati, persino i libri». E quando il rettorato decide di introdurre misure di controllo, ad esempio facendo arrivare guardie giurate, la situazione peggiora: «Oltre ai punkabbestia — racconta ancora la studentessa — sono comparsi i collettivi anarchici: sono cominciate le occupazioni, le assemblee, le risse tra gruppi rivali; minacce e insulti erano all’ordine del giorno. Un inferno». Il culmine viene raggiunto quando l’ateneo bolognese si convince a installare dei tornelli all’ingresso della biblioteca: chi entra, deve avere un badge. È cronaca dei giorni scorsi: prima gli antagonisti decidono di sabotare i dispositivi all’ingresso, poi li smontano e occupano la biblioteca. A quel punto il rettore chiama la polizia e fa sgomberare i locali con la forza. Gesto che non suscita in città reazioni unanimi, diciamo così: vengono rievocate le atmosfere del ‘77, la Bologna del sindaco Zangheri che diventa un campo di battaglia, la repressione ordinata da Cossiga. Altri tempi. Più banalmente la biblioteca e i suoi frequentatori sono ostaggi di una ventina di persone, non di più. «Anche noi studenti avremmo fatto a meno di vedere i poliziotti fare irruzione — confessa ancora Emilia — ma al punto a cui eravamo giunti, che alternative c’erano? I collettivi ci dicono che deve essere garantito il diritto allo studio, ma loro sono i primi a negarcelo, impedendoci l’uso della biblioteca, spaccando tavoli e strappando i libri che altri hanno contribuito a pagare. Troppo comodo criticare i tornelli e le misure di sicurezza appellandosi a principi astratti. Calatevi nella realtà e poi ne riparliamo».
Bologna, il sindaco: "In biblioteca la gente si bucava. Dai collettivi comportamenti da delinquenti". Merola durissimo dopo le barricate in zona universitaria: "Basta alla politica fatta con la violenza". Sinistra italiana, interrogazione a Minniti: "Perché la polizia è stata così aggressiva?". Salvini: "Idranti in piazza Verdi". Cortocircuito in ateneo sulla chiusura delle aule studio, scrive "La Repubblica" il 14 febbraio 2017. "Sono comportamenti violenti, da delinquenti. Mi fa piacere che finalmente il grosso degli studenti abbia preso le distanze da questa storia". Il sindaco di Bologna, Virginio Merola, torna a condannare il comportamento dei collettivi universitari, Cua in particolare, al centro della guerriglia dei giorni scorsi attorno a piazza Verdi dopo lo sgombero del "36" di via Zamboni. Il primo cittadino ne ha parlato questa mattina su Radio24. "Quello che sta avvenendo è il risultato finale di persone che pensano di fare politica dicendo "questo territorio lo controllo io". Finalmente a Bologna dopo tanti tabù c'è una procura che interviene facendo la propria parte: ci sono pendenti centinaia di procedimenti che molto spesso finiscono in prescrizione. Con il nuovo procuratore si sta dando una svolta e questo è molto importante. Il rettore a malincuore ha dato l'ok all'intervento in università. E' la prima volta dopo tanti anni che la polizia entra all'università, ma mi metto nei panni del rettore". Del resto, osserva Merola, "queste sono persone che vivono quando vengono represse. I tentativi di dialogo sono stati fatti continuamente, a questo punto bisogna prendere atto che hanno scelto come metodo la violenza, il sopruso e la prevaricazione". E ancora: "Una biblioteca dove, approfittando degli studenti, entrano spacciatori e persone che si bucano non si può tollerare. Io mi auguro che Bologna sani un po' le sue ferite". Sotto le Due torri "qualche volta succede qualcosa e i giornali tirano fuori il 1977. Ma stiamo parlando di 40 anni fa. Qui abbiamo persone che pensano di fare politica attraverso la violenza. Questo non si può accettare". Per Merola, insomma "è una questione di elementare democrazia. Non si può pensare che con la violenza uno possa fare quello che gli pare".
Il caso al governo. Per quale motivo le forze dell'ordine non hanno cercato "il dialogo necessario a stemperare la tensione che evidentemente si era venuta a determinare nei giorni scorsi"; su quali presupposti "di fatto e di diritto" il rettorato dell'Università ha chiesto il blitz degli agenti; e soprattutto: per quale motivo le forze di polizia hanno "adottato metodi tanto aggressivi in un luogo così palesemente inadatto, tanto dal punto di vista della funzionalità quanto del carico simbolico, anche considerando che al momento dell'intervento era frequentata da studenti". Sono le tre domande su cui i deputati di Sinistra italiana esigono risposte dal ministro dell'Interno, Marco Minniti, e da quello dell'Università, Valeria Fedeli.
Salvini: "Idranti in piazza Verdi". Il leader della Lega Nord Matteo Salvini si scaglia nuovamente contro i collettivi, chiedendo uno "stop ai delinquenti nell'Università di Bologna", e la "chiusura immediata dei centri sociali, coacervo di violenza che molti a sinistra continuano a giustificare". Annuncia "agli amici bolognesi che ci vedremo presto in piazza Verdi". In particolare, il segretario del Carroccio insiste sulla necessità di "mandare in galera chi commette reati", sottolineando come finora, "a fronte di quasi 4.000 denunce non ci sia stato nemmeno un processo e una condanna, mentre quel poco che è iniziato è finito in prescrizione. Sono intollerabili violenze dei figli di papà contro l'università e contro tutti gli studenti per bene, moltissimi dei quali ci hanno scritto per chiedere aiuto. Ripuliamo la città, e riprendiamoci piazza Verdi con gli idranti e le retate".
Cortocircuito biblioteche. Nel pomeriggio cortocircuito sulle biblioteche della zona universitaria, con la Paleotti che viene prima chiusa poi riaperta attorno alle cinque per ragioni di sicurezza. Idem la Bigiavi di via Belle Arti. "Ordini del rettore, sicurezza preventiva". fa sapere il personale all'ingresso. Ma dall'ufficio stampa dell'Ateneo negano: "La chiusura con un'ora di anticipo è dovuta ad un aggiornamento dei cataloghi, programmato da tempo".
Bologna, la verità degli agenti: "Così i collettivi ci hanno bersagliato". Sinistra Italiana e Cua contestano il blitz ordinato dal questore: "Inammissibile". Un poliziotto che ha partecipato allo sgombero: "Hanno lanciato di tutto", scrive Giuseppe De Lorenzo, Mercoledì 15/02/2017, su "Il Giornale". C'era anche lui giovedì sera nella squadra di poliziotti che ha sgomberato la biblioteca della facoltà di Lettere dell'Università di Bologna. Paolo, il nome è di fantasia per proteggerne l'incolumità, ricorda bene quei momenti: l'ingresso in ateneo, la reazione dei collettivi, il lancio di oggetti e la successiva guerriglia in strada. Scene di ordinaria follia. La vicenda è nota. Un manipolo di studenti, o presunti tali, la settimana scorsa occupa l'aula per protestare contro la decisione di installare dei tornelli all'ingresso. Evidentemente annoiati dagli studi, pensano di avviare una contestazione per riaffermare chissà quale libertà negata. Quando il Rettore, Francesco Ubertini, chiede al questore di liberare la facoltà dal Collettivo Universitario Autonomo (Cua), Paolo e gli altri eseguono gli ordini. "All'inizio - spiega l'agente - gli studenti normali sono usciti senza problemi. Poi però il Collettivo ha reagito con violenza, lanciandoci addosso di tutto. Ci hanno bersagliato". Altro che irruzione con "metodi aggressivi", come denunciato da Sinistra Italiana nell'interrogazione presentata al ministro Minniti. In un secondo momento gli scontri si sono spostati nella piazza antistante la sede universitaria: "Sono entrati nel portone successivo, il 38, hanno portato fuori dei mobili per accatastarli sotto al portico. Poi hanno rovesciato le campane di raccolta del vetro per trovare bottiglie e batterie da scagliarci contro. A quel punto siamo stati costretti a spingerli indietro". Nei giorni successivi il Cua si è dato appuntamento in biblioteca per riparare "i danni causati dall'irruzione della Polizia". Checché ne dicano i loro rappresentanti, però, i primi a ribaltare sede e tavoli non sono stati gli agenti. Ma loro. "Ci hanno scagliato contro qualsiasi cosa trovassero, pure i libri. Noi non siamo entrati per distruggere qualcosa o per provocare. Ho letto molte cose in questi giorni, tutte false". Il passato a Bologna conta molto. E non parliamo del famoso '77 del cui fantomatico ritorno tanto si discute oggi, ma dei numerosi episodi di violenza contro le forze dell'ordine realizzati periodicamente da anarchici, collettivi e centri sociali. "L'ordine pubblico a Bologna è difficile da gestire", spiega Paolo. "Piazza Verdi chiede sempre la massima attenzione, tra spacciatori, ubriachi e malviventi. Se una pattuglia interviene per sedare una rissa, c'è sempre il pericolo che venga accerchiata". Col rischio di lasciarci le penne: "Il timore è che qualcuno perda la testa e vada oltre il lancio di oggetti. È successo e può succedere. In quei momenti non pensi alla morte, ma lo sai bene che ogni bottiglia o bomba carta può diventare l'oggetto che ti uccide". Sui muri di via Zamboni non si contano i graffiti con insulti alla polizia. Il motto "All Cops Are Bastard" è il classico esempio di quanto siano odiate da quelle parti le forze dell'ordine. "Il loro primo nemico siamo noi", sorride amaro Paolo. Non bisogna stupirsi allora se le manifestazioni finiscono in rissa. I facinorosi "recidivi" sono ben noti agli investigatori, ma nessun giudice ha mai emesso un foglio di via contro chi negli anni ha collezionato più denunce che esami. Così ogni tornello, ogni visita di Salvini o di qualche altro politico diventa occasione buona per menar le mani. "Sempre la stessa storia: i manifestanti cercano di forzare il cordone a difesa del politico di turno, noi li blocchiamo e loro iniziano a lanciarci addosso di tutto. Vi assicuro che le pietre di porfido sono pericolose, così come le bombe carta che esplodono sotto i nostri piedi. Chi non l'ha mai provato non può capirlo: quando ci troviamo sotto una pioggia di oggetti, non bastano gli scudi. Siamo costretti a caricare. Non è vero che manganelliamo gli studenti, né che siamo noi i primi ad attaccare. I collettivi fanno le vittime, ma sono dalla parte del torto".
Black bloc, settimana corta. Rivoluzione fino al venerdì. Poi si va in pausa-weekend. Scontri, assemblee, volantinaggi, striscioni, slogan e cortei. Ma soltanto nei giorni feriali, scrive Nino Materi, Lunedì 20/02/2017, su "Il Giornale". Gli antagonisti dell'Università di Bologna odiano i tornelli all'ingresso della biblioteca della facoltà di Lettere, ma «timbrano» regolarmente il «cartellino». Da lunedì al venerdì. Perché il weekend è sacro anche per i «rivoluzionari»: una congerie di anarco-figli di papà che nei primi cinque giorni della settimana si dilettano in assemblee, occupazioni e scontri con la polizia, per poi riposarsi il sabato e la domenica. È la figura, un po' patetica, da barricadero impiegatizio, che emerge dall'analisi del materiale sequestrato dalla Digos in casa degli ultrà del Cua (Collettivo universitario autonomo) arrestati per gli scontri con la polizia durante il blitz al «36» in via Zamboni. Un'irruzione sollecitata dall'ateneo perché ormai in quella biblioteca avveniva di tutto: spaccio di droga, furti, minacce, atti vandalici. «Lì c'era gente che andava per bucarsi» (Virginio Merola, sindaco di Bologna, dixit); «Giovani predisposti alla violenza (...)» (tratto dall'ordinanza di conferma degli arresti). Ma torniamo agli appunti pseudo-insurrezionalisti ritrovati dalle forze dell'ordine nelle case medio-borghesi dei travet della contestazione dei giorni feriali. Nei festivi, infatti, cortei e manifestazioni risultano subire una sospetta pausa di riflessione, come fosse un rigenerante pisolino postprandiale in attesa di riabbuffarsi a colpi di slogan contro la «repressione di Stato». Dura la vita dell'autonomo professionista che emerge dal decalogo elaborato dai cervelli del Movimento studentesco: si comincia il lunedì con «volantinaggio in piazza Verdi» (la piazza che sta agli antagonisti come Lourdes sta alla Madonna); si prosegue il martedì con «assemblea in aula magna»; si arriva al mercoledì con «richiesta dimissioni di rettore e questore»; giovedì «preparazione striscioni e slogan per corteo»; il clou è venerdì con «scontri e attività di controinformazione». Gli «scontri» sono quelli con la polizia, mentre la «controinformazione» è quella contro i «giornalisti di regime». Quale «regime»? Boh. Ma dopo ben cinque giorni di indefesso «lavoro», ecco arrivare, meritatissimo, il weekend del guerriero: riposo interrotto, al massimo, per mettere giù la bozza del programma della settimana successiva. Che poi è, sostanzialmente, identica a quella appena trascorsa: volantinaggio, assemblea, richiesta di dimissioni, manifesti, scontri. Un attivismo inversamente proporzionale al mutismo assoluto che in questi giorni sta caratterizzando la strategia comunicativa (o meglio, incomunicativa) del rettore Francesco Ubertini che - dopo aver avuto il coraggio di installare i tornelli al «36» e aver sollecitato l'intervento della polizia contro chi li aveva divelti - pare ora intenzionato a un clamoroso dietrofront, riaprendo la biblioteca dello scandalo priva senza i contestati tornelli. Se davvero fosse così, passerebbe un messaggio pericolosissimo: la violenza vince sulla legalità.
Fiera di mia figlia che delinque, scrive Concita De Gregorio il 19 febbraio 2017 su “La Repubblica”. Bologna. Scontri di piazza fra studenti e polizia durante le proteste per i tornelli “da banca” fatti mettere dal rettore Francesco Ubertini al 36 di via Zamboni, la biblioteca di Discipline umanistiche: i tornelli consentono di entrare solo chi sia in possesso di badge. Tornelli “neo-liberali”, “tornelli Gelmini” nelle cronache dei collettivi. Il 36 è luogo “aperto” della città, “luogo d’incontro e di diritto allo studio” – scrivono gli studenti di Univ-Aut sul sito dell’Antagonismo universitario. “E’ un luogo dove entrano persone che spacciano e si bucano”, replica il sindaco Virginio Merola, Pd, che appoggia il rettore. Due ragazzi arrestati per “forte propensione a delinquere”, parole del giudice Roberto Mazza, moltissimi identificati dai filmati e “attenzionati” dalla polizia. Molte lettere. Tra tante quella della madre di Ilaria, 19 anni, di Cremona, fuorisede a Bologna, matricola a Filosofia. Si definisce “la madre di una delinquente”, avverto istintiva diffidenza. L’intervento dei genitori (certi genitori) a tutela dei figli è spesso per i ragazzi una sventura aggiuntiva. Quei padri che alle elementari si riuniscono perché imparare a memoria le tabelline per i bambini è stressante, alle medie si parlano in chat tutto il giorno facendo un caso di ogni infantile parola, alle superiori vanno a portare le palle di Natale per l’albero, durante l’occupazione. Se i genitori togliessero le mani. Chiamo dunque Marina Ricci con qualche diffidenza. Ha scritto: “Giornali e tv danno notizie distorte di quello che sta succedendo. Quando ho visto la brutalità delle cariche e della irruzione della celere in biblioteca ho provato per un attimo dolorosissimo il desiderio, da madre che vuole proteggere l’incolumità fisica della sua “bimba”, il desiderio di avere una figlia “al sicuro”, una che pensi ai propri interessi e si preoccupi solo di quelli. Sono invece felice che mia figlia si associ a delinquere con altri che sanno alzare la testa dai libri pur amandoli come lei li ama”. E’ una frase cruda, ne parliamo a lungo al telefono. Marina Ricci è medico, neuropsichiatra dell’età evolutiva. Contraria, certo, a ogni forma di violenza. Sua figlia non fuma neppure tabacco, studia con profitto, vuole fare l’insegnante. Ha frequentato il liceo classico e un centro sociale, a Cremona. In entrambi i luoghi circolavano droghe, forse al liceo di più, dice. I venditori si arricchiscono nell’illegalità, sono ovunque ci siano consumatori: fuori e dentro le scuole, le università, le discoteche, i concerti sulla spiaggia. Qualcuno vende qualcuno compra, qualcun altro no. Dipende da come sei fatto, da chi sei: nessun tornello impedisce lo spaccio. In piazza Verdi, fuori dalla Facoltà, c’è la polizia e ci sono gli spacciatori. Non barriere fisiche ma culturali è quello che dobbiamo costruire. Le alternative esistenziali al senso di smarrimento che causa qualunque dipendenza. Dice Marina: “Sono spaventata e orgogliosa insieme. Temo per mia figlia, certo, ma sono fiera che sappia combattere contro un sistema che vuole ragazzi passivi consumatori di università-azienda e biblioteche-banche. Sono fiera che abbia la passione di pretendere un mondo che apre, non chiude”. Ha ragione Marina. La passione è un antidoto più potente dei tornelli. Non è la droga che genera il vuoto, è il contrario.
Concita e le mamme cattive maestre di pessimi studenti. Così la De Gregorio difende l'indifendibile, scrive Nicola Porro, Lunedì 20/02/2017, su "Il Giornale". Avete presente quel film di Verdone, in cui lei masticando la gomma americana, figlia dei fiori stile anni '70, dice strascicando la voce a un favoloso Mario Brega: fascista...e lui risponde agitando un doppio pugno: «Io so' communista cosí». Avete presente? Se ve lo foste dimenticato, leggetevi le letterine di Repubblica curate da Concita de Gregorio, e ritornate in quel clima. Brava, a essere onesti, nello scovare le debolezze di Fedez, comunista col Rolex, che firma autografi solo dietro prova di acquisto. Ieri Concita ci ha portato a Bologna. La storia la conoscete. Il rettore mette dei «tornelli» all'ingresso della biblioteca, e nel contempo ne amplia gli orari di apertura. Bibliotecari e utilizzatori della biblioteca ne sono ben contenti. Quel posto era diventato un casino, tra punkabbestia e droghette nei bagni. I collettivi e qualche studente (secondo la polizia, sono una minoranza) si ribellano e occupano tutto. Fanno quello che fanno sempre i collettivi di sinistra, occupano ciò che non è loro. E se infastiditi, si buttano a terra piagnucolando e fingendo il fallo da rigore. Il rettore, per una volta, invece di mollare la presa, chiama la polizia, che fa il suo mestiere e sgombera. Qualche fermo, alcuni identificati. E così arriviamo alla madre di Maria, studentessa di Cremona di anni 19, matricola di filosofia. A Concita, dice di essere orgogliosa di una figlia «delinquente» e si dice «felice che combatta contro un sistema che vuole i ragazzi passivi consumatori di un'università azienda e biblioteche banche». Intanto verrebbe da chiedersi se abbia scoperto una macchina del tempo che l'ha teletrasportata da una comune degli anni '70 a oggi. Concita si fa comunque convincere. In fondo combattere contro un sistema è sempre chic. Ma qui non c'è Stalin, non c'è Castro (ah no, forse quello le piaceva), c'è un rettore che tutela il diritto allo studio. Non tutti hanno una madre come Maria, che fa il medico, il neuropsichiatra; ci sono anche studenti che non hanno mammà che paga i conti e per i quali studiare non è un hobby. Per loro il «sistema» è quello dei collettivi che parlano di biblioteche-banche, mentre loro in banca sperano di lavorarci. Per loro il «sistema» è quello dell'università-parcheggio in cui le tante Marie possono restare a vita, mentre loro hanno bisogno di entrare in azienda, quella tanto odiata dalla mamma di Maria, il prima possibile. Per loro le mamme sono come quella mamma di Baltimora che divenne celebre perché, ripresa dalle telecamere, diede uno schiaffone al figlio Michael che lanciava pietre alla polizia. «Vai a studiare, invece di fare il teppista». Da noi la mamma è sempre la mamma. E invece di spiegare a sua figlia che i luoghi pubblici non si occupano e che regolamentare l'accesso a una biblioteca pubblica non è un assalto al diritto allo studio, vuole spiegare a noi che la figlia sta combattendo un sistema liberticida. Ma de che? A communista. Con due emme come quelle del romanaccio Mario Brega, ma senza la sua simpatia. Garantito che questa mamma e sua figlia ce le troveremo a manifestare contro il prossimo governo, di qualsiasi colore esso sarà, per la disoccupazione giovanile al 40 per cento.
Bologna, annuncio razzista: "Non si affitta agli africani". Una bacheca di annunci in università. La storia denunciata da una studentessa del Camerun in cerca di una stanza in città: "Da non credere, mi ha fatto davvero male". Gli autori dell'annuncio: "Ci dispiace, non volevamo offenderla", scrive Ilaria Venturi il 3 febbraio 2017 su "La Repubblica". "Da non crederci". Sandra Vero Kameni, 23 anni, studentessa universitaria venuta dal Camerun quattro anni fa, non trova le parole. Da due anni a Bologna, si è messa in cerca di una stanza tutta per sè. E l'aveva trovata, a Borgo Panigale, in periferia. Ha risposto all'annuncio, ha preso contatti ed è andata a vederla. "Ti facciamo sapere", la risposta. Poi più nulla. Il giorno dopo la sorpresa: quello stesso annuncio, pubblicato sul sito "Subito.it" era stato modificato con una frase in fondo: "Sì russi ecc...no africani". Poi, dopo le rimostranze degli amici della ragazza, è stato cancellato. Rimane la ferita per un episodio di razzismo nella città universitaria. La storia è stata resa nota da un servizio pubblicato sulla rivista Left. Sandra Vero vive a Bologna, ma studia Economia aziendale all'università di Modena-Reggio Emilia. Ospitata prima in un alloggio della Caritas ed ora da un'amica, la giovane aveva deciso di trovare una stanza. "Studio e faccio qualche lavoretto, ora sto cercando anche un lavoro più stabile per mantenermi", racconta. "Ero in biblioteca, guardando gli annunci ho risposto a quello di una stanza a Borgo Panigale". Costo: 290 euro, spese comprese. Sandra Vero chiama, si mette d'accordo con una ragazza per vedere l'appartamento quella sera stessa. "Ero in autobus e già la ragazza al telefono mi aveva anticipato: ma ho un cane, è lo stesso? Ma così lontano dal centro ti va bene? Sì, sì, studio a Modena, per me la posizione è anche più comoda, arrivo e ne parliamo". Una volta arrivata la ragazza che l'accoglie le mostra la camera e le richiede se il suo cane pitbull le dà fastidio. "Ho notato un certo imbarazzo, forse perchè non si immaginava la mia pelle nera, il mio nome l'avrà confusa. Poi però non ci ho fatto più caso. Tutto ok, ho risposto, per me la stanza va bene, se è libera la prendo". "Aspetta, è venuta una ragazza stamattina a vederla, ti faccio sapere". Sandra Vero se ne va. "Il giorno dopo, alla sera - continua - non ricevendo risposta mi metto a cercare altri annunci e cosa vedo: quello stesso annuncio ripubblicato con la scritta 'no africani'. Ci sono rimasta malissimo, mi sono sentita male, ero stanca e arrabbiata, senza nemmeno la forza di reagire". La giovane si confida con gli amici, uno di loro chiama l'appartamento per protestare contro quell'annuncio razzista e si sente rispondere che "è colpa dei coinquilini che non hanno voluto". Dal portale l'annuncio è stato tolto. Sandra Vero ha però trovato il coraggio di denunciare. "Tanti anni che sono in Italia non mi era mai capitata una cosa del genere. Solo una volta, mentre stavo camminando in centro a Bologna, in via dell'Indipendenza, una signora mi ha insultato: 'sporca negra'. Io mi sono messa a ridere, che dovevo fare?". Stavolta la storia non è passata sotto silenzio. La ragazza che le ha mostrato la stanza libera nell'appartamento si scusa. "Vorrei parlarle, è vero abbiamo modificato l'annuncio, ma non era contro di lei. Ha la mia età, non ero imbarazzata per il colore della sua pelle, figuriamoci. Capisco che non bisogna fare discriminazioni, ma io volevo evitare telefonate di uomini, anche marocchini. Insomma, mi dispiace, l'annuncio dopo un paio di ore l'abbiamo tolto, non è bello scrivere così, lo sapevamo anche noi. Ma non volevamo offenderla".
Giustizia impazzita, prima la sentenza poi l’udienza…, scrive Errico Novi il 24 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Il tribunale del riesame di Bologna spedisce in galera l’imputato. Ma il collegio non si era ancora riunito. Prima l’ordinanza, poi l’udienza. Prima decidiamo: poi, se volete, vi facciamo pure parlare. Così, tanto per darvi soddisfazione. Sembra la scena di una corte seicentesca, ai limiti del premoderno. Invece è successo nella dotta Bologna, a un avvocato che difendeva uno straniero accusato di furto, e nel Tribunale presieduto da Francesco Caruso, il magistrato che collocò i sostenitori del sì al referendum «inesorabilmente dalla parte sbagliata, come chi nel ’ 43 scelse male, pur in buona fede». Ed è successo precisamente che il 28 novembre scorso un collegio del Riesame presso il tribunale distrettuale di Bologna abbia notificato al difensore un’ordinanza su una misura cautelare il giorno prima dell’udienza. Ebbene sì, il giorno prima: quando cioè il collegio non si era ancora riunito e neppure il pm non si era presentato a spiegare le ragioni del suo ricorso, cioè il motivo per cui riteneva di doversi opporre all’ordinanza del gip. Il quale giudice per le indagini preliminari aveva deciso di respingere la richiesta di custodia cautelare nei confronti di uno straniero accusato di furto all’aeroporto del capoluogo emiliano. E ancora, quella notifica al difensore è stata trasmessa quando lui, il difensore stesso, ovviamente non aveva ancora varcato la porta dell’aula né aveva esposto al collegio del Riesame le osservazioni in base alle quali riteneva infondato il ricorso del pm. Il caso è deflagrato la settimana scorsa, grazie alla segnalazione della Camera penale di Bologna. Che ne ha fatto un esposto indirizzato al ministro della Giustizia, al procuratore generale presso la Corte di Cassazione, al Csm, al procuratore generale di Bologna e al presidente del Tribunale, il dottor Francesco Caruso appunto. «Il Tribunale», si legge nel documento dei penalisti, «fissava l’udienza di discussione in camera di consiglio dandone avviso al difensore. Lo stesso difensore riceveva a mezzo di posta certificata, il giorno precedente l’udienza fissata, notifica del provvedimento decisorio con apposte in calce le firme del giudice relatore e del presidente del Collegio, e con sigla in ognuna delle pagine da parte del giudice relatore». Particolare decisivo, questo, e oggettivamente sconcertante. «La decisione era, peraltro, di contenuto infausto per l’indagato e totalmente recettiva della richiesta formulata dalla Procura». Perché appunto il Riesame ha ribaltato la decisione del gip e, in accoglimento del ricorso avanzato dalla Procura, ha ordinato l’applicazione della misura cautelare, seppure sospesa in vista di un possibile ricorso in Cassazione da parte dell’indagato. Inspiegabile, tanto che verrebbe da pensare a un atto di deliberata negazione del principio di oralità nel contraddittorio: i magistrati del collegio hanno deciso senza sentire le osservazioni dell’avvocato, il che è esattamente il contrario di quanto dovrebbe avvenire con un rito accusatorio qual è quello previsto dal codice. In udienza naturalmente l’avvocato ha fatto notare che la sua stessa presenza davanti al collegio rischiava di equivalere a una finzione teatrale più che costituire un passaggio formalmente rilevante. A quel punto i giudici, colti da un comprensibile imbarazzo, hanno chiesto di potersi astenere. Il presidente Caruso ha accolto la richiesta, affidato il fascicolo a un altro collegio, che ha fissato una nuova udienza in camera di consiglio. Esito uguale, e qui siamo a una settimana fa: accoglimento del ricorso della Procura, ordinanza di custodia cautelare sospesa in attesa dell’eventuale ricorso in Cassazione. La motivazione, invece, era diversa. Se non altro, a differenza della prima – quella notificata magicamente senza che neppure l’udienza avesse avuto luogo deve aver tenuto conto delle osservazioni dell’avvocato. La Camera penale “Franco Bricola” di Bologna «ribadisce come i principi basilari del sistema processuale penale non possano essere aggirati con macroscopiche violazioni del diritto di difesa, ignorando il principio dell’oralità, del contraddittorio e della collegialità delle decisioni necessari, a maggior ragione, in fase cautelare’. Lo si legge nell’esposto inviato a pg di Cassazione, Csm e vertici della magistratura bolognese e del quale i penalisti hanno informato tutte le Camere penali del distretto, l’Ucpi e il Consiglio dell’Ordine. La sezione emiliana dell’Anm ha di fatto minimizzato: «Non c’è alcun elemento che possa mettere in dubbio la buonafede dei magistrati coinvolti». E si aggiunge che il diritto di difesa «in concreto» non avrebbe subìto «né danni né limitazioni» . La versione filtrata informalmente dal Tribunale è che quella notificata non era altro che una specie di brutta copia, di bozza buttata giù in attesa della decisione da prendere il giorno dopo. Peccato che fosse firmata in calce da presidente del collegio e relatore. E notificata via pec. Avrà sbagliato il cancelliere? Può darsi. Sarà un parossistico effetto dei carichi di lavoro pesantissimi a cui anche il Riesame deve far fronte? Indubitabile. Fatto sta che la decisione era già stata presa. E l’avvocato, la mattina dopo, sarebbe andato lì a esporre le ragioni dell’indagato inutilmente. Sarà il Csm a stabilire se si tratta della negazione di un diritto – dunque di un illecito – oppure no. Certo è che non si tratta di una best practice meritevole di segnalazione da parte dell’organo di autogoverno dei magistrati.
DI PIACENZA…Piacenza, 50 indagati al Comune: "Timbravano e andavano a fare la spesa". Perquisizioni e sequestro di carte a Palazzo Mercanti. Lavoratori pedinati e filmati, scrive il 28 giugno 2017 "La Repubblica". Cinquanta dipendenti del Comune di Piacenza indagati per falso e truffa in un'indagine contro i cosiddetti furbetti del cartellino: secondo la Procura della Repubblica i lavoratori erano soliti timbrare il cartellino in ufficio per poi uscire "a farsi i fatti propri": "Chi andava in palestra e chi andava a fare spesa", affermano Salvatore Cappelleri, capo della procura piacentina, e il sostituto Antonio Colonna. Si ipotizzano anche alcuni casi di peculato: qualcuno che avrebbe utilizzato mezzi di servizio per scopi non lavorativi. Dei cinquanta dipendenti indagati, dieci sono a piede libero. Uno è agli arresti domiciliari, gli altri 39 sono stati fotosegnalati in caserma e poi sottoposti all'obbligo di firma. Gli inquirenti avrebbero filmati e pedinamenti, effettuati nel corso degli ultimi mesi, che dimostrerebbero la condotta dei dipendenti infedeli. Questa mattina è scattato il blitz di Fiamme gialle e Polizia municipale a palazzo Mercanti: agenti in divisa e in borghese si sono presentati negli uffici e hanno perquisito e sequestrato materiale "concordando le modalità con il Segretario generale e la dottoressa Laura Bossi, dirigente delle Risorse umane", precisa il Comune. Negli ultimi giorni due dipendenti comunali dell'ufficio manutenzione erano stati arrestati. In mattinata è giunta nel palazzo comunale anche la neosindaca Patrizia Barbieri, oltre al sindaco uscente Paolo Dosi che così ha commentato: "E' una vicenda che danneggia l'immagine della città e il Comune, che già opera tra mille difficoltà, che avvilisce e fa sentire tutti quanti traditi". Sulla vicenda intervengono il segretario generale della Cgil di Piacenza, Gianluca Zilocchi, e la segretaria generale Fp-Cgil, Stefania Bollati: "Se tali comportamenti dovessero essere confermati e verificati non possiamo che ribadire, come sempre fatto in analoghi casi, che per la Cgil e la Funzione Pubblica i lavoratori responsabili devono essere chiamati a rispondere in prima persona dei loro atti. Atti che, lo sottolineiamo con forza, danneggiano il lavoro onesto e quotidiano di migliaia di lavoratori pubblici e loro colleghi".
PARLIAMO DEL LAZIO.
DI ROMA… I NODI DELLA CAPITALE. Atac: da Antitrust multa di 3,6 milioni per disservizi su tratte ferroviarie. Soppressione di corse e la mancata informazione ai viaggiatori delle ferrovie suburbane, le accuse dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato alla municipalizzata dei trasporti della Capitale, scrive Andrea Arzilli l'11 agosto 2017 su "Il Corriere della Sera". Fornitori sul piede di guerra, nodo Roma Tpl e multa dell’Antitrust. Ancora grane per Atac, municipalizzata dei trasporti del Comune di Roma che, stando alle parole dell’ex dg Bruno Rota, andato via sbattendo la porta a fine luglio, «è sull’orlo del crac». Giovedì sera si è riunito il cda con la nuova governance per affrontare i problemi dell’azienda e, soprattutto, per studiare la strategia anti-fallimento: il concordato “in bianco”, ovvero la procedura di ristrutturazione del maxi debito (1,35 miliardi di euro) sotto l’egida del tribunale. Ma le cattive notizie continuano ad arrivare: l’ultima è la multa di 3,6 milioni comminata dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato per la cancellazioni delle corse e la mancata informazione ai passeggeri nelle ferrovie suburbane. L’Antitrust, si legge in una nota, “ha concluso l’istruttoria avviata d’ufficio nei confronti di Atac lo scorso mese di novembre, accertando una pratica commerciale scorretta nell’offerta del servizio pubblico di trasporto ferroviario nell’area metropolitana di Roma (le linee Lido di Ostia, Roma - Civita Castellana - Viterbo e Roma Giardinetti - Pantano: circa 200 mila utenti quotidiani, ndr) consistente nella falsa prospettazione, attraverso l’orario ufficiale diffuso presso le stazioni e nel sito internet atac.roma.it, di un’offerta di servizi di trasporto frequente e cospicua, a fronte della sistematica e persistente soppressione di molte corse programmate, nonché nella omessa informazione preventiva ai consumatori in merito alle soppressioni previste. Il tutto mentre i fornitori hanno fatto sapere all’azienda di non essere più intenzionati a fare credito. Il motivo sta nella procedura scelta dai vertici appena insediati per scacciare lo spettro del fallimento. Con il concordato “in bianco”, infatti, i creditori di Atac dovrebbero continuare a fornire all’azienda i pezzi di ricambio e la manutenzione senza speranza di riscuotere per i prossimi 4-5 mesi. Per questo le società dell’indotto hanno chiesto di essere pagate “cash” altrimenti sospenderanno il loro servizio. E siccome Atac non ha in cassa la liquidità per saldare i debiti accumulati in anni di malagestione, bus, tram e metro rischiano di restare nei depositi. In più lunedì è stata notificata ad Atac un’ordinanza del tribunale di Roma secondo la quale si dovrà procedere al pagamento della seconda parte del lodo Roma Tpl, un contenzioso datato due lustri finito fin sui tavoli della Corte di Cassazione. Secondo l’ordinanza Atac dovrà versare circa 45 milioni di euro a Roma Tpl entro due settimane, quindi entro il 22 agosto. E se ciò non avverrà il tribunale procederà con i pignoramenti dai conti dell’azienda. E’ possibile che Atac e Roma Tpl si incontrino per tentare una mediazione, magari per provare a spalmare i 45 milioni che rappresentano la seconda parte del debito di 138 milioni contratto più di dieci anni fa. Ma certamente il servizio è a rischio: considerato che le casse di Atac sono vuote, se non esce un accordo la municipalizzata dei trasporti potrebbe non essere più in grado di garantire il servizio ai romani.
Le grane di Roma a 5 Stelle, dal caos trasporti all’emergenza siccità. La sindaca Raggi è passata dall’emergenza rifiuti al caso nomine fino alle dimissioni del direttore generale di Atac, passando anche dalle nuove bocciature al progetto del nuovo stadio. Contemporaneamente, in numerosi pezzi la giunta grillina in Campidoglio, scrive Andrea Arzilli l'11 agosto 2017 su "Il Corriere della Sera".
Bruno Rota dg Atac, si dimette il 28 luglio, segnalando che l’azienda è vicina al crac. Scoppia il caso Atac: Rota, che aveva risanato Atm Milano, aveva ricevuto carta bianca dal Campidoglio per rianimare la municipalizzata dei trasporti, zavorrata da un maxi debito di 1,35 miliardi. Ma il dg si dimette dicendo che «vuole restare incensurato» e segnalando presunte pressioni ricevute dai grillini per accordarsi con alcune aziende. Pochi giorni dopo i fornitori di Atac cominciano a protestare perché non pagati, mentre ai dipendenti l’azienda non è in grado di versare l’anticipo di tfr richiesto. Poi ad agosto, la multa dell’Antitrust: 3,6 milioni di euro per disservizi, corse saltate e mancata informazione agli utenti. Ma non finisce qui. Secondo una sentenza del Tribunale, Atac deve dare a Roma Tpl «45 milioni di euro entro fine agosto».
Agosto 2017, lo stadio della Roma. A febbraio, Raggi dà il sì politico allo stadio della Roma, ma i tagli al progetto fanno chiudere con esito negativo la conferenza dei servizi (5 aprile) che era stata impostata sul progetto licenziato con l’interesse pubblico dalla giunta Marino. Nelle nuove planimetrie il cemento è ridotto del 50%, ma anche la parte degli investimenti in opere pubbliche viene ridotta di molto. La base del M5S non è d’accordo con il sì al progetto e protesta: una consigliera grillina in Campidoglio, Cristina Grancio, viene sospesa per aver espresso un’opinione negativa sulla nuova versione nonostante più green e compatibile con i principi del Movimento. Poi, ad agosto, arrivano le nuove bocciature, quella del ministero dei Trasporti e delle infrastrutture e quella di Città metropolitana. Nel mirino ancora le cubature e i trasporti. Una nuova Conferenza dei servizi sembra necessaria.
20 giugno 2017, l’emergenza siccità. Esposti in Procura per il caso del lago di Bracciano, riserva idrica della Capitale: inizia l’emergenza siccità. Il livello del lago cala tanto da paventare l’ipotesi di disastro ambientale. Raggi decide per la chiusura progressiva dei nasoni, le fontanelle storiche romane. Ma sull’acqua, e sul ruolo di Acea, gestore idrico controllato dal Campidoglio, scoppia il conflitto con la Regione Lazio: Zingaretti emana un’ordinanza che vieta il prelievo dal lago dopo la mezzanotte del 28 luglio, Acea annuncia il razionamento delle scorte: un milione e mezzo di romani a secco per otto ore al giorno. Il gestore ricorre presso il Tribunale delle Acqua e perde. Ma dopo l’intervento della ministra della Salute Lorenzin, preoccupata per l’ipotesi turnazione negli ospedali, esce il compromesso con sia Raggi sia Zingaretti che si prendono il merito. La sindaca, poi, fa ricorso contro la soluzione compromesso.
Agosto 2017: il verde in agonia. Solo un ricordo il verde prato di una delle piazze più famose di Roma. Ma l’erba è secca anche nelle aiuole sparse per la città, come nei parchi più amati, da Villa Ada a Villa Paganini. È allarme siccità per il verde capitolino che è abbandonato.
3 agosto 2016, scoppia la prima emergenza rifiuti. I cassonetti disseminati in giro per la città sono tutti stracolmi perché gli impianti di trattamento non riescono a smaltire l’enorme carico di rifiuti prodotti dai romani nel mese di luglio. Raggi arriva pure a lanciare l’allarme sanitario, poi sfumato grazie al combinato disposto del super lavoro dell’Ama e del graduale svuotamento della città a causa delle vacanze estive.
1 settembre 2016, prime dimissioni in Giunta. Si dimettono Marcello Minenna (assessore al Bilancio), Carla Raineri (capo gabinetto) e Alessandro Solidoro (au di Ama). È il primo scossone nella giunta Raggi: la sindaca nella notte del primo settembre comunica a Raineri che, secondo l’Anac di Raffaele Cantone, il suo inquadramento in Campidoglio (e anche il compenso) presentano profili di illegittimità, e la capo gabinetto lascia il Comune in polemica. Marcello Minenna e Alessandro Solidoro si dimettono in solidarietà con Raineri.
4 settembre 2016, nuove nomine (e rifiuti). Raffaele De Dominicis è assessore al Bilancio per poche ore, poi la nomina viene revocata. Il primo rimpasto in giunta presenta molte difficoltà: il primo contatto per il ruolo di assessore al bilancio è Salvatore Tutino, consigliere della Corte dei conti, che prima accetta e poi rifiuta l’incarico. Al bilancio viene nominato il giudice Raffaele De Dominicis, ex magistrato contabile, la cui nomina viene revocata quando esce di un’indagine a suo carico per abuso d’ufficio. Il bilancio sarà coperto solo il 30 settembre, quando viene inserito in giunta Andrea Mazzillo (presentato insieme a Massimo Colomban, assessore alla Partecipate).
21 settembre 2016, il nodo Olimpiadi. Raggi non riceve il presidente del Coni Malagò, poi dice No alla candidatura olimpica Roma 2024. Il diniego da parte del Campidoglio alla candidatura olimpica di Roma era annunciato, ma le condizioni del Comune, con pochi soldi in cassa, lasciavano aperto uno spiraglio. La decisione finale era prevista in una conferenza stampa seguente al summit Raggi-Malagò. Incontro che la sindaca diserta: mentre il presidente del Coni attende in Comune, Raggi viene pizzicata in un ristorante in via dei Mille in compagnia dell’assessora Linda Maleo.
13 dicembre 2016, Paola Muraro si dimette. Si dimette l’assessora all’ambiente Paola Muraro dopo la notizia di un indagine a suo carico da parte della Procura di Roma. In ossequio al codice M5S l’assessora decide di lasciare l’incarico e Raggi ne dà comunicazione con un video girato in notturna nella sala delle Bandiere del Campidoglio: la sindaca è in primo piano e, intorno a lei, tutti i consiglieri di maggioranza. Al posto di Muraro, a dicembre, arriverà l’amica personale di Beppe Grillo Giuseppina «Pinuccia» Montanari.
16 dicembre 2016: arrestato Raffaele Marra. E’ il reset del Raggio magico: Salvatore Romeo, capo della segreteria di Raggi, è rimosso dall’incarico e Daniele Frongia passa da vice sindaco a assessore allo sport. Le polemiche divampano, la sindaca traballa. E i vertici del Movimento, Grillo e Casaleggio, decidono di puntellarla inviando in Campidoglio due tutor: Alfonso Bonafede e Riccardo Fraccaro, entrambi deputati grillini e responsabili dei Comuni M5S. E’ l’inizio del «commissariamento» di Milano sul Comune di Roma.
31 dicembre 2016, bocciato il bilancio. I revisori dei conti del Comune (Oref) boccia il bilancio di Roma Capitale. Nonostante una corsa contro il tempo per far quadrare i conti, l’assessore al Bilancio Mazzillo si vede bocciare il bilancio di previsione 2017-2019 da parte dei revisori del Comune. Numerosi i rilievi che raccontano di un equilibrio economico fragile e di alcune voci sovrastimate (come la previsione delle multe). Il bilancio sarà quindi corretto e approvato il 31 gennaio dopo un mese di esercizio provvisorio.
24 gennaio 2017, caso nomine. Raggi indagata dalla Procura per il caso nomine: le accuse sono abuso d’ufficio per Salvatore Romeo e falso per Renato Marra, fratello di Raffaele, promosso dai vigili urbani al dipartimento turismo. Scoppia il caos dopo l’uscita della notizia dell’indagine a carico di Raggi che in molti danno sull’orlo del crollo nervoso. Il 2 febbraio Raggi viene interrogata per otto ore nel Polo investigativo della polizia sulla Tuscolana e, pressata dalle domande degli investigatori, ha un mancamento. Durante l’interrogatorio esce anche la notizia di due polizze vita stipulate da Salvatore Romeo con beneficiaria la sindaca di Roma che giura non saperne niente.
14 febbraio 2017, le dimissioni di Berdini. Il titolare dell’Urbanistica Paolo Berdini di dimette dopo che La Stampa pubblica un’intercettazione nella quale l’assessore spara a zero contro la sindaca. Berdini era contrario al progetto Stadio della Roma che Raggi stava discutendo con il club e il costruttore Luca Parnasi. Le dimissioni liberano così il Campidoglio verso il sì politico allo stadio a Tor di Valle.
5 maggio 2017, nuova emergenza rifiuti. Scoppia la seconda emergenza rifiuti: cassonetti stracolmi in tutti i quadranti della città, ennesimo segnale di un sistema che non riesce a smaltire negli impianti di trattamento il volume di rifiuti prodotti in città. E infatti camion pieni di rifiuti partono verso l’estero per cercare di alleggerire la pressione su Roma e superare l’emergenza.
13 giugno 2017, la Raggi e la lettera sui migranti. La sindaca di Roma Virginia Raggi, vista la «forte presenza migratoria e il continuo flusso di cittadini stranieri» ha richiesto al ministero dell’Interno «una moratoria sui nuovi arrivi» nella Capitale. E invia una lettera al Prefetto di Roma Paola Basilone. Missiva che farà molto discutere: «Trovo impossibile, oltre che rischioso, ipotizzare ulteriori strutture di accoglienza, peraltro di rilevante impatto e consistenza numerica sul territorio comunale», si legge nella lettera. E su Facebook annuncia: «Chiederò un incontro al responsabile del Viminale per intervenire sul tema degli arrivi incontrollati». Intanto il blog di Beppe Grillo ha commentato il piano Raggi per fronteggiare l’emergenza dei campi rom: «A Roma si cambia musica».
NON SOLO 5 STELLE. Ipab: le strane colpe di Maria Capozza, l’avvocatessa «di ferro». Il c aso della segretaria generale di una delle Istituzioni di assistenza e beneficenza regionali, che gestiscono i lasciti di benefattori, ville, edifici storici, opere d’arte, scrive Marco Nese il 5 agosto 2017 su "Il Corriere della Sera". Maria Capozza, avvocato, era segretario generale di un’Ipab. Le Ipab (Isituzioni di assistenza e beneficenza) sono miniere d’oro, controllano i lasciti di benefattori, ville, edifici storici, opere d’arte. Lei si opponeva a un uso disinvolto di quei patrimoni. L’hanno licenziata. Vinse un concorso e il 1° febbraio 2010 prese servizio. Creò subito problemi: la Regione Lazio era pronta a dare 5 milioni per il recupero di un’antica villa. Lei chiede il progetto. Riceve risposte vaghe. Non si fa convincere e l’affare salta. Contesta gli affitti di case Ipab a prezzi stracciati. Fa obiezioni sui fondi a cooperative che dovrebbero assistere malati. Scopre che non ci sono malati, ma i soldi arrivano. C’è un primo tentativo di convincerla ad andarsene: un dirigente della Regione le manda una mail con le procedure per le «dimissioni volontarie». Lei invece crea nuovi ostacoli. L’Ipab possiede un giardino di 2300 metri quadri, davanti al Colosseo, dove passa la Metro C. Si concorda un milione di euro una tantum per l’esproprio e 700 mila euro all’anno per 7 anni. Capozza scopre che risulta l’esproprio dell’intero giardino, ma lo scavo riguarda 300 metri totali. I conteggi vengono rivisti, e le quote calano: 252 mila una tantum e 200 mila annui. Massimo Pompili, Pd, ex deputato, presidente dell’Ipab, la avverte: «Il CdA cambierà il regolamento». Lo cambiano per autorizzare l’assunzione di un segretario generale esterno. Lei protesta: «Un’altra cosa illegale che fate». Durante il colloquio (registrato, e ora agli atti giudiziari), Pompili si giustifica: «Io rispondo alla politica… cerchi di capire. Se lei vuole un altro incarico la posso aiutare». No, non vuole. Ma arriva il nuovo segretario generale. E’ Sergio Basile, siciliano di 69 anni, ex dirigente del ministero dell’Ambiente. Chi lo sceglie? «Il Cda - dice lui -. Sono conosciuto. Normale che pensino a me». Normale non sembra ad alcuni parlamentari che denunciano irregolarità. Il viceministro dell’Economia Enrico Zanetti chiede spiegazioni al presidente della Regione Zingaretti. Basile se ne infischia e rimuove dall’incarico l’avvocato Capozza. Era in corso una trattativa col Senato che chiedeva di utilizzare gratis un palazzo in piazza Capranica. L’avvocato Capozza era contraria all’uso gratuito. Basile invece lo concede gratis. Isolata, Maria Capozza trova appoggio in un giudice. Ma il magistrato viene trasferito. E lei riceve una mail che l’accusa di distribuire appalti agli amici. E’ falso, ma la mail arriva ai vertici della Regione. Riccardo Micheli, dirigente, le chiede spiegazioni. Lei si rivolge alla polizia postale, che risale all’autore della mail. E’ Giovanni Caprio, dirigente della Regione. Caprio confessa. Viene punito? No, promosso. Capozza finisce chiusa nella sua stanza. Dovrebbe fornire «osservazioni» al bilancio 2013. Le è impedito di prenderne visione. Ma poi le viene contestato di «non aver redatto le osservazioni al bilancio». Basile chiede alla Guardia di finanza di indagare se lei svolge un secondo lavoro. Non emerge nulla. Ma Basile continua a cercare appigli: scrive all’Università del Sacro Cuore chiedendo se lei è una docente. Scrive perfino al Tribunale ecclesiastico di Reggio Calabria per sapere se l’hanno mai pagata. Sotto stress, lei si ammala. Basile le manda continue visite fiscali, chiede di verificare se è un po’ matta. La esaminano 3 psichiatri e concludono che è sana di mente. Lui insiste inviandole una lettera con 350 allegati, che descrivono inadempienze commesse. Poi la sommerge di denunce, ben 38. Le contesta perfino di aver sperperato i fondi coi regali di Natale ai dipendenti. Tutti dati contenuti in una denuncia per mobbing in cui lei lamenta di aver subito «un danno biologico» e «d’immagine». Ora Maria Capozza non può più mettere piede nella sede Ipab. Per mandarla via dichiarano nullo il bando di concorso da lei vinto. Ma qual è la sua colpa? «Saranno i giudici a valutare», dice Basile. Il presidente Pompili non parla perché «è in corso un procedimento penale contro la signora». Un procedimento in cui è coinvolto anche lui e il Cda.
L’Atac di Roma a un passo dal crac. Il direttore Rota: «Sepolti dai debiti». Il direttore generale dell’azienda dei trasporti di Roma: «Troppo assenteismo, non riusciamo più a coprire i turni. Servono decisioni subito». «Il Comune ora decida», scrive Federico Fubini, il 27 luglio 2017 su "Il Corriere della Sera". Bruno Rota, 62 anni, è il direttore generale dell’Atac da aprile 2017. Non chiamate Bruno Rota se il vostro sport preferito è il galleggiamento in palude. A 62 anni, con un passato remoto di manager dell’Iri sotto la presidenza di Romano Prodi — di cui resta molto amico — e un passato recente di risanatore dell’Azienda trasporti milanese, Rota non è adatto come foglia di fico. Da marzo è direttore generale dell’Atac, l’azienda municipalizzata di trasporto pubblico di Roma, che ha dieci anni consecutivi di perdite. Da poche settimane il manager originario di Domodossola, formato all’Università Cattolica di Milano, ha tutte le deleghe e si è fatto un quadro chiaro dei debiti. Ora spiega che è urgente agire di fronte a una grande società pubblica in situazione di insolvenza. E anche se Rota non pronuncia il nome, per rispetto verso il Comune di Roma al quale spetta la scelta come azionista, è chiaro che pensa a una procedura fallimentare.
Bus, metro e tram: le emergenze di Atac. I bus e gli incendi in corsa. Dottor Rota, che idea si è fatto di Atac?
«In questi mesi ho preso progressivamente atto di una situazione dell’azienda assai pesantemente compromessa e minata, in ogni possibilità di rilancio organizzativo e industriale, da un debito enorme accumulato negli anni scorsi».
Non la rassicura che il debito si sia stabilizzato?
«Purtroppo conta poco che negli ultimi dodici mesi non sia aumentato ulteriormente. Quando hai 1.350 milioni di debito sedimentato nel tempo, non hai risolto il problema quando non sale. Se non riesci ad abbassarlo, non ne vieni a capo. È una situazione di impossibilità a far fronte agli impegni, pericolosa».
Atac ha avuto perdite maggiori in passato e un debito più alto, eppure ha continuato a operare. Perché ora no?
«Perché ormai l’effetto combinato dell’anzianità del parco mezzi e l’impossibilità di fare interventi di manutenzione, dato che non si trovano fornitori disposti a darci credito, fa sì che non si riesca a far fronte alle esigenze di normale funzionamento».
Gli stipendi riuscite a pagarli?
«Anche questo mese ce la facciamo ricorrendo a misure eccezionali e chiedendo un impegno straordinario al Comune di Roma, che però non è ripetibile all’infinito. Sono misure tampone. Ripeto: bisogna avere il coraggio di affrontare la drammatica dimensione del debito che si trascina da tempo. Occorrono misure serie e immediate. Bisogna ripristinare un sistema di controllo sulle regole che pur ci sono ma che da tempo nessuno rispetta, per cui ognuno fa ciò che gli pare».
Davvero Atac non ha modi per uscirne con i suoi mezzi?
«Non servono invenzioni più o meno creative per rimandare ancora una volta il momento in cui si affrontano questioni da tempo ineludibili. Continuare così è da irresponsabili, aggrava i problemi e non mi pare nemmeno legittimo. In realtà è ciò che è stato fatto per anni: basta leggere le rassegne stampa e gli stessi documenti ufficiali della società».
Al sindaco Virginia Raggi lo ha detto?
«Le ho presentato mie idee operative precise, che ho elaborato in quattro settimane di analisi e di studio dell’azienda. Devo ringraziare il sindaco per l’attenzione e il sostegno che mi ha offerto».
Non si possono riequilibrare i conti riducendo le spese per il personale, come suggeriscono alcuni?
«Nelle ultime settimane sono state dette molte falsità su Atac. Più del solito, e anche sciocchezze: chi capisce di organizzazione aziendale, vede subito che il tema centrale oggi non è ridurre il numero dei dipendenti. Chi lo sostiene ora fa solo del terrorismo psicologico. Anzi i dipendenti in un certo senso mancano, visti i tassi di assenteismo consolidati nel tempo. Il tema è far lavorare di più e meglio quelli che ci sono. Oggi con questi tassi di assenteismo si fa fatica a coprire i turni».
Non c’era stato nel 2015 un accordo sull’obbligo di timbrare cartellino?
«Gli accordi di timbratura sono in larga parte lettera morta. Il personale di linea continua a timbrare poco e male. Per questo insisto che bisogna iniziare rispettare le regole, sono anni che non lo si fa. Si parla di turni massacranti e c’è gente che non arriva a tre ore effettive di guida, quando le fanno. Bisogna che si prenda coscienza anche di questi problemi. Non si timbra, malgrado le regole dicano altrimenti, e si prendono salari su orari di lavoro presunti. È intollerabile sia nei confronti di chi fa il proprio mestiere, sia di coloro che un lavoro non riescono ad averlo».
Lei come reagisce quando vede degli abusi?
«Sto tentando di tutto per far rispettare le regole, ma per cambiare pessime abitudini consolidate a lungo ci vuole tempo, costanza, collaborazione e un forte e univoco sostegno pubblico da parte dell’azionista».
Che rapporti ha con i sindacati di Atac?
«Prima mi faccia dire che all’Atm di Milano ho avuto rapporti anche ruvidi in certi momenti, ma sempre costruttivi. Abbiamo lavorato in squadra e i risultati si sono visti. Insieme abbiamo rilanciato e reso più efficiente un’azienda che ha difeso il lavoro e ha creato una riserva di cassa importante».
E a Roma?
«I sindacati rappresentativi li ho incontrati tutti. Per la verità qui si presentano come rappresentanti delle posizioni del sindacato gente che ha trecento iscritti su undicimila dipendenti. Gente che va in tivù a spiegare come funzionano i sistemi di sicurezza dei mezzi senza saperne nulla».
Non saranno tutti così…
«No, certo. Ci sono sindacati più rappresentativi. Quando ho incontrato i loro rappresentanti ho avuto l’impressione che non avessero fino in fondo la percezione della gravità e della dimensione del problema. Poi naturalmente sono andati in assessorato a chiedere garanzie. Non hanno capito che è l’ultima spiaggia».
A Roma una "parentopoli" a 5 Stelle. Il direttore dell'Atac: «Il consigliere Stefàno mi chiedeva di promuovere i soliti noti», scrive Patricia Tagliaferri, Venerdì 28/07/2017, su "Il Giornale". L'ennesima resa dei conti grillina corre su Facebook, ma si consuma a Roma, sui trasporti della capitale, con uno scambio di accuse velenoso tra il direttore generale dell'Atac, Bruno Rota, che proprio ieri aveva denunciato in un'intervista al Corriere della Sera la situazione drammatica della municipalizzata romana schiacciata dai debiti, e il grillino Enrico Stefàno, presidente della commissione Mobilità e vicepresidente dell'Assemblea capitolina, inchiodato dal manager a sospetti gravissimi per lui e per i Cinque Stelle, nemici giurati di spintarelle e favoritismi. A sparigliare le carte è stata l'intervista choc di Rota, che dopo aver lavorato all'Iri e risanato i trasporti milanesi, era stato imposto alla guida dell'Atac proprio dai vertici nazionali del M5S per tentare l'impresa impossibile di risollevare un'azienda con un buco da 1.350 milioni e un tasso di assenteismo record. A un passo dal crac e dove si fa fatica anche a pagare gli stipendi. Parole del dg: «Pesantemente compromessa e minata da un debito enorme accumulato negli anni scorsi» e per di più «con gente che non arriva a tre ore di guida». Fin qui il resoconto in prima persona della disastrosa gestione della capitale. Non solo rifiuti e acqua, ma anche trasporti. Ma il grido di allarme di Rota, che nell'intervista chiedeva interventi urgenti per far fronte alla situazione di insolvenza paventando anche una procedura fallimentare, si è trasformato in un attacco durissimo, via Facebook, ai Cinque Stelle che governano la capitale quando Stefàno lo ha criticato, ricordandogli che in Atac ha sempre avuto carta bianca e che «avrebbe potuto rimuovere i dirigenti responsabili del disastro e quelli inutili». Il direttore generale gli ha immediatamente risposto per le rime, con un post che allunga ombre pesanti, non solo sul presidente della commissione Trasporti, e che di fatto sembra voler anticipare il suo addio alla municipalizzata: «So del vivo interesse del consigliere Stefàno alle soluzioni della società Conduent Italia che si occupa di bigliettazione e che mi ha invitato ad incontrare più volte. Più che di dirigenti da cacciare, lui e non solo lui, mi hanno parlato di giovani da promuovere. Velocemente. Nomi noti. Sempre i soliti. Suggerisco a Stefàno, nel suo interesse, di lasciarmi in pace e di rispettare chi ha lavorato. Onestamente. Sempre i soliti». La lite tra Rota e Stefàno, se le accuse del manager saranno confermate, rischia di diventare un caso nazionale per il Movimento, che ha fatto dell'onestà e la trasparenza la sua bandiera. Mentre la politica si interroga e il Pd chiede le dimissioni di Stefàno («è inaccettabile che mentre l'Atac si dibatte tra difficoltà conclamate il vicepresidente dell'assemblea capitolina si è prodigato nel chiedere promozioni e per favorire una società»), il caso potrebbe anche finire all'attenzione della Procura di Roma, perché il senatore Andrea Augello e l'onorevole Vincenzo Piso presenteranno un esposto.
Roma: acqua a rischio razionamento. Cosa si nasconde dietro questa sciagura? Scrive Emilia Urso Anfuso domenica 23 luglio 2017 su Agora Vox – Gli Scomunicati. No, non è affatto una fake news, e nemmeno allarmismo: la Capitale rischia di restare coi rubinetti dell'acqua corrente a secco. E se così fosse, sarebbe davvero una situazione aberrante, visto che peraltro, la notizia viene data solo ora, come se chi è a capo della regione Lazio - il Governatore Zingaretti - o la Raggi, non ne sapessero nulla. E quando arriva la ferale notizia? Durante il periodo delle vacanze, ovvio. Quando già in molti sono partiti, o hanno la testa alle vacanze. In questo paese, o si va avanti per procurati allarmi - vedi il tema delle "epidemie" di morbillo o meningite - oppure non dicono nulla su temi delicatissimi, come quello della fornitura dell'acqua che verrà razionata. Ma cosa sta accadendo realmente? Ecco cosa ha dichiarato Zingaretti, Governatore del Lazio, ai microfoni di TGCom24: "purtroppo è una tragedia. Il livello del lago di Bracciano si è abbassato con il rischio di catastrofe ambientale fino a questo evento. Abbiamo tempo sette giorni per trovare tutte le possibilità al fine di limitare al massimo il disagio per i cittadini, ma è sbagliato chiudere gli occhi. Il problema c'è ed è grave. Sta finendo l'acqua a Roma". E ha proseguito: "Acea preleva dal lago di Bracciano solo l'8% di tutto il fabbisogno e quindi immagino una quantità non importante dell'acqua - aggiunge- Per ridurre al massimo i disagi, Acea ha stabilito degli orari di eventuale blocco. Sui dati che ha fornito però dovete chiedere a loro. Basta andare con una fotocamera a Bracciano per capire che sta accadendo l'inimmaginabile - aggiunge - far uscire l'acqua dai rubinetti è un diritto ma dobbiamo fare i conti con un problema enorme che è la siccità. Mi piacerebbe invitare qui Donald Trump per fargli capire cosa significa non rispettare gli accordi sul clima". Qualcuno dica a Zingaretti, che questa situazione è talmente grave e urgente, che perder tempo a discutere con Trump non è la soluzione al problema...Di rimando, ecco cosa ha risposto il presidente di Acea Ato 2, Paolo Saccani, intervistato daSkyTg24: "Da qui "a sette giorni non ci sarà nessuna soluzione, se non quella di razionare l'acqua dei romani. Questo succederà dal 28 in poi per un milione mezzo di cittadini. Riteniamo quest'atto della Regione abnorme e illegittimo ma soprattutto inutile per il lago di Bracciano, dal quale vengono prelevati 86 mila metri cubi al giorno, che sono pari un abbassamento di 1,5 millimetri, ma il profondo 164 metri. Azzerare la derivazione creerà pesantissimi disagi per gli abitanti", facendo poi notare che "azzerare la derivazione fa risparmiare 1,5 cm ma da qui a sette giorni non troveremo nessuna soluzione se non razionalizzare l'acqua a Roma e ai romani, al Vaticano, ai palazzi istituzionali, alle attività produttive. Non faremo certo un bene all'immagine di Roma e dell'Italia e tutto per un centimetro e mezzo. Noi l'acqua non la fatturiamo, le soluzioni le abbiamo esposte al presidente della Regione in una mia lettera del 4 luglio scorso". Per quanto riguarda poi la Raggi, ci ha tenuto a sottolineare: "chiaramente la mia preoccupazione da sindaca di Roma è che sia fatto tutto il possibile per assicurare l'acqua ai cittadini, agli ospedali, ai vigili del fuoco, alle attività commerciali. Mi auguro che Regione e Acea trovino quanto prima una soluzione condivisa. Va fatto quanto necessario per aiutare e tutelare oltre un milione di romani". La sua preoccupazione è che "Sia fatto tutto il possibile"... Ha nulla da dichiarare la Raggi, in merito alla decisione di qualche tempo fa, di chiudere l'erogazione di molte fontanelle di Roma, i tradizionali "Nasoni"? Ci rendiamo conto vero, dell'enormità della situazione? A me viene solo un'immagine in mente: quella della Città di Messina, che dopo ciò che accadde lo scorso anno, con la cittadinanza rimasta coi rubinetti a secco per mesi, ancora oggi versa in condizioni che forse nemmeno nel Terzo Mondo: acqua razionata. Non solo: per ciò che riguarda la minaccia di razionare l'acqua nella Capitale, non può non venirmi in mente un tema di cui nessuno parla: l'acqua che fuoriesce dai rubinetti di Roma, è inquinata anche dalla presenza di Arsenico e altre schifezze. Da anni. E da anni, l'Italia chiede deroghe alla Commissione Europea, affinchè non si debba arrivare al blocco dell'erogazione dell'acqua "potabile". Leggete a questo link un articolo pubblicato lo scorso anno: Arsenico nell'acqua. La situazione nel Lazio. Non è che in realtà, l'Europa non concede più deroghe alla somministrazione di acqua addizionata con Arsenico, e questa pantomima condotta in queste ore da Zingaretti, Raggi & Co. nasconde appunto altre questioni? Oltretutto, si parla di razionamento a tappeto, che comprenderebbe anche gli ospedali, qualcosa di molto grave a tutti gli effetti. Oppure, dietro questa sventura dell'acqua razionata, si nasconde il progetto paventato dal Ministero dell'Ambiente, di far pagare l'acqua corrente a tutti, garantendo - al massimo - poca acqua ai bisognosi? Il Ministro Galletti ne parlò lo scorso Aprile. E se invece dietro a questi discorsi si nascondesse davvero una situazione climatica giunta ormai oltre la criticità accettabile, e ci stessero fornendo spiegazioni ma solo un poco alla volta? Ribadisco: tra i procurati e inutili allarmismi su certi temi, e il nascondere informazioni sensibilissime per tutta la popolazione, io vedo solo la mala gestione e l'informazione pilotata. Solo che stavolta non si parla dell'ennesimo scandalo legato a qualche politico, ma della salute e del benessere di tutti. Dubitare stavolta non porta a nulla, fino a che non ci diranno davvero cosa sta per accadere e perchè...
Emergenza acqua a Roma, perché non possiamo chiudere i nasoni, scrive Carlo Stasolla il 26 giugno 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Carlo Stasolla, Presidente Associazione 21 luglio. Sono le storiche fontanelle pubbliche presenti nella Capitale. Li hanno sempre chiamati “nasoni” per via del tipico rubinetto ricurvo di ferro, la cui forma richiama l’idea di un grande naso. A Roma sono circa 2.500, di cui 280 si trovano all’interno delle mura. Ad esse vanno aggiunte un centinaio di fontanelle pubbliche. In totale erogano l’1% dell’intera acqua immessa nella rete idrica della città. Con la carenza idrica degli ultimi giorni hanno riscosso generale consenso le parole pronunciate la scorsa settimana dal ministro dell’Ambiente e della Tutela del territorio e del mare Gian Luca Galletti: “Anche a Roma dobbiamo agire contro la siccità. Per questo abbiamo convocato per il prossimo lunedì l’osservatorio con la Regione Lazio. Ho apprezzato l’ordinanza della sindaca di Roma, ma sarebbe anche un bel segnale, ad esempio, interrompere l’erogazione dei ‘nasoni’, almeno per qualche giorno”. Già il Comune di Roma tentò di contenere lo spreco di un’acqua pubblica che scorre liberamente e continuamente dai nasoni negli anni 80, quando installò ad ogni fontanella un meccanismo a rotella che però fu presto vandalizzato. Il Comune non volle insistere nella scelta e si continuò con l’acqua aperta h24. Adesso tocca all’Acea valutare l’opzione di arginare la crisi idrica con la chiusura indicata da Galletti. Il suo parere verrà poi dato al Campidoglio che deciderà il da farsi nei prossimi giorni, quando probabilmente il periodo di secca raggiungerà il suo picco. Chiudere i nasoni? Perché no? Ma Roma non è Berlino. E’ piuttosto una città che sta andando verso una rapida indianizzazione che le sta riconsegnando un volto sempre più simile a Bombay o Nuova Delhi. Non è la percezione, sono numeri. E’ di tre anni fa è la seconda indagine sulla condizione delle persone che vivono in povertà estrema, realizzata a seguito di una convenzione tra Istat, ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, Federazione italiana degli organismi per le persone senza dimora e Caritas Italiana. Si stimano in 50.724 le persone senza dimora che, nei mesi di novembre e dicembre 2014, hanno utilizzato almeno un servizio di mensa o accoglienza notturna nei 158 Comuni italiani in cui è stata condotta l’indagine. A Roma se ne sono contati 7.700. Ad essi, sicuramente aumentati negli ultimi 36 mesi, vanno aggiunti quanti non accedono a servizi di accoglienza e mensa, le famiglie rom che vivono insediamenti informali, i giovani “transitanti” che, malgrado i ripetuti sgomberi, si accampano attorno alla Stazione Tiburtina. Oggi nella Capitale almeno diecimila persone vivono per strada. Uomini soli ma anche famiglie, anziani, bambini. Tutte persone che dormono senza un tetto sulla testa, che vivono alla giornata e che, soprattutto, hanno come unica fonte idrica l’acqua erogata dalle fontanelle pubbliche. I numeri si fa presto a farli: a Roma, ogni giorno, una fontanella pubblica eroga a 4 persone l’unica acqua a loro disposizione nell’arco dell’intera giornata. Acqua per bere, per refrigerare il corpo, per lavare vestiti, per cucinare. Chiudere quindi i nasoni come suggerito da Galletti? Qualcuno obietta. “Non sarebbe per niente una buona idea” ha commentato su Twitter la consigliera comunale del M5S Annalisa Bernabei. “E per più di un motivo: i nostri 2.500 nasoni erogano solo l’1% dell’acqua immessa nella rete; i nasoni hanno una funzione fondamentale: lo scorrimento dell’acqua nelle tubazioni permette di mantenere in pressione la rete ammalorata. Venendo meno la pressione, avremmo problemi di stabilità dell'infrastruttura; i nasoni garantiscono la distribuzione di acqua potabile in tutta la città e, in molti casi, sono l’unica fonte di acqua per i mercati rionali”. Degli ultimi ci si dimentica sempre. Altrimenti non sarebbero tali. Vengono dopo la siccità, la pressione idrica ed i mercati rionali. Ma se chiudere i nasoni dovesse significare negare improvvisamente l’accesso all’acqua pubblica a una popolazione di diecimila persone indigenti, ciò equivarrebbe ad un crimine di Stato. E noi davanti a questo crimine non potremmo restare in silenzio. Magari prendendocela con chi, nel Paese che è al top della disponibilità idrica, non è riuscito in questi decenni ad articolare un Piano idrico nazionale. Lasciamo stare i nasoni. Se in Italia il consumo pro capite al giorno di acqua è di 6.115 litri, (il 25% in più rispetto alla media europea) e la perdita dell’acqua tra le fasi di prelievo e di effettiva erogazioni è di circa il 27%, il problema non sono loro. E in una città abbracciata dal caldo africano evitiamo di aggiungere pene alle pene.
Roma senz’acqua, un disastro politico che Raggi e Zingaretti pagheranno carissimo. Va bene il caldo, va bene l’estate, ma la dispersione della rete idrica supera il 40% e i romani sono al limite della sopportazione: basterà un giorno di acqua razionata per dichiarare la morte politica della sindaca e del presidente della Regione, scrive Flavia Perina il 24 Luglio 2017 su "L'Inkiesta". Il razionamento dell'acqua a Roma dovrebbe cominciare il 28 luglio, venerdì prossimo, ma ancora non ci crede nessuno e la città come al solito è propensa a scommettere sul lieto fine. Si troverà un accordo tra Acea e Regione. Il Governatore Nicola Zingaretti cambierà idea e riaprirà le chiuse del lago di Bracciano. Magari pioverà. Il meteo annuncia temporali al Nord. Figuriamoci. Figuriamoci se qualcuno mette a secco Roma, che gli acquedotti li ha inventati, che le terme gratis ce le aveva già ai tempi di Nerone, Roma dove i signori e i cardinali in epoca pre-Rolex e pre-Suv c'avevano come status symbol la fontana d'autore (“Quello chiama Rainaldi? Io chiamo il Bernini”). I soliti giornali, dicono i romani. I soliti politici. Ma stavolta il nodo venuto al pettine è di quelli che non si sciolgono con facilità, e non è lanugine, non è fuffa, non è l'emergenza di panna montata degli scontrini del sindaco Ignazio Marino o delle nomine fantasia di Virginia Raggi. Non è nemmeno la mitologica nevicata di Gianni Alemanno, che si sapeva sarebbe finita in qualche giorno. Qui, sullo stato degli acquedotti e dell'acqua, arriva al capolinea una questione vera e dura come il granito: la dispersione del sistema idrico romano si aggira tra i 41 per cento (fonte Acea) e il 44 per cento (fonte Istat), e a questi ritmi l'acqua finisce, prima o poi. Anche in una città dove ce n'è moltissima, anche se ci sono laghi importanti come Bracciano a cui attingere nei periodi di magra. «Noi non fabbrichiamo l'acqua» dice il presidente di Acea Ato 2 Paolo Saccani. Sembra una banalità ma non lo è, in quanto a Roma e nel Lazio per moltissimo tempo, decenni, si è andati avanti come se appunto l'acqua non fosse un bene pubblico limitato e da gestire con cura ma una risorsa illimitata e replicabile all'infinito. È anche per questo, forse, che i romani ancora non ci credono. Nessuno può pensare che una classe dirigente sia così stupida da da sorpassare il limite che divide l'ordinaria incapacità dall'incompetenza suicida. Ora i maligni dicono che la crisi non è poi così grave come si dice, ma il Governatore Zingaretti l'ha estremizzata e ha deciso di chiudere Bracciano per riprendersi il centro della scena in vista dell'imminente campagna elettorale. Sull'altro fronte la sindaca Virginia Raggi sembra del tutto inconsapevole delle conseguenze del piano di razionamento di Acea (società del Comune al 51 per cento, guidata dagli uomini da lei scelti nell'aprile scorso): auspica una «soluzione condivisa», promette che «sarà fatto tutto il possibile» per tutelare i romani, ma non pare particolarmente scioccata dalla prospettiva di un milione e mezzo di cittadini coi rubinetti a secco un giorno sì e un giorno no. Nessuno dei due contendenti sembra rendersi conto delle conseguenze catastrofiche che avrebbe anche una sola settimana di erogazione a giorni alterni: il definitivo collasso di credibilità di ogni filiera amministrativa cittadina. Nicola Zingaretti e Virginia Raggi resterebbero, entrambi, insieme con i loro partiti, inchiodati ad una definizione tombale: quelli che hanno tolto l'acqua a Roma. È anche per questo, forse, che i romani ancora non ci credono. Nessuno può pensare che una classe dirigente sia così stupida da sorpassare il limite che divide l'ordinaria incapacità dall'incompetenza suicida. La città ha concesso molto in questo senso. Sopporta servizi tra i più scadenti d'Italia, il casino permanente dell'immondizia e del trasporto pubblico, l'inefficienza della burocrazia, tariffe De Luxe per prestazioni pubbliche ai limiti dello scandalo, dagli asili nido alle case popolari: lo fa per spirito di adattamento, per abitudine, forse per rassegnazione. Tagliargli pure l'acqua obbligherebbe anche i più miti a uscire da questo stato catatonico. Se davvero Zingaretti e Raggi pensano di trarre vantaggio politico da questo braccio di ferro, se davvero credono di poter rimbalzare uno sull'altra le responsabilità dell'emergenza “Roma a secco”, sono completamente matti. Basterà un solo giorno di rubinetti chiusi – un solo anziano morto di caldo, una sola foto di cane assetato davanti alla fontanella bloccata, un solo microscopico incendio ai giardinetti - per annientare tutti e due.
Un rigagnolo che sbuca dalle crepe dell'asfalto ininterrottamente da dodici giorni e che ha già comportato lo spreco di migliaia di litri d'acqua potabile. E' quanto denunciano alcuni residenti di via Gaetano Storchi, nel quartiere Monteverde di Roma. "Mentre siamo alle prese con la siccità, ferisce il senso civico di ognuno di noi vedere che nessuno interviene tempestivamente", racconta Cristina Maltese, ex presidente del Municipio XII. "Ho chiamato Acea personalmente almeno cinque volte - aggiunge il vicino di casa Maurizio Gibertini - Sono venuti e hanno accertato che il danno è di loro competenza. I tempi? La loro unica risposta è che ci sono delle procedure complicate". "Si è fatta tanta polemica sul prosciugamento del lago di Bracciano, a Roma c'è un'emergenza idrica ma questa nasce dallo stato delle condutture nel sottosuolo", conclude Maltese. Video di Francesco Giovannetti del 23 luglio 2017 su "Repubblica TV".
Spreco capitale: con le bocche tarate l'acqua potabile finisce nelle fogne, scrive Tiziana Paolocci, Mercoledì 30/05/2007 su "Il Giornale". L'acqua pulita sprecata ogni anno a Roma potrebbe essere utilizzata per soddisfare le esigenze di tutta Frosinone. Lo denuncia l'Anci, l'associazione nazionale degli amministratori condominiali e immobiliari, spiegando che annualmente 3,75 milioni di metri cubi di acqua vengono versati dall'Acea Ato 2 (società che la distribuisce in tutta la città) direttamente nelle fogne. È il dato principale che emerge dalla ricerca sul consumo nei condomini romani. «Alla base di questo sperpero - sottolinea Carlo Parodi, direttore del centro studi Anaci - ci sono le cosiddette bocche tarate, contratti di distribuzione a forfait. Si tratta di piccoli cilindri installati al posto dei normali contatori (solitamente uno per l'intero condominio) che distribuiscono un flusso costante e continuato di acqua previsto dal contratto, a prescindere da quanta se ne consuma. Quindi se uno stabile ne utilizza meno, quella che eccede va a finire, ancora pulita, direttamente nei tubi di scarico». Sulle 48.751 utenze di tipo condominio gestite dall'Acea Ato2, 1.293 sono a bocca tarata. «In media un condominio con bocca tarata - spiega Parodi - utilizza più di 5.200 metri cubi di acqua all'anno, mentre uno con il contatore ne utilizza in media solo meno di 2.300. In sostanza con le bocche tarate più della metà dell'acqua (2.900 mc) va completamente sprecata». Quindi se si moltiplicano le 1.293 bocche tarate presenti nei condomini della capitale per i 2.900 metri cubi di acqua buttati, il risultato è che in un anno 3,75 milioni di metri cubi vanno a finire nelle fognature. Per evitare questo spreco assurdo basterebbe sostituire le bocche tarate con i normali contatori. Un'operazione che sarebbe a carico dell'Acea Ato 2. L'azienda fa sapere di aver più volte manifestato ad Anaci la propria disponibilità a intervenire, su richiesta dei condomini interessati. «Ma non sono molte le richieste pervenute in tal senso - spiega Acea Ato 2 -. Deve essere il condominio a richiedere la trasformazione e a provvedere all'adeguamento, a proprie spese e con un proprio idraulico, delle condutture dell'acqua interne al palazzo. Invece, Acea Ato 2 dopo avere effettuato un sopralluogo, predispone su richiesta del condominio un preventivo, e successivamente, dopo l'accettazione, installa il contatore per l'allaccio all'acqua diretta». Da tempo non è più possibile richiedere utenze a bocca tassata e per quelle esistenti Acea Ato 2 sta progressivamente provvedendo alla loro trasformazione con utenze a contatore. «La sostituzione di questo tipo di utenza fa parte di una serie di azioni avviate dall'azienda per ridurre le dispersioni idriche - conclude Acea Ato 2 -. La richiesta di trasformazione, che si traduce in una minore spesa a carico dei condomini e in un minor dispendio della preziosa risorsa, dovrebbe sempre rappresentare un dovere primario per gli amministratori di condominio».
Roma a secco: ma i romani risero (1985) quando toccò a Firenze, scrive Paolo Padoin il 23 luglio 2017 su "Firenze Post". A Roma sta finendo l’acqua. A lanciare l’allarme è Nicola Zingaretti, governatore del Lazio, dopo che la stessa Regione ha ordinato la sospensione del prelievo dal lago di Bracciano, riserva idrica della Capitale. In arrivo, dunque, c’è l’acqua razionata per un milione a mezzo di romani. Nell’estate rovente 2017, della crisi idrica e degli incendi, l’Acea annuncia l’arrivo della misura – ‘obbligata’ come sottolinea la multiutility – dopo la decisione della Regione Lazio di sospendere il prelievo dal lago di Bracciano. Ci dispiace per i cittadini romani, ma si tratta di un film già visto anche in altre città, e chi ha la memoria lunga si ricorderà che proprio da ambienti capitolini arrivarono velate critiche a cittadini e autorità fiorentine che, nella caldissima estate del 1985, si arrabattavano per rifornire d’acqua la città. Era infatti completamente a secco l’unica fonte di approvvigionamento idrico, l’Arno, tanto che la Protezione Civile fu costretta a intervenire per realizzare condotte d’emergenza per alimentare l’acquedotto. Prefettura e comune di Firenze avevano infatti approntato un primo sistema di rifornimento d’emergenza tramite le autobotti di vigili del fuoco e acquedotto, sistemate nei punti nevralgici della città, ma si trattava di un rimedio che non poteva durare a lungo, tanto più che non erano previste, nel breve e medio periodo, precipitazioni abbondanti che potessero risolvere la situazione. La diga di Bilancino era in costruzione ma ci sarebbero voluti altri 15 anni (e lo scandalo delle pietre d’oro denunciato da Sandro Bennucci su La Nazione) prima di averla a regime. Ero allora responsabile della protezione civile alla prefettura di Firenze e, con il decisivo apporto dell’allora ministro della protezione civile, Giuseppe Zamberletti, fu costruito un acquedotto provvisorio lungo 8 km. (Subito definito «tubone») che portava l’acqua dai laghetti dei Renai, nel comune di Signa, all’acquedotto fiorentino. L’opera, costata 1 miliardo e mezzo di lire, risolse in quel periodo estivo il problema della siccità. L’invaso di Bilancino ormai consente il rifornimento idrico di Firenze e Prato, tanto che in queste zone finora non ci sono stati più problemi per l’alimentazione dell’acquedotto, anche se ovviamente ci sono difficoltà, come in tutt’Italia, per l’irrigazione in agricoltura. Per quanto riguarda dunque il previsto razionamento dell’acqua per i cittadini romani la sindaca Raggi, il presidente della Regione Zingaretti e il ministro dell’ambiente Galletti sono invitati a prendere ad esempio quanto a suo tempo fecero il ministro Zamberletti, il prefetto di Firenze Mannoni e, successivamente, i presidenti della Regione toscana, che, con i loro tempestivi e ingegnosi interventi, hanno permesso ai cittadini fiorentini di non soffrire i danni della siccità.
Ai tempi di Roma Caput Mundi lo spreco era simbolo di potenza. La Città Eterna pullulava di fontane pubbliche e scialacquava. I barbari tagliarono le condutture e i quartieri si spopolarono, scrive il 14 Aprile 2016 “Il Tempo. Nell'antica Roma la dispersione idrica non solo non era un problema, visto che la dotazione di allora era, in proporzione, cinque volte superiore a quella di oggi, ma veniva considerata, al contrario, come un'autentica dimostrazione del potere. Un'ostentazione continua, che diede origine ad un vero e proprio scialacquio con la creazione di tantissime fontane pubbliche alimentate dai primi acquedotti. Il primissimo portava acqua alla fontana del mercato del bestiame, ma nel III secolo dopo Cristo la città contava undici acquedotti. Fu l'ex curatore delle acque Sesto Giulio Frontino, a descrivere la prima rete idrica col suo «De aquaeductu urbis Romae». Una sorta di trattato sul complesso sistema di approvvigionamento idrico del II secolo dopo Cristo, con tanto di dettagli tecnici e topografici per esaltare, appunto, la grandezza dell'opera. E, non a caso, poi quell'imponente opera d'ingegneria idraulica, come le arcate dell'acqua Claudia, sono finite in tutte le opere dei migliori pittori paesaggisti che hanno voluto raffigurare la grandezza di Roma proprio a partire dagli acquedotti. Opere incredibili ed imponenti- oggi verrebbero definite impattanti da un certo ambientalismo più fondamentalista - eppure paradossalmente quanto più di romantico esista sullo sfondo della campagna romana. Un’opera di pubblica utilità figlia di calcoli volumetrici da far invidia a quelli stilati con l'ausilio degli strumenti moderni, come gli altrettanto utili viadotti. Gli acquedotti sono stati così importanti da finire al centro della guerra fra ostrogoti e bizantini, i quali si contendevano l'eredità dei romani. E nel 537 dopo Cristo, durante l'assedio di Roma, gli ostrogoti decisero di tagliare proprio gli acquedotti per lasciare la popolazione a secco e costringerla alla resa. Una mossa che fece progressivamente spopolare le mura aureliane, perché i colli erano tagliati fuori dalla rete idrica, portando tutta la popolazione attorno al Tevere, un fiume allora ancora sia potabile che navigabile. Quel taglio degli acquedotti equivalse all'effetto di un bombardamento moderno, provocando lo spopolamento di Campo Marzio e la nascita della Roma medievale. Con la quale non finì certo l'ostentazione della dotazione idrica come indice di potenza. Proseguita sino alla Roma pontificia e la nascita dei famosi "nasoni" alla fine dell'800. Autentici monumenti alla magnanimità dei papi, con la distribuzione gratuita dell'acqua al popolo riconoscente.
I "furbetti" della sete: Acea fa ricchi i soci ma non ripara i tubi. In sei anni 381 milioni a Comune e privati. Mentre si tagliavano le spese per la rete, scrive Gian Maria De Francesco, Lunedì 24/07/2017 su "Il Giornale". Come si fa a lasciare a secco la Capitale e le province limitrofe quando si incassano circa 3 miliardi di euro in sei anni? È questo il mistero un po' buffo di Acea Ato 2, la società che gestisce il servizio idrico integrato di Roma. Si tratta di una controllata della omonima utility capitolina (96,5%) e del Campidoglio (3,5%). La storia è molto italiana e si può riassumere in maniera semplicistica con la formula «il cittadino paga e l'ente incassa». La storia di Acea Ato 2 non è quella di un carrozzone in perdita. Nel periodo 2011-2016 ha devoluto agli azionisti 381,3 milioni di dividendi contribuendo per oltre un quarto all'utile netto di Acea che è quotata in Borsa e che oltre al Comune di Roma (51%) annovera tra i suoi soci i francesi di Suez (23,3%) e il gruppo Caltagirone (5%). Se la utility ha potuto a sua volte remunerare i propri azionisti (e per i conti dissestati della Capitale quelle cedole sono manna dal cielo) è anche per merito dei cittadini che pagano la bolletta dell'acqua. A questo non corrisponde, come evidenziano le cronache degli ultimi giorni, altrettanta qualità. Eppure nel 2016 Acea Ato 2 ha investito sulla rete idrica per circa 225 milioni. Come ha evidenziato un'analisi elaborata da Merian Research e dallo Studio Lillia (commissionato dalla deputata grillina Federica Daga, paladina dell'«acqua bene comune»), il gestore del servizio idrico nel periodo 2012-2015 ha effettuato investimenti per 577 milioni, circa 375 milioni in meno di quanto preventivato dal piano industriale. Non a caso la redditività di Acea Ato si avvicina spesso al 10%, un valore che molte imprese sognano. E non è un caso che Raggi abbia pensato di vendere quel 3,5% della società per fare cassa, ma una mozione dei suoi stessi consiglieri l'ha stoppata. Dunque la spiegazione dei disservizi di questi giorni è anche in questi numeri: i soci di Acea incassano da Acea Ato 2 (due volte considerato che gli investimenti sono finanziati da prestiti della capogruppo) ma quest'ultima non sempre riesce a curare la rete degli acquedotti come dovrebbe. Il pensiero non può non andare alle polemiche degli ultimi giorni tra il sindaco Raggi, e il governatore del Lazio, Nicola Zingaretti, che chiudendo il prelievo dal bacino del Lago di Bracciano potrebbe far restare all'asciutto la Capitale (di sicuro resterà senz'acqua un altro Comune pentastellato, Civitavecchia). La politica che crea problemi e che poi accusa gli avversari di aver incancrenito la situazione. Di sicuro quando l'ex sindaco di Roma, Francesco Rutelli, si impegnò alla fine degli anni '90 per la veloce attuazione dell'«Ambito territoriale ottimale» (di cui Ato è l'acronimo) nessuno avrebbe previsto la grande sete dell'estate 2017. Anzi, si era creato una nuova istituzione nella quale manager «politici» avrebbero potuto trovare uno sbocco. Ad Acea Ato 2, tanto per fare un esempio, è stato confermato Paolo Saccani, insediato dal precedente vertice boschiano-renziano e poi confermato anche dal nuovo corso grillino. In fondo anche l'attuale ad di Acea, Stefano Donnarumma, è un «cavallo di ritorno». Uscito qualche anno fa per dissapori con il precedente management (in particolare con Francesco Sperandini, poi passato al Gse), è stato richiamato dagli M5S area Lombardi. Anche perché il Movimento non ha a tutt'oggi profili spendibili per ruoli importanti. E così a Roma e nel mondo delle utility vincono sempre le professionalità consolidate, gli investitori istituzionali (e non) e perdono i cittadini.
Acea, per Roma Capitale vale 50 milioni all’anno, scrive Giuliano Santoro il 23 luglio 2017 su "Il Manifesto". Nello scacchiere della finanziarizzazione dei servizi idrici, Acea gioca una parte importante. Si tratta del più grande operatore italiano. Socio di maggioranza è il Comune di Roma con il 51% delle azioni, seguito dalla multinazionale francese Suez con il 23,3% e da Francesco Gaetano Caltagirone con il 5,006%. Raggiunge 8,5 milioni di abitanti tra Roma, Frosinone e altre zone di Lazio, Toscana, Umbria e Campania. Il suo bilancio dice che il business idrico vale oltre il 40% del margine operativo lordo del gruppo. Profitti che incassa anche il Comune di Roma, azionista di maggioranza al 51% che da questa voce prende più di 50 milioni di euro all’anno. Di questa partita fondamentale, dopo anni di responsabilità del centrosinistra soprattutto, deve adesso occuparsi un partito che affonda la sua identità nella battaglia per l’acqua pubblica come il Movimento 5 Stelle. L’amministratore delegato di Acea è Luca Lanzalone, avvocato inviato da Genova a Roma soprattutto per gestire (e indirizzare a favore delle cementificazione, dicono i più maliziosi) la partita dello stadio della Roma superando i dubbi circa la costruzione della grande opera. Tutto appare più lineare quando si scopre che la faccenda dell’acqua cade nella giurisdizione dell’assessore alle partecipate Massimo Colomban. Sostenuto da Casaleggio, Colomban non è esattamente un antiliberista, viene dal mondo delle aziende, in passato ha appoggiato il leghista Luca Zaia in Veneto e le riforme di Matteo Renzi. Ecco perché nessuno si è stupito quando, nell’ambito della sua missione di ristrutturazione delle partecipate di Roma Capitale, Colomban ha proposto la vendita del 3,5% di Acea Ato 2, l’ambito territoriale del Lazio centrale, che frutterebbe circa 12 milioni di euro, a fronte di 2,5 milioni di utili annuali. Quella quota, consente all’amministrazione pubblica di sedere nel consiglio di amministrazione di Acea Ato 2. Si sono stupiti i movimenti per l’acqua bene comune che hanno fatto pressione sui consiglieri comunali del Movimento 5 Stelle richiamandoli al rispetto del programma per il quale erano stati votati. La toppa è arrivata qualche giorno fa: una mozione dell’assemblea capitolina sostiene il mantenimento delle quote. Colomban ha annunciato che la sua missione dovrebbe finire in autunno. Per quel periodo, sperano i sostenitori dell’acqua pubblica dentro al M5S come la deputata (molto imbarazzata) Federica Daga, il cambio di indirizzo dovrebbe essere accolto anche da una delibera.
Carsetti: «Acea non investe nella rete, deve dare i dividendi». Da quando i privati sono entrati in Acea le perdite nelle tubazioni aumentano e gli investimenti non decollano, continuando così servirebbero 250 anni per ammodernare la rete, scrive Rachele Gonnelli il 23 luglio 2017 su "Il Manifesto". Cantava Aurelio Fierro nella pubblicità di Carosello: «Diceva l’oste al vino tu mi diventi vecchio, ti voglio maritare con l’acqua del mio secchio, rispose il vino all’oste fai le pubblicazioni, sposo l’Idrolitina del cavalier Gazzoni». A Roma manca l’acqua, in compenso le banche d’affari danno indicazione buy, comprare, per le azioni Acea, la quale voleva acquisire intanto lo storico marchio Idrolitina. Acea in effetti è il principale erogatore di acqua in Italia, ma è anche l’azienda capofila della finanziarizzazione delle multiutility a maggioranza di capitale pubblico (51 del Comune, anche se «comanda» il socio privato Gdf-Suez «imparentato» con il gruppo Caltagirone), la prima delle «quattro sorelle» della cripto-privatizzazione (le altre sono Hera, Iren e A2a). Un processo iniziato prima del referendum del 2011 e che adesso «risalta tutta la perversità del meccanismo che ha negato il risultato di quel voto», dice Paolo Carsetti, rappresentante del Coordinamento romano Acqua pubblica, cioè dei referendari. La capitale è in panne perché non può più attingere dal lago di Bracciano. Ma quella non dovrebbe essere una riserva idrica strategica? Roma è approvvigionata dall’acquedotto del Peschiera con 9 metri cubi al secondo, dall’Acqua Marcia per 4,5 metri al secondo e da Le Capore, che alla fine confluisce nel Peschiera, per altrettanta portata. Il «nuovo» acquedotto di Bracciano doveva servire solo per le emergenze invece è diventato una fonte di approvvigionamento strutturale indispensabile. Il problema è proprio questo. Il Peschiera è un lago sotterraneo sfruttato per un terzo della potenzialità, Acea ha chiesto alla Regione Lazio di autorizzare un maggior prelievo ma servirebbero investimenti per milioni di euro, perciò si preferisce continuare a pompare acqua da Bracciano? Il bacino acquifero di Bracciano è ipersfruttato anche dai comuni limitrofi ma rivolgersi al Peschiera significa mandare prima o poi in crisi anche quella risorsa. È una impostazione sbagliata. Gli investimenti andrebbero fatti per diminuire le perdite della rete romana, invece che aumentare le portate e le fonti di prelievo. Dove andremo ad attingere alla fine, sulla Luna? Bracciano avrebbe dovuto servire per i mesi estivi, in caso di siccità, invece si è superata la soglia della criticità e si è compromesso l’equilibrio dell’ecosistema lacustre. Di fronte al disastro ambientale adesso è necessaria una misura drastica anche se comporterà disagi pesanti per Roma. Non si doveva arrivare a questo punto e noi avvertivamo da anni che ci si stava avvicinando. Il 60% delle tubazioni Acea ha trent’anni, un quarto data più di mezzo secolo. È vero che con l’attuale livello di investimenti sulla rete servirebbero 250 anni per ammodernarla e eliminare le perdite? Dalle bollette dei cittadini di Roma, in base all’ultimo bilancio che abbiamo potuto visionare di Ato2, la società controllata da Acea che gestisce il servizio idrico della capitale, si produce un utile annuo di 70 milioni di euro. Se fossero reinvestiti per migliorare il servizio, non in un anno, però si potrebbero ridurre gli sprechi in tempi non geologici. Invece da quando sono entrati i privati nel capitale, cioè dagli anni Novanta, le perdite sono aumentate sempre. Il fatto è che il 94% degli utili di Acea Ato 2 viene distribuita tra i soci sotto forma di dividendi, non reinvestita. Ato 2 poi, se vuole fare investimenti, deve chiedere i soldi in prestito a Acea-holding, la casa madre, che glieli eroga a tassi d’interesse di mercato. È follia pura ma è così: i soldi se fossero tenuti sotto il materasso ci sarebbero, li avresti in cassa. Ma il perverso meccanismo della finanziarizzazione disincentiva gli investimenti sul servizio e le conseguenze si vedono. Senza contare l’aggravio della spesa in bolletta per pagare i tassi d’interesse ad Acea per gli investimenti, che è un assurdo in sé. Ma il referendum non impediva la remunerazione degli investimenti dei soggetti privati? Quella dizione è stata abrogata ma è stata reinserita sotto mentite spoglie come «costo della risorsa finanziaria» attraverso la nuova Authority per l’energia, l’acqua e il gas. Abbiamo fatto ricorso, purtroppo il Consiglio di Stato ci ha dato torto sostenendo che il capitale deve essere remunerato. Una sentenza politica che tutela la teoria economica dominante. Ma se tutto deve rimanere immutato, viene da chiedersi, perché ci hanno fatto fare il referendum?
Mafia Capitale e Acea, esposto alla Corte dei Conti. Scritto da M5S Camera News, pubblicato il 02.04.2015. Abbiamo deciso di depositare un esposto alla Corte dei Conti per segnalare quanto emerso dall'inchiesta pubblicata il 16 gennaio su l'Espresso, relativa agli appalti neri e Mafia Capitale. Da tale inchiesta abbiamo appreso che Acea S.p.A. non sembra essere affatto estranea alla bufera giudiziaria che ha investito la Capitale. In tale inchiesta si legge che appalti milionari sono stati infatti ripetutamente affidati dalla partecipata del Comune di Roma a ditte legate a Mancini e a Monaco, nomi entrambi noti alla Procura di Roma. Da tale inchiesta emergono una serie di appalti i cui costi sono aumentati in modo esponenziale negli anni, peraltro in alcuni casi senza giungere a conclusione dei lavori. Aumenti dei costi che si traducono in aggravi tariffari per gli utenti, i quali subiscono, senza un effettivo potere di concertazione, i pregiudizi derivanti dalla cattiva gestione di un bene comune primario. Sembrano, inoltre, emergere connessioni con società, anch'esse collegate con il Mancini, impegnate, in forma di ATI, nella realizzazione di un impianto di trattamento meccanico e biologico della frazione residuale e della frazione organica dei rifiuti urbani da realizzare in contrada Bellolampo nel Comune di Palermo, a dimostrazione della dilagante illegalità nella gestione dei rifiuti su tutto il territorio nazionale. Risulta, inoltre, una indagine della Procura di terni su presunte incongruenze nei bilanci di Acea S.p.A., in riferimento ad un impianto di incenerimento di Terni. Quanto abbiamo riportato nell'esposto ci lascia quantomeno perplessi considerate le riserve già espresse dalla Corte dei Conti in una relazione del 2003 in merito all'affidamento per 30 anni del servizio idrico integrato ad Acea Ato 2, in uno dei bacini più grandi d'Europa e il maggiore a livello nazionale con 3,7 milioni di utenti tra Roma e altri 110 comuni dell'hinterland romano, della provincia di Frosinone e Viterbo. Abbiamo quindi segnalato alla Corte (prima firma Federica Daga) che in base ai fatti e alle circostanze descritti sembrano profilarsi responsabilità amministrative di carattere erariale da ascriversi a carico di coloro che ne risulteranno gli autori, con particolare riferimento all'operato dei Sindaci p.t. del Comune di Roma, degli assessori competenti in carica dal 1999 ad oggi e dei rappresentanti della Conferenza dei Sindaci della ATO2. Con tale esposto abbiamo quindi richiesto alla Corte dei Conti di verificare se sussistano ipotesi di illecito contabile e responsabilità per danno erariale cagionati ai danni della collettività conseguenti ai comportamenti dei soggetti coinvolti.
Mafia capitale, 19 anni a Buzzi e 20 a Carminati. Ma per i giudici non è una cupola. La sentenza è arrivata dopo quasi due anni di dibattimento e 240 udienze, scrive il 20 luglio 2017 "Il Dubbio". 20 anni di carcere per Massimo Carminati e 19 anni per Salvatore Buzzi. E’ la sentenza di primo grado del processo Mafia Capitale. Dunque, secondo i giudici di Roma, l’organizzazione capitanata da Massimo Carminati e Salvatore Buzzi non è stata una vera associazione mafiosa. La sentenza è stata letta davanti a centinaia di giornalisti e tv provenienti da tutto il mondo. I due principali imputati, Salvatore Buzzi e Massimo Carminati, hanno ascoltato le parole della presidente Rosanna Ianniello in videoconferenza. In aula non c’era il procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone mentre c’era la sindaca Virginia Raggi. La sentenza è arrivata dopo quasi due anni di dibattimento e 240 udienze. Alla sbarra erano finiti 46 imputati, 19 con l’accusa di 416 bis, vero terreno di battaglia di questo maxiprocesso tenutosi, al ritmo di 4 udienze a settimana, nell’aula bunker di Rebibbia, fatta eccezione per la prima a piazzale Clodio. Un’associazione che, secondo la Procura di Roma, “usando il metodo mafioso”, fatto di assoggettamento, intimidazione e omertà, avrebbe messo le mani su gare e appalti della pubblica amministrazione, dai rifiuti ai profughi al verde pubblico, grazie anche ai politici messi a libro paga. Da destra a sinistra nessuno escluso perché, come ha detto Buzzi in collegamento dal carcere di Tolmezzo, “non devi guardare se il gatto è bianco o nero, l’importante è che prenda il topo”.
Mafia Capitale, 20 anni a Carminati e 19 a Buzzi: la lettura della condanna. Dopo tre ore di camera di consiglio è arrivata la sentenza del maxiprocesso Mafia Capitale. Dopo 230 udienze la X sezione penale del Tribunale di Roma in primo grado di giudizio ha condannato Massimo Carminati a 20 anni di reclusione, mentre quelli che dovrà scontare Salvatore Buzzi sono 19. Cade invece l'accusa per associazione di stampo mafioso.
Mafia Capitale, il procuratore Ielo: ''Sentenza ci dà in parte torto, ma la delusione non ci appartiene''. Il procuratore aggiunto Paolo Ielo commenta la sentenza della decima sezione del Tribunale di Roma del Processo Mafia Capitale che non ha riconosciuto le accuse di associazione mafiosa.
Mafia Capitale, legale Carminati: ''Sconfitta di Pignatone, sono solo quattro cazzari''. "Non so se questo processo ha dei vincitori, ma certamente ha uno sconfitto: Pignatone. Su questo non ci sono dubbi". Lo ha detto l'avvocato di Massimo Carminati, Bruno Giosuè Naso, commentando la sentenza del processo a Mafia Capitale nell'aula bunker di Rebibbia. Interrogato poi da una giornalista, l'avvocato conferma quanto detto tempo fa in merito a quella che lui stesso definisce "la banda del benzinaro": "Sono solo quattro cazzari".
Mafia Capitale, legale Buzzi: ''Provata l'inesistenza della mafiosità''. "Né Salvatore Buzzi né Massimo Carminati sono mafiosi. Questa è una pietra miliare, una lezione di diritto della quale qualcuno dovrà prendere atto". A dirlo è Alessandro Diddi, l'avvocato di Salvatore Buzzi, al termine della lettura della sentenza di Mafia capitale che ha condannato il ras delle cooperative a 19 anni di reclusione. "Erano i pubblici ufficiali a rivolgersi a Buzzi, e non lui a intimidirli", ha sottolineato il legale.
L'avvocato di Massimo Carminati Giosuè Naso, al termine della sentenza che ha visto decadere l'accusa per associazione mafiosa del suo assistito, nell'aula bunker di Rebibbia ingaggia una lite con un funzionario di polizia e viene portato via. La figlia Ippolita, anch'essa avvocata, chiede ironicamente se il padre sia stato arrestato. Contattato successivamente al telefono, l'avvocato Naso ha fatto sapere che si sarebbe trattato di "sciocchezze", senza fornire ulteriori spiegazioni.
Roma. “Mafia Capitale”…anzi no! Adesso bisognerà cambiare nome…?!? Scrive il 20 luglio 2017 Antonello de Gennaro su "Il Corriere del Giorno". Caduta l’associazione mafiosa richiesta dalla procura romana. E’ stata vana la inutile passerella del Sindaco di Roma Virginia Raggi. La decisione della 10ma sezione penale del Tribunale di Roma è la sconfitta delle etichette della informazione “forcaiola” e serva della pessima politica. Nella sentenza è stata esclusa sia la natura del sodalizio mafioso ex art 416 bis del codice penale, sia la presenza dell’aggravante del “metodo mafioso” prevista dall’art. 7 D.L. 152/1991 convertita con Legge 203/1991. In definitiva si è trattato il processo a due associazioni a delinquere semplici. Al termine del processo il Tribunale di Roma ha condannato Salvatore Buzzi a 19 anni di reclusione, 20 anni per Massimo Carminati, 11 per Luca Gramazio, ex capogruppo del Pdl in Comune. Caduta quindi l’accusa di associazione mafiosa a 19 imputati del processo a mafia capitale, tra cui i presunti capi Carminati e Buzzi. Per l’ex presidente dell’assemblea Capitolina Mirko Coratti la corte ha stabilito una pena di 6 anni di reclusione. Luca Odevaine, ex responsabile del tavolo per i migranti, è stato condannato a 6 anni e 6 mesi. Undici anni per Ricardo Brugia il presunto braccio destro di Carminati, 10 per Franco Panzironi l’ex Ad di Ama. L’ex minisindaco del municipio di Ostia, commissariato per infiltrazione mafiose, Andrea Tassone è stato condannato a 5 anni. Su 46 imputati tre sono stati assolti. Si tratta di Rocco Rotolo e Salvatore Ruggiero, per i quali la Procura aveva chiesto 16 anni di carcere, e l’ex dg di Ama Giovanni Fiscon, per il quale erano stati chiesti 5 anni. Secondo l’accusa Rotolo e Ruggiero avrebbero garantito i contatti tra “Mafia Capitale” ed ambienti della ‘ndrangheta. I giudici della decima Corte presieduta da Rosanna Ianniello hanno inflitto oltre 250 anni di carcere, dimezzando di fatto le pene rispetto alle richieste della Procura che aveva proposto per tutti gli imputati 5 secoli di carcere. I giudici hanno detto che “la mafia a Roma non esiste, come andiamo dicendo da 30 mesi” ha dichiarato soddisfatto l’avvocato Giosuè Naso difensore di Massimo Carminati. “La presa d’atto della inesistenza dell’associazione mafiosa – ha aggiunto – ha provocato una severità assurda e insolita. Mai visto che a nessuno di 46 imputati non venissero date attenuanti. Sono pene date per compensare lo schiaffo morale dato alla procura”. I giudici della X sezione del Tribunale di Roma sono stati chiamati a giudicare i 46 imputati del processo denominato “Mafia Capitale”, l’associazione che avrebbe condizionato la politica romana, guidata da l’ex Nar Massimo Carminati e dal ras delle cooperative Salvatore Buzzi. Il presidente della Corte Rosanna Ianniello, prima di entrare in camera di consiglio, ha ringraziato il “personale amministrativo” del tribunale, “senza il quale non sarebbe stato possibile portare a compimento il processo” e i tecnici, che hanno “lavorato con competenze e dedizione”. Un ringraziamento, da parte del presidente, anche alla procura, in particolare al pm Luca Tescaroli, che “si è contraddistinto per la professionalità” ed agli avvocati difensori.
Mafia Roma: pm Ielo, sentenze si rispettano – “Questa sentenza riconosce un’associazione a delinquere semplice, non di tipo mafioso. Sono state date anche condanne alte. Rispettiamo la decisione dei giudici anche se ci danno torto in alcuni punti mentre in altri riconoscono il lavoro svolto in questi anni. Attenderemo le motivazioni”. Lo afferma il procuratore aggiunto Paolo Ielo dopo la sentenza della X sezione penale del Tribunale di Roma.
Carminati a legale, “avevi ragione tu, sono soddisfatto” – “Avevi ragione tu, sono soddisfatto”. Queste le parole pronunciate da Massimo Carminati parlando con la sua legale Ippolita Naso, commentando la sentenza che lo condanna a 20 anni, anziché a 28 anni, non essendo stata riconosciuta l’associazione mafiosa. L’avvocato era convinto che l’associazione mafiosa non sarebbe stata riconosciuta e così è stato. “Avevi ragione tu”, le ha quindi detto Carminati. “Ora mi devono togliere subito dal 41 bis”. E’ la prima richiesta che Massimo Carminati ha rivolto al suo avvocato subito dopo la lettura delle sentenza della X sezione penale del tribunale di Roma che non ha riconosciuto l’esistenza dell’associazione mafiosa. “Non me lo aspettavo – ha aggiunto l’ex Nar al telefono con l’avvocato – avevi ragione tu ad essere ottimista”. “Carminati temeva – ha detto l’avvocato Naso – che le pressioni mediatiche avessero portato ad un esito negativo per lui”.
Buzzi a legali, ora quando esco da carcere? – “Ora quando esco?”: questo il primo commento di Salvatore Buzzi dopo la lettura della sentenza per i 46 imputati di mafia capitale, esprimendo felicità per l’esito del processo. “Mi auguro – ha aggiunto parlando con il suo avvocato – che alla luce di questa decisione la mia permanenza in carcere stia per finire”. Condanne esemplari per tutti gli imputati per alcuni anche superiore alle richieste del pm ma non si tratta di un’associazione mafiosa. In 41 sono stati condannati e in 5 assolti.
Ecco tutte le condanne: Massimo Carminati 20 anni; Salvatore Buzzi anni 19 anni; Riccardo Brugia 11 anni; Fabrizio Testa 11 anni; Luca Gramazio 11 anni; Franco Panzironi 10 anni; Cristiano Guarnera 4 anni; Giuseppe Ietto 4 anni; Claudio Caldarelli 10 anni; Agostino Gaglianone 6 anni e 6 mesi; Carlo Pucci 6 anni; Roberto Lacopo 8 anni; Matteo Calvio 9 anni; Nadia Cerrito 5 anni; Carlo Maria Guarany 5 anni; Paolo Di Ninno 12 anni; Alessandra Garrone 13 anni e 6 mesi; Claudio Bolla 6 anni; Emanuela Bugitti 6 anni; Stefano Bravo 4 anni; Mirko Coratti 6 anni; Sandro Coltellacci 7 anni; Michele Nacamulli 5 anni; Giovanni De Carlo 2 anni e 6 mesi; Antonio Esposito 5 anni; Giovanni Lacopo 6 anni; Franco Figurelli 5 anni; Claudio Turella 9 anni; Guido Magrini 5 anni; Sergio Menichelli 5 anni; Marco Placidi 5 anni; Mario Schina 5 anni e 6 mesi; Mario Cola 5 anni; Daniele Pulcini 1 anno; Angelo Scozzafava 3 anni; Andrea Tassone 5 anni; Giordano Tredicine 3 anni; Luca Odevaine 6 anni e 6 mesi; Pierpaolo Pedetti 7 anni; Tiziano Zuccolo 3 anni e 3 mesi; Pierina Chiaravalle 5 anni.
Questi gli assolti: Giovanni Fiscon assolto; Rocco Rotolo assolto; Salvatore Ruggero assolto; Giuseppe Mogliani assolto; Fabio Stefoni assolto.
Mafia Capitale non esiste. 20 anni per Carminati ma è un "delinquente abituale". Il verdetto della Corte d’Assise di Roma mette la parola fine al maxi processo durato due anni. Condanne pesanti ma non per 416 bis. Nervi tesi per l'avvocato Naso che dà in escandescenze e viene portato via dalla polizia, scrive Giovanni Tizian e Federico Marconi il 20 luglio 2017 su "L'Espresso". Mafia Capitale non esiste. La storia si ripete. Come ai tempi della banda della Magliana, per il tribunale di Roma non esiste organizzazione mafiosa locale nella città eterna. Svanisce in mezz’ora, il tempo della lettura del verdetto. La Corte d’Assise ha condannato Massimo Carminati a 20 anni e Salvatore Buzzi a 19 ma non per 416 bis, cioè il reato di associazione mafiosa. Il verdetto della Corte d’Assise di Roma mette così la parola fine al maxi processo durato due anni e 240 udienze. I giudici riconoscono due associazioni, semplici, con a capo Carminati. In una di queste hanno confermato il ruolo centrale di Salvatore Buzzi, braccio economico della “banda”. Secondo i giudici, inoltre, il “Cecato” è un delinquente abituale. Dopo tre ore di camera di consiglio è arrivata la sentenza del maxiprocesso Mafia Capitale. Dopo 230 udienze la X sezione penale del Tribunale di Roma in primo grado di giudizio ha condannato Massimo Carminati a 20 anni di reclusione, mentre quelli che dovrà scontare Salvatore Buzzi sono 19. Cade invece l'accusa per associazione di stampo mafioso. La sentenza è arrivata poco dopo le 13, in un aula gremita di giornalisti. Nelle gabbie di Rebibbia una decina gli imputati detenuti. Tre, tra cui Carminati, erano collegati dal 41 bis in videoconferenza. In fondo all’aula parenti e amici degli imputati. Tra loro Il fratello di Massimo Carminati, Sergio, e il leader di Militia Maurizio Boccacci. Alla lettura delle prime pesanti condanne alcune donne hanno pianto, altre hanno gioito per le assoluzioni. Tra i banchi delle parti civili, invece, era presente anche la sindaca di Roma, Virginia Raggi. “È una giornata importante” ha commentato la sindaca appena entrata in aula, una ventina di minuti prima dell’ingresso della Corte. Raggi che oggi scopre di governare una città in cui la mafia non c’è mai stata. Dai tempi della Banda della Magliana, nessun processo ha mai riconosciuto l’associazione mafiosa ai gruppi criminali imputati. Tra i 41 condannati, pene pesanti anche per Alessandra Garrone (13 anni e 6 mesi), Fabrizio Testa (12), Luca Gramazio (11), Luca Brugia (11), Franco Panzironi (10), Luca Odevaine (8), Mirko Coratti (6 anni) e Giordano Tredicine (3). Condannato, inoltre, Andrea Tassone, ex presidente del municipio di Ostia, poi sciolto per mafia, e Luca Odevaine, il regista del business dei migranti, a 8 anni complessivi. La pena di 9 anni è stata inflitta a Matteo Calvio, detto “Spezza pollici”, ritenuto il tirapiedi del capo dell’associazione Massimo Carminati. Paolo Ielo, procuratore aggiunto di Roma, ha dichiarato: «La sentenza in parte ci dà torto ma aspettiamo di leggere le motivazioni». Era evidente la delusione negli sguardi di chi ha condotto le indagini sul gruppo Carminati. Le difese, invece, nonostante le pene comunque alte, si ritengono soddisfatte della decisione della corte. Alcuni degli imputati a piede libero hanno esultato, uno di loro rivolgendosi all’inviato di Repubblica ha chiesto: «E mo che vi inventate?». Mezz’ora dopo la lettura della sentenza, la tensione non è calata. Nervi tesi per l’avvocato di Carminati, Domenico Naso. Dopo la soddisfazione per il verdetto che cancella il reato di mafia, l’avvocato ha avuto un diverbio con i poliziotti di guardia. I toni si sono accesi e c’è stato un battibecco con l’agente, che ha chiesto a Naso di seguirlo al posto di polizia. L'avvocato Naso, legale di Carminati va in escandescenza alla fine della sentenza. Ha avuto un diverbio con i poliziotti di guardia. I toni si sono esasperati e l'avvocato è stato portato al posto di polizia. Alla fine il dirigente della polizia ha calmato la situazione.
Perché "Mafia Capitale" è stata archiviata. Tra i 113 prosciolti anche Alemanno e Zingaretti. Ecco chi erano gli indagati e perché sono stati scagionati, scrive l'8 febbraio 2017 Chiara Degl'Innocenti su Panorama. Mafia Capitale è stata archiviata. Non sono emersi "elementi idonei a sostenere l'accusa in giudizio" e così la posizione di 113 indagati nell'inchiesta viene, appunto, archiviata perché il reato al centro di tutte le indagini, l’associazione di stampo mafioso regolata dall’articolo 416 bis, non sussiste. L'ex sindaco Gianni Alemanno, scagionato. L'ex amministratore delegato di Eur S.p.A, Riccardo Mancini, scagionato. E scagionati anche gli avvocati Michelangelo Curti, Domenico Leto e Pierpaolo Dell'Anno. Idem per il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti e il suo ex capo di gabinetto Maurizio Venafro. Disposta in camera di consiglio la restituzione degli atti al pubblico ministero di Salvatore Forlenza, Salvatore Buzzi, Carminati e Giovanni Fiscon, all'epoca direttore generale della municipalizzata, dell’ex presidente della commissione Bilancio del comune, Alfredo Ferrari e dell’ex consigliere comunale della lista civica “Marino sindaco” Luca Giansanti. L'elenco è lungo, i nomi si sprecano. Le accuse, no. Il blitz era partito nel 2014 con gli arresti delle prime 37 persone. Un vero e proprio terremoto nella vita istituzionale della Capitale che da quel momento era diventata mafiosa. Il primo ad essere bloccato infatti nell'operazione "Mondo di mezzo" era stato il già citato capo del Clan, Massimo Carminati, ex Nar ed ex appartenente alla Banda della Magliana, sotto processo per il 416bis, e ora invece scagionato dalla contestazione di associazione per delinquere finalizzata a rapine e riciclaggio (come per Ernesto Diotallevi e Giovanni De Carlo, che erano sospettati di essere a Roma i referenti di Cosa Nostra, oggi salvi). Con Carminati all'epoca erano finiti in manette anche ex amministratori locali, manager di municipalizzate e imprenditori per associazione a delinquere di stampo mafioso. Tra quei nomi c'era anche quello di Gianni Alemanno. In particolare per l'ex sindaco di Roma le accuse erano più di una: corruzione e illecito finanziamento. Ma nei suoi confronti dell'ex sindaco i pm contestavano anche il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso, appunto, e quello di aver ricevuto somme di danaro per il compimento di atti contrari ai doveri del suo ufficio, attraverso la fondazione Nuova Italia di cui era presidente. In ballo, 125 mila euro per i fondi illeciti ricevuti tra il 2012 ed il 2014. Alemanno poi avrebbe preso anche 75 mila euro camuffati da finanziamento per cene elettorali, 40 mila euro che gli sarebbero stati erogati per la Nuova Italia, più altri 10 euro ma senza una causale. Ma, se di mafia non si può più parlare, per lui restano ancora in piedi le accuse per corruzione e finanziamento illecito, l'altro filone di indagine per cui andrà a processo a maggio prossimo. Il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, era saltato fuori invece come indagato per sospetto concorso in corruzione per due episodi risalenti 2011 e nel 2013 e per turbativa d'asta a causa delle dichiarazioni di Salvatore Buzzi, fondatore della cooperativa di ex carcerati “29 Giugno” a capo anche lui di un’organizzazione di tipo mafioso. Principale imputato nell'inchiesta, Buzzi avrebbe raccontato alla magistratura ciò che c'era dietro il nuovo palazzo della Provincia dell'Eur, ossia che l'amministratore Zingaretti avrebbe acquistato prima della sua costruzione. In archivio alcune accuse anche per Maurizio Venafro, indagato per corruzione, la ex presidente del primo municipio della capitale, Sabrina Alfonsi, indagata per concorso in corruzione, l'ex consigliere comunale della lista Marchini, Alessandro Onorato, anche lui indagato per concorso in corruzione, il presidente del Consiglio regionale Daniele Leodori, per turbativa d'asta, e per l'ex delegato allo sport della Giunta Alemanno Alessandro Cochi. Nell'elenco dei prosciolti figurano anche i nomi degli imprenditori Luca Parnasi, Luigi Ciavardini, Fabrizio Pollak e Gianluca Ius, e poi Leonardo Diotallevi, figlio di Ernesto, l'allora capo della segreteria personale di Alemanno Antonio Lucarelli e l'ex consigliere di Roma Multiservizi Stefano Andrini. Resta accusato di mafia invece il consigliere regionale di Forza Italia, Luca Gramazio che il gip Flavia Costantini, nell'ordinanza che ha portato al suo arresto nel 2015 sosteneva: "Mette al servizio dell'organizzazione le sue qualità istituzionali, svolge una funzione di collegamento tra l'organizzazione la politica e le istituzioni, elabora, insieme a Testa, Buzzi e Carminati, le strategie di penetrazione della Pubblica Amministrazione, interviene, direttamente e indirettamente nei diversi settori della Pubblica Amministrazione di interesse dell’associazione". Niente mafia insomma, o quasi. Perché, come scrive Andrea Feltri su La Stampa, la Piovra che ha stritolato Roma è solo un moscardino.
L'insano sollievo. L'editoriale di Mario Calabresi del 21 luglio 2017 su “La Repubblica". La sentenza sul processo Mafia Capitale porta a 250 anni di condanne ma i giudici hanno bocciato l'aggravante sull'associazione mafiosa. Quando la politica di una città, di fronte a condanne per 250 anni di carcere, festeggia ci sarebbe da essere contenti. Ma se si ascolta meglio e si scopre che non si festeggia perché giustizia è stata fatta bensì perché i criminali che dominavano la scena sono riconosciuti delinquenti però non mafiosi, allora c’è davvero da avere paura. Quando ci si sente sollevati perché i Palazzi erano infiltrati fino al midollo da un’associazione criminale che non può essere definita mafiosa, allora si è perduti. Amare Roma significa fare pulizia, non continuare a nascondere la spazzatura della corruzione, del malaffare e della criminalità organizzata dietro una rivendicazione d’orgoglio posticcio. Significa fare i conti davvero e fino in fondo con una città che è diventata capitale dello spaccio di cocaina, in cui il crimine controlla gangli economici vitali. Le sentenze si rispettano ma la sensazione di sollievo che si è diffusa ieri sembra portare le lancette del tempo molto indietro, a quegli anni in cui si negava la ‘ndrangheta in Piemonte o in Emilia, in cui si scuoteva la testa indignati all’idea che i clan stessero conquistando tutto l’hinterland milanese. E sappiamo quali danni abbiano fatto decenni di sottovalutazione politica dei fenomeni mafiosi. Ora a Roma si stabilisce che è la geografia a definire i fenomeni e non i fenomeni a riscrivere la geografia. La mafia è tornata ad essere cosa siciliana, nessuno si permetta più di immaginare che sopra il Garigliano nuovi clan autoctoni possano utilizzare modalità che sono proprie delle associazioni di stampo mafioso. Possiamo andare a dormire tranquilli, magari dopo aver fatto un brindisi. Ma chiudete bene la porta e assicuratevi che i ragazzi siano in casa.
Mafia Capitale da oggi è Mazzetta Capitale: la sconfitta della Procura e l’esultanza dei condannati. La sentenza di primo grado stabilisce che non si è trattato di associazione mafiosa, ma di associazione «semplice». Resta da capire, e dovranno spiegarlo le motivazioni, l’apporto dell’ex estremista nero Carminati al sistema corruttivo del rosso Buzzi, scrive Giovanni Bianconi il 20 luglio 2017 su "Il Corriere della Sera". Non era un’associazione mafiosa, bensì un’associazione per delinquere «semplice». Anzi, due: una più piccola, quella del benzinaio di corso Francia, dedita per lo più alle estorsioni; l’altra più grande e strutturata, messa in piedi per corrompere la pubblica amministrazione. Entrambe incarnate da Massimo Carminati, l’ex estremista nero divenuto criminale comune di peso ma non un boss, evidentemente. Non più Mafia Capitale, insomma, ma Mazzetta capitale. Un sistema nel quale più dell’assoggettamento e dell’intimidazione imposta dalla caratura del bandito con un occhio solo ha inciso la compravendita dei politici esercitata da Salvatore Buzzi, il capo delle cooperative sociali. Un «mondo di mezzo» diverso da quello disegnato dall’accusa, che aveva sommato la «riserva di violenza» garantita dagli ex picchiatori degli anni Settanta divenuti malavitosi di strada alla corruzione praticata sistematicamente da imprenditori spregiudicati; la prima metà del sodalizio è caduta, lasciando in piedi la seconda che rientra in un contesto molto più «normale», accettabile e digeribile da una città come Roma. È il motivo per cui gli imputati esultano, insieme ai loro avvocati, a dispetto di pene molto severe inflitte dalla X sezione del Tribunale di Roma: vent’anni di carcere per Carminati, 19 per Buzzi e a scendere quasi tutti gli altri (solo 5 dei 46 accusati sono stati assolti), con una scala di responsabilità che dal punto di vista dei ruoli attribuiti ai singoli personaggi sembra seguire l’impostazione dei pubblici ministeri. Ma la vera posta in gioco era un’altra: la scommessa di una nuova associazione mafiosa, originale e originaria, autoctona e autonoma, diversa da tutte le altre contestate finora, che da oggi non è più nemmeno presunta. Semplicemente non c’è, perché così hanno deciso i giudici del Tribunale, dopo che altri giudici l’avevano invece riconosciuta: il gip che ordinò gli arresti a fine 2014, il tribunale del Riesame che li confermò e persino la Cassazione, che aveva ribadito come non fosse necessario il controllo del territorio né l’esercizio della violenza; bastava la minaccia, anche implicita, e la corruzione del sistema politico che era da considerarsi l’arma principale a disposizione di una nuova mafia. Questo impianto, dopo un anno e mezzo di dibattimento e 250 udienze, non ha retto. Il tribunale composto da tre magistrati ha ritenuto (probabilmente a maggioranza, due contro uno, ma sono solo rumors non verificabili che non tolgono nulla al peso della decisione) che la minaccia insita in una personalità dal passato turbolento come quella di Carminati non fosse sofficiente a configurare neanche quel «metodo mafioso» che ormai da tempo ha superato i confini siciliani o calabresi, dove viene praticato da decenni. Era la sfida della Procura guidata da Giuseppe Pignatone, il magistrato che dopo aver contrastato Cosa nostra e ’ndrangheta ha applicato (insieme ai suoi aggiunti e sostituti, e ai carabinieri del Ros che molto hanno creduto e investito su questa indagine) quel metodo investigativo e quel reato a questo frammento di criminalità romana che ha aggredito la pubblica amministrazione. Sfida persa. Resta da capire, e dovranno spiegarlo le motivazioni della sentenza, quale apporto ha portato l’ex estremista nero all’associazione corruttiva del rosso Buzzi, se non la «riserva di violenza» negata dai giudici. Nell’attesa, ci si dividerà tra l’esultanza di chi ha sempre definito tutta questa costruzione nient’altro che una fiction a vantaggio di qualche carriera, una «mafia all’amatriciana» inventata a tavolino per i motivi più disparati, e il rammarico di chi dirà che Roma sconta un ritardo culturale nella lotta al crimine e ha perso un’occasione storica per impedire che tutto prima o poi si annacqui, finisca sotto la sabbia o si perda nelle nebbie mai completamente diradate. Divisioni inevitabili di fronte a un’accusa tanto clamorosa quanto inedita, che ha tenuto banco per quasi tre anni e ha avuto indiscutibili ricadute politiche. Finendo per travolgere le due precedenti giunte comunali e mettendo qualche premessa per l’avvento di quella nuova (non a caso ieri la sindaca Raggi s’è presentata in aula per assistere personalmente all’ultimo atto). Ma è evaporata in meno di un’ora, il tempo necessario a leggere il dispositivo della decisione; polemiche e letture contrapposte sono garantite. Tuttavia al di là della sconfitta subita dai pubblici ministeri — parziale e non definitiva, ché le condanne ci sono comunque state e per il resto ci saranno gli altri gradi di giudizio — restano l’importanza e il peso di un’inchiesta e di un verdetto che hanno scoperchiato il grande malaffare di Roma. Con pene molto pesanti che, se da un lato aumentano il valore per l’assoluzione dall’accusa di mafia, dall’altro hanno il sapore del contrappeso confermando la gravità di quanto scoperto: dai 10 anni di carcere inflitti a uno dei principali collaboratori dell’ex sindaco Alemanno (a sua volta imputato per corruzione in un processo parallelo) ai 10 per l’ex presidente del Consiglio comunale con la giunta Marino. Sintomo di un’infiltrazione criminale, seppure non mafiosa, che non aveva confini politici e ha condizionato l’amministrazione della Capitale d’Italia.
Cari giudici di Mafia capitale, è l’ora di rileggere Sciascia, scrive Tommaso Cerno venerdì 21 luglio 2017 su "L'Espresso". «Forse tutta l’Italia va diventando Sicilia… E sale come l’ago di mercurio di un termometro, questa linea della palma, del caffè forte, degli scandali: su su per l’Italia, ed è già, oltre Roma… ». Abbiamo risentito la frase italiana per eccellenza: la mafia non esiste. Quella dei tempi d’oro. Quando la politica mangiava con loro e i giornalisti venivano ammazzati. Lo dicono ridacchiando mentre uno ‘Stato cecato’ ha inflitto oltre 280 anni di carcere a un’organizzazione criminale guidata da er Cecato vero, Massimo Carminati. Con una sentenza che ripulisce Roma dal lordume. Fra le risatine di avvocati entusiasti per avere mandato in galera i loro assistiti. Ridono perché questa è una sentenza pesante, ma che mostra una visione vecchia della mafia. E fa sembrare loro dei giuristi. Mentre ripetono quello che i mafiosi dicono dal carcere: la mafia non c’è. Un limite culturale dello Stato. Pur con sostanziali passi avanti rispetto agli anni delle assoluzioni choc, degli indulti a comando. Diciamo che qualcuno dovrebbe rileggersi Leonardo Sciascia. Se si ricorda chi sia. Denunciava già nel 1961 questa tendenza italica, quella di non sapere o volere adattare alla modernità la criminalità organizzata che cambia metodi e modi con maggiore velocità rispetto al codice penale: «Forse tutta l’Italia va diventando Sicilia… E sale come l’ago di mercurio di un termometro, questa linea della palma, del caffè forte, degli scandali: su su per l’Italia, ed è già, oltre Roma… ». A distanza di mezzo secolo da questa profezia, il tribunale infligge pene severissime ai criminali che avevano messo le mani su Roma, ma non cancella la parola “Forse” dalla più celebre citazione de “Il Giorno della Civetta”. E la mafia certamente ha ascoltato dalle sue lorde tane e dalle sue latitanze. Perché può stare certa che in un Paese come il nostro, invischiato in decine di scandali e omicidi, attovagliato spesso con loschi figuri, affermare in nome del popolo italiano che non solo non siamo riusciti a sconfiggere le mafie storiche, ma siamo stati capaci di farne crescere una nuova, nel cuore di Roma, già graziata ai tempi della Banda della Magliana, è roba troppo grossa per il nostro Stato. Lo sappiamo da anni. Una cosa buona c’è. L’organizzazione criminale di er Cecato, di quel Massimo Carminati, ex terrorista nero, viene smantellata da una condanna pesantissima. È un passo avanti. Ma non basta. L’organizzazione messa sotto i riflettori dall’Espresso nel 2012, quando Roma faceva finta di non conoscere quel signore che se ne stava seduto in un distributore di benzina facendo piedino a un pezzo di politica di tutti i colori, con lo stesso sguardo immobile che tenne durante il processo Pecorelli al fianco di Andreotti, va dietro le sbarre. Va detta una cosa: in Italia erano in molti a volersi levare di torno Carminati, come è stato, ma a non voler scoperchiare il marcio che nasconde quel suo mondo di mezzo. Sembra che la giustizia vada avanti, però a piccoli passi. Stavolta le pene ci sono, ma c’è pure l’ennesimo rinvio della grande questione che tiene impalata l’Italia. Siamo in grado di capire che la mafia non porta più la coppola, non usa i pizzini né carica la lupara? Non è facile. Per questo dico senza paura che questa condanna non è il migliore regalo di Stato alla memoria di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino nell’anniversario delle stragi. E ci costringe a rileggere parole che risuonano come una oscura profezia, anche se stentano a prendere vita dentro un’aula di giustizia. La mafia non è un demone, è normalità. Non è sangue, è aria che respiriamo: «Una associazione per delinquere, con fini di illecito arricchimento per i propri associati, e che si pone come elemento di mediazione tra la proprietà e il lavoro; mediazione, si capisce, parassitaria e imposta con mezzi di violenza». Lo scrisse Sciascia, appunto, nel 1957. Quando quei giudici erano bambini o nemmeno erano nati. Lo scrisse in nome suo. Incurante di loro. Prima o poi lo riscriveranno anche i giudici in una sentenza. In nome del popolo italiano. Quello che può vincere contro gli uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraqua. «Forse tutta l’Italia va diventando Sicilia… A me è venuta una fantasia, leggendo sul giornale gli scandali di quel governo regionale: gli scienziati dicono che la linea della palma, cioè il clima che è propizio alla vegetazione della palma, viene su, verso il nord, di cinquecento metri, mi pare, ogni anno... La linea della palma... Io invece dico: la linea del caffè ristretto, del caffè concentrato... E sale come l’ago di mercurio di un termometro, questa linea della palma, del caffè forte, degli scandali: su su per l’Italia, ed è già, oltre Roma». Leonardo Sciascia, Il giorno della civetta, 1961
Non era Mafia Capitale (e qualcuno osò dirlo). Dure condanne ma nessuna conferma del 416 bis. Già nel 2015 Panorama aveva sollevato dubbi sulla coerenza giuridica dell'associazione mafiosa, scrive Maurizio Tortorella il 20 luglio 2017 su Panorama. Fin dal gennaio 2015, quando ormai da un mese in tutte cronache giudiziarie aveva fatto la sua comparsa quel nome impegnativo e sinistro, “Mafia Capitale”, Panorama aveva mostrato qualche perplessità tecnica sulla coerenza giuridica della principale accusa rivolta contro una sequela d’indagati e arrestati nell’inchiesta romana su corruzione e appalti pubblici. Oggi il processo si è concluso in primo grado con dure condanne, ma senza che la decima corte penale del Tribunale confermasse l’accusa del 416 bis, per nessuno dei 19 imputati (su un totale di 46) che la Procura romana aveva individuato come facenti parte di un’organizzazione criminale di stampo mafioso.
Quindi non è mafioso il neofascista Massimo Carminati, che pure è stato condannato a 20 anni di reclusione, e non lo è nemmeno Salvatore Buzzi, l’ex ergastolano per omicidio, poi redentosi e divenuto alfiere di alcune cooperative sociali (rosse) che a Roma e circondario facevano affari d’oro con gli immigrati (19 anni di carcere). Tra i condannati, sebbene anch’egli assolto dall'imputazione di mafia, compare anche Luca Odevaine, già capo di segreteria del sindaco Walter Veltroni e poi divenuto responsabile del “tavolo per i migranti”: 6 anni e 6 mesi di reclusione. Adesso, come sempre in questi casi, dovremo aspettare le motivazioni della sentenza per capire dove e perché gli inquirenti hanno sbagliato, o esagerato prospettando una specie di "416 bis alla romana". Certo, oggi tornano alla mente le parole del difensore di uno dei condannati, il consigliere regionale del Pdl Luca Gramazio (11 anni); intervistato da Panorama nell’ottobre 2015, l’avvocato Giuseppe Valentino aveva negato tutte le accuse, ma sull’associazione mafiosa si era inalberato con forza particolare: “Che mafia è quella che non usa le pistole ma il denaro per persuadere e corrompere? Qui c’è tutt’al più un sottobosco romano, un autentico suk, dove pullulano chiacchieroni e millantatori”. È evidente che l'avvocato Valentino almeno su quel punto aveva ragione: di certo, Cosa nostra, la 'ndrangheta e la camorra napoletana, cioè le associazioni mafiose che tutti noi purtroppo conosciamo, usano mezzi intimidatori molto più violenti di quelli utilizzati dagli imputati di Mafia Capitale. Ma oggi, dopo l'assoluzione da quell'accusa, tornano alla mente anche i fischi con i quali alcuni giornali-bandiera del populismo giudiziario avevano accolto quanti (su Panorama, ma anche sul Foglio o sul settimanale Tempi) a suo tempo mostravano perplessità per l’ipotesi “mafia a Roma”. Contro chi aveva osato scrivere che “l’associazione criminale che gravitava attorno a Salvatore Buzzi e a Massimo Carminati non può essere neppure lontanamente paragonata alla mafia. Non ci sono le pistole, l’omertà, l’organizzazione verticistica, il vincolo associativo…”. Nessuna polemica. Leggeremo le motivazioni. Solo il tempo di ricordare che in un altro primo grado, il 3 novembre 2015, c’era stata una sentenza anticipata, pronunciata in uno stralcio di processo per un imputato minore della grande inchiesta Mafia Capitale: Emilio Gammuto, accusato dalla Procura di Roma di corruzione e di associazione mafiosa, era stato condannato a 5 anni e 4 mesi di reclusione per entrambi i reati. In quel caso, i giornali-bandiera di cui sopra avevano brindato alla condanna, sbeffeggiando i garantisti d'accatto che si ostinavano a non vedere quanta mafia ci fosse nell'inchiesta. Gammuto era stato processato in anticipo rispetto al gruppone dei suoi colleghi imputati perché aveva scelto la formula del procedimento abbreviato. E la sua condanna (arrivata quasi un anno dopo l’emersione dell’inchiesta) era parsa confermare in pieno l’impianto accusatorio. Invece, lo scorso gennaio, in Corte d’appello Gammuto era stato assolto dal 416 bis. Si vedrà per tutti in Cassazione. Si vedrà anche se domattina, su certi giornali-bandiera, la sentenza della decima sezione penale di Roma verrà "rispettata e non criticata": sarebbe una delle auree (ed eccessive) leggi del populismo giudiziario. Ma si sa come finiscono certe cose...
L'eroe della sesta giornata. Mafia capitale e quegli esponenti del Pd rimasti immobili di fronte a anni di malaffare, scrive Giorgio Mulè il 12 dicembre 2014 su Panorama. Non ho letto tutti i documenti giudiziari a sostegno dell’operazione Mafia capitale. Ne ho letti a sufficienza, però, per farmi un’idea piuttosto circostanziata della vicenda. Dirò subito che, avendo compulsato decine di ordinanze di custodia cautelare su Cosa nostra, mi lascia molto perplesso l’attribuzione del marchio di mafia ai soggetti arrestati o indagati. Ci sono alcune vicende che fanno a cazzotti con la pretesa di avere a che fare con un’organizzazione sovrapponibile a Cosa nostra o che si vorrebbe pericolosa tanto quanto gli efferati delinquenti siciliani: a Roma, secondo quanto contestato nei capi di imputazione, ci sono presunti boss che si agitano per recuperare due assegni scoperti da 300 e 600 euro, addirittura colui che si vorrebbe come braccio destro di Massimo Carminati mette su un putiferio per far saldare un debito da 670 euro. Ora, va bene che c’è la crisi e siamo disposti a credere che il quartier generale di Mafia capitale sia presso un benzinaio, però c’è anche un minimo di dignità criminale da salvaguardare se bisogna dar retta alle stime che indicano in oltre 10 miliardi il fatturato di Mafia spa: insomma, Leoluca Bagarella (braccio destro di Totò Riina) non rischiava di finire in galera e sputtanare la "famiglia" per 670 euro, suvvia. L’avrebbero ucciso i suoi stessi compari per questa leggerezza. Transeat, i tempi cambiano e magari sono io a dovermi aggiornare. C’è però un punto del ragionamento degli inquirenti che mi appare così debole da non poter credere che abbia avuto l’avallo di una toga espertissima come il procuratore Giuseppe Pignatone. I magistrati sostengono infatti che Mafia capitale sia una sorta di gemmazione della Banda della Magliana, la stessa finita al cinema e in televisione con la superba trasposizione di Romanzo criminale. Ma stabilire in un atto giudiziario alla base di decine di arresti un nesso diretto tra lo share e la realtà significa conferire alla fiction carattere di verità oggettiva, il che a mio giudizio è una follia oltre che un pericolosissimo vulnus in sede di valutazione degli indizi da parte dei giudici. Eccoci a pagina 33 dell’ordinanza di custodia cautelare: "Il collegamento con la Banda della Magliana è, infatti, solo uno degli elementi su cui si fonda la forza di intimidazione della organizzazione che ci occupa (Mafia capitale, ndr), che si avvale di quella derivazione come strumento di rafforzamento della caratura e della immagine criminale dei suoi associati, sfruttando anche il 'successo mediatico' di quella organizzazione, successo che ne ha indubitabilmente sancito, almeno nell’immaginario collettivo (che però è ciò che conta in questo tipo di delitti), il carattere di mafiosità". Dopo aver letto questo ragionamento, per assurdo, un pubblico ministero particolarmente su di giri potrebbe perfino formulare un’ipotesi di reato di concorso esterno in associazione mafiosa nei confronti di sceneggiatori, registi e attori di Romanzo criminale che con la loro opera avrebbero dato un contributo occasionale a questa Cosa nostra all’amatriciana. Sopportata questa dissertazione giuridica, è il caso di fare altre considerazioni intorno alla vicenda. I reati contestati, i soggetti coinvolti e le dimissioni a catena seguite all’esplosione degli arresti all’interno della giunta di Roma imporrebbero un atto unilaterale di dignità politica da parte del sindaco Ignazio Marino: le dimissioni. Perché è questa l’unica strada percorribile rispetto all’ipotesi accusatoria (difficile da smontare in quanto a ruberie e deviazioni finanziarie) secondo la quale Carminati & c. facevano il bello e il cattivo tempo all’interno del Comune di Roma contando perfino sull’asservimento del funzionario che il sindaco aveva voluto come cerniera con il commissario Anticorruzione. Intendiamoci, sarebbe possibile anche uno scioglimento d’autorità da parte del ministero dell’Interno. A scorrere i decreti che dal Piemonte alla Sicilia hanno portato in un recentissimo passato a spazzare via giunte e consigli comunali senza tenere minimamente conto della presunzione di innocenza, non si comprende in verità come e perché Roma dovrebbe godere di un regime specialissimo di valutazione degli indizi. In realtà lo sappiamo perfettamente ed è questione squisitamente politica. Di opportunismo politico, meglio. Come potrebbe mai il Pd di Matteo Renzi accettare questo schiaffo planetario? Siamo alle comiche, ne converrete: c’è un sindaco che fino al momento della grande retata era bollato (giustamente) come inadeguato dai massimi dirigenti del suo partito, il Partito democratico, al punto da essere stato commissariato su due piedi. Scoppiata la bufera, pur di tenerlo in vita e non andare a elezioni, lo stesso Pd ha la faccia tosta di commissariare il commissario con un nuovo commissario. Inarrivabili. D’altronde ci tocca vivere il tempo degli eroi della sesta giornata, quello in cui – ricordate le Cinque giornate di Milano? – gli opportunisti mostrano il petto accaparrandosi meriti che non hanno. Come Marino, appunto. E come Renzi, il quale, pur di non prendere atto del fallimento di un partito che non ha saputo rifondare dal Veneto alla Sicilia, butta la palla altrove. Sarà allora arrivato il momento, dopo aver letto le malefatte contestate a Roma al cooperatore Salvatore Buzzi così coccolato dall’ex capo della Lega delle cooperative e attuale ministro del Lavoro Giuliano Poletti, di accendere un faro in tutta Italia sul business della misericordia sociale. E cioè su questo enorme calderone in cui – nel nome di un fine nobile come l’accoglienza degli immigrati, l’assistenza dei nomadi o il reinserimento dei detenuti – le coop la fanno da padroni. Si verifichino le convenzioni, le procedure di appalto, i contributi elargiti alle feste di partito e a manifestazioni di "impegno sociale". Il Pd si è dimostrato incapace di fare pulizia al suo interno nonostante sei mesi fa Renzi avesse invitato i suoi a denunciare il malaffare, a "salire i gradini dei palazzi di giustizia". La verità e che in quei palazzi molti esponenti del Pd i gradini li salgono, ma solo dopo che il malaffare è stato scoperto. E spesso per rispondere ad accuse gravissime. Infamanti, direi. Non solo per un partito, ma per una intera classe politica.
Mafia Capitale non esiste: e questa è la condanna senza appello per la politica romana. E così scopriamo che la politica romana è stata messa sotto scacco non dalla versione romana del Padrino, ma da una banale associazione di trafficoni. Serviva la procura per fermarli? O bastavano occhi aperti e un po’ di coraggio? Ci fossero stati, forse Roma non sarebbe nello stato in cui è ora, scrive Flavia Perina il 21 Luglio 2017 su "L'Inkiesta". Approfitta dei tassi più bassi dell'estate. Tuffati nell'offerta speciale che celebra i 40 anni di Mercedes-Benz Financial: TAN fisso di 0,90% o 1,90%, TAEG variabile a seconda del modello e un anno di RC Auto incluso.... Adesso lo sappiamo per sentenza: era Febbre da Cavallo, non il Padrino. E così, il verdetto di primo grado al processo di Mafia Capitale (che d'ora in poi converrà chiamare Non-Mafia Capitale) ha tra i suoi primi effetti collaterali la necessità di riconsiderare il rapporto tra la città di Roma, i principali partiti cittadini e le bande affaristiche che si muovevano (si muovono?) negli uffici capitolini. Qualificare queste bande come “mafia” ha salvato, in qualche modo, tutti quelli che a vario titolo si sono distratti davanti ai traffici di Salvatore Buzzi e Massimo Carminati. La mafia è cattivissima, la mafia uccide, contro la mafia fior fiore di classi dirigenti si sono squagliate perché nessuno è tenuto ad essere eroe: naturale che alti dirigenti, signori delle tessere, persino sindaci, a Roma come in passato a Palermo, si siano girati dall'altra parte e abbiano fatto finta di non vedere per non trovarsi – chissà – un Luca Brasi alla porta. Ma se non era mafia, se erano solo Mandrake, Er Pomata e Manzotin, il discorso cambia. Ed è molto più difficile spiegare perché ci siano voluti i magistrati per levare di mezzo questa ordinaria, banale associazione di trafficoni, provocando il terremoto che sappiamo. Non erano così spaventosi e minacciosi, quelli di Non-Mafia Capitale. E nemmeno così ricchi da potersi permettere le famose offerte “che non si possono rifiutare”. Mettendo insieme gli appalti del consorzio di Cooperative della “29 Giugno” (98 milioni in dieci anni, tra il 2003 e il 2013) con i bonifici effettuati e le intercettazioni si è arrivati a un valore di corruzione pari più o meno a 500 mila euro. Per un solo filone degli scandali milanesi di Expo, l'imprenditore vicentino Enrico Maltauro ha denunciato la richiesta di un milione e duecentomila euro di mazzette (poi ne versò 600mila). Per il Mose veneziano, secondo l'accusa, alcuni dirigenti del Consorzio Nuova Venezia, assegnatario esclusivo dell'appalto da 5,5 miliardi, avrebbero pagato in tangenti la colossale cifra di 22 milioni di euro. Insomma, Mandrake, Er Pomata e Manzotin, all'approdo del processo di primo grado, non solo risultano poco temibili ma anche piuttosto modesti nelle loro possibilità corruttive. Mettendo insieme gli appalti del consorzio di Cooperative della “29 Giugno” con i bonifici effettuati e le intercettazioni si è arrivati a un valore di corruzione pari più o meno a 500 mila euro. Per il Mose veneziano, secondo l'accusa, alcuni dirigenti del Consorzio Nuova Venezia, assegnatario esclusivo dell'appalto da 5,5 miliardi, avrebbero pagato in tangenti la colossale cifra di 22 milioni di euro. Ora che il tribunale ci ha restituito nelle giuste proporzioni il ritratto delle bande affaristiche del Comune di Roma, due sono le considerazioni. La prima riguarda la Procura romana che ha perseguito fino in fondo la “pista mafiosa”, e la scansiamo: ne parleranno altri, più esperti in questioni giudiziarie. La secondachiama in causa il sistema politico capitolino, tutto, la destra, la sinistra e pure il M5S, perchè le redini di questa città negli anni d'oro della coppia Buzzi&Carminati le hanno tenute tutti, da posizioni di governo o di opposizione, e col senno di poi è naturale chiedere: ma davvero vi siete fatti mettere nel sacco da questi? Davvero serviva la Procura per fermarne, o quantomeno denunciarne, i modesti traffici? Siete scemi o cosa? La città ha pagato un prezzo altissimo per lo scandalo e tutto ciò che ne è seguito. Il commissariamento del Pd, la fuga di molti suoi militanti disgustati, e dall'altra parte lo sputtanamento della destra con un analogo distacco di chi ci aveva creduto, il suo declino elettorale, l'eclissi politica di uno come Gianni Alemanno, che pure in città contava qualcosa. E poi, i nove mesi di calvario di Ignazio Marino, i cui uffici furono devastati dall'indagine e dagli arresti. L'imbarbarimento del confronto politico in città, la revoca della fiducia al sindaco da parte della sua maggioranza, il caos che ne è seguito con la parallela e inarrestabile ascesa del Movimento Cinque Stelle, che ha potuto proporsi come unica forza di moralizzazione in una Capitale che a un certo punto sembrava la Palermo di Ciancimino, o la Miami di Scarface. Non era vero. Era la solita Roma di sempre. La Roma dei «politici pezzenti», come Vittorio Sbardella chiamava i sottopanza che si sporcavano direttamente le mani con gli affari. La Roma del «Fra' che te serve», nella geniale sintesi di Franco Evangelisti, che pre-esiste a qualsiasi formula di governo cittadino e che è stata il sottotesto inespresso di ogni amministrazione. La solita Roma nella sua versione più basic, più elementare, la «mafia del benzinaro» come ha detto Massimo Carminati in aula, con il modesto potere di scambio di qualche spiccio per la campagna elettorale, di qualche centinaia di tessere comprate per vincere un congresso. Che la destra e la sinistra capitoline non siano riusciti a fermare neanche questi modesti delinquenti, a liberarsene, a tenerli nella regola in qualche modo, fa cadere le braccia. Per molti versi, sarebbe stato più consolatorio immaginarle distrutte da Don Vito Corleone piuttosto che da Er Pomata.
«Sì, li condanniamo, però non era mafia», scrive Simona Musco il 21 luglio 2017 su "Il Dubbio". L’ex sindaco Marino attacca: “Senza Mafia capitale e l’inchiesta sugli scontrini io sarei ancora in Campidoglio”. Ma Orfini: “Lo dico da romano innamorato della mia città: a Roma la mafia c’è. Ed è forte e radicata”.
IL PROCESSO. Non c’era mafia a Roma, ma solo due associazioni a delinquere che si sono presi la città con corruzione e malaffare. Il processo “Mafia Capitale” dunque regge a metà: 41 le condanne e cinque le assoluzioni, ma con l’esclusione del metodo mafioso, quello che ha dato il nome all’intero processo. Il calcolo finale delle pene dimezza così il complessivo chiesto in aula dai magistrati. Quelle più alte sono andate ai due protagonisti dell’inchiesta: Massimo Carminati, l’ex Nar, condannato a 20 anni, contro i 28 chiesti dall’accusa, e Salvatore Buzzi, il ras delle cooperative, condannato a 19 anni a fronte dei 26 richiesti. L’ex vicepresidente della sua cooperativa, la “29 giugno”, Carlo Guaray, per il quale avevano chiesto 19 anni, è stato condannato a cinque. Il X collegio penale presieduto da Rossana Ianniello ha iniziato a leggere la sentenza alle 13, dentro un’aula bunker stracolma di giornalisti, dopo una camera di consiglio durata 4 ore. In aula anche i parenti degli imputati, assiepati dietro la ringhiera. Il grande assente, poi definito dai legali lo «sconfitto», è stato il procuratore capo Giuseppe Pignatone. A presidiare l’aula c’erano i tre pm che hanno condotto le 240 udienze, Paolo Ielo, Luca Tescaroli e Giuseppe Cascini. Dieci minuti prima della lettura della sentenza è toccato agli imputati fare l’ingresso in aula, sistemati nei gabbiotti numerati dall’ 1 al 4. Alcuni sono rimasti seduti, altri appesi alle sbarre con lo sguardo fisso sull’altare di legno dal quale poco dopo sono spuntati i giudici. Non è un mafioso, dunque, Massimo Carminati, ma un «delinquente abituale». Per lui, a pena espiata, il tribunale ha stabilito l’affidamento ad una colonia agricola o ad una casa di lavoro per almeno due anni. Nel frattempo gli sono stati confiscati i beni: dai gemelli d’oro custoditi in casa, alle opere d’arte, ma soprattutto le armi, una katana, due machete e un’accetta. Le condanne sono arrivate anche per i politici coinvolti: sei anni – due in più rispetto alla richiesta – per Mirko Coratti (Pd), ex presidente del consiglio comunale di Roma ed esponente; 11 anni per Luca Gramazio, ex consigliere regionale Pdl; 10 anni a Franco Panzironi, ex ad dell’Ama, otto per Luca Odevaine, ex componente del Tavolo di coordinamento nazionale sui migranti del Viminale; cinque ad Andrea Tassone (Pd), ex presidente del municipio di Ostia. Assolti, invece, Giovanni Fiscon, ex sindaco di Castelnuovo di Porto, Fabio Stefoni, Giuseppe Mogliani, Salvatore Ruggiero e Rocco Rotolo. «La mafia a Roma non esiste», ha sentenziato il legale di Carminati, Bruno Giosuè Naso. «C’è stata una severità assurda: non si è mai visto che su 46 imputati nemmeno uno meriti le circostanze attenuanti generiche. Sono quindi delle pene date per compensare lo schiaffo morale che è stato rivolto alla Procura – ha affermato – Non so se questo processo ha dei vincitori, ma certamente ha uno sconfitto: Pignatone. Su questo non ci sono dubbi». E la sconfitta, in parte, l’ha ammessa anche l’aggiunto Ielo. «È una sentenza che in parte ci dà torto, per quanto riguarda la qualificazione giuridica, ed in parte riconosce la bontà del nostro lavoro – ha detto – La sentenza riconosce l’esistenza di un’associazione a delinquere semplice ed aggravata. È stato un fenomeno di criminalità organizzata ma non di tipo mafioso. Sono state riconosciute due distinte organizzazioni criminali che non avevano però il carattere della mafiosità. Ma la dinamica della delusione non appartiene a chi fa il mio mestiere». L’ex Nar ha seguito tutto da lontano, in videoconferenza. «Era convinto che sarebbe andata male. Temeva che tutte le pressioni mediatiche avrebbero portato a un responso negativo per lui. Mi ha anche detto che adesso lo devo togliere dal 41 bis, questo è il suo primo pensiero e la sua prima preoccupazione», ha spiegato l’avvocato Ippolita Naso al termine del colloquio telefonico con Carminati. Più soddisfatto, invece, Buzzi. «Ora quando esco? questo il suo primo commento Mi auguro che alla luce di questa decisione la mia permanenza in carcere stia per finire». La sentenza ha certificato l’esistenza di un grande sistema corruttivo ma nulla a che vedere con la pesantezza delle accuse mosse dalla Procura. Una «mafia costruita» secondo Alessandro Diddi, legale di Buzzi. «Credo che oggi Buzzi sia stato creduto perchè altrimenti certe condanne che si basano esclusivamente sulle sue dichiarazioni il Tribunale non le avrebbe potute fare. Per questo motivo credo che la Procura debba rifare da capo il processo al “mondo di mezzo”. Abbiamo dato una grande lezione alla Procura che ha investito tutto sul 416 bis impedendo di accertare le corruzioni in questa città».
LE REAZIONI.
MARINO – “Senza Mafia capitale e l’inchiesta sugli scontrini io sarei ancora in Campidoglio”. Lo dice l’ex primo cittadino di Roma, Ignazio Marino in un’intervista alla Stampa. “Contro di me – spiega – ci fu una convergenza opaca di interessi. Non so se qualcuno abbia voluto o tentato di condizionare la magistratura. Ma so che i giudici non sono condizionabili”. Marino quindi si lascia andare a un giudizio ultimativo sul Pd: “Soffro per l’agonia a cui è sottoposto il partito che ho contribuito a fondare. Oggi mi sembra difficile dire che il Pd renziano esista ancora”.
ORFINI – “Possiamo reagire in tanti modi alla sentenza di ieri, tutti ovviamente comprensibili e legittimi. Ma il più sbagliato è quello forse più diffuso in queste ore: sostenere che si dovrebbe chiedere scusa a Roma perchè Roma non è una città mafiosa. Lo dico da romano innamorato della mia città: a Roma la mafia c’è. Ed è forte e radicata”. A scriverlo in un articolo pubblicato sul sito della rivista Left Wing è Matteo Orfini, presidente del Pd. “Basta fare una passeggiata in centro e contare i ristoranti sequestrati perchè controllati dalla mafia. Basta passeggiare nei tanti quartieri in cui le piazze di spaccio sono gestite professionalmente, con tanto di vedette sui tetti e controllo militare del territorio. Basta spingersi a Ostia e seguire le attività degli Spada, o andare dall’altra parte della città dove regnano i Casamonica. Basta leggere le cronache per trovare la mafia ovunque”, aggiunge. “Ma quella di Carminati non è mafia, dice il processo. Vedremo cosa stabiliranno i prossimi gradi di giudizio, ma come scrissi mesi fa, cambia davvero poco. A Roma la mafia c’è e ha dilagato usando la corruzione come grimaldello. Oggi Roma è gestita da più clan che hanno evidentemente trovato un equilibrio tra di loro e si sono spartiti la città. A chi ha iniziato a sgominare questo sistema bisogna solo dire grazie, soprattutto se si pensa che in passato la procura di Roma era nota come il “porto delle nebbie”. Farebbe piacere anche a me – continua Orfini – poter dire che la mafia a Roma non c’è. Ma sarebbe una bugia. Io sono orgoglioso di essere romano. Ed è proprio l’orgoglio che mi fa dire che – di fronte a quello che oggi è diventata Roma – bisogna reagire e combattere, non affidarsi a tesi di comodo. Roma non è stata umiliata da chi indaga. Roma è stata umiliata da chi l’ha soggiogata. E da chi non ha saputo impedirlo. Invertire l’ordine delle responsabilità significa continuare a tenere gli occhi chiusi”, conclude.
RAGGI – “Quello che la sentenza ha comunque accertato è che c’è stato un pesantissimo e intricatissimo sistema che per anni ha tenuto sotto scacco la politica. Questo significa che quando parlo di bandi, di seguire le procedure di legge, vuol dire andare verso un nuovo corso, quello che i cittadini ci hanno chiesto. Io non vedo altra strada se non quella di continuare in questa direzione”. Così la sindaca di Roma Virginia Raggi interpellata a margine di una conferenza stampa torna a commentare la sentenza di ieri sul processo “Mafia Capitale” che pur infliggendo pesantissime condanne per corruzione ha escluso l’associazione mafiosa, mantenendo l’associazione semplice.
Roberto Saviano, dito medio a chi lo insulta, scrive il 22 Luglio 2017 “Libero Quotidiano”. Dito medio agli insulti e un consiglio: "Se vi infastidiscono le mie parole state alla larga da questa pagina. Non sarà insultando che mi ridurrete al silenzio". Così Roberto Saviano in un post su Facebook risponde a chi lo attacca e a chi vuole metterlo a tacere. "Se parlo di Napoli, meglio che stia zitto. Se parlo di infiltrazioni mafiose al Nord, meglio che parli di Napoli. Se parlo di riciclaggio a Londra, meglio che parli di Italia. Se parlo di una parte politica, ma non parli mai degli altri? Più mi invitate al silenzio, più capisco di colpire nel segno, di centrare il bersaglio". E poi c'è chi è convinto che io non capisca ciò che accade perché non vivo più a Napoli, perché non vivo più in Italia. Vivrei, invece, come dice un senatore di Ala, in un attico a Manhattan. Triste constatazione: alla politica si dà ormai credito solo quando diffonde bufale". "Ed ecco quindi un messaggio chiaro e inequivocabile per chi mi insulta - prosegue lo scrittore - mi dispiace, perdete il vostro tempo. Continuerò a studiare, ad analizzare, a mettere insieme tasselli e a farne un racconto comprensibile (soprattutto) per i non addetti ai lavori. Perché è questo il mio obiettivo: condividere ciò che imparo".
Saviano critica se le sentenze non sono le sue, scrive Annalisa Chirico il 22 luglio 2017 su "Il Foglio". Sgombriamo il campo dagli equivoci: il tribunale non dice che Roma è la culla della legalità, che Carminati e Buzzi sono due stinchi di santo; né le toghe ritengono che le soavi minacce al telefono fossero una candid camera per burlarsi dei poliziotti all' ascolto, che mattacchioni. La verità è che le decisioni dei giudici paiono incontestabili quando coincidono con le proprie opinioni e attese, possono essere invece aspramente criticate quando contrastano con il nostro dover essere della giustizia. Se ne faccia una ragione Roberto Saviano il quale replica alla sentenza che ha condannato gli imputati di Mazzetta capitale (Mafia, non scherziamo) annullando l'imputazione dell'associazione mafiosa. Eppure la speculazione a uso e consumo dei mafiologi nostrani prosegue, del resto sulla mitologia mafiosa si costruiscono lucrose carriere. Saviano paragona la Roma, covo di cravattari e corruttori, alla Palermo delle stragi mafiose che trucidarono Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e numerosi altri uomini dello Stato. Ma se tutto è mafia, nulla è mafia. «A Roma la mafia non esiste. Anche a Palermo non esisteva», cinguetta su Twitter lo scrittore napoletano. Come se non bastasse, l'autore di Gomorra, che vive sotto scorta, si spinge fino ad auspicare una modifica della stessa fattispecie criminosa: «È ora di rivedere un reato applicabile solo a gruppi capeggiati da meridionali». Ecco il Saviano legislatore che dà consigli al Parlamento per adattare la legge dello Stato alle sue personali convinzioni, e nel far ciò, senza sprezzo per il ridicolo, egli finge di non sapere, o forse non sa. C' è da sperare che il Saviano pensiero non contempli la retroattività della legge penale, ma soprattutto vorremmo sapere se nei suoi auspici il progetto rivoluzionario comporterebbe pure l'introduzione di una nuova fattispecie: la mafia etnica senza mafiosità. Ponendo la questione in termini di appartenenza geografica, come se i giudici smentissero l'aggravante mafiosa per una pura circostanza di accento siculo o calabrese mancante, Saviano auspica che i nuovi confini del metodo mafioso siano definiti su base linguistica. Sono mafiosi pure i romani doc, brianzoli e venessiani chi lo avrebbe mai detto. Nessuno nega che la ndrangheta si sia radicata saldamente a Roma come a Milano, ma la sconfitta della procura capitolina nasce dalla ostinata volontà, questa sì fallace, di dimostrare l'esistenza di una Cupola all' ombra del Cupolone, retta da er Cecato, vertice di un sistema fondato non su sangue e violenza, intimidazione e sacralità associativa, ma sulla elargizione di mazzette.
Corrotti e mafiosi. Il ladrone di Roma era il Pd, ma i pm chiusero mezzo occhio, scrive Franco Bechis il 21 Luglio 2017 su "Libero Quotidiano". Con la sentenza della decima sezione penale del tribunale di Roma guidata dal giudice Rossana Iannello non solo è stata cancellata nei confronti di molti imputati- a cominciare da Massimo Carminati e Salvatore Buzzi l’accusa di associazione mafiosa, sconfiggendo la tesi principale della procura guidata da Giuseppe Pignatone (che titolò l’inchiesta “Mafia Capitale”). Ma i pm hanno avuto dalla corte anche un’altra correzione sostanziale: avevano chiuso un pizzico di occhio sul Pd, cercando di andare con la mano leggera sul partito guidato da Matteo Renzi. Nella sua impostazione, e nell’eco mediatico avuto fin dal primo giorno la responsabilità politica di Mafia capitale era stata addossata più al centro destra che al centro sinistra. E infatti la procura aveva chiesto 46 anni e 6 mesi di pena nei confronti di politici del Pdl e 20 anni di pena nei confronti di politici del Pd. La sentenza ribalta i rapporti: a tutti gli imputati del Pd sono state aumentate le pene rispetto alle richieste, e alla fine le condanne sono state a 28 anni invece dei 20 proposti. Nello specifico Mirko Coratti, presidente consiglio comunale di Roma è stato condannato a 6 anni quando i pm ne chiedevano 4 anni e 6 mesi, (differenza + 1 anno e 6 mesi). Pier Paolo Pedetti, consigliere comunale Roma è stato condannato a 7 anni quasi raddoppiando la richiesta dei Pm che chiedevano 4 anni, (differenza + 3 anni). Andrea Tassone, presidente municipio di Ostia è stato condannato a 5 anni contro i 4 chiesti dal Pm (+1 anno). Sergio Menichelli, sindaco di Sant’Oreste di Roma è stato condannato a 5 anni invece dei 4 chiesti dalla procura (+1 anno). Michele Nacamulli, consigliere municipio Ostia è stato condannato a 5 anni invece dei 3 anni e 6 mesi chiesti dal pm (+ 1 anno e 6 mesi). Nei confronti degli imputati del Pdl (il centrodestra dell’epoca) invece sono stati comminati 24 anni di carcere invece dei 46 anni e 6 mesi che erano stati richiesti dalla procura. Uno di quegli imputati, l’ex sindaco di Castelnuovo di Porto, Fabio Stefoni, per cui erano stati chiesti 4 anni di carcere, è stato assolto. E il finale racconta una storia un po’ diversa: con 28 anni di condanna ad esponenti del Pd e 24 ad esponenti del Pdl, la storia della corruzione a Roma si tinge molto di più di Nazareno. Anche se non si tratta di Mafia capitale, ma di grande scasso della capitale, l’inchiesta di Roma resta clamorosa. E le decisioni della corte sono certo pesanti. Dei 46 imputati 41 sono stati condannati. Solo in due casi però è stata accolta la richiesta della procura, mentre in 30 casi la pena comminata è inferiore a quella proposta e in 14 cosi invece è stata aumentata rispetto alle richieste. Complessivamente sono stati inflitti 288 anni e 8 mesi di carcere, oltre alle pene accessorie. Ma le richieste dei pm erano molto più alte: 519 anni e 5 mesi, e lo sconto di pena effettuato dalla corte non è irrilevante: 230 anni e 9 mesi, pari al 44,5% di quanto era stato richiesto.
Mafia Capitale, lite tra Abbate e avvocato di Carminati. Mentana: “È adrenalina da sentenza”, scrive il 21 luglio 2017 "Trendinitalia". Polemica al calor bianco a Bersaglio Mobile (La7) tra Lirio Abbate, giornalista dell’Espresso, e Ippolita Naso, avvocato difensore di Massimo Carminati. La legale accusa Abbate di essere “ossessionato” dall’ex Nar. Il giornalista sorvola e racconta il colpo messo a segno da Carminati nel 1999 al caveau della Banca di Roma all’interno del Palazzo di Giustizia, con la complicità di quattro carabinieri corrotti. Ma Naso lo interrompe: “Non è così, sono stati i carabinieri ad aver organizzato il furto e hanno chiesto aiuto a Carminati, perché non erano in grado di farlo da soli. Quindi, si sono rivolti ai “cassettari” romani. Sta dando dati errati. Lo vede che non si legge le carte processuali?”. “Ma non è così! Questo lo racconti ai ragazzini! Lei rilegga bene le sentenze e tutte le carte”, ribatte Abbate. E a intervenire è Enrico Mentana, che, scettico, chiede all’avvocato: “Ma questi carabinieri come hanno trovato Carminati? Sulle Pagine Gialle?”. Abbate spiega che il furto fu organizzato su commissione perché richiesto da alcuni avvocati per ricattare dei magistrati romani. Ma l’avvocato di Carminati ribadisce: “Lei sta calunniando dei magistrati romani”. “E’ tutto scritto nelle carte” – replica il giornalista – “Se dico una falsità, lei ha tutti gli strumenti penali per ricorrere nei miei confronti”. “No, non ne ho bisogno”, risponde Naso. Abbate poi si sofferma sul teste Roberto Grilli, che, per paura di Carminati, ritrattò durante il dibattimento la propria testimonianza resa nella fase preliminare. “Quello che dice mi conferma che non legge le sentenze di cui poi parla”, commenta, piccata, Ippolita Naso. “Invece le sue parole mi confermano che, quando il suo cliente minaccia di spaccarmi la faccia, lei non ha mosso un dito”, controbatte Abbate, che fa riferimento alle note telefonate intercorse tra Carminati e al suo braccio destro, Riccardo Brugia. In quell’occasione, l’ex terrorista dei Nar, infastidito da un articolo pubblicato nel 2012 da Abbate, si sfogò: “Non so chi è sto Lirio Abbate, infame pezzo di merda. Se lo trovo gli fratturo la faccia”. Naso insorge e accusa il giornalista di essersi procurato le intercettazioni delle conversazioni tra lei e Carminati: “Le conversazioni tra me e il mio cliente lei non le avrebbe dovute neanche leggere, le ha lette perché forse qualche suo amico carabiniere gliele ha date. Lei ha fatto un autogol clamoroso”. E ripete più volte: “Si vergogni”. Abbate ribatte: “Veramente le telefonate tra lei e il suo cliente sono rimaste coperte dal segreto. E’ lei che è caduta nella trappola. Lei sa benissimo che non sono come voi che “ho qualcuno”. Si vergogni lei”. A sedare la bagarre è Mentana che osserva: “Io capisco che c’è l’adrenalina da sentenza, ma Lirio Abbate non ha certamente ascoltato le telefonate tra lei e il suo cliente”.
I lapsus del giornalismo embedded, scrive Valerio Spigarelli il 21 luglio 2017 su "Il Dubbio". Certe volte, nella cronaca giudiziaria, la fantasia supera la realtà, nel senso etimologico del termine. Quel che è avvenuto oggi, prima durante e dopo la lettura della sentenza che ha stabilito, per ora, che Mafia Capitale è un esperimento giudiziario andato male, nella migliore delle ipotesi – o un bluff sostenuto proprio da una stampa che ha da tempo rinunciato al suo ruolo, nella peggiore – lo dimostra al di là di ogni ragionevole dubbio. Vediamo i fatti. Attorno alle 9,30, il collegio del Tribunale di Roma si ritira in camera di consiglio indicando per le ore 13 il momento in cui leggerà il dispositivo della sentenza. Per i giudici non c’è mafia per Rai e Ansa invece sì. L’aula è gremita di avvocati, familiari e rappresentanti della stampa. Decine di giornalisti e operatori video, cespugli di telecamere montate sui treppiedi, che pare di stare in un film hollywodiano degli anni Cinquanta. Clima delle grandi occasioni giornalistiche, insomma. Il pienone di giornalisti, a dirla tutta, è una novità, visto che non se ne vedevano così tanti dai tempi del debutto del processo. Nel corso delle 250 udienze la presenza dei cronisti s’era fatta sempre più rada; spesso i giornalisti era assenti del tutto, soprattutto quando a parlare era la difesa. Talmente assenti che alcune cronache comparse sui giornali non avevano raccontato quel che realmente era avvenuto nel corso dell’una o dell’altra udienza, ma avevano liberamente ripreso gli avvenimenti dagli atti di qualche anno prima contenuti nelle informative di polizia giudiziaria. Insomma, visto che non avevano tempo di venire, i giornalisti ascoltavano il processo su radio radicale, il più delle volte, e qualche volta neanche quello: invece di udire quello che aveva detto il teste convocato per una certa udienza, andavano a sfogliare le informative e riportavano quello che la stessa persona aveva raccontato nel chiuso di un ufficio di polizia qualche anno prima. In ogni caso ieri no, tutti presenti, attenti ed informati. Talmente informati che neppure un’oretta dopo il ritiro in camera di consiglio dei giudici, alle 10,15 l’ANSA, cioè la più grande e prestigiosa agenzia giornalistica italiana, lancia un breve takesubito ripreso da molte testate dal titolo shock “MAFIA ROMA: CARMINATI CONDANNATO A 28 ANNI”. Il testo specificava “Massimo Carminati è stato condannato a 28 anni al termine del processo a Mafia Capitale. La decima corte del Tribunale di Roma ha accolto le richieste della Procura riconoscendo l’ex Nar come capo dell’associazione mafiosa che avrebbe condizionato la politica romana”. La notizia, ovviamente, cade come una bomba tra gli avvocati presenti. È una balla, evidentemente, visto che i giudici non sono ancora usciti, ma, si sa, gli avvocati sono sospettosi e malfidati, e dunque si scatena immediatamente una ridda di ipotesi e commenti: “avranno avuto la notizia dell’esito e gli è sfuggita” “certamente hanno parlato con qualcuno” “forse hanno visto una bozza del dispositivo” “chi sarà la talpa?”. I più allenati a verificare la fisiognomica giudiziaria – cioè quella scienza inesatta molto in voga nei tribunali che pretende di preconizzare l’esito delle cause a seconda delle espressioni dei giudici, dei pm o del personale amministrativo (e che di solito non ci azzecca mai) – subito pretendono di trarre conferme della verità della notizia dal fatto che uno dei tre pm, non precisamente un giovialone, fin dalla prima mattina dispensa sorrisi a destra e a manca. Anche la circostanza – di suo comunque non troppo elegante – che al seguito dei procuratori si è presentato il ROS che aveva seguito le indagini praticamente al completo, capo, sottocapo e militi in polpa e delegazione, viene subito collegata alla bufala per accreditarla: “se stanno qui è perché sanno qualcosa; ‘sto giornalista dice la verità!” è la conclusione dei più smart tra i commentatori. Neppure quando, una manciata di minuti dopo, la stessa agenzia ANSA dichiara che si è trattato di uno spiacevole incidente pregando di “annullare la notizia” in quanto “andata in rete per errore”, i commenti preoccupati si acquietano: “figurarsi, erano obbligati a farlo! E poi una smentita è una notizia data due volte”. I più addentro ai misteri della stampa nazionale dopo un po’ ricostruiscono l’accaduto millantando le più diverse fonti, dall’amico giornalista vaticano alla fidanzata occulta di un capo redattore. Secondo questa versione è semplicemente accaduto che un cronista un po’ sbadato ha inserito in rete una bozza, una sorta di coccodrillo giudiziario tanto per usare termini da redazione, che aveva predisposto per portarsi un po’ avanti col lavoro. Tutto qui. Spiacevole incidente, appunto. “Spiacevole, sì” – pensa qualcuno dei più scaramantici, come il sottoscritto – anche il fatto che il coccodrillo sia quello: chissà se ne hanno fatto uno che dice LA PROCURA DI ROMA SMENTITA etc etc”. Di commento in commento si arrivava alle 13. La tensione sale quando entra il Tribunale, la gloriosa stampa nazionale è tutta coi cellulari in mano che registrata l’evento. Anche su Radio Rai Uno sono sul pezzo, vanno in diretta interrompendo il notiziario delle 13: “Carminati condannato a 20 anni, Buzzi a 19, riconosciuta l’associazione di tipo mafioso che era la questione centrale del processo, il perno attorno al quale ruotava l’inchiesta” dice il giornalista. È la seconda balla della giornata, ancora più clamorosa della prima, visto che il cronista non sta al desk di una redazione dislocata chissà dove, ma proprio nell’aula bunker di Rebibbia, tanto che si scusa perché deve parlare a bassa voce. Sta lì, sicuramente col cellulare in mano, ma col cervello sintonizzato chissà dove, visto che non capisce quel che succede. Anche qui, a stretto giro ed in diretta, segue canonica smentita: un po’ come a tutto il calcio minuto per minuto, il reporter si ricollega e dice “scusa (Bortoluzzi?) devo precisare che è in realtà caduta l’accusa di associazione mafiosa. La notizia non è vera, il cronista s’è sbagliato”!. E due. Ora, perché racconto quella che può sembrare solo la cronaca impietosa di un paio di topiche giornalistiche? Perché non sono topiche, sono lapsus freudiani che dicono tutto sulla gloriosa stampa nazionale, embedded sul carro delle Procure da troppo tempo, e oggi ancor più comodamente assisa sulle alfette delle agenzie investigative. Una stampa che sbaglia perché non gli sembra vero, proprio no, che possa sbagliare una Procura, o il ROS, e dunque scrive coccodrilli forcaioli, quando non copia veline giudiziarie o intercettazioni illegittimamente diffuse, oppure fraintende una cosa semplice come un dispositivo di una sentenza proprio perché ha smesso di abbaiare al potere giudiziario, come dovrebbe fare un vero cane da guardia del potere, ma azzanna solo chi finisce dentro gli ingranaggi giudiziari. Poi magari si scusa, “spiacevole incidente”, “scusa Ameri mi dicono che non è gol”. Eppure oggi la notizia, quella su cui dovevano fare attenzione, era una sola: se c’era o non c’era la Mafia a Roma, ci voleva poco. Naturalmente anche il resto dell’universo giornalistico inizia a parlare e commentare, e non sono pochi quelli che, al succo, dicono: “la mafia non c’è ma le condanne, e pure toste, invece sì: dunque che cambia? La Procura ha vinto lo stesso”. E magari sono quelli che da qualche anno in qua l’hanno menata su e giù per le colonne dei giornali proprio sul fatto che di epocale, in questo processo, c’era la Mafia, Capitale per di più, non certo la corruzione che è vecchia come il mondo. Quella era la notizia “vera” ma a molti, troppi, giornalisti italiani non gli va giù che quella “notizia”, su cui si sono cullati per anni, alla fine sia stata dichiarata ufficialmente “una balla” e allora fanno diventare realtà la fantasia. Come volevasi dimostrare. Ma che c’entra col giornalismo?
Intervista a Franco Gabrielli: «Mafia, reato da cambiare», scrive Massimo Martinelli il 23 luglio 2017 su "Il Messaggero". Dobbiamo convincerci tutti che la corruzione è l’incubatrice delle mafie. E invece vedo un atteggiamento da scampato pericolo nei confronti della sentenza sul Mondo di Mezzo, come a dire: la corruzione è una cosa e la mafia è un’altra. E questo, secondo me, è un approccio molto pericoloso». Pochi mesi dopo la grande retata di Mafia Capitale Franco Gabrielli fu nominato prefetto di Roma, con due grane da sbrigare sulla scrivania: il Giubileo alle porte e la relazione della Commissione d’accesso nominata dal Viminale che doveva valutare il livello di infiltrazione mafiosa in Campidoglio. Oggi Gabrielli è il capo della Polizia e sull’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso contestata ai principali imputati - e caduta in dibattimento - ha un’idea precisa: «Dal mio punto di vista, l’accusa da cui muove questa inchiesta rappresenta una sorta di interpretazione avanzata del rapporto tra la corruzione e la mafia. Leggeremo le motivazioni della sentenza per vedere se questa interpretazione è troppo avanzata: Ma se viene considerata troppo avanzata, a questo punto questa inchiesta interroga il legislatore».
Significa che sarebbe opportuno modificare l’articolo 416 bis che punisce appunto l’associazione a delinquere di stampo mafioso?
«Intanto bisogna chiarire che parliamo di una sentenza di primo grado di cui peraltro conosciamo solo il dispositivo; deve intervenire ancora una sentenza di merito e poi la Cassazione. Bisogna ricordare che sono già intervenute sentenze del Riesame e di Cassazione che si sono espresse in maniera difforme sugli stessi imputati. Detto questo, credo che se non ci sono le condizioni affinché un giudice - nella sua legittima autonomia - non aderisca a questa interpretazione avanzata delle procura di Roma, vada cambiato lo schema legale del 416 bis. Se la sentenza non coglie la modernità dell’impostazione dell’accusa e la correlazione tra corruzione e mafia, bisogna rimodellare la formulazione del reato di 416 bis».
Quindi lei non pensa che Pignatone e gli altri magistrati della procura di Roma siano usciti sconfitti da questo processo?
«Invito tutti a una grande cautela sui giudizi di questo tipo. Ho letto sui giornali che Pignatone sarebbe stato sconfitto e mi consenta una digressione: quando arrivai a fare il prefetto di Roma mi trovai subito alle prese con due questioni complesse e delicate: la macchina organizzativa del Giubileo da preparare e gli imminenti esiti della commissione d’accesso che avrebbe potuto portare allo scioglimento per mafie del Comune di Roma. Siccome mi capita spesso di trovarmi un po’ da solo, l’unica persona con la quale ebbi a interloquire e che rappresentò per me un punto di riferimento ineliminabile fu Giuseppe Pignatone, che con la sua capacità di essere prima di tutto un uomo delle istituzioni mi disse che secondo lui non c’erano gli estremi per arrivare allo scioglimento del comune di Roma per mafia. Sottolineo che questo avvenne in un paese in cui troppo spesso gli interessi di bottega prevalgono su interessi generali: in fondo in quel momento ad un povero prefetto che arrivava nella Capitale, un procuratore interessato a conseguire un risultato immediato avrebbe consigliato altro. Perché è ovvio che lo scioglimento per mafia avrebbe costituito un punto di riferimento forte per la procura, una sorta di punto fisso che avrebbe avuto i suoi effetti anche nei successivi sviluppi del dibattimento processuale. E invece, con onestà intellettuale, mi disse che Roma non andava sciolta. Mi piace ricordarlo oggi in un momento in cui qualcuno parla di sconfitta della procura, perché in quell’occasione si è visto lo spessore dell’uomo e del magistrato».
Quindi nessuna sconfitta?
«Non credo che sia una sconfitta. Soprattutto perché non è vero che a Roma e nel Lazio non ci sono le mafie. Purtroppo ci sono e ci sono sentenze che lo dicono. Ma questa vicenda, che io non ho mai chiamato Mafia Capitale ma indagine sul Mondo di Mezzo, dovremmo leggerla con un occhio diverso e da una prospettiva diversa».
Quale prospettiva?
«La stessa con la quale la procura di Roma, fin dall’inizio aveva individuato il fenomeno. Disse che eravamo in presenza di un qualcosa di originale e di originario. Che proprio per la sua caratteristica particolare, questo tipo di organizzazione aveva i profili dell’associazione mafiosa, che però si caratterizzava per alcune peculiarità diverse da quelle delle mafie storiche. Insomma, è l’interpretazione avanzata del rapporto che lega in maniera indissolubile la corruzione alla mafia».
Un’interpretazione avanzata che, tuttavia, il tribunale non sembra avere colto?
«Non vorrei che si risolvesse tutto in una disputa da stadio, sono contrario all’approccio manicheo secondo il quale o ci sono i pm che non hanno capito niente o giudici che non hanno colto questa interpretazione. A volte la verità sta nel mezzo, c’è una procura più sensibile che ha buttato il cuore oltre l’ostacolo e c’è un giudice che non ha interpretato alla stessa maniera».
E come se ne esce?
«Se ci sono le condizioni affinché questa interpretazione possa essere sostenuta anche in un successivo giudizio, allora la giurisprudenza colmerà il gap. Se questa interpretazione non troverà accoglimento pieno nella giurisprudenza, credo che sia maturo il tempo perché un certo tipo di corruzione sia letta come una forma di incubazione delle mafie e quindi in qualche modo debba essere trattata alla stessa stregua del contrasto alle organizzazioni mafiose».
Lei ritiene che questa visione del reato di mafia sia legata al mutamento di pelle della mafia stessa, da organizzazione dedita a traffico di droga, racket, delitti, a holding interessata agli appalti pubblici?
«Una delle regole che ci hanno insegnato sui banchi di Giurisprudenza è che la legge segue il fatto. Quindi la capacità dei tribunali per un verso e della legge per l’altro deve essere anche quella di cogliere i mutamenti che avvengono nelle forme criminali. Io credo che nel caso in questione distinguere tra corruzione e mafia sia una errore esiziale, quasi a voler dire che la mafia è una cosa seria e la corruzione è qualche cosa che può essere anche fisiologicamente tollerato. Dobbiamo fare un salto di qualità: c’è stata una stagione nel nostro Paese in cui la mafia era relegata a fenomeno territoriale, anche a un qualcosa che aveva a che fare con modalità di lotta politica, per cui si accusava l’avversario di essere mafioso immaginando che la sola etichettatura fosse un marchio di infamia e che nulla più si avesse a pretendere. Poi ci si è resi conto che la mafia era qualcosa di più serio, che non era limitato solo a contesti geografici, che era un fenomeno pervasivo, che attentava pesantemente anche all’economia».
Mafia Capitale ha dimostrato tutto questo?
«Credo che l’importanza storica di questa inchiesta sia quella di aver sottolineato in maniera forte e originale come un certo tipo di corruzione pervasiva, che attacca le istituzioni sia un’espressione della mafiosità».
Una delle caratteristiche del reato di associazione mafiosa è la forza intimidatrice del sodalizio. Nel caso di Mafia Capitale, la procura l’aveva individuata in quella “riserva di violenza” fornita dalla figura di Carminati. Ma se un imprenditore si limita a corrompere un dirigente pubblico con una busta piena di contanti - senza minacciarlo - si può parlare di mafia?
«La procura di Roma ha dovuto necessariamente trovare un addentellato sulla forza intimidatrice dell’associazione, perché lo schema legale del 416 bis prevede questo. Ecco perché io dico che se gli ambiti interpretativi consentono di far refluire queste forme di corruzione sempre più pervasive nel reato di mafia, bene così. Se ciò non è, e magari il giudice nelle sue motivazioni ci spiegherà che ciò non può essere - ma non perché sia meno sensibile, ma perché la norma non può essere interpretata in quella maniera, allora credo che sia arrivato il tempo per una modifica dello schema legale del 416 bis».
Lei pensa che cambiare in maniera estensiva il reato previsto dal 416 bis possa diventare una priorità del Parlamento?
«Intanto parliamo di un Parlamento che volge alla sua fase finale. Non ci sarebbero nemmeno i tempi tecnici per approcciare un problema così importante. Mi auguro che il prossimo Parlamento, qualunque maggioranza esprimerà, metta tra i primi punti dell’ordine del giorno la lotta vera e senza quartiere alla corruzione».
Basterà cambiare lo schema legale del 416 bis?
«Nessuno è così ingenuo da pensare che la corruzione sparirà. Io sono dell’idea che non sparirà la corruzione come non spariranno le altre forme criminali, perché attengono al profilo degli essere umani. La sfida è far sì che i fenomeni patologici siano relegati ad una eccezionalità e non ad una disarmante fisiologia. La strada più indicata, secondo me, è quella di arrivare all’emissione di pene severe, come quelle stabilite dal tribunale di Roma per il Mondo di Mezzo, e soprattutto pene certe».
Pignatone: "E' vero, ho perso, ma a Roma i clan esistono e io non mi rassegnerò mai". Parla il capo della procura: "Non mi sento responsabile dell'effetto mediatico dell'inchiesta e delle strumentalizzazioni politiche", scrive Carlo Bonini il 22 luglio 2017 su "La Repubblica". Il Procuratore di Roma Giuseppe Pignatone si è preso una notte. "Perché le cose si vedono meglio con la testa fredda".
E il giorno dopo la fu "Mafia Capitale" cosa vede, dunque?
"Che la sentenza del Tribunale ha riconosciuto che a Roma ha operato una associazione criminale che si è resa responsabile di una pluralità di fatti di violenza, corruzione, intimidazione. Che l'indagine di questo ufficio ha svelato un sistema criminale capace di infiltrare il tessuto amministrativo e politico della città fino al punto di avere a libro paga amministratori della cosa pubblica. Questo vedo. E questo dice tre cose. La prima: che abbiamo lavorato bene e che hanno lavorato bene i carabinieri del Ros, che per questo ringrazio. La seconda: che la sentenza apre uno spazio per una riflessione non solo giudiziaria su questa città, che però non spetta a me. La terza: non si è trattato di una fiction".
Procuratore, questo è il bicchiere mezzo pieno. Converrà che la notizia è quello mezzo vuoto. Il suo ufficio perde il processo sulla questione dirimente. La mafiosità di quel sistema criminale.
"Non c'è dubbio. È il dato negativo di questa sentenza".
Quindi ha ragione chi dice che questo processo ha un solo sconfitto e che quello sconfitto è lei?
"Io non ho una concezione agonistica della giustizia. Né, aggiungo, una cultura dell'insulto. Osservo che ogni giorno, in questo palazzo, ci sono giudici che trattano, con grandissimo impegno procedimenti che hanno ad oggetto fatti di 416 bis o in cui si contesta l'aggravante mafiosa. Accade di vedere accolte le proprie tesi e di vederle respinte. Insomma, per quanto importante, questa sentenza di primo grado non riassume una stagione giudiziaria e quello che ha fotografato in questa città in materia di criminalità organizzata".
Non può negare che su "Mafia Capitale" lei e il suo ufficio avete giocato una scommessa ambiziosa. Il che rende questo processo diverso, non fosse altro per le risorse che ha assorbito.
"Mondo di Mezzo, come l'abbiamo chiamata noi, non è stata una scommessa. Perché sono un magistrato e non scommetto sulla libertà delle persone. Detto questo, è vero. Con questa indagine intendevamo proporre un ragionamento avanzato sul rapporto tra mafia e corruzione. Per altro, muovendoci nel solco della più recente giurisprudenza di Cassazione sull'articolo 416 bis. Ora, il tribunale ha espresso un parere diverso e dunque aspettiamo le motivazioni per comprendere quale è stato il percorso logico della decisione. Se si tratta di questioni che riguardano l'interpretazione del reato di associazione a delinquere di stampo mafioso, o, al contrario, di una diversa lettura e qualificazione del fatto storico che il dibattimento ha provato. Dopodiché, se il tribunale ci convincerà, non faremo appello, altrimenti impugneremo".
E va bene. Ma, con il senno di poi, tornerebbe a qualificare l'associazione criminale di Buzzi e Carminati come mafia?
"Non ho cambiato idea stanotte. E sa perché? Perché la nostra imputazione di mafia, sin qui, ha trovato il conforto di due pronunce della Cassazione nella fase incidentale dei ricorsi alla custodia cautelare di alcuni degli imputati, di un gip, di un tribunale del Riesame. Quanto alla "sconfitta", mi lasci dire che, premesso il profondo rispetto che ho per l'informazione, ho letto stamani semplificazioni che ci attribuiscono cose che non abbiamo mai detto e conseguenze dei nostri atti che esulano dalla nostra disponibilità".
Quali?
"Ho sempre detto in tutte le sedi ufficiali, da ultimo, nel luglio 2015 nella mia audizione in Commissione antimafia, che "Mafia Capitale" era una "piccola mafia". Che non dominava Roma. Che Roma non è né Palermo, né Reggio Calabria. Inoltre, ed è un atto ufficiale anche questo, ho messo per iscritto nel parere che mi venne chiesto quando si pose il problema dello scioglimento o meno del Consiglio Comunale per infiltrazioni mafiose che non c'erano le condizioni. Quindi, dire che con le nostre inchieste abbiamo cambiato il corso politico degli eventi a Roma, che abbiamo esposto la città al ludibrio del mondo, significa attribuirci un uso politico della giustizia penale che non abbiamo in alcun modo esercitato. Insomma, non penso debba rispondere il mio ufficio di chi ha usato politicamente i fatti che la nostra inchiesta ha fatto emergere".
È successo però.
"È successo. Ma non siamo noi i responsabili dell'effetto mediatico di un'inchiesta. E, come magistrato, non lavoro per il plauso o il consenso dell'opinione pubblica. Mi permetto, piuttosto, di proporre al dibattito qualche elemento diverso. Oggettivo e meno ozioso".
Cioè?
"A Roma le mafie esistono. E lavorano incessantemente nel traffico di stupefacenti, nel riciclaggio di capitali illeciti, nell'usura. Solo lo scorso giugno abbiamo sequestrato beni di provenienza mafiosa per 520 milioni di euro. Sono mafie che incidono pesantemente nella qualità della vita dei cittadini, nella libertà delle loro scelte. Non solo. Roma ha un'emergenza altrettanto grave, se non più grave della mafia. E sono la corruzione e i reati economici. Noi trattiamo bancarotte per centinaia di milioni di euro. Frodi all'erario ed evasioni fiscali per miliardi. E su questo vorrei fosse chiaro a tutti che il mio ufficio non accetta, né intende rassegnarsi all'idea che tutto questo sia normale. Faccia parte del paesaggio. Addirittura ne sia componente necessaria".
A proposito di "paesaggio", quanto crede abbia pesato o pesi la resistenza culturale di questa città ad accettare l'idea, per dirla con le sue parole, di una mafia "autoctona", "originale" e originaria"? Insomma, il "Mondo di Mezzo" è Roma. E se lei dice che il "Mondo di Mezzo" è mafia, sta dicendo che Roma è mafia.
"Un'affermazione del genere sarebbe assurda. Però il problema mafia esiste ed esiste da tempo. Basterebbe ricordare che sulla mafiosità della Banda della Magliana esistono due sentenze della Cassazione che giungono a conclusioni opposte. E comunque, in questi anni dei passi avanti nella consapevolezza che la mafia non sia un fenomeno soltanto meridionale ci sono stati in tutta Italia. Anche a Roma, come ho detto prima".
Luca Odevaine è stato l'unico degli imputati di Mafia Capitale ad aver collaborato con la Procura. Avevate per questo chiesto una condanna mite, di poco superiore ai due anni. Il tribunale ha fissato una pena superiore ai 6. Che messaggio arriva a una città dove, storicamente, nessuno si pente?
"È un altro dei punti su cui il Tribunale ha espresso una visione diversa. Anche qui, dunque, leggeremo le motivazioni. Posso solo dire che sono convinto che nella lotta alla corruzione si debba utilizzare ogni strumento consentito dalla legge. Riconoscere un trattamento sanzionatorio diverso a chi ha ammesso le proprie responsabilità, sia pure parzialmente, e aiutato l'indagine a fare dei passi avanti è uno di questi strumenti".
La mafia è cosa seria: non lasciamola all’antimafia…, scrive Piero Sansonetti il 22 luglio 2017 su "Il Dubbio". Diceva Georges Clemenceau, statista francese di inizio novecento: «La guerra è una cosa troppo seria per lasciarla ai militari». Già, aveva ragione. Con la mafia – anzi, con la lotta alla mafia – più o meno è la stessa cosa. È roba troppo seria per lasciarla all’antimafia. La mafia è una organizzazione criminale potente e strutturata che ha dominato – nelle sue varie espressioni l’economia, e in parte anche la politica, nel Mezzogiorno d’Italia, per almeno per un secolo. Negli anni ottanta fu combattuta a fondo da un gruppo coraggiosissimo di magistrati e da settori onesti e seri della politica, e subì una sconfitta dalla quale non si è ripresa. Oggi la mafia non è più la feroce e potente organizzazione che era trent’anni fa, tuttavia esiste ancora e controlla la parte maggiore dell’attività criminale in quasi tutte le regioni del Sud. Ha perso molto del suo potere militare e della sua egemonia culturale, gode di protezioni assai più limitate di un tempo, ha difficoltà a permeare la società civile. La mafia è una cosa seria, non lasciamola all’antimafia. Però è viva, è pericolosa, funziona ancora molto bene e ancora dispone di legami sociali forti e anche di agganci politici. Sarebbe una follia smettere di combatterla. Sul piano giudiziario e sul piano politico. È possibile oggi combattere la mafia, così come negli anni ottanta la combatterono Falcone e Borsellino? È possibile, ma c’è un ostacolo nuovo: l’antimafia. Capisco che è un paradosso, ma è così. Esiste un settore molto largo dell’intellighenzia, dell’informazione, della politica, della magistratura, della Chiesa, e anche della società civile, che da una ventina d’anni ha messo in piedi un apparato ramificato di organizzazioni antimafia, le quali hanno trasformato in un grande affare il lavoro di quelli che trent’anni fa erano in prima linea. Oppure lo hanno trasformato in ideologia, o in un’occasione di lotta politica. Questa antimafia, che pure trae origine dalla lotte aspre e coraggiose combattute tanti anni fa, è diventata il primo ostacolo alla lotta alla mafia, perché ha smesso di occuparsi della mafia come fenomeno sociale e criminale, e l’ha trasformata in “bersaglio ideologico”, da usare per finalità del tutto diverse dalla lotta per ristabilire la legalità. La stessa legalità è diventata una specie di feticcio, oppure di clava, che si adopera per lo svolgimento di battaglie politiche puramente di potere. Il primo a denunciare questo fenomeno, in tempi non sospetti, e molto prima che il fenomeno assumesse le dimensioni larghissime e di massa che ha oggi, fu Leonardo Sciascia. E Leonardo Sciascia era stato precedentemente l’intellettuale italiano che aveva lanciato nel deserto, nel silenzio generale, i primi anatemi contro Cosa Nostra. «Il Giorno della civetta» è un romanzo che Sciascia scrisse nel 1961. In quel periodo i giornali non parlavano mai di mafia. Molti negavano che esistesse. Molti politici e molti magistrati avevano la stessa posizione: la mafia è un’invenzione della letteratura. Leonardo Sciascia, che la Sicilia la conosceva bene, sosteneva il contrario e, come sempre nella sua vita, era ascoltato quasi da nessuno. Il suo libro diventò un film solo sette anni dopo la sua pubblicazione, per merito di un regista come Damiano Damiani. Il film ebbe successo, ma come film di avventura non come film di denuncia. Beh, è stato proprio Sciascia, quasi trent’anni più tardi, a indicare il fenomeno emergente dei professionisti dell’antimafia. E, quando lo fece, rimase di nuovo isolato. Oggi esistono due modi sbagliati per fare antimafia. Il primo è politico, il secondo è giudiziario. L’antimafia politica è quella della retorica e della criminalizzazione. Ci sono dei gruppi che si autoproclamano sacerdoti del tempio, e dispensano condanne e assoluzioni. Pretendono l’esclusiva dell’autografo antimafia. Se ne infischiano della necessità di colpire l’organizzazione mafiosa e usano la lotta alla mafia per ottener vantaggi politici, per colpire gli avversari, per scomunicare, per guadagnare potere. Qualche esempio? Basta seguire l’attività dell’antimafia della Bindi, che non ha niente a che fare con una commissione d’inchiesta parlamentare e appare sempre di più un gruppo politico d’assalto, molto spregiudicato. Com’era l’Inquisizione. L’antimafia giudiziaria è quella di chi usa la “mafiosi- tà” come reato politico per dare peso e spettacolarità alle indagini, oppure, semplicemente, per renderle più facili. Il caso più clamoroso, naturalmente, è quello dell’eterno processo di Palermo alla cosiddetta trattativa stato- mafia. Un processo che sul piano giudiziario non sta in piedi neppure con il vinavil, ma che ha reso celebri i Pm che ne sono stati protagonisti e ne ha irrobustito le carriere. Il processo sulla trattativa inesistente, per anni, fino ad oggi, ha preso il posto alle grandi e vere inchieste antimafia. Che sono scomparse. Se pensate alle inchieste di Falcone e Borsellino, costruite sul lavoro duro, e che portarono alla condanna di tutto il gotha di Cosa Nostra, e le confrontate con la messa in scena dello Stato- Mafia, capite bene quale è la differenza tra un’inchiesta giudiziaria e la giustizia- spettacolo. E qual è la differenza tra la lotta alla mafia e l’antimafia- Barnum. Poi c’è un secondo modo sbagliato di usare l’antimafia. Certo più sostanzioso, meno vanesio, ma anche questo scorretto. È l’abitudine di usare comunque l’aggravante mafiosa, anche in processi alla delinquenza comune, per la semplice ragione che così si possono applicare norme e leggi speciali che altrimenti sarebbero inutilizzabili. È la famosa questione del doppio binario della giustizia. L’abbiamo vista bene anche in occasione del processo di Roma (mafia capitale), quello che si è concluso l’altroieri con molte condanne ma con la proclamazione che la mafia non c’entra. Il fine giustifica i mezzi? No, almeno nel campo del diritto, il fine non giustifica i mezzi. Se non ci convinciamo della necessità di farla finita con l’antimafia professionale, non riusciremo mai più a riprendere in mano la lotta alla mafia. Cioè alle cosche reali. Quelle che esistono, che operano, che si organizzano, che inquinano l’economia e la vita civile. Per riprendere questa battaglia bisogna avere il coraggio di dire apertamente che l’antimafia professionale va spazzata via – nelle Procure, nei partiti e soprattutto nel giornalismo – e che l’uso dell’antimafia come strumento per lotte politiche di potere è un atteggiamento devastante per la società, più o meno come lo è l’atteggiamento della mafia. A chi tocca aprire questa battaglia? Alla politica. Toccherebbe alla politica e all’intellettualità. Voi vedete in giro qualche esponente politico che abbia il coraggio di avviare una battaglia di questo genere? O qualche intellettuale?
Mafia Capitale, storia e protagonisti del "Mondo di mezzo". Le tappe e i protagonisti dell'inchiesta su Mafia Capitale che ha scoperchiato il "Mondo di mezzo" della politica romana, scrive Giovanni Neve, Giovedì 20/07/2017, su "Il Giornale". Ben 240 udienze celebrate nell'aula bunker di Rebibbia e diluite in 20 mesi; 46 imputati, molti dei quali accusati di associazione di stampo mafioso e ancora in carcere (da Massimo Carminati al 41 bis detenuto a Parma, a Salvatore Buzzi nella struttura di massima sicurezza a Tolmezzo); 80mila intercettazioni telefoniche e ambientali trascritte; 10 milioni di carte e altri 4 milioni di pagine di brogliaccio. Sono questi alcuni numeri del processo Mafia Capitale che si è concluso oggi con la sentenza di primo grado. Queste le tappe più significative:
2 dicembre 2014 - 37 persone arrestate (28 in carcere e 9 ai domiciliari) e decine di perquisizioni eccellenti, tra cui quella nei confronti dell'ex sindaco Gianni Alemanno, indagato per associazione di stampo mafioso: sono i primi risultati dell'operazione Mondo di Mezzo, poi mediaticamente denominata Mafia Capitale. La Procura ritiene che negli ultimi anni nella capitale e nel Lazio abbia agito un'associazione di stampo mafioso che ha fatto affari (leciti e no) con imprenditori collusi e con la complicità di dirigenti di municipalizzate ed esponenti politici di ambo gli schieramenti, per il controllo delle attività economiche e per la conquista degli appalti pubblici. Lunga la lista dei reati contestati: estorsione, corruzione, usura, riciclaggio, turbativa d'asta e trasferimento fraudolento di valori. A guidare questa organizzazione - secondo chi indaga - sono il presidente della cooperativa "29 giugno" Salvatore Buzzi e l'ex terrorista di destra, Massimo Carminati, ritenuto colui che "impartiva le direttive agli altri partecipi, forniva loro schede dedicate per comunicazioni riservate e manteneva i rapporti con gli esponenti delle altre organizzazioni criminali, con pezzi della politica e del mondo istituzionale, finanziario e con appartenenti alle forze dell'ordine e ai servizi segreti".
4 giugno 2015 - Nuova ondata di arresti per Mafia Capitale: 19 persone in carcere, 25 ai domiciliari, altre 21 indagate a piede libero e altrettante perquisizioni. Provoca l'ennesimo terremoto. Ancora una volta, l'ex terrorista dei Nar Massimo Carminati e il presidente della cooperativa 29 giugno Salvatore Buzzi risultano i pezzi da novanta dell'ordinanza di custodia cautelare del gip Flavia Costantini, eseguita all'alba dai carabinieri del Ros. La novità è che sono stati chiamati in causa anche esponenti delle istituzioni, di destra e di sinistra (al Comune e alla Regione Lazio), risultati a libro paga dell'organizzazione di stampo mafioso che a Roma faceva affari di ogni tipo (business degli immigrati 'in primis') e si aggiudicava i migliori appalti (tra i quali punti verde e piste ciclabili). In carcere finisce anche Luca Gramazio, ex consigliere capogruppo Pdl (poi Fi) in consiglio comunale e poi in Regione: è ritenuto il volto istituzionale di Mafia Capitale per aver messo le sue cariche al servizio del sodalizio criminoso con cui avrebbe elaborato "le strategie di penetrazione nella pubblica amministrazione".
5 novembre 2015 - Comincia il processo davanti ai giudici della decima sezione penale del tribunale. Autorizzate le riprese televisive in aula "alla luce dell'interesse sociale particolarmente rilevante alla conoscenza del dibattimento in relazione alla natura delle imputazioni, ai soggetti coinvolti e alla gravità dei fatti contestati".
7 febbraio 2017 - Finiscono in archivio le posizioni di 113 indagati su 116 coinvolti nel procedimento stralcio di Mafia Capitale per imputazioni più o meno residuali, rispetto al processo principale. Accogliendo le richieste avanzate dalla Procura di Roma nell'agosto 2016, il gip Flavia Costantini ha firmato il decreto di archiviazione con un provvedimento di 82 pagine che riguarda esponenti della politica, imprenditori, professionisti, ex militanti di destra e amministratori. Molti di loro, però, sono già a giudizio (o sono stati già processati) per altre imputazioni. Due i motivi principali che hanno spinto il giudice ad accogliere l'impostazione della Procura: per alcune posizioni, "le indagini sin qui portate avanti non hanno consentito di individuare elementi sufficienti per sostenere l'accusa in giudizio"; per tutte le altre, non sono state riscontrate o ritenute credibili le dichiarazioni accusatorie fatte da Salvatore Buzzi. E così, per il reato di associazione di stampo mafioso escono definitivamente di scena, ad esempio, l'ex sindaco Gianni Alemanno (che però è sotto processo per corruzione e finanziamento davanti ai giudici della seconda sezione penale), gli avvocati Pierpaolo Dell'Anno, Domenico Leto e Michelangelo Curti, l'ex capo della segreteria politica di Alemanno Antonio Lucarelli, l'ex responsabile di Ente Eur Riccardo Mancini ed Ernesto Diotallevi, che era finito nel mirino dei pm perchè sospettato di essere a Roma il referente di Cosa Nostra. Archiviazione anche per il presidente Pd della Regione Lazio Nicola Zingaretti (indagato per due episodi di corruzione e uno di turbativa d'asta), per il suo ex braccio destro Maurizio Venafro (che era accusato di corruzione, mentre è in attesa del giudizio di appello dopo essere stato assolto in primo grado da un'accusa di turbativa d'asta) e per una serie di altri esponenti della politica come l'ex presidente del primo municipio della capitale, Sabrina Alfonsi (corruzione), il consigliere comunale della Lista Marchini, Alessandro Onorato (corruzione), il parlamentare ex Pdl, poi passato al Gruppo Misto, Vincenzo Piso (finanziamento illecito), il presidente del Consiglio Regionale del Lazio, Daniele Leodori, (turbativa d'asta) e Alessandro Cochi, ex delegato allo sport della giunta Alemanno (turbativa d'asta). Accolta pure la richiesta di archiviazione, per un episodio di abuso d'ufficio, per Luca Gramazio, l'ex capogruppo Pdl alla Regione Lazio ancora detenuto in carcere per il filone principale e per Massimo Carminati che rispondeva di associazione per delinquere finalizzata ai delitti di rapina e riciclaggio contestata anche a Luigi Ciavardini, Fabrizio Pollak, Stefano Massimi e Gianluca Ius.
27 aprile 2017 - la procura chiede la condanna di tutti e 46 imputati per complessivi 515 anni di reclusione. Le pene più elevate sono state sollecitate dai pm nei confronti di coloro che sono ritenuti gli organizzatori o semplici partecipi dell'associazione di stampo mafioso. Il primo della lista è Massimo Carminati (28 anni perché capo oltre che promotore), seguito da Salvatore Buzzi (26 anni e 3 mesi).
20 luglio 2017 - Arriva la sentenza: Salvatore Buzzi condannato a 19 anni, Massimo Carminati a 20. Per Mirko Coratti, ex presidente del Consiglio comunale di Roma ed esponente del Partito democratico, 6 anni di carcere. Per Gramazio la pena è di 11 anni. Dieci anni a Franco Panzironi, ex ad dell'Ama. Riccardo Brugia a 11 anni. Luca Odevaine, ex componente del Tavolo di coordinamento nazionale sui migranti del Viminale, è stato condannato a sei anni e sei mesi di reclusione.
Storia kafkiana di un condannato che non è stato mai imputato, scrive Paolo Delgado il 17 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Era un operaio della coop di Buzzi, lo hanno rovinato senza un processo e gli hanno tolto il lavoro. Franco La Maestra è un ex brigatista che avendo rifiutato sia il pentimento che la dissociazione, ha scontato per intero la sua condanna. Una volta libero diventa socio della Cooperativa 29 giugno fondata da Salvatore Buzzi. La Maestra non è uno dei capi della cooperativa: fa l’operaio addetto al recupero rifiuti. Ma il giorno in cui Buzzi finisce in manette, 2 dicembre 2014, La Maestra è nella sede della cooperativa e sulla porta incrocia Buzzi. Il presidente della cooperativa gli rivolge qualche parola che poi, debitamente intercettata, assume una valenza poco proporzionata. Da quel momento, almeno secondo l’Ufficio Misure di Prevenzione del Tribunale, La Maestra diventa il braccio destro di Buzzi. L’uomo non verrà mai inquisito né indagato, eppure il Tribunale dispone la sua sospensione dal servizio «per motivi di ordine pubblico». Per valutare l’inchiesta che ha fatto tremare Roma sin dalle fondamenta bisognerà aspettare la sentenza di primo grado e forse non basterà neppure quella. Ma che la corte d’assise accetti o meno l’azzardato impianto accusatorio del processo Mafia Capitale, quello che ha trasformato in storia di criminalità organizzata quella che all’apparenza sembrerebbe una vicenda di ‘ normale’ corruzione, non sarà indifferente, anche se solo dopo il terzo grado di giudizio si potrà definitivamente avvalorare quell’impianto che in quel caso finirebbe senza dubbio per fare scuola. Però non c’è bisogno di aspettare la sentenza per rendersi conto che quel capo d’imputazione incandescente ha prodotto alcuni esiti nefasti, dei quali bisognerebbe tenere conto, per evitarli in circostanze simili, indipendentemente dal fatto che la corte accetti o meno l’impostazione della procura di Roma. Un caso esemplare è quello di Franco La Maestra, ex brigatista rosso che avendo rifiutato sia il pentimento che la dissociazione, ha scontato per intero e sino all’ultimo giorno la sua condanna a 14 anni e mezzo di carcere. Una volta libero, la maestra diventa socio della cooperativa 29 giugno fondata da Salvatore Buzzi, il perno stesso dell’inchiesta Mafia Capitale. La Maestra non è uno dei capi della cooperativa. Fa l’operaio addetto al recupero rifiuti. In un’intercettazione si sentono lui e un compagno di lavoro lamentarsi senza mezzi termini perché «ci trattano come bestie da soma». Il giorno in cui Buzzi finisce in manette, 2 dicembre 2014, La Maestra è nella sede della cooperativa per una vertenza sindacale di quelle dure, con tanto di scioperi, e sulla porta incrocia Buzzi in manette. Il presidente della cooperativa gli rivolge qualche parola che poi, debitamente intercettata, assume una valenza poco proporzionata. Buzzi invita a «non litigare» e ordina di tenere lontano Giovanni Campennì, indicato dagli inquirenti come uomo della ‘ ndrangheta e elemento di raccordo tra il clan Mancuso e la super cooperativa di Buzzi: «Non lo voglio tra i piedi». Buzzi aggiunge alla raccomandazione di non litigare una frase, «Adesso il capo sei tu», che secondo l’Ufficio Misure di Prevenzione del Tribunale di Roma sarebbe rivolta proprio a La Maestra e che secondo quest’ultimo era invece indirizzata al gestore del servizio. Essendo poco credibile il salto repentino da operaio semplice addetto alla raccolta differenziata dei rifiuti a ‘capo’ è probabile che La Maestra dica la verità. Anche perché, capo o non capo, è un fatto che Franco La Maestra non solo non verrà mai inquisito per i fatti di Mafia Capitale ma neppure indagato. Ciò nonostante quasi un anno più tardi, il 30 ottobre 2015, la sezione Misure di Prevenzione dispone la sua sospensione dal servizio e dalla retribuzione «per motivi di ordine pubblico», che diventa operativa il giorno seguente. Da questo momento si configura una di quelle situazioni proverbialmente definite ‘kafkiane’. La Maestra, pur non essendo oggetto di alcun provvedimento penale, è indicato come persona che mantiene «rapporti con la ‘ ndrangheta» e svolge un «ruolo di primo piano nella gestione criminale della cooperativa». Dovrebbe difendersi, ma non essendo né inquisito né indagato mica è facile. Non può accedere al fascicolo, non può spiegare e chiarire durante un interrogatorio, non sa a chi rivolgersi. In compenso è privo di stipendio, non gode di alcun ammortizzatore sociale e a rigore non è neppure un disoccupato, essendo stato solo «sospeso» e non licenziato. Potrebbe licenziarsi da solo, ma sospetta che con sulle spalle una sospensione spiegata con quelle motivazioni trovare un nuovo lavoro non gli sarebbe facile. Quindi prova a impugnare la sospensione. Solo che in questi casi a decidere sull’impugnazione è il presidente della stessa sezione Misure di Prevenzione che ha disposto l’ordinanza, e ci mancherebbe solo che non si desse ragione da solo. Quindi respinge, è la motivazione rende ancora più surreale il quadro: «Si deve rilevare che i provvedimenti del giudice delegato in un procedimento di prevenzione sono provvedimenti sostanzialmente amministrativi / autorizzativi / dispositivi emessi per la gestione dei beni sequestrati nell’ambito del procedimento di prevenzione e non rientrano tra i provvedimenti di prevenzione espressamente previsti dal Dlvo 159/ 2011… Si tratta, dunque, di atti liberi, che non sono e non possono essere inquadrati in ipotesi tipizzate come misure di prevenzione». In questo modo, per il soggetto in questione, il non essere indagato diventa per magia giuridica un punto di massima debolezza invece che un sostegno. Non essendo indagato e non essendo quindi sottoposto ai «provvedimenti di prevenzione espressamente previsti» non può fare altro che sperare in qualche miracolo, nel frattempo cercando di cavarsela senza reddito di sorta.
Mafia Capitale, Odevaine alla sbarra: "Ecco perché prendevo 5000 euro al mese da Buzzi". L'interrogatorio dell'ex vicecapo di gabinetto di Veltroni, confermato per tre mesi nel 2008 quando la capitale incoronò Alemanno: "Da fine 2011 al novembre 2014 sono stato remunerato dal gruppo Buzzi per la mia attività di 'facilitatore'. Semplificavo i suoi rapporti con la pubblica amministrazione", scrive Federica Angeli l'1 febbraio 2017 su "La Repubblica". "Ho percepito cinquemila euro al mese da Salvatore Buzzi da fine 2011 al novembre del 2014. Per lui risolvevo i problemi, facilitavo gli interessi di Buzzi. Ho preso soldi anche dalla cooperativa La Cascina". Soldi da Salvatore Buzzi (5mila euro mensili, di cui una parte in nero) e soldi dalla cooperativa “La Cascina” (10mila euro al mese che potevano arrivare anche a 20mila). Per anni, almeno dal 2011 al 2014, Luca Odevaine, anni prima vicecapo di gabinetto vicario del sindaco Veltroni, incarico proseguito per altri tre mesi con l'arrivo del sindaco Alemanno, ha intascato fior di tangenti mettendo a frutto il suo lavoro di componente del Tavolo di coordinamento sugli immigrati del Viminale (struttura creata nell'estate del 2014 ma informalmente esistente due anni prima) e di presidente della Fondazione IntegraAzione, che curava e coordinava eventi politici, religiosi e sociali. Sentito dal tribunale nel processo Mafia Capitale in corso nell'aula bunker di Rebibbia, Odevaine ha ammesso quanto già dichiarato alla Procura nei mesi scorsi: "Venivo remunerato dal gruppo Buzzi per la mia attività di facilitatore. Semplificavo i suoi rapporti con la pubblica amministrazione. Svolgevo un funzione di raccordo tra le sue cooperative, il ministero degli Interni e i funzionari della Prefettura, un mondo con il quale le coop faticavano ad avere un dialogo costante. Io mettevo a disposizione l'esperienza acquisita nel Comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica, conoscevo molte persone ma non è vero che io orientassi i flussi degli immigrati, non avrei potuto farlo. Il Tavolo discuteva su temi generali e non decideva". Odevaine è stato poi interpellato sui soldi ricevuti dai vertici della Cascina (segmento giudiziario già definito davanti al gup con un patteggiamento di pena a due anni e 8 mesi di reclusione per corruzione e la restituzione di circa 250mila euro, più o meno l'equivalente della somma incassata in modo illecito), per agevolare l'assegnazione dell'appalto per la gestione del Cara di Mineo dopo aver concordato con loro il contenuto del bando di gara. "Anche in questo caso - ha spiegato Odevaine - ricevevo soldi per il mio lavoro di raccordo col Ministero dell'Interno". Molte domande dei pm Luca Tescaroli e Giuseppe Cascini hanno riguardato il commercialista Stefano Bravo, anche lui sotto processo per corruzione perchè sospettato di aver curato la predisposizione della documentazione fittizia che avrebbe dovuto giustificare l'ingresso delle somme illecite nella casse della Fondazione e delle società riferibili a Odevaine. "Era il mio commercialista personale e della famiglia, si occupava della contabilità della Fondazione. A lui ogni tanto chiedevo consiglio, gli dissi che avevo soldi in contanti ma lui certe cose preferiva non saperle. Io gli presentai i rappresentanti della Cascina e poichè con questa cooperativa avevo in piedi un affare che non aveva nulla a che vedere con la questione immigrati, gli chiesi se voleva occuparsene. Cominciavo ad avere numerose attività fuori dall'Italia e avevo bisogno di una persona che seguisse le mie cose in Italia". "Con la giunta Alemanno sì stabili un accordo per cui ad ogni consigliere comunale vennero dati 400mila euro da spendere per eventi culturali. L'accordo fu preso dal sindaco Alemanno e dal capogruppo di minoranza Umberto Marroni", ha spiegato Odevaine, che, vicecapo di gabinetto del sindaco Veltroni, fu confermato per i tre mesi successivi nel 2008 quando la capitale incoronò Alemanno ma dopo un mese fu messo di fatto all'angolo. "Alemanno - ha poi aggiunto - mise nuove figure in base ad appartenenze politiche nei posti chiave dell'amministrazione: Gianmario Nardi, che era stato allontanato da Veltroni perché troppo vicino a imprenditori che facevano manifestazioni pro suolo pubblico fu nominato vicecapo gabinetto. Marra fu spostato al Patrimonio". "Alemanno mi disse che per tutto il periodo della mia permanenza al Comune le due sue persone di assoluta fiducia a cui avrei dovuto far riferimento per qualunque cosa erano Riccardo Mancini e l'onorevole Vincenzo Piso che era stato in carcere con lui negli anni Ottanta e aveva finanziato la sua campagna elettorale. Quando a capo dell'Ufficio Decoro venne nominato Mirko Giannotta, segretario storico del Movimento Sociale di Acca Larentia e responsabile della tentata rapina nel maggio 2006 da Bulgari in via Condotti, e distrusse tutti gli archivi del materiale di pubblica sicurezza da me raccolto, decisi di lasciare Palazzo Senatorio e mi spostai in una stanza a piazza San Marco".
Buzzi parla ancora: «Ho dato 875mila euro a Panzironi e finanziato la campagna di Veltroni», scrive Vincenzo Imperitura il 29 Marzo 2017, su "Il Dubbio". Vergogna per aver foraggiato la destra? «Diceva Deng Xiaoping: non devi guardare se il gatto è bianco o nero, l’importante è che prenda il topo». «Camerata io? Io so’ comunista». Suona più o meno come la famosa battuta del grande Mario Brega, la risposta fulminante che Salvatore Buzzi si lascia sfuggire in aula, rispondendo al difensore dell’ex ad di Ama, Franco Panzironi, che gli chiede se non provava vergogna ad aver finanziato le campagne elettorali della destra. «Rispondo in termini marxiani e citando Deng Xiaoping: non devi guardare se il gatto è bianco o nero, l’importante è che prenda il topo. Io avevo 300 persone da mantenere. Non ho mai votato Pdl», replica Buzzi (considerato il braccio finanziario del “mondo di mezzo”) nel corso della settima e ultima udienza di Mafia Capitale dedicata alla sua deposizione. «A Franco Panzironi, complessivamente, abbiamo dato 875mila euro», racconta in collegamento video con l’aula bunker di Rebibbia. «A lui restavano i soldi in nero per vincere le gare Ama, quelli in chiaro andavano alla Fondazione Nuova Italia e quindi certo che andavano a Gianni Alemanno. Panzironi è un delinquente, chiedeva sempre soldi». Soldi che, racconta sempre Buzzi, sarebbero andati all’ex Ad di Ama (imputato nello stesso processo) anche fuori dal circuito elettorale: «Quando gli abbiamo dato i primi 100mila euro non c’era nessuna campagna elettorale e neppure quando gli abbiamo dato i secondi 120mila o i terzi 100mila». Buzzi poi parla del sostegno ai tempi di Walter Veltroni: «Il sistema delle cooperative tirò fuori circa 150mila euro. Non erano soldi per vincere le gare. Era un riconoscimento all’attività dell’amministrazione Veltroni che aveva affidato alle cooperative sociali la manutenzione del verde dei parchi di Roma». E se ieri si è chiusa la lunghissima deposizione di Buzzi, oggi nell’aula bunker di Rebibbia, è il turno dell’imputato numero uno del processo, Massimo Carminati. L’ex membro della destra eversiva degli anni di piombo parlerà in video collegamento dal carcere di Parma ma, contrariamente a quanto successo fino a ora, il “cecato” già protagonista di un “saluto romano” durante un udienza non potrà venire ripreso dalle telecamere che dalle prime battute seguono il processo agli imputati di Mafia Capitale. È stato lo stesso Carminati a revocare l’autorizzazione. Secondo l’avvocato Ippolita Naso, uno dei difensori dell’imputato, il “nero” della banda delle Magliana «solo in parte parlerà del suo passato, lui intende rispondere a domande ben precise su fatti che gli sono stati contestati in questo dibattimento».
Vi racconto la vera storia di Salvatore Buzzi, scrive Lanfranco Caminiti i 21 luglio 2017 su "Il Dubbio". In carcere fondò la 29 giugno, cooperativa nata per il recupero dei detenuti. E lui stesso divenne «carne e sangue» di quella possibilità di un percorso di riabilitazione. Salvatore Buzzi è un criminale italiano. Dice così Wikipedia, e nella sua laconicità sembra non possa restare altro da dire. Eppure, d’essere «un criminale italiano», lo si potrebbe dire d’uno qualunque delle migliaia di detenuti, senza che la cosa faccia una piega. A Buzzi invece, Wikipedia resta stretto. È il 29 giugno 1984. I giornaloni italiani parlano della sinistra socialista all’attacco ma senza dichiarare guerra a Craxi; di un’intervista dell’onorevole Tina Anselmi in cui parla delle trame della P2 che fanno pensare al fascismo; di mille miliardi stanziati in Parlamento per ristrutturare in cinque anni gli aeroporti di Fiumicino e della Malpensa; del giallo del Dams, a Bologna, in cui è stata orrendamente assassinata, un anno prima, Francesca Alinovi critica d’arte emergente; dell’ex cancelliere Helmut Schmidt, ritiratosi da mesi dall’attività politica, che ha preso la parola al Bundestag per presentare un suo progetto sull’Europa. Non parlano di carcere. Nessuno scrive di carcere. «Le misure alternative alla detenzione e ruolo della comunità esterna». È il 29 giugno 1984, e questo è il titolo del convegno a Rebibbia. A ascoltare Salvatore Buzzi parlare del recupero di chi ha sbagliato ma non deve essere dimenticato ci sono sul palco il sindaco di Roma Ugo Vetere, il ministro della Giustizia Giuliano Vassalli e Nicolò Amato, direttore generale delle carceri. C’è lo Stato, insomma. In pompa magna. Nacque così la cooperativa 29 giugno, che è poi la data da cui per loro tutto ebbe inizio. 29 giugno 1984. Quel fatidico convegno. La prima cooperativa di detenuti in Italia ( e già Buzzi era stato il primo detenuto a laurearsi in cella: Lettere e filosofia, tesi su Vilfredo Pareto, 110 e lode). Un fiore all’occhiello, quella cooperativa, per l’amministrazione penitenziaria. Negli anni, centinaia di detenuti sono usciti dal carcere e hanno trovato forme di sussistenza e reinserimento per mezzo della cooperativa. La cooperativa che è stata al centro dell’indagine giudiziaria più comunemente nota come Mafia-Capitale. Nacque facendo bottiglie di pomodoro da rivendere, e poi pulendo gli spazi di Rebibbia e poi allargandosi piano piano. Una gran mano gliela diede Angiolo Marroni, comunista, che allora era vicepresidente della Provincia e che si costruì il resto della carriera politica, e anche quella del figlio, Umberto, poi deputato Pd – i carcerati hanno un sacco di familiari da far votare – su quelle iniziative dei detenuti, fino a diventare il loro Garante per la Regione Lazio, vita natural durante. Ruolo centrale per la destinazione di congrui fondi. La cooperativa 29 giugno entrò a far parte della rete della Lega delle cooperative, quella dove imperò Poletti, ora ministro del Lavoro. Un fiore all’occhiello per la Lega. Buzzi non viene dalla strada, non era un delinquentello di quartiere, anche se è nato alla Magliana, che ha imparato presto la dura legge della vita – mangia o sarai mangiato – e che è progressivamente cresciuto di rango e di reato. È figlio di una maestra e di un grande invalido: a vent’anni è già in banca a lavorare. È un mestiere d’oro, in quegli anni, il lavoro in banca: si guadagna tanto, rispetto i salari medi, un sogno. Ci facevano le canzoni, i nostri cantautori, per dire di come ci si potesse vendere l’anima, di come ci si potesse ridurre in mezzo a quel fiume di denaro. Ma per Buzzi le cose non sono esattamente così: in quel tenore di vita ci sguazza, anzi prova a accrescerlo con qualche “manovrina”. Un gioco di assegni rubati che passa a un pischello di vent’anni ma già svelto di mano e d’ingegno: solo che il pischello si mette a ricattarlo – quella macchinona di Buzzi, come avrà fatto a comprarsela? E tutti quei regali e quelle cene con la giovane brasiliana, come può permettersele? I due si incontrano per un chiarimento definitivo, il pischello ci va armato – almeno è così che la racconta poi Buzzi – una colluttazione, e Buzzi che colpisce e colpisce e colpisce. Trentaquattro coltellate, risultano tante quando le contano. Una storiaccia. Pena complessiva: anni 14 e mesi 8 di reclusione per i reati di omicidio e calunnia. È il 26 giugno 1980. Tre anni dopo, si laurea. E un anno dopo organizza il convegno di Rebibbia. Deve avere del sale in zucca, Buzzi, oltre a essere «un criminale italiano». Per capire il convegno di Rebibbia e tutto quello che venne dopo bisogna capire cosa succedeva dentro le carceri negli anni Ottanta del secolo scorso. Una massa di detenuti politici (che tali non furono mai considerati) e di detenuti politicizzatisi, attraverso le rivolte degli anni Sessanta e Settanta e il lavoro della sinistra extraparlamentare prima e dei Nap dopo, e condizioni di vita sempre più restrittive, a fronte di una popolazione detenuta che aumentava. Si evadeva, si progettavano rivolte, si sparava per le strade. Persino agli architetti delle carceri sparavano. Eppure, invece di puntare a una maggiore militarizzazione e con una opinione pubblica sgomenta e disponibile forse a un discorso ancora più repressivo, ci fu un parlamentare, uno spirito cattolico inquieto e fermo, che riuscì a ribaltare il punto di vista: si chiamava Mario Gozzini. Bisognava allentare la presa, non c’era altro modo per uscire da quella spirale viziosa, più repressione più violenza più repressione. C’era tutta un’area di detenuti politici – quelli dell’Area omogenea di Rebibbia, che cercavano di sfuggire alla tenaglia Brigate rosse/ Stato – che si incontravano con parlamentari di vario segno politico, producevano documenti per convegni, ragionavano sulle possibilità di “socializzare il carcere”. Gozzini non voleva «l’umanizzazione del carcere» – un concetto orrendo –, piuttosto puntava a dare valore e attuazione all’articolo 27 della Costituzione, laddove dice che la pena è rieducativa. E così, la Gozzini (legge 10 ottobre 1986, numero 663), intervenne su permessi premio, l’affidamento al servizio sociale, la detenzione domiciliare, la semilibertà, la libertà condizionale, la liberazione anticipata. Insomma, allentò la presa. È nella formazione di questo quadro normativo e istituzionale che nacque la cooperativa 29 giugno di Salvatore Buzzi. Lui stesso divenne «carne e sangue» di quella possibilità di un percorso di riabilitazione. Il resto è cronaca giudiziaria e politica.
Massimo Carminati, il non-boss della non-mafia, scrive Paolo Delgado il 21 luglio 2017 su "Il Dubbio". Di “materiale” contro l’ex Nar ce n’è in abbondanza, ma del tutto insufficiente per chiamare in causa l’onorata società e presentarlo come un capo clan. No, Massimo Carminati non è la versione borgatara di don Totò Riina. La condanna comminata a Roma è pesantissima, sul quanto reggerà al secondo e terzo grado si accettano scommesse. Ma sta di fatto che la vera posta in gioco di questo processo, che non erano le condanne scontate in partenza ma la conferma della “mafiosità” degli associati la porta a casa il Cecato. In aula Carminati ha fatto e anche un po’ strafatto con la palese intenzione di dipingersi come un qualsiasi coatto della serie “teneteme che l’ammazzo”, un tipo pericoloso certo, ma niente a che vedere con i don di Cosa nostra e con il loro ben diverso stile. Era anche quella una recita. Carminati non viene dai casermoni della periferia romana ma dalle palazzine bene di Roma nord, e proprio per questo nella banda della Magliana c’era chi lo guardava storto. Fabiola Moretti, compagna prima di Danilo Abbruciati poi di Antonio Mancini, raccontava che a lei quel ragazzo per bene che non aveva scelto il crimine per bisogno ma per ideologia proprio non andava giù. Qualcosa di ideologico, nella biografia del ragazzo di buona famiglia che già sui banchi del liceo confidava al compagno di classe Valerio Fioravanti di voler «violare tutti gli articoli del codice penale», c’è davvero: quella sorta di non- riconoscimento dello Stato democratico, che soprattutto nei ‘ 70, aveva portato al formarsi di una vera area di sovrapposizione nella quale s’incontravano fascisti affascinati dal crimine e banditi doc ma col cuore nero, come lo stesso Abbruciati, o come il solo vero capo della “bandaccia”, Franco Giuseppucci “er negro”. I pentiti della Magliana, Mancini e Maurizio Abbatino, sono stati negli ultimi anni tra i più decisi nell’accreditare la versione della procura di Roma. Hanno rilasciato interviste a raffica accusando Carminati di essere proprio quel boss dei boss che emergeva dalle migliaia di pagine dell’atto d’accusa. Elementi concreti però non ne hanno mai prodotti e i loro racconti confermano quel che già si sapeva. Massimo Carminati era certamente limitrofo alla Banda, soprattutto tramite Giuseppucci di cui era amico, e si è trovato di conseguenza coinvolto in una serie di fattacci: indipendentemente dalle condanne i pentiti hanno parlato del tentato omicidio di Mario Proietti “Palle d’oro”, per vendicare l’uccisione di Giuseppucci, di un’esecuzione, dell’intervento del Cecato per tirare fuori dai guai il fascista Paolo Andriani, reo di aver “perso” un carico d’armi della banda. Ma è il quadro appunto di un irregolare vicino alla banda, non di un associato e ancora meno di un boss. La stessa cosa si può dire dei Nar, l’altra banda, in questo caso terrorista, che figura a lettere fluorescenti nel pedigree di Carminati. Che fossero amici e camerati è certo. La contiguità non ha bisogno di essere provata e in fondo l’occhio perso che gli è valso il soprannome, il Cecato lo deve proprio alla vicinanza con i Nar. Gli agenti appostati al valico del Gaggiolo, il 20 aprile 1981, aprirono il fuoco contro la macchina nella quale viaggiavano, diretti clandestinamente in Svizzera, Carminati e i due neri Mimmo Magnetta e Alfredo Graniti proprio perché convinti che su quell’auto ci fosse Francesca Mambro. Lo ammisero candidamente al processo e la giustificazione valse un’assoluzione piena. Ma di vere e proprie azioni con i Nar agli atti ne risulta una sola, la rapina miliardaria alla Chase Manhattan Bank del 27 novembre 1979. Ma l’aspetto più sbalorditivo della «straordinaria caratura criminale» del non- boss della non- mafia romana va cercato, più che nelle molto citate frequentazioni dei ruggenti anni ‘ 70, nel silenzio dei decenni successivi. Carminati esce di scena fino al 1999, quando organizza la rapina al caveau del palazzo di giustizia di Roma. Il colpo frutta 18 mld di vecchie lire ma vengono svaligiate anche 147 cassette di sicurezza. Secondo i giornalisti corifei della procura di Roma il vero obiettivo del colpaccio erano proprio quei documenti, che avrebbero permesso a Carminati di ricattare mezzo palazzo di Giustizia. A prenderla sul serio bisognerebbe concludere che nella Capitale il marcio alligna soprattutto da quelle parti: 150 magistrati con segreti tali da essere esposti a ogni sorta di ricatto meriterebbero in effetti l’avvio di una maxi- inchiesta Mafia- Palazzaccio. Complotti a parte, tutto indica che in quei decenni di silenzio, prima e dopo il colpo al caveau, Carminati abbia continuato a percorrere la strada che si era scelto da ragazzo. Le intercettazioni ambientali squadernate nel processo indicano senza dubbio una fiorente attività di “recupero crediti”. Confermano che l’ex fascista con un occhio solo ha sempre continuato a bazzicare la malavita romana, nella quale è altrettanto indiscutibilmente una figura di rispetto. Molto probabilmente è entrato in contatto con l’una o l’altra delle organizzazioni criminali propriamente dette che convivono nella Capitale, qualche volta rischiando la collisione, più spesso accontentandosi della spartizione. Materiale abbondante per parlare di un bandito, come del resto Carminati non esita a definirsi. Insufficiente per chiamare in causa l’onorata società e per fare di Massimo Carminati, già fascista, sodale della banda della Magliana, miliziano con la destra maronita in Libano, più volte detenuto, il gemello diverso di don Corleone.
Le tre vite di Massimo Carminati. Il Nero militante nei gruppi eversivi dell'estrema destra. Il bandito della Magliana autore del colpo al caveau della Banca di Roma. E infine il re del Mondo di mezzo. L'ascesa e la caduta di un criminale che ha attraversato quarant'anni della storia d'Italia. E i suoi misteri, scrive Carlo Bonini il 21 luglio 2017 su "la Repubblica". Si dice che nei numeri sia scritto un destino. Ed è il Tre che accompagna quello di Massimo Carminati. Tre vite. Tre maschere. Tre mondi. "Di Sopra". "Di Mezzo". "Di sotto". Le terzine della Divina Commedia, Canto XXIV dell'Inferno. Quelle con con cui l'avvocato Giosuè Naso apre l'arringa nell'ultima difesa nel processo "Mafia Capitale". Le stesse, spese nell'agosto del 1999, di fronte alla Corte di Assise di Perugia. Il collegio che avrebbe assolto Carminati dall'accusa di essere l'esecutore materiale dell'omicidio di Mino Pecorelli, il direttore di Op, foglio di ricatti e veline dell'Italia di Giulio Andreotti, di Gladio, dell'eversione armata, del Paese a sovranità limitata. Un altro secolo per davvero. Lo duca e io per quel cammino ascoso intrammo a ritornar nel chiaro mondo; e sanza cura aver d'alcun riposo, salimmo sù, ei primo e io secondo, tanto ch'ì vidi de le cose belle che porta 'l ciel, per un pertugio tondo. E quindi uscimmo a riveder le stelle. Ma chi è dunque e davvero Massimo Carminati?
PROLOGO. IL NERO. O DELLA PRIMA VITA. 20 Aprile 1981 - Valico del Gaggiolo. Confine italo- svizzero. La Renault 5 azzurra si avvicinò al valico a fari spenti. Nel bagagliaio, una sacca con 25 milioni di lire in contanti e tre diamanti. All'interno dell'abitacolo, si indovinavano a malapena tre sagome scure. Tre camerati. Chi li aspettava nascosto nel buio, pensò che, forse, il momento fosse davvero arrivato. Quella notte, i poliziotti della Digos di Roma avrebbero chiuso la partita con quel che restava dei Nuclei armati rivoluzionari (Nar), la sigla dell'eversione nera che, in quattro anni, si era macchiata del sangue di trentatré innocenti e cancellato (2 agosto 1980) le vite di ottantacinque tra donne, bambini, uomini nella strage alla stazione di Bologna. Sì, quella notte sarebbe stata la notte. O, almeno, di questo era convinto chi osservava quelle tre ombre nell'auto. Cercavano una donna e due uomini in fuga. Francesca Mambro, Giorgio Vale, Gilberto Cavallini. Quel che restava della testa dell'organizzazione dopo l'arresto di Valerio Fioravanti, "Giusva", il capo dei Nar, e il pentimento di suo fratello Cristiano. Ma non sarebbe andata così. Su quella Renault erano sì tre "neri". Ma di ben altro peso specifico. Sui sedili anteriori, Domenico Magnetta e Alfredo Graniti. Su quello posteriore, Massimo Carminati. Aveva solo 23 anni. Ma il cuore indurito di un vecchio. Perché aveva visto uccidere, perché aveva dimestichezza con il piombo e la violenza. E perché, avrebbe detto tredici anni dopo qualcuno che lo conosceva bene, Antonio Mancini, l'" Accattone" della Banda della Magliana, anche lui aveva dato la morte. " Fu Massimo Carminati a sparare a Mino Pecorelli insieme ad Angiolino il biondo (il mafioso siculo Michelangelo La Barbera, ndr.). Il delitto era servito alla Banda della Magliana per favorire la crescita del gruppo, favorendo entrature negli ambienti giudiziari, finanziari, romani. Quelli che detenevano il potere". Massimo Carminati era nato borghese, il 31 maggio del 1958 a Milano. Ed era cresciuto nelle strade di Roma. Le scuole private nel quartiere di Monteverde, l'amicizia indissolubile con chi - Alessandro Alibrandi, Franco Anselmi, Valerio Fioravanti - insieme a lui si divideva tra le aule dell'Istituto paritario monsignor Tozzi, le sedi del Movimento sociale italiano, la militanza nel Fuan, il fronte studentesco della destra missina. Tra scontri di piazza, pestaggi, rapine di autofinanziamento. In nome dell'Idea. Ammesso si potesse chiamare così. Carminati scappava, in quella notte di aprile. Da un mandato di cattura per partecipazione a banda armata. Il primo della sua vita. Da una storia, la sua, ancora acerba eppure già intrisa di violenza, che il Paese avrebbe conosciuto un po' alla volta. E mai fino in fondo. Nella sua relazione di servizio, la Digos annotò che vennero esplose raffiche di mitra - oltre centoquaranta colpi - che investirono il fianco sinistro della Renault, risparmiando Magnetta e Graniti. Non Carminati. Un proiettile perforò uno dei finestrini e continuò la sua corsa verso il cranio di quel ragazzo. Gli entrò nell'orecchio e gli portò via l'occhio sinistro. Sostiene oggi l'avvocato Giosué Naso che non andò così. Che aspettavano proprio lui, quella notte. Il "ragazzino di Monteverde". Che doveva essere un'esecuzione utile a mettere a posto uno dei tanti doppi fondi di un Paese a sovranità limitata, intossicato da apparati dalla doppia obbedienza, non necessariamente repubblicana. "Ma quale conflitto a fuoco. Quella notte gli spararono in faccia mentre era armato di una patente falsa. Carminati scese dalla macchina con le braccia alzate. I poliziotti gli andarono di fronte e a bruciapelo gli spararono in faccia. Ecco come andarono le cose. Era caduto nel trabocchetto che gli aveva teso Cristiano Fioravanti. Si era pentito e aveva indicato ai camerati i passaggi per il valico del Gaggiolo, facendogli credere che non fosse controllato. In realtà, Cristiano Fioravanti parlava su indicazione degli agenti della Digos di Roma che si sarebbero fatti trovare là. E che gli avrebbero sparato. E sapete perché? Perché Massimo Carminati doveva morire. E sapete perché doveva morire? Perché doveva diventare, da morto, l'autore materiale della strage di Bologna. Questa è la verità. Quella vera. Se volete cercare rapporti equivoci con le Istituzioni e quant'altro, cercate in quella direzione".
Il BANDITO. O DELLA SECONDA VITA. 1977-1981, Roma. Eppure è una creatura anfibia, Massimo Carminati. La notte dell'aprile 1981 in cui perde l'occhio sinistro e la libertà non è già più soltanto il Nero. Ma un'altra cosa. Perché la maschera del militante dell'eversione armata ha il suo reciproco nella tracotanza del bandito di strada. Nel più banale, forse, ma assai più concreto, "se pijamo Roma" della Banda che ha messo insieme Franco Giuseppucci. Il "Negro". "Libano", se si preferisce, o per chi avesse più dimestichezza con l'epica di Romanzo Criminale piuttosto che con gli atti dei processi di quel tempo lontano. Perché la Banda, la Banda della Magliana, se non altro, vive dell'equità della "stecca para", del bottino di rapine diviso in parti uguali. Di belle macchine, belle fiche, di rispetto e, soprattutto, di una montagna di grano. E non, come pretende qualche sacerdote dell'ortodossia nera, che a chi infila la testa in un passamontagna e una 7.65 nei jeans spetti un'elemosina, mentre il grosso della torta serva a finanziare l'Idea. Per carità, lui, Carminati, oggi la smoscia. In un album di famiglia da ragazzi della via Pal. "Io facevo politica. Ma poi la politica ha smesso di essere politica ed è diventata criminalità politica. Perché c'era una guerra a bassa intensità. Prima con la Sinistra e poi con lo Stato. Il "Negro" era il Capo. Era l'unico vero della Banda della Magliana. Era un mio caro amico. Abitava davanti a casa mia. Ci conoscevamo da una vita. Lui ce rompeva er cazzo. Se pijiavamo per culo tutto il giorno. Me faceva: "E daje, vieni cò noi". E io: "Ma sai che cazzo me frega". Insomma, c'era un grande rapporto di amicizia e io conoscevo tutti gli altri. Quando l'hanno ammazzato m'è dispiaciuto. Insomma, ho avuto rapporti cò tutti 'sti altri cialtroni. Ma loro vendevano la droga e io la droga non l'ho mai venduta. Io schioppavo dieci banche al mese". "Sai che cazzo me ne frega", dunque. Sarà. Antonio Mancini, l'Accattone in quella Banda, la ricorda in un altro modo. Oggi ha settant'anni, vive a Jesi, ha chiuso i conti con la giustizia penale e assiste disabili. "Carminati? Era un tipo taciturno. Sapeva parlare l'italiano. Era istruito. Mica uno sbruffone come quegli altri fascistelli dei fratelli Fioravanti. Renato De Pedis lo portava in palmo di mano. E non solo lui. Carminati era diventato l'armiere della Banda. Era l'unico del gruppo dei Testaccini che poteva entrare e uscire dal deposito di armi che avevamo nei sotterranei del ministero della Sanità all'Eur". Quello, tanto per dire, da cui sarebbe uscito il lotto di proiettili Gevelot utilizzati per uccidere Mino Pecorelli il 20 marzo 1979. Nonché uno dei due mitragliatori Mab che verranno ritrovati su un treno Taranto-Milano dove, per ordine degli allora ufficiali del Sismi (il Servizio segreto militare) Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte, entrambi iscritti alla loggia P2, erano stati collocati per indirizzare le indagini sulle responsabilità della strage di Bologna verso una fantomatica, quanto artefatta, "pista estera". Già. "Sai che cazzo me ne frega". Può darsi. E può anche darsi che il 13 settembre del 1980, giorno in cui i Proietti, "il clan dei Pesciaroli" di Monteverde, ammazzarono Franco Giuseppucci, er Negro, Carminati "si dispiacque molto" e basta. Ma anche qui, Mancini ha altri ricordi. "Ero stato messo in squadra con Carminati. Dovevamo prendere vivo uno dei fratelli Proietti e torturarlo per farci dire come erano andate le cose con Giuseppucci. Non riuscimmo. Ma Carminati li inseguì per strada con la pistola in pugno". Per la cronaca: i due Proietti che avevano ammazzato in piazza San Cosimato il Negro finirono anche loro agli alberi pizzuti. Il 16 marzo del 1981, Maurizio, "Il Pescetto". Il 30 giugno del 1982, Ferdinando, il "Pugile". E chi del clan ebbe la fortuna di sopravvivere perse la voglia di coltivarne anche solo la memoria.
PORTE GIREVOLI. O DELL'IMPUNITÀ. 1987-2001, Roma. Se è vero che, in quella seconda metà degli anni '70, la Banda della Magliana è un'agenzia del crimine che un pezzo dello Stato e dei suoi apparati deviati utilizzano per i lavori sporchi, per l'indicibile, beh è esattamente allora che Massimo Carminati l'anfibio, il "Nero" e il "Bandito", afferra le chiavi della sua impunità. Getta le fondamenta su cui costruisce l'Epica che diventerà lo specchio del suo narcisismo. Acquisisce il carburante della forza di intimidazione che la semplice pronuncia del suo nome produce sul marciapiede e nei Palazzi. Non fosse altro perché nella grana di ricatti, di verità impronunciabili anche solo plausibili o immaginabili, l'allusione vale quanto e più di una minaccia. Soprattutto, le cambiali non possono non essere onorate. E lui, dunque, sono gli anni '80 e '90, attraversa le patrie galere con la strafottente leggerezza di chi è certo di non dovervi trascorrere un tempo poi così lungo. Nell'aprile del 1987 viene condannato in via definitiva a tre anni e mezzo di reclusione per la rapina alla filiale della Chase Manhattan Bank di Roma (27 novembre del 1979), di cui sconta le briciole. Grazie a due indulti e ad una "riconosciuta rieducazione". Nel 1988, a Milano, la Corte di Appello lo sfiora appena con otto mesi di reclusione per ricettazione. Coperti dall'indulto del 1991. In quello stesso anno, a Roma, prende un anno e sei mesi per rapina, detenzione e porto illegale di armi. Ma non ne sconta un giorno per l'indulto intervenuto nell'anno precedente. È un uomo fortunato, Massimo Carminati. Non c'è che dire. La giustizia, quando arriva, arriva tardi. Dopo un indulto, appunto. Ricorrente come i condoni fiscali ed edilizi. O a babbo morto. Quando i ricordi di chi lo accusa si fanno improvvisamente sfocati e le fonti di prova si scoprono friabili, il che aiuta la generosa tolleranza di chi lo giudica senza chiedersi mai come sia possibile che quel tipo con un solo occhio salti fuori ovunque. Succede con il maxi processo che, nel 1995, trascina nelle gabbie chi della Banda della Magliana (sessantanove imputati) ha fatto parte e le è sopravvissuto. Per Carminati, l'accusa chiede venticinque anni di reclusione per associazione mafiosa. Ne prende meno della metà: dieci. Che diventano sei anni e sei mesi in Appello, quando l'aggravante mafiosa cade. E lui, è il 2006, quando gli viene revocata anche la libertà vigilata, con quella pagina di storia può serenamente dire di aver dunque definitivamente chiuso. Nell'aprile del 1999, da imputato a piede libero, nell'aula bunker del carcere di Capanne, ascolta la pubblica accusa chiedere la sua condanna all'ergastolo quale esecutore materiale dell'omicidio di Mino Pecorelli. A settembre di quell'anno, la Corte di Assise di Perugia lo assolve dall'accusa "per non aver commesso il fatto". Un anno dopo, dicembre del 2000, si libera anche del fantasma dell'omicidio di Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci, "Fausto e Iaio", due militanti della sinistra extraparlamentare uccisi a Milano il 18 marzo del 1978. Di quell'omicidio, alla fine di un'inchiesta durata soltanto 22 anni, è accusato di essere l'esecutore materiale insieme a due ex camerati. Claudio Bracci e Mario Corsi, detto "Marione". Un tipo che, quando l'aria si è fatta greve, ha svernato nell'esilio inglese dove negli anni '80 e '90 molti neri hanno trovato rifugio e impunità e che si è reinventato opinion maker, si fa per dire, nel mondo delle radio libere romane che campano di Roma, intesa come As Roma calcio, usando il microfono come un manganello. Anche per "Fausto e Iaio" viene assolto, come i suoi due compari. Perché è vero che gli indizi sono "significativi", ma restano pur sempre indizi che il tempo, un quarto di secolo, rende incapaci di farsi prova. Il 21 dicembre del 2001, poi, evapora anche il coinvolgimento nel depistaggio delle indagini sulla strage di Bologna. La storia del Mab uscito dall'arsenale del ministero della Sanità. Per quella faccenda, è accusato di calunnia aggravata, detenzione e porto di armi clandestine ed esplosivi. Ebbene, la Corte di Assise di Appello di Bologna conclude che dalla prima debba essere assolto "perché il fatto non sussiste". E dalle seconde - sono passati ormai 20 anni - perché la prescrizione è arrivata prima di una sentenza definitiva.
IL FURTO AL CAVEAU. O DELLA NUOVA VITA. Roma-Perugia. Estate 1999 - Aprile 2010. Si capisce, dunque, perché nell'estate del 1999 Carminati si rimetta al lavoro. Per ricostruire il suo capitale. Di denaro, da cui è ossessionato, e di ricatti. Nella notte tra il 16 e il 17 luglio, con una banda di scassinatori che conta anche qualche vecchio arnese della Magliana e, soprattutto, la complicità di quattro carabinieri addetti alla sorveglianza degli uffici giudiziari di Piazzale Clodio, svuota le cassette di sicurezza della filiale interna della Banca di Roma. Ma non tutte. Di 900 che ne conta il caveau, ne vengono aperte solo 147. Quelle scelte da Massimo Carminati e che Carminati ha annotato su un appunto che porta con sé. Spariscono almeno 18 miliardi tra valori contanti e gioielli. Una fortuna. Spariscono, soprattutto, carte che in quelle cassette erano custodite. E che appartengono a magistrati (se ne contano ventidue), avvocati (cinquantacinque), cancellieri (cinque), oltre a dipendenti del tribunale (diciassette), imprenditori, liberi professionisti. E di cui nessuno, curiosamente, si affanna a chiedere o chiederà mai conto. Né nella fase delle indagini preliminari, né in quella del processo quando, una volta accertati i responsabili, non una delle vittime del furto si costituirà parte civile. E per una sola plausibile ragione. Che non si chiede conto di qualcosa di cui è meglio si ignori l'esistenza o di cui si farebbe fatica a giustificare la provenienza. "Ma quale lista? Ma quale ricatto? Furono aperte solo le cassette di sicurezza che non reggevano al primo impatto. Banalmente, chi fece la rapina aveva fretta. Non c'era tempo per aprirle tutte", ricostruisce l'avvocato Giosué Naso raccontando quel colpo come una scampagnata, per altro funestata da un cambio di programma - "Il piano prevedeva di svuotare l'agenzia interna della Corte di Cassazione e si ripiegò sugli uffici del tribunale, perché lì i turni di guardia, almeno quelli in programma, consentivano di avere più tempo. Cosa che per altro poi non si verificò " - e di cui, soprattutto, non si comprenderebbe la suggestione. "Vogliamo forse dire che tra i derubati vi fossero persone che consentono di avere il sospetto che si trattasse di uomini ricattabili o che custodissero segreti inconfessabili? Vogliamo forse dire questo di quel galantuomo che sarebbe stato il futuro presidente della Corte Costituzionale, Giorgio Lattanzi? O dell'ex commissario antimafia Domenico Sica? Vogliamo scherzare?". Nessuno ha voglia di metterla all'ingrosso, né di scherzare. Sicuramente non ne aveva Massimo Carminati. Sicuramente non lo presero come uno scherzo alcune delle vittime di quel furto. Magistrati come Orazio Savia, per dirne una, ex pm che nel 1997 sarebbe stato arrestato e condannato per corruzione. E forse neppure lo stesso Sica. Che fu, certo, Commissario antimafia, ma anche il magistrato che scippò l'indagine P2 alla Procura di Milano per condurla sul binario morto degli uffici giudiziari di Roma. Il "Porto delle nebbie", come era stato ribattezzato per lustri. L'approdo sicuro, la stanza di compensazione, che godeva di un "rito alternativo", non scritto, compatibile con le alchimie del Potere. E che aveva visto amministrare giustizia magistrati come Claudio Vitalone, pm dal 1966 al 1979, quindi sostituto procuratore generale presso la Corte di Appello, creatura di Giulio Andreotti, con cui avrebbe condiviso, da deputato, l'appartenenza alla Dc e, da imputato, il processo per l'omicidio Pecorelli. Da cui, come Andreotti e come Carminati, sarebbe uscito assolto. È un fatto che il processo per i responsabili del colpo al caveau, a cominciare da Carminati, il suo architetto, abbia una curiosa parabola. Si celebra a Perugia, tribunale competente perché tra le vittime del reato figurano appunto magistrati del distretto di Corte di Appello di Roma. Ma qui, molti testimoni smarriscono la memoria. Il principale e unico reo confesso, il "cassettaro" Vincenzo Facchini, si rifiuta di fare persino il nome di Carminati. "Ma che domande mi fa? Lei mi vuole forse far mettere la testa sulla ghigliottina", dice allora al giovanissimo pm Mario Palazzi che lo interroga. Per giunta, per almeno un mese, i carabinieri effettuano indagini sui responsabili del furto lasciando all'oscuro i pubblici ministeri. E per ragioni che non verranno mai chiarite in nessuna sede. La storia finisce, dunque, come è scritto che finisca. E come, in un recente libro (La Lista: il ricatto alla Repubblica di Massimo Carminati, Rizzoli), ha ricostruito nel dettaglio Lirio Abbate. Il 2 aprile del 2005, Massimo Carminati viene condannato a quattro anni di reclusione. Sentenza che diventa definitiva nell'aprile del 2010 e che di fatto viene cancellata dall'indulto votato l'anno successivo dal Parlamento. Carminati salda i conti con sei mesi di affidamento in prova ai servizi sociali. Nel 2012, la sua pena è estinta. Una nuova vita può cominciare.
DI SOPRA, DI SOTTO, DI MEZZO. O DEI TRE MONDI. Roma, 2012-2014. Nel 2012, l'aria che Massimo Carminati respira da uomo liberato dalla sua ultima coda giudiziaria, deve apparirgli luminosa, frizzante. È "un bell'incensurato", dice. Gli hanno restituito il passaporto. Può viaggiare. E andare a Londra "per incontrare vecchi amici che non vedevo da secoli". Non ha nemmeno sessant'anni ed è pronto per la sua terza vita. Che è la sintesi sublime delle prime due. Con il vantaggio della maturità, del prestigio del Capo, del disincanto. Che oscilla incessantemente tra cinismo e narcisismo. Che gli consente di guardare dritto negli occhi campioni delle nuove e vecchie mafie, come il boss di Camorra Michele Senese, un altro che la galera, dove pure dovrebbe stare, non sa cosa sia. Il '900 è finito e ha divorziato dall'Idea, Massimo Carminati. E anche dall'obbligo di sporcarsi le mani. Perché qualcun altro lo fa per lui. Ma non ha mollato la strada, né deroga dalle sue regole ferree. Coltiva piuttosto l'ambizione canuta di immaginare una vita diversa per suo figlio, e un reimpiego dei soldi che ragionevolmente nasconde in Inghilterra, investiti nel mattone e garantiti da vecchi camerati che da quel Paese non sono più tornati. Ha soprattutto un patrimonio di relazioni, quello dei "vent'anni", della sua prima vita, da spendere. Perché i camerati di allora non si sono soltanto fatti vecchi come lui. Hanno camminato e rimontato il vento della Storia. Sono usciti dalle "fogne". E il purgatorio del post-fascismo è stata tutto sommato una passeggiata. Come indossare le grisaglie del Potere. Le porte del governo del Paese si sono aperte presto, molto prima di quanto potesse immaginare. E ora sono lì, con le leve del comando strette tra le mani. Nelle grandi aziende di Stato, come Finmeccanica. Nel governo della Capitale e del Paese. Quindi ora tocca a lui. Anche a lui. Che ha un vantaggio. Non potranno negargli una sedia al tavolo imbandito. Perché ha diritto a sfamarsi quanto gli altri. E soprattutto perché lui ha afferrato prima degli altri la regola millenaria che governa le cose degli uomini. Sicuramente quelle di Roma. Dalla notte dei tempi. La parabola dei tre Mondi. Non fosse altro perché di uno di quei mondi, il più importante, è padrone. "Ci stanno i vivi sopra, e i morti sotto. E poi ci siamo noi, che stiamo nel mezzo. Un mondo in cui tutti si incontrano. E tu dici: "Cazzo, com'è possibile che quello... Che un domani io posso stare a cena con Berlusconi.... Capito? Il Mondo di Mezzo è quello dove tutto si incontra... Si incontrano tutti là... Allora, nel Mezzo, anche la persona che è nel sovramondo ha interesse che qualcuno del sottomondo gli faccia delle cose che non può fare nessuno... E tutto si mischia". L'assunto ha un corollario. "Noi dobbiamo intervenire prima. Non si può fare più come una volta. Che noi arriviamo e facciamo i recuperi. A noi non ci interessa più. Cioè, questi devono essere nostri esecutori... Devono lavorare per noi. Deve essere un rapporto paritario. Dall'amicizia deve nascere un discorso che facciamo affari insieme. Perché tanto, nella strada, comandiamo sempre noi. Non comanderà mai uno come loro sulla strada. Avranno sempre bisogno di me". È un esito, quello di Massimo Carminati, che suggerisce a Otello Lupacchini, magistrato, giudice istruttore del processo al Banda della Magliana, considerazioni dotte e insieme fulminanti. Che consegna al suo blog sul Fattoquotidiano.it. Scrive Lupacchini: "Werner Sombart, economista e sociologo, capocorrente della nuova scuola storica tedesca e uno tra i maggiori autori europei del primo quarto del XX secolo nel campo delle scienze sociali, a proposito dei "magnati dei grandi trust americani", diceva: "Sono filibustieri e calcolatori furbissimi. Signorotti feudali e speculatori insieme". Questa definizione può valere, mutatis mutandis, anche per Massimo Carminati. Che con i super imprenditori capitalisti sembra condividere l'abito mentale fondato su uno strano spostamento di posizione dell'uomo. Infatti, l'uomo vivo, con il suo bene e il suo male, con le sue esigenze e i suoi bisogni, è stato respinto dal centro dell'interesse e il suo posto è stato preso da un paio di astrazioni: il guadagno e l'affare (...) Per Massimo Carminati, ogni attività viene ridotta a pura e semplice agenzia di servizi, finalizzata a implementare le reti clientelari che sono la vera fonte dell'arricchimento speculativo". Dall'Agenzia del Crimine a quella di Servizi. In una coerenza che non ha smarrito per strada la forza dell'intimidazione. Piuttosto l'ha messa a reddito.
BUZZI, MANCINI&CO. O DEL NUOVO PANTHEON. Roma. 2012-2014. Nel nuovo Pantheon di Massimo Carminati non c'è dunque bisogno - e non c'è spazio, soprattutto - per figure eroiche. Il Mondo di Mezzo non chiede né Epica, né il nichilismo dell'Idea. Al contrario. Chiede mani svelte, furbizia, menzogna, ferocia. Chiede un tipo come Salvatore Buzzi. Il "Rosso", si fa per dire. Assassino riabilitato. Esempio luminoso di una Giustizia e di un carcere che recupera e non affida a una discarica. Un insostenibile logorroico, spesso petulante, millantatore, pecora con i lupi e lupo con le pecore. Campione, con la sua cooperativa sociale XXIX Giugno, di un terzo settore senza il quale il welfare del nostro tempo e delle nostre città va a sbattere. Alloggi e assistenza ai migranti. Campi Rom. Servizio di manutenzione dei giardini, assistenza ai disabili. "Un business che rende più della droga". Quella che Carminati non tocca. Ma con cui, se capita, Carminati fa felice qualche amico che ci lavora, che se la pippa o che semplicemente ci guadagna. Il rapporto tra il "Rosso" e il "Nero" è impari. E non soltanto perché Buzzi è un debole, un adulatore, un cane pastore che si crede furbissimo, ma furbissimo non è. E che sempre di un padrone ha bisogno, Massimo Carminati. Ma perché nel vincolo tra i due è scritto il codice genetico di Mafia Capitale. La sua ragione sociale. L'uno, Buzzi, mette lavoro, capitale umano e finanziario, vent'anni di commesse all'ombra di antichi padrini politici che non contano più come un tempo, fondi neri per ungere le ruote di una politica vorace e di un'amministrazione pubblica tanto fradicia quanto miserabile nelle sue richieste pitocche (un'assunzione in cooperativa, un appartamentino, un posto da impiegati allo zoo comunale) e che, per giunta, vorrebbe continuare a "mungere la mucca" (Buzzi) senza "farla magna'". L'altro, Carminati, mette il peso del suo nome. Quello che evoca e che può muovere sulla strada. La sua rete di relazioni. I camerati che non gli possono dire di "no". E che a Buzzi servono come l'aria, se non vuole morire annaspando. Se vuole lavorare. "Quattro ladri di polli che sparavano cazzate ai tavolini di un bar", dice l'avvocato Giosué Naso. "La Mafia del benzinaro" di Corso Francia, chiosa sarcastico lui, Carminati. Che aggiunge: "Io sono solo un vecchio fascista degli anni '70. Contento di esserlo. Perché noi, quelli della comunità degli anni '70, la pensavamo in un certo modo e continuiamo a pensarla allo stesso modo. Non accannare la gente in mezzo alla strada. Non accannare gli amici. Sono i valori di quando eravamo ragazzi e sono i migliori che ci sono rimasti". Chi sa cosa ne pensa Riccardo Mancini. Il "camerata Mancini". Compagno di batterie e di rapine nei "magnifici '70", è il primo alla cui porta bussa il riabilitato Carminati dopo essersi liberato della seccatura della condanna per il caveau. Lo deve far lavorare. E farlo lavorare significa saldare le pendenze con la cooperativa di Buzzi, che ora è suo "socio". Non è un piacere quello che chiede. È un ordine. Perché lui, Mancini, può far credere al mondo intero quello che vuole. Magari di essere diverso soltanto perché è stato la tasca di Gianni Alemanno, nuovo sindaco di Roma, e con Alemanno è arrivato in Paradiso. Tesoriere della Fondazione Nuova Italia, amministratore delegato dell'ente Eur spa. Ma lui sa bene che non è mai cambiato. Che è rimasto quello dei 20 anni. Un tipo che bussa a quattrini per l'appalto cui la Breda Menarini concorre per la fornitura di filobus. E, soprattutto, che sa che a Massimo "no" non glielo dici. Altrimenti, quello, "ti fa strillare come un'aquila". Riccardo Mancini, Salvatore Buzzi. E non solo. Nel Pantheon della terza vita Massimo Carminati incrocia un variopinto campionario di tipi umani che condividono la stessa dannazione del Capo a cui si sono fatti subalterni e a cui baciano l'anello. Ma senza spartirne l'orizzonte. Sono tutti "amici", dicono di loro. "Si vogliono bene", e chi sa se davvero lo hanno mai pensato. Perché la verità è che sul proscenio di Mafia Capitale, Riccardo Brugia, Franco Testa, Luca Gramazio, Franco Panzironi, Luca Odevaine, Roberto Lacopo, Matteo Calvio sono comparse fungibili di un canovaccio dove la parola "amicizia" conosce sempre una sola declinazione e significato: "Ritorno". Dove nessuno si muove per nulla. E ce ne deve essere per tutti. Perché, e questo lo dice quel saggio di Buzzi, "una mano lava l'altra e due lavano il viso".
L'ESAME DELL'IMPUTATO. O DELLE MASCHERE. 29-30 Marzo 2017 - Roma Aula Bunker Carcere di Rebibbia. Per due anni, dall'isolamento del 41 bis del carcere di Parma, Massimo Carminati, nella presenza silenziosa in video-collegamento con l'aula bunker del carcere di Rebibbia, ha parlato solo il linguaggio del corpo. Una silhouette nera. A tratti sfocata. Ora seduta. Ora impegnata nell'ossessivo e disperato andirivieni dei detenuti, di ogni detenuto, negli spazi angusti. Una gabbia, o la sala dei collegamenti. Doveva sciogliere un'alternativa del diavolo. Tacere. Tenendo fede al mito costruito in trent'anni. O sciogliersi in un fiume di parole. Posare da Padrino, consegnandosi definitivamente al suo mito. O contorcersi da guitto, in una aggiornata "Febbre da Cavallo". Ha scelto di parlare per due giorni interi rimanendo tuttavia prigioniero in quel guado. Un po' Padrino. Un po' guitto. Raramente sincero (solo lì dove non aveva davvero nulla da perdere), spesso posticcio. Anche a costo di suonare svampito. Con un effetto. Apparire improvvisamente vecchio. Ingiallito. Non per questo innocuo. Collerico e vanaglorioso. In una recita della romanità che vuole i figli dell'urbe fanfaroni, chiacchieroni, spesso "cazzari". Sarcastici e feroci. Ma non "diversi", come forse lui avrebbe voluto, immaginando che il criterio "geografico" si traduca in un principio di eccezione nell'interpretazione e applicazione del codice penale. "Questo esame lo sto facendo perché me lo avete chiesto voi. Mi avete così perseguitato... Che se fosse stato per me non lo avrei mai fatto. E quindi, se mi scappa la frizione, avvocato, mi fermi. Ci pensi lei". In quei due giorni, Massimo Carminati ha soprattutto posato a vittima. Si è detto prigioniero di una macchinazione giornalistica, giudiziaria, letteraria, cinematografica, che gli avrebbe cucito addosso un abito non suo. Una presunzione di colpevolezza incostituzionale. In forza di un mito e un'epica con cui non avrebbe nulla a che vedere. "Una cosa ridicola. Magari fossi il Samurai del libro Suburra. Che mo' Netflix ci fa pure la serie. La katana che mi hanno regalato e che mi hanno sequestrato quando mi hanno arrestato me l'avevano regalata per prendermi per il culo dopo che era uscito il libro. Non era una vera spada da Samurai. Serviva per sfilettare il tonno". Insomma, Carminati con un qualunque signor Malaussene che ha attraversato quarant'anni di storia repubblicana per fare da parafulmine. In un mantra dell'autocommiserazione che, del resto, persino nelle alluvionali intercettazioni telefoniche e ambientali di due anni di indagine ricorreva come un esorcismo. O, magari, come la precostituzione, a futura memoria, di un argomento a difesa. "Hanno scritto su di me che sono stato il killer della P2, il killer dei Servizi. Che sono stato tutto e il contrario di tutto. Che sono stato qualunque cosa. Dalla strage di Bologna a qualunque cosa. Tutto quello che mi potevano accollare me l'hanno accollato". Al punto da immaginare una fine che cancelli ogni traccia fisica di sé, quando sarà il momento di congedarsi da questo mondo. "Tanto mi faccio cremare. Mi faccio buttare nel cesso. Lascio in giro soltanto un pollice. Sì, voglio lascià in giro solo quello. Un pollice. Così, dopo che sono morto, fanno qualche ditata su qualche rapina. Su qualche reato. E così dicono che sono ancora vivo. Tanto a me non mi frega un cazzo della vita". Quella che è cominciata ieri. La quarta. E che si annuncia molto diversa dalle altre.
Roma 20 luglio 2017 - Aula bunker del carcere di Rebibbia. "In nome del popolo italiano, il Tribunale, ritenuta la sussistenza di due distinte associazioni.... Esclusa l'aggravante mafiosa di cui all'articolo 7.... Dichiara Carminati Massimo colpevole dei reati di cui ai capi di imputazione.... E lo condanna ad anni 20 di reclusione e 14 mila euro di multa...". L'accusa di mafia era caduta. I 28 anni e sei mesi chiesti dalla pubblica accusa si riducevano di un terzo. La silhouette nera in video collegamento dal carcere di Parma non mosse un muscolo. Poi, conclusa la lettura del dispositivo, sul banco della difesa squillò il telefono che collegava agli imputati in ascolto dalle carceri esterne. L'avvocato Ippolita Naso sollevò il ricevitore. "Massimo, Massimo, eccomi. E allora? Hai capito? Niente mafia. Niente mafia!".
"Niente mafia!".
"Eh. Sì. E quindi, ora, quando esco?".
E già, le terzine del cantico.
Lo duca e io per quel cammino ascoso
intrammo a ritornar nel chiaro mondo;
e sanza cura aver d'alcun riposo,
salimmo sù, ei primo e io secondo,
tanto ch'i' vidi de le cose belle
che porta 'l ciel, per un pertugio tondo.
E quindi uscimmo a riveder le stelle.
Lo show di Carminati: «Io sono un vecchio fascista degli anni 70», scrive Vincenzo Imperitura il 30 Marzo 2017, su "Il Dubbio". Mafia capitale, il protagonista del “mondo di mezzo” a ruota libera in tribunale: «Ho sempre saputo di essere controllato, ho un solo occhio ma ci vedo benissimo». Seduto su una sedia di plastica, attorniato dal mare di carte del maxi processo su “Mafia capitale” che lo vede alla sbarra come imputato principale, e ripreso da una telecamera fissa che fa un po’ serie poliziottesca, Massimo Carminati è un fiume in piena. Così impaziente di rispondere, per la prima volta nella sua lunga “carriera” processuale, che si infuria quando il collegamento dal carcere di Parma crea qualche imbarazzo. Ha il senso dello spettacolo Carminati: è consapevole delle decine di giornalisti che affollano l’aula bunker del carcere di Rebibbia (e che non lo possono riprendere per la prima volta in 180 udienze), e non si fa mancare qualche colpo di teatro, in una deposizione, dice l’avvocato Ippolita Naso introducendo l’interrogatorio «che sarà limitata, come limitato è stato il diritto alla difesa del mio imputato, tuttora rinchiuso in regime di carcere duro». Nel lungo racconto dell’ex terrorista nero ci sono almeno un paio di punti fermi. Punti sui quali il presunto capo del “mondo di mezzo”, torna più volte durante la prima delle due giornate che lo vedranno impegnato in prima persona: la rivendicazione (quasi tronfia) della propria storia fascista, e la “persecuzione” giudiziaria di cui sarebbe stato vittima negli anni. «Io sono un vecchio fascista degli anni ’ 70, e sono contento e felice di quello che sono. Non ho niente da nascondere, niente di cui vergognarmi» dice sicuro Carminati, mentre Salvatore Buzzi, dal carcere di Tolmezzo, lo osserva in piedi, sgranando gli occhi e passeggiando stancamente lungo la stanzetta del video collegamento. «Io sono un vecchio fascista, non c’entro niente con i servizi. Qui sostenete che abbia collegamenti con i servizi segreti ma la verità è che quando mi associano ai servizi, io in realtà mi offendo. Mi accusano di avere ricevuto notizie relative all’inchiesta da due poliziotti del commissariato di Ponte Milvio e da un vecchio maresciallo in pensione. Ma io sono un pregiudicato ed è normale che fossi conosciuto dai poliziotti di quartiere che venivano a controllarmi continuamente, soprattutto durante il periodo in affido. Ma – dice senza mai perdere la calma e con gran senso dei tempi scenici – mettiamoci d’accordo. Questi, ma che potevano fa’? Le cose sono due, o io sono Fantomas come mi descrivete e quindi mi relaziono con chi dite voi, o sono un cretino, che parla con degli sfigati che non mi possono aiutare». Per contrastare l’ipotesi di avere ricevuto segnalazioni sull’indagine che lo riguardava poi, il “cecato”, ha anche dato lezioni di investigazione in aula, raccontando di essersi accorti immediatamente dei pedinamenti, ma di averli associati alla perquisizione subita qualche giorno prima. «Sono sempre stato sotto controllo, ma dopo la perquisizione le cose sono peggiorate. Ma i pedinamenti erano visibilissimi, cioè era impossibile non vederli. Una volta – ha detto ancora l’imputato – si sono fermati in due in una macchina davanti a una banca, e la polizia che è passata più volte lì davanti non si è mai fermata. Cose che se mi ci mettevo io lì davanti a una banca, in due minuti arrivava l’esercito». Carminati poi è certo di essere stato usato come cardine per dare “forza” all’intero procedimento e, incurante dei 32 capi d’imputazione che gli vengono contestati, dall’associazione mafiosa alla corruzione, passando per l’usura e la violenza, ripete più volte di essere stato descritto come il male in persona. «Senza di me questo processo sarebbe stato ridicolo – affonda – invece c’è Carminati in mezzo e quindi cambia tutto. Ma forse – dice ancora – questo pensiero è solo figlio del mio Ego ipertrofico. Sulla figura del perseguitato Carminati ritorna più volte, intervallando il racconto con piccole frasi prese dalla strada. «Io c’ho un occhio solo, ma ci vedo benissimo» oppure, raccontando di quando avrebbe “fiutato” l’indagine che lo riguardava «La preda sa sempre che il cacciatore è in agguato». Ma sono i giornalisti le vittime preferite degli affondi di Carminati: «Io sono diventato una macchietta, chi mi conosce sa che sono una macchietta. Mi hanno dato del “Nero” di Romanzo Criminale, del samurai, mi hanno rotto tutti le palle. Ma queste cose che in un certo tipo di mondo ti rende ridicolo, non sono cose che ti danno potere, sono cose che ti fanno diventare deficiente. Tutti quelli che mi conoscono mi prendevano per il culo su questa cosa, sono diventato una macchietta, questa è la verità. Non sto dicendo che sono una mammoletta. Ma non c’entro nulla con Romanzo criminale, con i samurai e con tutte queste puttanate».
Banditello comune o boss de noantri? Ecco chi è Carminati…, scrive Paolo Delgado il 31 Marzo 2017 su "Il Dubbio". “Mafia capitale”, biografia di Carminati: la prima pistola se la procurò a 16 anni, più per sparare ai compagni che per rapinare le banche. È un bandito come tanti (non tantissimi però e ci tiene a rimarcarlo, con quel passato politico rivendicato in partenza e i continui riferimenti al senso dell’onore) oppure è il Totò Riina de noantri, il capo dei capi nella Capitale? Che la personalità e il ruolo dell’imputato pesino in un processo penale è consueto, ma che l’intera architettura dell’accusa dipenda dalla risposta a quegli interrogativi è invece inusuale. Trattasi anzi di un caso forse unico. «Senza di me questo processo è ridicolo»: almeno in questo Massimo Carminati ha senz’altro ragione. Se si tratti di una volgarissima storia di mazzette come in Italia se ne contano a mucchi o se invece ci si trovi di fronte a un modello nuovo e diverso, ma non meno pericoloso, di mafia dipende solo da questo: dal chi è davvero Massimo Carminati. E’ solo la sua presenza che giustifica l’accusa di mafia rivolta a una cooperativa abituata a distribuire tangenti e a una banda dedita essenzialmente al recupero crediti. Senza Pirata lo storico processo non va oltre un fattaccio di corruzione spiccia e cravattari di mano pesante. Criminale Massimo Carminati lo è di sicuro, e non fa nulla per nasconderlo. Al contrario rivendica: «Nel mondo di sotto ci sono pochi comandamenti, magari solo 3 ma li si rispetta. Le anime belle che stanno di sopra ne hanno dieci ma non ne rispettano nemmeno uno». La prima pistola se la procura a 16 anni, più per sparare ai compagni che per rapinare banche. «Sono un vecchio fascista degli anni ‘ 70 e sono contentissimo di esserlo», spiega ai giudici di Mafia Capitale nella sua prima deposizione dopo una quarantina d’anni di mutismo in numerose aule di giustizia. Nei ‘ 70 frequenta il Tozzi, scuola privata di Monteverde. In classe ci sono Alessandro Alibrandi, Franco Anselmi e Valerio Fioravanti, il nucleo centrale dei primi Nar, e c’è Maurizio Boccacci, futuro naziskin. Rispetto ai Nuclei armati rivoluzionari, Carminati è in realtà una figura anomala. Più che i bar di Monteverde bazzica il Fungo dell’Eur, altro luogo di ritrovo fisso del neofascismo romano, dove conta tra gli amici intimi i fratelli Bracci, che come lui sembrano subire il fascino della delinquenza pura oltre che della politica armata. A differenza degli altri Nar non viene dal Msi, e si configura già come una sorta di lupo solitario. Il ruolo visibilmente lo compiace, tanto da vantarsene ancora adesso: «Fanno la fila per ammazzarmi ma io posso stare solo contro tutti». Quando nel corso della prima rapina dei Nar, quella all’armeria di Monteverde Centofanti, Anselmi viene ammazzato dal proprietario, Carminati, per vendetta, piazza una bomba nel negozio. Fioravanti, che con i Nar sta pianificando l’omicidio del bottegaio, vede sfumare la rappresaglia e si risente. Tra i due, in realtà, non corre ottimo sangue e ancora oggi entrambi parlano dell’altro con un filo di disprezzo. Il futuro don capitolino coinvolge infatti nei suoi rapporti con la criminalità comune Alessandro Alibrandi e Fioravanti, che in materia è piuttosto moralista, non gliela perdona. Essendo quella dei Nar soprattutto una sigla a disposizione di chiunque avesse voglia di adoperarla, è difficile dire chi abbia davvero fatto parte della più famosa banda armata di estrema destra in Italia. Però Francesca Mambro è tassativa: Massimo non era dei Nar. Il particolare non è solo pittoresco. Proprio la militanza sia nei Nar che nella famigerata “banda” è infatti la fonte di quella “straordinaria caratura criminale” che nell’ordinanza della procura di Roma viene segnalata più volte e che, sola, giustifica l’accusa di associazione mafiosa. Franco Giuseppucci, Er Negro, Carminati lo conosce al bar che entrambi, vicini di casa, frequentano. Il primo capo della banda della Magliana è un fascistone, si tiene in casa il busto di Benito, il ragazzino fascista e determinato gli sta simpatico. Il rapporto tra i due vale a Carminati l’arruolamento d’ufficio nella banda resa celebre dal Romanzo di De Cataldo, con annesso film e due fortunatissime serie tv. In realtà il rapporto con la bandaccia non è diverso da quello con i Nar: Carminati è contiguo, mai davvero interno. Er Negro chiede qualche favore e secondo i pentiti, non suffragati però da sentenze di condanna, si tratta di favori sanguinosi, incluso l’omicidio Pecorelli. Qualche favore concede in cambio: Carminati gli affida i frutti delle rapine, Giuseppucci li presta a strozzo e poi gli consegna i cospicui interessi. A conti fatti per la lunga scia di sangue che la banda si porta dietro, la sola condanna che colpirà anche il fascista sarà per il deposito di armi della banda nei sotterranei del ministero della Salute. Leggenda vuole che Carminati fosse l’unico ad avere accesso a quell’arsenale oltre ai pezzi da novanta della banda. In realtà, a spulciare le testimonianze, viene fuori che se l’ingresso non era certo libero, non era neppure così riservato e limitato. La menomazione a cui deve il piratesco soprannome è conseguenza di un’imboscata in piena regola. il 20 aprile 1981. Alle origini ci sono probabilmente le confessioni di Cristiano Fioravanti che, arrestato pochi giorni prima, indica alla polizia il varco di frontiera che i Nar usano di solito per passare in Svizzera. L’appostamento mira a catturare Francesca Mambro, ammetteranno al processo i poliziotti, e quando passa la macchina sospetta mitragliano 145 colpi. Dentro, invece, ci sono Carminati, altri due fascisti, una ventina di milioni ma nessuna arma. I camerati restano illesi. Carminati perde l’occhio. «Da allora – ha detto ieri in aula l’imputato numero 1 – tra me e il mondo c’è una guerra che non è ancora finita». Da allora Carminati ha deposto i modi da ragazzo di buona famiglia che i compari della bandaccia ricordano adottando il tipico romanesco della coatteria locale. Da allora ci sono stati una sfilza di processi e un congruo numero d’anni passati in galera. La sola condanna seria arriva però per il furto al caveau del palazzo di Giustizia di Roma, nel 1999. Secondo alcune fantasiose belle penne il colpo gli permise di trafugare documenti riservati tanto deflagranti da tenere in stato di perenne ricatto un cospicuo numero di magistrati. Se fosse vero risulterebbe lievemente inquietante sapere che i giudici della Capitale sono in buona quantità ricattabili. Se fosse vero, peraltro, si capirebbe fino a un certo punto come mai il ricattatore soggiorna da oltre due anni nelle patrie galere in regime di 41bis, ormai unico o quasi a godere di quelle delizie ancora prima della prima condanna. Massimo Carminati sa perfettamente che in questo processo tutto dipende non da cosa ha fatto ma da chi è: senza dubbio si adopera per sminuire il proprio stesso ruolo. E’ certo che le frequentazioni e la dimestichezza con i boss della Capitale indicano un ruolo meno marginale di quanto voglia far sembrare. Ma, almeno agli atti, prove della sua sovranità sulla Roma criminale e quindi della sua primazia mafiosa proprio non sembrano esserci.
Mafia Capitale. Una Repubblica Ricattabile. I segreti della lista Carminati. Il ricatto alla Repubblica parte nell'estate del 1999 quando Massimo Carminati penetra nel caveau della banca a palazzo di Giustizia di Roma, e sceglie 147 cassette eccellenti. Adesso l'Espresso rivela la lista. E i suoi segreti. È un furto su commissione diretto a ricattare qualcuna delle vittime. Fra loro si contano almeno 22 magistrati. Quasi tutti con ruoli di vertice: presidenti di sezioni civili o penali del tribunale o della corte d’appello, magistrati dirigenti del ministero della giustizia, giudici e sostituti pg della Cassazione. E poi avvocati. Sono persone connesse con i più grandi misteri d’Italia: dalla strage di Bologna alla P2, dal delitto Pasolini all’omicidio Pecorelli, dalla Banda della Magliana a Cosa nostra. Sullo sfondo si staglia l'ombra di Andreotti. E così nasce un potere che fa ancora paura. Di Lirio Abbate il 20 ottobre 2016 su Espresso TV
Gli avvisi di Carminati e i segreti ancora potenti. Cosa vuole dire e a chi parla il boss di mafia Capitale sotto processo a Roma, scrive Lirio Abbate il 28 novembre 2016 su "L'Espresso". Massimo Carminati sembra ossessionato dalle inchieste dell’Espresso. Un chiodo fisso che lo porta a svelare segreti mai confessati prima. Così, al tavolo giudiziario attorno al quale si sta giocando la partita processuale di mafia Capitale, il “re di Roma” ha calato il jolly: la vicenda dei documenti riservati rubati nel caveau della Banca di Roma nel 1999. Per 17 anni Carminati non ne aveva parlato: ha deciso di farlo dopo l’inchiesta di copertina dell’Espresso, “Ricatto alla Repubblica”. Nella notte tra venerdì 16 e sabato 17 luglio 1999 il “nero” guidò un commando nel sotterraneo blindato della filiale di piazzale Clodio, all’interno della cittadella giudiziaria di Roma, svaligiando 147 cassette di sicurezza, selezionate da 900, con la complicità di alcuni carabinieri di sorveglianza. Mai nessuna delle vittime ha denunciato la sottrazione di quei documenti, perché - come scrivono i magistrati nella sentenza con cui è stato condannato Carminati - era difficile che qualcuno in possesso di questo materiale riservato fosse disposto a denunciarne la scomparsa. Eppure uno dei temi del processo che si è svolto a Perugia su quel furto era questo: il colpo di Carminati e soci poteva servire proprio ad acquisire documenti segreti. Da quasi due anni Carminati è in carcere. Ora parla in aula e ammette per la prima volta di aver rubato quei documenti. "È ovvio dal 2002 da dove proviene la mia disponibilità economica. Se c'erano tutti questi dubbi sulla mia partecipazione al colpo del caveau a piazzale Clodio (avvenuto nel luglio del 1999 ndr) potevano dirlo subito così mi assolvevano invece di condannarmi. C'erano tanti documenti in quel caveau, ma anche tanti soldi e io qualche soldo l'ho preso". Carminati è uomo attento e meticoloso. È uno stratega. Proprio come lo sono i boss delle mafie tradizionali. Per questo motivo martedì 22 novembre non gli possono essere sfuggite per caso frasi che rimandano a ricatti e intimidazioni. Ha detto espressamente: «È vero, c’erano molti documenti, e così fra un documento e l’altro ho preso pure qualche soldo». Un’affermazione che serve solo in apparenza a spiegare l’origine del suo patrimonio («qualche soldo»): il riferimento importante è invece quello ai documenti. In un dibattimento nel quale accusa e difesa si stanno scontrando sul sistema Carminati: sul fatto se sia o no mafia. Sono in molti ad ascoltare le parole di Carminati. Ma pochissimi danno il giusto peso a questa affermazione del “nero” sui documenti. Eppure proprio in questo passaggio è nascosta la “nuova mafia” romana. Meglio, il metodo mafioso. Oggi abbiamo la certezza che in alcune delle cassette aperte c’erano documenti importanti su cui Carminati voleva mettere le mani, grazie a questa ammissione fatta in aula. Il nostro titolo era “Ricatto alla Repubblica”, appunto. Perché il “nero” ha potuto godere a lungo di protezione grazie anche a queste carte. Oggi la storia può essere diversa perché diverse da allora sono le persone nei posti chiave della magistratura e delle istituzioni. Ma c’è sempre la possibilità che qualcuno abbia qualcosa da temere da quelle carte. Ed è per questo motivo che in aula Carminati ora ricorda di aver preso tanti documenti scottanti. Si tratta di un avviso ai naviganti. A quei marinai che con lui hanno solcato i mari in tempesta. E adesso stanno a guardare. I boss mafiosi come Riina e Bagarella non hanno bisogno di impugnare una pistola per incutere terrore: a loro basta uno sguardo, un gesto, una parola, per minacciare e intimidire. È ciò che accade anche con Carminati. Aver ricordato adesso i documenti sottratti durante il “furto del secolo”, come venne definito nel 1999, è un gesto di minaccia tipico della mafia e del metodo mafioso, ma anche un segnale che mostra il salto di qualità di questa mafia romana. Non accade per caso, ma alla vigilia di una importante sentenza - e dopo la nostra inchiesta che tanti fastidi ha provocato al “cecato”. Ora abbiamo la conferma che siamo davanti a una persona in grado di parlare a pezzi del Paese che ancora non conosciamo. E lo fa attraverso annunci che consegnano messaggi precisi a chi sa. Questo è il metodo, ed è mafioso.
Il ricatto di Massimo Carminati: ecco la lista dei derubati nel furto al caveau del 1999. Il Cecato svuotò 147 cassette, colpendo magistrati, avvocati, funzionari della Giustizia. Connessi con i più grandi misteri d'Italia: dalla strage di Bologna alla P2, dal delitto Pasolini all'omicidio Pecorelli, dalla Banda della Magliana a Cosa nostra. Sullo sfondo si staglia l'ombra di Andreotti. E così nasce un potere che fa ancora paura, scrivono Lirio Abbate e Paolo Biodani il 24 ottobre 2016 su "L'Espresso". Il colpo del secolo, era stato definito. Ma non era solo un furto clamoroso: il movente era un grande ricatto. Allo Stato e alla Giustizia. Nelle sentenze definitive i giudici scrivono di un bottino "eccezionale": «Almeno 18 miliardi di vecchie lire», mai recuperati. Sottolineano «l’audacia» di un’azione criminale «spettacolare»: un commando di banditi che riesce a svaligiare in tutta calma il caveau della banca più sorvegliata d’Italia, senza sparare, senza forzare neppure un lucchetto, senza far scattare il doppio sistema d’allarme. Vanno a colpo sicuro: hanno in mano una lista selezionata di cassette di sicurezza da svuotare. È un furto «pluriaggravato» che spinge i magistrati di ieri e di oggi a evidenziarne la «carica intimidatoria». Per «la valenza simbolica del luogo violato»: il palazzo di giustizia di Roma, in piazzale Clodio, presidiato giorno e notte da militari armati. Per «l’inquietante capacità di penetrazione corruttiva fin dentro l’Arma dei carabinieri». Per la qualità delle vittime: decine di alti magistrati, avvocati, cancellieri, consulenti, professionisti e imprenditori. E per il «potere di ricatto» che, secondo le sentenze, era il vero obiettivo di quell’assalto al cuore della giustizia italiana. Organizzato e diretto da Massimo Carminati, l’ex terrorista nero che proprio da allora diventa «un intoccabile». Un «boss carismatico» che, mentre è sotto processo con Giulio Andreotti per l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli, svuota le cassette di sicurezza di una lista di magistrati e avvocati romani di cui vuole spiare i segreti. La genesi di "mafia Capitale" si concretizza nell’estate 1999, con questo grande colpo, mentre l’Italia s’illude di aver chiuso il libro nero della Prima Repubblica. Stragi di destra, terrorismo di sinistra e guerra fredda sono ricordi sbiaditi. A capo del governo c’è Massimo D’Alema, il primo premier post-comunista. Mentre Carminati s’infila di notte nel caveau, sul Paese c’è l’ombra della crisi e del "governo tecnico": D’Alema è preoccupato per il rinascere di un Grande centro che possa spingere la sinistra all’opposizione. Dopo decenni di debito pubblico, crisi e svalutazioni, i conti sono in ordine e l’euro alle porte sembra annunciare un’Europa forte e unita. L’economia cresce, l’euforia spinge i capitani coraggiosi della finanza a scalare ex monopoli statali come Telecom. Perfino Tangentopoli pare archiviata: nonostante le oltre mille condanne per corruzione e fondi neri del 1992-94, l’intesa bicamerale con la destra di Berlusconi ha partorito una riforma costituzionale, ribattezzata «giusto processo», in grado di annientare perfino i verbali d’accusa già raccolti dalla magistratura. Che non era mai arrivata così in alto: a Milano si processano anche i giudici corrotti della capitale, a Roma i boss impuniti della Banda della Magliana, tra Palermo e Perugia siede sul banco degli imputati addirittura il senatore a vita Giulio Andreotti per mafia e omicidio. L’attacco alla fortezza giudiziaria della capitale si consuma nella notte tra venerdì 16 e sabato 17 luglio 1999. La "città giudiziaria" è interamente recintata da alte mura sorvegliate notte e giorno da carabinieri. All’interno c’è l’agenzia 91 della Banca di Roma. Carminati e i suoi complici arrivano dopo le 18, dentro un furgone identico a quello in uso ai carabinieri, che in questo modo evita i controlli. A mezzanotte e mezza almeno otto banditi entrano nel caveau sotterraneo, senza scassinare nulla, usando le chiavi e le combinazioni fornite da un complice: un impiegato della banca rovinato dai debiti. A guidare il commando è Carminati in persona. In mano ha un foglio di carta con una lista di nomi, scritti a penna, in rosso: sono magistrati, avvocati, cancellieri. «Queste cassette sono roba mia», intima ai complici, tutti scassinatori molto esperti. «Tutto il resto è vostro» aggiunge il "Cecato". Le sentenze spiegano che Carminati, con quel colpo, «è alla ricerca di documenti per ricattare magistrati» e «aggiustare processi»: su 900 cassette ne vengono aperte solo 147. Aperture su indicazione. Gli altri banditi puntano ai soldi: sventrano intere file di cassette, arraffano contanti, gioielli e riempiono una quindicina di borsoni sportivi. Carminati invece ha «una mappa con i numeri delle cassette»: sono quelle che gli interessano, ritrovate aperte «in ordine sparso, a macchia di leopardo». Di fronte ai carabinieri, i criminali comuni scappano. L’ex terrorista nero invece ne ha corrotti almeno quattro, reclutati da un sottufficiale cocainomane: tre accompagnano la banda nel caveau, il quarto spalanca il cancello esterno della cittadella fortificata. Alle 4 di notte la razzia è terminata: i banditi se ne vanno con calma, sul furgone con i colori dei carabinieri, con un bottino pari a oltre nove milioni di euro, di cui verranno recuperati meno di 150 mila euro. Alle 6.40 di sabato 17 luglio l’addetta alle pulizie dà l’allarme. I primi agenti di polizia trovano nel caveau gli attrezzi da scasso e un caotico cumulo di cassette svuotate. Le prime notizie raccontano di una refurtiva miliardaria, tra oro, gioielli e denaro contante, ma anche di due chili di cocaina, di cui però negli atti del processo non c’è traccia. La Roma che conta trema: le cassette di sicurezza servono a custodire non solo gioielli, ma anche pacchi di denaro nero, che è rischioso depositare sui normali conti bancari. E spesso nascondono documenti e foto scottanti. Tra i clienti di quella banca ci sono decine di magistrati, avvocati e dipendenti del tribunale. L’elenco completo non era stato mai reso pubblico. Le indagini dei pm di Perugia ipotizzano che il colpo abbia subito un’accelerazione. Quella banca restava aperta anche di sabato. Se Carminati ha agito venerdì notte, significa che aveva fretta. C’è il fondato sospetto che l’ex terrorista avesse saputo che qualche cliente eccellente, la mattina seguente, progettava di ritirare qualcosa di molto importante. I giudici dei successivi processi, celebrati a Perugia proprio «per la massiccia presenza di magistrati tra le vittime», concludono che un furto del genere era sicuramente «finalizzato alla sottrazione di documenti scottanti, utilizzabili per ricattare la vittima o terzi». Le indagini non sono riuscite a chiarire se Carminati abbia raggiunto il suo obiettivo, soprattutto perché «nessuno ha denunciato la sottrazione di documenti». Il tribunale però non ci crede, osservando che «quanti per avventura avessero detenuto siffatto materiale, ben difficilmente sarebbero poi disposti a denunciarne con entusiasmo la scomparsa». Oltre al buon senso, un indizio è il ritrovamento, tra i resti fracassati delle cassette, di lettere e altre carte private, abbandonate dai banditi sul pavimento del caveau perché appartenevano a cittadini qualunque. Quindi anche quel caveau custodiva documenti. E un mare di contanti di oscura provenienza. L’assicurazione della banca ha risarcito solo il bottino documentabile: cinque miliardi di lire su un totale di «almeno 18». Eppure a Perugia nessuna vittima si è costituita parte civile nel processo a Carminati. Quel furto nasconde un quadro criminale che le sentenze definiscono «inquietante». Proprio l’identità delle vittime giudiziarie può misurare la capacità intimidatoria di chi oggi è accusato di essere il capo di Mafia Capitale. Ciò nonostante, neppure i magistrati riuscivano a ritrovare l’elenco completo dei derubati, mentre le sentenze finali citano solo pochi nomi, pur chiarendo che la banda del caveau ha svuotato le cassette di almeno 134 persone. Adesso "l’Espresso" ha recuperato le copie degli atti più importanti, da cui emergono dati e fatti rimasti inediti e così a distanza di diciassette anni dal furto vengono svelati. Sono atti che identificano due categorie opposte di vittime. Da una parte giudici onestissimi, rigorosi, preparati, spesso con ruoli di vertice nelle corti e nei ministeri, insieme a grandi avvocati, impegnati anche come difensori di parti civili in processi per mafia o terrorismo nero, compresi casi in cui era imputato lo stesso Carminati. Dall’altra, magistrati e legali con un passato imbarazzante, in qualche caso addirittura arrestati e condannati per corruzione. La toga più famosa è il titolare della cassetta svaligiata numero 720: «Domenico Sica, magistrato, prefetto». Per tutti gli anni Settanta e Ottanta, Sica è stato il più importante pm italiano, preferito a Giovanni Falcone come primo Alto commissario antimafia. Per i giudici amici era "Nembo Sic", l’attivissimo magistrato che ha guidato tutte le indagini più scottanti della procura di Roma, dal terrorismo politico agli scandali economici. I detrattori invece lo chiamavano "Rubamazzo", da quando una sua indagine parallela permise di sottrarre ai giudici di Milano l’inchiesta sulla P2 di Licio Gelli, chiusa a Roma dopo un decennio con risultati nulli. Sica è morto nel 2014, senza che nessuno pubblicamente lo avesse mai segnalato come vittima di Massimo Carminati. È stato lui ad occuparsi anche dell’omicidio Pecorelli, del caso Moro, dell’attentato al Papa e della scomparsa di Emanuela Orlandi. Giorgio Lattanzi, intestatario con la moglie di un’altra cassetta svuotata, oggi è il vicepresidente della Corte costituzionale. Per anni è stato uno dei più autorevoli giudici della Cassazione: come presidente della sesta sezione penale, in particolare, guidava i collegi chiamati a rendere definitive (o annullare) tutte le condanne per corruzione emesse in Italia. Contattato dall’Espresso, il giudice Lattanzi, tramite un portavoce, conferma di «aver denunciato subito il fatto» e precisa che «all’epoca non aveva nessun elemento per ipotizzare qualcosa di diverso da un semplice furto, anche perché in quel periodo non trattava processi di particolare rilevanza e nella cassetta non custodiva alcun documento, mentre il reato gli causò un danno economico molto rilevante, poi risarcito dall’assicurazione». Tra i legali spiati e derubati spicca Guido Calvi, ex senatore del Pds-Ds dal 1996 al 2010, quando fu eletto al Csm. Calvi è stato avvocato di parte civile in molti processi contro il terrorismo di destra: il suo nome compare anche nell’ultimo ricorso in Cassazione contro l’assoluzione di Carminati per il più grave depistaggio dell’inchiesta sulla strage di Bologna (2 agosto 1980, 85 vittime), organizzato per evitare la condanna definitiva di Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, come lui neofascisti dei Nar. Calvi è stato avvocato di Massimo D’Alema e ora presiede un comitato per il No. Il suo studio legale è parte civile nel processo a mafia Capitale. «Che il furto al caveau avesse una finalità ricattatoria è qualcosa di più che un sospetto», spiega l’avvocato Calvi, il quale aggiunge: «Il colpo al Palazzo di giustizia era chiaramente finalizzato a colpire avvocati e alti magistrati, a trovare carte segrete... Nella mia cassetta però tenevo solo gioielli di famiglia, nessun documento. Mi manca soprattutto la mia collezione di penne, di valore solo affettivo: sono un avvocato di sinistra, difendo anche clienti poveri, che poi per sdebitarsi mi regalano una Montblanc con il mio nome inciso. Erano i più bei ricordi della mia carriera. Lo dico sempre all’avvocato Naso: almeno le penne il tuo cliente potrebbe restituirmele...». Giosuè Naso è il difensore di Carminati. Il furto al caveau ha colpito anche altri prestigiosi avvocati, come Nino Marazzita, amico di Guido Calvi, che ricorda: «Abbiamo lavorato più volte insieme, anche contro la destra romana. Con Nino presentammo la prima denuncia per riaprire l’inchiesta sull’omicidio di Pier Paolo Pasolini, dove ero stato parte civile, nel tentativo di identificare i complici neofascisti di Pino Pelosi». Alla domanda se ritenga possibile che Carminati, con il colpo al caveau, abbia raggiunto l’obiettivo di intimidire qualche giudice, l’avvocato Calvi risponde così: «I processi sulle stragi nere e sui depistaggi dei servizi, da piazza Fontana a Bologna, sono pieni di assoluzioni assurde firmate da magistrati collusi o intimiditi. Prima del maxiprocesso di Falcone e Borsellino, anche i processi di mafia finivano sempre con l’insufficienza di prove». I primi rapporti di polizia identificano, tra le vittime del furto, 17 magistrati, 55 avvocati, 5 cancellieri, altri 17 dipendenti del tribunale, un carabiniere e un perito giudiziario. I principali danneggiati sono quattro imprenditori romani che si sono visti rubare l’equivalente in lire di 500 mila euro e un milione ciascuno. Decine di denunce risultano però presentate in ritardo, dagli effettivi proprietari di beni custoditi in cassette intestate ad altri: familiari o amici fidati. Negli atti completi, quindi, si contano almeno 22 magistrati. Quasi tutti con ruoli di vertice: presidenti di sezioni civili o penali del tribunale o della corte d’appello, magistrati dirigenti del ministero della giustizia, giudici e sostituti pg della Cassazione. Nella procura di Roma, competente a indagare su Carminati, la banda del caveau ha preso di mira tra gli altri l’aggiunto Giuseppe Volpari, capo dei pm di Tangentopoli nella capitale, spesso in contrasto con i magistrati milanesi di Mani Pulite. Stando agli atti risulta forzata ma non aperta anche la cassetta di sicurezza di Luciano Infelisi, il controverso ex pm che incriminò i vertici della Banca d’Italia, Paolo Baffi e Mario Sarcinelli, che nel 1979 si rifiutarono di salvare Michele Sindona, il banchiere della mafia e della P2, poi condannato per l’omicidio dell’"eroe borghese" Giorgio Ambrosoli: uno scandalo giudiziario ricostruito nel processo Andreotti. Il giudice della stessa istruttoria era Antonio Alibrandi: il padre del terrorista nero Alessandro Alibrandi, uno dei fondatori dei Nar (con Fioravanti e Carminati), ucciso nel 1981 in una sparatoria con la polizia. Tra le vittime del furto ci sono poi diversi avvocati della banda della Magliana (ormai divisa) e altri legali collegati alla P2, come Gian Antonio Minghelli, registrato nella loggia segreta di Gelli insieme al padre, un generale della Pubblica sicurezza. Oltre a derubare giudici e avvocati integerrimi, la banda di Carminati ha svuotato le cassette di magistrati già allora inquisiti. Come Orazio Savia, pm di alcune tra le più contestate indagini romane, come il caso Enimont o il misterioso suicidio nel 1993 del dirigente ministeriale Sergio Castellari. Savia nel 1997 è stato arrestato e condannato per corruzione. Svaligiati anche due forzieri di Claudio Vitalone, ex pm romano, poi senatore e ministro andreottiano, defunto nel 2008, e una terza cassetta intestata al fratello Wilfredo, avvocato, che ha presentato diverse denunce a Perugia. Al momento del furto, Carminati attendeva la sentenza di primo grado del processo per l’omicidio di Mino Pecorelli, insieme ad Andreotti, lo stesso Claudio Vitalone e tre boss di Cosa nostra. Due mesi prima, i pm di Perugia avevano chiesto l’ergastolo. Il giornalista che conosceva i segreti della P2 era stato ucciso nel 1979 con speciali pallottole Gevelot, dello stesso lotto di quelle poi sequestrate nell’arsenale misto Nar-Magliana, allora gestito proprio da Carminati. Sembrava incastrato da tre pentiti della Magliana, in grado di riferire le rivelazioni di Enrico De Pedis, il boss sepolto nella basilica di Sant’Apollinare, e Danilo Abbruciati, ammazzato a Milano mentre tentava di uccidere Roberto Rosone, il vicepresidente del Banco Ambrosiano. La sentenza su Pecorelli viene emessa a settembre, due mesi dopo il furto: tutti assolti. In appello addirittura la corte condanna Andreotti (poi assolto in Cassazione), ma non Carminati. Negli stessi mesi l’ex terrorista nero ha un’altra emergenza giudiziaria: è imputato di aver fornito a due ufficiali piduisti del Sismi (già condannati con Licio Gelli) il mitra e l’esplosivo che i servizi segreti fecero ritrovare su un treno, per depistare l’inchiesta sulla strage di Bologna, fabbricando una falsa «pista internazionale». Per questa vicenda nel giugno 2000 Carminati viene condannato a nove anni di reclusione. Ma nel dicembre 2001 i giudici d’appello di Bologna lo assolvono con una motivazione a sorpresa: è vero che ha prelevato dal famoso arsenale un mitra Mab modificato, ma non è certo fosse proprio identico a quello usato per il depistaggio, per cui il reato va considerato prescritto. Tutte le sentenze meritano rispetto perché il codice impone che vengono confermate o smentite dalla Cassazione. Ma in questo caso non succede. La procura generale di Bologna non ricorre contro l’assoluzione di Carminati. L’avvocatura generale, che all’epoca rappresenta il governo Berlusconi, non si presenta in udienza. Contro Carminati rimane solo il ricorso dei familiari delle vittime, ma la Cassazione lo dichiara «inammissibile»: i parenti possono piangere i morti, ma «non hanno un interesse giuridico» a contestare i depistaggi, anche se organizzati per garantire l’impunità agli stragisti. Per il furto al caveau, Carminati viene arrestato il 29 dicembre 1999, grazie alle confessioni di tre carabinieri corrotti, e torna libero il 18 gennaio 2001, con il suo bottino ancora intatto. Da quel momento c’è uno spartiacque nei suoi processi. Nel marzo 2001, prima dell’assoluzione di Bologna, la Cassazione annulla le condanne per mafia inflitte in primo e secondo grado alla Banda della Magliana. Carminati si vede dimezzare la pena, interamente scontata con la detenzione per le altre accuse ormai cadute. A Roma la mafia, almeno per la Cassazione, non c’è più. Anzi non c’è mai stata. A Perugia, nel 2005, a conclusione di un dibattimento che riserva udienza dopo udienza molte sorprese a favore dell’imputato, il boss nero viene condannato a quattro anni per il furto al caveau e la corruzione dei carabinieri. Le sentenze denunciano reticenze dei testimoni, rifiuti di deporre, depistaggi, falsi alibi accreditati perfino da un notaio e dal capo della gendarmeria di San Marino. Salta fuori che i carabinieri avevano interrogato il noleggiatore del furgone un mese prima della polizia, senza essere titolari dell’indagine e senza dire niente alla procura. Tre alti ufficiali dell’Arma vengono indagati per omessa denuncia: il tribunale di Perugia osserva «con stupore» che si sono rifiutati di testimoniare «benchè già archiviati». In aula l’unico scassinatore che aveva confessato, Vincenzo Facchini, interrogato dal pm Mario Palazzi, si rifiuta perfino di pronunciare il nome di Carminati: «Io questo signore non lo conosco, non lo voglio conoscere», risponde terrorizzato. E poi aggiunge: «Con questa domanda lei mi mette la testa sotto la ghigliottina!». La condanna per il colpo al caveau diventa definitiva il 21 aprile 2010. Ma Carminati evita il carcere grazie all’indulto Prodi-Berlusconi, che gli cancella tre anni di pena. Quindi ottiene l’affidamento nella cooperativa sociale di Salvatore Buzzi. E, secondo l’accusa, fonda Mafia Capitale.
Lista Carminati, l'elenco delle vittime del furto. Avvocati, magistrati, dipendenti del tribunale, carabinieri e ctu. Per la prima volta l'Espresso è in grado di rivelare di chi erano le cassette di sicurezza violate dal Cecato nel colpo al palazzo di Giustizia del 1999, scrive L'Espresso" il 24 ottobre 2016.
NOME – PROFESSIONE - NUMERO CASSETTA
Aldo Ambrosi Avvocato 188
Virginio Anedda Magistrato 274
Maria Luisa Arzilli Cancelliere 379
Giuseppe Altobelli Dipendente Tribunale 691
Mirella Antona Dipendente Tribunale 714
Silvio Bicchierai Commercialista 90
Giuseppina Bragagnolo Commercialista 115
Giulia Brizzi Dipendente Tribunale 125
Luigi Bartolini Cancelliere 191
Marisa Bondanese Dipendente Tribunale 985
Gualtiero Cremisini Avvocato 393
Francesco Caracciolo di Sarno Avvocato 421
Guido Calvi Avvocato 445
Giuseppe Castaldo Dipendente Tribunale 718
Enzo Carilupi Avvocato 721
Michele Caruso Avvocato 113
Silvia Castagnoli Magistrato 123
Claudia Cannarella Dipendente Tribunale 133
Giuseppe Crimi Avvocato 137
Annamaria Carpitella Avvocato 145
Maurizio Calò Avvocato 174
Cesare Romano Carello Avvocato 177
Leonardo Calzona Avvocato 233
Dario Canovi Avvocato 240
Giovanni Casciaro Magistrato 261
Antonio Cassano Magistrato 282
Carla Cochetti Dipendente Tribunale 382
Francesco De Petris Avvocato 30
Anna Maria Donato Avvocato 127
Giovanni De Rosis Morgia Avvocato 189
Lucio De Priamo Avvocato 192
Francesco d'Ajala Valva Avvocato 237
Assunta Bruno De Santis Dipendente Tribunale 385
Generoso Del Gaudio Dipendente Tribunale 693
Serapio De Roma Avvocato 713
Alessandro Fazioli Avvocato 52 e 212
Maria Frosi Avvocato 120
Torquato Falbaci Magistrato 209
Giuliano Fleres Avvocato 255 e 257
Efisio Ficus Diaz Avvocato 285
Giorgio Fini Avvocato 692
Maria Grappini Avvocato 15
Ivo Greco Magistrato 235
Giuseppe Cellerino Magistrato 126
Adalberto Gueli Magistrato 141
Aurelio Galasso Magistrato 213
Giuseppe Gianzi Avvocato 259
Francesco Giordano Avvocato 391
Vito Giustianiani Magistrato 403
Angelo Gargani Dipendente Tribunale 543
Fabrizio Hinna Danesi Magistrato 715
Michele Imparato Cancelliere 248
Maria Elisabetta Lelli Ctu 114
Stefano Latella Carabiniere 121
Giorgio Lattanzi Magistrato 215
Antonio Liistro Magistrato 258
Mauro Lambertucci Avvocato 324
Michelino Luise Avvocato 741
Antonio Loreto Avvocato 65
Vanda Maiuri Dipendente Tribunale 35
Simonetta Massaroni Avvocato 183
Nicola Mandara Avvocato 277
Antonio Minghelli Avvocato 280
Caterina Mele Avvocato 297
Luigi Mancini Avvocato 333
Giancarlo Millo Magistrato 378
Alberto Oliva Avvocato 446
Bruno Porcu Avvocato 12
Liliana Pozzessere Dipendente Tribunale 202
Francesco Palermo Avvocato 343
Enrico Parenti Magistrato 368
Valeria Rega Cancelliere 74
Bruno Riitano Avvocato 110
Agostino Rosso Di Vita Avvocato 178
Filomena Risoli Dipendente Tribunale 394
Domenico Ruggiero Avvocato 451
Gisella Rigano Dipendente Tribunale 738
Francesco Rizzacasa Avvocato 743
Antonietta Sodano Avvocato 149
Domenico Sica Magistrato 720
Vincenzo Taormina Avvocato 94
Cesare Testa Avvocato 181
Wilfredo Vitalone Avvocato 81
Claudio Vitalone Magistrato 304 e 306
Bruno Villani Avvocato 164
Fortunato Vitale Avvocato 50
Giuseppe Volpari Magistrato 281
Paolo Volpato Avvocato 380
Umberto Zaffino Avvocato 199
Edmondo Zappacosta Avvocato 236 e 322
Maurizio Zuccheretti Avvocato 252
Per ricattare magistrati e avvocati in cambio di alleggerimenti di sentenze o sconti di pena. Furto al caveau del tribunale. A caccia di soldi e documenti. E i pm perugini adesso accusano: "I carabinieri non hanno collaborato", scrive il 10 luglio 2000 “La Repubblica. Perquisizioni e arresti per il furto nel caveau della filiale della Banca di Roma, all'interno del tribunale della capitale. In una notte, quella tra il 16 e il 17 luglio scorso, vennero saccheggiate 147 cassette di sicurezza di "proprietà" di dipendenti del palazzo. Un furto che apparve come uno schiaffo: a una banca e nel cuore del tribunale. Ma anche un colpo non semplice da mettere a segno, riuscito grazie a una infinita serie di complicità dentro e fuori il Palazzo di giustizia. E con più di un obiettivo: ricavare soldi ed entrare in possesso di documenti compromettenti per poi ricattare magistrati e avvocati. Una trama sulla quale per un anno hanno indagato la Procura della repubblica di Perugia e la Squadra mobile della capitale, che stamattina hanno dato il via a una serie di arresti e perquisizioni. Un'indagine che ha messo in luce l'esistenza di una banda a più teste: carabinieri, ex della banda della Magliana, esponenti dell'estrema destra, dipendenti dell'istituto di credito e del tribunale. E il furto nel caveau assume contorni diversi: ladri alla ricerca di soldi e gioielli ma anche di documenti compromettenti da usare come armi di ricatto verso i clienti dell'istituto, per lo più magistrati e avvocati. Un'indagine, si apprende adesso, che sarebbe andata avanti più velocemente se l'esito degli accertamenti compiuti dai carabinieri della capitale fosse stato comunicato per tempo. Questa almeno è l'accusa dei pm perugini che esprimono anche diverse "perplessità" per alcuni atti svolti dei militari. Nella loro ordinanza si parla infatti di "mancati approfondimenti investigativi" sulle notizie acquisite dai militari e la "mancata comunicazione" delle stesse alla procura del capoluogo umbro. Nonostante la mancata cooperazione, tuttavia, sotto accusa è finito Marco Vitale, 51 anni, reduce della banda della Magliana, già in carcere. Complice del furto anche un dipendente della Banca di Roma, Orlando Sembroni, 49 anni. Nella banda anche Lucio Smeraldi, 61 anni, gestore dell'edicola interna del tribunale. Gli arresti riguardano poi altri "cassettari", ricettatori, complici e basisti. Confermato, anzi aggravato, il ruolo di quattro carabinieri in servizio a Piazzale Clodio (Mercurio Digesu, di 41, Feliciano Tartaglia, di 37, Adriano Martiradonna, di 48, Flavio Amore di 30 anni, mentre un quinto militare, Roberto Cozzolino è accusato solo di concorso in furto aggravato). Il tramite con l'Arma dei carabinieri era il capo dei "cassettisti" storici romani, Stefano Virgili, 49 anni, apparentemente uscito dal giro e boss dei parcheggiatori dell'Eur con la società Mutua Nova. Nei guai un esponente dell'estrema destra Massimo Carminati, 42 anni, anch'egli interessato al contenuto delle cassette di sicurezza. Tra gli arrestati un dipendente della Corte d'appello di Roma, Reginaldo Velocchia, 64 anni. Insieme a un avvocato penalista romano Antonio Iuvara (sottoposto alla misura dell'obbligo di dimora) avrebbe fatto pressione su un presidente della Corte d'appello di Roma Tommaso Figliuzzi con un preciso motivo: alleggerire in secondo grado la condanna di Vitale nel processo per la banda della Magliana. Ottenendone magari la scarcerazione, perché proprio il Vitale avrebbe partecipato dal carcere all'operazione "cassette di sicurezza". La banda dei "cassettieri" (trenta persone coinvolte, venti arrestate e dieci indagate), cercava così di arrivare al controllo del palazzo di giustizia e stavano organizzando un nuovo colpo, secondo quanto dichiarato dagli inquirenti. Questa volta l'obiettivo era l'ufficio corpi di reato della Procura della repubblica di piazzale Clodio, dove sono custoditi i reperti sequestrati nell'ambito delle indagini giudiziarie: armi e droga. Materiale che sarebbe servito sia per ricavare denaro (dalla vendita di droga), sia per compiere azioni criminali.
Mafia Capitale, Carminati e i dossier scomparsi nel 1999. Il misterioso furto al caveau della Banca di Roma del Tribunale di Roma fa da sfondo all'inchiesta capitolina, scrive l'11 dicembre 2014 Sabino Labia su "Panorama". In una delle ultime intercettazioni relative all’inchiesta di Mafia Capitale si sente Massimo Carminati parlare il 27 gennaio 2012, con un’altra persona, del Procuratore Capo di Roma Giuseppe Pignatone e dei rischi del suo arrivo alla Procura romana per tutta l’organizzazione perché avrebbe buttato all’aria Roma visto che in Calabria ha capottato tutto e non si fa inglobà dalla politica. Tra il finto stupore generale e lo sgomento che sta provocando questa inchiesta, c’è anche l’anomala, per usare un eufemismo, vicenda di come Carminati, un personaggio dall’oscuro passato, sia uscito sempre indenne da tutte le inchieste che lo hanno coinvolto. Per quale motivo il Guercio si preoccupa proprio dell’arrivo di un giudice completamente estraneo al mondo romano e, soprattutto, dal curriculum di vero servitore dello Stato? E’ sufficiente rileggere la cronaca di qualche anno fa per avere un’idea. C’è una strana storia a fare da sfondo a tutta questa sporca vicenda e che suscita una certa inquietudine. Risale al 1999 e traccia in maniera precisa e inequivocabile il ruolo di Carminati a Roma. E’ il 16 luglio ed è un venerdì, intorno alle 18un furgone blu con il tetto bianco, simile a quelli usati dai carabinieri, ma con la differenza che si tratta di un comune furgone preso a nolo e ridipinto, supera uno dei cancelli del Tribunale della Capitale. Scendono tre uomini e con naturalezza si confondono tra le tantissime persone che in quel momento affollano la cittadella della Giustizia che dispone di quattro palazzi di cinque piani e di quattro ingressi. Alle 14 i due accessi laterali vengono regolarmente chiusi. Alle 20 gli addetti alla sicurezza chiudono l’entrata principale di Piazzale Clodio; a quel punto rimane aperto un solo varco, sul retro, in via Varisco, dove staziona un carabiniere di guardia. Tutti i visitatori, nel frattempo, sono usciti tranne i tre uomini che sono riusciti a nascondersi chissà dove. Passano tre ore e, alle 23, muniti di torce escono dal nascondiglio e si dirigono verso lo sportello della Banca di Roma che si trova nel corridoio della Pretura Penale e che dista soltanto 70 metri dal Commissariato di Polizia interno al Tribunale dove staziona sempre un poliziotto di guardia. Nel giro di quindici minuti i tre, muniti di chiavi false, aprono la porta blindata della banca e con un by-pass elettronico disinnescano il sistema d’allarme collegato al 113 e a un istituto di vigilanza privato. Si dirigono al cancello che dà accesso a due rampe di scale, scendono velocemente e arrivano a un’altra porta blindata, la aprono ed entrano nel caveau. All’interno ci sono 997 cassette di sicurezza, ma l’obiettivo dei tre sono solo 197 cassette segnate con una crocetta rossa da qualche complice che si è preoccupato di svolgere il proprio compito in precedenza. Con una grossa pinza le aprono e trasferiscono il contenuto di 174 cassette in 25 borsoni che si erano portati dietro. Le altre 23 cassette aperte rimangono intatte, forse non interessava il contenuto. Dopo due ore di operazione i tre escono dal caveau e attendono nascosti che alle 3 arrivi il quarto complice con l’auto all’uscita laterale di via Strozzi, un’entrata chiusa da oltre un mese per motivi di sicurezza e utilizzata solo dai magistrati; rompono il lucchetto ed escono. Si fermano a un bar per fare colazione e subito dopo si disperdono nel caldo della notte romana. Alle 6,40 di sabato 17 la donna delle pulizie dà l’allarme. I primi poliziotti che accorrono trovano alcuni pezzi dell’attrezzatura: guanti, piedi di porco e cacciaviti. Manca solo l’estrattore, l’attrezzo utilizzato per scardinare le cassette. Fino a quel momento il caveau della Banca di Roma situato all’interno del Tribunale era considerato una sorta di Fort Knox per la sua sicurezza ma, nel giro di poche ore, è diventato il luogo più insicuro al mondo situato nell’ormai famoso porto delle nebbie (il nome dato al Tribunale della Capitale per come molte inchieste finivano insabbiate tra gli anni ’70 e gli anni ’90). E anche questa storia sembra subire la medesima sorte. Le prime notizie raccontano di un bottino composto da documenti, due chili di cocaina, gioielli per cinquanta miliardi, cinque quintali d’oro e soldi per dieci miliardi di lire. Quello che più inquieta è che i proprietari delle cassette erano magistrati, avvocati e dipendenti del Tribunale. Le prime reazioni sono tra il comico e il grottesco, ma nessuno immagina quello che si scoprirà di lì a qualche mese. A occuparsi dell’inchiesta è, per competenza, la Procura di Perugia che a dicembre dello stesso anno traccia le prime conclusioni. Secondo i magistrati umbri Silvia Della Monica e Mario Palazzi il palazzo di Giustizia romano era, da almeno un anno e mezzo, in mano a Massimo Carminati, (che nel frattempo è stato arrestato, e che in quei giorni era anche accusato di essere l’autore materiale dell’omicidio di Mino Pecorelli poi assolto), e altri tre complici esperti nell’apertura di cassette di sicurezza. Nel corso di questo arco di tempo il Guercio, che secondo i giudici era più interessato ai documenti che al contante, aveva avuto libero accesso oltre che al caveau anche ad alcuni uffici, compresi quelli del sesto piano dove si trovano le sale d’ascolto per le intercettazioni. A fare queste rivelazioni sono due carabinieri che confessano di essere stati i complici della banda. Passano i giorni e la storia del furto si tinge sempre più di giallo. A un anno di distanza i giudici scoprono che non si sarebbe trattato di un semplice furto di una banda di ladri, anche perché di banche a Roma c’è l’imbarazzo della scelta, ma di un preciso colpo su commissione realizzato per ricattare alcuni personaggi. I protagonisti della vicenda sono carabinieri corrotti, esponenti della Banda della Magliana, un cassiere di banca, un impiegato del Ministero della Giustizia, un avvocato massone e, perché non manca mai, un collaboratore dei Servizi Segreti. Detto che di quel bottino e di quei documenti non si è avuta più traccia, a quindici anni di distanza Massimo Carminati si è preoccupato dell’arrivo di Pignatone a Roma perché avrebbe messo ordine soprattutto al porto delle nebbie.
Mafia Capitale, Massimo Carminati svaligiò la superbanca per ricattare i giudici, scrive l'08/06/2015 "Giornalettismo". Una delle rapine più misteriose della capitale d'Italia venne commessa proprio dal "Cecato": Salvatore Buzzi sa tutto, o quasi. Quali i mandanti? Quali le coperture politiche? Mafia Capitale, così Massimo Carminati svaligiò il caveau della Banca di Roma a Piazzale Clodio, una delle filiali più inespugnabili della Capitale d’Italia e meno frequentate dai “cassettari” dell’Urbe proprio per l’alto rischio necessario a “trattarla”. Ma Carminati, nel lontano 1999, riuscì a svuotare le cassette di sicurezza: per rapinare valori, oro, gioielli? No, o meglio, anche: ma principalmente documenti. Documenti importanti che potevano essere utili per ricattare proprio i giudici del Palazzaccio. Questo fu l’unico crimine per cui Massimo Carminati, detto il “cecato”, fu effettivamente condannato. La storia del colpo la racconta Salvatore Buzzi, sodale di Massimo Carminati nell’organizzazione criminale che le inchieste del Mondo di Mezzo stanno portando alla luce, nelle intercettazioni riportate dal Messaggero. Vennero svaligiate 147 cassette di sicurezza su 900. A distanza di anni, dopo indagini, arresti e tre gradi di giudizio, sono gli atti dell’inchiesta Mafia capitale a confermare quella che è sempre sembrata l’unica vera ragione del colpo: acquisire documenti per ricattare giudici e avvocati. È proprio Salvatore Buzzi, che del Nero conosce fama e misteri, a tirare in ballo la vecchia storia, mentre con l’ex brigatista Emanuela Bugitti discute su quale sia il modo più rapido per recuperare atti riferibili alla locazione di un complesso immobiliare, di nuova costruzione, a Nerola. La chiave di tutto è ancora una volta Carminati, a lui nessuno è in grado di dire di no. Ricorda Buzzi: «Lui fa na…na rapina alle cassette di sicurezza della…(furto al caveau della Banca di Roma, ndr)…trovano de tutto e de più». Aggiunge Bugitti: «Sono i giudici che mettono le cose». Allora Buzzi spiega: «Eh, qualcuno è ricattabile. Secondo te perché non è mai stato condannato. A parte questo reato, tutto il resto sempre assolto…». Sempre assolto, Carminati, tranne che nel 1999: quattro anni di galera, più volte indultati. Dal colpo la banda di Carminati porta via ingenti quantità d’oro che prova a piazzare, raccontano testimoni e pentiti interrogati dai magistrati. [Parla] Giuseppe Cillari, le cui vicende giudiziarie sono legate all’omicidio Casillo e alle attività della Banda della Magliana. «Una sera – riferì ai pm – vennero da me Pasquale Martorello, Piero Tomassi e Stefano Virgili che volevano disfarsi dell’oro. È avvenuto dopo l’arresto dei carabinieri». All’incontro erano presenti l’ex cassettaro e neo-imprenditore Virgili, che di lì a poco verrà colpito da mandato di cattura, e altri complici del colpo. Ricorda ancora Cillari: «Mi hanno parlato di 5 quintali d’oro da piazzare e io ho detto che quell’oro valeva il prezzo di mercato meno il dieci per cento. Complessivamente 50 miliardi. Mi è stato detto che c’erano anche altri 5 miliardi di certificati, più un miliardo e 200 milioni in contanti. L’oro è stato sepolto prima nei pressi di Viterbo, poi a Montalto di Castro. Martorello sa dov’è». Ma a nessuno interessa l’oro di Carminati, men che meno al “Nero” della banda della Magliana. La rapina nel caveau della Banca di Roma di Piazzale Clodio ha tutt’altra ragione. Una storia oscura, fatta di mandanti nella Roma bene e di intrecci con i servizi segreti, secondo le testimonianze. Il vero scopo – rivela il ricettatore – non erano i soldi, ma i documenti che valgono molto più dei gioielli. So che hanno documenti importanti. Il motivo per cui è stato fatto il furto è stato quello di prendere dei documenti che potessero servire a ricattare i magistrati e so che i documenti sono stati trovati. Mi è stato riferito che il furto sarebbe stato commissionato a Virgili da alcuni avvocati, due romani. So che l’interesse era rivolto a documenti di magistrati, in modo da poterli ricattare per la gestione dei processi importanti che hanno su Roma. Uno di questi si trova a Montecarlo con Tomassi e tale Giorgio Giorgi, dei servizi segreti. Ed è proprio riguardo i presunti mandanti di Carminati che il terreno per i testimoni, o comunque per chi sceglie di parlare, si fa immediatamente scivoloso. Su Carminati e presunti ispiratori “politici”, poi, nessuno ha voluto aggiungere nulla. Nemmeno Vincenzo Facchini, uno dei complici nel colpo che ha scelto di collaborare. Davanti a quel nome ha manifestato addirittura un atteggiamento ostruzionistico, e al pm Mario Palazzi che gli ha chiesto dei suoi rapporti con il Nero, ha risposto: «Dottore, questa domanda mi mette sotto la ghigliottina. Io questo signore non lo conosco e non lo voglio conoscere».
Un paese fondato sui dossier. Le liste di Sindona, Gelli, Calvi, le rivelazioni a sfondo sessuale. Così ricattare è stato, nella storia d’Italia, un modo di comandare, scrive Bruno Manfellotto su "L'Espresso" il 24 ottobre 2016. Non c’è cronista della mia generazione che non abbia sognato di mettere le mani sulla mitica lista dei 500 esportatori di capitali della Finabank di Michele Sindona, amorevolmente salvati e rimborsati dalla super andreottiana Banca di Roma un attimo prima che la bancarotta li travolgesse. Almeno toccarli, quei fogli, darci un’occhiata... Niente. Anche perché la lista è esistita, certo, ma non c’è più, solo pochi l’hanno letta, e comunque qualcuno l’ha fatta sparire. Di Ferdinando Ventriglia, dominus della Banca di Roma e della politica economica dalla metà degli anni Settanta, si raccontava addirittura che non l’avesse nemmeno voluta vedere, anzi che se la fosse letteralmente data a gambe quando gliene parlarono. Chissà. Comunque, che spettacolo vedere sulla scena il meglio di politici, imprenditori, alti prelati, barbe finte (molti riempiranno la P2 di Licio Gelli) impegnati a difendersi minacciando. Storia finita però in un nulla di fatto, senza colpevoli e senza verità, come tante altre sordide faccende di veline. E di generale omertà. Ma in fondo, quel che conta per chi alimenta le centrali della diffamazione, non è come va a finire, ma cosa succede nel frattempo, cioè dopo che la bomba è esplosa. E il dopo dura sempre molto. Una Repubblica fondata sul ricatto. Con radici antiche. Giolitti e Crispi, fine Ottocento, si fecero la guerra minacciando rivelazioni intorno al crac della Banca Romana; Fanfani e Piccioni, anni Cinquanta, si giocarono la successione a De Gasperi al vertice della Dc a colpi di memoriali sul caso di Wilma Montesi, trovata morta sul litorale di Torvajanica; i primi vagiti del centrosinistra, anni Sessanta, furono accompagnati dalle 157 mila schedature del Sifar del generale De Lorenzo, quello del “tintinnar di sciabole” di un colpo di Stato sventato. E del resto, molti anni prima, anche Mussolini aveva fatto largo uso degli archivi dell’Ovra, e li temeva perfino per se stesso e per la sua Claretta. Poi sfornare dossier è diventato abitudine, dall’artigianale agenzia “Op” di Mino Pecorelli agli otto computer di Pio Pompa, l’agente del Sismi ingaggiato contro i nemici del Cav. A ciascuno il suo dossier. Una lista pronta all’uso finiscono per farsela in casa pure Diego Anemone, cricca degli appalti pubblici, e perfino il Madoff dei Parioli. Non si sa mai. Gli argomenti cari ai fabbricanti di ricatti sono sempre le banche, cioè i soldi, e il sesso, eterno metronomo della politica. Al primo appartiene, appunto, la lista dei 500 resa nota perché chi doveva sapere sapesse quanti erano gli amici potenti alla corte di Sindona. Per arrivare al processo ci vorranno dieci anni, ma la lista non si troverà più e chi l’aveva nascosta non sarebbe stato perseguibile per intervenuta amnistia. Amen. Poi c’è il romanzo dello Ior, da Marcinkus a Gotti Tedeschi, passando per Calvi, Mennini e Pazienza, e pure la banda della Magliana di Renatino De Pedis, ogni volta con larga diffusione di carte e allusioni. E naturalmente ci sono le cassette di sicurezza del Palazzo di Giustizia di Roma opportunamente svuotate da Massimo Carminati, boss di Mafia Capitale, di cui racconta qui Lirio Abbate. Non può mancare Piero Fassino crocifisso (e poi assolto) per un’intercettazione - «Abbiamo una banca» - arrivata, ma guarda un po’, nelle mani di Berlusconi che, felice, esclama rivolto al suo pusher: «Come posso sdebitarmi per questo prezioso regalo?». Poi c’è il sesso, e funziona, anche se Roma non è Washington. E qui Berlusconi e il suo cerchio magico danno il meglio. La memoria corre ai dossier che costringono alle dimissioni il direttore di Avvenire Dino Boffo, reo di eccesso di critiche al Cav.; alla incredibile vicenda di Piero Marrazzo, vigilia delle primarie del Pd, sorpreso tra coca e trans da carabinieri-agenti provocatori che filmano un video offerto poi alla Mondadori per 200mila euro, che B. sfrutta da par suo: «Se fossi in te, Piero, cercherei di farlo sparire...»; all’odissea di Stefano Caldoro, candidato poco gradito alla guida della Regione Campania (il Pdl voleva il più potente Nicola Cosentino), al quale Denis Verdini, allora indimenticabile factotum berlusconiano, fa sapere che circolano brutte notizie sulle sue abitudini sessuali... Ma nel buco nero era finito anche Silvio Sircana, portavoce di Romano Prodi premier, paparazzato in una strada popolata di prostitute; per Gianfranco Fini, in rotta di collisione con il Capo, era bastato evocare antiche vicende “a luci rosse”; di Veronica Lario, moglie umiliata che osa ribellarsi, sono spuntate dal nulla foto a seno nudo e allusioni su un amante... La macchina del fango non si ferma mai. Oggi la cronaca ci regala il milione e 700 mila euro in un controsoffito dell’appartamento di Fabrizio Corona: arrestato per qualcosa che assomiglia all’evasione fiscale. Forse nell’Italia dei ricatti è l’unico finito in galera. In attesa del prossimo condono...
Di Lello: «C'era un teorema: la mafia non esiste. Noi lo smontammo». Intervista di Giulia Merlo del 19 ottobre 2016 su "Il Dubbio. «Nessuno si accorse che Buscetta aveva cominciato a parlare. Si venne a sapere solo dopo, perché ad un certo punto i boss si resero conto che era sparito nel nulla». «Con quel processo smontammo la retorica de "La mafia non esiste"». A dirlo è Giuseppe Di Lello, uno dei quattro giudici istruttori del pool di Falcone e uno dei protagonisti del maxiprocesso di Palermo Sono passati trent'anni da quel 10 febbraio 1986, dal teorema Buscetta e dai 260 imputati condannati in primo grado. Un processo che ancora anima i dibattiti e che ha visto - sulle pagine di questo giornale - contrapposte le tesi dell'ex procuratore aggiunto della Dna Alberto Cisterna e Tiziana Maiolo.
«La storia del maxiprocesso è anche la storia di una relazione nuova tra giustizia e informazione», ha scritto Cisterna. Da parte in causa, condivide?
«Condivido il fatto che il processo di Palermo è stato un punto di incontro tra stampa e giudici. Per la prima volta, infatti, c'è stata una vera e propria divulgazione mediatica degli eventi processuali. Niente a che vedere con il rapporto di oggi, però».
In che senso?
«Tanto per cominciare, non abbiamo mai fatto una sola conferenza stampa. Né, tantomeno, c'è mai stata una fuga di notizie dagli uffici di noi giudici istruttori. Pensi che il pentito Buscetta parlò in segreto con Falcone per tre mesi interi e nessuno, dico nessuno, ne era al corrente».
Nessuna soffiata alla stampa?
«Assolutamente no, si venne a sapere solo dopo, perché ad un certo punto la mafia si rese conto che Buscetta era come sparito nel nulla, dopo l'arresto in Brasile. Non lo trovavano né in carcere né in ospedale e allora capirono».
Oggi sarebbe assolutamente impensabile...
«Oggi, se un pentito parla, come per magia lo sanno tutti il giorno dopo e leggono tutti i dettagli sulle pagine dei giornali».
Si è anche scritto che, in quel processo, si processò la Mafia con la M maiuscola, prima ancora che i singoli individui. Lei è d'accordo?
«All'epoca era necessario stabilire, per la prima volta nel nostro ordinamento, se l'associazione mafiosa esisteva in sé, al di sopra dei reati commessi dai singoli individui. Non dimentichiamo che alcuni, in quel periodo, continuavano a ripetere che la mafia non esisteva».
Eppure, Tiziana Maiolo ha sostenuto che sia stato un errore «pensare che il processo non sia solo il luogo dove confermare l'ipotesi accusatoria nei confronti del singolo imputato, ma l'arma con cui si combattono fenomeni sociali trasgressivi». Avete davvero processato la Mafia e non i mafiosi?
«Che assurdità. Per noi era assolutamente necessario stabilire il contesto in cui si svolgevano i fatti, non bastava vagliare solo i singoli reati. Dovevamo individuare preliminarmente se il fenomeno mafioso e il contesto in cui prendeva forma davano vita ad una associazione per delinquere. Certo, è ovvio che al banco degli imputati sedevano i singoli mafiosi, ma per ottenere il risultato dovevamo prima di tutto affermare o smentire il principio della mafia come associazione per delinquere».
Oggi la mafia come la avete conosciuta e combattuta voi è ancora presente in Sicilia?
«La mafia è fatta di tradizione, continuità e innovazione. Queste tre caratteristiche fanno sì che il fenomeno non sia più identico a quello che abbiamo conosciuto trent'anni fa».
Diversa ma non sconfitta?
«Oggi la mafia è sicuramente indebolita: tutti i boss - con eccezione di Matteo Messina Denaro - sono in carcere con la pena dell'ergastolo. Inoltre ormai è una costante il fatto che i beni proventi di mafia vengano sequestrati. Questo è un colpo durissimo, ma attenzione: Cosa Nostra non è ancora vinta».
Immagina, oggi, che si possa istruire un processo come quello di Palermo?
«Non credo sia pensabile, anzitutto perché è cambiato il rito da inquisitorio ad accusatorio. Inoltre i mafiosi da processare sono molti meno, si pensi soprattutto al fatto che da allora non si è più ricostituita una vera e propria "cupola" come quella di Riina, Provenzano, Greco e Pippo Calò».
E quindi dove e come germina oggi la mafia?
«La mafia continua ad essere molto pervasiva sul territorio ed ha grande connessione soprattutto con i singoli poteri locali. Sottolineo però anche il grande lavoro di repressione portato avanti dallo Stato e dalle forze dell'ordine che operano nelle aree più a rischio».
Oggi il concetto di "antimafia" viene utilizzato nei contesti più diversi e in alcuni casi si è rivelata un paravento per situazioni opache. Come considera l'utilizzo di questo termine?
«Certo, esiste il pericolo che l'antimafia venga brandita come arma contundente, ma io ritengo che vadano sempre fatti i dovuti distinguo».
Italia, dalla Repubblica dello spread a quella dei bonus, scrive il 26.05.2015 Marco Fontana. Uno sport molto in voga tra gli opinionisti politici è quello di identificare per titoli le discontinuità storiche del Parlamento italiano. Un esempio classico è la distinzione tra Prima e Seconda Repubblica, che sintetizza il cambio di assetto istituzionale avvenuto nel 1992-94 dopo che sui partiti politici si abbatté lo tsunami Tangentopoli. Originale la più recente spartizione ideata dall'editorialista dell'Espresso, Marco Damilano, che nel suo ultimo saggio afferma: C'è stata la Repubblica dei partiti, che aveva come religione la Rappresentanza. Poi è arrivata la Repubblica del Cavaliere, fondata sulla rappresentazione. Quella che sta nascendo è la Repubblica dell'Auto-rappresentazione. Una Selfie-Repubblica, con un'unica bandiera: l'Io. Riteniamo che la classificazione di Prima, Seconda e Terza Repubblica sia uscita pesantemente sconfitta dai colpi della cronaca giudiziaria. In sostanza, niente è davvero cambiato dal ‘92 ad oggi. Che differenza c'è tra l'inchiesta Mafia Capitale (con le presunte commistioni tra sistema delle cooperative e partiti), le operazioni Minotauro e Quadrifoglio (che hanno svelato le infiltrazioni mafiose al Nord e negli appalti di Expo 2015), i casi Monte dei Paschi — Unipol/Sai e le "mazzette" di Tangentopoli? La corruzione continua a dilagare dentro e fuori dalla politica: intanto sarà lievitato il prezzo da pagare, ma nulla è mutato. La percezione della corruzione nelle istituzioni da parte dei cittadini sfiora il 90%, un vero record tra i paesi dell'Ocse. Secondo un recente studio di Unimpresa, è un fenomeno che costituisce una pesante zavorra per l'Italia: ha fatto diminuire gli investimenti stranieri del 16% e aumentare del 20% il costo complessivo degli appalti; ha divorato in dieci anni circa 100 miliardi di euro di PIL; le imprese sotto lo scacco della corruzione sarebbero cresciute in media un 25% in meno rispetto alle concorrenti che operano in un'area di legalità. Sono cifre terribili che l'Italia non riesce a combattere efficacemente, anche perché il sistema giudiziario sembra colpire soltanto i comprimari, le zampe di quella bestia che è il sistema clientelare, senza andarne a recidere la testa. E negli ultimi anni anche la fiducia dei cittadini nella magistratura è crollata. In un contesto del genere, dove tutto sembra uguale ai tempi prima di Tangentopoli, pare fuori luogo parlare di Prima e Seconda o Terza Repubblica. Il passato è tornato d'attualità, dimostrando che sotto il profilo etico possono cambiare i personaggi, ma il copione rimane il medesimo. Sulla classificazione di Damilano non v'è nulla da eccepire, se non che tale visione è figlia di un'ideologia radical chic che preferisce per la sua classe politica grigiore e anonimato rispetto all'identificazione con un leader forte e carismatico. D'altra parte non si comprende il motivo per cui tale fervore critico, molto generoso nei giudizi in patria, non si abbatta con lo stesso impeto su politici stranieri quali Clinton, Obama o Tsipras, individui dall'Io forte che vengono innalzati ad icone senza neppure aspettare che ottengano successi reali per i propri cittadini. Personalmente, credo sarebbe molto più semplice concentrarsi sugli ultimi anni della politica italiana, che hanno visto alternarsi tre governi non votati dal popolo e che hanno prodotto risultati nefasti per la qualità della vita e per le aspettative sul futuro delle persone. L'Italia ha visto tramontare la sua forma di governo conosciuta e ha abbracciato un nuovo modello, la Repubblica dello Spread, nella quale la democrazia si piega a parametri economici soggettivi ed esterni. Dopo le rivelazioni di Alain Friedman è ormai palese che nel 2011 elementi al di fuori del nostro Paese abbiano agito per piegare il Parlamento italiano ad accettare rappresentanti più graditi alla Troika. Non è fantapolitica, altrimenti avremmo visto partire smentite e querele. Nessuno fiata neppure di fronte a inchieste giudiziarie di cui si parla poco, ma di cui media si dovrebbero occupare, perché hanno determinato un'ingerenza esterna alla nostra democrazia. Dal caos venuto dalla finta austerity di Monti e Letta si sarebbe scatenata prima o poi una reazione. La richiesta di continui sacrifici senza poter vedere l'uscita dal tunnel ha necessariamente portato ad aggrapparsi a chiunque racconti belle favole di speranza. Ed ecco che la parabola di ascesa di Renzi ha trovato il suo terreno fertile. In Italia è tornato il tempo di chi promette mirabolanti soluzioni ai problemi quotidiani. E non importa se in realtà sta solo concedendo una parte del dovuto, anche in termini costituzionali. Si è così passati alla nuova fase: la Repubblica dei bonus. Una continua elargizione dello Stato magnanimo, prima con gli 80 euro, poi coi bonus bebè e infine il bonus pensioni. Chissà che un domani, dopo un paio di anni di nuova local tax, non arrivi anche il bonus casa. Perchè quando in Italia si parla di bonus, è meglio coprire con le mani il portafoglio e assicurarsi che sia ancora in tasca.
Totti Spa, ville, affari (e debiti) del Capitano. Mentre la stampa sportiva e romana suona la fanfara per l’abbandono al calcio di Totti, ecco un’esemplare inchiesta giornalistica del 30 maggio 2017 di Gianni Dragoni, giornalista del SOLE24Ore. Ville per lui e famiglia, e perdite per la sua scuola calcio. Fatti e numeri su cui molti tacciono. Troppi. Numero Dieci per sempre. Il “Dieci” continuerà ad essere un punto di riferimento importante per Francesco Totti, anche se l’ex “Capitano” ha dato l’addio all’As Roma ed a questa maglia. Ruota attorno al numero dieci infatti il grappolo di sette società, tutte del tipo “a responsabilità limitata” (Srl) che il Pupone ha costruito nel tempo, con lungimiranza, per reinvestire i soldi (tanti) guadagnati nel calcio. Il settore preferito è l’immobiliare, con investimenti nel centro di Roma, nella zona Sud della capitale, ma anche nell’estrema periferia, a Tor Tre Teste. Poi c’è la scuola calcio a Ostia. Non hanno dato invece risultati positivi i tentativi di diversificare l’attività con la vendita online di oggetti con il marchio del campione, il merchandising.
Numberten Srl, ovvero “numero dieci”, è la società che fa da holding, la capogruppo dell’impero economico di Totti. Numberten è stata costituita il 4 aprile 2001 dal notaio Maurizio Misurale. Totti aveva 24 anni e mezzo e stava guidando il club giallorosso alla conquista dello scudetto, il terzo (e, per ora, ultimo) nella storia della squadra di calcio più amata dai romani. I soci della Srl in origine erano la mamma del calciatore, Fiorella Marrozzini, con il 60% delle quote e il fratello del Capitano, Riccardo Totti, di sei anni più grande, è nato nel 1970. Dal 2009 le quote societarie sono cambiate, adesso Francesco Totti possiede l’83,19% del capitale, il resto è diviso tra mamma Fiorella (10,08%) e il fratello Riccardo (6,72%). La Numberten è classificata nella categoria “Agenzie ed agenti o procuratori per lo spettacolo e lo sport”. Si occupa di comunicazione, eventi, gestisce i diritti d’immagine di Totti, di cui il fratello Riccardo è stato anche il procuratore, da quando più di 16 anni fa il Pupone ha interrotto i rapporti con Franco Zavaglia, che era legato alla Gea. Questa era la società di procuratori creata dai figli di potenti esponenti del calcio e della finanza, da Alessandro Moggi a Chiara Geronzi, in sodalizio con alcuni tra i figli di Sergio Cragnotti e Calisto Tanzi. Riccardo Totti è il presidente di Numberten ed ha la stessa carica, o quella di amministratore unico, nelle altre sei società che, direttamente o indirettamente, sono controllate dalla holding capogruppo. Il Capitano non ha incarichi nei consigli di amministrazione delle sue società. La società di famiglia è entrata direttamente in campo anche nei rapporti con la Roma. Quando il 31 maggio 2005 il club, all’epoca ancora di proprietà di Franco Sensi, annunciò il prolungamento del contratto con il “Capitano” (nel comunicato scritto con la C maiuscola, come “Calciatore”) fino al 30 giugno 2010. L’accordo prevedeva per il giocatore uno stipendio lordo di 10,4 milioni di euro, per ciascuna stagione sportiva. La Roma annunciò inoltre di aver definito con Numberten un accordo di licenza esclusiva per l’uso dei diritti d’immagine di Totti per 520mila euro a stagione, una somma che si aggiungeva al già sontuoso stipendio. Nella fase finale della carriera lo stipendio di Totti è sensibilmente diminuito. Per quest’ultima stagione si è parlato di circa 100mila euro netti al mese o poco più, anche se la cifra non è stata resa nota ufficialmente. La Numberten è partita nel 2001 con ricavi per 1,11 milioni. La somma è aumentata fino al picco di 3,29 milioni nel 2006, l’anno in cui ha raggiunto l’utile record di 806.446 euro al netto delle tasse. Poi i ricavi sono gradualmente diminuiti, negli ultimi tre anni Numberten ha avuto ricavi per 1,27 milioni nel 2013, 2,019 milioni nel 2014, 1,156 milioni nel 2015. Il bilancio 2016 non è ancora disponibile. Dal 2001 al 2015 la Numberten ha chiuso 12 bilanci in attivo e tre in perdita. Solo negli ultimi anni ci sono stati bilanci in rosso, -3.426 euro nel 2012, -33.310 nel 2013, – 61.481 euro nel 2015. A fine 2015 la società aveva un attivo netto pari a 14,65 milioni, composto da immobilizzazioni materiali per 5,66 milioni (in sostanza immobili e terreni), un valore pari al costo di acquisto, immobilizzazioni finanziarie (cioè valore delle partecipazioni in altre società controllate) per 2,357 milioni, crediti per 6,92 milioni, liquidità per 696.243 euro depositata in banca. La società, pur avendo un capitale di soli 119mila euro, ha un patrimonio netto molto più consistente, pari a 7,4 milioni, comprendente utili non distribuiti degli anni precedenti pari a 4,28 milioni e riserve di rivalutazione degli immobili e terreni per 3,039 milioni (la rivalutazione è stata fatta nel 2008). La società ha un indebitamento non trascurabile, pari a 7,18 milioni, tra cui debiti verso soci “per finanziamenti” pari a 3,467 milioni.
La holding controlla direttamente cinque società. La più importante è la Immobiliare Dieci, posseduta al 100%, iscritta in bilancio per un valore di poco superiore a due milioni. Nel 2015 aveva ricavi pari a 956.415 euro e un utile netto di 33.268, in forte contrazione rispetto agli anni precedenti (l’utile era stato di 182.568 euro nel 2013 e 95.541 nel 2014). A fine 2015 aveva liquidità per 1,235 milioni e un patrimonio netto di 1,1 milioni. I debiti totali ammontavano a 3,567 milioni, quasi interamente erano “debiti verso soci per finanziamenti” (cioè verso la società madre, Numberten). Questa Srl possiede il 100% di un’altra società, la settima dell’impero Totti, Immobiliare Ten (non c’è molta fantasia nei nomi), il cui bilancio 2015 mostra ricavi pari a 1,008 milioni con un utile netto di 101.891 euro, liquidità pari a 969.510 e debiti per 1,47 milioni.
Tra le altre società c’è Longarina, posseduta al 100% dalla Numberten. Gestisce il Centro sportivo As Longarina di Ostia, che la famiglia Totti ha comprato nell’estate 2001 da Angelo Orazi, un altro ex calciatore della Roma, insieme a un parcheggio di 4.000 metri quadrati. Qui c’è la Totti Soccer School, la scuola calcio I conti dell’esercizio al 30 giugno 2016 mostrano ricavi per 47.356 euro e una perdita netta di 16.797. La Longarina ha un patrimonio immobiliare valutato in bilancio 2,29 milioni. Numberten possiede inoltre il 100% di Immobiliare Acilia, società che si è svuotata, i ricavi sono crollati da 775.000 euro del 2013 a 235.000 nel 2014 e appena 4.560 nel 2015. L’ultimo bilancio si è chiuso in rosso per 20.305 euro.
Nel portafoglio della Numberten ci sono infine due piccole società. Skins srl che nel 2015 era inattiva (zero ricavi e 694 euro di perdita), posseduta al 51% (il 49% è di Roberto Maltoni). Infine la Ft. 10 Srl, posseduta al 60%, ci sono altri due soci, doveva vendere online prodotti legati al marchio Totti ma non è decollata, l’ultimo bilancio disponibile indica un fatturato di 7.500 euro e una perdita di 5.783 nel 2014.
Non c’è un bilancio consolidato che metta insieme i conti di tutto l’impero Totti, eliminando le partite contabili infragruppo, come ad esempio i finanziamenti tra la società madre e le controllate, che rappresentano crediti per la prima e debiti per le altre. Facendo una somma algebrica di tutte le voci principali, si ottiene un bilancio aggregato, che dà comunque un’idea complessiva.
Nel 2015 le sette società di Totti hanno espresso ricavi aggregati per 3,17 milioni, la somma algebrica del risultato netto (due società sono in attivo, cinque in rosso) dà un utile netto aggregato di appena 30.099 euro, la liquidità totale è di 2,9 milioni. I debiti aggregati ammontano a circa 8,6 milioni, escludendo le partite di dare e avere reciproche tra le società. Oltre agli immobili di proprietà, nelle società di Totti ci sono tre immobili acquisiti in leasing, i contratti sono tutti con una sola banca, il gruppo Monte dei Paschi di Siena (Mps Leasing and Factoring), a fine 2015 il “valore attuale” delle rate ancora da pagare era pari a 17 milioni circa. Anche questo è un debito implicito, che si aggiunge ai debiti indicati nei bilanci.
Nel libro “I Re di Roma – Destra e sinistra agli ordini di Mafia Capitale” (2015, editore Chiarelettere), i giornalisti Lirio Abbate e Marco Lillo hanno raccontato che la società Immobiliare Ten di Totti ha ottenuto dal Comune di Roma più di 5 milioni di euro in sei anni, per l’affitto di 35 appartamenti arredati in un residence nell’estrema periferia, in via Tovaglieri a Tor Tre Teste. Il Comune ha pagato 75.000 euro al mese per l’affitto come case popolari, dal 2008 al 2014, un canone definito elevato dagli autori del libro. Abbate e Lillo hanno scritto che il capo della commissione di gara del Comune era Luca Odevaine, ex vice capo di gabinetto del sindaco Walter Veltroni. Arrestato nelle indagini per Mafia Capitale, Odevaine è stato successivamente condannato a complessivi tre anni e due mesi di reclusione, per vicende legate alla gestione degli immigrati per il Cara di Mineo, in Sicilia. Una condanna è per turbativa d’asta e falso (2 anni e 8 mesi), l’altra per corruzione (6 mesi). Per l’affitto delle case di Totti al Comune nessuno è indagato. Nel libro “Mafia Capitale” Abbate e Lillo raccontano che due palazzi di via Rasella, nel centro di Roma, posseduti dalla Immobiliare Dieci di Totti, sono stati uniti e ristrutturati e ospitano gli uffici amministrativi dei servizi segreti. Da una visura che ho fatto nella banca dati Cerved emerge inoltre che nel Catasto Francesco Totti risulta proprietario di sette fabbricati, a Roma Sud, tutti in regime di separazione dei beni. Il principale è la villa di 21 vani nella quale Francesco abita con la moglie Ilary Blasi e i tre figli, nella zona del Torrino (ometto la via per rispettare la riservatezza). Inoltre Totti possiede un villino di 30 vani in via Lisippo, del valore stimato al Catasto 1,425 milioni, nella zona di Axa, vi abitano la madre e la famiglia del fratello Riccardo. Poi c’è la villa sul lungomare di Sabaudia di 9,5 vani. Ancora, c’è un’abitazione di 4 vani in viale Giorgio Ribotta, all’Eur, con garage di 18 metri quadrati e un locale di 5 metri quadrati della categoria “magazzini e locali di deposito”. Nel Catasto viene stimato il valore di cinque fabbricati, per un valore di 2,39 milioni. Non è stimato il valore della villa al Torrino con 21 vani. Quest’abitazione ha un garage di 150 metri quadrati, che secondo il Catasto vale 333.750 euro.
Maledetto chi ne parla, scrive Federica Angeli il 12 aprile 2017 su “La Repubblica”. "A Ostia la mafia non esiste. E che sia maledetto chi ne parla e getta discredito sulla nostra cittadina". A dirlo sono alcuni sindacati di balneari, mafiosi e finte associazioni antimafia. Ma anche cittadini che indignati per l'onta che su Ostia si è abbattuta dopo le operazioni della magistratura - Nuova Alba e Tramonto del 2013 e del 2014 e lo scioglimento del X° Municipio di Roma avvenuto nel 2015 - non accettano l'abitudine spezzata di un mondo che, tutto sommato, andava avanti lo stesso. Capovolto sì, dove la legge dell’arroganza e della brutalità la faceva da padrona, ma funzionava. Tutti andavano a divertirsi nei locali (dei clan), perché l'imprenditoria collusa con criminalità e potere politico portava feste e allegria. Almeno in superficie. L’apparenza era salva. Chi non si gira invece dall'altra parte e tenta di rialzarsi sono coloro che ancora oggi vedono i clan del litorale bussare alla loro porta a chiedere pizzo. "Ci aiuti lei, ci protegga lei", mi implorano facendomi giurare che il loro nome sarà coperto dall'anonimato. Delle forze dell'ordine non si fidano. L'ex dirigente del commissariato di Ostia, Antonio Franco, colui che doveva proteggerli, è stato arrestato per corruzione. Nelle carte dell'inchiesta si leggono telefonate nelle quali avvisava gestori delle sale slot vicine al clan Spada di non farsi trovare, di chiudere bottega perché stava arrivando il controllo da lui stesso commissionato ai suoi agenti. Da una parte le carte in regola per aver organizzato il blitz, dall'altro il vero volto di un poliziotto fedele alla mala. L’intreccio perverso di verità e apparenza. Come quella del business delle palestre: l’ex assessore Sabella chiude la loro palestra simbolo nella roccaforte del clan e, sparito Sabella, ne aprono tre. Una sfida. “Chiudi una mia palestra? E io ne apro tre”. Dimostrare di essere vincitori sul territorio, non vinti. Anche se la loro famiglia è ormai decimata da inchieste, arresti e condanne. Ultimi colpi di coda o nuovi intrecci e compromessi col potere politico?
La piccola Las Vegas de noantri, scrive il 10 aprile 2017 Piero Melati - Giornalista di Repubblica. Segui i sogni. Se segui i sogni non sbagli. I sogni, come i soldi, sono una pista sicura per scoprire la mafia. Da Cuba a Ostia, i boss sognano. Cosa Nostra americana, prima della rivoluzione di Fidel, sognò L'Avana come il primo “Narcostato”. Lucky Luciano accorse da Napoli ai Caraibi, all'indomani del golpe del dittatore Batista. L'isola doveva diventare la base planetaria del traffico di droga, ma anche una Las Vegas: casinò, bordelli, alcol. Poi Castro guidò la rivoluzione e il sogno si infranse. Allora pensarono alla Sicilia indipendente. La mafia soffiò sul fuoco del movimento separatista. Si tenne un importante summit a Palermo, un altro poco dopo a Nuova York. Ma quest'ultimo venne intercettato dal Fbi, i padrini dovettero scappare nei boschi, e intanto in Sicilia l'indipendentismo si spense. Niente “Narcostato” neppure stavolta (anche se poi la mafia saprà ugualmente usare la Sicilia più che bene). Nel film Suburra di Stefano Sollima l'intera vicenda di Mafia Capitale ruota intorno al sogno di fare di Ostia una Shangri-La de noantri: megaporto turistico per sceicchi e petrolieri, case da gioco per la mafia russa, templi del divertimento per nuovi ricchi. Su quel sogno i clan hanno fatto il salto. Dapprima erano concessionari illegali degli stabilimenti balneari, come i primi Casalesi lungo tutto il litorale di Gaeta. E controllavano la droga. Per carità, era tanto. Ma non abbastanza. Sono cresciuti quando hanno concepito il sogno di una Ostia-Las Vegas. Nessuno, dalla Procura di Roma, aveva del resto mai contestato ai clan del litorale il reato di associazione mafiosa. Così loro potevano fingersi “non mafia”. Poi è cambiato tutto. E' arrivato il procuratore Giuseppe Pignatone, sono cominciate le inchieste (la cronista di Repubblica Federica Angeli, minacciata, è oggi sotto scorta). E la pellicola di Sollima ha ribadito che i gangster, quando concepiscono visioni imperiali, è lì che si trasformano in mafia. Non importa se, come Cuba, la Sicilia e Ostia, la loro sindrome napoleonica è destinata alla polvere. Intanto hanno aspirato al cielo. E d'ora in poi avranno sempre più pretese. Come è successo in Colombia, in Messico, dove semplici coltivatori e trasportatori di droga sono poi diventati “cartelli”. E il loro sogno, per il resto del mondo, è diventato incubo.
I fuorilegge di Ostia, scrive l'8 aprile 2017 Attilio Bolzoni su "La Repubblica". Il lungomuro è sempre lì, impasto di cemento e prepotenza, gigantesco corpo di reato a cielo aperto che certifica come anche la legge può diventare fuorilegge. Sono ancora lì anche le sue mafie, quella pidocchiosa e sfrontata e quell'altra più ammanigliata e protetta. Ogni tanto si annusano, si mischiano, a volte fanno anche finta di non conoscersi. Metà Brancaccio e metà Casal di Principe, questa periferia romana è un laboratorio politico-criminale che produce veleni e profitti, malacarne e vergogne. Il mare è privato, sequestrato. Un mare che non si vede mai. Un paio di anni fa in una delegazione comunale ai confini della pineta di Castelporziano mi hanno fatto trovare documenti molto interessanti, le fotocopie (gli originali erano custoditi in cassaforte, in una località segreta per paura che qualcuno li potesse distruggere) delle cartine catastali del lido risalenti al 1992. Confrontandole con le immagini di Google Maps ho potuto verificare com'era e com'è, Ostia prima e Ostia dopo. Un “sacco” che mi ha fatto venire in mente la Palermo sfregiata degli Anni Sessanta. Sono sempre gli stessi i padroni e i padroncini del territorio, con i Triassi o i Senese che un anno scendono di quotazione e l'anno dopo salgono, con i Fasciani che tengono banco nonostante le mazzate giudiziarie, con la tribù degli Spada sparsa nelle “viette” intorno a piazza Gasparri. Il X° Municipio resterà sciolto per mafiosità ancora per qualche mese, nonostante il rumoreggiare nervoso dei più impazienti. Non ci sono più “sceriffi” come il commissario Alfonso Sabella, che da assessore alla Legalità al Comune di Roma aveva provato a riportare alla normalità un quartiere di Roma con più di duecentomila abitanti. Non si mostrano più in prima fila certi personaggi appartenenti a clan politici invischiati in Mafia Capitale, quelli che regolavano il traffico delle tangenti da Ostia e per Ostia. Si manovra nelle retrovie, la banlieue romana rimane un incrocio strategico per esperimenti malavitosi e per mascheramenti che ormai - in realtà – non disorientano più di tanto. Tutto alla luce del sole. Poi c'è la giustizia schizofrenica. In primo grado dice che a Ostia la mafia esiste, in Appello la fa sparire, la Cassazione sentenzia per fortuna che c'è ancora. Ritardi culturali – di una parte di magistratura - che rivelano quanto Ostia sia ancora troppo sconosciuta.
Roma, risana le farmacie e Raggi la licenzia: "Davo noia ai ladri". Simona Laing ha scoperto furti e riportato in utile un’azienda in rosso fisso. L’accusa di troppe assenze le costa il posto, scrive Mauro Favale il 3 aprile 2017 su "La Repubblica". Le hanno dato il benservito nonostante un bilancio in positivo (+ 530 mila euro) dopo anni di "rosso", due milioni in meno di esposizione finanziaria, meno debiti verso i fornitori, oltre a svariate denunce presentate in procura contro sprechi e malversazioni. Dopo le nomine in Acea, lo spoil system dei 5 Stelle a Roma si allunga anche su Farmacap, la municipalizzata del Campidoglio che gestisce (fino al 2015 in costante perdita) 45 farmacie comunali. A perdere il posto, licenziata "per giusta causa" e perché "era venuto meno il rapporto di fiducia " è stata, due giorni fa, Simona Laing, 45 anni, da Pistoia, ex dg dell'azienda. Era entrata in conflitto col commissario Angelo Stefanori, nominato a gennaio da Virginia Raggi. "La verità - si sfoga Laing - è che davo noia".
Si spieghi meglio.
"Me lo disse un signore molto influente, appena arrivata in città, nell'estate 2015, chiamata da Ignazio Marino: "Non ti faranno mettere a posto l'azienda. Sarebbe un caso che Roma non può accettare. Diventeresti un modello". In un anno ho reso Farmacap più efficiente e ho aperto 3 farmacie h24. Sono brava ma non credo di essere un genio. Quello che ho fatto io poteva essere fatto anche da chi mi ha preceduto. La differenza? Non sono di Roma, non sono "comprabile". Volevo vincere la sfida. E c'ero quasi riuscita".
Il commissario le contesta le cifre del bilancio: scrive che l'utile da lei raggiunto è "fittizio" perché non tiene conto dei "diritti acquisiti dai dipendenti: buoni pasto e arretrati".
"Ma non si può dare un giudizio su un bilancio perché non ci sono i buoni pasto che non ho sospeso io e che, tra l'altro, anche per i giudici non erano dovuti".
Sta di fatto che lei è entrata in conflitto con dipendenti e sindacati.
"Solo con la Cgil che ha fatto asse col commissario per farmi allontanare ".
Tra i motivi del suo licenziamento, secondo Stefanori c'è anche la sua scarsa presenza in azienda.
"Pettegolezzi da poco. Come direttore generale non ho l'obbligo di timbrare il cartellino. In base a cosa Stefanori dice così? Non c'è mai stata una volta in cui mi abbia convocato e non mi abbia trovato in sede".
Il commissario arriva il 10 gennaio. Lei è stata licenziata il 1° aprile: quando si inizia a deteriore il vostro rapporto?
"Non gli è mai interessato entrare in sintonia con me. In due mesi mi ha inviato 2 lettere di contestazioni disciplinari e 50 note. La situazione degenera col licenziamento di 4 dipendenti sorpresi a rubare farmaci. C'è un'inchiesta della procura, ci sono le telecamere che riprendono i furti. Bisognava dare un segnale e io l'ho fatto: come fai a non licenziare chi ruba 220 volte in un mese?".
E Stefanori?
"Contesta la legittimità del mio provvedimento. Ma i 5 Stelle non erano quelli che se c'era qualcosa di strano bisogna rivolgersi immediatamente alla procura?".
Il suo rapporto con la giunta Raggi com'è stato?
"Finché al Bilancio c'era l'ex assessore Marcello Minenna ho lavorato benissimo, parlavamo la stessa lingua. Dopo settembre, dopo le sue dimissioni, sono stata lasciata sola fino all'arrivo di Stefanori. Ora che sono stata cacciata mi chiedo: è questo il trattamento riservato alla nuova classe dirigente? Intanto ho deciso di impugnare il mio licenziamento e di chiedere i danni d'immagine ".
Dopo le voci di liquidazione, sembra che il Comune ora voglia tenere Farmacap. Proprio il giorno del suo licenziamento, il Campidoglio ha stanziato 10 milioni per coprire la crisi di liquidità dell'azienda. Come giudica questa mossa?
"Farmacap non ha bisogno di quei soldi, perché quel debito lo si può risanare tenendo i bilanci in utile, come stavo facendo io. La verità è che invece di stanziare quei soldi per la povera gente si prevede già che la gestione di Stefanori porti ad avere delle perdite. Così l'azienda tornerà a essere una mucca da mungere".
Capodanno a casa, il gran pasticcio dei vigili urbani impuniti. L’inchiesta su quella notte assurda di San Silvestro 2014 non ha portato a niente, nessuno è responsabile, tantomeno il comando...scrive Paolo Fallai il 5 febbraio 2017 “Il Corriere della Sera”. Premessa: chi scrive ha il massimo rispetto per la magistratura. Ma non ne può più di parlare della assurda notte di Capodanno 2014 quando un’improvvisa epidemia lasciò in servizio, nelle ore più congestionate dell’anno, solo 100 vigili urbani, mentre 767 rimasero a casa e di questi 628 inondarono il Campidoglio di certificati medici. I vigili erano in aperto contrasto con l’allora sindaco Marino che (figuratevi) pretendeva, d’accordo con l’Autorità anticorruzione e Raffaele Cantone, la loro rotazione. Risultati dopo due anni di indagini: zero. Non sono state trovate prove che fu una diserzione di massa. Anzi ben 741 vigili avevano ottimi motivi per stare a casa. Solo 26 avrebbero esagerato senza averne diritto. Ma alla fine solo 7 (avete capito bene, sette) erano indagati per falso e truffa. In compenso sono già stati rinviati a giudizio 22 medici per i certificati emessi senza visitare il paziente e datati da località di vacanza, dall’Umbria al Terminillo. Poi, come ha raccontato Ilaria Sacchettoni, il giudice per l’udienza preliminare ha dovuto rimandare alla Procura gli atti su quei 7 vigili perché l’accusa ha fatto un pasticcio tecnico. Se tutto va bene se ne riparla tra molti mesi. Insomma l’inchiesta su quella notte assurda non ha portato a niente, nessuno è responsabile, tantomeno il comando dei vigili, che non è mai stato indagato ed è rimasto tranquillamente al suo posto per altri due anni. Appello alla magistratura: che siano prosciolti anche quei 22 medici e quei sette poveri vigili; quella notte di Capodanno ce la siamo sognata. Altrimenti va a finire che ci ammaliamo. Sul serio.
Il più grande spettacolo dopo il big bang…, scrive Piero Sansonetti il 4 Febbraio 2017 su "Il Dubbio". Perché nessuno ha chiesto a Fittipaldi (e a Lillo) chi gli aveva fornito le informazioni segrete su Virginia Raggi? Mi spiego meglio: Emiliano Fittipaldi è un giovane e molto brillante giornalista dell’Espresso, che ha anche già vinto diversi premi giornalistici ed è diventato famoso per il suo libro sui segreti del Vaticano. Marco Lillo è un altrettanto brillante e giovane giornalista del Fatto Quotidiano, anche lui ha vinto premi e scritto libri interessanti su vari scandali italiani. Giovedì hanno messo a segno un nuovo colpo giornalistico. Hanno rivelato che Virginia Raggi è beneficiaria di alcune polizze di assicurazione sulla vita, sottoscritte dal suo fido collaboratore Salvatore Romeo. Caso Raggi, il più grande spettacolo dopo il Big bang… E siccome Virginia Raggi, quando è diventata sindaca, ha promosso Romeo e gli ha assegnato uno stipendio tre volte maggiore dello stipendio che lui prendeva fino a quel momento… siccome, siccome, siccome. Ieri i magistrati ci hanno detto di aver esaminato la questione e che non c’è reato. Tra qualche riga proveremo a ragionare su questo, e sul rapporto tra reato, scandalo ed etica politica. Prima però vorremmo fare osservare una cosa, tornando alla domanda con la quale abbiamo iniziato questo articolo. Giovedì sera Fittipaldi ha partecipato a varie trasmissioni televisive. Insieme ad altri giornalisti che l’hanno intervistato. A tutti era chiara, immagino, una cosa: che Fittipaldi, divulgando la notizia sulle polizze pro– Raggi, che fino a quel momento era conosciuta solo dai magistrati che indagano e dai loro collaboratori (e non era conosciuta neppure dalla Raggi né dai suoi avvocati), stava commettendo un reato. E che dietro al reato di Fittipaldi – considerato generalmente un non reato nella cultura giornalistica più diffusa, in quanto “imposto” dall’etica professionale, e cioè dall’obbligo di scrivere le notizie di cui si viene a conoscenza – c’era un altro reato, più grave, e cioè la violazione del segreto d’ufficio. Qualcuno, magari una talpa dentro la Procura, aveva fatto trapelare la notizia violando apertamente la legge e commettendo un reato per il quale il codice prevede fino a tre anni di prigione. E’ un dettaglio da niente nella vicenda Raggi? È una bazzecola che non interessa a nessuno? Non conta nulla sapere che su questa storia della sindaca di Roma si sta costruendo uno spettacolo politico clamoroso, che forse è teleguidato da qualcuno, forse da nessuno, ma comunque è indecente? E i giornalisti, quando fanno il loro lavoro, devono o no – per etica professionale – trovandosi davanti a una persona che sa chi, da dentro la Procura, ha commesso un reato, chiedergli: «Ma chi te le ha fornite queste informazioni segrete?». Può darsi che sia colpa mia, che non ho capito niente di quale sia il senso di questa professione che esercito da 40 anni. Può darsi che l’etica giornalistica vera sia quella di “demistificare”, di strappare i “veli” che il potere usa per coprirsi e confondere l’opinione pubblica, però che questa etica abbia dei limiti, e che questi limiti siano quelli di considerare intoccabili il giornalismo stesso e il potere giudiziario. Perché? Perché giornalismo e potere giudiziario, in stretta alleanza, combattono una battaglia di moralizzazione che non può essere vinta senza compiere azioni immorali. Può darsi che sia così. Oppure può darsi che più semplicemente la degenerazione del giornalismo giudiziario e spionistico – che spesso, del tutto impropriamente, si fa chiamare giornalismo d’inchiesta – sta raggiungendo vette inesplorate. E che in questa sua corsa (che secondo me è una corsa verso l’auto– annientamento) il giornalismo italiano abbia un complice fedele, che sta lì non solo per aiutarlo, ma per stimolarlo, spingerlo, talvolta costringerlo a razzolare nel fango. E che questo alleato, troppo spesso, si nasconda all’interno di diverse Procure (come molto recentemente segnalato dal Presidente della Corte di Cassazione in persona, e prima ancora da vari Procuratori, come quello di Roma, quello di Firenze, quello di Napoli e quello di Torino, che provarono a metter un freno alla fuga di notizie sulle intercettazioni). Queste cose le abbiamo scritte sul “Dubbio” molte altre volte. Qual è la novità? Che stavolta a finire sotto il lancio del “fango” è finito il partito che più di tutti gli altri, fino a qualche mese fa, aveva sostenuto i lanciatori di fango, le fughe di notizie, i cacciatori di dimissioni. Intendo dire il partito dei 5Stelle. Sarebbe da sciocchi cercare una rivalsa. Dire: ben vi sta. Avete linciato metà classe politica e ora prendetevi la vostra giusta dose di linciaggio. Sarebbe da sciocchi anche perché, a occhio, Virginia Raggi non ha commesso proprio nessun reato, né con le polizze, né con la promozione di Marra, né con nient’altro. Così come non avevano commesso nessun reato (magari ogni tanto va anche ricordato) circa 3000 dirigenti politici che furono coinvolti (e molti arrestati) negli anni del fuoco e del ferro di Tangentopoli. Invece forse è il momento di riconsiderare il “forcaiolismo” a fasi alterne che ha coinvolto l’intero mondo politico negli ultimi trent’anni. E’ inutile negarlo, tutti (centrosinistra, grillini e persino centrodestra) hanno sperato di ottenere vantaggi dal meccanismo delle calunnie e dei sospetti guidato da settori abbastanza larghi del giornalismo e della magistratura. Nell’illusione, ciascuno, di poter danneggiare gli avversari e ottenere vantaggi. Se la politica facesse un patto nel quale si stabiliscono regole di comportamento molto rigorose per i propri esponenti e si rinuncia però alle campagne denigratorie contro gli avversari, tutta la macchina del fango si sgretolerebbe. E anche i giornalisti e i magistrati infedeli resterebbero a bocca asciutta. Però ci vorrebbe un po’ di coraggio. E nel mondo politico, oggi, il coraggio è merce rara.
Raggi, per la nomina di Romeo contestato un nuovo abuso. Al centro del nuovo filone d’inchiesta avviato dalla procura di Roma c’è la nomina (con stipendio triplicato) dell’ex capo della segreteria. Un «ingiusto profitto» che fa ipotizzare per Raggi un altro abuso d’ufficio dopo quello legato a Renato Marra, scrive Fiorenza Sarzanini il 7 febbraio 2017 su “Il Corriere della Sera”. L’avviso di comparizione a Salvatore Romeo è in realtà una nuova accusa a Virginia Raggi. Perché al centro del nuovo filone d’inchiesta avviato dalla procura di Roma c’è proprio la sua nomina a capo della segreteria della sindaca, che in questo modo gli triplicò lo stipendio. Un «ingiusto profitto» che fa ipotizzare un altro abuso d’ufficio, dopo quello contestato per la designazione di Renato Marra a responsabile del Turismo in Campidoglio. Di fronte ai magistrati - che lo hanno convocato per oggi, anche se l’interrogatorio potrebbe slittare - Romeo dovrà chiarire i contatti con Raggi prima di diventare il suo braccio destro, ma anche la scelta di intestare proprio a lei due polizze vita rispettivamente da 30 mila e tremila euro. Per l’inchiesta è una settimana importante, in attesa dell’interrogatorio di Marra sui suoi rapporti con i vertici del Campidoglio e con i leader del M5S a Roma, primo fra tutti Luigi Di Maio. La promozione. Quando Raggi viene eletta, Romeo è un semplice dipendente comunale. Ma da mesi è al suo fianco: prima in campagna elettorale, poi ai piani alti del Comune. Tanto che a giugno - pochi giorni dopo la vittoria alle amministrative - chiede a Marra di consegnare l’organigramma per la macrostruttura, dunque l’elenco di tutti i posti da coprire. Poche settimane dopo Romeo si mette in aspettativa, il 9 agosto viene assunto come dirigente e il suo stipendio passa da 40 mila euro l’anno a 100 mila, poi ridotti a 93 mila. Una decurtazione che comunque non salva Raggi dalla scure dell’Anac guidata da Raffaele Cantone. Il 7 settembre quella nomina viene ritenuta «illegittima», l’Anticorruzione trasmette gli atti in procura. Le polizze. Il procuratore aggiunto Paolo Ielo coordina le verifiche su tutte le delibere firmate dalla sindaca. E dispone controlli patrimoniali per verificare gli scatti degli emolumenti. Scopre che nel 2000 Romeo ha cominciato a investire denaro. Le sue “provviste” sono accumulate su due conti correnti: uno da 90 mila euro, l’altro da 40 mila. Denaro utilizzato per svariate polizze, comprese le due intestate a Raggi nel gennaio scorso, sei mesi prima dell’elezione. Romeo dovrà ricostruire il percorso dei soldi e gli obiettivi dell’investimento chiarendo quale scopo avessero quei “regali”. Il sospetto è che fossero una garanzia per ottenere favori dai beneficiari, tenendo conto che in alcuni casi erano giustificate con motivazioni non veritiere. Il caso più eclatante è quello dell’ex fidanzata indicata invece come “mia figlia”. Per questo, dopo aver sentito la sua versione, è possibile che i pubblici ministeri decidano di convocare gli intestatari per scoprire come Romeo abbia giustificato la scelta. La prossima settimana toccherà invece a Raffaele Marra, detenuto per corruzione, essere sentito sull’accusa di abuso d’ufficio in concorso con Raggi per la nomina di suo fratello Renato. Marra e Di Maio. Dal carcere Marra fa sapere di non aver mai avuto potere decisionale, tanto che di fronte all’altolà del minidirettorio romano sulla sua designazione a vicecapo di gabinetto «avevo deciso di andare via e mi consultai con Luigi Di Maio». L’incontro evidentemente ebbe l’effetto di trattenerlo. Ieri Di Maio ha dichiarato: «Fantasia, non ho mai convinto Raffaele Marra a rimanere in Campidoglio». In realtà il 1 luglio, quando Roberta Lombardi rende pubbliche le perplessità sulla scelta di Marra, Di Maio va al Festival del Lavoro e dichiara: «Chi in questi anni ha dimostrato buona volontà, competenze e storia personale all’interno della macchina amministrativa, ci venga a dare una mano». Il 10 settembre è il direttore de Il Fattoquotidiano Marco Travaglio a rivelare il contenuto inedito del colloquio tra i due. E infatti scrive: «Il 6 luglio Marra chiede di parlare con Di Maio che lo riceve nel suo ufficio. L’ex finanziere gli porta il solito valigione di documenti con tutte le sue denunce e per un’ora e mezza gli illustra la sua esperienza nell’amministrazione regionale e capitolina. “Se non l’avrò convinta ho qui pronta la lettera di dimissioni”». Gli interessati non smentiscono. Marra rimane in Campidoglio fino al 16 dicembre scorso, giorno del suo arresto.
Raggi, arriva il terzo capo d’accusa. E’ indagata per abuso d’ufficio in concorso con Romeo anche per la sua nomina. La storia delle polizze sarà approfondita oggi nell’interrogatorio dell’ex capo segreteria, scrive Edoardo Rizzo l'8/02/2017 su “La Stampa”. Un’altra tegola giudiziaria colpisce la sindaca di Roma. A Virginia Raggi è contestato un secondo abuso d’ufficio: quello relativo alla nomina del capo della sua segreteria politica, con relativo super stipendio. E altre nomine sospette sono al vaglio dei giudici, con il rischio di altre accuse per la sindaca. Ma quali rapporti legavano la Raggi (indagata anche per falso in atto pubblico e per un primo abuso d’ufficio, quello per la nomina di Renato Marra, ufficiale dei vigili promosso a capo del dipartimento del Turismo) ai due dioscuri del Campidoglio, Salvatore Romeo (il capo della segreteria indagato in concorso con la Raggi e in attesa di essere interrogato) e Raffaele Marra (fratello di Renato nonché brillante ex ufficiale della Guardia di Finanza, poi vice capo di gabinetto e oggi detenuto per una tangente)? Non è voyeurismo porsi una tale domanda. Al di là dei sentimenti personali che le carte lasciano intuire, dalla vicenda emerge infatti che i tre hanno contratto tra loro un vincolo molto forte: agiscono come un blocco di potere, una consorteria ristretta che sembra escludere tutti gli altri, con l’eccezione, forse, di Daniele Frongia, il primo vicesindaco della Raggi, quarto partecipante della chat «Quattro amici al bar». In alcune conversazioni, i tre sembrano voler sfidare tutti gli altri, forti di questo vincolo che li unisce e circa il quale i giudici si domandano su cosa in effetti sia basato, mentre non risulta completamente chiara la storia delle polizze intestate alla Raggi da Romeo con un investimento di 33 mila euro sui 133 complessivi dell’operazione finanziaria (il procuratore aggiunto Paolo Ielo e il pm Francesco Dall’Olio faranno domande all’interessato anche su questo). Tra le altre persone che condividono con loro l’avventura della prima amministrazione pentastellata non ce ne è una che gli vada bene fino in fondo. Tutti vengono criticati. Verso nessuno viene espressa stima. Su Paola Muraro, che pure la Raggi ha difeso strenuamente per tutta l’estate, Romeo chiede a Marra di indagare attraverso un suo ex collega della GdF. Persino sull’ex procuratore Guariniello, che si è prestato ad aiutarli come consulente a titolo gratuito, si fa dello spirito. Per non parlare del trattamento riservato alla giudice milanese Carla Raineri, che pure si era trasferita a Roma per collaborare con la Giunta. La sua colpa, ai loro occhi, è stata quella di voler esercitare un ruolo di controllo, così festeggiano quando - sulla base di un parere dell’Anac - è costretta a dimettersi da capo di gabinetto. La Raineri deve pagare per non aver approvato la delibera 19 con cui il 9 agosto viene disposto il nuovo contratto di Romeo. Un atto che non passa al vaglio del gabinetto nè dell’allora responsabile delle risorse umane Laura Benente, fatta rientrare in fretta e furia dalla Raggi all’Inps di Torino. «Licenziata come una domestica e senza preavviso», commenta la Raineri nel suo esposto alla Procura di Roma. La nomina di Romeo è inserita assieme ad altre due, senza che sia indicato il quantum economico (rinviato a «categorie contrattuali di non immediata percezione», dice la Raineri). La delibera in oggetto reca il visto del dottor Viggiano e non della responsabile del Dipartimento risorse umane, dottoressa Benente, che al momento della predisposizione della delibera si trovava in ferie. «Ho trovato sospetto - confida Raineri - il fatto che la delibera fosse stata adottata il 9 agosto ove si consideri che il signor Romeo esercitava le funzioni di capo segreteria particolare sin dall’insediamento del sindaco e cioè dal 19 giugno 2016. Questa discrasia temporale può giustificarsi con il fatto che prima di allora la dottoressa Benente era in servizio e non avrebbe, presumibilmente, apposto la propria firma su una delibera che ha sempre dichiarato di non condividere. Il dottor Viggiano aveva, invece, condiviso con Marra una pregressa esperienza nella Guardia di Finanza». Nel Movimento 5 Stelle la tensione resta alta e va ad incrociarsi con le fibrillazioni della base parlamentare nei confronti dei vertici. Grillo potrebbe vederli la settimana prossima e, a quanto si apprende, tra i parlamentari starebbe girando via mail un modulo ad hoc per le richieste da inoltrare al leader.
Caso Raggi, chat Marra-Romeo: "Senti quello dell'alta finanza per indagare su Paola Muraro". "Ho buttato giù le possibili assunzioni negli uffici di diretta collaborazione indicando gli importi", scrive il 6 febbraio 2017 "Libero Quotidiano". Questo il messaggio indirizzato lo scorso giugno, a notte fonda, da Raffaele Marra, da lì a poco vicecapo di gabinetto di Virginia Raggi, a Salvatore Romeo. Insomma, dall'inchiesta emerge la piena sintonia tra Marra e Romeo, già in tempi non sospetti: perseguono i loro obiettivi, non necessariamente coincidenti con quelli della Raggi. Tra i due lo scambio di messaggi è continuo, anche nel cuore della notte. Si arriva poi al momento della corsa elettorale. Romeo, poco dopo aver intestato la polizza alla Raggi, come sottolinea La Stampa scrive a Marra: "Il candidato sindaco del M5s è Virginia Raggi. E adesso inizia il bello". E dopo il ballottaggio, Virginia iniziano a parlare di poltrone. Scrive Marra a Romeo: "Il Dipartimento servizi scolastici e educativi è compromesso. Tu penserai che la Turchi è stata fatta fuori? Invece no. Complimenti". I due, per inciso, non apprezzano neppure la difesa dell'assessora Paola Muraro, voluta dalla Raggi. Scrive ancora Romeo a Marra, che è ex ufficiale della GdF: "Chiedi al tuo amico della Finanza di indagare sulla Muraro". L'intento due è chiaro: conservare la loro influenza sulla sindaca e, dunque, sulla gestione del Campidoglio. Ma non tutto andrà come previsto: loro due saranno costretti a lasciare prima di Natale gli incarichi, mentre la Raggi resisterà. Nonostante il misterioso "amico della Finanza".
"Prendiamo il Campidoglio, ma di me non si deve sapere". Le chat tra Marra e Romeo. I verbali. Le conversazioni sulla campagna elettorale, gli incarichi e gli stipendi al Comune. Su Giachetti: "Virginia deve dire che quello non è nemmeno laureato. Scava nel suo passato, dobbiamo screditarlo", scrive Maria Elena Vincenzi su "La Repubblica" il 05 febbraio 2017. Ci sono i ricatti, gli intrighi, i progetti. Ma soprattutto c'è la storia del sacco di Roma da parte di uomini della destra che, per contare qualcosa, hanno puntato tutto sulla sindaca grillina. E hanno sbancato. Le chat depositate al tribunale del Riesame per la richiesta di scarcerazione di Raffaele Marra (ex capo del personale capitolino, in carcere dal 16 dicembre per corruzione), dipingono un quadro inquietante. Nelle intenzioni degli inquirenti, servivano a dimostrare lo strapotere di Marra e a spiegare per quale motivo il costruttore Scarpellini avesse deciso di pagargli ben due appartamenti. In realtà, svelano qualcosa di più. Raccontano l'ascesa di Mr. Polizza, Salvatore Romeo, l'ex capo della segreteria politica di Virginia Raggi, e di Mr. Affari Immobiliari, Marra, appunto. Si erano conosciuti al dipartimento Partecipate. E hanno deciso che meritavano miglior fortuna. L'hanno fatta con Virginia Raggi. Le macchinazioni erano cominciate già prima delle comunarie del Movimento Cinque Stelle, ma dopo la vittoria, festeggiata con esultanze via chat, Marra e Romeo si mettono a lavorare sodo. È stata proprio l'avvocata grillina a spiegare al procuratore aggiunto Paolo Ielo e al sostituto Francesco Dall'Olio che Marra le fu presentato da Romeo e che era uno "che conosceva benissimo la macchina amministrativa". A leggere gli atti viene il sospetto che Marra sia lo stratega della vittoria di Raggi. A metà marzo, più o meno, l'ex numero uno delle risorse umane scrive a Romeo: "Quanto alla polemica che Giachetti (candidato sindaco del Pd, ndr) ha fatto sul praticantato di Virginia, deve rispondere così. Giachetti non è nemmeno laureato. E se si contano gli anni passati con Rutelli, 8, e quelli da parlamentare, è sempre stato pagato dalla politica. Lei può vantare i titoli di studio. È vero che non ha grande esperienza politica, ma è la novità. Deve far leva su questo". L'uomo che ha stipulato due polizze a favore di Raggi risponde: "Grande! Riferisco subito". E Marra: "Ricordatevi che non deve uscire che dietro ci sono io". Poi, ancora, qualche giorno dopo: "Mi raccomando non cedete alla provocazioni. Non è ancora il nostro momento di parlare". Aprile. Marra e Romeo si sentono ogni giorno. L'ex vice capo di gabinetto è l'eminenza grigia della scalata pentastellata al Campidoglio. "Mi ha fatto molto piacere avere sentito V. a Porta a Porta. È stata brava. E ha fatto una bella figura anche con l'idea di affiancarsi di alcuni uomini della Guardia di Finanza. È piaciuta anche a Bruno Vespa". Marra è un ex ufficiale delle Fiamme Gialle. Un mondo che non ha mai abbandonato. Il dubbio è che a suggerire questa iniziativa a Raggi sia stato proprio lui. La campagna elettorale è in corso. Romeo contatta l'amico per segnalargli la partecipazione di Giachetti a una trasmissione televisiva. E scrive: "Guardala. Dobbiamo trovare qualcosa per sputtanarlo. Scava anche nel suo passato". Marra, secondo voci che girano in Campidoglio, sarebbe colui che organizzò il dossieraggio ai danni dell'avversario di Raggi alle primarie del Movimento, Marcello De Vito, oggi presidente dell'assemblea capitolina. Ipotesi sulle quali ora indaga anche la procura di Roma. Questo messaggio sembra dare forza a quell'ipotesi. Peraltro non è l'unico. Qualche giorno dopo, Romeo contatta di nuovo l'ex capo del personale: "Devi chiamare l'innominabile. Mi serve un controllo su di lei". Chi sia lei non si sa. Nelle conversazioni tra Marra e Romeo, sono ricorrenti i riferimenti alla "macrostruttura". Ovvero la modifica della pianta organica dei dirigenti del Campidoglio. E, leggendo le chat, non c'è dubbio che sia stata opera di colui che poi, non a caso forse, divenne il capo delle Risorse Umane. Raggi ancora non è stata eletta e i due si parlano in continuazione di questo argomento. Romeo lo sprona spesso: "Mettiti avanti col lavoro. Ci serve". L'altro risponde: "Ho studiato la normativa per gli uffici di diretta collaborazione del sindaco, del vice sindaco e degli assessori". Ancora: "Ho messo in fila le cose per lo staff del sindaco. Ho segnalato incarichi e possibili retribuzioni. Ho lasciato tutto a V.". Non solo le risorse umane. Dai messaggi trovati sul telefonino di Marra (che ieri è stato restituito al suo avvocato, Francesco Scacchi) viene il sospetto che Marra, indagato insieme a Raggi per l'abuso d'ufficio sulla nomina del fratello, abbia dettato anche l'agenda politica di "Madame". Metà giugno. Si aspetta il ballottaggio: "Riceverai due mail. Una con la macrostruttura e una con la lista delle prime cose da fare appena eletta e relativa tempistica. Esattamente come mi aveva chiesto V.".
Quando Marra suggeriva a Raggi cosa rispondere a Giachetti. Agli atti del Riesame le chat tra Marra e Romeo: «Ricordale che non è nemmeno laureato». «Grande! Riferisco subito!», scrive "Next Quotidiano" domenica 5 febbraio 2017. Le chat depositate al tribunale del Riesame per la richiesta di scarcerazione di Raffaele Marra, che oggi Maria Elena Vincenti su Repubblica racconta, sono imbarazzanti non tanto perché raccontano l’ascesa di Salvatore Romeo, quanto perché spiegano con dovizia di particolari il ruolo dell’ex capo del personale nella campagna elettorale di Virginia Raggi e nella sua vittoria a Roma. Ad esempio c’è questo scambio proprio con Romeo in cui si disegnano le strategie mediatiche di risposta al candidato del Partito Democratico Roberto Giachetti. A leggere gli atti viene il sospetto che Marra sia lo stratega della vittoria di Raggi. A metà marzo, più o meno, l’ex numero uno delle risorse umane scrive a Romeo: «Quanto alla polemica che Giachetti (candidato sindaco del Pd, ndr) ha fatto sul praticantato di Virginia, deve rispondere così. Giachetti non è nemmeno laureato. E se si contano gli anni passati con Rutelli, 8, e quelli da parlamentare, è sempre stato pagato dalla politica. Lei può vantare i titoli di studio. È vero che non ha grande esperienza politica, ma è la novità. Deve far leva su questo». L’uomo che ha stipulato due polizze a favore di Raggi risponde: «Grande! Riferisco subito». E Marra: «Ricordatevi che non deve uscire che dietro ci sono io». Poi, ancora, qualche giorno dopo: «Mi raccomando non cedete alla provocazioni. Non è ancora il nostro momento di parlare». E poi ci sono altre chiacchiere che riguardano Marcello De Vito e le richieste di scavare nel passato del candidato sindaco concorrente. La campagna elettorale è in corso. Romeo contatta l’amico per segnalargli la partecipazione di Giachetti a una trasmissione televisiva. E scrive: «Guardala. Dobbiamo trovare qualcosa per sputtanarlo. Scava anche nel suo passato». Marra, secondo voci che girano in Campidoglio, sarebbe colui che organizzò il dossieraggio ai danni dell’avversario di Raggi alle primarie del Movimento, Marcello De Vito, oggi presidente dell’assemblea capitolina. Ipotesi sulle quali ora indaga anche la procura di Roma. Questo messaggio sembra dare forza a quell’ipotesi. Peraltro non è l’unico. Qualche giorno dopo, Romeo contatta di nuovo l’ex capo del Personale: «Devi chiamare l’innominabile. Mi serve un controllo su di lei». Chi sia lei non si sa. La questione delle nomine in Campidoglio è iniziata nello scorso ottobre, quando Raggi, sulla base di quanto prevedono le direttive anticorruzione, varò la rotazione di 40 dirigenti comunali: il 9 novembre, la sindaca firmò l’ordinanza di assegnazione dei singoli ruoli, e Raffele Marra rimase a capo del Personale. Renato, invece, venne promosso dalla Polizia locale alla direzione Turismo. La nomina di Renato Marra era poi finita al vaglio dell’Anac di Raffaele Cantone, che aveva rilevato un possibile “conflitto di interessi” e, dunque, inviato gli atti alla Procura. – “C’era una parte di persone che sicuramente ci sconsigliava Raffaele Marra. La nomina di Renato Marra, come tutte le altre nomine dei dirigenti che sono state fatte in un percorso di rotazione complessiva – aveva spiegato Raggi in un’intervista il 17 gennaio, prima di ricevere l’invito a comparire dai pm – tutti eravamo a conoscenza che era il fratello di Raffaele Marra. Comunque la sua nomina, come quella di tutti gli altri, è stata decisa dagli assessori e dai consiglieri: appena l’Anac ha sollevato la possibilità di un conflitto di interessi abbiamo sottoposto quella nomina per valutarne l’opportunità e poi l’abbiamo sospesa in autotutela”. Raggi aveva anche affermato che “Marra aveva un curriculum di tutto rispetto, veniva dalla Guardia di Finanza, una persona plurilaureata. Ho commesso un errore, alla luce di quello che la Procura sta scoprendo ho commesso un grave errore di valutazione”. La sindaca, poi, durante l’interrogatorio di giovedi’ scorso, e’ apparsa agli inquirenti seriamente risentita quando in una delle chat su Telegram acquisite dalla Procura (“Questa cosa dello stipendio mi mette in difficoltà, me lo dovevi dire”) si lamentava con Raffaele Marra sulla nomina – con aumento di stipendio – di Renato. Una presa di distanza che Raggi ha ribadito ai pm: la chat potrebbe alleggerire la sua posizione perche’, sfogandosi in quei termini con colui che all’epoca era il suo braccio destro, lei mostrava di non avere alcuna consapevolezza del vantaggio ingiusto nei confronti di Renato Marra.
La Raggi ora rischia il "codice Casaleggio": "Esposta in una gabbia sulla tangenziale". Il guru defunto teorizzava la gogna per i politici in caso di corruzione, scrive Paolo Bracalini, Sabato 4/02/2017, su "Il Giornale". Mentre non è dato sapere cosa pensi Casaleggio jr, barricato negli uffici dell'azienda di famiglia, si può immaginare cosa direbbe della vicenda Raggi suo padre Gianroberto, perché lo ha scritto. Casaleggio senior, morto lo scorso aprile lasciando in eredità al figlio il movimento Cinque stelle, non aveva certo previsto la catastrofe della giunta Raggi, ma le punizioni da applicare in caso di fallimento sì. In uno dei suoi ultimi visionari libri, Veni vidi web (introdotto nientemeno che dal rapper Fedez), il guru di Grillo immagina un mondo perfetto, almeno dal punto di vista di Casaleggio, dove «petrolio e carbone sono proibiti insieme alla circolazione di macchine private, i mezzi pubblici sono gratuiti, si va tutti in monopattino, le macellerie proibite e «chi è sorpreso con un fucile da caccia viene lasciato nudo nei boschi e braccato da personale specializzato con pallettoni di sale grezzo dall'alba al tramonto». Ma chi fa male il sindaco, o peggio ancora viene arrestato per corruzione, come il braccio destro della sindaca Raggi, e come rischiano altri nella vicenda delle polizze ad insaputa della sindaca? Per loro, Casaleggio ha un codice penale molto preciso: «La corruzione è vista come una malattia contagiosa. Corrotti e corruttori sono esposti in apposite gabbie sulle circonvallazioni delle città». Se il M5s fosse coerente coi principi del suo co-fondatore, dovrebbe dunque già attrezzare delle gabbie da posizionare sul raccordo anulare di Roma, gogne medioevali che verrebbero presto occupate da qualche esponente del «raggio magico», decisamente nei guai con la Procura di Roma. A quanto pare, tuttavia, i vertici M5s sembrano propensi ad applicare per la Raggi un garantismo inedito per il movimento. Niente gabbie sulla circonvallazione, la Raggi non va abbandonata. La relazione tra la Casaleggio Associati e la giunta capitolina in effetti è molto forte. Tra gli assessori ci sono persone di diretta emanazione della ditta di cui ora è presidente Davide Casaleggio. Uno è l'assessore alle Partecipate Massimo Colomban, imprenditore, entrato nell'orbita del M5s proprio attraverso Gianroberto Casaleggio. L'altro è l'assessore allo Sviluppo Economico, Turismo e Lavoro del Comune di Roma, Adriano Meloni. Lui è l'ex amministratore delegato della controllata italiana di Expedia, il colosso mondiale del turismo on line, società che per la Casaleggio Associati ha ideato come sponsor la ricerca annuale sull'e-commerce in Italia, presentata ogni anno da Gianroberto Casaleggio e appunto Meloni, adesso assessore della Raggi. Rapporti troppo stretti per immaginare, come punizioni per gli eventuali corrotti e corruttori, delle scomode gabbie sul Gra.
Invece...
La propaganda della Casaleggio in azione per salvare la povera Virginia, scrive Fabrizio Rondolino su “L’Unità” il 4 febbraio 2017. Difficile che proseguendo su questa strada, nonostante l’encomiabile sprezzo del ridicolo, la Raggi riesca ad essere salvata da se stessa. Il valoroso apparato propagandistico della Casaleggio Associati srl – la nota società di marketing milanese che da qualche mese gestisce il Comune di Roma – è sceso in campo in tutto il suo splendore, sotto la guida illuminata di Rocco del Grande Fratello, per salvare la povera Virginia. Dalla sua sontuosa residenza romana pagata con i soldi dei contribuenti e teatro di una vivace vita sociale, Rocco del Grande Fratello ha allertato tutti i suoi microchip e ha scatenato la grande offensiva mediatica: far piangere Virginia, dopo tutto questo casino, sembrava troppo poco; meglio, molto meglio farla svenire. “Ecco – leggiamo sul Fatto, lo spassoso house organ della Casaleggio Associati srl – il mancamento è giunto quando i magistrati le hanno infilato sotto gli occhi (sic!) il prestampato. Assicurazione sulla vita. Causale: motivi affettivi. Sottoscrittore: Salvatore Romeo. Beneficiaria: Virginia Raggi. Io? Proprio io? La donna – esile già di suo – si è afflosciata sulla sedia, ridotta a un gomitolo (doppio sic!). Ha perso i sensi. Avvocati intorno, aria, acqua e zucchero e poi caffè”. E i sali? Il “gomitolo” per fortuna si è ripreso presto e bene, ma il melodramma non è ancora concluso. Sentite un po’: “Virginia a terra – prosegue l’illuminata prosa del Fatto –, al di fuori di ogni metafora, e i suoi legali furiosi a contattare Romeo: Che cazzo hai fatto? Le parole sono pietre e Salvatore ha sentito quelle parole, divenute pietre, conficcarsi in petto. Svenuta lei, al pronto soccorso lui”. Poverino! E poverina lei, soprattutto, che non sa mai nulla di nulla e come una diva del muto sviene al centro della scena. Difficile che proseguendo su questa strada, nonostante l’encomiabile sprezzo del ridicolo, la Raggi riesca ad essere salvata da se stessa. Persino Marco Travaglio, il Direttore di Bronzo, comincia a vacillare. Dopo aver insultato com’è sua abitudine tutti i giornali e telegiornali d’Italia, colpevoli di aver raccontato l’inchiesta romana sulla povera sindaca svenuta, Travaglio è costretto a riconoscere che alla Raggi mancano “la necessaria autorevolezza” e “la padronanza dei dossier della Capitale”, che non sa scegliere “le persone giuste”, che la sua giunta è ben poco efficiente perché “continuamente avvicendata e commissariata”, che il M5s romano “la sostiene come la corda l’impiccato” e infine, udite udite, che “anche la sua tenuta personale, umana, psicologica” è seriamente compromessa (forse Travaglio si riferisce al plateale svenimento, forse ad altri episodi che solo lui conosce). La conclusione è desolante: in Italia i politici o sono “mascalzoni” (tutti gli altri) oppure sono “coglioni” (i grillini). Travaglio per ora resta con i “coglioni”.
Cara Virginia ti scrivo. Di Beppe Grillo il 4 febbraio 2017. "Cara Virginia, ti scrivo pubblicamente, sfugge alla memoria quando e se ci siano precedenti! La polizza vita come strumento corruttivo è una fantasia malata, non un reato. La verità... che cosa è? In questo momento un coriandolo dentro un oceano diffamatorio. La verità è una carica pubblica presa d'assalto da televisioni con la bava alla bocca, messa alla berlina, diffamata ed insultata. Le polizze vita come strumento di corruzione? Ai "giornalisti" sarebbe bastato chiamare un assicuratore per farsi spiegare come funzionano quelle benedette polizze: è il minimo che si chieda a chi fa informazione, essere informato! Parlano di "fonti", a me viene in mente soltanto la loro immaginazione spiccia messa presto a tacere dalla Procura. E ancora: ti saresti fidata di persone sbagliate oppure sei il genio del male? A leggere i giornali entrambe le cose: non è credibile il "genio del male fesso". Cara Virginia, non deve essere facile ammettere i propri errori come tu hai avuto il coraggio di fare pubblicamente. Anche per questo hai la mia stima. Ora è chiara una cosa: hai contro tutti quelli che era possibile immaginare e ben oltre: anche persone in carne ed ossa su cui occorrerebbe poter contare. L'uomo è una creatura agrodolce ed imprevedibile, ma le idee sono come pietre, non cambiano forma a seconda della stagione e delle circostanze. In qualità di garante del MoVimento 5 Stelle sono con te. Ad ogni attacco nei tuoi confronti sui giornali, per ogni insulto sessista degli ominicchi dei partiti, diffamazione sui media e cattiveria che giunge alle mie orecchie la mia stima ed il mio sostegno si fanno più forti. Leggi i commenti di questi giorni sulla tua pagina Facebook: ti faranno bene al cuore, perché non esiste "la Rete che semina odio" oppure "la base del MoVimento in subbuglio". Esiste solo caos ad personam, che non può disorientarci. Neppure una tempesta di invenzioni potrà mai sostituire la verità giudiziaria, figuriamoci anticiparla. E io vedo soltanto una marea di invenzioni, non ho il dono dell'invisibilità per entrare in procura a sentire quello che si dice e addirittura si pensa. Roma ha bisogno del MoVimento 5 Stelle e ha scelto te per attuare il cambiamento che abbiamo proposto. Chi sta con te, sta con il MoVimento. E viceversa. Sapevamo che non sarebbe stato facile, una reazione forte era prevedibile. Forse non così massificata e copia-incolla (uno tira l'atro). In ogni caso non ci fermiamo. Il Sistema ha paura di noi. Soltanto con lo stop alle olimpiadi del mattone hai salvato la città da un fallimento certo, basta vedere cosa è successo in Brasile. La scorsa settimana la prima grande vittoria dell'approvazione del bilancio preventivo in tempi da record per Roma e per l'Italia. La prossima settimana darai il via al piano buche, per la prima volta con degli appalti seri. Fatti che spaventano la malapolitica e che la diffamazione non può cancellare! E così continueremo fino al 2021 per ricostituire la nostra Capitale e riportare i cittadini romani al governo della loro città. Approfitto di questa occasione anche per annunciare che a breve gli iscritti del MoVimento 5 Stelle a Roma avranno a disposizione su Rousseau un nuovo strumento di democrazia diretta, che consentirà loro di fare delle proposte per la città che poi saranno portate in Consiglio comunale dai portavoce eletti. Funzionerà grossomodo come Lex Iscritti e contribuirà ad aprire ai cittadini le porte del Campidoglio. La rotta è tracciata, il mare è in tempesta, le parole non ci potranno fermare. Con affetto, Beppe". Grillo difende la Raggi: "Er sinnaco nun se tocca". Grillo pubblica sul blog una poesia per difendere il sindaco di Roma, scrive Francesco Curridori, Sabato 4/02/2017, su "Il Giornale". Beppe Grillo, con una poesia in dialetto romanesco pubblicato sul suo blog, difende la sindaca di Roma Virginia Raggi, dopo lo scoppio del caso polizzagate. "Er sinnaco de Roma nun se tocca" è il titolo dello stornello in cui si ribadisce la solita tiritena secondo cui il primo cittadino della Capitale sarebbe sotto attacco perché si è messa contro i 'poteri forti', soprattutto i palazzinari.
Lei sì, ha commesso qualche errore ma, scrive Grillo, ha chiesto scusa ed è una persona onesta. Il sindaco non si tocca perché il popolo l'ha votato e non se n'è pentito. "In verità ve dico: 'Puliteve la bocca'", conclude il leader del Movimento Cinquestelle. Ecco il testo integrale della poesia: Virginia Raggi.
Dar primo giorno dopo l'elezzione,
l'hanno accerchiata dandoje er tormento,
io ciò 'n idea de tutta a situazzione,
s'è messa contro quelli der cemento.
Sò entrati prepotenti ner privato,
vorebbero costrignela a la resa.
Quarcuno ha fatto i conti e s'è sbajato,
l'ho vista stanca e quarche vorta tesa.
E' stata troppo ingenua davvero
ha fatto quarche erore e chiesto scusa,
quello che dice sò ch'è tutto vero
da oggi l'hanno messa sotto accusa.
Le cose, certo stanno messe male
pe quelli che se sò arubbati tutto,
er tempo passa e la pressione sale,
quello che c'era prima sarà distrutto.
Giornali e giornalisti de regime
palazzinari, burocrati e banchieri
nun tornano li conti co le stime
se sò incazzati pure l'ingenieri
Virginia è onesta e pure preparata
er popolo ha capito, de chi fidasse
sippure tutti l'antri, sò in parata
faremo tornà i sordi ne le casse.
Fate attenzione quindi "brava" gente
er Sinnaco de roma nun se tocca
er popolo ha votato e nun se pente.
In verità ve dico: "puliteve la bocca".
Virginia Raggi nei guai per una polizza vita. Nel mezzo dell'interrogatorio sulla vicenda Marra spunta l'assicurazione stipulata dall'ex capo della segreteria Salvatore Romeo a beneficio dell'attuale sindaco di Roma, quando era ancora una delle candidate del M5S. Perché? Scrive il 3 febbraio 2017 Panorama.
Perché Romeo ha indicato Raggi come beneficiaria di una polizza sulla vita? La polizza a favore di Raggi può celare uno scambio? Una polizza vita per 30mila euro stipulata un anno fa a beneficio di Virginia Raggi dall'ex capo della segreteria Salvatore Romeo. La nuova grana per il sindaco di Roma si manifesta quando ancora lei è davanti ai pm che l'accusano di abuso d'ufficio e falso per il caso Marra. Una nuova tempesta sulla testa della sindaca di Roma per colpa del fu "raggio magico", che potrebbe portare ad accuse più gravi e a vedere indagato un altro suo fedelissimo. La polizza è stata oggetto di domande dei magistrati, ma non di contestazioni, nell'interrogatorio fiume di giovedì, durato oltre otto ore, fino a sera. L'avvocatessa M5S è stata sentita dal procuratore aggiunto Paolo Ielo e dal sostituto Francesco Dall'Olio sulla nomina alla guida della direzione turismo del Campidoglio di Renato Marra, fratello dell'allora potente capo del Personale Raffaele Marra. Alla vicenda però si intreccia ora quella dell'assicurazione che Romeo avrebbe destinato a Raggi a gennaio 2016 - cambiando beneficiario dopo anni -, quando lei era in corsa per la scelta del candidato sindaco M5S. Sei mesi prima, quindi, di essere nominato dalla neo sindaca capo della segreteria con stipendio triplicato, dopo essersi dimesso da funzionario del Comune ed essere stato riassunto. Una procedura vagliata dall'Autorità anticorruzione (Anac), che indusse poi Raggi a tagliare il compenso. Romeo - che fu fotografato con la sindaca sul tetto del Campidoglio in un'immagine divenuta celebre - si è dimesso a dicembre dopo l'arresto di Raffaele Marra per corruzione per una vicenda di quattro anni fa. Si indaga per sapere se la sindaca fosse a conoscenza della polizza, che secondo un esperto per essere effettiva andrebbe controfirmata dal beneficiario. Il punto è: Perché Romeo ha indicato Raggi come beneficiaria di una polizza sulla vita? La polizza a favore di Raggi può celare uno scambio? Dal 2013 in poi, secondo L'Espresso e Il Fatto Quotidiano, Romeo avrebbe investito circa 100 mila euro su una decina di polizze vita: tra i beneficiari, oltre a parenti, anche attivisti M5s. I magistrati che indagano sulle nomine della Giunta Raggi cercano di capire la ratio, ma anche il modus di questi investimenti, ovvero se le somme fossero veramente di Romeo o di altri e se la geografia dei destinatari risponda a un qualche disegno. Tra le ipotesi forse anche il tentativo di favorire Raggi nella corsa alle "Comunarie" online, che la vide vincitrice su Marcello De Vito, mentre l'altro concorrente, Daniele Frongia, si ritirò facendo convergere i voti su Raggi. A questo proposito l'ex capo di gabinetto Carla Raineri e l'avvocato generale del Campidoglio, Rodolfo Murra avevano ipotizzato una sorta di "ricatto elettorale" alla Raggi di parte del raggio magico. Il sindaco è stata interrogata giovedì dai pm negli uffici del Polo investigativo della polizia sulla via Tuscolana, alla periferia di Roma, accompagnata dall'avvocato Alessandro Mancori. L'inchiesta sulle nomine e il nuovo filone che sembra aprirsi sulla polizza si aggiungono all'altra indagine sul presunto dossier ai danni di De Vito per affossarne la candidatura a sindaco. Giovedì il presidente dell'Assemblea capitolina per la prima volta ha detto: "Io penso alla tutela del M5S e a fare il mio ruolo come ho fatto in questi mesi e come farò anche domani". De Vito si unisce poi al coro di M5S capitolino, che sulla polizza di Romeo invece di fare quadrato come al solito, replica "non ne sappiamo nulla, chiedete ai diretti interessati". Ma a questo penserà la procura di Roma, che dopo Raggi potrebbe sentire lo stesso Romeo.
Polizza di Virginia Raggi, spuntano i fondi neri: "Si compra i voti?" Scrive “Libero Quotidiano” il 3 febbraio 2017. Soldi, versamenti sospetti, che gettano ombra su voti e finanziamenti della campagna elettorale di Virginia Raggi mentre il Movimento cinque ha scelto di secretare la provenienza dei versamenti inferiori ai 5mila euro. Su quei finanziamenti e sull'origine dei 90mila euro, investiti da Salvatore Romeo in polizze assicurative, a vantaggio di esponenti del Movimento, puntano i pm. Il sospetto, riporta il Mattino, è che qualcun altro avesse deciso di puntare su Romeo. L'ex funzionario del Comune era riuscito a triplicare la busta paga, grazie alla sindaca (da 39mila euro all'anno a 110mila). Romeo, nonostante il suo esiguo stipendio, aveva disponibilità di quel denaro in tempi non sospetti. Romeo ha cambiato i beneficiari delle polizze assicurative sottoscritte per diversi beneficiari a gennaio 2016. Tra questi (una decina in tutto) spunta Virginia Raggi, all'epoca semplice avvocato, consigliere comunale del Movimento 5 Stelle. In caso di morte del dipendente comunale, la futura sindaca incasserà il premio. Ma i soldi possono anche essere riscattati in anticipo. In teoria il beneficiario può anche essere all'oscuro. Il sospetto è che quei 1.764 voti, ottenuti dalla Raggi che ha superato nelle comunarie Marcello De Vito, forse anche grazie a un dossier confezionato ad hoc sul quale indaga la procura, potessero essere stati un investimento di terzi, dei quali Romeo era solo un intermediario. I magistrati romani stanno adesso cercando di capire la struttura dei business finanziari di Romeo, se i soldi fossero davvero i suoi o fossero investimenti fatti per conto terzi, oltre a studiare le clausole delle polizze in merito ai beneficiari. Secondo ipotesi di scuola che circolano tra chi è vicino al dossier, ma che restano ancora tutta da verificare, gli investimenti in polizze potrebbero nascondere tentativi di infiltrare e condizionare le comunarie organizzate dal Movimento Cinque Stelle che individuarono il candidato sindaco di Roma.
Quella polizza da 30mila euro per Raggi: il regalo del fedelissimo Romeo alla sindaca. A gennaio 2016 Romeo ha indicato l'allora candidata grillina come beneficiaria di una assicurazione vita. Un investimento da 30 mila euro. Qualche mese dopo la Raggi ha promosso il funzionario capo della sua segreteria triplicandogli lo stipendio. La procura indaga anche su altre polizze a favore di dirigenti grillini, scrive Emiliano Fittipaldi il 2 febbraio 2017 su “L’Espresso”. Salvatore Romeo, il fedelissimo di Virginia Raggi diventato capo della segreteria della sindaca lo scorso agosto, nel gennaio del 2016 è andato dal suo promotore finanziario e gli ha indicato un nuovo beneficiario per alcune polizze vita da lui sottoscritte qualche tempo prima, con un investimento di 30 mila euro. Nome e cognome del fortunato: “Virginia Raggi”. Qualche mese dopo la strana operazione finanziaria (le polizze vita in genere vengono fatte a favore di parenti, mogli e figli) è proprio la Raggi, diventata da poco sindaca di Roma, a promuovere Romeo triplicandogli lo stipendio. La connection della polizza da 30 mila euro, scoperta dagli inquirenti che stanno indagando sulle nomine della sindaca grillina e che L’Espresso è in grado di rivelare, rischia ora di precipitare la Raggi e il suo pupillo in un nuovo, e più profondo, abisso. Politico e giudiziario. Perché evidenzia come la procedura borderline con cui Romeo è stato nominato segretario del primo cittadino (il funzionario capitolino, con uno stipendio da 39 mila euro lordi l’anno, si è prima messo in aspettativa e poi è stato riassunto dall’amica a 110 mila euro l’anno, scesi a 93 dopo polemiche di fuoco e l’intervento dell’Anac di Raffaele Cantone) si è realizzata in presenza di pregressi legami economici tra la sindaca e il suo collaboratore. Così, dopo l’accertamento patrimoniale effettuato dalla polizia, sia Romeo, su la cui nomina i pm indagano da mesi, sia la sindaca, che finora è indagata per abuso d’ufficio e falso solo per la vicenda della nomina del fratello di Raffaele Marra a capo del dipartimento per il Turismo, rischiano di vedersi improvvisamente aprire un nuovo, e più pericoloso, fronte giudiziario. Il do ut des, se non spiegato da giustificazioni plausibili, rischia di portare a contestazioni molto più gravi dell’abuso d’ufficio. «Come mai Romeo, dimessosi dopo gli arresti di Marra a metà dicembre, ha immobilizzato 30 mila euro in una polizza vita, la cui beneficiaria è Virginia Raggi?», si chiedono da qualche giorno gli inquirenti dopo aver avuto accesso ai documenti bancari del funzionario grillino. Difficile, per ora, dare una risposta esauriente alla curiosa operazione finanziaria. Anche perché Romeo non ha investito denari solo nella polizza vita di cui è beneficiaria la sindaca: dal 2013 in poi, da quando si è reinventato un attivista del Movimento Cinque Stelle diventando riferimento imprescindibile della Raggi e dell’assessore (ed ex vicesindaco) Daniele Frongia, Romeo ha investito circa 100 mila euro su una decine di polizze vita. I cui beneficiari, ancora una volta, non sono parenti e cugini, ma altri soggetti. Tra cui politici e altri attivisti del movimento: tra i beneficiari delle polizze di Romeo ci sono, per esempio, tal Andrea Castiglione (online c’è un omonimo che animava nel 2013 il meet up del M5S del comune di Fonte Nuova, a due passi da Roma), un consigliere grillino del VII Municipio e tale Alessandra Bonaccorsi.
Il sospetto è che possa trattarsi dell’ex consigliere VIII Municipio eletta nel M5S che a febbraio 2016, prima del voto alle comunali, è passata con la Lista Marchini. I magistrati romani stanno adesso cercando di capire la struttura dei business finanziari di Romeo (che non risulta sia ricco di famiglia), se i soldi fossero davvero i suoi o fossero investimenti fatti per conto terzi, oltre a studiare le clausole delle polizze in merito ai beneficiari.
Secondo ipotesi di scuola che circolano tra chi è vicino al dossier, ma che restano ancora tutta da verificare, gli investimenti in polizze potrebbero nascondere tentativi di infiltrare e condizionare le "comunarie" organizzate dal Movimento Cinque Stelle che individuarono il candidato sindaco di Roma. Comunarie che Virginia Raggi vinse con 1.764 voti, superando Marcello De Vito, secondo classificato, di poche centinaia di preferenze. Primarie grilline, va ricordato, che come ha già scritto l’Espresso lo scorso dicembre furono pesantemente inquinate dal dossier fasullo presentato da Raggi e Frongia contro Marcello De Vito. Una macchina del fango guidata da mani esperte (secondo Roberta Lombardi dietro il dossier che screditò De Vito potrebbe addirittura esserci dietro Marra, per adesso la procura ha aperto un fascicolo senza iscrivere nessuno) che azzoppò la candidatura dell’attuale presidente del consiglio capitolino lanciando quella della Raggi.
In quest’ottica tornano di moda le parole di Carla Raineri, ex capo di gabinetto silurato dalla Raggi e nemica giurata dei dioscuri Romeo e Marra, che qualche settimana fa ha detto sibillina: «Marra e Romeo hanno portato una montagna di voti alla Raggi, poi sono passati all’incasso, come avviene in questi casi. Però, forse, la questione non si limita solo a questo. Ho la sensazione che ci sia anche di più». Possibile che la sindaca non sapesse che Romeo la aveva fatta beneficiaria di una polizza vita da 30 mila euro? Non lo sappiamo, e non sappiamo ancora se la procura ha contestato durante l’interrogatorio la questione delle polizze. È certo però che il legame tra i due fedelissimi Romeo-Marra e la sindaca è rimasto indissolubile per mesi. Contro tutto e contro tutti. Virginia ha scavato la sua fossa politica (e giudiziaria) dallo scorso settembre, da quando ha difeso Marra a spada tratta di fronte alle inchieste dell’Espresso, che evidenziavano i favori economici ottenuti dall’ex dirigente di Alemanno dal costruttore Sergio Scarpellini, un’inchiesta giornalistica che ha poi portato a quella giudiziaria e all’arresto di entrambi lo scorso dicembre. La Raggi ha poi protetto Romeo con la stessa veemenza. Tanto che molti hanno ipotizzato che dietro il rapporto strettissimo ci fossero ricatti indicibili. Tra la vicenda Marra e quella della polizza vita a suo favore, la partita di Virginia e dell’intero Movimento Cinque Stelle è alla stretta finale. Le bugie dette sono troppe, le spaccature interne non più risanabili. Si vedrà se Beppe Grillo avrà ancora la forza e la voglia di difendere la sua sindaca, o se la abbandonerà al suo destino.
Roma, l'ex fidanzata di Romeo: "Mi intestò diecimila euro e non lo fece solo con me". Intervista ad Alessandra Bonaccorsi. L'ex capo segreteria di Virginia Raggi le aveva intestato una polizza, scrive Giovanna Vitale il 3 febbraio 2017 su “La Repubblica”. "Sì, sapevo di essere la beneficiaria di una polizza accesa da Salvatore Romeo, ma l'avevo dimenticato. Fino a stasera". Alessandra Bonaccorsi, quarantenne italo-americana con un trascorso grillino piuttosto burrascoso, è stata legata per un anno all'ex capo segreteria di Virginia Raggi.
Scusi, ma come si fa a dimenticare una cosa del genere?
"Io e Salvatore ci siamo conosciuti per caso a fine 2012, a scuola di mio figlio, dove lui una volta a settimana veniva a prendere una sua nipotina. Abbiamo iniziato a frequentarci e strada facendo, per caso, ci siamo accorti che eravamo entrambi simpatizzanti del Movimento...".
Venga al sodo. Stavate insieme? Perciò le ha "regalato" dei soldi? E quanti?
"Sì, abbiamo avuto una storia da febbraio 2013 ad agosto 2014. Andò così: sei-otto mesi dopo il nostro inizio, mi chiama e mi chiede di prendere un caffè sotto casa. Lui andava sempre di corsa. Io scendo. E al bar mi consegna una cartellina. La apro e vedo che dentro ci sono dei documenti bancari".
La famosa polizza?
"Che cos'è? chiedo. E lui: "È un investimento che potrai incassare se mi dovesse succedere qualcosa". Credo mi avesse intestato 10mila euro. Io sono rimasta interdetta. Molto a disagio. Anche perché si parlava della sua morte. Non era esattamente il regalo che ti aspetti da uno con cui stai".
Non ha chiesto spiegazioni?
"Certo! Mi disse che è una cosa che aveva già fatto con altri suoi amici estranei al giro della politica. Persone a cui teneva. E io mi convinsi che non essendo mai stato sposato, non avendo figli e trattandosi di un tipo parsimonioso, aveva fatto dei risparmi che aveva pensato di impiegare così".
Ma non lo trovò strano?
"Lui fece apparire tutto talmente naturale che accettai e non ci pensai più".
Ha ancora quella cartellina?
"Non lo so. Non ricordo nemmeno se quel pomeriggio la riprese lui o la tenni io. Adesso dovrò mettermi a cercarla".
Virginia Raggi è svenuta durante l'interrogatorio, scrive “Libero Quotidiano” il 4 febbraio 2017. La polizza sulla vita, gli intrecci sentimentali, le accuse, l'inchiesta. Virginia Raggi è vicina alla resa: la sindaca-disastro del M5s, infatti, è stata travolta dagli eventi. L'ultimo, appunto, lo scandalo dell'assicurazione sulla vita a sua insaputa. Una notizia trapelata durante l'interrogatorio di giovedì, durato 8 ore, e sul quale, ora, emergono altri dettagli. Secondo quanto scrive Il Fatto Quotidiano, infatti, quando i magistrati le hanno mostrato il prestampato della polizza (assicurazione sulla vita; causale: "Motivi affettivi"; sottoscrittore: "Salvatore Romeo"; beneficiaria: "Virginia Raggi"), la sindaca non ha retto. Emozione o paura che sia, si è afflosciata sulla sedia "ridotta a un gomitolo". Secondo Il Fatto, insomma, ha perso i sensi. Svenuta. Gli avvocati a quel punto le hanno portato aria, acqua, zucchero e caffè per farla riprendere. Anche lo Sco, il servizio speciale della polizia, è intervenuto per aiutare la sindaca nel panico. Svenuta, insomma. E se si crede alla versione della sindaca, sarebbe svenuta perché di quella polizza non ne sapeva nulla (altra possibilità, ovviamente, è che il collasso fosse dovuto al fatto di essere stata scoperta). Il resoconto del Fatto, comunque sia, prosegue dando conto della reazione dei legali della Raggi, che mentre lei cercava di riprendersi avrebbero chiamato Salvatore Romeo: "Che cazzo hai fatto?", avrebbe urlato al telefono uno dei legali. Ovviamente, nessuno sa cosa abbia risposto l'ex braccio destro della sindaca...
Aiutate Travaglio, spudorato in diretta da Mentana: cosa gli scappa dalla bocca, scrive “Libero Quotidiano” il 3 febbraio 2017. Ci vorrà una consistente cura di fosforo per il direttore del Fatto quotidiano, Marco Travaglio, visto che ancora una volta in diretta tv ha accusato enormi problemi di memoria. Nello studio di Bersaglio Mobile, condotto da Enrico Mentana su La7, il fatto del giorno è l'ultimo scandalo grillino sulle polizze vita intestate a Virginia Raggi. Il sindaco grillino ha ricevuto un avviso di garanzia, visto che è indagata per abuso d'ufficio e falso dopo la nomina a dirigente del fratello di Fabrizio Marra. E proprio sul tema avvisi di garanzia Travaglio vacilla vistosamente: "I grillini ci hanno spiegato per anni - gli si ricorda in studio - che un avviso di garanzia era un marchio infamante e doveva impedire la prosecuzione di qualsiasi attività politica". Travaglio intanto scuote la testa con sorriso beffardo: "Poi - gli è stato aggiunto - con notevole ritardo hanno scoperto le virtù del garantismo e me ne compiaccio". Ma di sottofondo, come mostra il video rilanciato dal blogger Nonleggerlo, il direttorissimo fa spallucce: "Non ricordo" si ostina a ripetere.
Travaglio il garantista…Evviva! Scrive Francesco Damato il 26 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Marco Travaglio in tv ha difeso Virginia Raggi, raggiunta da un invito a comparire davanti alla Procura per abuso d’ufficio e falso. E sul Fatto ne ha dato notizia. Anche se in modo più sobrio del solito. Bisogna riconoscere che, salvo in un passaggio di cui vi dirò, Marco Travaglio meglio non poteva difendere, nello studio televisivo di Lilli Gruber, a La7, la sindaca di Roma Virginia Raggi appena raggiunta da un invito a comparire davanti alla Procura della Capitale per abuso d’ufficio e falso. Di cui il suo giornale ha poi dato notizia rigorosamente in apertura di prima pagina, secondo le tradizioni della casa, anche se in modo più sobrio del solito, avendo abituato i suoi lettori a caratteri e visibilità maggiori quando a finire indagati è toccato ad altri o altre sfortunate, per il ruolo pubblico ricoperto. Il direttore del Fatto Quotidiano ha dimostrato di conoscere la vicenda costata alla Raggi qualcosina in più del solito avviso di garanzia meglio dei due giustizialisti che avevano preso l’altra sera il suo posto nel salotto de La7: la vice presidente piddina della giunta regionale dell’Emilia Romagna, Elisabetta Gualmini, spiazzata peraltro durante la trasmissione da una dichiarazione garantista del segretario del suo partito a favore della sindaca, e il direttore del Giornale, Alessandro Sallusti. Non dico che la Gualmini e Sallusti non fossero informati, come ad un certo punto ha gridato loro Travaglio, ma di sicuro ne sapevano meno di lui a proposito della nomina, a capo del Dipartimento capitolino del Turismo capitolino, di Renato Marra, fratello maggiore di Raffaele, a sua volta capo del personale, finito poi in carcere con l’accusa di corruzione per fatti risalenti alla precedente amministrazione. Del povero Renato, il buon Travaglio sapeva il prezzo già pagato al fratello ingombrante, avendo dovuto rinunciare per motivi di opportunità appunto familiare a candidarsi al comando della polizia municipale, dopo un lungo e onorevole servizio nel corpo dei vigili urbani. Capitatagli poi l’occasione, segnalatagli dal fratello, di candidarsi al posto meno alto ma pur sempre apprezzabile di capo del Dipartimento del Turismo, lo sfortunato Marra senior, come indicato nel titolo del Fatto Quotidiano, si propose. Come alla ‘ sventurata’ monaca di Monza, di manzoniana memoria, capitò di rispondere tanti secoli fa. La Raggi, sfortunata pure lei, si accorse solo dopo averlo nominato, ed essersene assunta pubblicamente la responsabilità, del maggiore compenso di circa 20 mila euro annui, lamentandosi con Marra junior dell’imbarazzo in cui a quel punto si trovava a causa del fratello. Intervennero pertanto complicazioni, a dir poco, sgradevoli sfociate nella revoca della nomina, immagino con quanta delusione dell’interessato. In questa puntuale difesa della posizione della sindaca indagata, nell’interesse naturalmente non della stessa sindaca ma della signora Verità, non avendo lui la minima intenzione di farlo per pregiudizio favorevole alla persona e alla sua parte politica, Travaglio è però incorso, diciamo così, in un infortunio da eccesso. In particolare, egli ha contestato a Sallusti un richiamo ad intercettazioni dalle quali sarebbe risultato l’imbarazzo della sindaca. Per un attimo il povero Sallusti si è sentito perduto, forse temendo la competenza dell’ex collaboratore del suo Giornale, Travaglio appunto, come cronista giudiziario. Gli occhi di Sallusti si sono rivolti a destra e a sinistra, verso la Gruber e la Gualmini, quasi per chiedere lumi e soccorsi, fino a quando non è stato lo stesso Travaglio, in collegamento dalla sua postazione di lavoro, a toglierlo amichevolmente d’impaccio. E a spiegargli che l’imbarazzo della sindaca era risultata agli inquirenti non da una telefonata ma da una chat. Il direttore del Giornale a quel punto ha tirato un sospirone di sollievo. E, rinfrancato, ha detto che pur di ‘ telefono o telefonino’ si era trattato nelle intercettazioni di cui aveva osato parlare. Ma evidentemente una differenza fra i due tipi d’intercettazioni deve esserci anche sul piano giudiziario se Travaglio, sempre in collegamento esterno con lo studio televisivo, ha continuato a riservare a Sallusti lo sguardo dell’esperto che ha colto in flagranza di errore il suo incauto contestatore. Ecco, a parte questo eccesso, come mi è apparso probabilmente a causa della mia scarsa competenza elettronica, o di chissà quale altro tipo, il quasi esordio di Travaglio come garantista – termine peraltro di cui lui notoriamente diffida, come se fosse una parolaccia, almeno per come l’intendono gli altri, specie se indagati, imputati, detenuti in attesa di giudizio, condannati in via definitiva, eccetera – è stato apprezzabile. Molto apprezzabile. Più apprezzabile del nuovo, anzi nuovissimo codice cosiddetto etico del movimento 5Stelle, arrivato con tempismo sospetto, avendo potuto ora proteggere la Raggi dal vecchio automatismo giustizialista delle dimissioni all’arrivo di un avviso di garanzia. Rimane a suo carico la possibilità di una specie di processo interno al partito, in cui il garante Grillo somma le funzioni di pubblico ministero, avvocato della difesa e giudice, naturalmente di unica istanza. Con questo processo non potranno interferire neppure i ‘ portavoce’, come si chiamano i parlamentari ed altri eletti nelle liste delle 5 Stelle, se non dopo essere stati autorizzati dai responsabili della cosiddetta comunicazione del movimento, almeno a livello di Camera, Senato e Parlamento europeo. È una disciplina ferrea, voluta da un uomo ‘ forte’: di quelli che piacciono tanto a Grillo, indeciso solo se preferire come modello Donald Trump a Vladimir Putin, o viceversa, secondo un’intervista a una testata francese che ha provocato nel movimento un mezzo putiferio, prima che Beppe facesse suonare la tromba del silenzio.
Come si chiama? Caccia alle streghe, scrive Piero Sansonetti il 4 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Conoscete Salem? È una cittadina degli Stati Uniti di circa 40 mila abitanti. Si trova nel Massachusetts, cioè nel Nord, in quello che si chiama New England. Sta sul mare, è una cittadina antica, molto bella. Oggi si riempie di turisti alla fine di ottobre, vanno lì per festeggiare Halloween, la festa dei morti viventi. I bambini si divertono molto. Poco meno di 400 anni fa, a metà del ‘ 600, a Salem fu istituito un tribunale del popolo. Servì a stabilire la verità. Perché a Salem in quel tempo circolavano voci strane, quelle che oggi chiameremmo “post– verità”. La gente diceva che il paese fosse infestato di streghe. E per le strade (Facebook allora non esisteva) molte vecchie megere erano accusate proprio di praticare la stregoneria. Il tribunale del popolo servì a stabilire quali di queste accuse fossero vere e quali false. Risultarono quasi tutte vere e centinaia di persone furono imprigionate e poi decine di donne (insomma: di streghe) furono messe a morte. Qualcuna fu bruciata viva, per stare più sicuri. Avete mai sentito parlare di caccia alle streghe? Beh, tutto iniziò lì, nel New England. L’ultima idea di Grillo? Si chiama caccia alle streghe. Beppe Grillo, che è persona istruita e curiosa, deve aver avuto l’idea del suo nuovo tribunale del popolo proprio perché si è ricordato la storia di Salem, dove le cose funzionarono piuttosto bene, tanto che la stregoneria fu estirpata. Oggi non ci sono più streghe a Salem. Col tribunale di Grillo, coi giudici estratti a sorte ai quali viene concessa l’autorità di stabilire cosa è vero e cosa è falso negli articoli che vengono pubblicati sui giornali, si potrebbe ripetere l’operazione. E così eviteremmo il rischio che i giornali scrivano stupidaggini, o che i giornalisti preparino articoli di testa loro, senza controlli, senza vidimazione. Nel Movimento Cinque Stelle questo non avviene. Chi crede di poter fare di testa sua viene espulso su due piedi e gli si chiede anche di pagare i danni…D’accordo, forse pecchiamo di superficialità: prendere a ridere l’uscita di ieri di Beppe Grillo potrebbe essere una leggerezza grave. I dati elettorali e i sondaggi ci dicono che oggi Grillo è il capo del più forte partito politico italiano, e non è cosa saggia ridere di lui. A prescindere dal rischio di finire alla gogna, come ha minacciato di fare coi direttori dei giornali che non gli piacciono. Il fatto è che ieri avevamo commesso, seppure con qualche cautela, l’errore opposto. Avevamo preso sul serio la proposta di Grillo di aprire una nuova fase garantista del movimento Cinque Stelle. Avevamo immaginato che la sua dichiarazione, che rovesciava il vecchio impianto giustizialista (“se ti becchi un avviso di garanzia devi dimetterti su due piedi, anzi sarebbe meglio se ti dimettessi prima ancora che l’avviso arrivi”) e stabiliva che anche gli indiziati, e persino i condannati, potessero, a certe condizioni, continuare a fare politica, non fosse la follia di un momento, e neppure fosse un espediente per salvare Virginia Raggi, ma che si trattasse invece di una strategia politica, volta a insediare il movimento Cinque Stelle non più ai margini ma al centro dello scontro politico che nei prossimi mesi deciderà chi e come governerà in Italia.
Avevamo ragione ieri a prenderlo sul serio, o oggi a riderci su? Probabilmente avevamo torto ieri e anche oggi. Inutile cercare nel movimento grillino un “centro di gravità permanente”. La vera strategia di Grillo è una strategia alla “carta”, prende e lascia continuamente, va alla giornata. La scelta garantista era sicuramente una idea che sta dentro le novità del quadro politico. La fine della stessa idea del governo del presidente, del maggioritarismo, modifica tutti i termini della lotta politica. Berlusconi se ne è già accorto da tempo, e ha virato verso il sostegno a una legge elettorale proporzionale, funzionale al parlamentarismo puro e alle politiche delle alleanze. Il Pd, che è sempre stato un partito lento, nonostante lo “sprintismo” di Renzi, fatica ad accorgersene, e continua a immaginare la sua lotta interna come se fossimo ancora al tempo dell’Italicum (forse l’unico che ha capito che le cose sono cambiate è Gentiloni). Grillo anche, che è un tipo svelto, se ne è accorto e sta preparando una svolta che gli permetta di entrare in Parlamento nonostante la condanna a suo carico per un delitto di tanti anni fa. E pensa a una svolta che svincoli gli eletti del movimento da un codice “morale”, perché questo codice morale sarà pure utile per fare propaganda ma rischia di paralizzare (grazie all’interventismo a tutto campo del partito dei Pm) ogni possibilità di governare. E il M5S governa Roma, Torino e varie altre città. La sua però non è una svolta ideologica ma una svolta puramente tattica. E’ sbagliato parlare di strategia (come anche noi, in un momento di entusiasmo abbiamo fatto) quando si ragiona sul grillismo: il grillismo è tattica pura, grande tattica. E dentro un quadro tattico sta anche la controsvolta di oggi. Grillo (soprattutto a nome del suo amico Travaglio) non può permettere che si sviluppi un offensiva pubblica contro le “balle”, quelle che ora si chiamano “post– verità”. Perché una offensiva di questo tipo favorirebbe, ovviamente, l’establishment, e danneggerebbe ogni movimento populista, perché la post– verità è il carburante del populismo, che, in genere, non è in grado di controllare i grandi mezzi di informazione, e dunque deve trovare altri strumenti per combattere ad armi pari con nemici molto più potenti. E oltretutto la svolta garantista del giorno prima aveva lasciato senza fiato gran parte del suo movimento, e in particolare le persone più esposte sul versante della comunicazione (ad esempio, appunto, “Il Fatto Quotidiano”, che infatti ieri aveva titolato in prima pagina con grande imbarazzo e nascondendo la svolta: «5Stelle: “via i condannati, gli indagati caso per caso”». Quella di oggi è una correzione che Grillo non poteva evitare. Sta dentro la sua “tattica”. Speriamo solo che resti un’idea di giornata, come in genere succede alle idee di Grillo, perché di Salem, diciamo così, ci è bastata quella del 600…
Caso polizza Raggi, il sorriso e le menzogne della sindaca che non sa. Di fronte la Direzione Centrale Anticrimine, con un sorriso da fatina, evita risposte, ripete che l'interrogatorio è stato "sereno" e di aver "chiarito tutto". Non spiega, prende tempo. La verità romperebbe la catena di omissioni e dissimulazioni in cui l'avventura Cinque Stelle in Campidoglio è stata annegata, scrive Carlo Bonini il 3 febbraio 2017 su "La Repubblica". Non è dato sapere quanti cittadini romani e quanti italiani in genere siano nella struggente condizione di Virginia Raggi, beneficiari dunque di una polizza sulla vita di un amico, un familiare, un fidanzato o fidanzata, a loro insaputa. Né quanti uomini dal cuore grande in quella di Salvatore Romeo, pronto a dividere denari di ignota origine con amici e fidanzate, e a sua insaputa, naturalmente non certo per questo, beneficiati da un invidiabile e fiabesco lieto fine per cui quell'atto di silenziosa generosità viene compensato con uno stipendio quintuplicato e la consegna delle chiavi del Potere in Campidoglio. Quel che, al contrario, è certo e resterà indimenticabile, è il siparietto notturno, di fronte alla porta carraia della Direzione Centrale Anticrimine, con cui, dopo la mezzanotte, con un sorriso da fatina, la sindaca pensa di mandare a nanna i cittadini della città che amministra - per inciso, la Capitale del Paese - e il resto di Italia che la guarda. L'interrogatorio è stato, va da sé, "sereno". Lei, va da sé, ha "chiarito tutto" e, poiché "a Roma c'è molto lavoro da fare e da portare avanti" e "ci sono indagini in corso", non c'è tempo, né è opportuno perdere quei cinque, dieci minuti, per rispondere una volta per tutte a quelle due o tre domande sul suo conflitto di interesse. Quello grande come un macigno che la accompagna dal primo giorno dell'insediamento. Che l'ha impiccata a due figuri come Raffaele Marra e Salvatore Romeo ("gli amici al bar") e ai loro non luminosi destini. Che le è costata l'accusa di abuso di ufficio e falso ideologico. E che, detto per inciso, da otto mesi, tiene in ostaggio Roma e la gestione della cosa pubblica, costrette al coma farmacologico. Ora, basterebbe questa mattina leggere con attenzione su Repubblica le parole di Alessandra Bonaccorsi, ex fidanzata di Salvatore Romeo, a sua volta beneficiata nel 2013 dalla stessa polizza vita dell'uomo dal cuore grande, per scoprire che il nostro amava informare della sua premura. E, dunque, liquidare le parole della sindaca fatina per quel che sono. L'ennesima menzogna. Interrogandosi, contestualmente, sulla sinistra mimica facciale, sullo straniante e scisso tono della voce, con cui quelle menzogne vengono da mesi proposte all'opinione pubblica, prima ancora che al Movimento che della "trasparenza" ha fatto la sua bandiera. Come ogni bugiardo seriale - dal caso Minenna-Ranieri, a quello Muraro e Marra - la Raggi è condannata a espungere sistematicamente la verità dei fatti dal suo discorso pubblico, perché se pronunciata, la verità avrebbe l'effetto di illuminare d'incanto la catena di omissioni, dissimulazioni in cui l'avventura Cinque Stelle in Campidoglio è stata annegata. Un prezzo che la Raggi e chi le è rimasto intorno non possono pagare. Per convenienza politica di bottega. Per paura. Per ignavia militante. Vedremo nelle prossime ore il responso che il Vate del Movimento vorrà dare all'ennesimo twist del caso Raggi. Ma quel sorriso sinistro di ieri notte, la mimica del corpo, a Beppe Grillo, che è animale da palcoscenico, dovrebbero suggerire che la faccenda si fa di ora in ora più seria. E, per certi aspetti, drammatica. Ormai persino a prescindere dal codice penale. La Raggi non lascerà il Campidoglio per nessuna ragione al mondo. O, almeno, non lo farà di sua spontanea volontà. Perché sa quale buio la attende il giorno in cui dovesse richiudersi per sempre alle spalle la porta dell'ufficio con l'affaccio sul più bel panorama del mondo. Di più. Se costretta dalla sfiducia del Movimento, la Raggi trascinerà dietro di sé i suoi carnefici politici. Va da sé, con un sorriso. "Good night" e "good luck", buonanotte e buona fortuna, al Movimento Cinque Stelle. E, naturalmente, a Roma.
Giunta Raggi, tesoretti segreti e ricatti che legano il nuovo potere ai vecchi padroni di Roma. La storia. Se l'assicurazione fu donata per un legame privato, la sindaca era in conflitto d'interessi quando promosse Romeo. Rebus sulla provenienza dei fondi, scrive Carlo Bonini il 3 febbraio 2017 su "La Repubblica". Finisce come in un mesto déjà vu di una stagione lontana, quella della Milano di Mani Pulite. La sindaca Virginia Raggi che, passata mezzanotte, piegata da un interrogatorio fiume per abuso di ufficio e falso ideologico, lascia un ufficio della Direzione Anticrimine della Polizia di Stato dove è entrata con il sole. Inseguita dallo schianto dell'ennesimo, miserabile segreto, custodito dai "quattro amici al bar" (così aveva battezzato la chat chi si era preso Roma). Una polizza sulla vita di 30 mila euro di cui era beneficiaria e accesa da Salvatore Romeo nel gennaio 2016, sei mesi prima che lei, la "beneficiata", nel frattempo diventata sindaca, gli triplicasse lo stipendio di dipendente comunale e lo nominasse capo della sua Segreteria. In barba a pareri, opportunità, o, più semplicemente, decenza. Ora dunque si capisce perché, come si dice da queste parti, "andavano per tetti" i "quattro amici al bar". Lei, Romeo, l'ubiquo e ingombrante Raffaele Marra, il fido Daniele Frongia. Non per godere dell'aria del Campidoglio. Ma perché il cemento che li teneva insieme era ed è evidentemente inconfessabile. Innanzitutto a una parte del Movimento Cinque Stelle. Ora si capisce perché Raffaele Marra poteva trafficare per conto e a beneficio del fratello Renato (promosso a capo del dipartimento turismo), chiedendo e ottenendo dalla Raggi che ci mettesse la faccia, perché Marra sapeva bene di come trafficasse la Raggi per conto di Romeo. Ecco perché, come a un tavolo di bari tenuto insieme dal ricatto, Raffaele Marra e Salvatore Romeo posavano a padroni del Campidoglio, tracotanti e triviali. Perché il primo, sibillino, diceva da libero e fa intendere da galeotto "se parlo io viene giù tutto". E il secondo, Romeo, di Marra era la controfigura. Per dirla come la diceva Salvatore Buzzi in una delle più celebri intercettazioni di "Mafia Capitale", "perché la mano destra lava la sinistra e tutte e due lavano il viso". Altro che Carneade questo Salvatore Romeo. Si scopre ora - dalle contestazioni mosse durante l'interrogatorio del Procuratore aggiunto Paolo Ielo e anticipate ieri pomeriggio on-line dall'Espresso e dal Fatto mentre la deposizione era in corso - che il tipo era seduto su un tesoretto di 90 mila euro che alimentava almeno tre polizze vita. Tutte accese prima che la Raggi sbaragliasse a colpi di dossier l'avversario Marcello De Vito nelle comunarie e tutte a beneficio di altrettanti militanti del Movimento Cinque Stelle. Tra loro, la Raggi. Una generosità piuttosto singolare per un signore che all'epoca guadagnava 39 mila euro l'anno. Dunque, perché accendere quelle polizze? E, soprattutto, con quali soldi? O con i soldi di chi? E, in questo caso, per garantirsi quale ritorno? Si racconta ora negli ambienti Cinque Stelle che la ragione fosse nel legame privato, privatissimo, tra la Raggi e Romeo. Che la politica "non c'entri" e quella polizza (accesa nel 2013 e modificata nel beneficiario, la Raggi, nel gennaio 2016) fosse il gesto generoso di un uomo a beneficio di una donna che aveva a cuore nell'eventualità gli fosse sopravvissuta. Il che comunque affosserebbe la sindaca più di quanto già non lo sia. Perché all'abuso della nomina di Renato Marra si aggiungerebbe ora quella di Salvatore Romeo, per l'appunto. Promosso e triplicato nel reddito tacendo un legame privato e dunque in pieno conflitto di interesse. Perché, insomma, a "familismo" si sommerebbe altro "familismo". Ma le cose potrebbero anche non stare così. E allora ci sarebbe una sola altra spiegazione plausibile. Quella polizza, come le altre accese da Romeo, potrebbero avere un'origine - diciamo così - non privata, ma politica. Il che non cambierebbe il quadro giudiziario del conflitto di interesse della sindaca, ma, per certi aspetti, ne deturperebbe ulteriormente la figura politica. Se infatti quelle tre polizze erano una "fiche" puntata su una delle anime del Movimento cinquestelle romano - quella "nero fumo", quella che doveva garantirsi un serbatoio di voti a destra - perché prevalesse sulla cordata De Vito-Lombardi, se erano la contropartita per sigillare un patto politico, questo significherebbe che qualcuno, e sarà interessante scoprire chi, usò Romeo come terminale e garante di impegni con quel sistema di poteri e relazioni che, a Roma, ha nomi e indirizzi. Che, del resto, in questi sette mesi sono affiorati, ogni qual volta è stata bucata la quinta di cartapesta alzata dalla sindaca a difesa di scelte politiche incomprensibili. E dietro le quali hanno fatto regolarmente capolino qualche cliente dello studio Sammarco, la rete dei legami di destra di Marra. E a cui, a ben vedere, era tutt'altro che estraneo lo stesso Romeo. Non più tardi del 24 gennaio scorso, sentito come testimone nell'aula bunker del carcere di Rebibbia nel processo Mafia Capitale, Romeo viene infatti incalzato da una significativa domanda del pm Luca Tescaroli: "Che rapporti ha avuto con il sindaco Alemanno?". "L'ho incontrato una sola volta in vita mia", rincula lui, specificando che l'occasione era stata la sua partecipazione a un'assemblea dell'Ama, la municipalizzata dei rifiuti, per una nomina in consiglio di amministrazione. "Diciamo che le cose non stanno esattamente così. Che quel ricordo è un po' riduttivo", chiosa una fonte investigativa. Che, insomma, i rapporti con la destra di Romeo, uomo per altro nato a sinistra, fossero più strutturati. Non fosse altro perché in quegli anni di Alemanno Raffaele Marra è il capo del dipartimento Casa e Romeo è funzionario alle aziende partecipate di cui, nel 2013, Marra sarà capo. Una coppia che diventerà il cerchio magico di Virginia. E, ora, il suo cerchio di fuoco. Anche se questa non è una storia da acrobati.
Roberta Lombardi sul caso Virginia Raggi: "Hanno infiltrato il M5s", scrive “Libero Quotidiano” il 3 febbraio 2017. Una polizza sulla vita rischia di affondare Virginia Raggi. Un'assicurazione da 30mila euro intestata "a sua insaputa" da un uomo innamorato di lei è l'ultimo disastro venuto a galla della sindaca grillina. Dettagli emersi dall'interrogatorio. Per ora, la Raggi resiste. Ma se dovessero arrivare nuove accuse, come quella (probabile) di corruzione, o nuove prove, i vertici pentastellati - alias Grillo e Casaleggio - sarebbero pronti a scaricarla. Ma, nel frattempo, nel M5s cova la rivolta degli ortodossi. Di chi vorrebbe, e subito, la testa della Raggi. In primissima linea c'è Roberta Lombardi, da sempre contro Virginia (e, per inciso, la Raggi in un chat si chiedeva se "la Lombardi farà mai pace con il suo cervello"). E l'ex capogruppo, in pieno stile grillino, vede complotti come granelli di sabbia in riva al mare. Ovunque. Già, perché sul caso che ha travolto la Raggi è riuscita a dire: "Qui ci hanno infiltrato per bene. Speriamo che tutto questo ci aiuti a fare pulizia per poter ripartire. Io sono in pace con la coscienza, ho gridato fino a ieri per metterli in guardia". E se sulla coscienza pulita nessuno ha nulla da eccepire, fa riflettere quanto affermato dalla Lombardi. Il disastro della Raggi? Sarebbe opera di una "infiltrazione". La possibilità che ci siano responsabilità personali o del Movimento neppure viene presa in considerazione. Tutta opera di un'infiltrata. Convinta lei...
Perfidia, veleni e macchinazioni Quando le donne odiano le donne, scrive Daniela Missaglia, Venerdì 3/02/2017 su "Il Giornale". «Io a volte mi chiedo se lei faccia pace con il cervello prima di parlare», «Lei è proprio l'ultima da cui accetto lezioni di moralità. Da quella poco di buono che ha fatto passare la baby sitter come assistente parlamentare, facendola pagare con i soldi dei cittadini». Stilettate pesantissime che si leggono in questi giorni, sbobinate da chat private in cui la più chiacchierata sindaca (per usare un lessico boldriniano) italiana del momento riversa perle di veleno su un'esponente del proprio partito che aveva osato criticarne scelte e profilo. È proprio vero che le peggiori nemiche delle donne siano proprio le donne. Oggi come sempre: dalle matrone romane alle regine e imperatrici di epoca medievale e moderna alle donne dei nostri giorni. Illustri rappresentanti delle più subdole macchinazioni. Niente di nuovo, dunque, sotto il sole. L'intercettazione romana non è che l'ennesimo combattimento fra galli tutto in salsa rosa, fuoco «amico» tra due politiche che, pur minoranza in una maggioranza di maschi, riescono a dimenticare ogni minima solidarietà di genere. Si graffiano, soffiano, sibilano, si accaniscono l'una contro l'altra cercando pretesti che spesso invadono la sfera privata, l'immagine, le capacità. Salvo poi indignarsi e schierarsi compatte a difesa di cancelliere teutoniche di turno o politiche di vecchia scuola Pd per presunte battute maschiliste sul loro sex appeal o fondoschiena: il solito vecchio schema per cui il primo peccatore è chi per prima denuncia il peccato. Novelle Savonarola dell'ipocrisia, tutta femminile, che conduce noi donne a difenderci, in pubblico, e criticarci, in privato. La verità è che tra donne non ci amiamo, non ci stimiamo, se possiamo affossarci lo facciamo volentieri. Siamo paladine, a parole, di un femminismo che ci ha insegnato il valore dell'emancipazione e parificazione, dimenticando che la nostra natura crudele prenderà il sopravvento non appena sentiamo avvicinarsi il pericolo di un'avversaria capace di rubarci la scena. Il pettegolezzo, vezzo femminile, è radicato nel nostro Dna, e così la rivalità accecante. Le nostre armi non sono i muscoli, ma le sinapsi che elaborano vendette sottili, se vogliamo persino più sanguinose. Un uomo urla, s'impone fisicamente, ma poi si sgonfia e dimentica. Noi donne no, sappiamo come colpire e dove colpire con la precisione di un tiratore scelto. Miti e fiabe sono intrisi di figure femminili terribili che, per invidia, colpiscono donne come loro. La perfidia le accomuna nella macchinazione di intrighi e stratagemmi per arricchire se stesse o per preservare la posizione raggiunta. Atena stracciò la tela-capolavoro di Aracne, Era privò della voce la ninfa Eco e trasformò la ninfa Callisto in un'orsa: non a caso l'invidia era impersonata da Megèra, una delle spietate Erinni. D'altra parte, già nel nel 1600 lo scrittore francese Jean de La Bruyère declamava: «Le donne sono estreme: o migliori o peggiori degli uomini». Ecco, aggiungo io: nella perfidia, sicuramente le peggiori, nel coraggio e nella fermezza le migliori.
Raggi e Lombardi, Eva contro Eva: la lotta di potere delle due grilline, scrive di Francesco Specchia su “Libero Quotidiano” il 30 gennaio 2017. Eva contro Eva. La lotta furiosa fra Virginia Raggi e Roberta Lombardi, la disfida fra femmine unghiate -catfight si direbbe in America- nel fango dei giochi di potere e in quello delle chat penalmente rilevanti evoca oggi, tutta l'angoscia di quel film premio Oscar di Joseph L. Mankiewicz del '50. Lì c'era una attrice scafata e onnipotente soppiantata sul palco da una giovane collega rampante. Qui spicca una potente zarina (Lombardi, detta anche la «Faraona») dei sobborghi romani, dal volto segnato da mille battaglie; la quale, messa da parte dall' emergente con l'aria da eroina disneyana (Virginia, da eroina disneyana soltanto l'aria), ritrova il gusto prepotente della vendetta. Forse. La frase «Lombardi non la sopporto e mi è antipatica. Paga la baby sitter con i soldi della Camera...» pronunciata da una sindaca ai limiti dell'umana tolleranza non è che la rappresentazione di una faida che scorre carsicamente nelle vene romane del Movimento 5 Stelle. Raggi e Lombardi sono femmine d' opposta natura. Hanno in comune solo la laurea in giurisprudenza, il retrogusto della ribellione, e un totalizzante senso di maternità che ha spinto la prima a portare il figlio in Consiglio comunale e la seconda la tata della figlia in Parlamento. Per il resto le signore si odiano di un odio cinematografico e straordinariamente femminile, appunto. Eppure, prima della guerra fratricida, hanno lavorato insieme per la caduta dal Campidoglio di Ignazio Marino. Ma, mentre di Virginia- bella presenza, capacità tecnica, ottimo inglese- s' appassionava Gianroberto Casaleggio fino a caldeggiarla per la candidatura a sindaco nel web; di Roberta, fino allora indiscusso deus ex machina nella Capitale, si perse traccia. Il potere di Lombardi va nelle secche del Movimento quando il suo uomo di riferimento il pur bravo Marcello De Vito -già candidato a primo cittadino perché fondamentalmente Roberta non era candidabile- viene ancora trombato da una congiura ordita -si dice- dal gruppo del rivale storico Daniele Frongia. Con la Raggi divenuta sindaca e quinta carica dello Stato, Roberta tenta comunque, imponendo un minidirettorio di contenere l'inerte scalpitare della prima cittadina. La quale, di fatto, non solo è sempre più lontana dalla linea pentastellata, ma anche impermeabile al mondo politico esterno grazie al cordone sanitario dei Frongia, Marra e Salvatore Romeo, collaboratore di sempre in Campidoglio. Dio, non è che il cordone fosse quello d'una compagnia di francescani, ma transeat. Fatto sta che il minidirettorio si sgretola e Lombardi si becca altre scoppole. Anche se il suo protégé De Vito, nominato Presidente dell'Assemblea Capitolina, esercita una politica di low profile e, con lungimiranza, rifiuta di partecipare al cosiddetto «conclave», la famigerata riunione di Raggi con consiglieri e assessori preludio alla tempesta giudiziaria. Tempesta che viene fiutata da Lombardi, avvezza ai casini legali: la donna è l'unica a postare su Facebook che «Marra è il virus che ha infettato il movimento», prima che si muova la Procura. La linea dura della Lombardi viene sposata anche da altre due donne forti del M5S, Carla Ruocco e Annalisa Taverna sorella di Paola che minaccia d'«appendere pe' le orecchie» la sindaco fino a che non fosse «rinsavita». Il che, ammettiamolo, non è affatto un'uscita alla Audrey Hepburn. Ma disvela, per il destino dell'amministrazione romana pentastellata, scenari preoccupanti. Raggi è sotto assedio. È assalita dall' esterno (Sgarbi l'ha definita la Ambra Angiolini, la bambolina teleguidata di Grillo) e dall' interno. Basterebbero sei consiglieri per sfiduciarla, ma pare che siano in dieci che, pur attenendosi ufficialmente alla linea protettiva di Grillo, stiano valutando se riallinearsi alla strategia della Lombardi. Magari proprio staccare la spina al sindaco no. Ma, in caso di rinvio a giudizio o di patteggiamento, spingere per un'autosospensione della Raggi. Che darebbe modo, naturalmente, alla rivale di riorganizzarsi e apparecchiare la strada alla scalata del suo De Vito, poiché il sostituto di diritto, il vicesindaco Luca Bergamo non appartiene al Movimento. Dietro la suddetta lotta di potere un po' alla Macbeth - lo rivela Andre Cinquegrani su lavocedellevoci.it - ci sarebbe l'affaire stadio della Roma, e il ritorno di Malagò con le solite Olimpiadi da piazzare. Eva contro Eva ha ancora un finale da scrivere...«Lei è proprio l' ultima dalla quale accetto lezioni di moralità. Da quella poco di buono che ha fatto passare la baby sitter come assistente parlamentare, facendola pagare con i soldi dei cittadini. Lei di certo non si può permettere di giudicare me». «Non la sopporto. E non sopporto che si permetta di fare la morale a me... da che pulpito! Come se lei fosse una persona integerrima».
Raggi e i veleni in chat su Lombardi: mi chiedo se prima di parlare faccia pace col cervello. Ascoltato dai pmi Marcello De Vito. Presto toccherà Di Battista, Ruocco e Taverna. Ecco lo scambio di messaggi, in cui è assente la vittima del presunto dossier, scrive Alessandro Trocino il 1 febbraio 2017 su "Il Corriere della Sera". «Io a volte mi chiedo se lei faccia pace con il cervello prima di parlare». È Virginia Raggi che scrive, nella chat dei consiglieri comunali, nella scorsa consiliatura. Destinataria della definizione non benevola è Roberta Lombardi, nemica numero uno della futura sindaca di Roma e avversata da molti altri esponenti ai vertici dei 5 Stelle. La vicenda del dossieraggio contro Marcello De Vito, accusato con toni da inquisizione di reati e abusi, tutte accuse poi cadute rapidamente, sta acquisendo toni shakespeariani. Ma anche una rilevanza politica crescente, che i 5 Stelle negano pervicacemente, sperando che il silenzio seppellisca un intrigo nel quale sono coinvolti molti esponenti di peso del Movimento. Ieri, a dare un tocco surreale, ma anche a fornire concretezza a quelli che continuano a derubricare come gossip giornalistici, è arrivata la pubblicazione sul sito Affari Italiani degli screenshot (le foto) della chat interna, relativa proprio al dossieraggio. Uno scambio di messaggi pesantissimo in una chat nella quale è assente, non a caso, solo De Vito. Le accuse nei suoi confronti sono diverse, ma su tutte c’è quella di aver compiuto un accesso agli atti illegittimo. La Raggi, di lì a poco sfidante proprio di De Vito alle primarie, ormai infangato in Rete, è tra le più accanite accusatrici. Scrive: «Ragazzi, scusate, ma per verificare sospetto di mazzette all’ufficio condoni fai l’accesso agli atti di un procedimento?! E che le mazzette si annotano come fondo spese a margine degli atti? Maddai… E poi non ne parli con noi? Maddai…». E ancora: «In caso chiami la polizia». De Vito si difese dalle accuse inviando una mail dell’avvocato Paolo Morricone che provava come fosse stato il legale dei 5 Stelle a chiedere, per conto di un cliente, l’accesso agli atti. «Scelsi De Vito — spiega Morricone — a caso, solo perché era quello che conoscevo meglio». Ma per Daniele Frongia, accanito accusatore poi vicesindaco (defenestrato da Grillo), «la linea di difesa peggiora la situazione di Marcello: l’accesso era voluto da Paolo Morricone che con quell’accesso voleva scoprire una non meglio precisata mazzetta». A dir la verità, dopo che fu compiuto l’accesso agli atti, curiosamente non si ebbe notizia dei risultati: «De Vito non mi disse più nulla — spiega Morricone — Non so perché, poi cadde Marino e tutta la faccenda finì nel dimenticatoio». Tornando alle chat, la Raggi scrive ancora: «De Vito non rispetta le regole basilari per candidarsi a sindaco. Continua a forzare la mano per fare come vuole lui. Sono stanca, in due anni non è cambiato nulla». A darle manforte interviene Marco Terranova: «Non ho paura ad andare da De Vito, me lo magno pure in Campidoglio da sindaco se serve, non dobbiamo dargliela vinta a lui ma soprattutto alla Lombardi». Sulla stessa linea altri partecipanti a vario titolo alla chat, Veronica Mammì (la moglie di Enrico Stefano, che scrive «ma che stiamo giocando a bazzico rampichino?»), Alessandra Agnello, Giusy Campanini, Monica Lozzi. Frongia, contattato, nega l’evidenza: «Le chat? Il dossieraggio? Ricostruzioni fantasiose». Stefano pure: «Tutto falso». Roberta Lombardi allunga il passo in Transatlantico. Si ferma Alfonso Bonafede, uno dei due deputati chiamati ad «aiutare» la Raggi in queste settimane: «De Vito e Raggi sono in buoni rapporti. Ma proprio buoni eh». Anche se si sono massacrati per mesi?: «Io li ho sempre visti lavorare bene». Quanto al dossieraggio: «Se esistesse, ed è tutto da provare, non avrebbe influito minimamente sulle primarie». Tutto bene, insomma. Splende il sole sul Campidoglio, a sentire Bonafede e gli altri. Eppure, la pubblicazione di queste chat, insieme all’inchiesta che la vede indagata per abuso d’ufficio e falso, mettono la Raggi in una situazione difficile. E se in quella fase godeva dell’appoggio dei vertici dei 5 Stelle, che non volevano De Vito sindaco anche per ridimensionare il potere di Roberta Lombardi, ora la Raggi sembra sempre più sola. Intanto la Procura indaga. Dopo la Lombardi, che ha evocato come possibile mandante della trappola Raffaele Marra, è stato il turno di De Vito ad essere sentito. E si è deciso di interrogare anche Alessandro Di Battista, Carla Ruocco, Paola Taverna e gli altri big che sapevano tutto e non hanno mai parlato.
Virginia Raggi in attesa di interrogatorio. Su Lombardi: "Faccia pace col cervello". La sindaca, che disse di aver deciso la nomina da sola, sentita dai pm. Ed è polemica sui messaggi di un anno fa, all'inizio del 2016, dove De Vito è additato come colui "che non rispetta le regole base" del M5S, scrive il 2 febbraio 2017 "La Repubblica". "Io a volte mi chiedo se lei faccia pace con il cervello prima di parlare" scrive Virginia Raggi nella chat dei consiglieri comunali. Era la scorsa consiliatura e non era sindaca. Si riferisce a Roberta Lombardi, sua nemica numero uno e avversata da altri esponenti ai vertici dei 5 Stelle. La vicenda del dossieraggio contro Marcello De Vito, accusato di reati e abusi, accuse poi cadute, sta acquisendo una rilevanza politica crescente. Ieri è arrivata la pubblicazione sul sito Affari Italiani degli screenshot della chat interna. In attesa dell'interrogatorio della sindaca che dovrebbe tenersi oggi, si delineano i nuovi elementi in mano all'accusa. Sono decine le conversazioni tra i fratelli Raffaele e Renato Marra registrate tra ottobre e novembre. Dopo averlo incitato a fare domanda "perché si è liberato il posto di capo del Turismo", Raffaele spiega al fratello che bisogna avere "l'appoggio di Adriano", riferendosi all'assessore al Commercio Adriano Meloni che qualche giorno fa di fronte ai magistrati ha confermato: "Fu Raffaele a suggerirmi quella scelta". I due parlarono anche con Marcello De Vito, presidente del consiglio comunale, coinvolsero nella gestione della pratica Salvatore Romeo. E infatti, dopo la nomina, lo stesso Meloni ringrazia con una email Raggi, Marra e Romeo. Raggi è accusata anche di falso per aver sostenuto che aveva fatto tutto da sola, mentre il tenore delle conversazioni - soprattutto quelle tra i Marra - dimostra che furono proprio loro a istruire la pratica ottenendo diversi appoggi politici. Ma è la chat privata di "portavoce" romani a far discutere oggi. "Noi sosterremo qualunque candidato che si muova nel M5S, rispettando sia il programma e le finalità, sia i modi. A nostro avviso lui purtroppo non rispetta queste regole basilari", è un altro dei messaggi di un anno fa, all'inizio del 2016, inviato da Raggi. Sono i giorni infuocati dello scontro, tutto interno, proprio con De Vito, l'uomo che le contendeva la leadership e che oggi preside l'Aula Giulio Cesare. Contro di lui - è l'ipotesi su cui indaga la procura - si sarebbe messa in moto una "macchina del fango" per screditarlo e affossarne la corsa al candidato sindaco. Nel messaggio di Raggi De Vito viene additato come colui "che non rispetta le regole basilari" del M5S. Contro di lui, escluso dalla conversazione riservata, si accaniscono anche altri, compreso l'attuale assessore Daniele Frongia secondo cui "la linea di difesa peggiora la situazione di Marcello". Ma è la sindaca la più accanita. Scrive: "Ragazzi, scusate, ma per verificare sospetto di mazzette all'ufficio condoni fai l'accesso agli atti di un procedimento?! E che le mazzette si annotano come fondo spese a margine degli atti? Maddai... E poi non ne parli con noi? Maddai...". E ancora: "In caso chiami la polizia". Quello che emerge in attesa che la procura verifichi l'origine del dossieraggio contro il rivale della sindaca, è uno scontro di potere interno. Da una parte la prima cittadina e i suoi fedeli. Marco Terranova, attuale consigliere, su De Vito dice: "Non ho paura ad andare da lui, me lo magno pure in Campidoglio da sindaco se serve, non dobbiamo dargliela vinta a lui ma soprattutto alla Lombardi". Dall'altra la corrente della Lombardi con cui lo scontro è stato aspro fin da subito. A darle manforte altri partecipanti a vario titolo alla chat, Veronica Mammì (la moglie di Enrico Stefano, che scrive "ma che stiamo giocando a bazzico rampichino?"), Alessandra Agnello, Giusy Campanini, Monica Lozzi. E mentre la deputata nega di aver presentato esposti sul "dossier-De Vito", a Raggi arriva la solidarietà del senatore renziano Andrea Marcucci: "La sindaca è vittima di una costante violazione della privacy". Intanto la Procura indaga. Dopo Lombardi, che ha evocato come possibile mandante della trappola Raffaele Marra, è stato il turno di De Vito ad essere sentito. E si è deciso di interrogare anche Alessandro Di Battista, Carla Ruocco, Paola Taverna e gli altri che sapevano tutto e non hanno mai parlato.
Virginia Raggi e la chat con Marra, Romeo, Frongia: quattro amici al bar, scrive "Blitz Quotidiano" il 24 gennaio 2017. Virginia Raggi, sindaco di Roma, “ha mentito all’Anac su Raffaele Marra e suo fratello Renato?”. Se fosse vero, “si chiarirebbe il vero ruolo di Marra”, dice il senatore del Pd Stefano Esposito. Esposito rilancia alcune indiscrezioni sulla inchiesta in corso a Roma, dopo l’arresto dello stesso Raffaele Marra e il contenuto della chat fra i “quattro amici al bar”. I quattro erano, oltre a Raffaele Marra e Virginia Raggi, l’ex capo della segreteria del sindaco, Salvatore Romeo, e l’ex vicesindaco Daniele Frongia. “Altro che uno dei 45 mila dipendenti del Comune”. Sembrerebbe configurarsi un vero e proprio scambio di opinioni e informazioni fra la Raggi e Marra sullo stipendio del fratello di Marra: “Quindi o il Sindaco ha mentito nella memoria all’Anac o Marra ha pesato eccome sulla scelta di Raggi dedicata a suo fratello. Quel che è certo è che passano i giorni e la nebbia continua a ristagnare sul Campidoglio”. Il messaggio contenuto nella chat dei 4 amici al bar di cui parla il senatore del Pd è quello in cui Virginia Raggi chiede cosa dicono le norme quando un dipendente del Comune cambia fascia professionale. Virginia Raggi si riferisce evidentemente al caso di Raffaele Marra, Renato Marra, graduato della Polizia municipale, che aveva fatto domanda per diventare comandante dei vigili urbani di Roma. Da notare che Renato Marra ne aveva tutti i requisiti. Era considerato uno dei migliori dirigenti del corpo al punto di essere stato l’unico a essere stato premiato dal commissario Francesco Paolo Tronca lo scorso maggio. La posizione di comandante dei vigili è, dal punto di vista dell’inquadramento dei dipendenti comunali, in fascia 5. Renato Marra aveva poi rinunciato a procedere in carriera, optando per un ruolo inferiore dal punto di vista retributivo, in fascia 3, anche se non meno pesante dal punto di vista del potere, quello di direttore del turismo. Su questo cambio di collocazione di Renato Marra è stato interrogato Raffaele dalla Raggi. Raffaele ha risposto, inviandole le foto dei riferimenti normativi. Nella stessa chat, la Raggi si informerebbe anche del livello retributivo. Identica la risposta di Marra: è stabilito per legge. La chat smentirebbe, secondo il sen. Esposito, quello che era stato detto a suo tempo dalla Raggi, che nella nomina di Renato Marra il ruolo del fratello Raffaele era “stato di mera pedissequa esecuzione delle determinazioni da me assunte, senza alcuna partecipazione alle fasi istruttorie, di valutazione e decisionali, peraltro affidate in via esclusiva dalla normativa vigente. Raffaele Marra – spiegava Raggi – si è limitato a compiti di mero carattere compilativo”.
Aggiunge Sara Menafra sul Messaggero: In queste conversazioni, tutte registrate sulla popolare applicazione Whatsapp, i due si confrontano proprio a proposito della promozione alla quale aspira Renato e che effettivamente ottiene. Il tono è ovviamente confidenziale e Raffaele spiega al fratello vigile urbano quali sarebbero i benefici, anche in termini di stipendio, qualora dovesse effettivamente ottenere l’incarico a capo dell’ufficio Turismo. I pm si sono presi qualche giorno per valutare anche queste conversazioni. Il punto, infatti, è capire quanto e se Marra abbia usato il suo rapporto di fiducia col sindaco Raggi per sostenere il fratello sebbene il regolamento comunale vieti ai congiunti di promuoversi a vicenda. Proprio per questo motivo, l’altra chat interessante è quella dei «Quattro amici al bar». Come ha anticipato il Fatto quotidiano, la app Telegram, che ospitava la conversazione, ha registrato almeno quattro messaggi con questo argomento. Al momento di valutare la nomina di Renato Marra, il sindaco Raggi chiede proprio a Raffaele il funzionamento delle fasce dirigenziali e, conseguentemente, le retribuzioni. In entrambi i casi, Marra risponde con una foto della pagina del regolamento comunale: prima sulla fasce, poi sui compensi. Anche in questo caso, la conversazione può risultare decisiva specie se contrapposta a quanto lo stesso sindaco ha riferito all’Anac nel corso dell’istruttoria su questa nomina.
Ma un altro articolo di Michela Allegri e Cristina Mangani sul Messaggero spiega che forse la Raggi non decise da sola la nomina del fratello di Marra, anzi che sia stata messa praticamente davanti al fatto compiuto: Si è assunta la responsabilità della nomina di Renato Marra, fratello di Raffaele, finito in carcere per corruzione. E ora una chat, quella aperta tra lei e il suo ex braccio destro, sembra smentirla. Virginia Raggi e quell’incarico tanto discusso non trovano pace. Chi ha deciso veramente di promuovere Renato Marra a capo della Direzione del Turismo di Roma Capitale? Il primo cittadino o il fratello, all’epoca capo del personale? A giudicare dal contenuto della conversazione riservata, la sindaca avrebbe accettato la decisione a scatola chiusa. E poi, davanti ai malumori dell’opposizione e degli stessi 5 stelle per quell’aumento di ventimila euro nella busta paga, gli avrebbe scritto: «Raffaele, questa cosa dello stipendio mi mette in difficoltà, me lo dovevi dire».
Raggi, è il dossier contro De Vito a legarla a Marra? Debito di riconoscenza per aver eliminato il concorrente alla scalata alla poltrona di Sindaco. Verso uno scontro ancora più duro nel M5S, scrive l'1 febbraio 2017 Claudia Daconto su Panorama. È probabilmente perché "lui è davvero un signore", come chi è sempre stato dalla sua parte, a cominciare dalla leader del Movimento 5 Stelle romano, Roberta Lombardi ha sempre sostenuto, se Marcello De Vito ha voluto smentire sulla sua pagina Fb il titolo de Il Messaggero di questa mattina: "De Vito: senza quel dossier il candidato sarei stato io". Lungi dal volergli attribuire anche qui virgolettati che il presidente dell'Assemblea capitolina ha già disconosciuto, ai tempi delle comunarie grilline per la scelta del candidato sindaco, scrivemmo che Virginia Raggi ebbe la meglio su di lui perché a un certo punto il suo braccio destro. Daniele Frongia, uno dei “quattro amici al bar” (così era chiamata la chat tra Raggi, Frongia, Marra e Romeo), decise di far convergere i suoi voti sulla collega. Adesso sarà la Procura di Roma a stabilire se, come sostiene il senatore Andrea Augello in un esposto presentato già a luglio scorso, fu azionata anche la molla della denigrazione ai danni dello sfidante allora più accreditato a ottenere l'investitura di candidato sindaco, Marcello De Vito, probabilmente per garantirsi il successo dell'operazione e convincere i vertici del Movimento a puntare sulla giovane avvocatessa romana. I magistrati di Piazzale Clodio hanno deciso di aprire un fascicolo senza indagati né ipotesi di reato dopo aver raccolto la testimonianza della deputata grillina Roberta Lombardi. È stata lei infatti a rivelare di aver saputo da un collaboratore del M5S, che sarà a sua volta ricevuto dai pm, che dietro le accuse contro De Vito ci sarebbe stato proprio Raffaele Marra. A fine dicembre del 2015, meno due mesi prima delle comunarie grilline, gli allora consiglieri capitolini Daniele Frongia, Enrico Stefano e Virginia Raggi si riuniscono per accusare il quarto compagno, Marcello De Vito, di abuso d'ufficio. Nel marzo 2015 De Vito aveva infatti richiesto un accesso agli atti per una questione edilizia a loro avviso in modo indebito. A gennaio De Vito viene sottoposto a una sorta di processo alla presenza anche dei parlamentari Di Battista, Lombardi, Ruocco, Taverna e dei responsabili della comunicazione Rocco Casalino e Ilaria Loquenzi. De Vito ne esce bene: spiega la sua posizione, Di Battista si arrabbia con il delegato della fronda anti-De Vito, Enrico Stefano, per aver consultato un avvocato senza il permesso del Movimento. Tuttavia ormai il destino di De Vito appare segnato: non sarà lui il candidato sindaco di Roma. I big del partito infatti hanno già deciso che il nome su cui puntare è quello di Virginia Raggi e soprassiedono su un punto cruciale dell'intera vicenda: da chi, Frongia, Stefano e la stessa Raggi, avevano ricevuto la soffiata sul loro compagno? Guarda caso nei mesi a seguire i sospetti si concentrano proprio su due personaggi chiave di questa turbolenta stagione della politica romana: Raffaele Marra e Salvatore Romeo. Entrambi sono dipendenti del Campidoglio e si muovono con disinvoltura tra gli ingranaggi della complicata macchina amministrativa. Sanno cosa cercare e dove possono trovarlo. De Vito è furente. Minaccia esposti e ritorsioni. Ma è proprio Roberta Lombardi a fermarlo: per il bene del Movimento. In più occasioni ci si è chiesti perché Virginia Raggi sia arrivata al punto di minacciare di andarsene se qualcuno avesse tentato di allontanare da lei un personaggio come Raffaele Marra, promosso addirittura capo del personale, difeso e coperto fino a dichiarare il falso pur di tutelarlo, almeno secondo le accuse dei magistrati che domani la interrogheranno a proposito e che, infine, a dicembre, fu arrestato per corruzione. Adesso, al di là di quello che la Procura potrà accertare sulla vicenda del dossier anti-De Vito, c'è una prima risposta politica a questa domanda e una giustificazione alla profonda disistima che Roberta Lombardi ha sempre dimostrato, puntualmente tacitata dai vertici pentastellati, sia per Marra ("il virus che sta infettando il Movimento") che per la stessa Raggi. Se fosse vero che Virginia Raggi e il suo gruppo di amici si sono avvalsi della “collaborazione” di Marra e Romeo per tentare di mettere fuori gioco il principale concorrente interno alla scalata verso il Campidoglio, è evidente che, una volta eletta, Raggi aveva nei loro confronti un debito di riconoscenza di non poco peso. Circostanza che, se dovesse essere confermata, è destinata a far alzare ulteriormente il livello dello scontro all'interno del Movimento 5 Stelle già da tempo attraversato da sospetti, recriminazioni e accuse reciproche tanto gravi da rischiare ormai di risultare ingestibili anche per dei maniaci del controllo e della disciplina interna come Grillo e Casaleggio.
La versione di Lombardi: “Così Marra aiutò Raggi”, scrive Vincenzo Imperitura l'1 Febbraio 2017 su "Il Dubbio". La storica oppositrice della sindaca avrebbe indicato nel manager arrestato il “burattinaio” che avrebbe confezionato il dossier contro De Vito. Potrebbe esserci Raffaele Marra dietro lo scatto finale che ha consentito all’attuale sindaco di Roma, Virginia Raggi, di vincere le primarie on line per la scalata grillina al Campidoglio. A fare il nome dell’ex pezzo da novanta della macchina amministrativa comunale ai magistrati che indagano sulla sindaca – rivela il Fatto Quotidiano nell’edizione di martedì – sarebbe stata la deputata M5S Roberta Lombardi durante l’interrogatorio di sabato scorso. La storica oppositrice della sindaca, e che proprio dalla sindaca si era vista arrivare nei giorni scorsi l’accusa di avere assunto una collaboratrice domestica alla Camera, avrebbe fatto il nome di Marra parlando della crisi che portò l’attuale presidente dell’assemblea capitolina, Marcello De Vito, sul banco degli imputati all’interno del movimento. L’ex plenipotenziario dell’amministrazione capitolina, nel racconto di Lombardi (che ha riferito ai magistrati di avere ottenuto l’informazione da un collaboratore del movimento di Grillo), sarebbe stato uno degli artefici del dossier sputato fuori in piena campagna elettorale per le primarie, e che avrebbe affossato la candidatura dello stesso De Vito in favore della corsa di Virginia Raggi. Una storia ingarbugliata quella che viene fuori dall’indagine per falso e abuso d’ufficio sulla prima cittadina di Roma, a cui si aggiunge il sospetto che Marra possa avere favorito la neo sindaca ancora prima della sua elezione. Mossa che potrebbe in qualche modo giustificare la strenua difesa che la sindaca ha sempre messo in campo nei con- fronti dell’ex numero uno del personale, almeno fino al momento del suo arresto, siamo a dicembre dello scorso anno, quando lo definì come uno dei «23 mila impiegati comunali». La vicenda era scoppiata nel dicembre del 2015, quando Frongia, Raggi e Stefano avevano riunito i consiglieri municipali del M5S accusando De Vito (che non era presente) di abuso d’ufficio per un presunto indebito accesso agli atti risalente a marzo. A quella riunione – che si era chiusa con l’invito a sostenere la candidatura del futuro sindaco – ne seguirono altre due in cui De Vito fu prima accusato (con tanto di parere legale sulla vicenda) e poi scagionato grazie alle prove fornite da De Vito stesso. Prove che non gli consentirono probabilmente di sanare un rapporto di fiducia che si era ormai evidentemente incrinato. Le accuse della Lombardi – accuse su cui i magistrati di piazzare Clodio stanno cercando di approfondire attraverso l’audizione delle diverse parti in causa, compreso il funzionario M5S che avrebbe soffiato la notizia alla Lombardi – farebbero quindi risalire i legami tra Marra e l’entourage della sindaca a prima delle elezioni, ma sono state respinte da Daniele Frongia che ha negato legami che risalgono a quel periodo, negando inoltre di avere sventolato il parere legale contro De Vito durante la caldissima riunione di gennaio 2016. Sul fronte delle indagini vere e proprie intanto, la posizione della sindaca Raggi potrebbe aggravarsi in seguito all’acquisizione, da parte della procura, di una mail scritta dall’assessore Adriano Meloni, a Raffaele Marra (e per conoscenza anche alla prima cittadina). In questa mail Meloni ringrazia Marra per la nomina del fratello Renato (nomina in seguito revocata), indicandolo come la persona giusta. Una mail che dimostrerebbe come lo stesso assessore considererebbe Marra come primo referente per la nomina alla direzione del dipartimento turismo del suo stesso fratello, dimostrando ancora una volta quanto potere venisse normalmente attribuito all’ex pezzo da novanta finito in carcere con l’accusa di corruzione. Lo stesso uomo che secondo i giudici del riesame che hanno rigettato la richiesta di scarcerazione aveva «consolidato nel tempo, nelle amministrazioni locali, grazie a rapporti con l’autorità politica, un potere personale tanto significativo da diventare, a suo stesso dire, l’uomo più potente».
Roma, il fedelissimo della Raggi: "Sul tetto per evitare le cimici". L'ammissione dell'ex capo della segreteria: "Io e Virginia sapevamo delle intercettazioni da subito", scrive Chiara Sarra, Venerdì 06/01/2017, su "Il Giornale". "Sapevamo delle cimici in Comune dal secondo giorno di governo della città". Salvatore Romeo, fedelissimo di Virginia Raggi ed ex capo della segreteria del sindaco di Roma svela ora cosa ci faceva con lei sul tetto del Campidoglio nei mesi scorsi. "Sul tetto ci saremo andati quindici volte", racconta al Messaggero, "Quel giorno mangiavamo un panino, come sempre, poi è uscita fuori quella foto ed ecco che è scoppiato un caso". Ma quella delle intercettazioni è una circostanza già smentita dalla procura di Roma, secondo cui nessuna attività in questo senso "è stata eseguita negli uffici del Campidoglio dopo l'insediamento della giunta Raggi". E pure il sindaco si precipita a sconfessare Romeo: "Magari le mettessero, così saprebbero che non abbiamo nulla da nascondere", ha detto la Raggi ai giornalisti prima di entrare nella Basilica dell'Ara Coeli, accanto al palazzo del Campidoglio, dove si sta svolgendo la messa dell'Epifania. "Romeo dice che lui e la Raggi sapevano delle cimici in Campidoglio. E come facevano a saperlo?", attacca quindi il presidente del Pd e commissario del partito di Roma Matteo Orfini. Romeo, costretto al passo indietro dopo l'arresto di Raffaele Marra, sostiene di aver "pagato il rapporto privilegiato" proprio con l'ex capo del personale: "Io non sono un gargarozzone", dice, "Non sono un ingordo di potere non faccio parte di questo mondo. Non voglio mettere in difficoltà il mio sindaco, in questa città bisogna lavorare se ci sono degli ostacoli è un problema".
La sindaca, Romeo e il giallo delle cimici. Ora è caccia alla talpa. L’indagine sulla corruzione e il ruolo giocato da Marra. Qualcuno avvisò Virginia Raggi e i suoi collaboratori degli accertamenti in corso? I pm: mai intercettati, scrive Fiorenza Sarzanini il 6 gennaio 2017 su "Il Corriere della Sera". Ora che a confermare la soffiata è uno dei protagonisti diretti, bisognerà scoprire chi è la talpa del Campidoglio. Le parole di Salvatore Romeo, l’ex vicecapo di gabinetto che in un’intervista al quotidiano Il Messaggero candidamente ammette di essere andato con la sindaca di Roma sul tetto del Comune di Roma «perché sapevamo che in Comune c’erano le cimici», apre infatti scenari inquietanti. Perché conferma il sospetto già emerso nel corso dell’inchiesta che ha portato all’arresto per corruzione di Raffaele Marra e del costruttore Sergio Scarpellini: qualcuno avvisò Virginia Raggi e i suoi collaboratori degli accertamenti in corso. Ieri fonti anonime della Procura di Roma hanno fatto sapere attraverso le agenzie di stampa che «gli uffici del Comune dopo l’insediamento della giunta guidata dal sindaco Virginia Raggi non sono stati oggetto di alcuna attività di intercettazione da parte della magistratura», ma nessun comunicato ufficiale è stato diramato. E in ogni caso il problema non è se davvero ci fossero le microspie, ma che cosa è stato raccontato alla sindaca e al suo staff. E soprattutto da chi. Anche tenendo conto che proprio a giugno, quindi poco dopo le elezioni, una cimice piazzata nell’ufficio di Scarpellini captò le telefonate del costruttore che parlava con la sua segretaria dei soldi consegnati a Marra «perché temo che altrimenti possa ostacolarmi nelle pratiche che ho al Comune». C’era dunque chi era perfettamente a conoscenza non solo dell’esistenza dell’indagine, ma anche del fatto che i pubblici ministeri avessero deciso di piazzare microspie e non soltanto di intercettare i telefoni. Forse non conosceva esattamente tutti i dettagli, non era stato informato sui luoghi sottoposti a controllo. Ma di certo sapeva che le verifiche erano in corso. E si premurò di avvertire gli interessati. Ieri commentando le parole di Romeo sulle cimici, la sindaca non ha smentito di aver ricevuto una soffiata, limitandosi a un commento ironico: «Magari le mettessero, così saprebbero che non abbiamo nulla da nascondere». Stesso atteggiamento rispetto alla possibilità che vengano tolti gli omissis dalla chat sulla piattaforma whatsapp che condivideva con lo stesso Romeo, Marra e l’ex vicesindaco Daniele Frongia: «Non temo nulla». Oggi il tribunale del Riesame dovrebbe pronunciarsi sull’eventuale scarcerazione di Marra. Nei prossimi giorni Raggi potrebbe essere invece convocata in Procura. L’inchiesta per abuso d’ufficio sulle nomine da lei decise è ormai alla fase finale dopo i rilievi dell’Anticorruzione guidata da Raffaele Cantone e le verifiche svolte su delega del procuratore aggiunto Paolo Ielo. Scontato che debba essere interrogata come indagata, anche per darle la possibilità di chiarire i criteri utilizzati nella designazione dello stesso Romeo a vicecapo di gabinetto e del fratello di Marra, Renato, a responsabile del Turismo. E in quella sede è possibile che venga chiamata a spiegare anche che tipo di informazioni arrivarono a lei e ai suoi collaboratori più stretti. Ricostruendo l’origine di accuse e veleni che hanno finora segnato il percorso della sua giunta.
Da Il Messaggero del 2 gennaio 2017. Con un commento su Facebook Annalisa Taverna, sorella della senatrice del M5S Paola, torna ad attaccare Virginia Raggi. Lo sfogo contro la sindaca di Roma, ricco di espressioni forti e colorite, sta diventando virale sui social network e risale al 23 dicembre scorso, a poche ore di distanza dalle immagini della Raggi da sola nella Sala del Quirinale per il tradizionale scambio di auguri del Capo dello Stato con le alte cariche. Immagini che erano state prese a simbolo di una sindaca che appariva 'isolatà nei giorni difficili seguiti all'arresto di Raffaele Marra e alla cacciata del 'raggio magicò con l'allontanamento di Salvatore Romeo e l'addio di Daniele Frongia alla poltrona di vicesindaco. «Io in piazza ci scendo volentieri ma con uno striscione del tipo 'hai in mano le sorti della città e quelle del Movimentò», scrive rispondendo alla domanda di una militante. Una «responsabilità enorme» che «hai deciso di affrontare da sola facendo piazza pulita dei 5 stelle e contornandoti del non plus ultra della merda». Adesso «ti attaccano tutti e sei in mezzo al marasma ma me sembra il minimo. Il problema è che per le tue scelte del cazzo nel marasma ci stiamo anche e soprattutto noi». Poi un riferimento al video in cui la Raggi appare da sola al Quirinale. «Nel video di un minuto e mezzo in un evento durato ore, sembri cappuccetto rosso sperduto tra i lupi cattivi (però quando hai scelto i tuoi collaboratori contro tutto e tutti la parte del lupo t'è riuscita benissimo)... non ti ha considerato nessuno... e che t'aspettavi? - prosegue - Rappresenti il Movimento quindi fanne un vanto non un insulto. Ogni tua mossa è sempre sembrata fatta apposta per farti cacciare a calci in culo e farci perdere Roma... bene... è arrivato il momento che invece di lodarti il popolo 5 stelle ti dica che hai rotto er cazzo». «Applica le regole del Movimento. Ascolta Beppe e i nostri parlamentari - si legge in un passaggio del commento - smetti de fa la bambina deficiente con manie de protagonismo e deliri de onnipotenza e comportati da 5 Stelle perché ti abbiamo votato pensando che lo fossi altrimenti chi te se cagava. Datte na calmata e non rompere i coglioni altrimenti t'appendemo pe le orecchie ai fili dei panni sul balcone fino a che non rinsavisci perché non abbiamo nessuna intenzione di perdere un sogno, anni di lotta, sudore e sangue pe na testa de cazzo». Non è la prima volta che Annalisa Taverna attacca la Raggi. La sorella della senatrice M5S già a settembre aveva affidato a Facebook uno sfogo contro le scelte della sindaca grillina.
La lite tra Virginia Raggi e Paola Taverna. Cominciano i retroscena sui guai interni nel M5S e nella lotta con il Raggio Magico. Guerre intestine e città da amministrare, scrive Next Quotidiano venerdì 02 settembre 2016. Com’era normale che fosse, i giornali di oggi sono pieni dei racconti dei contrasti scoppiati nel MoVimento 5 Stelle dopo la vicenda di Raineri e Minenna. In particolare è Il Messaggero, in un articolo a firma di Simone Canettieri, a raccontare di un litigio tra Paola Taverna e Virginia Ragg: L’unico big che l’avvocato pentastellata incontra è la senatrice Paola Taverna, poco prima di pranzo. Il faccia a faccia, per chi conosce la Taverna e la sua proverbiale schiettezza, non è difficile da immaginare. In Comune si racconta di urla. «Ti stai facendo il vuoto intorno, Virginia. Stai danneggiando Roma e soprattutto il M5S. Ho parlato anche con Beppe. Queste sono due perdite gigantesche». La risposta della sindaca suona così, piatta e abbastanza impostata come ormai vuole apparire la grillina. «Rispetto la trasparenza e soprattutto le nomine dei miei collaboratori le faccio io. Altrimenti mi dimetto». Ecco, questo è un concetto che la Raggi farà trapelare anche durante la riunione di maggioranza allargata ad assessori e presidenti dei municipi.
E non è l’unico retroscena che tiene banco. C’è da registrare, sempre sul Messaggero, la resistibile ascesa delle chat grilline: Arrivano fulmini nelle chat e silenzi pesanti – l’unico che lo romperà sarà Luigi Di Maio in tarda serata per una dichiarazione non proprio dirompente – e i grillini romani attaccano: «Dopo due mesi Virginia è già come Pizzarotti a Parma». Oppure: «Se continua così le togliamo il simbolo». Intanto la pagina Facebook della Raggi, quella del post quasi all’alba, inizia a essere riempita dalle critiche dei militanti per la prima volta. Per chi bazzica da un po’ le maestose aule del Campidoglio sembra che il tempo si sia fermato: ancora un bunker, ancora un primo cittadino in trincea contro il proprio partito, ancora un teatrino della politica con il retroscena che supera ancora una volta la scena.
Raggi, si apre il caso Taverna. Un giallo le sue parole sulla sindaca. Secondo «l’Unità» la senatrice del Movimento 5 Stelle avrebbe detto ad alcuni leghisti al Senato: «Virginia? Prima cade e meglio è». Lei smentisce: tutto falso, querelo, scrive Alessandro Trocino il 23 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera". «La Raggi? Prima cade e meglio è». La frase, pesante come una pietra tombale, sarebbe stata pronunciata da Paola Taverna. Secondo l’Unità, la senatrice del Movimento 5 Stelle l’avrebbe detta durante un colloquio alla buvette di Palazzo Madama, che viene descritto come scherzoso e animato, con alcuni senatori leghisti, tra i quali il capogruppo Gian Marco Centinaio. La smentita della Taverna è furente. La senatrice non fa comunicati pubblici, ma alza il telefono e fa diverse chiamate. Minaccia: «Querelo tutti, non vi azzardate a scrivere questa cosa, che è falsa». Chiama anche Centinaio, chiedendogli se è lui la fonte e invitandolo a smentire. Il capogruppo, che nega di essere l’autore della soffiata, non rilascia nessuna dichiarazione ufficiale, né di smentita né di conferma. Ma tra i leghisti presenti in buvette arriva una conferma delle parole, pur mitigate dal tono «scherzoso», da battuta. Centinaio avrebbe provocato la senatrice su parentopoli: «Mi sembra che teniate famiglia pure voi». Risposta della Taverna: «Lascia fare. E poi tanto, Virginia prima cade e meglio è». Controreplica del leghista, allettato dalla battuta: «Perché dici questo?». E lei: «Vedrai che casini verranno fuori». La Taverna è nel mini direttorio che dovrebbe aiutare (e controllare) il sindaco Raggi. Organismo che ha già fatto parlare di sé, per non poche liti e divergenze di opinioni, che hanno riguardato innanzitutto Roberta Lombardi. Ma i dissapori, a cominciare dalla nomina poi revocata a capo di gabinetto di Daniele Frongia, avrebbero coinvolto anche la Taverna. Decisamente poco in sintonia con il neosindaco su diverse scelte. Che la Taverna, ruspante e schietta, sia soggetta a qualche uscita fuori dalle righe è noto. Prima delle elezioni disse a Radio Cusano: «A Roma potrebbe essere in corso un complotto per far vincere il Movimento e farci fare brutta figura». Alla stessa radio, lei reduce da un cammino neocatecumenale decennale, disse che «l’azione rivoluzionaria di Gesù Cristo è vicina alla nostra». Durante un comizio sbottò: «A Silvio je sputo in testa». A Tor Sapienza, respinta dai residenti che dicevano di non volere politici, rispose candidamente: «Ma io non sono un esponente politico». Poetessa, invece, lo è di sicuro. Tra i suoi versi più celebri, ci sono questi, dedicati ai politici: «Le bucie c’hanno le gambe corte / se dice a Roma e forse nell’Italia intera / la verità è qui dietro le porte / le uniche per voi aperte… quelle della patria galera».
DI FROSINONE…Delitto Alatri, testimone: "Sul corpo di Emanuele agonizzante gettati 200 euro". Le banconote prima sventolate e poi lanciate sul giovane dopo il pestaggio che gli è costata la vita. E' uno degli ulteriori dettagli che emergono dall'inchiesta sul massacro avvenuto la notte tra il 25 e il 26 marzo scorsi davanti a un locale, scrive Clemente Pistilli il 28 aprile 2017 su "La Repubblica". Quando Emanuele era già a terra, agonizzante, non c’è stata solo una ragazza che ha sputato sul suo corpo. Un’altra ha compiuto infatti sul ventenne un ulteriore oltraggio, prendendo quattro banconote da 50 euro, sventolandole e poi buttandole sopra allo studente immerso in un lago di sangue. L’ennesimo e terribile particolare sulla folle notte tra il 25 e il 26 marzo scorso, quando Emanuele Morganti venne massacrato in piazza Regina Margherita, ad Alatri, senza che sia ancora stato individuato un chiaro movente e senza neppure che vi siano ancora certezze sugli assassini, è emerso da una recente testimonianza raccolta dagli inquirenti della Procura di Frosinone. Il procuratore capo Giuseppe De Falco e i pm Vittorio Misiti e Adolfo Coletta, da oltre un mese, stanno indagando senza sosta per far luce sul massacro di Alatri. Dopo aver saputo da un testimone che la sorella di uno degli arrestati, Michel Fortuna, di Frosinone, ha sputato sul corpo di Emanuele al termine del pestaggio, ora gli inquirenti hanno raccolto un’altra testimonianza, quella di una persona presente sulla piazza che ha riferito di quei 200 euro gettati sullo studente dalla fidanzata di un altro arrestato, Paolo Palmisani, di Alatri. Un gesto che in Procura stanno cercando di interpretare, ritenendo che potrebbe essere stato un messaggio per dimostrare ai presenti chi comandava la “piazza” e quanto valeva la vita di chi osava ribellarsi, ma che potrebbe anche essere un’indicazione su una discussione nata tra gli aggressori e il gruppo della vittima per un piccolo debito. Domande a cui gli inquirenti, per dare piena risposta, stanno cercando appunto di scoprire il movente di tanta ferocia. Emanuele Morganti, dopo un banale litigio nel circolo “Mirò” di Alatri, venne allontanato dal locale dai buttafuori, portato nella piazza e lì aggredito dal branco. A infierire su di lui, in base alle indagini sinora svolte, sarebbero stati soprattutto i fratellastri Mario Castagnacci e Paolo Palmisani, di Alatri, subito arrestati a Roma. A loro si sarebbe poi unito il terzo arrestato, Michel Fortuna. E alla rissa avrebbero partecipato anche gli altri indagati a piede libero, Franco Castagnacci, padre di Mario e Paolo, e i quattro buttafuori, Michael Ciotoli, Damiano Bruni, Manuel Capoccetta e Pietri Xhemal. Il ventenne sarebbe quindi riuscito a sottrarsi agli aggressori, ma in un secondo momento, mentre tornava indietro per cercare la fidanzata, sarebbe stato nuovamente aggredito e ucciso. Tanta violenza senza un vero motivo non convince gli inquirenti. E tanto lo sputo quanto il denaro gettato sul corpo del ventenne potrebbero chiarire il quadro, essendo emersi tra l’altro precedenti contrasti, ancora da decifrare bene, tra gli amici di Emanuele e il gruppo dei Castagnacci. Ma da chiarire per gli inquirenti c’è anche l’aspetto principale delle indagini, ovvero chi e con cosa esattamente abbia sferrato il colpo risultato fatale al ventenne. Non a caso proseguono così senza sosta gli interrogatori, che hanno visto negli ultimi giorni messi sotto torchio anche i buttafuori, e ulteriori indizi sono attesi dagli accertamenti medico-legali e da quelli sul cellulare di Mario Castagnacci, scavando tra contrasti di paese e problemi legati allo spaccio di droga. Nulla viene ignorato. Gli investigatori stanno facendo analizzare anche un tondino in ferro trovato nei pressi del luogo del delitto da un inviato di “Chi l’ha visto?”. Il 1 maggio intanto Emanuele verrà ricordato con una cerimonia presso il cimitero di Frosinone, dove riposa il ventenne. Ma il clima ad Alatri resta estremamente teso, tanto che pochi giorni fa, quando Franco Castagnacci si è presentato in Comune per sposare una cittadina di nazionalità albanese, a presidiare la zona, per evitare possibili disordini, c’erano i carabinieri.
Omicidio Morganti. Versioni contrastanti dai Buttafuori, scrive il 27/04/2017 Gianluca Trento su "Ciociaria Oggi”. Le indagini per far luce sull'omicidio di Emanuele Morganti vanno avanti spedite. E anche gli interrogatori proseguono senza sosta. Non c'è pausa festiva che tenga per carabinieri e pool investigativo. Numerose le persone ascoltate anche in queste ore, nel tentativo di chiarire diversi punti oscuri del pestaggio mortale. Al centro dell'inchiesta restano sempre il movente, le cause che hanno provocato il decesso e le modalità dell'aggressione. L'attenzione ultimamente si è concentrata sullo staff della sicurezza. Anche attraverso le voci circolate che riferiscono di un pesante coinvolgimento di uno di loro. Tanto da convocare in caserma testimoni o persone informate sui fatti. I quattro, comunque, continuano a rimarcare la loro estraneità al delitto. Anche se gli indizi a carico di uno sembrano essere piuttosto gravi. Per la procura, infatti, gli atteggiamenti assunti la notte del 24 e 25 marzo sono serviti proprio per coprirsi l'uno con l'altro. Venerdì della scorsa settimana sono stati ascoltati, su loro richiesta, Damiano Bruni e Michael Ciotoli. Il procuratore De Falco e il sostituto Misiti hanno voluto sapere come hanno agito. Ma anche le mosse di Manuel Capoccetta e Pjetri Xhemal. Entrambi, secondo Sharon Iaboni, presidente del circolo Arci, sono coloro che hanno accompagnato fuori dal locale le persone che stavano litigando. Gli altri due, invece, assistiti dagli avvocati Giampiero Vellucci e Riccardo Masecchia, hanno evidenziato nel corso del faccia a faccia con gli inquirenti che, a differenza dei colleghi, non sono mai usciti dal Miro. L'attenzione dei magistrati pertanto si è spostata proprio sull'albanese e sull'altro uomo dello staff. Ieri, quindi, negli uffici all'ottavo piano del palazzo di Giustizia è stato sentito Capoccetta. Due ore di domande incalzanti sono servite al procuratore per ricostruire alcune fasi salienti della serata. Il ventottenne di Ceccano, in un confronto piuttosto duro, si è difeso affermando che la sua funzione è stata soltanto quella di accompagnare le persone fuori dal locale. Facendo notare che trenta secondi dopo è rientrato per mettere al sicuro l'incasso della serata. Ha sottolineato pure che quella sera, nel corso del primo interrogatorio, non aveva nessun segno sulle mani. Un modo come un altro per dimostrare la sua innocenza. Aggiungendo poi che la perquisizione effettuata dai carabinieri nell'abitazione dove vive ha dato esito negativo. Ma la sua deposizione, come quella delle altre persone accusate di omicidio, presenta parecchie discrasie. Chi indaga non crede minimamente alla versione dei fatti fornita da tutti coloro che tentano di sviare le indagini, minimizzando le proprie responsabilità. Risposte importanti arriveranno dal responso della consulenza affidata al dottor Saverio Potenza, dell'Università di Tor Vergata, i cui esiti diranno se l'omicidio è stato provocato proprio da un manganello usato da un buttafuori. In tal caso il fatto di non avere segni di colluttazione per i magistrati sarà irrilevante.
Alatri, accusati di omicidio il padre di Mario e i buttafuori. Il pm: «Non esclusa la vendetta». Finora la procura di Frosinone aveva contestato loro soltanto la rissa. Rischia il trasferimento il giudice che ha scarcerato Castagnacci jr. Ma il presidente dell’Anm: «Gli altri tre lo hanno scagionato, impossibile qualunque provvedimento», scrive Lavinia Di Gianvito il 5 aprile 2017 su "Il Corriere della Sera”. Non solo i due fratellastri Mario Castagnacci e Paolo Palmisani, in carcere dal 27 marzo. Secondo alcune indiscrezioni la procura di Frosinone, diretta da Giuseppe De Falco, avrebbe esteso l’accusa di omicidio volontario ad altri sei indagati. Sarebbero Michel Fortuna, 24 anni, di Frosinone, e i cinque a cui finora era stata contestata solo la rissa: Franco Castagnacci, padre di Mario, e i quattro buttafuori del Mirò davanti a cui l’operaio 20enne è stato ucciso (Manuel Capoccetta, Michael Ciotoli, Damiano Bruno e l’albanese Xhemal Pjetri). Si allarga così il numero dei picchiatori ritenuti responsabili dell’assassinio: una conferma che il ragazzo è rimasto vittima del branco. E in merito al motivo che avrebbe scatenato la rissa, De Falco ha precisato: «Stiamo valutando varie ipotesi così come le ragioni dell'accanimento sul giovane. La vendetta è tra le ipotesi sulle quali stiamo lavorando». Sarà inoltre compiuto al più presto un accertamento tecnico sull'automobile - una Skoda di colore blu - sulla quale avrebbe sbattuto la testa Emanuele Morganti cadendo dopo il colpo ricevuto al culmine del pestaggio mortale. I legali degli otto indagati per il delitto hanno ricevuto un avviso di accertamento tecnico per rilevare tracce biologiche sul veicolo, in modo tale da poter nominare i periti di parte. L'urto violento della testa del ragazzo sulla carrozzeria della macchina parcheggiata sarebbe stata una causa importante della morte. Rischia intanto il trasferimento il giudice che ha disposto la scarcerazione di Mario Castagnacci. Il comitato di presidenza del Consiglio superiore della magistratura ha autorizzato l’apertura di una pratica in prima commissione, accogliendo la richiesta del laico di Forza Italia Pierantonio Zanettin. Il cuoco 27enne infatti era stato arrestato giovedì 23 aprile, con tre amici, dopo che i carabinieri avevano trovato alcune dosi di droga in un appartamento al Pigneto. La mattina dopo, al termine della direttissima, il giudice l’aveva scarcerato. Poche ore dopo, nella notte tra venerdì 24 e sabato 25, Castagnacci - secondo l’accusa - aveva ucciso Emanuele. Ma il presidente dell’Anm, Eugenio Albamonte, intervistato da Giovanni Floris a Dimartedì, ha spiegato che in udienza i tre amici hanno scagionato il presunto assassino: «Hanno detto: ‘La droga è nostra, noi abitiamo in questa casa, era appena venuto a trovarci, non c’entra niente”. Quindi - ha spiegato il pm - a fronte di una relazione di questo tipo e senza nessuna prova, il giudice non avrebbe potuto prendere nessun provvedimento».
Omicidio Alatri, l'autopsia su Emanuele: sfigurato da decine di colpi. I risultati dell'esame sul corpo del 20enne pestato a morte. "Ucciso con un oggetto". Domani gli interrogatori dei fratellastri fermati. Castagnacci scarcerato, il caso finisce al Csm. Orlando: valuto se inviare gli ispettori, scrive il 31 marzo 2017 "Quotidiano.net". Decine di colpi, sferrati con tanta violenza da sfigurargli il volto. Uno in particolare, inferto alla testa, è stato fatale per Emanuele Morganti, il 20enne morto dopo un brutale pestaggio fuori da una discoteca di Alatri. Lo rivela l'autopsia condotta sul corpo della vittima, eseguita dall'Istituto di medicina legale della Sapienza di Roma. L'esame parla di percosse talmente forti da provocare ferite ed ecchimosi soprattutto al cranio. E' qui che sarebbe arrivato il colpo mortale, assestato con un oggetto. Emanuele ha anche numerose lesioni alle braccia e alle gambe, segno probabile di una colluttazione. "Il caso è molto grave", ha commentato il medico legale. Si attendono ancora i risultati dell'esame tossicologico ma adesso che l'autopsia è stata effettuata, il corpo può tornare alla famiglia. I funerali potrebbero svolgersi già sabato. E si terranno domani mattina a Regina Coeli gli interrogatori di garanzia di Mario Castagnacci e Paolo Palmisani, i fratellastri di Alatri fermati per l'omicidio di Morganti. Il gip Anna Maria Gavoni dovrà decidere sulla convalida dei fermi e sulle ordinanze di custodia cautelare. Gli atti saranno poi trasmessi alla magistratura di Frosinone, competente a procedere nell'inchiesta che vede indagate altre 5 persone. Castagnacci, si è appreso ieri, era stato rilasciato dal carcere il giorno stesso del massacro. Era stato arrestato perché trovato con maxi dosi di droga. E proprio quest'ultima circostanza finisce al vaglio del Consiglio Superiore della Magistratura. Il consigliere del Csm Pierantonio Zanettin ha chiesto l'apertura di una pratica sul giudice del tribunale di Roma che ha disposto la scarcerazione. L'obiettivo è valutare se sussistano i presupposti per un trasferimento d'ufficio per incompatibilità. "La vicenda processuale - scrive Zanettin - merita un approfondimento da parte del Consiglio Superiore della Magistratura" per "verificare la correttezza dell'iter". Anche il ministro della Giustizia Andrea Orlando vuole vederci chiaro. "Ho predisposto accertamenti per valutare se ci siano gli estremi per l'invio degli ispettori", ha detto a 'Piazza pulita' su La7. Paolo Palmisani e Mario Castagnacci dopo aver selvaggiamente picchiato Emanuele si sarebbero diretti in un locale di Frosinone, situato lungo la Statale Monti Lepini e qui, come raccontano alcuni testimoni sentiti dagli investigatori, si sarebbero vantati di aver pestato "uno che ci aveva risposto". "Mio figlio alle medie era stato più volte oggetto di atti di bullismo da parte di Paolo Palmisani – racconta una donna –. Lo stesso Paolo è stato sospeso più volte, da adolescente era già spietato e sadico". "Mi hanno accerchiato e mi hanno gettato la telecamera a terra", ha raccontato la giornalista di Tagadà (La7) Irene Buscemi, che ha subito un’aggressione ad Alatri. "È scoppiata una rissa furibonda tra gli amici e i parenti di Emanuele: una parte voleva convincere gli altri a partecipare a una spedizione punitiva nei confronti di albanesi". Quando ha cercato di documentare quanto accadeva, la giornalista è stata aggredita, come ha riferito lei stessa in studio a Tagadà. "Per molte ore sono rimasta senza telecamera".
Omicidio Morganti. Il Racconto Di Gianmarco Ceccani: «Mi Sarei Fatto Uccidere Per Salvare Emanuele». L'amico D’infanzia Della Vittima: «Correvano Tutti Dietro A Lui: Ho Provato A Raggiungerlo, Mi Hanno Fermato», scrive Nicoletta Fini il 29/03/2017 su "Ciociaria Oggi”. «Mi sarei fatto ammazzare per lui. Emanuele cerebralmente è morto quella notte. Correva tra le macchine, fuggiva da tutte quelle persone che lo rincorrevano. Correvano tutti dietro a lui. Ho provato a raggiungerlo, a farmi spazio, ma mi hanno fermato. Quando sono riuscito ad arrivare da lui, ho visto che stava per ingoiare la lingua, ho provato a tirargliela fuori. Loro continuavano a colpirlo. E poi si sono concentrati su di me». Lacrime, una dietro l'altra, da quegli occhi verdi. Voce rotta dal pianto, da un dolore troppo grande e da un rimorso che non riesce a dargli pace. Avrebbe voluto salvare il suo amico, avrebbe voluto fermare quelle bestie che si sono scagliate contro quello che per lui era un fratello. Ma è stato fermato. Gianmarco Ceccani non riesce a darsi una ragione. Proprio lui che, invece, è stato l'unico a cercare di fermare quella inaudita ferocia, si sente in colpa. Lui che contro tutti si sarebbe fatto uccidere per salvare il suo migliore amico. Non è stato semplice provare a farci raccontare quello che è accaduto quella notte. Non voleva parlare, perché lui non si sente un eroe, anzi. Non si capacita per il fatto di non essere riuscito a fermare il branco. «Menavano tutti, lo hanno preso a calci come fosse un cane». Tutti contro Emanuele. Una scena che Gianmarco non dimenticherà mai. Sulla sua bacheca Facebook l'altra notte, ha postato una frase, poche parole, ma che racchiudono tutto il suo dolore. «Non riesco a darmi una ragione. Non può essere vero. È inaccettabile tanta infamia, sto soffrendo troppo, ho il cuore a pezzi. Perché deve essere così crudele la vita». Poi anche una foto con Emanuele, scattata nel bar di famiglia. «Siamo cresciuti insieme». Per Gianmarco, più grande di un anno, Emanuele era più che un amico. «Era come un fratello per me. A me non piaceva la caccia, ma lui veniva a buttarmi l'acqua sul viso per svegliarmi e convincermi ad andare con lui. E così, poi, era riuscito a coinvolgermi. Se sentivo colpi di fucile, sapevo già che era lui. Era un amico davvero unico e in gamba. Era molto contento, da poco stava facendo uno stage alla Abb Sace. E gli avevano assicurato che al termine gli avrebbero fatto un contratto. Ieri saremmo dovuti andare a fare gli asparagi. Mi aveva detto "fatti trovare pronto lunedì che ti porto in un posto dove ce ne sono tantissimi". Invece adesso non posso più condividere nulla con lui». E qui la voce di Gianmarco si interrompe di nuovo. Scendono lacrime, impossibile fermarle. Commuove anche noi. Troppo forte il suo dolore. Indimenticabili, come un nastro che si riavvolge, le scene davanti ai suoi occhi.
A che ora sei arrivato nel centro di Alatri?
«Poco prima che accadesse tutto. Emanuele mi aveva chiamato per dirmi che mi aspettava al Miro. Avevamo già un appuntamento. Appena arrivato davanti al circolo ho visto che un buttafuori lo stava allontanando ed Emanuele che corre va e tante persone che lo inseguivano. Lui fuggiva, tra una macchina e l'altra. Non sapeva dove andare. E loro continuavano a inseguirlo. A quel punto ho cercato di raggiungerlo, ma mi hanno fermato. E lui continuava a correre. Poi lo hanno picchiato, erano tanti, una quindicina».
Hai riconosciuto le persone che lo hanno pestato?
«No, non sono riuscito a vedere i loro volti, erano tanti, c'era troppa confusione e il mio pensiero era soltanto quello di salvare Emanuele. Ma non ci sono riuscito». Si interrompe di nuovo. Piange.
E poi cosa è successo?
«Poi sono riuscito a raggiungerlo, ma era troppo tardi. Era a terra, stava ingoiando la lingua, ho provato a tirargliela fuori, mentre tutti continuavano a colpire con calci, arrivati anche a me. Poi sono arrivati i carabinieri e mi hanno caricato sulla macchina, come se fossi stato io a colpirlo. Io mi sarei fatto ammazzare per lui! Volevo fermarli tutti, ma non ci sono riuscito. Emanuele è morto cerebralmente venerdì».
Tanti i commenti sulla bacheca di Gianmarco, di quanti lo ringraziano per il suo grande gesto. Il solo, che ha provato a fermare il branco, rischiando lui stesso la vita.
PARLIAMO DELLA LIGURIA.
DI GENOVA… Arrestato il direttore provinciale dell'Agenzia delle Entrate. Era appena uscito dalla Manuelina a Recco. L'operazione è avvenuta ieri sera. Fermato mentre prendeva la tangente, in manette anche altre tre persone, scrivono Giuseppe Filetto e Stefano Origone l'11 aprile 2017 su "La Repubblica". Arrestato il direttore provinciale dell'Agenzia delle Entrate, Walter Pardini. L'inchiesta è coordinata dal procuratore aggiunto Vittorio Ranieri Miniati e dal sostituto procuratore Massimo Terrile. Le indagini sono affidate al Nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza. La contestazione è quella di corruzione. L'arresto è avvenuto in flagranza ieri sera alle 23.30 all'uscita del ristorante Manuelina di Recco, dove Pardini avrebbe appena incassato una tangente da 7500 euro da un avvocato e da due commercialisti. I tre professionisti lavorano per un'azienda campana di vigilanza, la Securpol, che ha aperto un contenzioso con il Fisco e che avrebbe trasferito la sua sede a Genova, appositamente per poter avvicinare Pardini.In manette sono finiti i commercialisti Massimo Alfano e Francesco Canzano, e l'avvocato Luigi Pelella, esponente di Forza Italia, tutti napoletani, mentre un ulteriore 57enne professionista genovese è indagato a piede libero in concorso. Per tutta la mattinata si sarebbero protratte le perquisizioni nel suo ufficio in via Fiume. Secondo gli investigatori non sarebbe stata la prima volta che Pardini intascava soldi. Il direttore si era insediato a Genova ai primi di gennaio del 2016 ed era arrivato da Livorno dove aveva ricoperto lo stesso incarico. Le indagini sono partite dopo il trasferimento della sede della società da Napoli a Genova senza alcun apparente motivo. L'azienda aveva un contenzioso fiscale con le Entrate in Campania e, secondo gli investigatori, il cambio di sede sarebbe legato alle promesse ottenute da Pardini per un suo intervento sulla pratica in cambio di soldi. L'Agenzia delle Entrate con un comunicato è intervenuta in merito all'arresto del direttore Pardini. "La direzione regionale della Liguria dell’Agenzia delle Entrate ringrazia e offre la massima collaborazione all’autorità giudiziaria per far piena luce sulla vicenda che ha portato all’arresto del direttore della Direzione Provinciale di Genova, nell’ambito di un’inchiesta per reato di corruzione. Di conseguenza l’Agenzia ha immediatamente adottato la sospensione cautelare dal servizio in attesa del provvedimento dell’Autorità giudiziaria a seguito del quale verranno assunte tutte le misure disciplinari, contrattuali e risarcitorie per tutelare l’istituzione e la dignità dei propri dipendenti che operano onestamente e scrupolosamente. L’Agenzia delle Entrate condanna con risolutezza i comportamenti disonesti, dinanzi al quale adotta con fermezza e celerità sanzioni disciplinari espulsive, e da anni orienta i propri sistemi di controllo interno nell’individuazione e prevenzione di ogni possibile abuso con particolare riferimento ai potenziali comportamenti fraudolenti". Sono choccati e amareggiati i 400 impiegati dell'Agenzia delle Entrate di Genova. I dipendenti sono tenuti al silenzio sulla vicenda, ma qualcosa dalle loro bocche esce, considerazioni generali e raccontano il loro stato d'animo. In tutti c'è grande tristezza. "Quasi ci vergogniamo, perché le battute su di noi ci sono sempre state, però mai era accaduto un fatto tanto grave come l'arresto di un direttore. Noi crediamo che servano leggi più dure contro la corruzione, altrimenti questo sistema non finirà mai". Pardini, lavorava a Genova da solo un anno. Un toscano di Livorno che faceva la spola fra la sua casa a Lucca e l'ufficio di via Fiume, e di cui tutti parlano bene: "Una persona deliziosa e non sto scherzando", dice una impiegata. "Non avremmo mai immaginato un fatto tanto grave - aggiunge un altro dipendente - il direttore sembrava il ritratto del rigore e dell'onestà". Mentre i dipendenti lasciano il palazzo per la pausa pranzo escono anche i finanzieri che hanno perquisito gli uffici di Pardini: con loro portano documenti e il pc del direttore.
In 2 mila alla contromanifestazione, un ferito lieve. Ultradestra a Genova, tensione in piazza: spranghe e molotov sequestrate, scrive Fabio Canessa sabato 11 febbraio 2017 su "Primo Canale”. Un intero quartiere blindato, centinaia di uomini delle forze dell'ordine, piccoli scontri subito sedati e un ferito lieve. E tanti genovesi in strada, almeno 2 mila, per dire no al convegno che le ultradestre europee hanno voluto organizzare a Genova. Un intero quartiere blindato, centinaia di uomini delle forze dell'ordine, piccoli scontri subito sedati e un ferito lieve. E tanti genovesi in strada, almeno 2 mila, per dire no al convegno che le ultradestre europee hanno voluto organizzare a Genova. Un corteo con oltre duemila persone si è mosso da piazza Ragazzi del '99, dove alle 12.30 è iniziato il concentramento, e si è riversato in piazza Sturla. Qui un piccolo gruppo di manifestanti si è scontrato con la polizia, mentre poco distante veniva sequestrato un furgone con spranghe, molotov e altri oggetti atti a offendere. Tensione che poi è calata fino allo scioglimento della manifestazione. Nel frattempo i militanti di estrema destra - un centinaio di persone - si sono incontrati nella sede di Forza Nuova, in via Orlando 2, protetti da imponenti misure di sicurezza. L'allarme era scattato negli scorsi giorni. L'Alliance for peace and freedom, presieduta da Roberto Fiore, leader di Forza Nuova, ha invitato i leader dei maggiori partiti ultranazionalisti europei - Udo Voigt, Yvan Benedetti, Sarmiza Andronic, Nick Griffin - al convegno 'Per l'Europa, per le patrie'. Gli organizzatori hanno tentato in tutti i modi di prenotare la sala di un albergo o di un centro convegni, ma hanno incassato decine di no. Da qui la scelta di riunirsi nella sede genovese di Forza Nuova, un piccolo appartamento nei fondi del palazzo. La risposta antifascista è arrivata con una manifestazione organizzata da Anpi e partecipata da decine di associazioni e forze politiche e sindacali. In rappresentanza delle istituzioni si sono uniti il sindaco Doria e il vicesindaco Bernini con numerosi assessori e presidenti di municipio, alcuni parlamentari liguri tra cui Basso, Pastorino e Quaranta, sigle sindacali (soprattutto Fiom e Cgil) e vari movimenti. Tutti uniti per riaffermare i valori costituzionali e l'antifascismo. Ad accompagnare il corteo sono i canti partigiani e rappresentativi della sinistra (Bella ciao, Fischia il vento). Tanti anche i giovani che spontaneamente si sono uniti. Il presidio si è riunito in piazza Ragazzi del '99, poco sopra la stazione di Sturla. Intorno alle 13.30 si è formato un corteo pacifico che ha percorso via Isonzo e via Sturla per poi raggiungere la piazza. Due cordoni di polizia composti da camionette, cancellate anti sfondamento e decine di agenti hanno protetto l'accesso di via Orlando, uno posizionato a ridosso della strada e un altro a metà di via Caprera. I manifestanti si sono radunati nella parte a levante di piazza Sturla, con l'obiettivo iniziale di mantenere fermo il presidio. Nel frattempo gli agenti della Digos trovano un furgone sospetto: all'interno spranghe, molotov e altri oggetti da guerriglia. Tutto sequestrato: c'è chi non è venuto in pace. Primi momenti di tensione quando un gruppo di manifestanti indipendenti dal corteo lancia bottiglie e fumogeni avanzando di diversi metri e arrivando con la testa del corteo a pochi metri dal cordone di sicurezza. Dopo le 15 da via Sturla giunge un'ambulanza che si fa strada tra la folla. Per farla passare è necessario aprire un varco nella barriera dei mezzi della polizia. Un gruppetto ne approfitta per tentare di sfondare e subito parte una carica di alleggerimento. Qualcuno grida "Basta, basta, pace, pace". Un giovane rimane lievemente ferito da un oggetto volante. Gli agenti restano con gli scudi alzati per qualche minuto, poi arrivano segnali di distensione. È il preludio alla fine della manifestazione: l'Anpi chiama un presidio alla Casa dello studente, ma la maggior parte torna a casa. I militanti di estrema destra hanno raggiunto via Orlando poco dopo le 15.30 scortati dalla polizia, quasi alla chetichella. All'interno Fiore attacca: "Siamo noi le vittime di violenza. A Genova c'è una mentalità mafiosa, peggio di Bagheria". Prima delle 18 il convegno si è concluso senza disordini. La situazione resta monitorata ancora per ore. Poi Sturla e Genova tirano un sospiro di sollievo. Un anno fa, sempre in questa via, si sono sfiorati scontri in occasione dell'inaugurazione della sede di Forza Nuova. Questa volta le contromisure sono state ben più massicce: circa 400 agenti in campo, decine di automezzi, pattuglie della polizia locale e traffico in tilt per ore. E soprattutto, saracinesche serrate nel timore di un altro pomeriggio violento per la città.
"Il G8 di Genova fu una catastrofe": Gabrielli e le responsabilità di quei giorni. "Al posto di De Gennaro mi sarei dimesso". Il capo della Polizia: "Un'infinità di persone subirono violenze che hanno segnato le loro vite. In questi 16 anni non si è riflettuto a sufficienza. E chiedere scusa a posteriori non è bastato", scrive Carlo Bonini il 19 luglio 2017 su "La Repubblica". Si dice che non ci sia ferita, per quanto profonda, che il tempo non aiuti a cicatrizzare. Ma il tempo del G8 di Genova è come fosse rimasto ibernato a quei giorni di luglio di sedici anni fa. Lasciando che la ferita torni a sanguinare ogni volta che la cronaca, con la forza della proprietà transitiva, finisce con il riesumarne la memoria: il caso Cucchi, il caso Aldrovandi, il dibattito che ha accompagnato l'approvazione della legge sulla tortura. La Diaz, Bolzaneto, la morte di Carlo Giuliani sono una scimmia assisa sulla cattiva coscienza del Parlamento, che sui fatti e sulle responsabilità di quei giorni rinunciò a indagare con i poteri della commissione di inchiesta in due successive legislature preferendo pavidamente "attendere" il corso della giustizia penale. Sono un fantasma che non ha mai smesso di abitare il secondo piano della palazzina del Dipartimento della Pubblica sicurezza, gli uffici del capo della Polizia. Dove, in quei giorni di luglio del 2001, era Gianni De Gennaro. E dove è oggi Franco Gabrielli. "La nottata non è mai passata - dice - A Genova morì un ragazzo. Ed era la prima volta dopo gli anni della notte della Repubblica che si tornava ad essere uccisi in piazza. A Genova, un'infinità di persone, incolpevoli, subirono violenze fisiche e psicologiche che hanno segnato le loro vite. E se tutto questo, ancora oggi, è motivo di dolore, rancore, diffidenza, beh, allora vuol dire che, in questi sedici anni, la riflessione non è stata sufficiente. Né è stato sufficiente chiedere scusa a posteriori. Dopo dieci anni e dopo le sentenze di condanna definitive per la Diaz e Bolzaneto. Se infatti ciclicamente e invariabilmente si viene risucchiati a quei giorni, se il G8 di Genova è diventato un benchmark cui si è condannati a restare crocefissi, questo vuol dire non solo che non è stato messo un punto. Ma, soprattutto, che il momento di mettere questo punto è arrivato. Per non continuare a dover camminare in avanti con lo sguardo rivolto all'indietro".
Vuole metterlo lei "il punto"?
"Diciamo che vorrei provare a dare un contributo. Che, quantomeno, aiuti a creare le migliori condizioni perché questo diventi finalmente possibile".
Magari non è mai stato messo un punto, perché la storia, per diventare tale ed essere consegnata al passato, richiede una memoria condivisa e uno sguardo obiettivo. E il racconto del G8 di Genova non ha né l'una, né l'altro. Non trova?
"Spero non suoni ruffiano, ma il fondatore di Repubblica, Eugenio Scalfari, ebbe a scrivere un qualche tempo fa che l'obiettività, in quanto tale, non esiste. Perché neanche una fotografia riesce ad essere testimone imparziale di un evento".
Dunque?
"Dunque, da capo della Polizia, la sola strada che posso percorrere, la sola obiettività che posso riconoscermi, è dichiarare senza ipocrisie cosa penso di ciò che è accaduto nel luglio del 2001 a Genova e di cosa è accaduto nei sedici anni che sono seguiti. Non fosse altro perché sono nella migliore condizione per farlo".
Perché?
"Perché sono libero".
Libero? Da cosa? Da chi?
"Nella vita non basta essere capaci. Spesso ci vuole fortuna. La mia fortuna di poliziotto è che al G8 di Genova non c'ero. Da dirigente della Digos di Roma, quale ero nel 2001, sarei dovuto essere lì. E dico di più. Sarei molto probabilmente finito nel cortile della scuola Diaz. Ma non andò così. L'Ucigos stabilì che io rimanessi a Roma per lavorare al dispositivo di sicurezza che doveva garantire la visita di Bush subito dopo il G8 di Genova. Questo significa che, oggi, non ho niente o nessuno da difendere. Che ho la stessa libertà, e spero che il paragone non suoni sproporzionato, che avvertii la mattina del 7 aprile 2009 quando da neonominato prefetto dell'Aquila mi trovai a gestire la catastrofe del terremoto. Avevo testa e sguardo limpido. Non avevo un passato che mi zavorrava".
E da uomo libero cosa vede dunque?
"Se dovessi dare un giudizio lapidario, direi che a impedire quella che lei definiva la "costruzione della memoria condivisa" è stata la rappresentazione abnorme e strumentale, spesso speculare e contrapposta, di quanto è accaduto. Le faccio due esempi, tra i molti che potrei fare. È falso - e sottolineo falso - che nell'accertamento della verità giudiziaria sui fatti di Genova abbia influito una magistratura ideologizzata. La Polizia italiana non è stata perseguitata dal procuratore Enrico Zucca per motivi ideologici. Non solo perché non è vero. Ma perché i magistrati che si sono occupati nella fase delle indagini e in quella del giudizio di merito di quanto accaduto in quei giorni sono stati decine. E hanno lavorato con imparzialità. Del resto, cosa avrebbe dovuto pensare un pm che, di fronte ad un verbale firmato da 14 poliziotti, scopriva che ad essere identificabili erano solo in 13? Non poteva che pensare che non avesse di fronte funzionari dello Stato ma una consorteria. Detto questo, è altrettanto falso che Genova fu la prova generale di una nuova gestione politica dell'ordine pubblico, orientata alla nuova Italia del nascente berlusconismo. Ricordo a tutti, infatti, che Genova 2001 fu preceduta, in marzo, dai fatti di Napoli in piazza Plebiscito. Dalle retate negli ospedali alla ricerca dei feriti in piazza. Governava il centro-sinistra. Quindi, il problema, non era politico. Ma di una cultura dell'ordine pubblico che scommetteva sul "pattuglione". Una modalità di polizia transitata dalla stagione del centro-sinistra a quella del centro-destra".
Ma della gestione dell'ordine pubblico a Genova che giudizio dà?
"Fu semplicemente una catastrofe. E per una somma di fattori, se vogliamo dirla tutta. Innanzitutto per la scelta sciagurata da parte del vertice del Dipartimento di pubblica sicurezza di esautorare la struttura locale, la Questura di Genova, dalla gestione dell'ordine pubblico. Quindi, per la scelta infelice della città, che per struttura urbanistica rendeva tutto più complicato. E, da ultimo, perché si scommise sulla capacità dei "Disobbedienti" di Casarini e Agnoletto di poter in qualche modo governare e garantire per l'intera piazza. Capacità che dimostrarono purtroppo di non avere. Insomma, la dico in una battuta. A Genova saltò tutto. E saltò tutto da subito. Fino alla scelta esiziale dell'irruzione nella Diaz".
"La Macelleria messicana".
"Si ritenne, sciaguratamente, con la stessa logica cui prima facevo cenno, quella del "pattuglione", che il contrappeso alla devastazione di quei giorni potesse essere un significativo numero di arresti. Illudendosi, per giunta, che un'irruzione di quel genere, con quelle modalità, avrebbe garantito di acquisire anche "prove" per processare le responsabilità dei disordini di piazza. Peccato che il codice di procedura penale avrebbe reso quell'operazione, ancorché non fosse finita come è finita, carta straccia. Ma, soprattutto, peccato che i processi penali non abbiano potuto scrivere una parola decisiva. Né sulla Diaz, né su quanto accaduto complessivamente in quei giorni".
Perché?
"Perché, per sua natura, viva Dio, il processo penale accerta singoli fatti e gli attribuisce singole responsabilità. Al processo penale sfuggono quelle che a me piace definire responsabilità sistemiche. Con un effetto paradossale. Che i latini definivano "summus ius, summa inuria": "massima giustizia per una massima ingiustizia". Vale a dire, che per il G8 di Genova abbiamo assistito a condanne esemplari per la Diaz e a condanne modeste per Bolzaneto, dove l'assenza di una norma che configurasse il reato di tortura e l'improvviso evaporare della catena di comando e di responsabilità che aveva posto le premesse per cui una caserma del reparto mobile della polizia si trasformasse in un "garage Olimpo" ha fatto sì che oggi si continui a parlare di Diaz e pochi ricordino Bolzaneto. Dove, lo dico chiaro, ci fu tortura. Tortura. Per altro, parlando di Bolzaneto, il destino è curioso. Quella caserma, molti anni fa, fu la mia prima destinazione da poliziotto".
Se capisco bene, lei sostiene che la dinamica processuale ha finito inevitabilmente per trasformare la ricerca delle responsabilità per i fatti di Genova in un'italianissima fiera del "capro espiatorio". Sono volati gli stracci, insomma.
"È così. Ma non lo dico - e lo ripeto a scanso di equivoci - per censurare quelle sentenze o il lavoro della magistratura inquirente che sono arrivati dove potevano arrivare e dove la fisiologia del processo penale gli ha consentito di arrivare. Lo dico perché, a proposito di responsabilità sistemiche, da capo della Polizia, penso sempre che quando in una piazza viene fatto un uso abnorme della forza da parte di un reparto mobile la responsabilità vada cercata non soltanto e non tanto a partire dal singolo poliziotto che ha abusato del suo manganello ma, al contrario, dal funzionario o dal dirigente che ha ordinato una carica che non andava ordinata. Ecco, se parliamo di responsabilità sistemiche e dunque vogliamo storicizzare finalmente il G8 di Genova, io non penso che il singolo agente o funzionario possano funzionare da fusibile del sistema. E che, dunque, in caso di corto circuito, si possa semplicemente sostituire quei fusibili che si sono bruciati e poi serenamente dire "andiamo avanti". Lo ripeto. Se vogliamo costruire una memoria condivisa su Genova, se vogliamo mettere un punto, va colmato lo spread fra responsabilità sistemica e responsabilità penale. Quello che ha fatto sì che alcuni abbiano pagato e altri no".
Magari facendo il nome del convitato di pietra di questa conversazione. Gianni De Gennaro, allora capo della Polizia.
"Non ho nessuna difficoltà a farlo, anche se ci lega un antico rapporto personale. E tuttavia con una premessa, che non è necessariamente una clausola di stile. È sempre complicato e soprattutto rischia di suonare supponente dire quello che qualcun altro avrebbe dovuto fare. Anche perché non sempre si conoscono il contesto e gli equilibri in cui determinate decisioni sono state prese. Detto questo, siccome non ho nessuna intenzione di sottrarmi, perché sono un uomo e un capo della Polizia libero, le dico che se io fossi stato Gianni De Gennaro mi sarei assunto le mie responsabilità senza se e senza ma. Mi sarei dimesso. Per il bene della Polizia. Perché ci sono dei momenti in cui è giusto che il vertice compia un gesto necessario a restituire la necessaria fiducia che un cittadino deve avere nell'istituzione cui è affidato in via esclusiva il monopolio legittimo della forza. E, contemporaneamente, a non far sentire le migliaia di donne e uomini poliziotto dei "fusibili" sacrificabili per la difesa di dinamiche e assetti interni all'apparato".
Quanto hanno contribuito l'arrocco di Gianni De Gennaro e le sue mancate dimissioni a quanto è accaduto negli anni successivi? A quel clima di omertà, di dissimulazione nel percorso di accertamento della verità sul G8, che ha allargato il solco tra la Polizia e una parte significativa dell'opinione pubblica?
"Direi in modo importante. E con effetti di lungo termine. Hanno finito con l'imprigionare il dibattito pubblico in un'irricevibile rappresentazione per cui il Paese sarebbe diviso tra un partito della Polizia e un partito dell'anti- Polizia. Facendo perdere di vista la verità. Che la Polizia italiana è sana. Che lo è oggi come lo era in quel luglio del 2001. E lo posso dire perché io sono cresciuto in questa Polizia. Ne sono figlio. Vede, la maledizione di Genova sta proprio qui. Quel che è accaduto dopo Genova, la mancata risposta alla ricerca delle responsabilità sistemiche ha insieme perpetuato il senso di oltraggio nell'opinione pubblica e alimentato le pulsioni che percorrono ogni apparato di Polizia, a qualsiasi latitudine. Il riflesso istintivo a rifiutare di farsi processare, a immaginarsi o peggio viversi come un "corpo separato". È un livello di "tossicità" assolutamente governabile, proprio di ogni polizia democratica e che, come ripeto in ogni occasione ai miei poliziotti, va sorvegliato. Continuamente. E che, proprio per questo, ha assoluto bisogno che questo perverso incantesimo durato sedici anni si spezzi. A maggior ragione alla vigilia di mesi in cui una parte di quei poliziotti che hanno scontato le loro condanne, penali o disciplinari, chiederanno di essere reintegrati e si consumerà l'iter del risarcimento dei danni alle vittime delle violenze del G8. A maggior ragione, aggiungo, per come io penso e immagino la Polizia che ho il privilegio di guidare".
Come la immagina?
"Una Polizia che non ha e non deve avere paura degli identificativi nei servizi di ordine pubblico, di una legge, buona o meno che sia, sulla tortura, dello scrutinio legittimo dell'opinione pubblica o di quello della magistratura. Una polizia che non deve vivere la mortificazione o lo stillicidio delle sentenze della Corte europea per i diritti dell'Uomo su quei fatti di sedici anni fa. Perché questa è la Polizia che ho conosciuto e che conosco. Io posso solo dire al Paese e alla mia gente, donne e uomini poliziotto, che del lavoro della Polizia sarò io il primo a rispondere. L'ho fatto in questi anni da direttore dell'Aisi, da prefetto dell'Aquila, da capo della Protezione civile e non vedo una sola ragione per non continuare a farlo. Anche perché non ci sarà una nuova Genova".
È una promessa?
"È un fatto. Perché questi sedici anni non sono passati inutilmente. Prima dicevo che la polizia del 2001 era una polizia democratica esattamente come lo è quella di oggi. Ma sono cambiate molte cose nelle nostre routine, nella formazione delle nostre donne e dei nostri uomini, nella gestione dell'ordine pubblico. Guardiamo cosa è accaduto ad Amburgo. E guardiamo cosa invece è accaduto a Roma, in occasione dei 60 anni della firma dei trattati di Roma, e a Taormina con il G7. Il nostro sistema di prevenzione e sicurezza è oggi quello che conosciamo anche perché c'è stata Genova. E da lì è cominciata la nostra traversata nel deserto. Oggi, il nostro baricentro è spostato sulla prevenzione prima che sulla repressione. Sul prima, piuttosto che sul poi. Lavoriamo perché le cose non accadano. O quantomeno per ridurre la possibilità che accadano. Non per mettere una toppa quando il danno è fatto. Ecco perché dico che dobbiamo liberarci dalla maledizione di camminare in avanti con lo sguardo rivolto all'indietro. Consegniamo quel G8 di Genova alla Storia. Perché questo ci renderà tutti più liberi. E quando dico tutti, penso al Paese e alla Polizia che di questo Paese è figlia".
Giuliano Giuliani: «Hanno ucciso mio figlio Carlo e sono impuniti, perché i carabinieri la fanno sempre franca?». Intervista di Giulia Merlo del 22 luglio 2017 su "Il Dubbio" al padre di Carlo Giuliani, il ragazzo ucciso sedici anni fa durante il G8 di Genova. Sedici anni dopo, a piazza Alimonda, si sono date appuntamento centinaia di persone. Il 20 luglio 2001, in quella stessa piazza rettangolare tagliata da due lingue di strada, moriva Carlo Giuliani, ventitrè anni, durante i giorni di guerriglia urbana in cui si trasformò il G8 di Genova. A ucciderlo, un colpo di pistola sparato con l’arma di ordinanza dal carabiniere Mario Placanica, poi la camionetta dei carabinieri passò due volte sopra il corpo prima di allontanarsi. I giudici stabilirono che Placanica aveva sparato per legittima difesa e il procedimento aperto nei suoi confronti fu archiviato nel 2003: il Gip rilevò «la presenza di cause di giustificazione che escludono la punibilità del fatto» e lo prosciolse per uso legittimo delle armi, oltre che per legittima difesa. La perizia realizzata durante l’istruttoria stabilì che il colpo che ha ucciso Carlo Giuliani fosse stato sparato verso l’alto e fosse rimbalzato su un sasso scagliato da un altro manifestante. L’investimento con il mezzo di servizio, invece, venne spiegato come un tentativo di fuga e i militari testimoniarono di non essersi accorti della presenza del corpo a terra. Quest’anno, in concomitanza con la manifestazione di piazza Alimonda che ricorda i fatti di Genova, le parole del capo della polizia Franco Gabrielli hanno riaperto il dibattito su una morte mai spiegata: «A Genova morì un ragazzo. Ed era la prima volta dopo gli anni della notte della Repubblica che si tornava ad essere uccisi in piazza. A Genova, un’infinità di persone, incolpevoli, subirono violenze fisiche e psicologiche che hanno segnato le loro vite. E se tutto questo, ancora oggi, è motivo di dolore, allora vuol dire che, in questi sedici anni, la riflessione non è stata sufficiente». Proprio queste parole sono state ricordate, in piazza, dal padre di Carlo, Giuliano. Che ancora non si è rassegnato al velo di silenzio calato sulla morte del figlio.
A sedici anni da quel proiettile sparato in piazza Alimonda, che cosa resta?
«Resta la voglia di verità, che non diminuisce e non demorde. Lo ripeto sempre: io più che giustizia voglio verità. La cosa più scandalosa e dolorosa di questi sedici anni è stata di vederla ostinatamente negata».
Una verità negata dal processo?
«A negarla hanno collaborato magistrati incompetenti e inadeguati, periti che erano autentici…(cancelliamo la parola, ndr), ufficiali dei carabinieri che dovrebbero fare ben altro, ma anche la stampa e l’informazione tutta, che si sono messi al servizio spregiudicato del potere. Noi, però, non smetteremo di chiedere la verità per la morte di Carlo: questo vuole, anzi pretende, tutta la la gente sana che viene ogni anno in piazza Alimonda. Il 20 luglio, in quella piazza vicino al cippo di Carlo, c’erano ottocento persone, e non è una cosa facile di questi tempi: una manifestazione assolutamente pacifica, bella e piena di voglia di verità».
Lei dal palco della commemorazione ha commentato positivamente le parole del capo della Polizia Gabrielli.
«Ma certo, come si fa a non apprezzare le parole di un capo della Polizia che finalmente dice che ciò che è successo al G8 di Genova è stato una vergogna? Io però insisto su un punto: apprezzo queste parole, ma vorrei apprezzare anche la loro attuazione pratica in tante situazioni».
Gabrielli ha anche detto che, se fosse stato al posto del suo predecessore Gianni De Gennaro, si sarebbe dimesso.
«Guardi, in questi anni De Gennaro ha scalato tutte le gerarchie, con incarichi uno dopo l’altro. Ecco, io considero le continue promozioni di De Gennaro persino ridicole per un Paese che vuole considerarsi normale. Come si fa a dire che De Gennaro non fosse responsabile per i fatti del 2001 a Genova? Era il capo della Polizia e, anche se era a Roma, comandava tutto per telefono. Io credo che far passare il responsabile di quel G8 da una poltrona all’altra abbia dell’incredibile. De Gennaro è stato il capo del dell’Interno con Amato, il sobrio Monti lo ha nominato sottosegretario alla Presidenza del consiglio e Letta lo nominò presidente di Finmeccanica, la più grande industria pubblica del Paese, non so bene con quali titoli. Ho chiesto spiegazioni a tanti, ma nessuno mi ha saputo dire perchè».
Secondo lei, le parole di Gabrielli ci avvicinano a quella verità di cui parlava prima?
«Me lo auguro, certo. Perchè il fatto più grave accaduto a Genova, cioè l’uccisione di un ragazzo, non è stato ritenuto degno nemmeno di un processo».
Al contrario di quanto avvenuto con le inchieste sulla Diaz e Bolzaneto?
«Lo ripeto costantemente: su alcuni fatti gravissimi di Genova verità si è fatta, grazie al valore dei magistrati che se ne sono occupati. Non ignoro che Enrico Zucca, Cardona Albini e Petruzzella si sono occupati delle inchieste sulla scuola Diaz e su Bolzaneto, anche a rischio della propria esistenza. Questi magistrati hanno sconfitto il primo giudizio emesso nel 2008, che definiva quelle alla Diaz “perquisizioni legittime” e Bolzaneto “distribuzione di caramelle e cioccolatini”. Sono ricorsi in appello e poi in Cassazione, fino ad arrivare a dire che alla Diaz si è commessa una delle più grandi porcherie di questo Paese, una vera “macelleria messicana”, espressione adoperata non da un pericoloso anarco-insurrezionalista ma dal vicequestore Michelangelo Fournier, che pure faceva parte nel gruppo della Mobile della Polizia, diretto da Vincenzo Canterini. A Bolzaneto altro che cioccolatini e caramelle: vennero perpetrate autentiche torture, tra le più schifose che si possano immaginare».
Sulla morte di suo figlio Carlo, invece, come mai non si è giunti a nulla?
«E’ stato archiviato tutto, sulla base di uno schifoso… (anche qui cancelliamo la parola pronunciata da Giuliani, ndr) elaborato da quattro autentici (altra parola cancellata da noi, ndr). Faccio i nomi: i periti Carlo Torre, Paolo Romanini, Pietro Benedetti e l’esperto di fotografia Nello Balossino. Immagini un po’, un esperto di fotografia che accetta l’invenzione che il carabiniere abbia sparato per aria, quando un filmato mostra chiaramente che, quando spara, la pistola è assolutamente orizzontale e parallela al suolo e quindi il colpo è diretto».
Come è stato possibile?
«Con l’ausilio di foto che potrei definire fuorvianti. Quella più diffusa, anche sulla stampa, è quella scattata da Dylan Martinez e mostra Carlo vicinissimo alla jeep dei carabinieri. Peccato che i filmati mostrino che Carlo era distante quattro metri dalla camionetta quando ha sollevato l’estintore per cercare di difendere gli altri e anche se stesso da una pistola puntata, accompagnata dalle grida «sporchi comunisti vi ammazzo tutti». Ancora, mi chiedo come si possa considerare quello subito dai carabinieri un “attacco terribile dei manifestanti”, quando un filmato della Polizia mostra che dal momento della fuga dei carabinieri allo sparo passano esattamente trentacinque secondi. Un attacco terribile, portato avanti da una cinquantina manifestanti, durato non più di trentacinque secondi? Eppure queste sono state le dichiarazioni degli ufficiali dei carabinieri, che considero persone inadeguate a ricoprire quell’importante ruolo che dovrebbero svolgere».
Sempre dal palco del 20 luglio, lei ha detto che, quando a commettere abusi o addirittura uccisioni sono i carabinieri, «in questo Paese non succede nulla. Non c’è la possibilità di aprire processi nei confronti degli appartenenti all’Arma e questo è un problema che intacca la democrazia». Che cosa intende?
«Innanzitutto specifico, io mi sono riferito ad alcuni reparti dei carabinieri, perchè non generalizzo mai in queste affermazioni. Per spiegarmi le riporto un fatto: la sera di quel 20 luglio, il “Tuscania”, che è uno dei raggruppamenti più famosi dei carabinieri, cantava “Faccetta nera”. Si è scandalizzato qualcuno di questo fatto indegno, che mortifica l’arma alla quale appartengono ed è una sfida alla Costituzione? Secondo fatto: non c’è una vittima che sia stata colpita dai carabinieri che abbia avuto giustizia. Non solo Carlo, il caso più clamoroso degli ultimi anni è quello di Stefano Cucchi. Un ragazzo ammazzato da quattro carabinieri nella caserma è stato giudicato morto per mal nutrizione. Ma si può dire che sia morto per malnutrizione un ragazzo coperto di lividi dalla testa ai piedi? In Italia accade».
Per la Polizia, invece, questa impunità non vale?
«Nei confronti della Polizia i processi ci sono stati: alla Diaz sono cadute delle teste, anche se adesso gliele hanno rimesse sul collo e, nel frattempo, i responsabili sono stati tutti promossi, e mi riferisco non a quelli che hanno picchiato, ma a quelli che hanno elaborato lo schifoso falso di portare delle molotov dentro la scuola per incriminare i manifestanti. I poliziotti della Diaz e di Bolzaneto sono stati condannati, come sono stati condannati gli assassini di Federico Aldrovandi, anche se a pene ridicole di 3 anni e mezzo a testa. Sa, invece, quanti anni hanno preso venticinque manifestanti di Genova, accusati di devastazione e saccheggio? 16 anni, in primo grado. Per fortuna la Cassazione ha ribaltato l’esito del giudizio, assolvendo quindici di quei venticinque, perchè avevano risposto a “cariche violente e ingiustificate dei carabinieri”. Non serve ripeterlo: anche in quel caso nessuna inchiesta contro il comportamento dei carabinieri è stata aperta. Ecco, io questo lo considero un problema per la democrazia».
Gabrielli ha aggiunto che, oggi, un’altra Genova non sarebbe possibile, perchè da quei tragici fatti si sono tratti insegnamenti. Lei ci crede?
«Io voglio crederci, e lo faccio perchè rispetto Gabrielli, non ho di lui alcun giudizio negativo e quindi mi auguro che davvero le sue parole possano essere vere. So per certo che all’interno della Polizia molte cose sono cambiate in questi anni e che è davvero più difficile che un altro G8 accada, ma i rischi ci sono sempre e io mi auguro che le parole trovino assoluta rispondenza nei fatti».
Sono passati sedici anni dalla morte di Carlo. La sua memoria è oggetto di strumentalizzazioni?
«Guardi, al di là di certe sciocchezze che vengono ripetute, la memoria di Carlo rimane. Il giorno dopo l’elezione della giunta di destra, qui a Genova, il sindacato di polizia Coisp ha chiesto di eliminare da Piazza Alimonda il cippo di Carlo. Ecco, il sindaco neoeletto ha risposto nel modo più intelligente possibile, cioè dicendo che non era una priorità della sua giunta. Al netto di queste provocazioni ridicole non mi pare che ci siano strumentalità intorno a questa vicenda».
Cosa resta, oggi, di quel tragico 20 luglio?
«Rimangono tante persone in piazza, senza simboli politici, desiderose di avere un po’ di verità e magari anche un pizzico di giustizia intorno all’uccisione di un ragazzo di ventitrè anni che non meritava di morire così».
Morte Giuliani, consigliere Pd di Ancona: "Sparare e prendere bene la mira". Post su Facebook di Diego Urbisaglia: "Se lì dentro ci fosse mio figlio... Carlo Giuliani non mi mancherai". Deferito alla commissione di garanzia del Pd. Guerini: "Ho chiesto sanzioni". I genitori del giovane morto nel 2001: "Si vergogni". Lui alla fine chiede scusa per "i toni" ma ribadisce: "Il concetto resta", scrive Matteo Pucciarelli il 21 luglio 2017 su "La Repubblica". "Se in quella camionetta ci fosse stato mio figlio, gli avrei detto di prendere bene la mira e sparare". Un post shock su Facebook nell'anniversario della morte di Carlo Giuliani, il giovane morto a Genova 16 anni fa durante il G8, firmato da un consigliere comunale Pd ad Ancona torna ad aprire una ferita mai rimarginata. Diego Urbisaglia, 39 anni, consigliere comunale e provinciale, ha affidato i suoi pensieri a un post non pubblico, visibile solo ai suoi contatti. Non per questo meno scandaloso: "Estate 2001. Ho portato le pizze tutta l'estate per aiutare i miei a pagarmi l'università e per una vacanza che avrei fatto a settembre. Guardavo quelle immagini e dentro di me tra Carlo Giuliani con un estintore in mano e un mio coetaneo in servizio di leva parteggiavo per quest'ultimo". Poi continua: "Oggi nel 2017 che sono padre, se ci fosse mio figlio dentro quella campagnola gli griderei di sparare e di prendere bene la mira. Sì, sono cattivo e senza cuore, ma lì c'era in ballo o la vita di uno o la vita dell'altro. Estintore contro pistola. Non mi mancherai Carlo Giuliani". Dopo il putiferio scatenato dalle sue parole, contattato dall'agenzia Dire, Urbisaglia fa marcia indietro: "Ho già chiesto scusa questa mattina, con un post di rettifica, per le parole e i toni usati. Ho solo fotografato il momento perché all'epoca avevo l'età dei due protagonisti e quel fatto mi segnò molto. Ricordo che mi domandavo 'tu che avresti fatto?'". Parole e retromarcia che non sono state apprezzate nel Pd. Tanto che Urbisaglia viene deferito alla commissione di garanzia. E il coordinatore della segreteria dem, Lorenzo Guerini, chiarisce di aver "chiesto alla commissione competente di assumere senza indugi i provvedimenti sanzionatori previsti dal nostro statuto" perché "quanto detto dal consigliere Urbisaglia è inaccettabile e assolutamente ingiustificabile". Secco Giuliano Giuliani, il padre di Carlo: "Ho ben altro a cui pensare. Queste cose sono da ignorare. Certe frasi non meritano risposta. Non commento queste affermazioni". Anche la mamma Heidi non si risparmia: "Quel signore può vergognarsi!". Durissime le critiche dalle forze politiche alla sinistra del Pd. Il deputato di Mdp Arturo Scotto scrive: "Mi vergogno per lui, spero che qualcuno lo cacci". "È sconcertante - critica il responsabile nazionale Enti Locali di Sinistra Italiana, Paolo Cento - il mio pensiero non può che andare alla famiglia Giuliani, e a quanti lo conobbero, soprattutto in questi giorni a 16 anni da quella catastrofe. Dopo un post come questo mi domando come fa Renzi, segretario del Pd, a non cacciarlo dal partito".
DI SAVONA…Savona, arrestati un poliziotto e due funzionari per corruzione. Avrebbero accettato denaro e regali, anche prosciutti, per agevolare pratiche di permesso di soggiorno e ridurre sanzioni, uno è il viceprefetto Santonastaso. L'ispettore Tesio già coinvolto nell'indagine sui Fotia, scrive Giuseppe Filetto il 6 febbraio 2017 su "La Repubblica". Arrestati un poliziotto e due funzionari a Savona Non disdegnavano nulla: dai prosciutti alla frutta secca, dagli abiti alle riparazioni dell'auto gratis, fino alle poche decine di euro. In cambio rilasciavano permessi di soggiorno, patenti facili, porto d'armi: talvolta si limitavano ad accorciare i tempi di rilascio. Tutti i santi giorni il vice prefetto (nonché commissario straordinario al Comune di Borghetto Santo Spirito), il funzionario della Prefettura di Savona e il poliziotto passavano all'incasso, si vendevano per un "piatto di lenticchie". Questo raccontano le 319 pagine di ordinanza con la quale il GIP Fiorenza Giorgi ha posto agli arresti domiciliari il vice prefetto Andrea Santonastaso, il funzionario prefettizio Carlo Della Vecchia, e in carcere l'ispettore Roberto Tesi. In galera è finito pure un albanese, l'uomo che intercettato per traffico o di droga ha permesso di far saltare il coperchio di quello che i magistrati di Savona definiscono "il malaffare diffuso per pochi euro ". Altre due persone coinvolte nell'inchiesta del PM Venturi sono finite agli arresti domiciliari, e nel fascicolo aperto per corruzione, peculato, sfruttamento della prostituzione e dell'immigrazione clandestina, sono iscritte in tutto 25 persone. Il poliziotto, accusato anche di concorso in favoreggiamento della prostituzione, e il marocchino sono stati sottoposti a custodia cautelare in carcere, mentre i due funzionari del Ministero dell'Interno sono agli arresti domiciliari, come l'italiana, accusata di sfruttamento della prostituzione, e l'albanese. L'indagine è iniziata nel dicembre 2015, quando nell'ambito di un'altra inchiesta sono emersi contatti sospetti tra alcuni indagati ed il poliziotto. Secondo gli investigatori, "il poliziotto e i due funzionari del ministero avrebbero sistematicamente abusato delle loro funzioni agevolando pratiche in cambio di denaro, ma anche di regalie come vestiti, schede telefoniche, cene, assunzioni di amici, visite mediche, spese gratis nei negozi".
Uno dei due funzionari del ministero dell'Interno arrestati è Andrea Santonastaso, attuale commissario prefettizio al Comune di Borghetto Santo Spirito. Santonastaso, 64 anni, viceprefetto, ha ricoperto varie volte l'incarico di commissario prefettizio nei Comuni: nel 1993 a Rosta (Torino), nel 1994 a Celle Ligure, dal 1997 al 1999 ad Albenga, dal 2012 al 2013 a Carcare, nel 2016 a Spotorno, tutti Comuni del Savonese. Nelle passate settimane, secondo indiscrezioni, il viceprefetto avrebbe sondato alcuni politici di Borghetto per conoscere il gradimento su una sua eventuale candidatura a sindaco in una lista civica.
Carlo Della Vecchia è in servizio nello Staff del Referente responsabile per la trasparenza e l'integrità della Prefettura savonese come Funzionario economico finanziario.
Roberto Tesio: ex ispettore della squadra mobile, presidente del Quiliano Calcio, era stato coinvolto nel 2011 nell'inchiesta Dumper incentrata su un giro di mazzette nel Comune di Vado Ligure (Savona). Gli era stato contestato il reato di rivelazioni di segreti d'ufficio, ed era stato interrogato dalla Procura di Savona per una telefonata con uno degli arrestati, Mario Taricco, nella quale chiedeva di incontrare l'imprenditore Pietro Fotia. E' stato segretario del Siulp a Savona.
Sono accusati di corruzione, traffico di influenze illecite, peculato, truffa aggravata ai danni dello Stato, rivelazione di segreti d'ufficio, favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, falso. Il poliziotto è accusato anche di concorso in favoreggiamento della prostituzione.
PARLIAMO DELLA LOMBARDIA.
DI…MILANO. Le sorelle d'omertà “lombarde”, scrive il 23 giugno 2017 Ombretta Ingrascì su “La Repubblica”. Ombretta Ingrascì - Docente di Sociologia della criminalità organizzata all’Università di Milano. Il grande merito dei maxiprocessi istruiti dalla Direzione distrettuale antimafia di Milano nei primi anni novanta fu di mettere in luce non solo la presenza delle mafie in Lombardia, ma anche il ruolo delle donne al loro interno. A svelare la componente femminile delle famiglie mafiose fu soprattutto Rita Di Giovine, prima collaboratrice di giustizia della ‘drangheta, la cui testimonianza permise al dottore Maurizio Romanelli di colpire il feudo criminale che la madre di Rita, Maria Serraino, aveva instaurato negli anni ottanta intorno a Piazza Prealpi nella zona Nord-Ovest di Milano. Nipote di Ciccio Serraino della montagna, esponente di primo piano della 'drangheta di Reggio Calabria, Maria gestiva assieme al figlio Emilio un imponente traffico internazionale di stupefacenti (eroina, hashish e cocaina) e di armi, e operava nelle piazze milanesi in accordo con le altre famiglie della 'drangheta presenti nel territorio. Come l’operazione investigativa “Belgio” contro il clan Serraino-Di Giovine, anche l’indagine “Fiori della notte di San Vito”, condotta nel 1994 contro il gruppo 'dranghetista dei Mazzaferro attivi nella zona del Comasco, contribuì a sfatare lo stereotipo dell’assenza delle donne nella mafia. Nel banco degli imputati compariva Maria Morello, alla quale il collaboratore di giustizia Marcianò nelle sue deposizioni attribuì la qualifica di “sorella d’omertà” e il collaboratore Foti quella di “sorella d’umiltà”, carica che prevedeva, come scritto nella sentenza, servizi di “fiancheggiamento in ruoli non prettamente militari”. Nel 1976 il suo ristorante a Laglio, sul lago di Como, ospitò un summit di 'dranghetisti, finalizzato a creare su iniziativa di Mazzaferro una “camera di controllo” per l’attribuzione delle doti della 'drangheta in Lombardia. Anche dai processi celebrati in Lombardia negli anni 2000 emergono figure di donne pronte ad assumere ruoli attivi nelle mafie. Più istruite e libere di muoversi rispetto al passato e al contempo ancora insospettabili per la loro appartenenza al genere femminile, le donne vengono usate per custodire le armi, riscuotere il denaro presso le vittime di estorsioni e usura, e per condurre operazioni di reinvestimento del denaro illecito nell’economia legale (si pensi per esempio ai casi di Luana Paparo e delle donne del clan Valle). Nonostante il crescente e sostanziale coinvolgimento delle donne nelle mafie, al di là del tradizionale ruolo di trasmissione del sistema culturale mafioso, permane la loro esclusione formale. Alle donne infatti non è concessa l’affiliazione tramite il rito di iniziazione e pertanto nemmeno la possibilità di ricoprire ruoli apicali (se non in modo temporaneo durante l’assenza degli uomini della famiglia). Non è un caso che l’indagine Crimine-Infinito del 2010 non abbia individuato nessuna donna in posizione di vertice. Infine, la penetrazione della 'drangheta in Lombardia non si è limitata al trasferimento delle strutture di base dell’organizzazione, i cosiddetti “Locali”, ma anche di pratiche di genere basate sul codice dell’onore. In altre parole la riproduzione del fenomeno non è avvenuta solo sul piano criminale, ma anche su quello culturale. Non sono rare storie di giovani donne cresciute nell’hinterland milanese costrette a fidanzarsi e a sposare uomini più anziani per motivi di alleanze tra clan; oppure di donne ossessivamente controllate per ragioni di reputazione onorifica; o anche di donne picchiate, come nel caso di Maria Serraino che, nonostante fosse temuta dagli uomini del suo gruppo e dagli avversari in veste di capo dell’organizzazione, subiva le violenze del marito. È a partire da questa condizione di subordinazione che alcune donne hanno trovato il coraggio di ribellarsi collaborando con la giustizia, come la già citata Rita Di Giovine nel 1993, oppure testimoniando contro i propri famigliari, come Lea Garofalo nel 2006, che venne uccisa nel 2009 per aver infranto la regola dell’omertà. La sua storia e quella della figlia Denise, che ha testimoniato durante il processo contro il padre, assassino della madre, non ha lasciato indifferenti un gruppo di studentesse delle scuole medie superiori e dell’università, che con la loro costante presenza in aula l’hanno supportata durante l’intero processo, lasciando un’importante testimonianza di senso civico di cui la città di Milano ha da cogliere l’eredità.
Dottor Borrelli, come risponde al giudice Salvini? Chiede Piero Sansonetti il 24 giugno 2017 su "Il Dubbio". Ieri abbiamo pubblicato su questo giornale un’intervista al magistrato Guido Salvini, il quale ci ha svelato una storia veramente inquietante. Ci ha raccontato di come fu ostacolato in tutti i modi dalla Procura di Milano, quando stava lavorando alacremente all’inchiesta sulla strage di Piazza Fontana. All’epoca guidata da Francesco Saverio Borrelli, il magistrato celeberrimo per avere governato il pool di “mani pulite”, quello di Di Pietro e Davigo, che nei primi anni novanta rase al suolo la Prima Repubblica, la democrazia cristiana e il partito socialista. Dottor Borrelli, cosa ci dice di quelle inchieste sulle stragi? Salvini ricostruisce una delle vicende più oscure della storia italiana del dopoguerra: la stagione delle stragi. Che precedette, e certamente in qualche modo influenzò, la lotta armata e gli anni di piombo. Precisamente parliamo della prima fase delle stragi, e cioè del quinquennio che va dal 1969 al 1974 (poi ci fu una seconda fase, sanguinosissima, negli anni 80). La ricostruzione di Salvini avviene non sulla base di uno studio storico, o di una sua opinione di intellettuale, ma sulla base delle indagini che lui stesso ha svolto, con un certo successo, negli anni ottanta e novanta. Queste indagini riguardarono, in momenti diversi, due degli episodi chiave dello stragismo, e cioè il devastante attentato alla Banca dell’Agricoltura di di piazza Fontana, che avvenne e Milano nel dicembre del 1969 e che diede il via alla strategia della tensione, e poi la strage di Brescia, fine maggio 1974. Per la strage di Brescia si è arrivati martedì scorso alla conclusione giudiziaria con la condanna all’ergastolo, 43 anni dopo, di due degli autori. Per la strage di piazza Fontana, che cambiò faccia alla lotta politica in Italia – dando la parola alla violenza e alle armi e provocando la morte di quasi 2000 persone, tra le quali molti leder politici, compreso Aldo Moro, e molti poliziotti, magistrati, giornalisti – nessuno è in prigione, anche se, soprattutto grazie alle indagini di Salvini, si è ormai scoperto quasi tutto. Gli autori e i mandati della strage di piazza Fontana e quelli della strage di Brescia erano gli stessi: militanti neonazisti collegati a settori dei servizi segreti. E l’obiettivo – sostiene Salvini – era quello di destabilizzare il paese e rendere possibile una svolta reazionaria, o addirittura un colpo di stato simile a quello avvenuto nel 1967 in Grecia. Questa strategia si interruppe intorno al 1974 con la fine del regime dei colonnelli greci e poi con la caduta degli ultimi due governi totalitari di destra in Europa, e cioè quello della Spagna e quello del Portogallo.
Cosa denuncia Salvini? Racconta di come quando toccò a lui prendere in mano una indagine (quella su piazza Fontana) nata male e proseguita peggio, tra omissioni, incompetenze e depistaggi, le cose iniziarono a cambiare e pezzo a pezzo apparve un mosaico che lasciava capire le responsabilità e le complicità nell’attentato del ‘ 69. Si trattava di lavorare su indizi e anche su prove precise, che Salvini aveva individuato. Ed era possibile e vicina la conclusione dell’inchiesta. A quel punto però in Procura nacque una forte opposizione a Salvini. Per quale ragione? Questo, Salvini non lo spiega, ma noi ci permettiamo di avanzare qualche ipotesi. E’ assai probabile che l’opposizione fosse dovuta essenzialmente alle invidie e alle lotte del potere dentro la magistratura. E lui fu ostacolato, e persino messo sotto inchiesta e accusato davanti al Csm. Per sette anni di seguito dovette pensare a difendersi, mentre la sua inchiesta andava alla malora, le prove si perdevano per strada, i testimoni venivano messi fuori causa. Probabilmente alla Procura di Milano interessava poco assai della strage, che ormai era vecchia di 20 anni e aveva scarse possibilità di influire sulla lotta politica e sui rapporti di forza. Mentre l’inchiesta su Tangentopoli era molto più attuale, e aveva riflessi enormi sulla battaglia politica, sui rapporti tra i partiti, sull’orientamento dell’opinione pubblica. E anche sui nuovi assetti di potere dentro la magistratura. Alla fine Salvini vinse la battaglia, e il Csm riconobbe la sua assoluta innocenza. Però ebbe la carriera stroncata, e cioè l’obiettivo che si poneva qualcuno in Procura fu raggiunto. Noi possiamo anche stabilire che della carriera del dottor Salvini, e delle ingiustizie che ha subito, non ce ne frega assolutamente niente. Benissimo. Però è difficile dire che non ci frega niente neppure della verità su quegli anni, che hanno modificato la storia dell’Italia. E dunque, a parte le scuse a Salvini, dal dottor Borrelli ci aspettiamo qualche spiegazione.
Guido Salvini: «La mia guerra solitaria per sconfiggere gli stragisti», scrive Rocco Vazzana il 23 giugno 2017 su "Il Dubbio". «Un periodo storico è ormai ricostruito: Ordine Nuovo spargendo il terrore doveva fungere da detonatore affinché il mondo militare attuasse una svolta autoritaria simile a quella greca». «Un periodo storico è ormai ricostruito: Ordine Nuovo spargendo il terrore doveva fungere da detonatore affinché il mondo militare attuasse una svolta autoritaria simile a quella che vi era stata in Grecia con il golpe dei colonnelli». Guido Salvini, ex giudice istruttore nel processo di Milano sulla strage di Piazza Fontana, commenta così la sentenza definitiva della Cassazione su Piazza della Loggia.
Ci son voluti 43 anni per arrivare a una verità processuale. È una vittoria o una sconfitta dello Stato?
«Contrariamente a ciò che pensano molti, per me è una vittoria dello Stato di oggi. È stato possibile ottenere la verità perché solo a partire dagli anni 90, con la caduta del Muro di Berlino e l’apertura degli archivi dei servizi d’informazione, sono arrivate le prime testimonianze dagli ambienti della destra eversiva che hanno fatto luce sulle stragi. Inevitabilmente nei processi di questo tipo i tempi sono molto lunghi, si tratta comunque di un risultato che illumina un’altra pagina del quinquennio più tragico della strategia della tensione: quello che va dal 1969 al 1974».
Possiamo dire che tutti i responsabili della bomba a Brescia siano stati individuati?
«Non tutti i responsabili delle stragi di Piazza della Loggia e Piazza Fontana sono stati individuati. Possiamo però dire che con le sentenze di Brescia e Milano, la paternità dell’ideazione e dell’esecuzione di queste stragi è certa. Le stesse sentenze di assoluzione per Piazza Fontana affermano che la strage fu commessa dalle cellule venete di Ordine Nuovo ed è riconosciuta in via definitiva la responsabilità di Carlo Digilio (neofascista reo confesso, ndr), come confezionatore dell’ordigno, che beneficiò della prescrizione grazie alla sua collaborazione. E la sentenza di Brescia irroga condanne all’ergastolo indirizzate ad appartenenti alle stesse cellule venete di Ordine Nuovo».
Due stragi e un’unica firma dunque…
«Sì, e probabilmente un identico esplosivo: il Vitezit di fabbricazione jugoslava. Due stragi che rappresentano l’inizio e la fine di un progetto eversivo. Nel mezzo, tante altri attentati e altre stragi, come quella del luglio 1970: un treno deragliò vicino alla stazione di Gioia Tauro per una bomba sui binari. Ci furono 6 vittime e a piazzare l’ordigno, secondo la sentenza, furono esponenti di Avanguardia Nazionale di Reggio Calabria, l’organizzazione gemella di Ordine Nuovo che operava nel Sud».
Cosa succede nel 74? Perché quel progetto eversivo viene accantonato?
«Perché ormai la situazione era mutata: cadono i regimi fascisti in Grecia, Portogallo e Spagna. Inizia una distensione internazionale, finisce anche l’epoca di Nixon e quel progetto diventa antistorico».
Chi sono Maurizio Tramonte e Carlo Maria Maggi, i due uomini condannati per la strage di Brescia?
«Due militanti che si pongono ai due estremi della catena di comanda degli ordinovisti veneti. Carlo Maria Maggi era il responsabile dell’organizzazione per tutto il Veneto, non solo un ideologo, ma il capo che pianificava le campagne operative. Era in diretto contatto con il centro di Roma e con il mondo militare. Maggi era quindi lo stratega del gruppo. Maurizio Tramonte, invece, è un personaggio di modesta levatura che a un certo punto raccontò al Sid di Padova di aver partecipato alle riunioni preparatorie della strage di Brescia e di aver fornito appoggio logistico all’operazione. Lo racconta come fonte “Tritone”, cioè come informatore. Era dunque un elemento di collegamento, che dimostra come una parte dei Servizi segreti e il mondo dei neofascisti fossero allora in stretta connessione».
Dunque la condanna di “Tritone” rappresenta un’implicita condanna a una parte dello Stato?
«È certo molto indicativa delle collusioni dello Stato in quell’epoca. E non dimentichiamo che nel processo di Catanzaro su Piazza Fontana furono condannati i vertici del SID per aver fatto fuggire in Spagna imputati o testimoni decisivi come Guido Giannettini, un agente di alto livello dello stesso Sid legato a Freda e Marco Pozzan, che di Freda era il braccio destro».
Cosa ha rappresentato Ordine Nuovo per la storia del nostro Paese?
«Era un’organizzazione di stampo decisamente neonazista, con un buon livello ideologico e organizzato a due livelli, con circoli pubblici e cellule segrete molto esperte nell’uso dell’esplosivo e delle armi. Si trattava di un’organizzazione che, per il suo anticomunismo, era considerata da una parte dello Stato come “cobelligerante” per impedire uno scivolamento a sinistra del quadro politico italiano. Moltissimi uomini di Ordine Nuovo erano del resto legati al mondo militare o al Sid».
Cosa dice la sentenza della Cassazione di pochi giorni fa sulla stagione della tensione?
«Insieme a tutte le altre ci dice che tutti gli attentati di quell’epoca, circa un centinaio, furono materialmente commessi da Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale con un benevolo “controllo senza repressione” da parte dei Servizi di sicurezza italiani e probabilmente americani nell’ottica di un mantenimento dell’Italia in quadro decisamente conservatore».
Lei ha detto che l’esito del processo «premia l’impegno della Procura di Brescia», mentre su Piazza Fontana «la Procura di Milano non ha fatto altrettanto ed ha usato la maggior parte delle sue energie soprattutto per attaccare il giudice istruttore». A cosa si riferiva?
«Per parecchi anni la Procura di Milano non si è mai occupata della destra eversiva, nonostante le mie sollecitazioni. Quando decise di intervenire, Saverio Borrelli incaricò di affiancarmi una sostituta appena arrivata in Procura e completamente digiuna di indagini sul terrorismo. Perdipiù una collega che invece di collaborare dichiarò guerra a me, allora giudice istruttore, con l’idea che l’indagine fosse interamente assorbita dalla Procura».
Non si fidavano di lei?
«Credo che si trattasse di un senso di fastidio perché un altro ufficio, l’Ufficio Istruzione, aveva raggiunto risultati impensabili mentre la Procura aveva sottovalutato il caso. Quando si fecero vivi i sostituti della Procura entrarono, per inesperienza, in collisione con tutti i testimoni, non mossero un passo avanti e invece di collaborare con me pensarono bene di far aprire dal Csm un procedimento di incompatibilità ambientale nei miei confronti cioè di farmi cacciare da Milano. L’obiettivo era impadronirsi di un’indagine sulla quale comunque da soli non erano in grado di ottenere alcun risultato. Ad esempio quando la Procura andò a Catanzaro per fotocopiare gli atti del vecchio processo su Piazza Fontana acquisì l’agenda del 1969 di Giovanni Ventura. Non si accorsero nemmeno che lì dentro c’era il nome di Carlo Digilio e i riferimenti ad un casolare vicino a Treviso dove Ventura, Zorzi e tutti gli altri veneti avevano la base logistica con le armi e gli esplosivi. Digilio aveva raccontato di questo casolare e le assoluzioni in dibattimento vi furono anche perché quella base non era stata trovata. La conferma stava in quelle agende, ma la Procura non si accorse nemmeno di avere in mano la prova regina. Qualche anno dopo la Procura di Brescia studiò la stessa agenda e trovò subito il casolare che stava ancora lì. Ma ormai era tardi».
Perché la ritenevano incompatibile con la sede di Milano?
«II Csm, che all’epoca accoglieva qualsiasi cosa dicesse la Procura di Milano, aprì nei miei confronti il procedimento per “incompatibilità”, una procedura barbara che spesso significa solamente che sei diventato sgradito a qualche magistrato più potente di te. Mio padre è stato magistrato a Milano per 40 anni. Io, all’epoca lo ero da 20, avevo fatto importanti indagini in tutti i settori, lì c’era tutta la mia vita. Sette anni di procedimento con la minaccia di trasferimento possono schiantare una persona. E in più, non riuscivano a capirlo, hanno paralizzato l’ultima parte dell’indagine su Piazza Fontana, la fase decisiva. Io dovevo difendermi tutti i giorni dai loro attacchi e contemporaneamente correre a fare gli interrogatori con Digilio. Furono sette anni di inferno anche se alla fine vinsi il procedimento al Csm. Francesco Saverio Borrelli, che di mio padre era stato collega per tanti anni in Assise, dovrebbe ricordare che ha giocato con la mia vita e con quella della mia famiglia. Aspetto ancora le sue scuse».
«Giustizia milanese affidata a società dei paradisi fiscali», scrive Giovanni M. Jacobazzi il 23 giugno 2017 su "Il Dubbio". Lo storico cronista di giudiziaria Frank Cimini ha rivelato per primo il caso che scuote Palazzo di Giustizia: le gestione dei fondi Expo da parte dei magistrati. Ora pronostica: “La verità verrà fuori grazie allo scontro fra le correnti”. Intanto l’Ordine dei Milano sceglie la procedura più trasparente per la gara sui servizi di supporto, finanziati dall’avvocatura. “Solo le correnti della magistratura sono in grado di fare chiarezza sul modo in cui sono stati spesi al Palazzo di giustizia di Milano i fondi governativi assegnati in occasione di Expo2015”. Non usa mezzi termini Frank Cimini, lo storico cronista di giudiziaria del Mattino che per primo, già nel 2014, raccontò sul sito giustiziami.it le “anomalie” nelle procedure di spesa dei 16 milioni di euro stanziati per informatizzare il Tribunale del capoluogo lombardo. Affidamenti senza gara ai quali fa da contrappunto la procedura con “gara europea” adottata dall’Ordine forense di Milano per scegliere il servizio di supporto agli uffici. Sulle spese di competenza delle toghe, finite nel mirino dell’Anac, l’altro giorno il gruppo di Magistratura indipendente, la corrente conservatrice dei giudici, ha chiesto formalmente al Csm di fare chiarezza “per salvaguardare il prestigio e la credibilità dell’Ordine giudiziario”. “L’Anac di Cantone – dice Cimini arriva con anni di ritardo. Molti affidamenti, fin da subito, presentavano aspetti poco chiari”. Ad esempio quelli alla Ediservice del gruppo Edicom, società che si occupa fra l’altro della pubblicità accessoria dei procedimenti esecutivi o fallimentari che i giudici della seconda e della terza sezione civile impongono ai loro delegati. Questa società fornisce anche il personale per le cancellerie. “Oltre ad aver vinto la gara – dice Cimini – con un ribasso da brivido del 72%, è normale che una società che lavora per il Tribunale abbia la sede nel Delaware, un paradiso fiscale, e nessuno ad oggi sia in grado di dire di chi sia la proprietà?”. I servizi offerti dalla Ediservice hanno fatto storcere la bocca a diversi magistrati. “Inutili e dispendiosi” disse in una riunione il giudice della terza civile Marcello Piscopo. Su queste vicende, prima dell’intervento dell’Anac che ha trasmesso il dossier alla Procura ed alla Corte dei Conti, un procedimento penale a Milano era stato comunque aperto. Nel 2016 il pm Paolo Filippini, dopo aver scritto che “lo sviluppo dell’indagine deve passare necessariamente dalle condotte dei magistrati milanesi fruitori di questi servizi resi dalla ditta Edicom”, trasmise gli atti ai om bresciani. I quali, dopo 8 mesi, restituirono gli atti ai colleghi di Milano in quanto “il mero sospetto” non era sufficiente per determinare la loro competenza che scatterebbe solamente se si iscrivesse un magistrato nel registro degli indagati. “Ripeto, questa vicenda potrà essere risolta solo con l’intervento delle correnti delle toghe e Mi ha in questo momento la forza per farlo”, aggiunge Cimini. Il riferimento è al fatto che Magistratura indipendente ha avuto solo di recente un exploit a Milano: 51 voti nel 2008, 181 alle elezioni dello scorso maggio per l’Anm. Milano è poi il feudo del togato di Mi Claudio Galoppi, alle ultime elezioni per il Csm il magistrato più votato in Italia. Da quanto emerso fino ad oggi, furono soprattutto le toghe di Unicost e Area ad essere coinvolte nelle procedure di affidamento dei fondi Expo. Da qui, forse, il desiderio di Mi di regolare qualche conto. Ed a proposito di risorse economiche destinate al funzionamento della giustizia milanese, si segnala dunque la decisione dell’Ordine degli avvocati di Milano di fornire anche per i prossimi 2 anni il personale di supporto agli uffici. Un servizio affidato con gara europea, per maggiore trasparenza e nel rispetto della più recente normativa in tema di concorrenza e appalti. “Continuiamo ad offrire il nostro contributo al funzionamento del sistema giustizia milanese, sia pure nel quadro di un graduale ridimensionamento da tempo annunciato e concordato con i capi degli uffici”, ha dichiarato il presidente dell’Ordine Remo Danovi.
Appalti con i fondi di Expo collaudati dai magistrati contro la legge. Le procedure di affidamento da 8 milioni per l’informatica degli uffici giudiziari. La segnalazione della Guardia di Finanza: «Violato il codice su chi deve verificare le commesse», scrive Luigi Ferrarella l'11 giugno 2017 su "Il Corriere della Sera". Magistrati collaudatori d’appalti nonostante il divieto di legge. In 18 delle 72 procedure d’appalti da 8 milioni per l’informatica degli uffici giudiziari di Milano con i fondi Expo 2015, al centro dell’esposto dell’Anac di Raffaele Cantone alla Procura, al pg della Cassazione e alla Corte dei Conti, c’è un problema non solo sul «prima», cioè sulle violazioni-deroghe-frazionamenti-conflitti di interesse che nel 2010-2015 avrebbero viziato le procedure di cui si è qui riferito ieri, ma anche sul «dopo», e cioè sul momento dei collaudi. I finanzieri del generale Gaetano Scazzeri hanno infatti segnalato a Cantone come la verifica della conformità o del funzionamento delle commesse appaltate risulti essere stata svolta in 13 occasioni da commissioni di collaudo delle quali facevano parte anche 9 magistrati, alcuni provenienti anche da fuori Milano. Il che è vietato dalla legge, posto che il Codice degli appalti, in tema di collaudi, alla lettera A del comma 3 dell’articolo 314 del drp 207/210 stabilisce: «Incarichi di verifica della conformità non possono essere affidati ai magistrati ordinari, amministrativi o contabili, e agli avvocati e procuratori dello Stato, in attività di servizio». Tra funzionari comunali e dirigenti ministeriali e consulenti, i ruoli non appaiono sempre chiari all’Anac. È il caso della già trattata presenza informale e tuttavia operativa nei tavoli tecnici di Giovanni Xilo quale apparente consulente del Tribunale (ma forse pure della Camera di Commercio, e comunque anche, rileva ora l’Anac, socio unico di un’azienda in rapporti diretti e indiretti con una delle società assegnatarie degli appalti). Ed è il caso anche di un aspetto collaterale alla fornitura da 2,8 milioni che nel giugno 2015 venne fatta convogliare su Maticmind spa e Underline spa argomentando come giustificazione l’«opportunità di individuare un unico interlocutore» e un unico lotto per due accorpate esigenze. Qui la principale doglianza dell’Anac resta che non vi fosse invece alcun nesso tra l’appalto per l’hardware e l’appalto per la segnaletica degli uffici; ma, oltre a ciò, all’Anac non appare comprensibile né che il direttore del settore Gare Beni Servizi del Comune di Milano, Nunzio Paolo Dragonetti, sembri aver compiuto atti in qualità di Responsabile unico del procedimento (Rup), incarico invece ufficialmente del direttore comunale della Gestione Uffici giudiziari, architetto Carmelo Maugeri; né che nella commissione di collaudo degli hardware figuri poi il dirigente del Cisia di Milano (terminale locale dell’informatica del ministero), Gianfranco Ricci, che come referente per la stazione appaltante aveva già partecipato proprio al progetto di potenziamento dei centri dati gestiti dal Cisia. Un ulteriore capitolo di anomalie investe le forniture informatiche sottoposte all’adesione al Mepa-Consip, cioè al Mercato elettronico della Pubblica amministrazione. Qui, quando arrivano le offerte delle varie società, la stazione appaltante deve per legge rispettare il termine minimo di 10 giorni per la ricezione: invece in 5 gare, del valore totale di 600.000 euro nel 2010 e 2012 e 2014 e 2015, il Comune di Milano non ha rispettato questo termine, aggiudicando le forniture già dopo 5, 7 o 8 giorni a Telecom Italia, Itm Informatica Telematica Meridionale srl, Dottcom srl. In altre due gare sul circuito MePa-Consip, inoltre, l’Anac critica l’artificioso frazionamento della spesa con il quale una commessa unitaria sarebbe stata divisa in due procedure da 47.890 euro (i progetti «Udienza facile» e «Orientamento interattivo») aggiudicate entrambe alla Eway Enterprise Business Solutions.
Appalti informatici al tribunale di Milano. E’ giallo nel giallo. Non solo commesse assegnate a sigle e imprese in odore mafioso, ma addirittura, per svariati lotti, poi collaudate da magistrati. E contro la legge. Ai confini della realtà. Invece, ben dentro il pianeta giustizia di Casa nostra, scrive il 12 giugno 2017 Paolo Spiga su “La Voce delle Voci”. Scrive il Corriere della Sera del 12 giugno: “magistrati collaudatori d’appalti nonostante il divieto di legge. In 18 delle 72 procedure d’appalti da 8 milioni per l’informatica degli uffici giudiziari di Milano con i fondi Expo 2015, al centro dell’esposto dell’Anac di Raffaele Cantone alla Procura, c’è un problema non solo sul prima ma anche sul dopo e cioè sul momento dei collaudi”. Commissioni di collaudo “delle quali facevano parte anche 9 magistrati, alcuni provenienti anche da fuori Milano. Il che è vietato dalla legge che stabilisce: ‘Incarichi di verifica della conformità non possono essere affidati a magistrati ordinari, amministrativi o contabili, e agli avvocati e procuratori di Stato, in attività di servizio’”. Se succede addirittura al Tribunale di Milano, per appalti giudiziari, e con la presenza di magistrati nelle stesse commissioni di collaudo, figurarsi cosa può succedere in altre parti d’Italia. Sorge spontanea la domanda: ma quella normativa così pomposamente recitata dalla lettera A del comma 3 dell’articolo 314 del DPR numero 207/210 cosa ci sta a fare? Al solito, facciamo le norme inondate da codici e codicilli che non vengono rispettate da nessuno, tantomeno dagli stessi magistrati? Uno dei casi più eclatanti di giudici-collaudatori fu, negli anni ’80, quello delle toghe incaricate di verificare i lavori del dopo terremoto in Campania, sisma che si è trasformato in una grande occasione per il decollo della camorra spa, di faccendieri e imprese di partito, ma anche un ottimo ingranaggio per tanti professionisti, in pole position i magistrati. Resta storico un documento presentato da alcuni magistrati contro altri magistrati nel 1989 davanti al Csm nel quale veniva puntato l’indice contro le toghe collaudatrici, un folto numero in Campania, chiamate a suon di milioni di lire, all’epoca, per verificare la congruità – non si sa con quale perizia tecnica – di opere pubbliche costate una barca di soldi. Opere sulle quali avrebbero caso mai indagato in un momento successivo, come è successo con l’inchiesta sul dopo terremoto, dieci anni di carte e processi buttati al vento, e a loro volta costati altre palate di milioni allo Stato. Un processo – quello del post sisma ’80 – ovviamente morto di prescrizione, tanto per cambiare…
Cantone: con i fondi Expo 18 appalti illeciti del Tribunale di Milano. L’Anac su Comune, magistrati e ministero: 8 milioni tra gare aggirate e conflitti d’interesse, scrive Luigi Ferrarella il 10 giugno 2017 su "Il Corriere della Sera". Almeno 18 delle 72 procedure d’appalti per l’informatica del Tribunale di Milano, per oltre 8 dei 16 milioni di euro di fondi Expo 2015 stanziati da un decreto legge nel 2008, per l’Anac sono stati viziati fra il 2010 e il 2015 da violazioni del codice degli appalti, da illeciti affidamenti diretti senza bando con la scusa dell’unicità del fornitore per straordinarie ragioni tecniche, da artificiosi frazionamenti pianificati o da accorpamenti privi di senso, da immotivate convenzioni con enti esterni come la Camera di Commercio, e da potenziali conflitti di interesse nei tavoli tecnici. È una radiografia-choc l’esposto che l’«Autorità nazionale anti corruzione» di Raffaele Cantone ha inviato — sulla scorta di un rapporto del Nucleo della GdF del generale Gaetano Scazzeri — non solo alla Corte dei Conti (per i danni all’erario), ma anche alla Procura Generale della Cassazione (per eventuali profili disciplinari a carico di magistrati), e alla Procura della Repubblica di Milano per gli impliciti rilievi penali di turbative d’asta. Benché solo cartolare, la ricostruzione Anac è impietosa sul quinquennio dei tecnici del Comune stazione appaltante (era Moratti e Pisapia); dei vertici del Tribunale (con la presidenza di Livia Pomodoro e l’Ufficio Innovazione dell’attuale presidente della Corte d’Appello di Brescia, Claudio Castelli); dei dirigenti Dgsia/Cisia (braccio informatico del ministero della Giustizia di Alfano-Severino-Cancellieri-Orlando); della Camera di Commercio di Carlo Sangalli; di singole toghe e consulenti. La conclusione dell’Anac, nutrita anche dalle mail pre-contratti, è infatti che i membri del «Gruppo di lavoro per l’infrastrutturazione informatica degli uffici giudiziari di Milano» in molti casi avessero già deciso di non fare gare pubbliche e di affidare invece in via diretta, nel preteso nome di una più spedita efficienza, gran parte delle commesse a società già “mirate” come Net Service e Elsag Datamat; e che il Comune-stazione appaltante, oltre a individuarle preliminarmente, incaricasse poi il ministeriale Dgsia/Cisia di trovare di volta in volta cosmetiche giustificazioni tecniche. Nel 2015, ad esempio, «urgenti migliorie» a un pezzo del processo civile telematico sono suddivise in due contratti da 256.000 e 835.000 euro assegnati, su richiesta della ministeriale Dgsia, alla Net Service nel presupposto riguardassero «lo stesso codice sorgente (il cuore del software, ndr) mantenuto dalla società», e si trattasse quindi di un affidamento diretto per eccezionalità tecnica del fornitore (II comma art. 57). Ma in realtà, proprio in base ai precedenti contratti con la società, il suo codice sorgente era già diventato proprietà del Ministero, dunque libero di rivolgersi ad altri fornitori meno onerosi, e di così sottrarsi all’altrimenti monopolio di fatto. Analogo meccanismo, prospettato dal comunale responsabile unico del procedimento, arch. Carmelo Maugeri, nel 2013 porta ad esempio 323.000 euro alla Guerrato spa per la centrale elettrica di una sala server.
Altro esempio nel giugno 2015, quando la ragione per convogliare su Maticmind spa e Underline spa una fornitura da 2,8 milioni viene addotta nella «opportunità di individuare un unico interlocutore» e un unico lotto per due accorpate esigenze: peccato, nota l’Anac, che non vi fosse alcun nesso tra l’appalto per hardware e l’appalto per la segnaletica degli uffici giudiziari. Singolare, poi, la convenzione del maggio 2013 che, per potenziare il sito Internet e la rete Intranet del Tribunale, il Comune stipula con la Camera di Commercio in quanto «gli Uffici giudiziari hanno comunicato che da tempo è in essere un rapporto consolidato con la Camera di Commercio in ordine all’esecuzione di attività varia», e quindi «risulta opportuno» andare avanti così. Un prolungamento che vale in due rate 250.000 euro. Sui quali ora l’Anac esprime «forti perplessità», vista anche la facile reperibilità sul mercato di quelle competenze. Per tacere dell’infelice precedente dell’autunno 2012, quando il presidente della Digicamere scarl (controllata da Camera di Commercio) non aveva segnalato di aver patteggiato il reato di omesso versamento dell’Iva.
Pur senza un ruolo formale, al tavolo tecnico partecipava come consulente del Tribunale un esperto di organizzazione (già per Camera di Commercio e Ordine Avvocati), Giovanni Xilo, che però l’Anac ora lamenta fosse anche altro. Nel 2012 e 2014 la sua società C.O. Gruppo srl aveva avuto rapporti economici (in qualità di fornitore) con la Net Service, una delle aziende assegnatarie degli appalti del Tribunale; Net Service nel 2012-2013-2014 aveva retribuito incarichi a tre persone; e nel giugno 2014 queste tre avevano comprato da Xilo l’82% della sua società C.O. Gruppo srl, continuando a lavorare per Net Service. Collegamenti diretti o indiretti tra Xilo e Net Service — li riassume ora l’Anac — tali da aver potuto «influenzare», anche solo potenzialmente, il ripetuto ricorso del Comune alla norma sul fornitore unico a favore di Net Service.
L’accusa del funzionario del Comune: «Gli appalti irregolari dell’Expo li gestivano i magistrati», scrive il 16 giugno 2017 "Il Dubbio". La vicenda era stata tirata fuori qualche giorno fa dall’Anac di Raffale Cantone che aveva rilevato 18 irregolarità su 72 procedure di appalto relative all’informatizzazione del Tribunale milanese. I bandi dei fondi Expo destinati all’informatizzazione del tribunale venivano gestiti dai magistrati. Lo dice al Dubbio Carmelo Maugeri, un architetto che seguiva la gestione degli uffici giudiziari per conto del comune. Ma andiamo con ordine. Non più tardi di due settimane fa, l’Anac di Raffale Cantone ha rilevato 18 irregolarità su 72 procedure di appalto relative all’informatizzazione del Tribunale milanese per un valore di 8 milioni di euro (su 16) di fondi governativi stanziati per Expo2015. Il dossier è stato trasmesso la scorsa settimana alla Corte dei Conti (per eventuali danni erariali), alla Procura di Milano (perché valuti eventuali aspetti di carattere penale) e alla Procura Generale presso la Cassazione (per la valutazione, sotto il profilo disciplinare, delle condotte dei magistrati che si sono occupati di queste procedure). Fra le toghe prese di mira da Cantone, in particolare, l’ex presidente del Tribunale di Milano Livia Pomodoro, ora in pensione, e l’ex presidente dell’Ufficio Gip Claudio Castelli, attuale presidente della Corte d’Appello di Brescia. La contestazione principale è quella di aver speso senza gara ma con affidamenti diretti la maggior parte dei fondi a disposizione. “L’escamotage” usato è stato l’articolo 57 comma due del vecchio codice sugli appalti, quello che consente di fare affidamenti diretti allo stesso fornitore già in precedenza individuato dall’amministrazione. Il sito giustiziami. it, gestito dal celebre cronista giudiziario Frank Cimini e dalla collega Manuela D’Alessandro, già due anni fa, prima di essere ripreso da tutti i quotidiani, aveva segnalato che qualcosa nelle procedure d’informatizzazione del Tribunale di Milano non andava nel verso giusto. Roberto Bichi, attuale presidente del Tribunale di Milano e all’epoca dei fatti vicario di Livia Pomodoro, mercoledì ha convocato una riunione con i suoi 25 presidenti di sezione per fare il punto della situazione. Alcuni partecipanti hanno descritto un clima teso dove l’imbarazzo era palpabile. Al termine un comunicato che “scarica” tutte le responsabilità sul comune di Milano: «Non risulta che il Tribunale abbia mai assunto il ruolo di stazione appaltante». «Se ci sono state irregolarità – prosegue Bichi – auspico che emergano al più presto per dirimere dubbi, evitare illazioni, e non ledere l’immagine del Tribunale». All’epoca direttore del Settore Uffici Giudiziari per il comune era l’architetto Carmelo Maugeri. Fino allo scorso anno, prima della riforma voluta dal Ministro Andrea Orlando che ha affidato questo compito al dicastero di via Arenula, i comuni avevano in carico la gestione degli uffici giudiziari. Maugeri, tirato indirettamente in causa, non ci sta e ribatte. «Si sta facendo grande confusione in questa vicenda, cercando di scaricare le responsabilità», dice al Dubbio. In particolare «è vero che il comune di Milano in questa vicenda ha svolto il ruolo di stazione appaltante, ma è anche vero che erano i magistrati milanesi e i dirigenti della Dgsia (Direzione Generale per i Sistemi Informativi del Ministero della Giustizia) coloro che decidevano in che modo dovessero essere spesi i fondi Expo 2015. L’autonomia degli uffici del comune di Milano era molto limitata. Parole pesanti alla quali Maugeri aggiunge: «Ci sono le mail fra gli uffici del comune e i magistrati che provano ciò. Io non sapevo – prosegue Maugeri nemmeno cosa fosse, per fare un esempio, il processo civile telematico: il comune di Milano ha sempre fatto quello che dicevano i magistrati. Anzi, quando si decise di non procedere più con gli affidamenti diretti ma con una gara europea per l’automatizzazione dell’Unep (Uffici Notificazioni Esecuzioni e Protesti), un progetto che doveva rendere elettroniche le notifiche dei provvedimenti giudiziari, ci fu un “irrigidimento” da parte di alcuni magistrati», aggiunge Maugeri. «Alle riunione operative – sottolinea l’architetto – partecipavano tutti i vertici degli uffici giudiziari milanesi dell’epoca, nessuno escluso. Io, comunque, ritengo di aver fatto tutto correttamente, anche per quanto attiene i vari affidamenti diretti», precisa Maugeri sottolineando come «nei mesi scorsi la Guardia di Finanza ha sequestrato tutti gli incartamenti relativi ai fondi Expo. Compresi i vari verbali delle riunioni operative». Su come andrà a finire questa vicenda Frank Cimini è tranchant: «Ci sono di mezzo magistrati, la verità non la sapremo mai».
La mensa delle beffe, scrive Sabato 20 maggio 2017 Massimo Gramellini su "Il Corriere della Sera". A Milano il presidente del Codacons, paladino dei consumatori, non paga da anni la mensa scolastica delle figlie perché - dice - il cibo non è un granché. Riesco a malapena a immaginare le sofferenze quotidiane di questo esteta. Al bar paga il caffè soltanto quando è buono, altrimenti niente. In edicola compra tre giornali ma ne paga uno, perché gli altri due hanno dei titoli che non lo convincono. Stesso discorso per i parcheggi: paga quelli all’ombra. I posti al sole francamente no. Quanto agli autobus, dipende. Se lo costringono a restare in piedi, il presidente viaggia senza obliterare. Se invece riesce a sedersi, allora timbra il biglietto con magnanimità. A meno che l’autista prenda una buca: in quel caso ritiene suo dovere di cittadino indignato astenersi. Non si creda che il dottor Marco Maria Donzelli sia mosso da bieco menefreghismo. Al contrario. È il ruolo istituzionale che lo obbliga a prendersi cura dei diritti dei consumatori, cominciando dai suoi per mere ragioni di prossimità. Nell’illuminante intervista rilasciata a Rossella Verga del Corriere ha spiegato che il cibo della mensa «non è in linea con l’alimentazione che intendiamo seguire». Quale sia questa linea non è dato sapere. Ma è quanto basta perché si senta autorizzato a non pagare. Vorrei denunciare al Codacons le migliaia di cittadini milanesi fuori linea che si ostinano a finanziare la mensa dei figli per consentire a quelli del presidente di mangiare a sbafo e a lui di recitare la parte della vittima.
Il presidente del Codacons non paga la mensa del figlio: «Cibo indigesto». Donzelli tra i morosi storici del Comune: «Non pago dal 2008, ma io mi sento danneggiato. Noi vorremmo portare il cibo da casa. Invece ci viene impedito», scrive Rossella Verga il 19 maggio 2017 su "Il Corriere della Sera". Tra gli insolventi storici della Milano Ristorazione c’è anche lui: l’avvocato Marco Maria Donzelli, presidente nazionale del Codacons, in prima fila nelle proteste dei consumatori e nella regia della class action contro la Spa del Comune partita nel 2010 e sulla quale non si è ancora scritta la fine. Da anni non paga la mensa delle tre figlie, ma non si sente in difetto. Anzi. «Ci sentiamo danneggiati, non morosi», dice.
Avvocato Donzelli, nell’elenco dei morosi c’è anche lei, il paladino dei consumatori. Non è un po’ bizzarro?
«Ho una causa personale aperta con il Comune, che è partita parallelamente alla class action intrapresa come Codacons. Come famiglia abbiamo deciso di non pagare più la mensa perché gli inadempimenti di Milano Ristorazione e del Comune erano troppo gravi».
Da quanto tempo non versa la quota a MiRi?
«Da quando è cominciato l’iter giudiziario, attorno al 2008. Un percorso lunghissimo tuttora in fase istruttoria. Ma solo l’ultima delle mie figlie è ancora alle elementari e per lei, che ha 10 anni, non stiamo pagando i bollettini. Le altre, che hanno 15 e 18 anni, sono uscite. Mi pare che per la loro refezione non ci siano pendenze debitorie».
Sua figlia ogni giorno usufruisce della mensa: le sembra giusto non pagarla?
«Siamo obbligati a usufruire di questa mensa. Noi avremmo voluto portare il cibo da casa, ma ci è stato impedito. Non potevamo fare altrimenti. Io e mia moglie lavoriamo, per noi è impossibile andare a prendere la bambina all’ora di pranzo».
Di fatto la scuola garantisce il pasto, sempre.
«Ripeto: non abbiamo potuto fare diversamente che mandare nostra figlia a scuola sottoponendola a Milano Ristorazione. Lei mangia pochissimo: solo pane e arance. Il cibo della mensa o non è buono o comunque non è in linea con l’alimentazione che intendiamo seguire noi».
Sa che a Milano ci sono 28 mila insolventi per le mense scolastiche. Un bel peso sulle spalle della collettività.
«Forse bisognerebbe riflettere sul fatto che non tutti hanno problemi legati alla crisi economica. Per molti evidentemente non pagare è una scelta, perché non è stata data la libertà di alimentare diversamente i propri figli. Il vicesindaco e assessore all’Educazione, Anna Scavuzzo, sulla possibilità di far consumare a scuola il pasto portato da casa ha un atteggiamento che sembra ispirato a principi del Medioevo, in contrasto con la direzione scolastica».
Torniamo alle inadempienze di Milano Ristorazione. Perché ha fatto causa?
«Per il comportamento illecito della società. Mi riferisco alle inadempienze rispetto al contratto stipulato con il Comune. All’epoca delle contestazioni, nel 2008, veniva utilizzata la carne trita vietata, pesce extracomunitario non conforme. Olio in bottiglie di plastica e non nel vetro. Niente grammature ma cibo distribuito ad occhio».
Se dovesse perdere la causa pagherebbe gli arretrai?
«Beh certo, saremmo costretti».
Maroni e le consulenze d’oro ad amici e avvocati all’ombra della Regione, scrivono Andrea Sparaciari e Valerio Mammone il 9 maggio 2017 su "it.businessinsider.com". Roberto Maroni è un ottimo passepartout: basta aver lavorato una volta per lui per vedersi spalancate le porte delle società controllate o partecipate da Regione Lombardia. Così è successo a Luca Morvilli, l’esperto in comunicazione olistica che nel 2013 ha contribuito alla sua vittoriosa campagna elettorale per le regionali. Tra il 2014 e il 2016, Morvilli ha ottenuto tre consulenze in tre anni da due società controllate dalla Regione, per un importo totale di 192 mila euro. Il primo a ingaggiarlo è stato Eupolis – l’istituto di ricerca, statistica e formazione della Regione – che gli ha commissionato lo sviluppo di “una strategia di comunicazione olistica, nell’ambito del Programma di attività Ufficio Studi”. Il contratto prevede un compenso di 48 mila euro in 10 mesi. Nel 2015 e nel 2016 Morvilli fa il bis con Ferrovie Nord Milano SpA, la holding che gestisce i trasporti ferroviari lombardi, guidata dal leghista ed ex segretario generale della Regione Andrea Gibelli. I contratti – di cui Business Insider è in grado di dare conto in esclusiva – sono due: nel 2015 Fnm affida a Morvilli una consulenza di sei mesi per il “riposizionamento del brand Fnm”. Valore: 48 mila euro, come era già accaduto per Eupolis. Nel 2016 l’esperto in comunicazione raddoppia impegno e stipendio: la consulenza annuale vale 96 mila euro, ma qualcosa va storto e il 31 ottobre 2016 il contratto viene rescisso in anticipo. Alla fine Morvilli incasserà “soltanto” 26 mila euro. Fnm – un po’ come la Cia – non conferma e non smentisce le cifre: durante l’ultima assemblea degli azionisti dello scorso aprile il presidente Gibelli si è limitato a ribadire che «la comunicazione olistica è una cosa seria». Silenzio anche da parte di Morvilli, al quale abbiamo chiesto – fra l’altro – se avesse mai lavorato con società partecipate o controllate da Regione Lombardia prima dell’insediamento di Maroni. “Le clausole di riservatezza previste dai contratti – ci ha scritto – non mi consentono di rispondere”. Secondo Isabella Votino, portavoce del Governatore Maroni, “le collaborazioni di Morvilli con Eupolis ed Fnm non sono certamente state decise dal Presidente”. L’esperto in comunicazione olistica, in ogni caso, è un “amico alle prime armi” se paragonato al vero pupillo di Bobo Maroni, il suo confidente e avvocato personale Domenico Aiello. Nel 2015 il legale calabrese ha ottenuto almeno due consulenze da Fnm: la prima, come si legge nel verbale dell’assemblea degli azionisti del 2016, “ha ad oggetto la costituzione in un procedimento penale ed ha un corrispettivo, valutato secondo tariffa, per la fase del giudizio per massimi 100.000 euro a seconda delle udienze; (…). La seconda consulenza ha un ammontare massimo di 50.000 euro». Tutto normale, si penserà, se non fosse che il giorno prima dell’assemblea Aiello negò di aver ricevuto incarichi dalla holding dei trasporti lombardi. “Me lo ricorderei – disse al Fatto Quotidiano – Al massimo potrei essere stato pagato per le spese legali come controparte di Fnm, ma non ho firmato nessun contratto con Norberto Achille (ex presidente della holding, finito male per una storia di “spese pazze”, ndr) per una consulenza legale”. Aiello, insomma, era consulente di Fnm a sua insaputa. Il sodalizio tra Aiello e Maroni risale ai tempi del Ministero degli Interni, quando il non ancora governatore della Lombardia fu indagato per finanziamento illecito ai partiti (la sua posizione fu poi archiviata). Da quel momento, il legale si è trasformato nel “Mr Wolf” personale del Presidente e ha gestito una lunga serie di patate bollenti: lo scandalo dei diamanti comprati con i fondi del Carroccio; la costituzione di parte civile di Regione Lombardia nel processo Maugeri: un compito che Aiello ha svolto bene, ottenendo dal tribunale, come scrive in un’interrogazione il consigliere regionale del Pd Bruni, il versamento di circa “15mila euro di spese legali alla Regione» a fronte di una parcella da 188 mila euro (pagata con soldi pubblici). Una cifra «spropositata», secondo Bruni che si è rivolto alla Corte dei Conti per danno erariale. Non basta, aiello ha ricevuto dal Pirellone incarichi anche nel processo contro l’ex capo di Infrastrutture Lombarde, Antonio Giulio Rognoni, in quello per i danni dell’ex enfant prodige della Lega, il consigliere Fabio Rizzi, accusato di aver intascato tangenti da Maria Paola “Lady Dentiera” Canegrati. Non mancano poi le consulenze alle altre controllate della Regione: oltre alla già citata Fnm, Aiello viene arruolato anche da Aler (nel 2013) e da Pedemontana. Ma dove il rapporto tra Maroni e Aiello si dimostra granitico è nel processo che vede imputato iBobo per induzione indebita e turbata libertà nel procedimento di scelta del contraente. Secondo il pm Fusco, Maroni avrebbe fatto ottenere un contratto di lavoro in Eupolis a una ex collaboratrice (Mara Carluccio) e avrebbe fatto pressioni affinché un’altra sua ex collaboratrice (e per i pm, sua amante), Maria Grazia Paturzo, partecipasse a un viaggio istituzionale a Tokyo a spese di Expo. Quando il presidente della Lombardia scopre di essere indagato dai pm Fusco e Addesso nomina immediatamente Aiello – ça va sans dire – suo difensore personale, il quale giustamente inizia le sue lecite e doverose indagini difensive. Chiede quindi alcuni documenti a Expo spa, ma il cda della società ne fornisce solo una parte. Pur di averli, Aiello si rivolge in procura, lamentando di non riuscire a ottenere le carte. Tuttavia, anche i magistrati milanesi ritengono che quei documenti non siano necessari né pertinenti all’inchiesta. A quel punto Maroni, con un colpo a sorpresa, decide di far dimettere il rappresentante della Regione nel cda di Expo spa, Fabio Marazzi, sostituendolo con chi? Esatto, proprio con l’avvocato Domenico Aiello, che da quel momento, in qualità di consigliere avrà accesso a tutte le carte della società. In molti allora sottolinearono quanto fosse quantomeno inopportuno che nel cda di Expo spa sedesse l’avvocato di un indagato, azionista di Expo spa, finito nelle pesti proprio per aver fatto presunte pressioni sulla società. Per Maroni questo conflitto non c’è mai stato e ha tirato dritto, facendo guadagnare da allora ad Aiello 27 mila euro l’anno come membro del board della società. Torniamo a oggi: quel processo si sta celebrando (si fa per dire) in questi giorni e, in caso di condanna, Maroni decadrebbe dalla sua carica in base alla legge Severino. In realtà non si sta celebrando affatto, visto che le udienze saltano una dopo l’altra a colpi di legittimo impedimento: prima perché Bobo era candidato come consigliere comunale a Varese, poi perché l’avvocato Aiello era in sciopero, oppure perché colpito da mal di schiena talmente lancinanti da impedirgli di essere in aula. Malesseri certificati dai medici, che però stanno trasformando il procedimento in una pantomima: alla terza udienza consecutiva saltata a causa del mal di schiena del legale, i giudici hanno ordinato una visita fiscale a casa. Neanche fosse un impiegato pubblico assenteista. «Questo processo è fermo da più di due mesi e così rischia uno stop fino alla primavera del 2018», ha sbottato il solitamente mite pm Fusco. Di questo passo si potrebbe andare avanti ancora per un anno, proprio quando si dovrebbe tornare a votare in Lombardia. Una coincidenza? Forse, di sicuro chi trova un amico (presidente), trova un tesoro.
A Milano il tribunale è un colabrodo. Nel palazzaccio fascicoli incustoditi e controlli inefficaci Per l'aula bunker spesi 11 milioni. E non ci si può entrare, scrivono Luca Fazzo e Monica Serra, Domenica 09/04/2017, su "Il Giornale". L' armadietto con la vetrina è al suo posto, al terzo piano del palazzo di giustizia di Milano: a due passi dalla sala stampa, a quattro dalle aule di tribunale sempre affollate di processi. Dentro dovrebbe esserci il defibrillatore, l'attrezzo salvavita obbligatorio per legge nei luoghi di lavoro.
Ma l'armadietto è vuoto, da anni. Se qualcuno - avvocato, giudice, imputato - si sentisse male nei pressi, i soccorritori seguendo le frecce si troverebbero davanti alla vetrina vuota, e il tizio andrebbe al Creatore. Che fine abbia fatto il defibrillatore non si sa. Ma una cosa è certa: se questa violazione avvenisse in una società privata, il titolare verrebbe incriminato dai magistrati. Ma qui, dove comandano i magistrati, nessuno incrimina nessuno. La faccenda del defibrillatore è solo un dettaglio, nel lungo viaggio che il Giornale ha compiuto nel tempio della Giustizia milanese. Un viaggio che da oggi e per tre puntate verrà raccontato con immagini forti sul sito internet, ilGiornale.it: e sarà interessante scoprire se davanti alla cruda eloquenza di queste immagini si continuerà a fare finta di niente. La sfilza di leggi che vengono violate nel palazzo che delle leggi è il simbolo è lunga e variegata: dalle norme sugli infortuni alla tutela della privacy, qui sembra che lo Stato chiuda un occhio. Per buona parte di queste mancanze è già pronta la solita scusa: mancano le risorse. Peccato che contemporaneamente vengano sprecati soldi in grande quantità per opere interminabili, inutili, bizzarre, di cui nessuno - ovviamente - è disposto a prendersi la responsabilità. Tra gli sprechi (lasciando stare le due Passat blindate nuove di zecca, assegnate a magistrati di cui non risulta siano esposti a particolare pericoli; o episodi grotteschi come il tappeto rosso di trentacinque metri apparso di recente nell'anticamera del Procuratore generale) l'esempio più vistoso sono sicuramente gli innumerevoli megaschermi affissi in ogni angolo del palazzo, costati quasi tre milioni di euro, da anni perennemente accesi e mai utilizzati: a parte due di essi a pian terreno, che trasmettono gli slogan della Associazione magistrati (gli avvocati della Camera penale hanno protestato contro l'abuso a fini privati di un bene pubblico: invano). Ma il caso più eclatante è quello dell'aula bunker che i vertici del tribunale chiesero all'inizio degli anni Novanta di realizzare accanto al carcere di Opera, e mai del tutto terminata, oggetto di una inchiesta anch'essa interminabile (in fondo sono colleghi...) della Corte dei Conti. La versione ufficiale è che ora il bunker è quasi pronto. Purtroppo manca la strada per raggiungerlo. Il procuratore generale Roberto Alfonso, intervistato dal Giornale.it, dice che a realizzarla sarà il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria. Ma al Dap replicano che al massimo possono ricavare un percorso all'interno del penitenziario: così per assistere a una udienza pubblica si dovrebbe passare per un carcere. Oltretutto a cosa serva un simile bunker in un'epoca in cui i maxiprocessi non si fanno quasi più è di difficile comprensione. Costo dell'opera, di rincaro in rincaro: oltre undici milioni di euro.
Di fronte a questi sperperi, diventa difficile giustificare il degrado che regna all'interno del Palazzo. Cortili e sotterranei trasformati in discariche. Aule affollate lungo i cui muri si aggrovigliano matasse di fili scoperti. Cantieri in cui non potrebbe entrare nessuno, e invece di libero accesso. Le famose balaustre che ad ogni piano separano dallo strapiombo delle scale e degli androni, e che arrivano a stento al ginocchio, col rischio di cadere nel vuoto al primo malore: oltre a costituire un incentivo a gesti inconsulti da parte di chi qui si aggira in condizioni di fragilità emotiva. e infatti in passato già due persone si sono lanciate nel vuoto. Da anni si parla di rialzarle ma, tranne un piccolo tratto non è stato fatto nulla. Dell'incuria e del degrado che regnano all'interno del tribunale il sintomo più sconcertante sono però le centinaia e centinaia di fascicoli giudiziari che giacciono alla mercè di chiunque, pronti per essere consultati o addirittura prelevati. Anche in zone «sensibili» del palazzaccio, come l'ufficio del Giudice per le indagini preliminari, basta aprire un armadio per venire a scoprire passaggi delicati e dolorosi della vita delle persone incappate nei meccanismi della giustizia. I filmati che troverete sul sito del Giornale dimostrano senza possibilità di smentita la facilità di accesso a questi dati in teoria super-riservati. Infine il tema della sicurezza antiterrorismo, reso drammatico dall'impresa di Claudio Giardiello, l'imprenditore che il 9 aprile 2015 uccise un giudice, un avvocato e un coimputato. Nel primo anniversario del massacro, il procuratore generale Roberto Alfonso annunciò l'avvio di un piano per la sicurezza del palazzo, «la proposta sarà inviata al ministero che la vaglierà e potrà dare il via libera. Per fine 2016 la prima tranche di lavori dovrebbe essere ultimata». Ultimata? Oggi, secondo anniversario della tragica impresa di Giardiello, non è neanche cominciata.
Milano, Vallanzasca e io. Rapine, sequestri, omicidi. Era la Banda della Comasina, guidata da uno dei banditi più mediatici d’Italia. Il suo ex braccio destro, Rossano Cochis, racconta quegli anni di sangue e follia: «Bische, night club, coca, auto, donne e mitra. Eravamo una miscela esplosiva», scrive Piero Colaprico il 23 marzo 2017, su "L'Espresso". Ancora scuote la testa e ride, Rossano Cochis, al ricordo: «C’era un pugile, uno che ha vinto la medaglia alle Olimpiadi e ha conquistato anche il titolo mondiale, e lo portavo io in macchina a una bisca. Era così contento, in quel periodo, che s’è messo a ridere e a gridare dal tettuccio aperto della Porsche il suo slogan e il suo programma. «Per tre cose vale la pena vivere, la coca, la figa e la malavita», così continuava a ripetere nel vento. Eh, insomma, a volte penso che sia un po’ la sintesi di quei nostri anni. Il bandito più carismatico di Milano era Francesco Turatello, Francis Faccia d’Angelo, ed era lui, prima degli incontri di questo pugile, che faceva passare la voce, così nessuno poteva dargli nemmeno un grammo, e non si sgarrava, guai con il Francis». Erano gli anni Settanta, che per Cochis e i suoi compari si chiusero con sei mesi vissuti da mucchio selvaggio. Era il tragico ’76, consumato tra evasioni dalle carceri, sparatorie mortali, sequestri di persona, guerre di gang. Con lui, Renato Vallanzasca e gli altri della banda della Comasina trasformati in un «pericolo pubblico». Oggi, dopo trentasette anni di detenzione, «venticinque sempre in cella», Cochis, detto Nanun, è tornato nelle strade e ha accettato d’incontrarci nello studio del suo avvocato, Ermanno Gorpia.
Arrivato ai settant’anni d’età, l’ex rapinatore conserva la faccia di uno con il quale sarebbe meglio non litigare. Un piccolo dettaglio aiuta a capire: da semilibero era stato mandato a lavorare in una comunità di recupero. Là era facile che qualche parente si presentasse con un paio di amici, per riprendersi i figli fermati per furto. Da quando è toccato a Cochis aprire la porta della comunità agli estranei, quelle scene sono radicalmente cessate. La notizia ci era arrivata da un magistrato di sorveglianza e gli chiediamo se corrisponde al vero: «Sì, andava così, gli spiegavo chi ero, gli motivavo perché insistere non sarebbe servito e che era meglio pensare al bene dei ragazzi, quindi se ne andavano. Strano che proprio uno come me dovesse fare l’uomo d’ordine, eppure…».
Eppure, è un sopravvissuto. Gli altri del gruppo originario? «Ormai», risponde, «sono tutti morti, a parte me e Renato», il bel René, tornato clamorosamente dietro le sbarre per una storia di mutande rubate in un supermercato. E come cominciò la loro storia funesta? «Ero nel carcere di Lodi, in attesa di giudizio, per una rapina che non avevo commesso, e grazie alla legge Valpreda, che stabiliva un tetto massimo alla carcerazione preventiva, uscii. Ero stato rappresentante di un grissinificio vicino a Bergamo, provai a tornare, ma mi dissero “Ti riprendiamo, però niente stipendio, solo provvigioni, se ti va”. Non era un ricatto? Decisi di trasferirmi a Milano e con un altro conosciuto in carcere, Vito Pesce, frequentavo il bar gelateria Adriana, in via Padova. C’erano anche Pino Digirolamo, Franco Cornacchini, Antonio Rossi, Enrico Merlo, insomma, una batteria di rapinatori. Tramite un altro, che è vivo e non nomino, facemmo qualche colpo a Milano, a Vimodrone, poi la Edilnord di Brugherio, la banca del Monte dei Paschi di Siena a Milano 2, che poi rifeci con Renato Vallanzasca nel ’76, appena evaso, e tutt’e due le volte c’erano in cassa esattamente dieci milioni di lire. A proposito, mentre nel ’76 tornavamo nel nostro imbosco, che era a Milano San Felice, ci facemmo al volo anche un’altra banca a Pantigliate e il giorno dopo sul giornale c’era un titolone: “Arrestati tre minorenni, li hanno riconosciuti”. Uhè Renato, leggi, e che cosa facciamo?, dissi. Quando ci presero, chiamammo il giudice Gatti. “Quando l’impiegato è scappato è caduta la macchina per scrivere, in paese c’era un funerale”, insomma gli spiegammo che eravamo stati noi a colpire, così i minorenni vennero scarcerati e noi ci prendemmo 14 anni, anche perché era stata ferita una guardia giurata. Avevamo portato con noi uno che ripeteva “Non me la sento, non me la sento”, sudava freddo, allora gli ho detto di smetterla e di non preoccuparsi, che avremmo fatto tutto noi. Bastava che lui tenesse sotto tiro “il” guardia e stesse calmo. Infatti, ha puntato la pistola e gli ha tirato, e l’ha preso alla gamba, ma si può? Che gente…».
Più si ascolta il flusso di parole di Cochis, più fluisce il magma incandescente di quell’epoca di morte perennemente in agguato. Sembra quasi incredibile confrontare le epoche, ripensare a quanto alto fosse il tasso di violenza quotidiana, spicciola o mortale, comunque inevitabile: «Io fui arrestato per il sequestro e l’omicidio di Carlo Saronio, ma non c’entravo nulla, e lo sanno tutti. Quello che se la cantò, il suo amico, il Fioroni, lo disse espressamente a verbale. “Ho incontrato Cochis insieme con Carlo Casirati, che ha ucciso Saronio con l’iniezione sbagliata, e gli abbiamo proposto di fare il sequestro con noi, ma ha rifiutato”. Chiaro, no? Invece mi mandò a chiamare il magistrato Gerardo D’Ambrosio. “So che lei sa tutto, perciò se lei parla, esce con me da San Vittore stasera stessa. Se invece fa l’omertoso, le spicco il mandato di cattura per sequestro e omicidio”, disse. Beh, gli ho scaraventato addosso la scrivania e m’hanno portato in isolamento sotto il Primo Raggio. Il giorno dopo mi consegnano davvero il mandato di cattura. Allora m’arrabbio e vado sui tetti del carcere, quando mi acciuffano, mi portano a Pisa, poi alla Capraia, poi alla Spezia, da dove evado d’estate, con le lenzuola. E così, aprendo una macchina posteggiata grazie alla chiave della scatoletta del tonno, arrivo a Voghera, poi a Milano, dove ritrovo Vito Pesce e, con lui, Renato Vallanzasca. L’avevo già conosciuto in carcere, per la rapina che aveva fatto al supermercato di via Monterosa. Così, da evaso, andai a dormire con lui, che allora stava con Patrizia Cacace, dividevamo il lettone matrimoniale. E lì per lì, con Marco Carluccio, con Antonio Colia detto Pinella e un bergamasco, Silvio Zanetti, di cui adesso posso fare il suo nome, ho saputo che è morto, nacque l’anima della banda Vallanzasca, quelli che io chiamavo i muli, perché tiravamo gli altri. In questi ultimi anni è apparsa sui giornali Antonella D’Agostino, che poi ha sposato Renato, ma nessuno di noi sa chi è. Anzi la prima volta che l’ho vista era il ’90, o il ’91, ed era la donna di un certo Cicciobello».
Rapine e sparatorie si moltiplicano, un delirio di proiettili circonda la banda come un nugolo di mosche circonda i cadaveri. Oggi si ascoltano non pochi politici straparlare di «città della paura» o commentare il ruolo dei giornalisti, ed è come se si fosse smagnetizzata la memoria: «Noi non evitavamo il conflitto a fuoco, tutto qui». In che senso, Cochis? La spiegazione è brutalmente lineare: «Non c’era uno studio, un piano, niente. Noi arrivavamo su macchine rubate di grosse cilindrata, in cinque. Due uomini che entrano in banca, uno fa la cassaforte e l’altro i cassetti. Due che stanno in strada, con i mitragliatori, e uno fa da palo sulla porta. Sapessi quante volte arrivava una pattuglia e faceva velocemente inversione, noi tiravamo bene, in via Serra a Milano, quando andammo a fare le buste paga dell’Alfa Romeo, io e Mario Carluccio bloccammo da soli sette macchine della questura, e non so quanti caricatori abbiamo sparato. Sì, se penso a molte delle nostre azioni provo rammarico. E poi, guardami, è passata la mia vita, ma come è passata? In una gabbia, ecco come».
Una gabbia rimasta sotto i riflettori. La banda della Comasina, nonostante siano passati i decenni, non viene dimenticata: «L’avvocato Rosica, uno che ci difendeva, ci chiese un favore. Andammo dalle parti di piazzale Corvetto, dove abitava, e Renato rilasciò un’intervista a un giornalista amico dell’avvocato, uno che mi pare lavorava al “Corriere d’Informazione”. Ecco, Renato con le parole ci sa fare» e, da quel momento, diventa uno dei banditi più mediatici d’Italia, di quell’Italia in cui l’Anonima sequestri mette angoscia alle famiglie, il terrorismo incalza, Cosa nostra fa affari al nord (Luciano Liggio, capo della mafia, viene arrestato nel 1974 a Milano, in via Ripamonti) e si muore ammazzati in pieno centro, come accadde in piazza Vetra: «Era il novembre del ’76, eravamo andati là solo per un sopralluogo. L’obiettivo erano le esattorie comunali, ma non da fare quel giorno stesso. Infatti Franco Careccia cammina disarmato, c’eravamo resi conto che un’irruzione armata rischiava di diventare una carneficina, che era meglio filare il furgone Mondialpol e attaccare dopo che caricano le valigie, piazzando dietro il cinema Alcione una macchina di copertura. Dunque, per il sopralluogo ci sono Careccia, Carluccio e un marsigliese. I tre entrano nel bar all’angolo, che è di fronte a una banca e un impiegato chiama la questura, segnalando facce sospette. Così arrivano due volanti e l’agente Ripani scende e spara, colpisce Mario Carluccio al fianco, ma Mario spara a sua volta e centra Ripani con sei colpi, e nel frattempo un altro poliziotto, Zanetti, spara e prende Mario in fronte, e cade accanto a Ripani, sono lì, uno accanto all’altro, e in via Molino delle Armi riesco a caricare Pinella, il migliore di tutti noi, e Renato, e me li porto via. Renato diceva sempre che con me dietro e con Colia davanti sarebbe andato contro chiunque. Colia aveva carisma, lui aveva la batteria della Comasina, io quella di via Padova, Mario Carluccio i rapinatori della Brianza. Ci consideravamo un’élite, ma eravamo una miscela esplosiva. Renato era brillante, divertente, quando si lavorava era molto deciso, anche perché la sua megalomania era troppo forte, non lo faceva arretrare su niente. Tant’è vero che siccome ero stato nei paracadutisti avevamo pensato di attaccare la caserma a Pisa, per prenderci i Fal, non se n’è fatto niente perché avevamo troppa carne al fuoco».
Messi in cima alla lista dei ricercati, cominciano anche con i sequestri di persona. Il più citato è quello di Emanuela Trapani, che aveva sedici anni: «S’è detto anche troppo, lei stessa sa che non è stata trattata male. Una volta, per esempio, s’è lamentata che nella stanzetta dov’era chiusa vedeva la tv in bianco e nero, allora Renato l’ha portata dove stavano gli altri, davanti alla tv a colori e tutti si sono messi in testa il cappuccio per non essere riconosciuti, lei era l’unica a vedere il programma a volto scoperto». Possibile? Una scena che sembra tratta da un quadro di Magritte? «Oppure, un’altra volta s’è lamentata mangiava da schifo, e voleva la pizza, ma solo quella che fanno vicino casa sua. Renato ha detto va bene, ma ai tri or de not soo andà mii in quella pizzeria».
A Milano non s’è mai capito come nacque la guerra tra la banda Vallanzasca e la banda Turatello. Non si davano ombra, frequentavano gli stessi locali, uno del Lello Liguori in corso Europa, uno in piazza Santa Tecla, poi il famoso Derby del cabaret milanese di via Monterosa, un teatrino in Porta Romana dove si esibiva Gianni Magni, il William’s, il New Gimmy, che era di Turatello, e per ballare si andava al Parco delle Rose, ma solo in estate. Perché dunque spararsi addosso? Semplicemente perché esistono notti difficili che non si dimenticano: «Ero con Vito Pesce, venivamo via dalla latteria che aveva in corso Lodi Lia Zennari, era tardissimo, ma andammo giù al night che Francis Turatello aveva in piazza Cantore, a fianco della gelateria Pozzi. Dentro c’erano già Tigre e Spaghettino, io ero con le stampelle e avevo lasciato all’Isola la mia auto, con un mitra nel cofano. Non sapevo che c’era un casino in corso, perché Spaghettino aveva assaltato una bisca di Francis e il mio amico Vito nella stessa bisca aveva cambiato un assegno da 25 milioni per perdita di gioco. Quindi, poteva sembrare che c’entrasse, comunque li lascio a discutere, sono tutti amici, e vado tranquillamente a prendere la macchina, ma quando torno c’è Vito che esce tutto sballato. “Guarda”, ed è pieno di sangue. Allora tiro fuori il mitra e glielo do, lui corre alla porta del night e mitraglia verso le scale, poi salta su in macchina e filiamo. Mi dice che Francis ha acchiappato Spaghettino, gli ha aperto la gola e ha detto al Tigre di bloccare Vito, ma quello ha preso il coltello per tagliare il pane e gliel’ha infilato nella schiena. La lama gli era rimasta dentro, l’ha estratta, è tutta storta. “Rossano, mi dice, non farmi morire, vendicami”. Sono tornato indietro e ho sparato anch’io, sfiorando Turatello».
Da allora, le bande s’inseguono per farsi fuori, anche se nel night sia Pesce sia Spaghettino s’erano salvati: «Una volta ci arriva dritta che portano a Turatello i soldi delle bische, allora io, Renato e Tonino Furiato, che poi morirà nella sparatoria al casello di Dalmine, gli fottiamo tutti i soldi, e non ci siamo tenuti 5 lire, li abbiamo fatti arrivare ai detenuti: “Dite a Francis che stavolta prendo soldi, la prossima volta la pelle”, è il messaggio che lascia Renato. E quasi ci riusciamo in via Mac Mahon, quando vediamo due auto ferme davanti al bar della sorella dell’attrice Agostina Belli e riconosciamo Gianni Scupola e Spedicato. “Se ci sono loro, c’è anche Francis”, allora torniamo indietro, nel frattempo si sono spostati, ma li affianchiamo, Renato si sporge dal finestrino e gli tira due cannonate con la 357 Magnum e filiamo. E l’unico che salta giù dalla macchina chi è? Francis, con la mitraglietta Skorpion, e ci corre dietro. All’altezza di via Caracciolo sento un colpo alla testa, “Renato forse è finita” dico, invece erano pezzi di vetro. La strada fa un saltino, quello mi ha salvato. La sera ho contato tutti i buchi che aveva fatto nella carrozzeria, pareva un gruviera. Quando abbiamo fatto pace, Francis voleva sapere, “Ma chi era quell’autista della madocina?”».
La banda Vallanzasca finisce la sua corsa nel febbraio del ’77: «Renato era andato nella bergamasca per curare un nipote del miliardario Pesenti e io, con Tonino Rossi e Merlo a Torino, per un nipote di Pirelli. Volevano mettere a segno due sequestri e scappare dall’Italia. Renato quando guidava faceva lo scemo, sorpassa a destra, cambia corsia, così qualcuno segnala un auto con tre drogati a bordo e la polizia va a bloccarli al casello. Un agente tiene il mitra puntato, Renato scende dalla macchina e invece dei documenti, come faceva sempre, prende un libretto d’assegni, l’agente istintivamente abbassa il mitra e lui gli spara al volo, centrandolo al cuore. Scende anche Furiato, che spara all’agente a terra, ma dall’altra auto rispondono. Furiato muore, Renato che cercava di prendere il mitra all’agente morto viene centrato al sedere. Riesce a scappare a piedi e vado io a prenderlo. Lo portiamo a fare le lastre in un centro diagnostico di Milano, poi a Roma, dove abbiamo un contatto con un medico. Ma il destino è strano».
Saranno presi tutti, ma non grazie alle indagini: «Ci sono due sorelle che hanno ciascuna un amante, una sta con il medico che cura i criminali, e l’altra con un colonnello dei carabinieri, capito che intreccio? Poi il medico è morto, l’hanno riconosciuto solo dallo stetoscopio, ma non siamo stati noi».
Quel «noi» della Comasina s’è perso. Antonio Colia, uscito dal carcere, è morto in un incidente di moto, e Cochis non è potuto andare al funerale: «Ho il divieto di frequentare pregiudicati e là, per salutarlo, c’era tutta la Milano di quegli anni», dice e, per quanto possa apparire strano a chi non conosce la mala, Cochis diventa talmente triste che smette di parlare.
Milano, l’ultimo saluto al boss tra applausi e alleanze. Volo di palloncini e parata di capi clan al funerale spettacolo di Mimmo Pompeo. In chiesa serbi, skin e le curve «nere» dello stadio. Dalla Svizzera due uomini a bordo di una misteriosa Porsche, scrive Cesare Giuzzi il 19 marzo 2017 su “Il Corriere della Sera”. Venti palloncini bianchi e rossi salgono verso il cielo di via Antonini. Dalla chiesa di Santa Maria Liberatrice un applauso saluta l’uscita della bara di legno chiaro. Ad accogliere l’anima di Mimmo Pompeo, la mattina del 28 febbraio, c’è un cielo grigio e carico di pioggia. Dentro e fuori la chiesa ci sono uomini che si muovono circospetti. A gruppetti di due o tre per volta. Ci si scambia un saluto veloce, ma soprattutto si osserva. Gli occhi cercano chi manca. Perché l’assenza, ai funerali come ai matrimoni, segna alleanze rotte, accordi spezzati, amici e nemici. E l’assenza a un funerale come quello di Mario Domenico Pompeo, morto a 64 anni per un tumore, prima ancora che uno sgarbo verso il morto e la sua famiglia, può valere una croce sul proprio futuro.
Porsche e trafficanti di droga. Ci sono due tizi arrivati dalla Svizzera, cantone dei Grigioni, stretti in giacche blu troppo leggere per il cielo incerto di fine febbraio. Hanno indosso identiche scarpe Hogan, stesso colore del blazer. La Porsche Cayenne è intestata a una società di leasing, viene parcheggiata frettolosamente davanti all’ingresso della chiesa, tanto che sarà necessario spostarla poco più tardi per permettere ai mezzi delle pompe funebri di accompagnare il feretro di Mimmo verso l’ultimo viaggio. I due tizi arrivati dai Grigioni hanno gli occhi lucidi. Restano in piedi sul sagrato e fissano lo sguardo oltre il portone della parrocchia lasciato aperto. Si vede l’altare e il prete che celebra le esequie davanti ai familiari in prima fila. Ma si vedono anche tizi serbi vestiti in scarpe nere e giubbotto scuro di pelle. Ci sono i ragazzi dello stadio, cresciuti a curve ed estrema destra, e con loro il capo milanese del movimento skin Domenico Bosa, quel Mimmo Hammer amico del trafficante montenegrino Milutin Tiodorovic e degli uomini del clan di Pepé Flachi. Ci sono i Tallarico e i Pittella, nomi in ascesa nel quadrilatero delle vie dei fiumi di Bruzzano. Perché nonostante Mimmo Pompeo vivesse da anni in via Antonini, il suo regno è sempre stato dalla parte opposta della città. In quella Bruzzano dove ha rappresentato gli interessi della cosca Arena di Isola Capo Rizzuto nel Crotonese, o a San Siro dove per trent’anni ha gestito il ferreo e inespugnabile controllo dei paninari, quelli della salamella fuori dallo stadio che senza il benestare di Pompeo non avrebbero neppure potuto versare un bicchier d’acqua. C’era tutta la malavita che conta quel 28 febbraio in via Antonini, riunita per le grandi occasioni: compaesani calabresi, ma anche siciliani e slavi. Perché il potere dei Pompeo inizia negli anni Ottanta all’epoca dei catanesi di Epaminonda, affonda le sue radici nella parentela con Ginetto Di Paola, killer degli otto morti al ristorante «La strega» di via Moncucco nel ‘79, fino all’alleanza con i calabresi del boss Pepé Flachi, legato al potentissimo clan De Stefano di Reggio Calabria. Lo chiamavano il letterato, il filosofo, perché aveva la casa piena di libri. Nessuno sa se li abbia letti tutti per davvero, ma dicono fosse soprattutto un uomo di pace. Di mediazione. Il collante che per anni ha tenuto in piedi le flebili alleanze tra killer cocainomani e boss della droga, ras di quartiere e piccoli padrini. E ora la morte di Pompeo potrebbe riaprire vecchie ferite e lasciare campo libero alla brama dei giovani cresciuti mentre i padri marcivano in galera dopo le retate e gli ergastoli degli anni Novanta. E ridisegnare la mappa della criminalità a Milano. Perché nonostante per la politica lo spauracchio siano soprattutto stranieri e povericristi, la malavita a Milano resta potente ed effervescente.
La coop e Mafia capitale. Lo confermano gli ultimi due agguati avvenuti a Bruzzano e a Quarto Oggiaro, che con gli uomini dei Pompeo hanno più di un legame. E lo indicano le ultime analisi degli investigatori che si occupano di droga e criminalità organizzata: «A Milano nonostante qualcuno forse può pensare il contrario — riflette un inquirente — coca e mafia vanno di pari passo. Si pensa molto al riciclaggio e alle infiltrazioni finanziarie, ma la mafia povera, quella delle estorsioni e della droga sta risalendo indisturbata» In mezzo ci sono traffici, vecchi nomi (sempre gli stessi) ma anche affari, che somigliano agli scenari evocati da Mafia capitale. Con una cooperativa che dà lavoro ai detenuti semiliberi e che ottiene appalti pubblici in affidamento diretto e d’urgenza grazie ai contatti con le istituzioni e la politica. Un caso che riguarda in particolare un comune dell’hinterland di Milano. Motore (e ideatore) della cooperativa un ex detenuto per concorso in omicidio, un nome pesantissimo della mala degli anni Novanta. Con lui, proprio grazie al lavoro all’interno della cooperativa, anche un ex killer (fine pena 2030) ancora molto influente sulla mala della zona. E subito tornato a interessarsi di droga ed estorsioni. Altra storia, altri scenari. Sui quali gli accertamenti sono appena partiti ma che vedrebbero insieme malavitosi e complicità politiche locali, in particolare con esponenti cresciuti nelle file del Partito democratico. «Un caso di scuola», raccontano gli investigatori. Di come la mafia è tornata a riprendersi il terreno lasciato dopo le retate degli anni Novanta. Del resto, lo dicevamo, i nomi sono sempre gli stessi. E questo è importante per due motivi: una garanzia di «serietà» nell’ambiente criminale, e la certezza che nessuno avrà bisogno di farsi altre domande di fronte a nomi che da più di trent’anni segnano la presenza criminale nell’hinterland di Milano.
Pallottole ed equilibri mancati. Ma torniamo a quel 28 febbraio e alle esequie del fu Mimmo Pompeo. In chiesa insieme ai parenti c’erano anche uomini della famiglia Pittella. Anche loro sono originari del Crotonese e come i Pompeo vivono da una vita a Bruzzano. Qui, in via del Danubio, i poliziotti del commissariato Comasina hanno arrestato il 13 marzo Paolo Pittella, 37 anni, una lunga lista di precedenti sulle spalle. Stava per salire su una Porsche Panamera e sparire verso la Calabria. Un mese prima, la sera del 15 febbraio, aveva avuto una discussione in strada con un uomo di 57 anni, titolare di una lavanderia di via Achille Fontanelli, Giorgio Melis. Gli aveva sparato un colpo di pistola a una gamba. Nell’ambiente si pronuncia una parola a bassa voce: estorsione. E anche se gli investigatori per il momento vanno molto cauti, sono anni che si parla del ritorno del racket nelle zone della Comasina e di Bruzzano. Del resto lo hanno confermato anche le inchieste antimafia Redux e Caposaldo, che sei anni fa hanno riportato dietro le sbarre gli uomini di Pepé Flachi. Paolo Pittella, in passato, è stato fermato dalle forze dell’ordine insieme a Gino Pompeo, nipote di Mimmo, e dal quale si dice abbia ereditato il controllo del business dei paninari. Con Pittella viene controllato anche un altro pregiudicato per «rapina, sequestro di persona, armi e droga». Si chiama Salvatore Geraci, ed è legato ai Pompeo e ai Tallarico. Tre giorni dopo il funerale di Mimmo, a Milano si torna a sparare. E questa circostanza, secondo gli investigatori, potrebbe non essere casuale. Ma anzi un segnale che qualcosa nei delicati equilibri della mala rischia di rompersi. È il pomeriggio del 3 marzo e davanti a un bar di via Longarone, a Quarto Oggiaro, viene ferito a una gamba Gianluca Ricatti, 27 anni, qualche precedente legato allo spaccio. Suo padre Giuseppe ha un lungo pedigree criminale, soprattutto per rapina. Per gli investigatori dietro all’agguato c’è un regolamento di conti legato a un debito di droga. Pompeo, Pittella, Tallarico, Flachi, Scirocco, Toscano, nomi che tornano anche in un’altra storia che ruota intorno ad un’officina della zona nord di Milano. Stavolta insieme alla droga si parla di traffico d’armi e di doppifondi ricavati in auto sportive. Affari che servono a mantenere intere famiglie e che ingrassano i clan della droga che dalla periferia cittadina si stanno trasferendo verso l’hinterland dove il presidio delle forze dell’ordine è inferiore e dove, tra capannoni, aree dismesse e villette identiche, si confondono senza attirare l’attenzione. Nella geografia criminale ci sono luoghi che resistono. Come la Comasina, lo stesso Quarto Oggiaro, Bruzzano, ma anche l’intramontabile piazza Prealpi, regno del clan Serraino-Di Giovine. I Serraino sono stati spazzati via dalla seconda guerra di mafia in Calabria a metà degli anni Ottanta. Ai Di Giovine è toccato invece in dote il pentito Emilio, che grazie alla sua collaborazione negli anni Novanta ha portato a un centinaio di arresti. Oggi ci sono quelli che allora erano solo bambini. E il traffico di droga è ripreso. Completamente. Ma il clan di piazza Prealpi potrebbe cadere ancora a causa di un collaboratore. Un narcos catturato di recente in Spagna che dal carcere sta raccontando affari e anche il (presunto) progetto di un attentato a un uomo delle istituzioni.
DI…BERGAMO. Inizio e fine della "mala" bergamasca, scrive il 15 agosto 2017 Luca Bonzanni su "La Repubblica". Dalle voci dei protagonisti sgorga il racconto di un fenomeno peculiare, caduto quasi nel dimenticatoio. È la Bergamo a cavallo degli Anni Settanta e Ottanta: rapine in banca, sequestri di persona, gioco d'azzardo. Ad agire sono gruppi autoctoni, biografie forgiate tra le valli della Bergamasca, con strutture organizzative solide, una diffusione capillare, un codice culturale forte e vincolante. La tesi "La malavita bergamasca: nascita, evoluzione, eredità di un fenomeno criminale", è lo spaccato di una criminalità che non c’è più, sgretolatasi di fronte all’avanzata di nuovi business illegali e di nuovi protagonisti, quella 'Ndrangheta giunta a colonizzare anche gli ultimi spicchi liberi del profondo Nord. Per quasi un ventennio, invece, il lato oscuro di Bergamo è stato rappresentato soprattutto dall’insieme organico delle «batterie», le «forme amicali-organizzative dei rapinatori degli anni Settanta», sorte prima in valle Seriana e poi «esplose» in val Cavallina sulla base di rapporti amicali e familiari, costantemente mediati dal ruolo fondamentale della «dimensione di paese». E' in quelle piccole cittadine di poche migliaia di abitanti, spesso arroccate nella morfologia della valle, che solidificano coperture e complicità tra criminalità e tessuto sociale. Perché? Perché, raccontano banditi, giudici, osservatori intervistati nel lavoro di ricerca, l’«assalto alle banche» fa «chiudere un occhio». Non è – a differenza dell’estorsione mafiosa – il piccolo commerciante a venir colpito: a finire nel mirino del crimine, ribaltando la tradizionale «asimmetria» carnefice-vittima, è la ramificazione territoriale di un’istituzione – la banca – avvolta di un forte ruolo economico, sociale, persino politico. Dall’inizio degli Anni Settanta alla fine degli Ottanta, la malavita bergamasca attraversa profonde trasformazioni. All’inizio c’è la scelta criminale di giovani appena usciti dalla ricostruzione post-bellica, poi è il turno di ragazzi cresciuti all’ombra del boom economico, nella continua tensione tra un benessere che lentamente va affermandosi e un consumismo travolgente che si riflette da Milano, metropoli di riferimento. Le “batterie” si amalgamano all’interno del carcere: è nel penitenziario cittadino che si forgia il codice culturale della malavita bergamasca. I membri «anziani» cooptano i giovani, sottoponendoli a un rito di iniziazione concreto, la «prova del silenzio»: chi non parla viene «protetto», entra in una «società di mutuo soccorso» basata sulla condivisione dei proventi delle rapine e sarà poi coinvolto in nuove rapine. La storia della malavita bergamasca racconta inoltre di un «pendolarismo criminale» verso Svizzera e Francia e della tentazione del grande salto: i sequestri di persona, che portano talvolta a contatti – rapimenti su commissione, compravendita di ostaggi – che lambiscono il mondo della ‘Ndrangheta. A fine Anni Ottanta, il fenomeno si esaurisce. Pesano i fattori tecnologici che «blindano» le banche, i fattori investigativi che conducono a pesanti carcerazioni, ma anche fattori criminali: il boom della droga e la crescente posizione delle mafie al Nord avviano la stagione della malavita bergamasca al tramonto. Nell’«atomizzazione» di questa criminalità autoctona, resistono solo sparute bande: gli ultimi bottini delle rapine diventano allora l’«accumulazione originaria» per un nuovo business illegale, l’usura. Ma il prestito a strozzo cambierà profondamente il rapporto tra questa criminalità e il tessuto sociale circostante.
Spaccio e rapine, operazione contro ultras dell’Atalanta: indagato anche il figlio del procuratore di Brescia. Ventisei le misure cautelari per detenzione e spaccio di stupefacenti, estorsione, rapina e resistenza a pubblico ufficiale. Al figlio del magistrato Tommaso Buonanno, Francesco, contestato lo spaccio di gruppo che sarebbe avvenuto nel suo appartamento di Bergamo, che si trova nello stesso stabile di quello in cui risiede il padre procuratore, scrive Andrea Tornago il 7 marzo 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Nuova tegola sul procuratore di Brescia Tommaso Buonanno, già nel mirino del Csm per la “fuga” nell’arco di sei mesi di 9 pubblici ministeri su 21. In un’operazione della Squadra mobile di Bergamo e dello Sco della Polizia questa mattina è stata eseguita una perquisizione nell’abitazione del figlio, Francesco Buonanno, colpito dalla misura cautelare dell’obbligo di firma disposta dal gip di Bergamo. Il figlio del magistrato è finito nell’indagine condotta dal pm bergamasco Gianluigi Dettori nei confronti di 41 persone, in gran parte tifosi dell’Atalanta, che prima di assistere alla partita acquistavano e assumevano droga vicino allo stadio, incappucciandosi poi per compiere azioni violente. Ventisei le misure cautelari per detenzione e spaccio di stupefacenti, estorsione, rapina e resistenza a pubblico ufficiale. A Buonanno è contestato solo lo spaccio di gruppo che sarebbe avvenuto nel suo appartamento di Bergamo, che si trova nello stesso stabile in cui risiede il padre procuratore. La vicenda ha creato imbarazzo per il ruolo del padre del ragazzo coinvolto nella maxi inchiesta antidroga. Buonanno è infatti a capo della Procura che si occupa della Direzione distrettuale antimafia sotto cui ricadono anche gli uffici giudiziari di Bergamo. Prima di arrivare a Brescia, quando era ancora procuratore di Lecco, figurava tra gli indagati di un’inchiesta condotta dai colleghi bresciani su una comunità di recupero per tossicodipendenti, la ultracattolica Shalom di Palazzolo sull’Oglio. L’accusa per il magistrato era di sequestro di persona nei confronti del figlio Gianmarco, che sarebbe stato trattenuto per tre anni nella struttura contro la sua volontà: un fascicolo poi archiviato su richiesta del procuratore aggiunto Sandro Raimondi il 9 maggio 2013, poche settimane prima della nomina di Buonanno a capo della procura bresciana. Nel giugno del 2016 il Csm aveva aperto un procedimento nei confronti del procuratore Buonanno, in seguito al trasferimento di 9 pm, inclusi i due magistrati che sostenevano l’accusa nel processo Shalom, i pm Francesco Piantoni e Leonardo Lesti. Su richiesta del consigliere Nicola Clivio, la Prima commissione ha avviato un’istruttoria per accertare se “una così significativa defezione sia dovuta al casuale convergere di scelte personali dei magistrati, ovvero se criticità strutturali e ambientali abbiano in qualche misura determinato o favorito il fenomeno”. Ora la misura cautelare sul figlio del procuratore, su richiesta di un ufficio del suo stesso distretto, potrebbe portare a una nuova segnalazione al Csm, questa volta da parte della Procura generale di Brescia.
Ultrà Atalanta: 20 arresti per spaccio, rapine e violenze negli stadi. Indagato anche il figlio del procuratore. Giri di cocaina dentro e fuori lo stadio, poi i raid incappucciati. Coinvolti anche un 73enne e 63enne. Obbligo di firma per il figlio del procuratore capo di Brescia Buonanno, risponde di detenzione e spaccio di droga, scrive Paolo Berizzi il 7 marzo 2017 su "La Repubblica". I "bomboni" e le torce sparate contro la polizia intervenuta per fermare un assalto a un pullman di tifosi interisti. Le cariche in pieno centro, in mezzo allo shopping del sabato pomeriggio, come non si erano mai viste prima a Bergamo. Gli scontri di quel 16 gennaio 2016 al termine di Atalanta-Inter erano rimasti impressi nella memoria di chi c'era: ma tutto il resto, o meglio il "contorno" - lo spaccio sistematico di cocaina prima e durante le partite, gli scontri scatenati sotto effetto delle sostanze, le rapine, i tentativi di estorsione e le spedizioni punitive per recuperare i crediti delle attività di spaccio - è un mondo che viene a galla adesso, almeno da un punto di vista investigativo. La Squadra Mobile di Bergamo e lo Sco della polizia di Stato ci hanno lavorato su per un anno e mezzo: il risultato, per ora, sono venti persone arrestate, quasi tutti ultrà atalantini. Tra gli indagati anche il figlio del procuratore capo di Brescia Tommaso Buonanno. Francesco Buonanno ha avuto la misura cautelare dell'obbligo di firma disposta dal gip. Il figlio del magistrato dovrà presentarsi il sabato e la domenica in questura a Bergamo per firmare. In mattinata le forze dell'ordine hanno effettuato una perquisizione a casa del figlio del magistrato: è accusato di detenzione e spaccio di droga. Ma lo spaccio era "una attività sistematica per una parte degli ultras nei confronti dei supporter", ha spiegato il direttore dello Sco, Alessandro Giuliano. Tra i 42 indagati figura anche Claudio "Bocia" Galimberti, leader della curva atalantina lontano dagli stadi perché oggetto di nove Daspo. Dalle indagini emerge quello che, secondo gli investigatori, era diventato una sorta di modus operandi adottato dalle frange più estreme della Curva Nord: caricarsi di coca prima di incappucciarsi e entrare in azione all'esterno dello stadio per cercare lo scontro con le tifoserie avversarie. Gli scontri dopo Atalanta-Inter del 16 gennaio di un anno fa sono stati uno dei casi più eclatanti. Stando all'indagine denominata "Mai una gioia" (dal titolo di uno striscione esposto in curva dagli ultrà, anche una loro frase abituale), c'era dunque un giro di spaccio nell'ambiente della tifoseria organizzata nerazzurra. Alcuni dei soggetti fermati sarebbero stati anche protagonisti di rapine. La polizia ha stretto il cerchio intorno a un gruppo di italiani, a un cittadino albanese e un serbo, in prevalenza ultras dell'Atalanta, dediti alla cessione di ingenti quantitativi di droga, anche tra i tifosi della tifoseria stessa. Tra gli indagati figurano anche un 73enne e 63enne. Le misure cautelari firmate dal giudice delle indagini preliminari (i reati di cui si parla sono resistenza a pubblico ufficiale, detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti, rapina) riguardano dunque una ventina di persone: 11 finiranno in carcere, le altre 9 saranno sottoposte ad altri provvedimenti, tra arresti domiciliari e obblighi di firma. I particolari dell'inchiesta verranno spiegati nel dettaglio dal procuratore della Repubblica di Bergamo, Walter Mapelli, dal sostituto Gianluigi Dettori e dal questore Girolamo Fabiano, con i dirigenti dello Sco. Si torna dunque a parlare degli ultrà dell'Atalanta, e ancora una volta per casi di cronaca nera e giudiziaria. Uno spartiacque, in questa lunga storia di tifo e violenze, era stato il maxi processo a carico di 143 persone (tra cui anche alcuni ultrà del Catania) per una scia di episodi tra i quali l'assalto alla Berghem Fest di Alzano Lombardo ad agosto 2010: bombe carta lanciate durante la manifestazione della Lega Nord per protestare contro l'introduzione della tessera del tifoso voluta dall'allora ministro dell'Interno, Roberto Maroni. Il maxi processo agli ultrà, procedimento inedito per Bergamo, si era chiuso in primo grado con condanne per 47 anni, 10 mesi, 10 gg di carcere e 30 mila euro di multe, nel complesso, a 50 supporter atalantini (37 quelli assolti). L'imputato numero 1 era proprio Claudio "Bocia" Galimberti. Per lui il pm Carmen Pugliese aveva chiesto una pena di sei anni: il giudice Maria Luisa Mazzola l'ha dimezzata (tre anni). La sentenza di appello, a novembre 2016, ha confermato nel complesso il verdetto di primo grado ma ha ridotto di un mese le pene ai tifosi che hanno partecipato all'assalto di Alzano Lombardo perché il reato di radunata sediziosa è stato considerato prescritto (anche la pena inflitta a Galimberti è stata scontata a 2 anni e 11 mesi). Gli ultrà e il loro capo, dunque. Quel "Bocia" che, nonostante i Daspo, secondo la Digos continua a essere il leader indiscusso della curva atalantina. Tra le misure applicate a Galimberti anche la sorveglianza speciale (riservata solitamente ai mafiosi): la sera del 5 settembre 2015, fresco di notifica di un nuovo Daspo quinquennale, mentre allo stadio Comunale l'Atalanta giocava per il trofeo Bortolotti, il Bocia si presentò in questura spalleggiato da un centinaio di ultrà. A quanto pare non fu solo un sit-in di protesta: stando alle accuse Galimberti - già protagonista in passato di un'aggressione ai danni del giornalista de l'Eco di Bergamo, Stefano Serpellini - entrò in questura arrabbiatissimo, minacciando e insultando il dirigente della Digos, Giovanni Di Biase. Comportamento che gli costò una denuncia per minacce aggravate e oltraggio a pubblico ufficiale.
DI…VARESE. Piste ciclabili, truffa milionaria alla Regione Lombardia: "Fondi pubblici per percorsi e bike sharing inesistenti". Sono 18 tra amministratori, funzionari pubblici e imprenditori gli indagati al termine degli accertamenti della guardia di finanza che hanno segnalato il caso alla Corte dei conti: quasi 7 milioni di euro i finanziamenti stanziati per i progetti del Varesotto che avrebbero dovuto collegare le stazioni ai punti di noleggio delle due ruote. Il danno per le casse pubbliche è di 1.300.000 euro, scrive "La Repubblica" il 20 luglio 2017. Treno-bici per una mobilità sostenibile. La Regione Lombardia ci ha creduto e ha stanziato i soldi. Peccato che dei progetti che dovevano essere realizzati, nel Varesotto, per la Finanza, si è fatto poco o nulla. Sono 18 gli indagati dalla procura di Varese - tra amministratori, funzionari e pubblici impiegati, professionisti e imprenditori - al termine dell'operazione "Bike shadow" della compagnia di Luino, che ha fatto le pulci agli appalti da 6 milioni e 800mila euro che la Regione ha affidato. I reati contestati sono falso ideologico commesso da pubblici ufficiali, truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, abuso d'ufficio alla frode nelle pubbliche forniture, truffa aggravata ai danni dello Stato. Nel mirino dei militari di Luino sono finiti in particolare tre enti locali e alcune ditte che avevano vinto le gare per la costruzione di alcune piste ciclopedonali del basso e alto Varesotto. Le indagini si sono concentrate sulla fine che hanno fatto i contributi regionali, pari a 6.800.000 euro, di cui hanno beneficiato 19 enti locali, contributi assegnati nell'ambito di un bando pubblico, previsto dalla Legge Regionale nr. 7/2009, "Interventi per favorire lo sviluppo della mobilità ciclistica". Il bando prevedeva, quale aspetto imprescindibile per l'ottenimento del contributo regionale, la realizzazione di piste ciclopedonali che collegassero le stazioni ferroviarie ai punti di approdo della navigazione ad esempio, con la realizzazione di sistemi bike sharing, parcheggi per biciclette, velostazioni, sovrappassi ciclabili, cartellonistica ecc. Le indagini hanno permesso di accertare che, nell'ambito dei tre appalti esaminati, per un valore complessivo di 2.300.000 euro, molte opere non erano state realizzate o comunque non erano funzionanti, nonostante il termine dei lavori fosse ormai scaduto da tempo. Tuttavia, allo scopo di percepire ugualmente i contributi regionali, pubblici funzionari, progettisti, direttori dei lavori e imprese, attestavano falsamente come regolari i lavori eseguiti e le forniture ricevute. Gli amministratori dei tre enti locali - non avendo realizzato in parte quanto previsto dal bando, al quale hanno partecipato e vinto, ottenendo punteggi che hanno permesso loro di aggiudicarsi i cospicui finanziamenti, a scapito di altri enti locali partecipanti - hanno ricevuto illecitamente dalla Regione Lombardia, soggetto danneggiato, oltre 1.380.000 euro di contributi pubblici. I finanzieri hanno segnalato il caso alla procura regionale presso la Corte dei conti.
PARLIAMO DEL PIEMONTE E DELLA VALLE D’AOSTA.
Di…Torino. Torino, dove convivono tante mafie, scrive Paolo Palazzo il 30 giugno 2017 su "La Repubblica". Paolo Palazzo - Maggiore dei Carabinieri della sezione di polizia giudiziaria Procura di Torino. 1995, uno dei tanti lunghi viaggi in macchina in giro per l’Italia. Seduto sul sedile posteriore con un uomo che aveva passato la sua vita in una organizzazione mafiosa e che ora stava collaborando con la giustizia, raccontando di importazioni di container pieni di cocaina che dalla Colombia arrivavano in Italia e di un considerevole numero di omicidi al quale lui stesso aveva partecipato. In quel viaggio mi raccontava che la sua organizzazione si era accorta che a Torino, città dove lui viveva, vi era una numerosissima presenza di prostitute nigeriane e, con tutta probabilità, vi era un gruppo criminale che le gestiva e ne traeva i profitti. Quest’altra presenza era per loro intollerabile e lui e i suoi compagni avevano pensato, fortunatamente era rimasta solo una intenzione, di ferire a colpi di pistola una di queste sfortunate, scelta a caso, per ottenere che “qualcuno si presentasse da noi per parlare” perché non era pensabile che altre strutture criminali potessero agire sul territorio, crescere e costituire per loro un potenziale futuro pericolo. La sua analisi prevedeva la probabile scomparsa nel futuro, o almeno un forte ridimensionamento, delle organizzazioni mafiose italiane che in una decina d’anni non sarebbero state più in grado di contrastare le organizzazioni straniere che si affacciavano al nostro Paese con una forza e una spietatezza tale da impressionarlo: “Questi ti ammazzano per niente, scompaiono e non sai dove trovarli” mi disse. Torino, la città che ha vissuto gli attentati delle Brigate Rosse, i sacchetti di sabbia che proteggevano i soldati a guardia delle aule dove si svolgevano le udienze, aveva visto negli anni ’80 il processo alla mafia siciliana, il “clan dei catanesi”, che in quegli anni dividevano gli affari criminali con la 'ndrangheta calabrese che ucciderà il procuratore della Repubblica Bruno Caccia, uomo e magistrato intransigente che conviveva con alcuni colleghi di ufficio non altrettanto virtuosi e altri che con i mafiosi ci andavano a cena. Nella metà degli anni Novanta, Torino vivrà invece un processo contro decine di appartenenti alla 'ndrangheta calabrese che in quella stagione si stavano arricchendo con i traffici di droga dal Sud America e conquistando il controllo della città a colpi di pistola e morti ammazzati. Quindici anni dopo altre 150 persone saranno arrestate in un solo giorno per una indagine sulla 'ndrangheta che porterà allo scioglimento per infiltrazioni mafiose di due comuni della provincia torinese. Nel frattempo le forze di polizia e la magistratura hanno visto crescere organizzazioni criminali balcaniche, magrebine, africane, dell’Est Europa che si impongono e trovano spazio negli affari criminali. Oggi la criminalità mafiosa italiana e quella straniera convivono, di tanto in tanto sinergicamente. A volte, ricordo le parole di quel compagno di viaggio così particolare, a quella macchina in giro per l’Italia. Penso che la sua analisi fosse sbagliata. E che oggi è ancora più complesso di ieri.
La scoperta della 'Ndrangheta piemontese, scrive Roberto Sparagna il 28 giugno 2017 su "La Repubblica". Roberto Sparagna - Sostituto procuratore della Repubblica di Torino. Minotauro ha, ormai, più di dieci anni di vita. Non il personaggio mitologico ovviamente, ma l’indagine e poi il processo che vengono convenzionalmente chiamati con quel nome. Se torniamo indietro nel tempo, ai primi anni Duemila, non scopriamo in Piemonte rilevanti operazioni contro la criminalità organizzata di stampo mafioso. Occorre arrivare alla data dell'8 giugno 2011 giorno in cui venne data esecuzione alla misura cautelare che portò in carcere circa 130 persone gravemente indiziate di appartenenza alla ‘ndrangheta piemontese. Quel giorno venne alla luce “Minotauro” dopo una preparazione di quasi 6 anni. Tutto iniziò, infatti, nel 2006 quando nelle indagini collegate all’omicidio di Giuseppe Donà, una delle persone coinvolte nella vicenda, decise di collaborare con la giustizia e rivelò autori e causali del delitto. Ma non solo. Riferì della sua appartenenza alla ‘ndrangheta. Disse di essere stato affiliato in Calabria, in un piccolo paese della Locride e poi di essere stato “operativo” in Piemonte e di aver prestato servizio in una filiale della ‘ndrangheta (denominata “locale”) aperta in Torino. Per il Piemonte iniziava così una pagina interessantissima di storia giudiziaria poiché le dichiarazioni di quel collaboratore consentirono di svelare una realtà criminale che sembrava da tempo scomparsa nelle sue manifestazioni piemontesi. Quel collaboratore di giustizia si chiamava Varacalli Rocco, nato nel 1970. Le sue dichiarazioni rilevarono l’esistenza di una struttura organizzativa criminale diffusa su gran parte del territorio piemontese e ripartita in numerosi “locali”, ognuno dei quali composto da una cinquantina di affiliati. Le successive sentenze accertarono l’esistenza di 12 locali di ‘ndrangheta piemontese e portarono alla condanna di più di centoventi persone per associazione mafiosa con più di 1000 anni di reclusione irrogati. Negli anni successivi altri collaboratori di giustizia fornirono elementi utili alla ricostruzione dell’organizzazione criminale (così Rocco Marando, Cristian Talluto, Nicodemo Ciccia) permettendo agli inquirenti di acquisire un bagaglio di conoscenze ulteriori e di perfezionare la comprensione e l’analisi di un’associazione che fa della segretezza e dei rapporti di parentela la sua forza di coesione e di impermeabilità. Le informazioni raccolte vennero confermate dai risultati delle intercettazioni delle comunicazioni e dai servizi di osservazione della polizia giudiziaria. Emersero così le fortissime relazioni della ‘ndrangheta con esponenti politici e con amministratori locali (alcuni di questi condannati per concorso esterno), seguirono gli scioglimenti di alcuni consigli comunali per infiltrazioni mafiose ed emersero con evidenza le relazioni strutturali, organizzative e operative tra gli ‘ndranghetisti piemontesi e quelli residenti in altre regioni (principalmente la Calabria, ma anche la Lombardia, la Liguria, l’Emilia Romagna) e in altre nazioni (così in particolare il Canada, gli Stati Uniti, l’Australia). Il percorso investigativo non è ancora terminato, anzi può affermarsi che con Minotauro è rinato: i risultati conseguiti nel processo Minotauro (e nei procedimenti connessi) costituiscono le fondamenta di un nuovo modo di affrontare le manifestazioni nordiche della ‘ndrangheta. Un nuovo modo che trova pur sempre ispirazione nei più datati procedimenti che sul territorio piemontese videro negli anni passati estrinsecarsi i metodi mafiosi (si pensi, tra gli altri, al processo Cartagine, all’omicidio di Bruno Caccia e alle vicende concernenti i locali di ‘ndrangheta insediati nella Val Susa e nell’Ossolano).
Torino, la commissione d'inchiesta sulla tragedia di piazza San Carlo: ecco chi ha sbagliato. Dalle lacune nell'organizzazione alle richieste della polizia, dalle transenne alle bottiglie di vetro. I verbali delle audizioni, scrive Gabriele Giccione il 22 luglio 2017 su "La Repubblica". Una catena di lacune, omissioni, sottovalutazioni che hanno portato al disastro di piazza San Carlo, quando il 3 giugno rimasero ferite 1.527 persone, e tra queste Erika Pioletti, morta dopo dodici giorni di agonia. È quanto emerge dai verbali delle audizioni condotte dalla commissione di indagine istituita dal Comune di Torino. Centinaia di pagine raccolgono i racconti delle 22 persone convocate e sentite dalla commissione, per cercare di chiarire le cause che hanno portato al disastro di quella sera, davanti al maxischermo che trasmetteva la finale di Champions League: dalla sindaca Chiara Appendino all'ispettore dei vigili urbani in servizio quella sera, dal capo di gabinetto Paolo Giordana al referente dei volontari comunali della Protezione civile.
Le falle nell'organizzazione. Dalle carte viene confermato che per preparare la proiezione della finale Juventus-Real Madrid in piazza San Carlo vennero fatte soltanto tre riunioni, un terzo di quelle impiegate, venti giorni dopo, per l'organizzazione della festa di San Giovanni. "La prima volta che si parla di maxischermi - chiarisce la sindaca Appendino stando ai verbali pubblicati da La Stampa - risale all'interlocuzione con la Juventus per la festa dello scudetto". Si sarebbe dovuto allestire un maxischermo in piazza Castello, da mantenere fino al 3 giugno. A quel punto, con una mail inviata il 26 maggio dal dirigente Alberto Pairetto, il club comunica alla città, secondo il racconto della prima cittadina, di essere disponibile a farsi carico degli aspetti economici, ma non organizzativi della manifestazione. Il giorno stesso il capo di gabinetto Giordana convoca la prima riunione per piazza San Carlo con i rappresentanti di comune, vigili urbani e questura. E si decide di affidare a Turismo Torino, l'ente provinciale di promozione turistica, l'organizzazione dell'evento. La scelta viene fatta su input degli uffici del gabinetto. "Ovviamente ne ero informata ed ero d'accordo", conferma la sindaca.
Le richieste della questura. Alla seconda riunione, il 31 maggio (l'unica in cui si è parlato di ordine pubblico), la questura chiede che la "piazza venga chiusa per filtrare l'ingresso", racconta Mario Agaliati, funzionario dell'ufficio suolo pubblico. Una richiesta che, a detta di Chiara Bobbio, funzionaria dell'ufficio del gabinetto, sorprese tutti: "Prima di Capodanno - racconta - nessuno ci aveva mai detto di mettere i varchi. Sostanzialmente, c'erano quattro varchi, ma non così strutturati con le transenne, com'è successo invece il 3 giugno. Quando hanno detto di chiudere la piazza, tutti abbiamo un po'... cioè non so io, per esempio, penso non sia una cosa geniale... L'architetto era un po' preoccupato, perché ovviamente cambia la natura dell'evento... ma la Questura vince su tutto". Così, "la piazza venne chiusa alle 14.30", aggiunge Bobbio, "quando era già semipiena perché i primi erano arrivati alle 8 di mattina".
Le transenne e il vetro. Quando in piazza San Carlo si alza l'onda di panico, la folla travolge e abbatte le transenne. "Nella fuga si sono portati via le transenne. Molte persone si erano incastrate. Qualcuno aveva fratture", racconta Maurizio Rafaiani, presidente del nucleo provinciale di Protezione civile dei carabinieri. Ma la maggior parte dei 1.527 feriti è rimasto tagliato dai vetri rotti di cui era lastricata la piazza. Colpa dei venditori abusivi. "Mi hanno riferito che alcuni si erano posizionati già nella notte", testimonia il dirigente della polizia municipale Marco Sgarbi. I vigili raccontano di non avere le forze per rimuovere i loro furgoni e camion. La presidente dell'Ascom, Maria Luisa Coppa, denuncia il problema e chiama l'assessore al commercio Alberto Sacco, anche lui a Cardiff per la finale, che avverte Appendino: "Mi ha detto: "Ho presente la questione, stiamo cercando di risolverla. I vigili stanno facendo quel che possono"". Già, ma il comandante reggente dei vigili urbani Ivo Berti, precisa alla commissione di indagine: "Da Cardiff non ho ricevuto alcuna telefonata". Lo stesso il vice Sgarbi, che racconta di aver ricevuto un sms dal capo di gabinetto Giordana: "Mi riferiva che c'erano abusivi e bisognava fare qualcosa". Sgarbi va in piazza e racconta di essersi "limitato a sanzionare": "Interventi repressivi come i sequestri potevano causare problemi seri di ordine pubblico". Gli abusivi entrano in piazza dai varchi del parcheggio sotterraneo. Gli stessi che la commissione di vigilanza della prefettura, quel mattino del 3 giugno, aveva chiesto di presidiare. Ma il documento con le prescrizioni non arriverà mai in Comune.
L'assenza della politica. Quella sera la sindaca, sino ad allora titolare della delega alla sicurezza, è a Cardiff. Il vicesindaco è in vacanza. E i due assessori supplenti non sono stati allertati. "Dal punto di vista politico - conferma la sindaca Appendino - non c'era un assessore delegato ad essere presente".
Tutti i guai del primo anno da sindaco di Torino di Chiara Appendino. L'esponente del Movimento 5 Stelle è il primo cittadino più amato d’Italia. Ma nella città che amministra spuntano non pochi problemi, tra tagli che colpiscono le periferie, concessioni edilizie non apprezzate dalla base e casi delicati emersi dal bilancio, scrive Luca Piana l'1 giugno 2017 su "L'Espresso". «Vede questa riga del bilancio? Sono le risorse che possiamo spendere per le attività educative estive, come i laboratori nelle scuole per i ragazzi che restano in città. Vede la cifra? Con i tagli dello scorso luglio era stata portata a 5.404 euro, adesso è scesa a 1.303 euro. Secondo lei, che cosa possiamo farci con 1.303 euro?». A Torino la sede della Circoscrizione 5 occupa una vecchia conceria costruita a fine Ottocento in via Stradella, un mirabile edificio in mattoni rossi coronato da una torre con l’orologio, che segnava la voglia di affermazione sociale dei primi proprietari, la famiglia Durio. Nei grandi uffici, incupiti dalla boiserie d’un tempo, il presidente Marco Novello sfoglia l’elenco con i tagli decisi per il 2017 dalla sindaca Chiara Appendino. La cultura? Da 24.400 a 4.633 euro. Le iniziative sportive? Da 19.950 a 4.857 euro. «Nella narrazione della nuova amministrazione, questi contributi sono stati tagliati con la scusa che finivano in marchette agli amici. Non era vero, e non poteva esserlo, perché tutto viene finanziato attraverso bandi pubblici. E in quartieri tormentati come questi, con tanti anziani, anche solo proiettare un film in piazza o aiutare le persone disabili a fare sport può essere d’aiuto», racconta Novello, una lunga esperienza nel Pci, i corsi di amministrazione alle Frattocchie, il viaggio nella sinistra fino alla simpatia per il movimento di Giuliano Pisapia. Chiede Novello: «Ma lo sa perché l’erba nelle aiuole non viene tagliata?». Per comprendere la risposta a una domanda in apparenza semplice serve capire che cos’è successo in questo primo anno di guida della città da parte del Movimento 5 Stelle. Un anno fa, alle elezioni comunali, i 125 mila abitanti dei quartieri raccolti nella Circoscrizione 5 - Madonna di Campagna, Vallette, Borgo Vittoria e altri ancora - erano stati decisivi per il successo di Appendino. Qui, al ballottaggio, la giovane sindaca aveva quasi doppiato Piero Fassino, ottenendo un vantaggio che il voto del centro non era riuscito a erodere e le aveva permesso di mettere fine a 23 anni di egemonia del centro-sinistra. Da candidata, Appendino aveva battuto a tappeto questi quartieri e, anche dopo le elezioni, non ha smesso di incontrare i residenti, per ascoltare le necessità di periferie dove la disoccupazione morde, gli spazi pubblici sono spesso abbandonati, l’immigrazione crea disagi e necessità. Nelle urne gli slogan sulla Torino delle code davanti alle mense dei poveri, contrapposta alla scintillante città del turismo, avevano fatto presa, ribaltando un pronostico che dava Fassino favorito. Eppure, a distanza di un anno, se si interrogano i torinesi sui motivi del successo di Appendino - è il sindaco più amato d’Italia, secondo il “Sole 24 Ore” - le sorprese non mancano. E disorientano parecchio, se si ripensa al voto di un anno fa, con Appendino vincente nelle periferie impoverite e Fassino arroccato nei quartieri tirati a lucido del centro. Una risposta che si ascolta spesso sul perché la sindaca sta facendo bene, infatti, è legata alla sua capacità di evitare contrapposizioni fratricide e di collaborare con i nemici di un tempo, come il padre-padrone del Pd torinese, Sergio Chiamparino, o come Francesco Profumo, ex rettore del Politecnico, ex ministro del governo di Mario Monti, oggi presidente della Compagnia di San Paolo, la ricca fondazione che custodisce la quota più cospicua (il 9,8 per cento) nel capitale della maggiore banca italiana, Intesa Sanpaolo. Agli occhi di molti osservatori, è stato proprio questo atteggiamento concreto, non ideologico, a permetterle di portare a casa risultati come il boom del Salone del Libro, sopravvissuto alla fuga a Milano dei grandi editori e rilanciato affidandone la guida a un altro ex ministro, il dalemiano Massimo Bray. Lo stesso pragmatismo che le ha permesso di bussare alla porta delle due istituzioni che con i loro quattrini reggono la struttura culturale e sociale della città, la Compagnia di San Paolo e la Crt, l’altra fondazione bancaria torinese, socia di Unicredit, per chiedere sostegno a iniziative di varia natura. Il saper rompere le righe rispetto ai diktat del suo partito, rappresentare gli umori più sociali del movimento, contrapposti al populismo di altri esponenti, l’intelligenza e il sapersi rivolgere con il sorriso ai cittadini le vengono riconosciuti in modo unanime. Eppure, basta guardare oltre i bagliori del Salone per comprendere come il successo personale della sindaca sia offuscato da infiniti problemi, grandi e piccoli. I piani di analisi sono almeno due. Il primo riguarda le aspettative che ne avevano accompagnato l’elezione, il secondo i conti del Comune, che in queste settimane appaiono più traballanti che mai e che la giunta ha affrontato travolgendo i princìpi con cui aveva vinto le elezioni. Partiamo dal primo. Una possibile lettura dei fatti, poco politica, riguarda l’ansia della città nei confronti del futuro. Sotto la guida degli ultimi sindaci, un’idea Torino l’aveva seguita, ed era creare nuove opportunità con il turismo, l’università e i centri di trasferimento tecnologico nati attorno al Politecnico. La strategia ha funzionato solo a metà, come certifica la drammatica disoccupazione giovanile, ma il punto è che la città si era abituata ad avere un piano d’azione, mentre la sindaca non è sembrata finora proporne uno nuovo. Un piccolo esempio lo fa Marco Razzetti, presidente dell’Aniem Piemonte, associazione che raccoglie 80 aziende di costruzioni. A settembre era andato dall’assessore all’urbanistica Guido Montanari per presentare un’iniziativa chiamata Toc Toc. Racconta Razzetti: «Oggi c’è un elevato numero di persone che faticano a pagarsi un affitto ma che, con un piccolo sostegno, conservano tutte le possibilità di tornare pienamente nel ciclo lavorativo. Penso ai padri divorziati che ci hanno raccontato le cronache. Abbiamo deciso di lanciare un concorso per la ristrutturazione di un edificio in stato di degrado da destinare a abitazioni agevolate per queste persone, facendo un piano di fattibilità che prevede il contributo di team multidisciplinari. Credendo nei vantaggi del partenariato pubblico-privato, chiedevamo al Comune di contribuire con un immobile in disuso da anni, di circa 1.500 metri quadri: non per averlo definitivamente, sia chiaro, ma per sottoporlo come caso concreto ai progettisti. Non abbiamo avuto risposta e, alla fine, abbiamo deciso di procedere interamente con fondi privati». Su scala più ampia, qualche segnale sul fatto che Appendino fatichi a darsi obbiettivi di respiro più ampio arriva anche dall’associazione degli industriali di Torino, che per l’8 giugno ha convocato un forum per sottoporre alla sindaca riflessioni e proposte. Il presidente Dario Gallina, imprenditore plastico, dosa le parole: «Ci interessa poco la nostalgia del passato, vogliamo guardare avanti con proposte concrete, senza fermarci all’ovvia constatazione che i soldi non ci sono. Perché anche un tempo chiudere i bilanci non era facile e perché se il Comune non ha risorse, possiamo cercare di mobilitare i privati, dandoci una strategia di più lungo periodo». Quella strategia oggi manca? Gallina taglia corto: «Vogliamo riprendere il percorso definito dai piani strategici». Per comprendere, però, come la cogestione di Appendino con gli altri poteri cittadini non vada giù alla base basta leggere i messaggi su Facebook di Vittorio Bertola, il consigliere grillino che era con lei in Comune ai tempi puri dell’opposizione, poi scaricato. «A me la strategia politica del sindaco sembra evidente: posizionarsi in quell’area moderata di piccolo progressismo borghese, condito da omaggi ai salotti eleganti e buone relazioni con i poteri economici cittadini, in cui negli ultimi vent’anni è stato il Pd; un’area che da sempre ha in mano la città e che può permettere al M5S e ai suoi eredi di rimanere in sella per i prossimi vent’anni», ha scritto Bertola a maggio. La questione dei princìpi, in politica, non è di poco conto. E qui le ombre si infittiscono. Gabriele Ferraris, un giornalista che tiene un seguitissimo blog culturale, ha raccontato passo dopo passo le contorsioni della giunta sul tema della trasparenza sulle nomine. Arrivati al potere per sciogliere il coagulo di interessi che accusavano il Pd di alimentare, i Cinque Stelle avevano sventolato la bandiera dei bandi aperti e dei curriculum inviati per mail. Promesse spesso tradite, con nomine fatte quando il curriculum del nominato era arrivato fuori tempo massimo, bandi mai lanciati e altri disattesi. In uno dei casi più importanti, quello per il nuovo direttore del Museo del Cinema, una procedura pubblica aveva portato all’individuazione di un candidato - Alessandro Bianchi - che la giunta ha ritenuto troppo vicino al Pd. Così lo scorso gennaio, mesi dopo l’inizio della procedura, l’assessore Francesca Leon si è presentata in consiglio per rimangiarsi il risultato, dicendo che lo statuto del Museo andava ripensato. E senza spiegare perché, allora, la gara era stata fatta. Ma c’è di più, e qui si arriva al bilancio del Comune e al motivo per cui l’erba non viene tagliata. Durante la campagna elettorale, il Movimento aveva compattato il voto dei commercianti cavalcando la protesta contro i supermercati che fanno chiudere i piccoli negozi. Eppure nel primo bilancio previsionale firmato da lei, quello per il 2017, sono previste entrate da oneri per urbanizzazione per 44 milioni di euro. «Una colata di cemento», l’ha definita La Stampa. Una larga fetta di questi oneri è legata a centri commerciali e supermercati. L’elenco dettagliato ne prevede nove e due delle aree più grandi, in corso Bramante e verso il confine con Grugliasco, vedranno nascere due enormi centri - il primo realizzato da Esselunga, il secondo da Dimar - realizzati “in deroga”, e cioè senza una variante al piano regolatore e senza la cosiddetta “Valutazione ambientale strategica”. Perché la deroga? L’Espresso lo ha chiesto al sindaco, senza ottenere risposta. Certamente Appendino ha ereditato un bilancio non facile, come ammettono tutti, a causa dei debiti fatti in passato per gli investimenti che hanno cambiato il volto della città. Sta procedendo a una riorganizzazione, che non si sa quali risultati darà. Ma alcune scelte sorprendono. Una parte consistente di questi oneri di urbanizzazione, 36,6 milioni, nel bilancio è previsto che copra spese correnti, di natura ordinaria: «Il fatto è che queste entrate non sono per nulla certe. Il giorno in cui è stato votato il bilancio, il 3 maggio, ne erano stati versati per 3,4 milioni. Facendo un parallelo con gli anni passati, temo che nell’intero anno non supereremo i 20-25 milioni», dice Stefano Lo Russo, capogruppo del Pd ed ex assessore all’urbanistica. Le voci correnti che dovranno essere finanziate da queste entrate straordinarie sono varie, dal contratto di servizio con l’azienda elettrica alla manutenzione ordinaria di molti edifici, impianti sportivi, scuole. Ecco il motivo per cui nelle aree verdi di competenza delle circoscrizioni, i giardinetti più piccoli e le aiuole, l’erba non viene tagliata. Risponde alla sua domanda iniziale Marco Novello, il presidente della Circoscrizione 5: «I lavori sono già assegnati ma per iniziare serve la “determina di impegno di spesa”. Che senza copertura, non si può firmare». Se il bilancio 2017 appare traballante, e le periferie rischiano di scontare il prezzo più pesante in termini di decoro e servizi, non è comunque detto che sia questo il guaio maggiore relativo ai quattrini legati alle aree vendute. L’autunno scorso, infatti, era emerso un caso spinoso, che ha portato addirittura a un esposto in Procura. Appendino aveva messo nel bilancio di assestamento del 2016 un’entrata di 19,7 milioni legata alla cessione a un nuovo compratore di un’area dove sorgeva la vecchia fabbrica Westinghouse, senza dire che 5 milioni - in realtà - dovevano essere risarciti a un primo compratore, che li aveva versati come caparra, per poi ritirarsi. Quel debito di 5 milioni, dunque, doveva essere iscritto a bilancio, cosa che non è avvenuta e ha spinto i revisori a sollevare una riserva. Quando gli uffici finanziari del Comune fecero emergere la questione, si tentò di mettere una toppa: alla sindaca venne recapitata una lettera da parte del creditore dei 5 milioni, la società di gestione immobiliare Ream, controllata dalle fondazioni bancarie. La firmava il presidente di Ream, Giovanni Quaglia, che dava rassicurazioni sulla possibilità di una dilazione del versamento al 2017. Anche nel bilancio previsionale di quest’anno, però, di questo vecchio debito non c’è traccia: una successiva lettera di Quaglia, recapitata il 21 aprile, rassicurava la sindaca di aver accettato un ulteriore rinvio del pagamento, al 2018. Due osservazioni: la dirigente del Comune che sollevò la questione dei debiti fuori bilancio è stata destinata ad altro ufficio. Perché? Anche a questa domanda dell’Espresso non è stato risposto. Intanto il primo febbraio scorso Quaglia è stato nominato all’unanimità presidente della Fondazione Crt, da un consiglio in cui siedono anche i rappresentanti del Comune. Quaglia è un politico di lungo corso, già consigliere di amministrazione di Unicredit e di una società del gruppo autostradale della famiglia Gavio, vicino al regista storico della Fondazione, Fabrizio Palenzona. Chi segue i fatti da vicino, sostiene che la nomina non sia stata pilotata da Appendino. La sindaca, però, su un incarico così “old style”, non ha avuto nulla da dire. Molto politico. Poco Cinque Stelle.
Premiato dalle imprese, non dalla scuola. Bocciato il "venditore di merendine". Lo studente insignito del Premio Einaudi non è riuscito a salvare l'anno, scrive Andrea Cuomo, Domenica 18/06/2017, su "Il Giornale". Promosso in spirito imprenditoriale, bocciato a scuola. Leonardo P., il diciassettenne di Moncalieri che qualche mese fa venne sospeso per la sua attività di venditore abusivo di merendine nel liceo Pininfarina della sua città in provincia di Torino, non ha salvato quello che certamente l'anno scolastico più folle della sua carriera. Il consiglio di classe alla fine lo ha respinto malgrado il percorso di ravvedimento operoso intrapreso. E malgrado il giovane sia stato nel frattempo insignito del Premio Einaudi per la sua intraprendenza. La bocciatura non sembra tanto legata al 6 in condotta preso nel primo quadrimestre e poi corretto a fine anno in 8, ma al rendimento complessivo di Leonardo. Epperò resta l'impressione che si tratti di una punizione esemplare per un ragazzo certamente non facile, figlia di un colpo di coda moralistico da parte di un'istituzione, la scuola, che non sembra far nulla per incoraggiare i nostri figli ad affrancarsi da quel mammismo secchione e libresco che nella vita alla fine risulta spesso perdente. La vicenda ha inizio il 17 novembre scorso, quando il preside dell'Itis Pininfarina di Moncalieri organizza un tranello ai danni di quel suo studente furbetto che da tempo gestisce un «bagarinaggio» all'albicocca all'intervallo. Il meccanismo del business è da manuale di economia: Leonardo si rifornisce di merendine a un vicino discount dopo aver condotto un'indagine di mercato e aver indagato i gusti della clientela, ne riempie zaini, poi le rivende con un sovrapprezzo minimo (20 centesimi l'una) agli studenti che non sono costretti a soggiacere al ricatto dell'esosissima macchinetta di vending, che sputa le stesse merendine a un prezzo più che doppio. Per non parlare del bar. Gli studenti (al Pininfarina ce ne sono 1700) pagano Leonardo volentieri, ma qualcuno al Pininfarina borbotta. Leonardo già l'anno precedente era stato beccato a fare lo spacciatore di snack e aveva passato i suoi guai. E così il preside per quella mattina novembrina convoca al Pininfarina i vigili, che perquisiscono gli zeppi zaini del ragazzo scoprendo e mettendo a referto la mercanzia. Scatta una sospensione di quindici giorni e il 6 in condotta per l'imprenditore di girelle. «Le regole sono regole - sentenzia più o meno il preside Stefano Fava - e la scuola serve anche a insegnare il rispetto per esse». Amen. A Leonardo viene richiesto di presentarsi in una associazione che si occupa di preparare e consegnare cassette di frutta e verdura scartate dai mercati e destinate alle persone disagiate per trascorrere lì le quindici mattine (non consecutive) di punizione. La famiglia però si mette di traverso: l'associazione è scomoda e lontana e l'attività proposta non è ritenuta «consona». Una presa di posizione che innervosisce il preside e fa arrabbiare il presidente dell'associazione: «A quel ragazzo avrebbe fatto bene confrontarsi con chi ogni giorno affronta le fatiche del vivere». I rapporti tra la scuola e la famiglia sono sempre più tesi. Leonardo medita di cambiare scuola. Si vede anche recapitare una multa per attività illecita dell'ammontare di 5.176 euro, più dei 4.800 euro guadagnati in anno di commerci scolastici. L'unica buona notizia è il premio Einaudi che gli vale 500 euro. E il corso formativo di imprenditoria seguito all'Unione Industriali con tanto di stage in un'azienda di comunicazione di Settimo Torinese. E ieri la bocciatura. Che dà ragione a chi pensa che se Bill Gates fosse nato in Italia il garage in cui avrebbe potuto nascere la Microsoft sarebbe stato chiuso dai Nas.
"Non urla e non piange": violentatore assolto Torino diventa porto delle nebbie sugli stupri. Terzo caso in poche settimane sotto la Mole: vittime non credute o reati prescritti, scrive Luca Fazzo, Giovedì 23/03/2017, su "Il Giornale". Torino, di nuovo Torino: nelle cronache giudiziarie dei processi per stupro le sentenze che arrivano dal capoluogo piemontese hanno avuto spesso negli ultimi mesi la prima pagina dei giornali; e ogni volta si è trattato di vicende in grado di suscitare dubbi sull'operato dei magistrati chiamati a processare i responsabili di crimini odiosi. Al punto da rendere inevitabile chiedersi se esista un «caso Torino», una sorta di buco nero nella macchina della giustizia che all'ombra della Mole offre ai violentatori la scappatoia verso l'impunità. L'ultimo caso viene alla luce ieri, quando un articolo del Corriere rende note le motivazioni con cui il tribunale torinese ha assolto un infermiere accusato dello stupro di una collega, e hanno proposto alla Procura di incriminare per calunnia la presunta vittima. A rendere inattendibile la versione della donna sarebbe il fatto che durante l'aggressione non avrebbe cercato di difendersi e nemmeno gridato. «Non grida, non urla, non piange e pare abbia continuato il turno dopo gli abusi», scrivono i giudici. Non lamenta dolori, non fa neanche un test di gravidanza, e anche questo convince la corte che menta. Eppure altre sentenze di altri tribunali si guardano bene dal pretendere dalle vittime comportamenti logici e lineari durante e dopo l'aggressione. L'assoluzione dell'infermiere arriva a poche settimane di distanza da altre due notizie torinesi sullo stesso tema: e che sollevano entrambe l'aspetto dei tempi biblici che a Torino permettono a due violentatori di farla franca. Il 21 febbraio si era scoperto che uno stupratore di bambini era tornato libero, dopo essere stato condannato in primo grado a dodici anni di carcere, per il semplice motivo che in dieci anni la Corte d'appello torinese non era riuscita a fissare l'esame del suo ricorso, provocando così la prescrizione del reato. Una manciata di giorni dopo, il 3 marzo, storiaccia simile: un patrigno che stuprava la figlia della sua compagna se la cava in Cassazione con tre anni e mezzo di condanna perché gli altri capi d'accusa sono prescritti grazie alla Corte d'appello torinese ha impiegato otto anni a fare il suo lavoro. Intanto lo stupratore se n'è tornato a casa sua, in Perù, donde difficilmente verrà mai estradato; e a rendere tutto più tragico c'è il fatto che la vittima non conoscerà mai l'esito del processo perché si è ammazzata lanciandosi dalla finestra. Sui giudici che hanno lasciato prescrivere il primo caso il ministro della Giustizia ha disposto una inchiesta interna, ma il timore è che il problema sia più vasto, ovvero una sottovalutazione della gravità di questi crimini e della necessità di reprimerli severamente e rapidamente. Il Giornale ha parlato di numerosi casi di processi per stupro persi per anni nelle nebbie torinesi. E anche altre fonti confermano che - almeno fino a tempi recenti - a Torino nessuno si era mai preso la briga di garantire una corsia preferenziale ai processi per stupro, che finivano a bagnomaria nel minestrone dei furti e delle bancarotte, delle truffe e dei piccoli spacci di droga: perché indicare delle priorità vuol dire anche prendersi responsabilità e correre dei rischi. Ora l'aria sta cambiando: «Sono reati su cui indagare è delicato e complesso - dice il procuratore torinese Armando Spataro - ma i pm che qui se ne occupano lavorano tanto e bene. E col nuovo presidente del tribunale abbiamo stilato un programma che prende di petto queste esigenze».
Di…Aosta. Val d'Aosta, 140 milioni di soldi pubblici divorati dal Casinò: 22 indagati, coinvolto l'ex governatore Rollandin. Augusto Rollandin, ex presidente della Valle d'Aosta: a lui la Corte dei conti chiede ora 17 milioni. La Corte dei conti chiede di restituirli, la procura indaga per falso in bilancio e truffa aggravata: "Piani di sviluppo consapevolmente inattendibili per far fronte alla crisi della sala da gioco", scrive Federica Cravero il 27 giugno 2017 su "La Repubblica". C'è l'ipotesi di uno sperpero di 140 milioni di euro dietro all'inchiesta relativa al casinò di Saint Vincent condotta dalla Guardia di finanza di Aosta, che in queste ore ha notificato dei provvedimenti di "inviti a dedurre" emessi dalla procura regionale della Corte dei conti della Valle d'Aosta nei confronti di 22 persone, tra assessori e membri del consiglio regionale valdostano dal 2012 al 2015, incluso l'ex governatore Augusto Rollandin, con la contestazione del pesante danno erariale. Parallelamente la procura di Aosta, guidata da Giancarlo Avenati Bassi, procede nei confronti degli amministratori e del collegio sindacale per falso in bilancio e truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, mentre per l'ex assessore regionale con delega alla casa da gioco, Ego Perron, si ipotizza solo la truffa. La sala da gioco valdostana - gestita da una società partecipata dalla Regione Valle D'Aosta (al 99,995%) e dal Comune di Saint Vincent (0,044%) - da tempo è afflitta da una crisi strutturale che ha richiesto negli anni, per far fronte alla gravissima sofferenza finanziaria, un'iniezione di denaro pubblico. Ma secondo quanto rilevato dalle Fiamme gialle questi finanziamenti erano stati erogati sulla base di piani di sviluppo consapevolmente inattendibili e bilanci falsificati da perdite di esercizio nascoste. Il Nucleo di polizia tributaria di Aosta, che da tempo segue la vicenda, ha ora concluso una serie di indagini sul complesso “Casino de la Vallée S.p.A. - Grand Hotel Billia” appurando che amministratori e membri del collegio sindacale hanno inondato di milioni di euro di denaro pubblico il casinò, anche prelevando risorse da altre società partecipata regionale, autorizzati da specifiche delibere da parte delle giunte e dei consigli regionali in carica nel luglio 2012 (50 milioni di euro), settembre 2013 (10 milioni di euro), ottobre 2014 (60 milioni di euro) e dicembre 2015 (20 milioni di euro). La procura regionale della Corte dei conti per la Valle d’Aosta ha dunque contestato ai 22 membri deliberanti delle giunte e dei consigli regionali all’epoca in carica di aver consapevolmente causato alle casse pubbliche un danno economico presunto di 140 milioni di euro, quantificando le responsabilità dei singoli tra i 2,9 e i 17,3 milioni (quest'ultima cifra chiesta proprio a Rollandin), mentre al solo coordinatore del dipartimento Finanze si è riscontrata una presunta responsabilità amministrativa per colpa grave di 1,6 milioni. Le indagini hanno evidenziato come le erogazioni plurimilionarie di denaro pubblico, di cui la partecipata regionale ha beneficiato, sarebbero state concesse dagli organi preposti nel periodo 2012-2015 in conseguenza di bilanci riportanti perdite di esercizio volutamente ridotte e conseguenti piani di sviluppo industriale oggettivamente inattendibili. E questo è avvenuto nonostante la casa da gioco presentasse “palesi segnali di gravissima sofferenza, con indicatori di debolezza strutturale tali da compromettere irrimediabilmente l’attitudine alla autonoma sopravvivenza nell’immediato e rendevano inverosimile ogni più benevola prospettiva di recupero nel futuro”. I finanzieri hanno poi segnalato alla procura le condotte penalmente rilevanti: falso in bilancio e truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche da parte degli amministratori della società e dei componenti il collegio sindacale in carica in quegli anni, i quali avrebbero indotto in errore la Regione e la società finanziaria regionale erogatrice del denaro, coscientemente raggirate grazie alla presentazione di bilanci riportanti perdite di esercizio dissimulate - quindi falsi - e piani industriali di sviluppo conseguentemente irrealizzabili. Il tutto per conseguire dagli organi competenti le erogazioni di denaro poi effettivamente deliberate. E l'assessore, essendo a conoscenza dell’inconsistenza dei piani di sviluppo industriali, avrebbe avuto l’obbligo giuridico di impedire lo sperpero di denaro pubblico. Ma non lo ha fatto.
Il pg Saluzzo: se ad Aosta c'è la mafia, il tessuto sociale l'ha accolta. Severissimo il procuratore torinese sulla vicenda dell'ex magistrato Longarini, che resta ai domiciliari, scrive "La Repubblica" il 6 febbraio 2017. L'ex procuratore di Aosta Pasquale Longarini (ansa)Per la procura di Milano l'ex procuratore capo facente funzioni di Aosta, Pasquale Longarini, deve restare agli arresti domiciliari. Il pm Roberto Pellicano ritiene che, a una settimana di distanza dall'arresto, sussistano ancora le esigenze cautelari, in primis il pericolo di inquinamento delle prove: Longarini potrebbe contattare - come scritto nell'ordinanza del gip - "persone informate sui fatti e indurle a fornire racconti reticenti o non veritieri sui rapporti intrattenuti con lui". Sarà a breve il gip Giuseppina Barbara a decidere sulla richiesta di remissione in libertà presentata dall'avvocato Claudio Soro, che è stato affiancato nel pool di difesa dall'avvocato Anna Chiusano del foro di Torino, figlia del noto penalista scomparso nel 2003 e già presidente della Juventus. In attesa di sviluppi dell'iter giudiziario, ad Aosta si è insediato il nuovo procuratore capo facente funzioni, Giancarlo Avenati Bassi, sostituto procuratore generale a Torino. Per il primo giorno di servizio in un ufficio ancora sotto choc per l'arresto di Longarini, è giunto nel capoluogo valdostano anche il procuratore generale di Torino, Francesco Saluzzo: l'inchiesta - ha spiegato - è "un segnale che la magistratura non fa sconti a nessuno, neanche agli appartenenti all'ordine giudiziario". "Auspico - ha aggiunto - che il Consiglio superiore della magistratura prenda atto della particolarità della situazione e magari acceleri i tempi della nomina del nuovo procuratore capo di Aosta. Però sono dinamiche del Consiglio nelle quali noi non siamo in condizioni di intervenire". Longarini - assieme all'imprenditore Gerardo Cuomo, titolare del Caseificio Valdostano - è accusato di induzione indebita e favoreggiamento. Per la prima ipotesi di reato avrebbe fatto pressioni per far ottenere a Cuomo un contratto di fornitura da 70-100 mila euro con un prestigioso albergo di Courmayeur, per la seconda avrebbe avvisato il commerciante di essere controllato nell'ambito di indagini sulla 'ndrangheta. Su quest'ultimo aspetto Saluzzo ha voluto sottolineare: "Quando nelle zone piccole c'è molta mafia, vuol dire che il tessuto sociale l'ha ricevuta". "Non credo - ha concluso - che la Valle d' Aosta faccia eccezione rispetto al resto del Piemonte, anche perché l'insediamento di esponenti già conosciuti come appartenenti o vicini alle cosche calabresi in Valle d'Aosta data da molti decenni, non da adesso. Per questo è inutile che diciamo c'è la mafia, certo che c'è la mafia".
Aosta, arrestato il procuratore Longarini: nei guai per un ordine di fontina. Avrebbe chiesto a un albergatore indagato di acquistare formaggio per 70mila euro da un suo amico, finito pure lui in manette, scrive il 30 gennaio 2017 “La Repubblica”. Tradito da un favore a un amico. Il procuratore capo della Repubblica di Aosta facente funzioni Pasquale Longarini è stato arrestato ieri nell'ambito di un'inchiesta della procura milanese, competente sulla magistratura aostana, e condotta dal Nucleo di polizia tributaria della Guardia di finanza di Milano. Il reato contestato è "induzione indebita a dare o promettere utilità" (articolo 319 quater del codice penale). Il magistrato è stato posto agli arresti domiciliari. Ai domiciliari è finito anche un imprenditore, Gerardo Cuomo. I due sono accusati di induzione indebita per dare o promettere utilità. L'inchiesta è condotta a Milano (competente su Aosta, ndr) ed è stata affidata al sostituto procuratore Roberto Pellicano. La storia è emersa durante un'inchiesta della procura di Torino che poi, per competenza, ha trasmesso gli atti a Milano. Da alcune intercettazioni era uscito il nome di Longarini. Nella sostanza, secondo quanto è trapelato, il magistrato avrebbe convinto un albergatore di Aosta che stava indagando per fatture false e frode fiscale a favorire il suo amico Cuomo. In che modo? Ordinando forme di fontina per 70 mila euro l'anno.Troppe anche per un albergo grande. Così il gestore dell'hotel avrebbe deciso di svelare i consigli per l'acquisto di Longarini. Ma bisognerà attendere gli interrogatori di Cuomo e dello stesso Longarini, previsti nei prossimi giorni, per chiarire meglio il quadro investigativo. Loganrini era stato uno dei magistrati inquirenti del caso Cogne. Da sostituto procuratore aveva infatti collaborato con la collega Stefania Cugge alle indagini che in primo grado, nel 2004, portarono alla condanna a 30 anni di reclusione per Anna Maria Franzoni, accusata dell'omicidio del figlio di 3 anni, Samuele (pena ridotta a 16 anni dalla corte d'Assise Appello di Torino e confermata poi in Cassazione). Nella prima metà degli anni '90 alcune inchieste di Longarini portarono in carcere l'attuale presidente della Regione Valle d' Aosta, Augusto Rollandin (carica che aveva ricoperto anche all'epoca); i fascicoli riguardavano in particolare il voto di scambio, l'illecita concessione di contributi regionali ad aziende di autotrasporto pubblico, la partecipazione - in forma occulta - del governatore al capitale azionario di una di queste società. Dal 13 dicembre scorso Pasquale Longarini è diventato procuratore capo facente funzioni dopo il passaggio al vertice della procura di Novara di Marilinda Mineccia. Il suo lavoro ad Aosta - dove aveva lavorato anche in pretura - è iniziato nei primi anni Novanta.
Arrestato procuratore di Aosta. Longarini agli arresti domiciliari “Pressioni su imprenditore indagato”. Domiciliari per il procuratore capo Longarini per induzione indebita e favoreggiamento. Ai domiciliari Gerardo Cuomo, titolare del Caseificio Valdostano. E c’è un terzo indagato, scrive Luigi Ferrarella il 30 gennaio 2017 su “Il Corriere della Sera”. Il magistrato reggente la Procura di Aosta, Pasquale Longarini, più noto per essere stato anni fa con la collega Stefania Cugge uno dei due pm del processo ad Annamaria Franzoni per il delitto di Cogne, è stato arrestato ieri su richiesta della Procura di Milano per le ipotesi di reato di «induzione indebita a dare o promettere utilità» e di «favoreggiamento»: imputazioni per le quali il gip Giusi Barbara ha accolto gli arresti domiciliari chiesti dal pm Roberto Pellicano nei confronti del magistrato e di un coindagato imprenditore, Gerardo Cuomo, titolare del «Caseificio Valdostano» a Pollein che esporta anche in Francia e Svizzera. Per tutta la giornata sia il pm sia i militari del Nucleo di Polizia tributaria della Guardia di Finanza di Milano sono stati segnalati in trasferta ad Aosta a svolgere perquisizioni e interrogatori parallelamente all’esecuzione del provvedimento restrittivo a carico del pm Longarini che, da quando il precedente dirigente dell’ufficio Marilinda Mineccia era passata a Novara, sta svolgendo ad Aosta le funzioni di procuratore capo, in attesa che il Csm nomini il nuovo scegliendo tra i concorrenti (tra cui lui stesso). La prima accusa, quella di «induzione indebita a dare o promettere utilità» (da 6 a 10 anni), poggerebbe sulla contestazione al pm di un illecito modellato su una sorta di triangolo di benefici incrociati. Longarini era infatti titolare di un procedimento penale a carico di un imprenditore alberghiero per reati di natura fiscale. E secondo l’ipotesi accusatoria gli avrebbe prospettato un modo per ammortizzare i rischi dell’inchiesta (sotto forma di soluzione del versante penale a fronte di un immediato pagamento in sede amministrativa) a condizione che l’albergatore per alcune categorie merceologiche fosse andato a rifornirsi da un imprenditore amico del magistrato, imprenditore peraltro (stando a quanto captato dalle indagini) in rapporti con ambienti contigui a clan di ‘ndrangheta. Ne sarebbe sortita una serrata trattativa tra i due imprenditori, al cui esito l’albergatore avrebbe in effetti firmato un contratto per ricevere dall’altro imprenditore (quello amico del magistrato) forniture del valore di circa 70-100 mila euro l’anno. L’inchiesta, che ha utilizzato la testimonianza dell’albergatore e monitorato il pm con intercettazioni telefoniche, avrebbe inoltre individuato una vacanza con gli imprenditori senza alcuna spesa per il pm, episodio tuttavia non inserito in un’imputazione a parte. Quanto alla seconda ipotesi, «favoreggiamento», a Longarini viene contestato di aver fornito all’imprenditore (quello amico e beneficiario del precedente triangolo) notizie di una inchiesta condotta dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Torino. Solo nelle prossime ore, o tramite un interrogatorio o attraverso quelli che saranno i suoi avvocati, è immaginabile che il magistrato opporrà alle accuse la propria rappresentazione dei fatti, così come solo nei prossimi giorni si potrà comprendere se e quanto le intercettazioni siano in grado di confermare le testimonianze. In linea teorica, infatti, la difesa del pm potrà svolgersi su due piani. O nel merito, rivendicando la propria estraneità e anzi indicandosi come l’incolpevole vittima di due imprenditori che lo avrebbero «messo in mezzo» a sua insaputa, e cioè che per loro scopi gli avrebbero attribuito ruoli in realtà mai avuti né millantati. O nella qualificazione giuridica, scelta da Milano per inquadrare i fatti: dal processo Ruby-Berlusconi in poi, infatti, ha mostrato tutta la sua complessità il nuovo reato di «induzione indebita a dare o promettere utilità», introdotto dalla legge Severino nel 2012 con lo spacchettamento dalla vecchia «concussione» (reato del pubblico ufficiale che sfrutta la propria posizione per farsi dare un’utilità), che prima riuniva in sé sia la modalità «per costruzione» sia quella «per induzione». Tanto che, di fronte a orientamenti subito difformi, già nel 2013-2014 le Sezioni Unite della Cassazione dovettero intervenire a dare una prima bussola.
PARLIAMO DELLA PUGLIA.
Bari, sesso a pagamento con i bambini allo stadio. “Le Iene” ridicolizzano il giornalismo barese, scrive il 20 marzo 2017 "Il Corriere del Giorno”. La trasmissione delle Iene ha intervistato un bambino rom di 8 anni che ha svelato il giro di prostituzione minorile che da molto tempo avviene nel parcheggio dello stadio di Bari. Alla luce del sole. “Bari, favelas di Rio de Janeiro, dove i bambini rom si vendono a 10 o 20 euro alla luce del giorno” scrive oggi una giornalista barese freelance sul suo profilo Facebook aggiungendo “Oggi mi aspetto una serie di dimissioni, anche di molti giornalisti garantiti, assunti e tutelati ai quali le Iene hanno dato un calcio sui denti dimostrando che il buon giornalismo si può ancora fare. Basta alzare il deretano dalle comode e blindate scrivanie. Buon fantacalcio a tutti! Viva lo stadio San Nicola (del quale è più importante occuparsi del nuovo nome che potrebbe prendere), viva i servizi sociali, viva le forze dell’ordine, viva gli investigatori, viva i comunicati stampa!” Come non darle ragione? Ancora più acuta l’osservazione di un noto avvocato barese che così scrive e commenta sui social network: “Domanda per i miei amici giornalisti: a Bari esistono uno storico quotidiano, due dorsi locali di testate nazionali, un quotidiano indipendente, una sede Rai, una grande emittente radiotelevisiva privata, molteplici TV e radio locali, più testate giornalistiche online. Come mai della prostituzione minorile si sono occupate Le Iene?” Il servizio delle Iene sui bambini che si prostituiscono a Bari. Un collaboratore dell’inviata Nadia Toffa ha ripreso con una videocamera nascosta adulti che invitavano i bambini nella propria auto, a fronte di un compenso concordato precedentemente. Il collaboratore delle IENE ha invitato in auto diversi minori per farsi raccontare le loro vite parlando con diversi ragazzini da diversi anni mandati a battere in strada, tra i quali alcuni di nascosto dai propri genitori, con lo scopo di “raccogliere soldi per sopravvivere e fornire da mangiare alla famiglia”. I ragazzini hanno fornito anche informazioni sui loro clienti. Persone tra i 50 ed i 70 anni fra i quali a loro dire “uomini e donne, forze dell’ordine, giudici, medici”. Devastante la testimonianza di bambino di soli otto anni, proveniente dalla ex Jugoslavia che ha parlato di sesso e denaro, ricordando che la sua richiesta di pagamento è di cento euro, raccontando di come spesso debba saltare diversi giorni di scuola, costretto dalla prostituzione minorile. Nadia Toffa sconvolta dalle riprese così scioccanti ha deciso di intervenire, avvisando i servizi sociali di Bari su ciò che accade nelle vicinanze dello stadio San Nicola. E tutto ciò è accaduto alla luce del sole senza che mai alcun giornalista locale abbia pensato di occuparsene. Per nostra fortuna non siamo ancora considerati una “presenza” nel giornalismo barese, città in cui è prevista entro l’estate l’apertura di una nostra sede, ma ci permettiamo di osservare che lo “storico” quotidiano barese, e cioè la Gazzetta del Mezzogiorno, ha un editore siciliano, e non più barese, e secondo gli ultimi accertamenti ADS vende appena 20mila copia al giorno in tutta la Puglia e Basilicata, numeri che giustificano i contratti di solidarietà applicati ai propri dipendenti (amministrativi e giornalisti) . Quando un giornale ha un direttore come Giuseppe De Tommaso che si preoccupa solo di non perdere gli annunci legali (alias pubblicità a pagamento) litigando pubblicamente con dei deputati per degli emendamenti sfavorevoli alla carta stampata, o di far pagare laute transazioni al proprio editore pur di evitare di venire condannato insieme ai suoi giornalisti, allora si spiega tutto… Con direttori e giornalisti come Oronzo Valentini e Giuseppe Giacovazzo ve lo garantisco questo “crollo” giornalistico alla Gazzetta del Mezzogiorno non sarebbe mai arrivato...Per non parlare poi dei dorsi regionali dei quotidiani nazionali, anche loro in crisi di lettori, a causa anche della pochezza giornalistica all’interno delle loro redazioni, infarcite di giornalisti figli di giornalisti o “infilati dal sindacato”, circostanze queste che spiegano la crisi dell’editoria e televisione in Puglia. Adesso dopo il servizio de Le Iene, sono partiti gli accertamenti della magistratura barese per fare luce sulla prostituzione minorile dei bambini del campo rom vicino lo stadio San Nicola di Bari. Il fascicolo assegnato al pm Marcello Quercia al momento non ha indagati, e viene ipotizzato il reato di favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione minorile. Per identificare vittime ed eventuali sfruttatori. E’ bene ricordare che nei mesi scorsi il pm di Bari Simona Filoni aveva aperto un’indagine sulla stessa ipotesi di reato, ma gli approfondimenti investigativi non avevano condotto ad accertare alcuna responsabilità e quindi tutto era stato archiviato. Che occorra cambiare investigatori, o metodi investigativi magari usando quelli de Le Iene?
La legalità di Emiliano? Nomina assessore Mazzarano, salvatosi da un processo per finanziamento illecito al Pd grazie alla prescrizione, scrive il 19 luglio 2017 “Il Corriere del Giorno”. Dopo il coinvolgimento del suo assessore Giannini nell’inchiesta della magistratura barese ed i precedenti giudiziari di Mazzarano, Michele Emiliano avrà il coraggio di parlare nuovamente della “legalità” dei suoi assessori, dinnanzi al Csm a fine luglio? Siamo proprio curiosi…Il “magistrato” Michele Emiliano ancora una volta manifesta la sua predilezione per l’illegalità, e lo dimostra con la nomina ad assessore del massafrese Michele Mazzarano, un suo “fedelissimo”, salvatosi da una condanna pressochè certa grazie all’intervenuta prescrizione del reato, alla quale il politicante di Massafra non ha saputo fare a meno. I fatti risalgono al 2008 quando Mazzarano, originario di Massafra (Taranto), era vicesegretario regionale del partito. La vicenda riguarda i diecimila euro che Gianpaolo Tarantini (il noto “Gianpi” che procurava le escort a Berlusconi) aveva consegnato nell’aprile 2008 a Michele Mazzarano, per pagare il concerto di Eugenio Bennato in occasione dell’evento di chiusura della campagna elettorale del Pd a Massafra per le elezioni politiche. Il gup del Tribunale di Bari Sergio Di Paolaa settembre del 2014 decise per il rinvio a giudizio di Mazzarano ed il il processo a suo carico nei confronti di Michele Mazzarano consigliere regionale pugliese del Pd, e dell’imprenditore (fallito) Gianpaolo Tarantini, entrambi accusati di illecito finanziamento ai partiti, iniziò tre mesi dopo, cioè 9 dicembre 2014. Mazzarano venne inoltre rinviato a giudizio anche per un episodio di millantato credito, mentre sempre per un altro millantato credito, il Giudice si dichiarò incompetente e dispose l’invio degli atti riguardati il politicante massafrese alla Procura della Repubblica di Taranto. La “verginella” Mazzarano, come il Corriere del Giorno aveva già raccontato, a suo tempo si stracciava le vesti atteggiandosi a “perseguitato” dichiarando: “Nel processo tali accuse si scioglieranno come neve al sole. Rimane l’agonia mia e delle persone a me più care per questi lunghi cinque anni di vera e propria via crucis. Quando la giustizia agisce così, rovina la vita delle persone oneste”, aggiungendo “Dopo due anni di indagini e altrettanti di udienza preliminare – spiega Mazzarano – finalmente un giudice di merito potrà raccogliere la prove che confermeranno la mia correttezza e la mia totale innocenza. Rimane l’agonia mia e delle persone a me più care per questi lunghi cinque anni di vera e propria via crucis. Quando la giustizia agisce così, rovina la vita delle persone oneste”. Peccato che il “giudice di merito” abbia potuto soltanto applicare l’intervenuta prescrizione, e Mazzarano si sia salvato, da una condanna pressochè certa! Emiliano ha così premiato la “fedeltà” di Mazzarano, eletto alle ultime regionali, grazie ai voti ricevuti a Taranto in “dote” dal gruppo dell’on. Michele Pelillo (recentemente passato anch’egli con Emiliano) alle ultime elezioni regionali, senza dei quali non sarebbe mai stato eletto. La limitata forza (o meglio) debolezza elettorale di Mazzarano si è manifestata successivamente alle amministrative comunali del 2016 quando nel suo comune, a Massafra, la lista del Pd ha conseguito un ottimo risultato…: il 7% dei voti. Il peggior risultato del partito democratico in tutt’ Italia. Bisogna riconoscere all'“accoppiata” Emiliano-Mazzarano il primato dell’incoerenza. Infatti fino all’ anno scorso Mazzarano si auto-proclamava “seguace” a livello nazionale di Roberto Speranza (all’epoca dei fatti ancora nel Pd n.d.r.), alleato di Pelillo (all’epoca dei fatti “renziano”) a Taranto, e con Emiliano a Bari. Ed infatti in occasione dell’ultima campagna referendaria, Mazzarano aveva provato a sostenere l’iniziativa referendaria per il “Si” di Matteo Renzi, organizzando una manifestazione pubblica a Massafra invitando ad un dibattito il Ministro Claudio De Vincenti (un “renziano” di ferro) che invece Emiliano ha osteggiato aderendo al “No”!
Ciliegina sulla torta l’adesione di Mazzarano “last minute” alla corrente di Emiliano, a cui nel frattempo il “politicante” di Massafra. nella sua precedente veste di capogruppo in consiglio regionale, aveva assunto al gruppo del Pd alla Regione Puglia,Gianni Paulicelli l’autista-ombra-amico di Michele Emiliano ed un amico di suo fratello, un giornalista barese, Michele Mascellaro noto alle vicende per il suo coinvolgimento nelle vicende dell’inchiesta giudiziaria “Ambiente svenduto” , dove si era venduto giornalisticamente alle “operazioni” di Girolamo Archinà il noto “corruttore” alle dipendenze dell’ ILVA sotto la gestione della famiglia Riva. Mascellaro all’epoca dei fatti era direttore del quotidiano pugliese Taranto Buona Sera venne “inquisito” dal Consiglio di Disciplina dell’Ordine dei Giornalisti di Puglia, dove non si è mai presentato dinnanzi al “fantomatico” inutile consiglio disciplinare, ed infatti, incredibilmente non ha ricevuto alcuna sanzione disciplinare nonostante i gravi episodi di corruzione giornalistica che lo riguardavano. Successivamente Mascellaro pur lavorando al gruppo consiliare del Pd alla Regione Puglia, è rimasto alle dipendenze della cooperativa Sparta che edita il quotidiano tarantino (ora diretto da Enzo Ferrari) violando anche in questo caso il Codice deontologico dell’Ordine dei Giornalisti. Una vicenda questa di cui si occuperanno a breve la Procura di Bari e la Direzione Generale Affari Civili del Ministero di Giustizia. Avrà Emiliano il coraggio di parlare di “legalità” dei suoi assessori, dinnanzi al Csm? Siamo proprio curiosi….
La legalità “double face” di Michele Emiliano e dei suoi “compagni di merende”…, scrive il 5 agosto 2017 "Il Corriere del Giorno". Le ultime parole famose di Emiliano: “In due anni da presidente della Regione ho cercato di applicare la stessa correttezza che ho tenuto nelle mie funzioni giurisdizionali. Non ho mai avuto un avviso di garanzia, né io né i miei assessori”.“ Mazzarano, Giannini ed ora D’ Addario. Chi sarà il prossimo? Il Presidente della Regione Puglia Michele Emiliano, magistrato attualmente sotto processo disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura, prendendo in prestito un’affermazione usata da Roberto Giacchetti, vice presidente della Camera dei Deputati, rivolta a Roberto Speranza disse “Hai la faccia come il c….o“ diventata virale, quella faccia ha dimostrato di averla a pieno titolo quando il mese scorso dinnanzi alla Commissione Disciplinare del CSM ha dichiarato : “In due anni da presidente della Regione ho cercato di applicare la stessa correttezza che ho tenuto nelle mie funzioni giurisdizionali. Non ho mai avuto un avviso di garanzia, né io né i miei assessori”. “Mai dichiarazione fu più intempestiva, infatti dopo solo 48 un suo assessore regionale Giovanni Giannini, è stato indagato per una vicenda di tangenti e regalie varie a fronte di delibere compiacenti, ha rassegnato le dimissioni. Ma Emiliano è un politico “double face”, cioè a doppia faccia. A Roma e davanti alle telecamere e taccuini della stampa nazionale si erge a rappresentante della legalità prestato alla politica, mentre a Bari sguazza ed annaspa nella illegalità compiacente, come dimostra la sua successiva nomina ad assessore a Michele Mazzarano, un politicante di paese (Massafra, in provincia di Taranto n.d.r.), esponente del Pd pugliese, coinvolto in due procedimenti penali dai quali si è salvato solo e soltanto grazie all’intervenuta prescrizione dei reati.
Gianpi Tarantini e le escort “baresi” care… a Silvio Berlusconi. Il faccendiere barese Gianpaolo Tarantini (cioè il “Gianpi” che procacciava le escort a Silvio Berlusconi) ha rivelato alla procura di Bari di aver elargito una “tangente” di 10 mila euro all’ex vice-segretario regionale pugliese del Pd, Michele Mazzarano che venne indagato dalla procura di Bari, in concorso con Tarantini, per illecito finanziamento pubblico ai partiti. Mazzarano con la sua sfacciataggine negò: “Se Tarantini avesse davvero reso le dichiarazioni che gli vengono attribuite, provvederò a sporgere querela nei suoi confronti”. Querela che non ci risulta essere stata presentata in quanto le indagini della procura barese accertarono la presenza di un assegno elargito da Tarantini, destinato proprio a Mazzarano, che a settembre 2014 venne rinviato a giudizio per “illecito finanziamento ai partiti” e “millantato credito”. Secondo l’accusa della procura barese, l’esponente politico pugliese aveva ricevuto da Tarantini 70 mila euro: 10mila per pagare il concerto di chiusura della campagna elettorale del Pd a Massafra per le elezioni politiche dell’aprile 2008; altri 60 mila, su indicazione di Tarantini, da un imprenditore che si aggiudicò un appalto ospedaliero da 600 mila euro al quale Mazzarano assicurò che si sarebbe interessato. Per questi due episodi, rivelati da Gianpi ai pm della procura di Bari nel 2009, il consigliere regionale Mazzarano e lo stesso Tarantini vennero rinviati a giudizio per essere processati nel dicembre 2014 dinanzi al tribunale di Bari: nel primo caso per finanziamento illecito ai partiti, nel secondo per millantato credito. Per un altro episodio di millantato credito il gup di Bari Sergio Di Paola, dispose il rinvio a giudizio di Mazzarano, trasmettendo gli atti per competenza territoriale alla procura di Taranto. Mazzarano per anni ha continuato a proclamarsi innocente e a difendersi. “Nella campagna elettorale delle politiche del 2008 – diceva il consigliere regionale del Pd pugliese – chiesi a Tarantini di finanziare un concerto di Eugenio Bennato, attraverso un assegno di 10.000 euro che girai direttamente al promoter di Bennato. Da quella manifestazione non avrei potuto trarre nessun vantaggio personale in quanto non ero candidato. L’ho fatto per il Pd”. Per quanto riguarda l’accusa di millantato credito, il politico massafrese sostenne che “le accuse di Tarantini sono totalmente false” e nel processo “si scioglieranno come neve al sole”. Di questo era convinto anche il presidente dei deputati del Pd (all’epoca dei fatti) Roberto Speranza, a cui Mazzarano faceva riferimento a livello nazionale, che dichiarò di essere “assolutamente fiducioso”. Come non difendere un suo “compagno” di corrente, che aveva preso dei soldi per la propaganda del Pd a guida Bersani? Ma Mazzarano ed i suoi “compagni” del Partito Democratico hanno potuto contare sui tempi lunghi della giustizia, in quanto i reati si sono tutti prescritti nel 2016. Lo “sfacciato” Mazzarano a suo tempo, quando venne rinviato a giudizio ebbe anche la sfacciataggine di dichiarare: “Dopo due anni di indagini e altrettanti di udienza preliminare, finalmente un giudice di merito potrà raccogliere la prove che confermeranno la mia correttezza e la mia totale innocenza. Rimane l’agonia mia e delle persone a me più care per questi lunghi cinque anni di vera e propria via crucis. Quando la giustizia agisce così, rovina la vita delle persone oneste”. Resta da chiedere a Mazzarano qualcosa a cui siamo sicuri non risponderà mai: come mai non ha rinunciato alla prescrizione, consentendo ad un giudice di merito, come lui stesso auspicava di “raccogliere la prove che confermeranno la mia correttezza e la mia totale innocenza”? Sapete cosa ha fatto recentemente Michele Emiliano? Ha nominato Michele Mazzarano assessore regionale !!! Un premio forse per aver preso dei soldi per il Partito Democratico? Un riconoscimento per aver aderito alla sua corrente Fronte Democratico, invece di seguire Speranza, Bersani e D’ Alema nella scissione in Mdo? O forse un premio-riconoscimento a Mazzarano per aver assunto, nel suo precedente incarico di capogruppo in consiglio regionale per il Partito Democratico (usando soldi pubblici del Consiglio regionale della Puglia) il segretario-autista-ombra di Emiliano, Gianni Paulicelli, ed un, tale Michele Mascellaro notoriamente amico del fratello di Emiliano? Mascellaro, accanto nella foto con Emiliano, è l’ex direttore del quotidiano Taranto Buona Sera, che finì coinvolto nelle intercettazioni della magistratura tarantina, al telefono con Girolamo Archinà, il responsabile delle pubbliche relazioni a Taranto del Gruppo ILVA ( all’epoca dei fatti di proprietà della famiglia Riva) , nei cui confronti incredibilmente ad oggi il Consiglio di Disciplina dell’ Ordine dei Giornalisti di Puglia non ha ancora adottato alcun provvedimento, al contrario di altri giornalisti che avevano analoghe o ben più lievi responsabilità. Ed attualmente risulta ancora nel libro paga del quotidiano tarantino edito dalla Cooperativa Sparta, nello stesso tempo in cui è anche a libro paga del Pd pugliese, dopo aver lavorato anche per Forza Italia a Taranto! Un comportamento poco deontologico sul quale l’Ordine dei Giornalisti e l’Assostampa di Puglia tacciono e fingono di nulla. Sarà forse perchè a settembre ci sono le elezioni per il rinnovo del Consiglio, ed allora ogni voto è utile…? Emiliano ha dimenticato qualcosa…come ad esempio l’intervento della Direzione Distrettuale Antimafia di Bari, che dopo le indagini svolte dai Carabinieri di bari, ha mandato a giudizio e richiesto cinque condanne a pene comprese fra i 20 anni e i 12 anni e 8 mesi di reclusione per altrettanti imputati accusati, a vario titolo, di associazione mafiosa, voto di scambio e coercizione elettorale. I fatti contestati si riferiscono alla primavera 2015 e riguardano le elezioni regionali. Quattro dei cinque imputati, tutti pregiudicati baresi ritenuti affiliati al clan Di Cosola, avrebbero fermato gli elettori per strada invitandoli, con minacce e intimidazioni, a votare per Natale Mariella (nella foto accanto con Emiliano), poi non eletto, che era candidato alle ultime regionali nella lista dei Popolarì a sostegno di Michele Emiliano presidente. Mariella è indagato in un separato procedimento insieme con altre cinque persone. Stando alle indagini della magistratura barese gli imputati dicevano agli elettori che avrebbero verificato il voto, impedendo così «il libero esercizio del diritto di voto – recita l’imputazione – ed alterando il risultato delle votazioni per la nomina dei rappresentanti del Consiglio regionale della Puglia per l’anno 2015». E lo avrebbero fatto avvalendosi della forza intimidatrice del clan Di Cosola, “oltre che della capacità di controllo del territorio e della possibilità di contare sull’omertà delle vittime e dell’ambiente in genere”.
Ma la verità ha sempre due facce. Quella reale, e quella che si vuole spacciare. Ed Emiliano in questo è un “pusher” di caratura nazionale. Ma il governatore “levantino” finge di dimenticare la contestazione ricevuta in Consiglio regionale a Bari, dalle opposizioni ma anche all’interno della sua stessa maggioranza (Sinistra Italiana ex-Sel), e cioè quella di aver moltiplicato i posti nella società regionale istituendo i consigli di amministrazione invece che un normale amministratore unico, coinvolgendo personaggi privi di alcuna esperienza e competenza specifica , e spesso provenienti dal centrodestra, area da cui Michele Emiliano non disdegna consensi dei soliti voltagabbana. Emiliano parlando con i giornalisti pugliesi si autoproclamava garante delle sue scelte dicendo: “Di questi che ho nominato, il primo che sgarra gli stacco la testa e ci gioco a pallone”. Anche in questo sono passate alcune ore dopo la sua nomina alla presidenza di InnovaPuglia, l’agenzia regionale alla cui guida era stato appena nominato dal governatore Michele Emiliano, ed il professor Fabrizio D’Addario è stato indagato dalla procura di Bari per truffa e peculato, in un’indagine sulla sua gestione all’Amgas srl. Per questo motivo, nella tarda serata di ieri, D’Addario ha presentato le sue dimissioni, accolte immediatamente dal presidente della Regione. Fabrizio D’Addario aveva ricoperto per quattro anni la carica di direttore generale della municipalizzata barese che si occupa della distribuzione del gas. Nel 2016 il sostituto procuratore della repubblica di Bari Marco d’Agostino, ha avviato un’indagine conoscitiva sulla base di alcuni esposti, delegando per le indagini il nucleo di polizia tributaria della Guardia di Finanza. Fabrizio D’Addario era stato candidato alle regionali nel collegio di Bari, guarda caso…proprio in una delle liste civiche a supporto delle liste di Emiliano. Scopo dell’indagine era quello di verificare ed approfondire eventuali promesse “elettorali” formulate dal direttore generale D’Addario ad alcuni dipendenti della municipalizzata prima delle elezioni. Nel corso degli approfondimenti tecnici svolti, gli investigatori delle Fiamme Gialle hanno scoperto altri problemi ed anomalie, che successivamente erano state segnalate anche da alcuni componenti della società. Il professore D’Addario, secondo l’ipotesi investigativa, non svolgeva quello che avrebbe dovuto fare come direttore generale dell’azienda municipalizzata, pensando essenzialmente ad esercitare il ruolo di “politico”, al quale dedicava la maggior parte del suo tempo pur percependo un compenso di oltre 100mila euro disponendo anche di beni aziendali, secondo quanto sarebbe emerso nel corso delle indagini, e dalle risultanze conseguenti alle analisi tecniche. I finanzieri del nucleo di polizia tributaria di Bari, adesso stanno effettuando tutti gli accertamenti del caso su alcuni appalti dell’azienda, ma questa volta la delega d’indagine è stata disposta dalla Corte dei Conti, proprio sulle consulenze assegnate dalle municipalizzate Amgas ed Amtab controllate al 100% dal Comune di Bari. D’Addario peraltro ha un passato nel centrodestra, per il quale è stato consigliere comunale e nel 2010 si era candidato alle elezioni regionali in una lista che appoggiava la candidatura alla presidenza della Regione Puglia di Rocco Palese, dopo non essere stato confermato nell’incarico manageriale della municipalizzata barese, e dopo essere stato candidato per il centrosinistra alle regionali del 2015 ottenendo 5.500 voti (risultando primo dei non eletti nella lista la Puglia con Emiliano) è stato “premiato” e scelto dal governatore Emiliano alla presidenza di InnovaPuglia, la società per la programmazione strategica dell’innovazione che gestisce centinaia di milioni di euro provenienti dai Fondi Strutturali Europei , nonostante avesse ricevuto l’avviso di proroga delle indagini nella scorsa primavera.
Nella serata di ieri il collega Giuliano Foschini del quotidiano La Repubblica, ha contattato il presidente Michele Emiliano per sapere se ne fosse già a conoscenza delle indagini in corso su D’Addario, visto che il professore aveva ricevuto ben prima della nomina l’avviso di proroga delle indagini. “Non ne sappiamo assolutamente nulla” è stata la risposta “per noi, non avere indagini penali a carico è un prerequisito per le nomine e c’era stato assicurato che non ce ne fossero”. Dopo aver fatto alcune verifiche, e dopo aver contattato direttamente D’Addario, che ha confermato l’esistenza dell’indagine, Emiliano ha accolto le dimissioni (richieste), a pochi giorni dalla sua nomina, del presidente di InnovaPuglia. “Benvenuti nella pappatoia di Emiliano— hanno dichiarato Nino Marmo e Domenico Damascelli, di Forza Italia, al Corriere del Mezzogiorno — ricca di politicanti e arrivisti in cerca di poltrone, pronti ad abbandonare anche le proprie radici per questo, ringraziando un presidente di Regione che fa nomine utili solo al suo consenso senza pensare per un attimo a selezionare il meglio. La pattuglia dei nominati è un’accozzaglia degna dell’armata Brancaleone”. Secondo Andrea Caroppo (Forza Italia): “Emiliano sta pagando cambiali elettorali: aveva preso impegni e li sta onorando. A modo suo”. A questo punto Emiliano di “teste da staccare con cui giocare a pallone” ne ha più di una. Ma innanzitutto dovrebbe auto-staccare per primo la sua. Queste nomine imbarazzanti le ha fatte lui!
Il Csm processa Michele Emiliano: "E' iscritto al Pd nonostante sia ancora un magistrato". Il governatore pugliese, probabile sfidante di Renzi alla guida del partito, ha violato la norma che vieta alle toghe di fare vita attiva nelle formazioni partitiche. Il processo è fissato per il 6 febbraio, scrive il 23 gennaio 2017 "La Repubblica". E' pronto a candidarsi alla guida del Pd come alternativa a Matteo Renzi. Ma ora proprio la militanza in quel partito, nel quale ricopre da una decina d'anni cariche dirigenziali, rischia di costare cara al governatore pugliese Michele Emiliano. Perché, nonostante si sia affacciato alla politica nel 2004, con la prima elezione a sindaco di Bari, è ancora a tutti gli effetti un magistrato. E chi indossa la toga, anche se come lui è in aspettativa o fuori ruolo, non può essere iscritto né fare vita partitica attiva, almeno secondo la Procura generale della Cassazione. Che ha chiesto e ottenuto per lui un processo disciplinare. Il giudizio si celebrerà a breve, il 6 febbraio prossimo davanti alla sezione Disciplinare del Csm, il Consiglio superiore della magistratura, e a difendere il probabile competitor di Renzi sarà - come avviene solitamente in questi casi - un collega magistrato (in un primo momento era circolato il nome dell'avvocato e costituzionalista Aldo Loiodice). Lui però sembra non avere timori: "Non temo una condanna", aveva detto intervistato da La7. "L'accusa non regge" perché fondata sull'idea sbagliata che ci siano due categorie di politici": i magistrati che devono far politica "da soli e gli altri che possono farla nei partiti". Il governatore affida a una nota la propria replica: "Sono l'unico magistrato nella storia della Repubblica italiana eletto democraticamente dal popolo come presidente della Regione al quale la Procura generale della Cassazione contesta l'iscrizione a un partito politico, nonostante non svolga le funzioni di magistrato da 13 anni causa l'espletamento di mandato elettorale". E ancora: "In questi 13 anni ho sempre fatto politica all'interno di formazioni politiche assimilabili a partiti politici, prima liste civiche e poi nel Pd a partire dal 2007. L'ho fatto fin dall'inizio richiedendo l'aspettativa, anche se la legge non mi obbligava a farlo. L'aspettativa serviva a far cessare l'esercizio delle funzioni ed a rispettare il divieto di iscrizione ai partiti per i magistrati. Ho avuto per questo un blocco di carriera che avrei evitato se avessi scelto di rimanere in servizio come la legge mi consentiva". La Procura generale della Cassazione sembra invece non avere dubbi. Nell'atto di incolpazione ricorda che Emiliano durante i mandati prima di sindaco di Bari (dal 2004 al 2014), poi di assessore al Comune di San Severo e ancora oltre di presidente della Regione Puglia (dal giugno 2015a oggi) ha ricoperto contemporaneamente gli incarichi di segretario e presidente del Pd della Puglia. Cariche dirigenziali che "presuppongono per statuto l'iscrizione al partito politico di riferimento". Proprio "iscrivendosi a un partito e svolgendovi attività partecipativa e direttiva in forma sistematica e continuativa", Emiliano "ha violato" la disposizione del decreto legislativo 109 del 2006, che prevede come illecito disciplinare questi comportamenti. Norma che a propria a volta dà attuazione a una prescrizione della Costituzione, "posta a garanzia - rimarca ancora la Procura generale della Cassazione - dell'esercizio indipendente e imparziale della funzione giudiziaria" e che vale anche per i magistrati "collocati fuori del ruolo organico". "Secondo la teoria accusatoria - ribatte ancora Emiliano - esisterebbero dunque due tipi di politici in Italia. Quelli che una volta eletti dal popolo hanno il diritto di costruire la politica nazionale dentro i partiti, ai sensi dell'articolo 49 della Costituzione, e quelli che possono essere eletti, ma devono rimanere da soli, senza la possibilità di fare politica in partiti o gruppi parlamentari di partito". "Tra questi ultimi - prosegue - ci sono solo i magistrati. Che dovrebbero dunque farsi eleggere senza candidarsi in liste di partito o iscriversi a gruppi parlamentari. Che differenza vi sarebbe tra una tessera di partito e la candidatura in un partito o l'iscrizione a un gruppo parlamentare?". E conclude: "Non temo dunque il giudizio del Csm, al quale mi rimetto con fiducia".
Il Csm processa Emiliano, ancora magistrato: giudizio disciplinare il 6 febbraio per il governatore pugliese. Il governatore pugliese, autocandidatosi a sfidare Matteo Renzi alla guida del partito, secondo la Procura Generale della Suprema Corte di Cassazione ha violato la norma che vieta alle toghe di fare vita attiva nelle formazioni partitiche, scrive “Il Corriere del Giorno” il 24 gennaio 2017. E’ iscritto al Partito Democratico, partecipa alla vita di quel partito in “forma sistematica e continuativa”; ma, comportandosi in questo modo, visto che è ancora un magistrato, ha compiuto un illecito disciplinare, perchè ha violato la norma che vieta alle toghe di fare vita attiva nelle formazioni partitiche. E’ questa l’accusa da cui dovrà difendersi il presidente della Regione Puglia, auto-candidato sfidante di Matteo Renzi a giorni alterni alla guida del Pd, Michele Emiliano davanti alla Sezione disciplinare del Csm. Il processo, di cui lo stesso governatore ha parlato in una recentissima intervista, è stato fissato per il 6 febbraio prossimo. Nell’atto di accusa che lo ha mandato a giudizio si evidenzia che Emiliano durante i mandati prima di sindaco di Bari (dal 2004 al 2014), poi di presidente della Regione Puglia (dal giugno 2015 a ad oggi) ha ricoperto contemporaneamente gli incarichi di segretario (dall’ottobre 2007 all’ottobre 2009 e poi dal 2014 ad oggi) e di presidente (dal novembre 2009 al gennaio 2014) del Pd in Puglia. Michele Emiliano nonostante si sia affacciato alla politica nel 2004, con la prima elezione a sindaco di Bari, è ancora a tutti gli effetti un magistrato. E chi indossa la toga, anche se come lui è in aspettativa o fuori ruolo, non può essere iscritto né fare vita di partito attiva, almeno secondo quanto ha sostenuto la Procura generale della Cassazione, che ha richiesto ed ottenuto per lui un processo disciplinare dinnanzi al Consiglio Superiore della Magistratura. Il processo disciplinare si svolgerà fra due settimane, esattamente il 6 febbraio prossimo dinnanzi alla sezione Disciplinare del Csm, il Consiglio superiore della magistratura, e a difendere il probabile avversario di Renzi alla segreteria nazionale del Pd sarà – come accade quasi sempre in questi casi – un suo collega magistrato. In un primo momento era circolato il nome dell’avvocato e costituzionalista Aldo Loiodice. Emiliano però sembra non avere timori, ed intervistato appena 48ore fa da Giovanni Minoli a La7 ha dichiarato: “Non temo una condanna, l’accusa non regge” perché fondata sull’idea sbagliata che ci siano due categorie di politici”: i magistrati che devono far politica “da soli e gli altri che possono farla nei partiti”. Il governatore ha affidato la propria replica ad una nota scritta recapitata esclusivamente alle agenzie ed ai giornali “amici” (fra i quali evidentemente non compare il Corriere del Giorno che Emiliano ha “bloccato” persino sulla sua pagina ufficiale Facebook ) evitando così le nostre puntuali domande scomode : “Sono l’unico magistrato nella storia della Repubblica italiana eletto democraticamente dal popolo come presidente della Regione al quale la Procura generale della Cassazione contesta l’iscrizione a un partito politico, nonostante non svolga le funzioni di magistrato da 13 anni causa l’espletamento di mandato elettorale” aggiungendo “In questi 13 anni ho sempre fatto politica all’interno di formazioni politiche assimilabili a partiti politici, prima liste civiche e poi nel Pd a partire dal 2007. L’ho fatto fin dall’inizio richiedendo l’aspettativa, anche se la legge non mi obbligava a farlo. L’aspettativa serviva a far cessare l’esercizio delle funzioni ed a rispettare il divieto di iscrizione ai partiti per i magistrati. Ho avuto per questo un blocco di carriera che avrei evitato se avessi scelto di rimanere in servizio come la legge mi consentiva”. La Procura generale della Cassazione invece sembra non avere alcun dubbio. Infatti nell’atto di incolpazione ricorda che Emiliano durante i mandati politici prima di sindaco di Bari (dal 2004 al 2014), poi di assessore al Comune di San Severo ed ancora oltre di presidente della Regione Puglia (dal giugno 2015a oggi) ha ricoperto contemporaneamente gli incarichi di segretario e presidente del Partito Democratico della Puglia. Cariche politiche dirigenziali che “presuppongono per statuto l’iscrizione al partito politico di riferimento”. Pertanto, secondo la Procura, Emiliano ha violato la disposizione del decreto legislativo 109 del 2006, che prevede come illecito disciplinare questi comportamenti “iscrivendosi a un partito e svolgendovi attività partecipativa e direttiva in forma sistematica e continuativa, norma che a propria a volta dà attuazione a una prescrizione della Costituzione, posta a garanzia – rimarca ancora la Procura generale della Cassazione – dell’esercizio indipendente e imparziale della funzione giudiziaria e che vale anche per i magistrati collocati fuori del ruolo organico”. Emiliano nella sua nota arrogante presunzione ribatte: “Secondo la teoria accusatoria esisterebbero dunque due tipi di politici in Italia. Quelli che una volta eletti dal popolo hanno il diritto di costruire la politica nazionale dentro i partiti, ai sensi dell’articolo 49 della Costituzione, e quelli che possono essere eletti, ma devono rimanere da soli, senza la possibilità di fare politica in partiti o gruppi parlamentari di partito”. “Tra questi ultimi – continua nella sua rabbiosa contestazione – ci sono solo i magistrati. Che dovrebbero dunque farsi eleggere senza candidarsi in liste di partito o iscriversi a gruppi parlamentari. Che differenza vi sarebbe tra una tessera di partito e la candidatura in un partito o l’iscrizione a un gruppo parlamentare?” e conclude la sua arringa mediatica difensiva: “Non temo dunque il giudizio del Csm, al quale mi rimetto con fiducia”. Questo giornale, nella persona del suo direttore Antonello de Gennaro, in occasione della conferenza stampa di presentazione delle Liste per Emiliano a Taranto in occasione delle regionali del 2015, fu l’unico organo d’informazione in Puglia a ricordare ad Emiliano le contestazioni della Procura generale della Cassazione per le quali sarà chiamato a rispondere davanti al Csm. Emiliano cercò di sviare le domande venendo incalzato dal nostro Direttore, senza mai dare una risposta seria e corretta, limitandosi a dire “Ma a lei ha dormito bene la scorsa notte? Si è svegliato storto questa mattina?”. Ma questa volta saremo noi il prossimo 6 febbraio al Csm a rivolgere le stessa domande ad Emiliano a Palazzo dei Marescialli. Chissà se quella mattina Emiliano avrà ancora la voglia di prenderci in giro. Il tempo è galantuomo. Ed ancora una volta possiamo dire con orgoglio, “giornalisticamente” parlando che avevamo ragione noi. Insieme alla Procura Generale della Cassazione. Gli altri giornali e televisioni pugliesi che tacevano…ora parlano perchè obbligati di fatto a dare la notizia. Per loro questo è giornalismo….
Michele Emiliano: “smemorato” di professione o “furbetto del quartierino”? Ascoltare oggi Emiliano che cerca di dare “lezioni” a Renzi su come “scegliere le persone con cui interloquire” è veramente ridicolo: Ecco perchè: tutto documentato. Nello stile giornalistico del CORRIERE DEL GIORNO, scrive Antonello de Gennaro il 22 gennaio 2017. Il governatore pugliese Michele Emiliano si è fatto ospitare ieri sera nel programma ‘Faccia a faccia‘ di Giovanni Minoli su La 7 cercando il palcoscenico mediatico annunciando ancora una volta una sua ipotetica candidatura alla segreteria del Pd affermando “Se qualcuno si prende la briga di aprire il Congresso è possibile che mi candidi. Di certo non starò a guardare”. Perchè parlare solo di ipotesi? Semplice. Perchè Emiliano anche questa volta dimostra di non conoscere lo statuto del Partito Democratico, dove un congresso non si può convocare solo perchè lo vuole la minoranza o qualcuno come lui che è minoranza all’interno di quella stessa minoranza congressuale. Il “furbetto di Bari” ha aggiunto che caso di vittoria terminerebbe il suo mandato da presidente, confermando il suo attaccamento alla poltrona, che lo ha sempre contraddistinto. Ma Emiliano ha dimenticato qualcosa…e cioè che prima di Lui c’è Roberto Speranza, l’ex capogruppo della Camera dei Deputati, braccio destro di Pierluigi Bersani, ed il governatore della Regione Toscana Rossi che ha un seguito nel Pd sicuramente di molto superiore a quello del governatore pugliese che probabilmente ha capito che alle prossime regionali gli elettori lo spediranno a casa. Emiliano dice di essere pronto a sfidare Renzi: “Potrei candidarmi”, ma il presidente della Regione Puglia anche in questo dimentica…che soltanto la scorsa settimana dopo aver aveva annunciato ai suoi l’intenzione di candidarsi alla segreteria del partito, lui stesso aveva smentito seccamente una possibile sua auto-candidatura dichiarando: “Cosa ho imparato da segretario regionale? Che da solo non si va da nessuno parte, mi auguro che questo sia compreso da tutto il Pd”. Emiliano chiaramente non si è fatto mancare le solite punzecchiate contro l’ex premier Matteo Renzi aggiungendo: “Renzi al Sud non arriva, è troppo complicato per lui. E’ abituato in Toscana dove se uno si candida con il Pd viene eletto. Non capisce il Sud perché in Toscana e Emilia il Pd vive naturalmente la sua dimensione. Nel Sud doveva scegliere le persone con cui interloquire. Scegliere delle persone per bene”. Michele lo smemorato. Emiliano dimentica quante ne ha combinate mentre era segretario regionale del Pd. Allora gliele ricordiamo noi. partiamo dal famoso “Patto del Nazareno” stipulato a livello nazionale da Forza Italia (Berlusconi) e Partito Democratico (Renzi) dinnanzi al quale nessuno ricorda una sola parola di critica dell’ex-magistrato, probabilmente perchè in quel periodo (siamo nel 2014) era sotto procedimento disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura che aveva aperto un procedimento contro di lui che, infischiandosene delle norme che regolamentano l’attività ed il ruolo di magistrato da circa 10 anni faceva politica, violando le normative che impediscono le due attività parallele.. Emiliano era diventato segretario regionale del Pd pugliese dal febbraio 2014 ed in questo ruolo svolgeva con carattere di continuità attività politica. Una condotta che per norma sarebbe incompatibile con il suo ruolo di magistrato. Ai magistrati infatti non è consentita l’iscrizione ai partiti politici. E le limitazioni valgono anche per gli ex-magistrati come Michele Emiliano, che per fortuna ormai sono fuori ruolo della giustizia. Ma Emiliano alle porte della sua candidatura alle primarie del Pd per candidarsi alla carica di Governatore della Regione Puglia, minacciò ferro e fuoco nei confronti del vertice del Pd di Taranto che avevano replicato il “Patto del Nazareno” alleandosi a Forza Italia e vincendo insieme le elezioni della Provincia di Taranto. L’ex-segretario regionale del PD annunciò (a chiacchiere) inutilmente dei fantomatici provvedimenti disciplinari contro gli esponenti tarantini che erano entrati nella giunta delle larghe intese. Chiaramente non accadde mai nulla anche perchè già in quell’occasione Emiliano dimostrò di non conoscere lo statuto del Pd che consente alle segreterie provinciali la totale autonomia, dovendo loro rispondere alla segreteria nazionale, a non quella regionale. Ebbene anche quest’ anno si è ripetuta l’alleanza, alla Provincia di Brindisi, ma questa volta Emiliano si è ben guardato dal proferire parola, forse perchè stava leccandosi ancora le ferite della sconfitta elettorale del suo candidato indicato e sostenuto alla guida del Comune di Brindisi, uscito sconfitto da una lista civica sostenuta dall’ area di centro. Candidato sbagliato? No, perchè Nando Marino è una persona per bene ed un imprenditore capace e noto per le sue qualità, ma il Pd locale non lo ha voluto e sostenuto sino in fondo, solo perche non voleva farsi mettere i mettere i piedi in testa dalla nota arroganza di Emiliano, punendolo e dirottando al ballottaggio la bellezza del 12% dei voti sull’altro candidato. Risultato: il Pd a Brindisi ha perso le elezioni per il sindaco, ma il Partito Democratico sicuramente ha manifestato e dimostrato la propria dignità ed indipendenza dall’arrogante “baricentrismo” galoppante del governatore regionale. Sentire oggi Emiliano accusare Renzi” Nel Sud doveva scegliere le persone con cui interloquire” fa a dir poco ridere. Soprattutto quando pur di vincere le primarie ed essere eletto alla guida della Regione Puglia, Emiliano ha fatto patti con il diavolo, candidando nelle sue liste per le regionali ex fascisti, indagati e berlusconiani, promettendo posti ed incarichi a chiunque gli potesse portare qualche voto. Il web dovrebbe aiutare a ricordare qualcosa, che venne raccontato dai colleghi dell’Huffington Post: “Il caso più eclatante è quello di Eupreprio Curto, candidato nella lista dei Popolari, uno che da giovane aveva la Fiamma nel cuore, e dunque la tessera del Movimento Sociale. Poi, da adulto, Alleanza Nazionale nelle cui fila arrivò a Palazzo Madama. Quando Curto venne beccato per aver fatto assumere 22 tra amici e parenti in un concorso pubblico a Francavilla Fontana, la sua città, lui si difese dicendo che i suoi parenti erano “meno del dieci per cento”. Un’altra volta, sollecitato in tv da un finto faccendiere, si mise a disquisire serenamente di tangenti. Ora sostiene Emiliano. Nelle liste di Emiliano “A Foggia c’è Pippo Liscio, anche lui ex Msi e ex An, così come Antonio Martucci che invece è candidato a Taranto. Mentre a Lecce è candidato Paolo Pellegrino, che viene dalla destra, ma stava con Fini in Futuro e Libertà, di cui era coordinatore”. Sempre a proposito delle persone scelte da Emiliano l’Huffington Post scriveva che “a portare pesanti interessi ecco la carica dei “riciclati” di Forza Italia. Il coordinatore delle liste civiche di Emiliano, nella Provincia Bat (Barletta-Andria-Trani) è Francesco Spina, che fino a qualche tempo fa era con Forza Italia e ora è iscritto all’Udc. E fin qui sembra il classico “riciclo”. Ma Spina non è uno qualunque. Mentre coordina le civiche a sostegno di Emiliano è sindaco di Bisceglie in carica (con una coalizione di centro destra) e presidente della Provincia Bat, sempre col centrodestra. E già così è più ardita. Ma poiché Spina è un vero campione del trasformismo, va oltre. E oltre a sostenere Emiliano (mentre governa col centrodestra), nella stessa tornata elettorale a Trani e Andria, dove si vota per le comunali, sostiene i candidati del centrodestra. Per Emiliano è tutto normale. Anzi, è tutto nobile, tutta una questione di alti valori e princìpi”. Al comune di Molfetta il sindaco Paola Natalicchio, una di sinistra, che continua l’Huffington Post “non ha capito come funziona ormai, si è infuriata, anche pubblicamente, con Emiliano quando ha visto candidato a suo sostegno Saverio Tammarco, che a Molfetta faceva il capogruppo di Forza Italia, all’opposizione (prima sempre Tammarco era stato consigliere provinciale del Pdl in provincia di Bari). Altro pezzo pesante del centrodestra passato con Emiliano è Fabrizio D’Addario. Consigliere comunale a Bari nel 2009 nella lista di Simeone di Cagno Abbrescia, nel 2010 si candida nella lista “I Pugliesi” con Rocco Palese. La folgorazione sulla via di Emiliano (e del centrosinistra) avviene quando – ancora consigliere comunale di centrodestra –D’Addario diventa direttore generale di una municipalizzata del comune di Bari che gestisce la rete gas, l’Amgas. È una folgorazione analoga a quella che ha colpito tal Giacomo Oliveri, che nel 2005 era consigliere regionale di Forza Italia e oggi è il leader dei Moderati, per cui – anche non essendo candidato – va in tv, concede interviste, partecipa ai tavoli delle candidature. La folgorazione è legata alla nomina di presidente della Multiservizi, la municipalizzata di Bari, nomina avvenuta ad opera di Michele Emiliano. Emiliano ha accusato Renzi, sostenendo che “Nel Sud doveva scegliere le persone con cui interloquire”. Ma lui, il Michelone “barese” quello che annaspava nel pesce custodito nella sua vasca da bagno, dono di suoi amici con qualche problemino…penale cosa ha fatto di sinistra alle regionali del 2015? ce lo racconta sempre l’Huffington Post: “È lungo l’elenco degli azzurri a sostegno di Emiliano. Tra i nomi più importanti quello di Tina Fiorentino, ex assessore col centrodestra ora candidata nella lista civica “La Puglia con Emiliano”. E soprattutto Anita Maurodinoia, la casalinga di Triggiano diventata miss preferenze al Comune di Bari lo scorso anno grazie al sostegno di Schittulli, oggi competitor di Emiliano. Raccontano nel Pd locale: “Schittulli la considerava una pupilla, ha litigato col mondo per farla eleggere alla città metropolitano. Ora è passata al nemico del suo padre politico. E noi abbiamo gli estranei in casa”. Ci sono anche quelli che vennero candidati nella lista “Puglia prima di tutto”, di Tato Greco, che divenne famosa per aver candidato nelle proprie liste Patrizia D’Addario, la escort dei primi scandali sessuali di Silvio Berlusconi. Come Natalino Mariella, che ha trovato ospitalità nella lista i Popolari (per Emiliano). A Foggia per Emiliano corre Luigi Damone, figlio dell’ex consigliere regionale Cecchino Damone che della Puglia prima di tutto era capogruppo”. Lo schema Emiliano prevedeva che i “riciclati” vanno a ingrossare le liste civiche per mietere messe di voti mentre gli indagati sono nel Partito democratico, che sarà il più penalizzato. Ecco che nelle liste del Pd si trovavano candidati l’ex deputato leccese del Pds Ernesto Abaterusso, chiamato a candidarsi da Emiliano al posto del figlio Gabriele Abaterusso, condannato a due anni per bancarotta. Indagato in due procedimenti penali anche il consigliere uscente Michele Mazzarano (finanziamento illecito ai partiti da cui è salvato con la prescrizione, e per millantato credito e tangenti) . Secondo il gup della Procura di Bari, Sergio Di Paola, che nel settembre 2014 ne ha disposto il rinvio a giudizio nell’ambito dell’inchiesta su Gian Paolo Tarantini per finanziamento illecito ai partiti, l’esponente politico massafrese avrebbe ricevuto 70 mila euro da Tarantini: diecimila per pagare il concerto di chiusura della campagna elettorale del Pd a Massafra per le elezioni politiche dell’aprile 2008 e altri 60 mila per il tramite di un imprenditore che, secondo l’accusa, si sarebbe aggiudicato un appalto da 600 mila euro alla Asl proprio per il tramite del politico. A mettere nei guai Mazzarano è stato lo stesso Tarantini. Il processo è cominciato a dicembre 2014, e quindi Mazzarano si è salvato solo grazie alla prescrizione. Risultato? Mazzarano eletto capogruppo del Pd alla Regione Puglia, il quale appena insediatosi ha assunto nel gruppo (a spese del contribuente) lo “storico” segretario-ombra di Michele Emiliano, Gianni Paulicelli e come addetto stampa tale Michele Mascellaro, un giornalista finito nelle intercettazioni della Procura di Taranto (leggi QUI) , allorquando dirigeva un quotidiano tarantino del pomeriggio (di cui ancora oggi è alle dipendenze) si prestava ai giochi “sporchi ” e relative corrutele economiche del factotum dell’ Ilva Girolamo Archinà. Mascellaro dopo due anni dall’apertura del procedimento a suo carico continua a rifiutarsi di presentarsi dinnanzi al Consiglio di Disciplina dell’Ordine dei Giornalisti di Puglia adducendo di volta in volta certificati medici e giustificazioni prive di alcuna legittimità. Ma di tutto questo l’Ordine dei Giornalisti di Puglia ed il sindacato nazionale dei giornalisti, retto da un ex-collaboratore di Emiliano, tale Raffaele Lorusso non fiatano. Anzi ci vanno amabilmente a braccetto! Ma forse c’è un caso che dice tutto di Michele Emiliano e su come ha amministrato e gestisce la sua “fabbrica” del consenso prezzolato. Ad Altamura, provincia di Bari, Emiliano concesse a Luigi Lorusso, un candidato sindaco, di usare a sostegno la sua lista “Puglia con Emiliano”. Niente di strano, si dirà. Se non fosse che il suo avversario, Antonello Stigliano è del Partito democratico. Emiliano ed i suoi sostenitori hanno forse dimenticato il caso di Gianni Filomeno, della lista civica appoggiata dal Pd dove si sente una donna al telefono che, attraverso Facebook, recluta ragazzi “per sostenere il nostro candidato” e dice “portati la tessera elettorale, abbiamo bisogno del riscontro del tuo voto” e anche di quello “della famiglia” ??? Ha dimenticato quel Gianni (o Giovanni) Filomeno, suo candidato a Bari per la lista civica “La Puglia con Emiliano”, parlare davanti alla telecamera (nascosta): “Sono 30 euro. Ma non è voto di scambio, è un rimborso spese”. Attività questa scoperta e denunciata pubblicata dal Movimento 5 Stelle in campagna elettorale? Noi non lo abbiamo dimenticato. E cosa dire dei voti della malavita barese comprati in favore di Emiliano? Esponenti di un potente clan malavitoso barese avrebbero minacciato e costretto gli elettori a votare il candidato alle regionali pugliesi Natale Mariella, candidato nei Popolari per Emiliano Presidente, in cambio di 70mila euro in parte versati e in parte promessi da un referente di Mariella, tale Armando Giove. Attenzione, cari lettori. Questa non è una diceria. E’ quanto accertato dai Carabinieri nel corso delle indagini coordinate dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Bari. Di fatto, secondo i pm Carmelo Rizzo e Federico Perrone Capano, il clan avrebbero pesantemente “condizionato” le elezioni regionali del 2015 che consentirono al Centrosinistra di portare l’ex-magistrato Michele Emiliano sulla poltrona che, in precedenza, era stata di Nichi Vendola. Per concludere. Emiliano dovrebbe ricordare quanto appurato dalla Commissione antimafia e alla fine l’organismo parlamentare presieduto da Rosy Bindi che divulgo i nomi degli “impresentabili” pugliesi . Ma chi c’era fra questi candidati pugliesi impresentabili che, in base al codice etico dei loro partiti o dei partiti al cui candidato sono collegati non avrebbero potuto presentare la loro candidatura? Il primo di loro era l’imprenditore Fabio Ladisa della lista «Popolari con Emiliano» che appoggiava il candidato del Pd ed ex sindaco di Bar, Michele Emiliano. La Commissione parlamentare precisò che “è stato rinviato a giudizio per furto aggravato, tentata estorsione (e altro), commessi nel 2011, con udienza fissata per il 3.12.2015″ . E Michele Emiliano, “preso atto della comunicazione della Commissione nazionale Antimafia“, fu costretto a chiedere pubblicamente al coordinatore della lista Udc, Realtà Italia, Centro democratico di ritirare la candidatura di Ladisa. E cosa dire delle sue frequentazioni…. quando era Sindaco di bari con la famiglia di imprenditori baresi De Gennaro (che nulla hanno a che fare per mia fortuna con la mia famiglia !) coinvolti nell’inchiesta su alcuni appalti realizzati a Bari negli ultimi anni, che portò agli arresti i domiciliari i fratelli Daniele e Gerardo De Gennaro (quest’ultimo consigliere regionale del Pd), due professionisti e tre dirigenti comunali e regionali e dalla quale emerse una notevole capacità di condizionamento della famiglia di imprenditori sull’amministrazione comunale retta all’epoca dei fatti da Emiliano, sindaco di Bari ? Nel maggio 2015 vi è stato il patteggiamento delle cinque società del gruppo Degennaro di Bari coinvolte nel procedimento sui presunti appalti truccati per la realizzazione dei parcheggi interrati di piazza Giulio Cesare e piazza Cesare Battisti nel centro del capoluogo pugliese. La Dec Spa e altre quattro aziende del gruppo De Gennaro hanno definito quindi il procedimento in cui rispondevano di illeciti amministrativi con una sanzione pecuniaria di poco più di 100mila euro e la confisca di un profitto pari a 3,75 milioni di euro. Il processo per i De Gennaro “amici” e sodali di partito di Michele Emiliano è iniziato lo scorso 1 dicembre 2016. Alla luce di tutto questo, ascoltare oggi Emiliano che cerca di dare “lezioni” a Renzi su come “scegliere le persone con cui interloquire“ è adir poco imbarazzante, o meglio ridicolo. Come la stragrande maggioranza delle boutade politiche, del novello ambientalista last-minute, il quale adesso dopo Brindisi sta cercando di danneggiare il Pd anche a Taranto, stringendo alleanze oscure ed imbarazzanti con liste piene di esponenti della massoneria “ciellina”, “faccendieri” e “predoni” di denaro e cariche pubbliche, nel tentativo di portare sulla poltrona di sindaco un magistrato in pensione, candidatura auspicata e sostenuta dal vescovo di Taranto mons. Filippo Santoro. Una candidatura con molti scheletri nell’armadio e tante carte scottanti nei nostri archivi giornalistici, che non mancheremo di pubblicare al momento opportuno. Così come del governatore Emiliano in conclusione fanno molto ridere certi suoi messaggi pubblicati sulla sua pagina Facebook, salvo no accettare le critiche ed impedire bloccando i commenti contrari ai suoi post “fantozziani” . Ma è questo il significato di “democrazia” di Emiliano? E’ questo il suo rispetto per la libertà di opinione ed il diritto di critica? O soltanto un arrogante brama di potere? Ma in definitiva cari lettori, cosa ci si può aspettare da uno come Michele Emiliano che proviene da una famiglia barese che come raccontano fonti baresi più che attendibili ha origini ben poco democratiche….? Giovanni Minoli un esempio di buon giornalismo per tutti noi, questa volta mi ha deluso. Quante domande ha dimenticato di fare ad Emiliano. Eppure sarebbe bastato poco per documentarsi meglio. Gli anni passano…
Puglia, la caccia abusiva in mano ai clan: la criminalità controlla anche il business dei bracconieri. I clan foggiani che hanno messo le mani su un business lucroso. E il gelo di questi giorni sta peggiorando la situazione: senza cibo e acqua, gli uccelli si spingono in territori più esposti, scrive Chiara Spagnolo il 17 gennaio 2017 su "L'Espresso". Un posto fisso per la caccia "regolare" in Capitanata può costare fino a 40mila euro l'anno, uno abusivo almeno 10mila in meno: si scrive 'caccia non consentita' e si legge bracconaggio, gestito dai clan foggiani che hanno messo le mani su un business lucroso, trovando nei campani i clienti più spregiudicati e facoltosi. Dalla provincia settentrionale della Puglia a quelle della Campania i chilometri sono pochi e acquistare un posto in capanno o bunker - nel Parco del Gargano così come nelle saline di Margherita di Savoia, vicino al lago di Lesina o sulle alture della Daunia - è per molti un buon antidoto alla noia domenicale. Per capirlo basta fare un giro nei bar di paese e ascoltare accenti e inflessioni dialettali o affacciarsi alla porta e controllare le targhe dei grossi suv carichi di armi. Il problema del bracconaggio è tornato d'attualità dopo il freddo intenso che ha messo in ginocchio la Puglia a inizio anno e ha indotto Lipu (la Lega italiana protezione uccelli) e Wwf a chiedere alla Regione la chiusura anticipata della caccia consentita e maggiore vigilanza nelle zone martoriate dal gelo. L'ente ha prima illuso gli ambientalisti con un provvedimento di sospensione nel weekend della Befana e poi ha fatto parziale retromarcia, con l'interdizione limitata alla beccaccia e che rischia di determinare un contenzioso giudiziario. Di certo, al momento, c'è che gli uccelli migratori che scelgono la Puglia per il clima più mite rispetto all'Est Europa sono allo stremo. Provati dalla mancanza di cibo e acqua, si spingono in territori più esposti e diventano facili prede, come è accaduto all'oca collorosso abbattuta pochi giorni fa sul lago di Lesina. Si tratta di un anatide originario della Siberia, di cui sopravvivono appena 50mila esemplari e che dovrebbe godere di protezione particolare, come la moretta tabaccata impallinata poche ore prima sul litorale di Zapponeta. Ma il condizionale è d'obbligo, perché tra il passaggio del Corpo forestale nell'Arma dei carabinieri e la soppressione delle Province, che ha di fatto esautorato la polizia provinciale, i controlli sull'attività venatoria sono ridotti al lumicino. E se pure la Regione Puglia, con il Piano faunistico di agosto, ha stanziato un milione 800mila euro per attività che comprendono la gestione delle aree protette e i controlli, resta il fatto che nell'intrico di norme e competenze molto poco si riesce a fare per contrastare l'armata cacciatori. Già quelli iscritti agli Ambiti territoriali provinciali sono un piccolo esercito di 50.142 - 20.030 a Foggia, 13.159 a Bari, 6.167 a Lecce, 5.720 a Taranto, 5.066 a Brindisi - ansiosi di sparare soprattutto a volatili, ma anche a volpi e cinghiali. I residenti fanno la parte del leone, ma i posti a disposizione per gli extraregionali non sono pochi: 801 a Foggia, 526 a Bari, 243 a Lecce, 228 a Taranto e 202 a Brindisi. Su tutto vige la regola della proporzione, con il territorio foggiano trasformato in riserva venatoria, considerato che dei 560.000 ettari di territorio agro-silvo-pastorale, appena 12.000 sono ambiti protetti, mentre più della metà (380.000) sono considerati superficie utile alla caccia. Aree immense e anche poco agevoli alla percorrenza, su cui la difesa del territorio è affidata a forze dell'ordine impegnate in mille altre attività e a sparuti gruppi di volontari. Poche decine sono quelli della Lipu, altrettanti quelli del Wwf, e battono boschi e zone umide. Sono loro a scoprire bunker ricoperti di sabbia e capanni circondati dalle canne. E sono loro a ricevere minacce esplicite, danneggiamenti alle auto e ai posti di osservazione. È accaduto in Capitanata, ma anche in Salento - dove gli irregolari (che cacciano senza permesso o in giorni di silenzio venatorio) si concentrano nell'oasi delle Cesine e nel Parco di Porto Selvaggio - ma anche sulla costa tarantina, in particolare verso le saline di Manduria, o in Valle d'Itria nella zona della Selva di Fasano.
DI BARI…Concorsi pilotati cardiologia a Bari, giudici: rete nazionale di controllo, scrive il 17 gennaio 2017 "La Gazzetta del Mezzogiorno". A pilotare i concorsi universitari di cardiologia fino al 2004 c'era «una vera e propria rete nazionale di controllo». Ne è convinto il tribunale di Bari che, tuttavia, nella sentenza dell’ottobre scorso di cui sono state depositate in questi giorni le motivazioni, ha dovuto dichiarare la prescrizione del reato di associazione per delinquere. Nel processo erano imputati il cardiologo barese Paolo Rizzon, arrestato nell’ambito di questa indagine nel 2004 e ritenuto tra i presunti capi dell’associazione, suo figlio Brian Peter e altri due docenti universitari. Con quella sentenza i giudici baresi avevano anche assolto nel merito Rizzon da cinque accuse di falso e tre di truffa. Con riferimento all’ipotesi di associazione per delinquere, i giudici scrivono che «l'istruttoria dibattimentale ha acclarato che gli imputati hanno agito all’interno di un accordo criminoso, destinato a durare nel tempo, volto alla commissione di una serie indeterminata di delitti in materia di falso ed abuso d’ufficio, in danno di una pluralità non specificata di candidati ai concorsi universitari, secondo un articolato meccanismo, da essi conosciuto e condiviso». Pur dovendosi ritenere ampiamente provata l’esistenza e l’operatività del sodalizio» concludono però i giudici, il reato è ormai prescritto. Nelle oltre cento pagine di motivazioni, il Tribunale spiega come funzionava «la struttura organizzativa, caratterizzata da una efficace ripartizione dei ruoli» che consentiva di nominare «commissioni amiche» per far vincere candidati predeterminati, «scelti non sulla base del merito scientifico, ma in base ad accordi tra gli associati». Pilotando l’esito dei concorsi, i docenti avrebbero così "acquisito in ambito accademico il controllo esclusivo del settore». Le decisioni, spiegano i giudici, venivano «prese fuori dalle sedi ufficiali, fra poche persone influenti, senza alcuna seria regola, senza alcun controllo, e senza alcuna garanzia per i candidati, nei cui confronti il principale impegno delle commissioni giudicatrici non era quello di individuare i più meritevoli ma al contrario quello della elaborazione di argomenti spendibili, dietro lo scudo della discrezionalità, per escludere dalla dichiarazione finale di idoneità il candidato più meritevole, a favore dei vincitori predeterminati». La presunta associazione per delinquere agiva sulla base di "regole non scritte ma conosciute nell’ambiente universitario della cardiologia» che «si imponevano come obbligatorie ai consociati». I giudici, che utilizzano termini come «obbedienza" e «padrino di carriera», parlano di un «metodo collaudato» in cui tutti rispettavano gli ordini che arrivavano dall’alto, "anche perché - si legge nelle motivazioni della sentenza - se qualcuno non si atteneva alle indicazioni di voto, si attirava le ire e le ritorsioni dei capi dell’associazione». "Pur dovendosi ritenere ampiamente provata l’esistenza e l'operatività del sodalizio» concludono però i giudici, il reato è ormai prescritto.
Mafia: Ciancio editore della Gazzetta del Mezzogiorno a processo per concorso esterno. La Gazzetta del Mezzogiorno ed i suoi giornalisti tacciono, così come tutti gli altri organi d’informazione pugliesi. Ma ce ne siamo occupati noi del Corriere del Giorno sin dal primo giorno, scrive "Il Corriere del Giorno" l'1 giugno 2017. Mario Ciancio Sanfilippo l’imprenditore siciliano editore del quotidiano la Sicilia di Catania, e de La Gazzetta del Mezzogiorno di Bari, questa mattina è stato rinviato a giudizio per concorso esterno in associazione mafiosa. Questa la decisione del giudice Loredana Pezzino che ha disposto il giudizio dinanzi alla prima Sezione penale del Tribunale di Catania, dopo che la Corte Cassazione aveva annullato con rinvio la decisione di “non luogo a procedere” precedentemente disposta dal giudice del Tribunale di Catania Gaetana Bernabò Distefano. L’inchiesta della Procura di Catania che si avvalse del supporto investigativo del ROS dei Carabinieri, durata diversi anni, si era inizialmente fermata con una richiesta di archiviazione. Ma il Gup Luigi Barone aveva disposto la trasmissione degli atti ai Pm che avevano inizialmente chiesto il rinvio a giudizio dell’editore. La Procura della repubblica di Catania ha presentato appello contro l’archiviazione che era stata decisa dal Gup Bernabò Distefano. Parti civili i fratelli del commissario Beppe Montana, e l’Ordine dei Giornalisti di Sicilia. In aula per l’accusa i Pm Antonino Fanara e Agata Santonocito. L’editore è difeso dagli avvocati Giulia Bongiorno e Carmelo Peluso. “E’ un rinvio a giudizio che non mi stupisce – afferma l’editore catanese Mario Ciancio dopo il suo rinvio a giudizio per concorso esterno in associazione mafiosa – la mia assoluta estraneità ai fatti che mi vengono contestati è nelle indagini dei carabinieri del Ros. “Sarebbe bastato leggerle per decidere diversamente”. “Non posso però fare a meno di dire che provoca in me un moto di indignazione – aggiunge Ciancio – il fatto che una ricostruzione fantasiosa e ricca di errori e di equivoci, che ha deformato cinquant’anni della mia storia umana, professionale e imprenditoriale, alterando fatti, circostanze ed episodi, sostituendo la verità con il sospetto, sia stata adottata quale impermeabile capo di accusa per attivare un processo contro di me. Ho sempre piena fiducia nell’operato della magistratura e non ho dubbi che sarò assolto da ogni addebito”. Ciancio conclude: “Sono pronto a difendermi con determinazione, continuerò serenamente a lavorare mentre i miei legali riproporranno con pazienza tutte le innumerevoli argomentazioni a sostegno della mia innocenza. Anche se i tempi si dilateranno riuscirò a dimostrare chiaramente il grave errore consumato con questo rinvio a giudizio”. Nel corso delle udienza, la Procura aveva chiesto di svolgere il processo a porte aperte, ma la difesa di Ciancio si è opposta. Un comportamento un pò strano ed ambiguo per un editore, cioè per colui che si occupa di informazione! Sin da quando il Corriere del Giorno iniziò ad occuparsene, era il 16 ottobre 2015, i giornalisti de La Gazzetta del Mezzogiorno direttore in testa, tacquero ai propri lettori la notizia, ed un giornalista-sindacalista (assunto grazie ad una vertenza di lavoro) dipendente di Mario Ciancio, in servizio presso la redazione periferica di Taranto, ci accusò con una ridicola denuncia accusandoci di aver dato informazioni distorte sulla vicenda. Solitamente i sindacalisti difendono i lavoratori, non i datori di lavoro, ma al giornale barese lavorano da due anni grazie ai contratti di solidarietà, e quindi difendere l’editore può servire a fare carriera o non perdere il posto di lavoro. La prima udienza è stata fissata per il 20 marzo 2018. Chissà se i giornalisti della Gazzetta del Mezzogiorno se ne accorgeranno….
Guerra fra i soci di Radionorba. La famiglia Chiarappa in Tribunale contro la famiglia Montrone, scrive Antonello De Gennaro su "Il Corriere del Giorno" l'1 gennaio 2017. Chiarappa aveva sollevato alcuni dubbi sull’ammontare dei compensi che continuerebbero a percepire i membri della famiglia Montrone, nonostante l’azienda perda annualmente circa 3 milioni di euro. Perdite queste che si ripercuotono sul patrimonio dei soci, tra cui persino la Banca Popolare di Bari (che detiene in pegno le azioni anche dell’Edisud spa, società editrice della Gazzetta del Mezzogiorno) e dei suoi piccoli azionisti in rivolta. Lo scontro epistolare tra Matteo Chiarappa, socio di minoranza di Radionorba s.r.l. di cui detiene il 4,55% delle quote, che sommate a quelle dei suoi familiari, arrivano a controllare un terzo dell’intero capitale sociale e il presidente della radio di Conversano, Marco Montrone, finisce nelle aule del Tribunale civile di Bari. La famiglia Chiarappa vuole avere accesso ai documenti secondo quanto previsto dalla legge, relativi all’esercizio societario del 2015 e a quello in corso. In pratica, vuole conoscere tutti i dettagli sulla gestione economica ed amministrativa dell’azienda barese. Montrone jr., invece oppone al socio il diritto sancito dall’articolo 2476, comma 2, del Codice Civile. La “guerra” è iniziata lo scorso 9 luglio quando è stato sostituito l’avvocato Giovanni Marangelli dal ruolo di sindaco revisore di Telenorba, venendo sostituito da Francesco Albergo, 49 anni. L’ex revisore, si trovava in una evidente e quindi inconfutabile situazione di conflitto d’interesse, in quanto oltre a fare il revisore era anche l’avvocato del gruppo radiotelevisivo di Conversano. Secondo le voci ricorrenti Montrone non lo avrebbe scaricato completamente, lasciandogli la gestione delle cause in precedenza assegnate al genero, da tempo peraltro separatosi dalla primogenita Simonetta. Il fatto che Marangelli si trovasse nell’ imbarazzante posizione di “controllore” e “controllato”, è parso particolarmente grave agli osservatori più attenti, ed è molto brave che abbia relazionato sul bilancio senza osservare e verbalizzare alcunchè che meritasse un approfondimento, nonostante Matteo Chiarappa, rappresentante del gruppo familiare che controlla un terzo del gruppo Telenorba, avesse denunciato una serie di presunte irregolarità, che a un certo punto della storia diventano più che un mistero. All’interno del verbale di approvazione del bilancio, depositato nel registro delle imprese della Camera di Commercio di Bari, le dichiarazioni di Chiarappa sembrerebbero essere scomparse e quindi il socio ha formalmente contestato il grave episodio. In questa vicenda dai contorni poco chiari, fa molto rumore proprio l’assenza del Collegio dei Revisori per legge chiamato a vigilare sugli atti, innanzitutto da quello più importante: il bilancio della società. La circostanza a dir poco grave starebbe proprio nel fatto che proprio nell’assemblea societaria per l’approvazione del bilancio, è l’unico momento in cui i soci di minoranza hanno il diritto di poter esprimersi sulla gestione societaria. Chiarappa aveva sollevato alcuni dubbi sull’ammontare dei compensi che continuerebbero a percepire i membri della famiglia Montrone, nonostante l’azienda perda annualmente circa 3 milioni di euro. Perdite queste che si ripercuotono sul patrimonio dei soci, tra cui persino la Banca Popolare di Bari (che detiene in pegno anche le azioni dell’ Edisud spa, società editrice della Gazzetta del Mezzogiorno) e dei suoi piccoli azionisti in rivolta, che non saranno certamente felici di sapere che tipo di investimenti e partecipazioni venivano effettuati con i soldi degli azionisti e risparmiatori della banca barese, che grazie alle sue compartecipazioni nel mondo dell’informazione pugliese di fatto la condiziona. Altra contestazione sollevata in Assemblea dei soci riguardava i contratti delle società controllate, che fisicamente operano tutte nella stessa sede di Telenorba, ed infatti che al telefono risponderebbe persino la stessa persona in ogni caso, Cioè se si vuole parlare con Telenorba, Radionorba o Video Puglia. In pratica, mancherebbe una netta distinzione legale ed operativa tra le società e quindi secondo alcuni soci di minoranza la gestione del gruppo non sarebbe chiara. Il silenzio del presidente Luca Montrone crea molto rumore, soprattutto poichè durante l’ultima assemblea societaria, l’ingegner Montrone aveva dichiarato di voler sottoporre all’attenzione del Consiglio di amministrazione tutte le rimostranze sollevate da Chiarappa e altri soci minoritari. Ma di questo chiarimento sono rimaste le parole. Infatti, non c’ è mai stato. “Debbo precisare che io personalmente partecipo per il 4.5 per cento al capitale di Radionorba, – ha precisato Matteo Chiarappa – ma che assieme alla mia famiglia rappresento circa un terzo della società della famiglia Montrone. La mia battaglia non è la risultante di un’azione isolata, ma la rivendicazione della mia famiglia nei confronti dei Montrone, che ritengono essere al di sopra della legge e che dunque non debbano dar conto del proprio operato a soci che rappresentano circa un terzo della società. Penso che nessun giudice potrà consentire ad un socio che chiede spiegazioni di non essere ascoltato. Non è possibile nel corso delle assemblee chiedere chiarimenti sulle voci di spesa di bilancio e non ricevere alcuna informazione. Non è possibile accettare che Marco Montrone percepisca lauti compensi e benefit, drenando tutti gli utili ed i soci da anni non debbano percepire niente. Gli investimenti sono stati fatti da tutti i soci, ma gli utili servono a pagare solo i Montrone. Queste le ragioni di fondo per le quali dobbiamo conoscere le carte.”. Secondo Montrone la richiesta di accesso agli atti è “generica”. Ed è a causa di questa spiegazione poco corretta che è partita una battaglia legale a colpi di istanze, esposti, ma la risposta dei Montrone è sempre la stessa: nessun accesso, cambiando di volta in volta le motivazioni del diniego. Partendo da motivazione generiche ed incomprensibile ad arrivare all’assurdità dei Montrone che scrivono che il diritto esercitato da Chiarappa avrebbe comportato: “… ingiustificati disagi organizzativi ed intralci all’attività sociale”. Secondo il professor Michele Castellano avvocato di Matteo Chiarappa , nella sua memoria presentata al giudice, davanti al quale le parti si presenteranno per discutere del ricorso ex articolo 700 del Codice di procedura civile, scrive:: “Appare del tutto evidente che la posizione assunta dalla società è solo ed esclusivamente diretta ad evitare l’esercizio del diritto attribuito dalla legge al socio” aggiungendo che “Non sussiste alcuna ragione per giustificare il comportamento assunto dalla società”. Il secondo comma dell’artico 2476, infatti, attribuisce al socio un diritto soggettivo potestativo il cui esercizio non può essere negato né per generiche esigenze di riservatezza della società nè attraverso il richiamo ad altre ragioni. Adesso la famiglia Chiarappa resta in attesa che il giudice si esprima sul ricorso del socio Marco Montrone per l’accesso agli atti amministrativi e contabili che è stato continuamente negato dalla famiglia Montrone. La battaglia legale è appena iniziata.
DELLA…BAT. L’ex pm Savasta della procura di Trani condannato in appello, scrive il 29 marzo 2017 “Il Corriere del Giorno”. Accusa di falso per lavori ampliamento di masseria a Bisceglie: non dichiarò piscina. Nell’ambito della stessa vicenda Savasta è stato assolto nelle scorse settimane dall’accusa di concussione e sarà processato a partire da luglio insieme con familiari, soci e tecnici comunali per lottizzazione abusiva e violazione del codice dei beni culturali e del paesaggio. La Corte di Appello di Lecce ha confermato nella tarda mattinata di ieri la condanna a 2 mesi di reclusione (pena sospesa e non menzione) per falso nei confronti dell’ex pm di Trani Antonio Savasta, nei mesi scorsi trasferito come giudice a Roma. Si tratta di uno dei procedimenti penali relativi alla trasformazione di una antica masseria di Bisceglie in resort di lusso. Il Procuratore Generale della Corte di Appello di Lecce aveva in udienza chiesto la conferma della sentenza di primo grado.
L’accusa di falso riguarda l’aver falsamente dichiarato dinanzi ad un notaio in due diverse occasioni (nel 2009 e nel 2010) di non aver fatto costruire una piscina, per la cui realizzazione sarebbe stata necessaria specifica autorizzazione edilizia. Nell’ambito della stessa vicenda Savasta è stato assolto nelle scorse settimane dall’accusa di concussione e sarà processato a partire da luglio insieme con familiari, soci e tecnici comunali per lottizzazione abusiva e violazione del codice dei beni culturali e del paesaggio. L’ abuso edilizio contestato all’ex pm di Trani realizzato in concorso con famigliari, tecnici e funzionari pubblici, è relativo alla trasformazione urbanistico-edilizia della Masseria, “immobile di interesse storico, ambientale e paesaggistico, sul quale – riporta imputazione – vigeva divieto assoluto di nuove costruzioni, demolizioni e trasformazione, in una struttura turistico alberghiera” attraverso la realizzazione sprovvista delle previste necessarie senza autorizzazioni “di rilevanti modifiche ed ampliamenti”. Questa non è l’unica vicenda giudiziaria sulla masseria San Felice che vede coinvolto Savasta, giudicato da Lecce per ragioni di competenza, nate in seguito alle controversie fra Antonio Savasta e l’imprenditore barlettano Giuseppe Dimiccoli, attivo nel settore dell’abbigliamento, che nel 2005 acquistò insieme al magistrato la masseria.
DI TARANTO… Lo studio del prof. Turco sulla storia infinita sul dissesto del Comune di Taranto, scrive il 28 giugno 2017 "Il Corriere del Giorno". Presentata alla Camera di Commercio di Taranto la ricerca sul dissesto del Comune di Taranto dichiarato 11 anni fa. Ma qualcuno dimentica di occuparsi di Agromed, la società immobile da anni con oltre 10 milioni di euro “pubblici” inutilizzati. E un “blog” ufficiale-anonimo! Un bilancio comunale sparito introvabile, e tante ombre su un dissesto che nessuno ha ancora chiarito e spiegato, documenti alla mano fino in fondo. Ma che è servito al commercialista tarantino Mario Turco per realizzare a casa uno studio commissionato, presentato alla Camera di Commercio di Taranto, il cui presidente Cav. Luigi Sportelli è notoriamente coinvolto attraverso una sua società la Sincon nel dissesto comunale vantando un presunto credito. Società che come tante altre non ha inteso transarre come molte altre con l’OSL. Il dottore commercialista Turco è professore a contratto dell’Università del Salento. Il dissesto di Taranto viene imputato erroneamente alla Giunta Di Bello, mentre in realtà è conseguente ad una gestione comunale deficitaria, duratura da 20 anni prima, e cioè dalle giunte Guadagnolo, Cito, De Cosmo e successivamente ereditata dall’amministrazione comunale guidata dalla Di Bello, come ha onestamente ammesso dallo stesso Turco autore dello studio-ricerca. E’ assolutamente doveroso per il nostro giornale rendere noto un forte contrasto in essere, taciuto a molti, ma in realtà esistente e ben noto a tutti, e cioè che la società (SINCON ) del Cav. Sportelli, risulterebbe aver richiesto in passato al Comune di Taranto il pagamento di fatture prive di alcun ordinativo, la cui documentazione completa è stata acquisita dal nostro giornale, motivo per cui il Sindaco Ippazio Stefàno con un provvedimento rimosse il dirigente competente Rosa De Benedetto che ne autorizzava illegittimamente il pagamento. Chiaramente questo è quanto si evince dai documenti amministrativi e disciplinari del Comune. Contrariamente a quanto prospettato dal commercialista dr. Turco, il Comune di Taranto in realtà non rischia un secondo dissesto alle porte come qualcuno vorrebbe far presagire. Ad oggi, il totale delle somme trasferite dal Comune di Taranto alla Osl ammonta a 128.403.834,68 euro. Una cifra imponente, pagata dalle casse dell’amministrazione comunale tarantina, nel corso del “quinquennio di prescrizioni” in cui il Comune guidato da Stefàno è stata autorizzato per legge a mantenere la tassazione ai massimi livelli. Circostanza questa che il dr. Turco si è ben guardato dall’evidenziare. Stralciando la “partita dei Boc” (circa 250 milioni di euro) in realtà contrariamente a quanto emerso da questa ricerca unidirezionale restano da pagare debiti per pochi milioni di euro. Il Comune, sta provvedendo a trasferire all’Osl le somme necessarie ad avviare le ultime transazioni. Ci sono poi le “cause pendenti”, il cui valore nominale ammonta ad oggi circa 80 milioni di euro. Se il Comune che finora ha vinto tutte le cause intercorse, dovesse essere condannato, ovviamente dovrà pagare. Se le dovesse vincere invece dovrebbe incassare non pochi soldi dal Gruppo BancaIntesaSanpaolo. Interessante la relazione del dr. Davide Di Russo vice presidente del Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Commercialisti basata sullo studio effettuato recentemente sui dissesti delle pubbliche amministrazioni in tutt’Italia, anche se un pò disinformato sul “caso Taranto” con le sue considerazioni sulla presenza di ben 15 candidati (in realtà erano 10) alla poltrona di Sindaco dopo il dissesto. Ignorando che nel frattempo sono passati 10 anni e soprattutto che fra quei 10 candidati c’era anche la moglie di un commercialista seduto in prima fila, membro del consiglio dell’Ordine dei Commercialisti di Taranto, il quale come la prevalenza dei commercialisti eletti nel Consiglio dell’ordine dei commercialisti tarantini, lavora prevalentemente grazie alle curatele fallimentari, consulenze e perizie per il Tribunale e la Procura della repubblica.
In questi anni l’Osl ha complessivamente effettuato oltre 24mila transazioni, dato che non è stato preso in considerazione (come mai?) nello “studio”…di Turco, accantonando circa 34 milioni euro, frutto di offerte transattive avanzate ma rifiutate dalla controparte. Comprese quelle della Sincon di Sportelli. E la Camera di Commercio tace….
Alla Camera di commercio tarantina invece tutto tace sulla questione AGROMED, sollevata due anni fa dal nostro giornale, società partecipata con ugual quota (33%) dal Comune di Taranto e dalla Camera di Commercio di Taranto, che ha in cassa fondi inutilizzati per 10.924.000 euro, versati su un conto corrente della BCC di S.Marzano di S. Giuseppe, il cui incarico di tesoreria scadrà il prossimo 31 dicembre 2017. Ma questo particolare deve essere sfuggito… nella ricerca di Turcosulle attività economiche del Comune di Taranto...Sarà forse perchè è sul libro paga (come revisore) di questa società ferma, immobile e che non svolge alcuna attività? Dall’ultimo bilancio disponibile di Agromed approvato nell’ aprile 2016 si legge che “in merito agli indici di redditività si segnala quanto segue: a) il ROE (Return on equity) – Indice di redditività del capitale proprio – sia netto che lordo, presenta nuovamente un andamento decrescente, dovuto alla riduzione dei tassi di interesse applicati alle disponibilità di conto corrente, correlati all’andamento del T.U.R. fissato dalla B.C.E. b) il ROI (Return on investment) – Indice di redditività del capitale investito – presenta valore negativo data l’assenza di ricavi della gestione caratteristica. c) il ROS (Return on sales) – Indice di redditività operativa – non è calcolabile, dal momento che il denominatore del rapporto (Ricavi delle vendite) è pari a zero. Anche in questo caso, questi soldi, fermi, immobili giacenti sul conto corrente di una banca (il cui presidente Franco Cavallo e direttore generale Emanuele Di Palma siedono nel consiglio della CCIAA di Taranto) che ci lucra utilizzandoli per le proprie attività di finanziamento alla propria clientela, nessuno ne parla, data la generosità di questa banca ad elargire elemosine pubblicitarie alla stampa locale o allestire sedi faraoniche ad ogni buon gusto di gestione economica. Sino a quando durerà Agromed? Cosa si aspetta a questo punto a liquidarla o ad utilizzare finalmente gli oltre 10 milioni di euro per i reali fini istituzionali, e non lasciarli fermi immobili su conti bancari? Ma le “stranezze” della Camera di Commercio di Taranto non finiscono mai. Infatti da alcuni mesi è apparso online NOI CAMERA il blog “ufficiale” della Camera di Commercio di Taranto gestito in spregio alle vigenti leggi italiane sulla trasparenza. Infatti non risulta nell’area Amministrazione Trasparente della CCIAA di Taranto non risulta alcun ruolo, incarico e compenso economico per i curatori (“TEAM”) di questo blog, fra i quali risulta persino un Senatore della repubblica, Mauro Del Barba, un ex-impiegato nativo e residente a Sondrio in Lombardia, membro della 5a commissione Bilancio e della commissione parlamentare per le questioni regionali. Che si non capisce che attinenza abbia con il blog della Camera di Commercio di Taranto, ente che assegna incarichi senza alcun bando di evidenza pubblica. Ma quello che è ancora peggio, è che non è dato sapere di chi sia proprietà di questo blog, che dalle nostre ricerche online, risulta “mascherato” e quindi anonimo. Alla faccia della trasparenza e legalità. Per non parlare poi dell’ufficio stampa affidato formalmente ad un avvocato, Domenico Carbone, giornalista pubblicista, il quale notoriamente si occupa in realtà da sempre dell’ufficio di conciliazione, come si evince nella pianta organica della Camera di Commercio di Taranto, ente che da anni paga fior di quattrini a persone assunte senza alcun titolo o esperienza reale, o parenti di magistrati del Tribunale di Taranto. Ma in questo caso si tratta di assunzioni effettuate dalle gestione precedenti al Cav. Sportelli, quando l’ente camerale era molto “generoso” anche con i giornalisti locali.
Ilva, "Ambiente Svenduto": presidente e giudice Corte d’Assise si astengono. In aula il 20 settembre, scrive il 12 luglio 2017 "Il Corriere di Taranto". Ora ogni spetterà valutazione al presidente del tribunale Franco Lucafò che dovrà decidere se rinnovare loro la fiducia o assegnare il procedimento ad un altro collegio. Sull’istanza di ricusazione dei due giudice si esprimerà comunque la Corte d’Appello. Ancora un colpo di scena nel processo ‘Ambiente Svenduto’ sul presunto disastro ambientale prodotto dall’Ilva. Il neopresidente della Corte d’ Assise del processo Stefania D’Errico, e il giudice a latere Fulvia Misserini, pur avendo respinto nel merito, durante l’udienza odierna, le eccezioni della difesa degli imputati in merito alla serenità e libertà di giudizio, hanno dichiarato di astenersi dal portare avanti il dibattimento e quindi di rimettere ogni valutazione al presidente del tribunale Franco Lucafò. Sarà dunque quest’ultimo a decidere se rinnovare loro la fiducia o assegnare il procedimento ad un altro collegio. I difensori di alcuni imputanti, come riportato questa mattina, hanno presentato anche istanza di ricusazione dei due giudici, sulla quale comunque si esprimerà la Corte d’Appello. Le ragioni sono sempre le stesse: le eccezioni legate all’insediamento del giudice Stefania D’Errico al posto del giudice Michele Petrangelo prima che questi vada in pensione per raggiunti limiti d’età (il prossimo 2 agosto), il fatto che il giudice sia residente in uno dei quartieri considerati più inquinati e risulterebbe quindi potenzialmente parte offesa; inoltre è stata evidenziata la partecipazione del giudice D’Errico ad una iniziativa ambientalista organizzata da una scuola di Taranto e l’adesione del marito della giudice ad un gruppo Facebook, risalente al 2012, chiamato ‘Profumo di Ilva’, di chiara ispirazione e matrice ambientalista. Al giudice a latere Misserini invece, i difensori hanno chiesto di astenersi per la sua frequentazione sporadica con un teste del processo indicato dal pubblico ministero. La presidente D’Errico, al termine di una lunga camera di consiglio, ha letto due ordinanze separate con cui ha respinto le eccezioni della difesa, ritenendo che non comportino la necessità dell’astensione obbligatoria, e sottolineando di essere stata indicata quale giudice togato aggiunto nel 2016 e che il giudice Petrangelo non avrebbe potuto, a causa di un impedimento, presiedere l’udienza odierna. In merito al gruppo Facebook a cui ha aderito il marito e alle altre contestazioni, il giudice ha invece precisato che si tratta di fatti datati nel tempo e che non ci sono casi di ‘inimicizie gravi’ con gli imputati. Il processo è stato così aggiornato al 20 settembre prossimo e l’udienza si terrà non più nell’aula di Corte d’Assise di Taranto ma nell’aula bulker dell’ex Corte d’Appello, al quartiere Paolo VI.
Processo «Ambiente svenduto». Rinnovata fiducia ai due giudici. «Non c'è alcuna incompatibilità», scrive il 21 luglio 2017 “La Gazzetta del Mezzogiorno. Restano al loro posto i due giudici togati della Corte d’Assise di Taranto impegnati nel processo per il presunto disastro ambientale causato dall’Ilva. Lo ha deciso il presidente del Tribunale di Taranto Franco Lucafò che ha depositato oggi il provvedimento con cui non ravvisa incompatibilità nei confronti del neopresidente della Corte d’Assise, Stefania D’Errico, e del giudice a latere Fulvia Misserini. Erano stati alcuni difensori nell’udienza del 12 luglio scorso a mettere in dubbio la serenità e la libertà di giudizio dei due giudizi che avevano deciso di astenersi dal portare avanti il dibattimento e di rimettere ogni valutazione nelle mani del presidente del Tribunale. I difensori, sempre nella scorsa udienza, avevano presentato anche istanza di ricusazione dei due giudici, sulla quale si esprimerà la Corte d’Appello, eccependo questioni legate all’insediamento del giudice Stefania D’Errico al posto del giudice Michele Petrangelo prima che questi vada in pensione per raggiunti limiti d’età (2 agosto); al fatto che il giudice D’Errico sia residente in uno dei quartieri considerati più inquinati e risulterebbe, per questo, potenzialmente parte offesa, e alla partecipazione del giudice D’Errico a una iniziativa ambientalista organizzata dalla scuola e all’adesione del marito della giudice a un gruppo Facebook, risalente al 2012, chiamato 'Profumo di Ilvà. Al giudice a latere Misserini i difensori chiedevano invece di astenersi per la sua frequentazione sporadica con un teste d’accusa del processo. Il processo è stato aggiornato al 20 settembre prossimo nell’aula bulker dell’ex Corte d’Appello, al quartiere Paolo VI.
Ilva: “inammissibile” la ricusazione giudice, scrive martedì 17 maggio 2016 la Redazione di "Taranto Buona Sera”. La sezione distaccata di Taranto della Corte d'Appello di Lecce ha dichiarato inammissibile, per carenza di documentazione, l'istanza di ricusazione presentata dall'ex assessore provinciale all'Ambiente Michele Conserva (Pd), uno dei 47 imputati del processo per il presunto disastro ambientale causato dall'Ilva, nei confronti del presidente della Corte d'Assise, Michele Petrangelo. L'ordinanza è stata notificata agli avvocati Michele Rossetti e Laura Palomba, difensori di Conserva, che oggi - secondo quanto apprende l'Ansa - riproporranno la richiesta di ricusazione presentando la documentazione mancante in occasione della prima udienza del processo. Prevista in aula la presenza del presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano. L'ente è tra le circa mille parti civili del processo. L'ex assessore Conserva è accusato di concussione tentata e consumata a carico di due dirigenti della Provincia impegnati con il rilascio di autorizzazioni a favore del gruppo Riva. I suoi legali motivano la ricusazione con il ruolo di presidente svolto dal giudice Petrangelo nel collegio del tribunale del Riesame che nel dicembre del 2012 confermò gli arresti domiciliari a carico di Conserva, arrestato dai finanzieri il 26 novembre dello stesso anno in una inchiesta parallela.
Corrado Clini: "L'Ilva è stata svenduta: nel 2012 valeva quasi 9 miliardi". L'ex ministro: "La colpa è di chi voleva la nazionalizzazione", scrive Anna Maria Greco, Giovedì 01/06/2017, su "Il Giornale". Corrado Clini ha gestito da ministro dell'Ambiente del governo Monti la grande questione dell'Ilva e oggi, che si è arrivati alla vendita, legge i fatti alla luce della gestione del problema negli ultimi 5 anni.
Professore, due cordate si fronteggiano anche se quella Arcelor-Mittal sembra favorita rispetto ad AcciaItalia, ma si temono 6mila esuberi, i lavoratori sono in sciopero e il confronto tra governo e sindacati è durissimo: prevedeva questo epilogo?
«C'era da aspettarselo. È il risultato della catastrofica perdita di posizione sul mercato di quella che era la più grande acciaieria d'Europa. Nel 2012, quando feci accettare alla famiglia Riva il piano di risanamento e ammodernamento degli impianti con un investimento, il valore dell'asset era attorno a 8-9 miliardi, ora le offerte sono di 1 miliardo e 800 milioni di AcciaItalia e di 2.300 milioni di Arcelor-Mittal. Un quinto del valore del 2012, la riduzione dell'occupazione è connessa alla progressiva perdita di quote di mercato con il conseguente calo di produzione. Ovviamente tutto questo si ripercuote sull'indotto. Se fosse stato attuato il piano, che doveva essere completato entro il 2015, oggi l'Ilva sarebbe l'acciaieria più moderna e competitiva d'Europa».
Si paga la scelta del governo Letta di aver interrotto quel percorso e di aver scelto il commissariamento?
«Non c'è stato il coraggio politico e istituzionale di proseguire la strada indicata da governo e parlamento nel 2012. Ha prevalso una campagna mediatica senza precedenti che ha attribuito allo stabilimento tutti i rischi per la salute generati nella città da molti altri fattori, sostenuta da provvedimenti giudiziari incomprensibili e da forze (nella maggioranza di allora e nella Fiom di Landini) che spingevano per la nazionalizzazione, come negli anni '70, delle Partecipazioni statali. Nessuno ha voluto prendere in considerazione tranne l'allora vicepresidente della Commissione Ue Antonio Tajani, il mio allarme sulla connessione tra l'attacco all'Ilva e l'interesse dei competitor europei e internazionali per la riduzione della presenza dell'Ilva sul mercato dell'acciaio. I commissari si sono trovati a gestire il declino dell'acciaieria».
Lei è convinto che si potesse salvare la posizione sul mercato e l'occupazione senza rischi per la salute dei cittadini?
«Gli interventi urgenti a difesa dell'ambiente e della salute del piano erano la garanzia per la continuità della produzione e la salvaguardia dell'occupazione. Invece, questi interventi sono stati rinviati nel tempo e diluiti nella sostanza, il termine del 2015 è stato prorogato al 2018».
Anche la magistratura...
«Nel 2012 uno dei 3 miliardi che i Riva destinavano al risanamento era disponibile sotto forma dei prodotti pronti alla vendita. Ma il gip di Taranto li sequestrò come corpo del reato. Superammo il blocco con una legge, ma la Consulta riconobbe la legittimità. Eravamo nel 2013 e il governo successivo decise il commissariamento. Tutte le scadenze sono saltate e ci troviamo a questo punto».
Paradosso Taranto: tra gli aspiranti sindaco l’Ilva rimane un tabù. Finalmente un articolo "vero" sulle elezioni amministrative di Taranto. Ed infatti non a caso lo ha scritto un giornalista del quotidiano LA STAMPA che non vive a Taranto! Mentre i 10 candidati svicolano, tra slogan e proposte irrealizzabili, nel silenzio complice dei soliti “pennivendoli” da quattro soldi….
Di Paolo Baroni, 1 giugno 2017. L’Ilva è grande una volta e mezzo la città di Taranto. È naturale che la sovrasti in tutto, che la fagociti. Il paradosso è che mentre la città rischia di affondare trascinata dalla crisi del suo siderurgico il tema in città è quasi tabù. Solo l’annuncio di una nuova ondata di esuberi fuori misura legati all’imminente passaggio di proprietà, 5-6 mila licenziati di qui al prossimo anno, ha smosso le acque. Si è fatto sentire il sindaco uscente, Ippazio “Ezio” Stéfano, che ha rivendicato il coinvolgimento della città nella trattativa per la cessione – un vero paradosso se si considera che tutti lo indicano come il campione dell’immobilità – e ha preso posizione qualcuno dei candidati che puntano a subentrargli alla guida di Palazzo di Città. Da anni e oggi ancora di più, con l’economia in caduta libera, centinaia di negozi e case sfitte o in vendita a prezzi da saldo e appena 3 persone su 10 che lavorano (mentre le altre vivono di sussidi pubblici ed espedienti), l’Ilva a Taranto è «La Questione». Eppure sino a ieri nei comizi elettorali come nelle interviste tv, pochi ne parlavano esplicitamente. «Molti si nascondono», spiega il candidato del centrosinistra Rinaldo Melucci. Troppo facile cavalcare una questione ambientale ma anche troppo rischioso immaginare di attaccare in qualche modo gli operai che comunque rappresentano pur sempre un bel pacchetto di voti. Anche il M5S un poco svicola. Il problema ambientale, complice l’alleanza col movimento “Liberi e pensanti” di derivazione Fiom, è solo il decimo punto del programma del loro candidato, Francesco Nevoli, avvocato di professione e figlio dell’assessore al Bilancio che nel 2006 portò il Comune al dissesto. Che oltre ad evocare l’esigenza di un accordo di programma per far pesare la città nelle scelte future, e a proporre un irrealizzabile grande piano di «riconversione economica» del territorio, non va. Il Pd? Ha sposato la linea Emiliano della de-carbonizzazione, altro progetto lunare stante l’attuale indisponibilità di gas, ma lo affiancano a proposte più concrete nel campo del turismo e dell’agroindustria. Il centrodestra? Non pervenuto. La sua candidata Stefania Baldassari, direttrice in aspettativa del carcere cittadino, il più delle volte si sottrae al confronto come è capitato l’altro giorno con Confindustria. Spiega il presidente degli imprenditori tarantini Vincenzo Cesareo: «Purtroppo c’è molto pressappochismo: c’è tanta gente che parla per sentito dire e c’è poca conoscenza dei problemi. Anche se siamo in campagna elettorale questa vicenda non si può liquidare con una battuta dicendo solo “chiudiamo le fonti inquinanti”, oppure “mettiamo gli operai a fare le bonifiche”». «Se siamo arrivati a questo punto – denuncia a sua volta il segretario della Fim Cisl Valerio D’Alò – è soprattutto a causa dell’assenza della politica locale». A pochi giorni dal voto il quadro politico (e sociale) di Taranto si presenta frantumato come non mai: 10 aspiranti sindaci, 37 liste, oltre 1400 candidati. A contendersi il voto di protesta saranno i 5 Stelle e la Lega d’azione dell’ex sindaco Cito, che da pluri-condannato ricandida il figlio Mario. Il centrosinistra sulla carta potrebbe contare un ampio consenso ma si presenta diviso in ben quattro schieramenti. Il candidato di Pd, Psi e Alternativa popolare è Rinaldo Melucci, giovane presidente di un consorzio portuale. Emiliano, suo grande sponsor lo ha indicato come futuro «sindaco sarto», chiamato insomma a «unire e a invertire il processo di confusione e di scomposizione che si è sviluppato in questi anni». Di certo Melucci non avrà vita facile perché se la dovrà vedere innanzitutto col presidente uscente del consiglio comunale, Pietro Bitetti (ex Pd ora Progetto Taranto), appoggiato dietro le quinte dal vecchio dominus cittadino Claudio Signorile e dal suo quotidiano Taranto BuonaSera. Quindi col prediletto del sindaco uscente, il giudice di sorveglianza Massimo Brandimarte (Sviluppo Democrazia Solidarietà), volto noto di “Forum”, con l’ex procuratore Franco Sebastio (lista civica MutaVento) e con l’allevatore Vincenzo Fornaro candidato di Verdi, Civati e De Magistris. Possibile esito del voto dell’11 giugno? I sondaggi disegnano una gara a quattro, con Nevoli e Cito destinati a rubarsi i voti a vicenda, ma col candidato del M5S accreditato di un 18-20% davanti a Baldassari, e a Melucci e Bitetti. Quest’ultima competizione rischia di favorire per il ballottaggio la candidata del centro-destra che, assieme a Sebastio e Brandimarte, compone una singolare «filiera della giustizia». Melucci è convinto che i 5stelle siano sopravvalutati e che alla fine la partita tra centrosinistra e centrodestra. In realtà tutti dovranno fare i conti con un terzo incomodo, l’astensionismo, che a Taranto viaggia ben oltre il 40 per cento.
Elezioni Taranto 2017. La grande “monnezza”: la stampa. Scrive il 10 aprile 2017 Antonello de Gennaro su "Il Corriere del Giorno". La “Grande Monnezza” è quella variegata, variopinta, composta da un mix di giornalisti, pennivendoli e scribacchini, pronti a passare da uno “sponsor” ad un’altra in cambio di soldi o di qualche promessa. Una “Grande Monnezza” al cui interno sguazzano non pochi “pennivendoli” (chiamarli giornalisti sarebbe offensivo per quei pochi seri) i quali fanno questo mestiere calpestando tutte le norme deontologiche, lavorando sotto mentite spoglie per candidati, politici, aspiranti tali, vendendo il loro tesserino per qualche centinaia di euro in più. Questo giornale come i nostri lettori hanno avuto ben modo di verificare è sinora stato silente osservatore su quanto accade in vista delle prossime elezioni amministrative. Lo abbiamo fatto perchè al contrario di finti moralisti dell’ultima ora non abbiamo alcun interesse personale e diretto con alcuna candidatura anche se a questa competizione (si fa per dire…) elettorale partecipa una mia lontana parente che porta il mio stesso cognome, e con la quale sono in aperto contrasto ideologico e caratteriale. Ma di quest’ ultimo particolare a molti non importerà nulla, mentre qualche frustrato adesso potrà mettersi il cuore in pace.
La “Grande Monnezza” è variegata, variopinta, composta da un mix di giornalisti, pennivendoli e scribacchini, pronti a passare da una lista ad un’altra in cambio di soldi o di qualche promessa. Una “Grande Monnezza” al cui interno sguazzano non pochi “pennivendoli” (chiamarli giornalisti sarebbe offensivo per quei pochi seri) che fanno questo mestiere calpestando tutte le norme deontologiche, lavorando sotto mentite spoglie per candidati, politici, aspiranti tali, vendendo il loro tesserino per qualche centinaia di euro in più. Nella mia breve permanenza tarantina, durante la quale la solita mano vigliacca mi ha incendiato la macchina (inutilmente), ho fatto il mio lavoro: osservato, parlato con candidati, partecipato a conferenze stampa, ed ho avuto notizia di giornalisti “profughi” di un giornaletto fallito da tre anni che si propongono a questo o quel candidato per qualche migliaio di euro, addirittura in accoppiata con il/la rispettiva consorte.
Giornalisti in cassa integrazione (e quindi retribuiti dallo Stato) come Pierpaolo d’ Auria che manda in giro comunicati autodefinendosi “addetto stampa del consigliere regionale Liviano”. Giornalisti che nelle conferenze stampa si stracciano le vesti della professionalità illudendosi che non sappiamo che quella stessa persona viene indicata da un parlamentare della provincia come “mio addetto stampa”.
Ho letto la scorsa settimana un editoriale di un collega, e cioè Enzo Ferrari direttore del quotidiano(Taranto) Buona Sera, il cui reale editore come a tutti ben noto è la famiglia Signorile (Claudio ex ministro socialista) lamentarsi del modo di comunicare di una candidata sindaco, che preferisce comunicare via web (come fanno peraltro una marea di politici a partire dall’ ex-premier Matteo Renzi, dal leader dl M5S Beppe Grillo e dal Sindaco di Roma Capitale Virginia Raggi, tanto per fare qualche nome…) che viene così testualmente accusata: “scavalco i giornali e faccio da me. Sembrano affermazioni di un candidato grillino, di quella parte della politica – meglio, antipolitica – che ha nel suo codice genetico la delegittimazione del ruolo della stampa e l’uso della pseudo democrazia diretta attraverso la giungla dei socialnetwork, dove in verità il più delle volte si sviluppano discussioni che non sono proprio un esempio di civiltà e confronto”. Caro collega Ferrari, la scelta della Baldassari non è delegittimazione, ma secondo me comunicare direttamente ai cittadini, agli elettori attraverso i social network soprattutto in una città come Taranto dove sono molti, troppi, i giornalisti che stanno sul libro paga di qualcuno che non è il suo lettore o editore, è stato una legittima scelta che condivido ed apprezzo. Così facendo ha oltrepassato la solita “mediazione” giornalistica di un tanto al chilo…e costretto i giornali e siti a dover raccontare il suo pensiero senza travisarlo o interpretarlo difformemente dalla realtà.
Leggerlo poi su un quotidiano il cui ex-direttore (Michele Mascellaro) compare ancora oggi nella gerenza come “redazione di Bari” mentre nello stesso tempo è ufficialmente retribuito ed alle dipendenze del Gruppo PD al Consiglio Regionale della Puglia onestamente fa solo ridere, se non piangere per come viene calpestata la nostra deontologia professionale. Legittimo chiedersi se il Consiglio dell’Ordine dei Giornalisti di Disciplina in Puglia esiste? “Accogliendo l’invito dell’Associazione della Stampa di Puglia, i nominativi per l’ufficio stampa sono stati selezionati tra i giornalisti iscritti all’Ordine”, dichiarava a suo tempo con un comunicato (privo di firma) il PD pugliese.
Quello stesso Michele Mascellaro che da anni sfugge alle sue responsabilità (intercettazioni processo Ambiente Svenduto) grazie al silente menfreghismo dell’Ordine dei Giornalisti di Puglia e del sindacato pugliese che lo “protegge”. Ma in cambio di cosa? Il silenzio forse? E su cosa…?
Vedere apparire un sito online come La Ringhiera edito non da un editore, da una casa editrice, ma bensì da un’A.P.S. cioè un’Associazione di Promozione Sociale, che per legge non può avere profitti. Mentre in realtà vende magliette ed incassa pubblicità attraverso la società compiacente Capera srl (che li ospita non a caso in ufficio), e che vanta due direttori (Angelo Di Leoe Michele Tursi) su soli due giornalisti dichiarati che vi scrivono, i quali peraltro vengono pagati ogni mese da oltre due anni dalla cassa integrazione, degli articoli inneggianti all’Assostampa pugliese, ed alle calpestate (da loro stessi) norme deontologiche , fatemelo dire, va venire a dir poco il voltastomaco. Uno dei due, e cioè Angelo Di Leo come tutti ben sanno a Taranto, ha lavorato nello “staff” (parola che a qualche sindacalista da quattro lire non piace molto) di Rosanna Di Bello di Forza Italia quando era il Sindaco del Comune di Taranto, per poi successivamente armi e bagagli in occasione delle ultime regionali a Taranto, a fare il capo dello staff elettorale del consigliere regionale uscente Annarita Lemma, capolista nel PD, la quale è uscita sonoramente “trombata” cioè non rieletta dai suoi elettori, e vedere sulla testata dell’ associazione di promozione sociale La Ringhiera “sparata” (o meglio “spacciata”) come notizia il comunicato dell’ Assostampa che attacca chi usa “staff di comunicazione” fa sicuramente sbellicare dalle risate. Parlano proprio loro che non hanno mai fatto nulla per garantire ai disoccupati pugliesi il diritto al lavoro negli uffici stampa degli enti pubblici ai sensi della Legge 150.
O vogliamo parlare del cosiddetto IlGiornalediTaranto, testata online di proprietà di un’associazione no-proft (di cui ci siamo occupati in passato – leggi QUI) presieduta dall’ex-assessore regionale Fabrizio Nardoni (ex-Sel-Vendola) diretto dal pubblicista Angelo Lorusso, marito della giornalista Luisa Campetelli (a sinistra nella foto) alla guida nel crack giornalistico-editoriale-fallimentare del CdG di Puglia e Lucania? Lorusso ha un’associazione che effettua corsi di formazione professionale (con i soldi “pubblici” della Regione Puglia) , ma dopo le due esperienze fallimentari a capo dello staff elettorale-trombato di Fabrizio Nardoni, si prodiga da settimane per trovare una nuova collocazione, offrendosi come “spin-doctor” a chiunque gli capiti a tiro pur di raccattare qualche migliaio di euro, alternando i suoi rapporti con il Sen. Dario Stefàno a Tonino Caramia, per finire al consigliere regionale barese Alfonso Pisicchio.
Dov’era l’Assostampa di Puglia…. allorquando Michele Tursi ancora in forza, cioè socio-dipendente alla Cooperativa 19 luglio (editore del CdG di Puglia e Lucania successivamente fallito con una massa fallimentare di oltre 5 milioni di euro) lavorava quotidianamente alla Camera di Commercio di Taranto, con un contratto di 1.000 euro netti al mese oltre contributi INPGI , senza che sia stata fatta alcuna selezione e/o bando pubblico, ed in un aperto contrasto deontologico che questo giornale ha pubblicamente denunciato e raccontato DOCUMENTALMENTE senza che l’ Ordine dei Giornalisti di Puglia abbia mosso un solo dito. Ma esiste un Consiglio di Disciplina in questo Ordine? E’ la domanda che nei prossimi giorni faremo ufficialmente e legalmente al Presidente del Tribunale di Bari che nomina il Consiglio su Disciplina su indicazione di una rosa di nomi ricevuta dall’ Ordine dei Giornalisti. Informando per competenza la Direzione Generale Affari Civili del Ministero di Giustizia che vigila sugli ordini professionali territoriali.
Possibile che nessuno dei rappresentanti dell’Ordine dei Giornalisti di Puglia e del loro “caro” sindacato si accorga di quanti conflitti d’interesse vi siano nel giornalismo tarantino? Nessuno alla Gazzetta del Mezzogiorno a Taranto (redazione dove ci sono più sindacalisti che giornalisti), riceve i comunicati stampa per un candidato sindaco del centrosinistra inviati e firmati dalla giornalista Maristella Baggiolini, ex-collaboratrice dell’ex-assessore Fabrizio Nardoni alla Regione Puglia, che nello stesso tempo è direttore responsabile del giornale online TVMED, dove all’improvviso è scomparso il suo nome! Tutto normale questo per la Procura di Taranto che ha indagato tanto sul sottoscritto spendendo inutilmente tanti soldi del contribuente ??
L’ Ordine dei giornalisti di Puglia e l’Associazione della Stampa di Puglia (i nuovi Cicì & Cocòdella pseudo informazione pugliese), denunciano come “il fenomeno costituirebbe sicuramente una buona notizia, soprattutto in una fase di forte contrazione del mercato del lavoro giornalistico, se l’incontro fra domanda e offerta di prestazioni professionali avvenisse nel rispetto della dignità delle persone, prima ancora che del diritto a un’equa retribuzione sancito dalla Costituzione”. Ma lo sanno che il più vecchio quotidiano pugliese e cioè la Gazzetta del Mezzogiorno dove lavora il sindacalista-presidente Bepi Martellotta ed il suo vice-sindacalista Mimmo Mazza, pagano ai loro collaboratori l’importo di circa 5 euro netti ad articolo? E questo sarebbe l’equo compenso? Probabilmente è più equo il compenso delle donne delle pulizie che a Taranto percepiscono 8 euro l’ora!
Come non ridere (o meglio avere pena) delle dichiarazioni del sindacato pugliese dei giornalisti, di quello che voleva costituirsi parte civile nei miei confronti per una denuncia strumentale di “stalking”, frutto della malsana fantasia e farneticazione del suo sodale ed iscritto Mimmo Mazza presentata nei miei confronti, che è stata annientata dal Gip di Taranto, dal Tribunale del Riesame e persino dalla Corte di Cassazione. Scrive l’Assostampa sul suo sito: ““Pervengono al sindacato dei giornalisti – proseguono – segnalazioni, sulle quali sono in corso verifiche, di offerte di lavoro a condizioni economiche risibili. Forze politiche e candidati, che hanno già investito o si preparano a investire decine di migliaia di euro in campagne pubblicitarie, gadget, cene elettorali e altro, diventano parsimoniosi quando si tratta di stipulare un contratto con i propri addetti stampa. “Questa situazione – continua il ridicolo comunicato dell’ASSOSTAMPA di Puglia – talvolta favorita da comportamenti scorretti di sedicenti giornalisti che si offrono gratis al politico di turno nella speranza di ricavarne utilità e gratificazioni future, si va addirittura allargando all’affidamento della comunicazione a non meglio identificati “staff,” dai quali pervengono comunicati non firmati in barba alle principali regole della professione. Note, per di più, ricche di contestazioni nei confronti di quei giornalisti che si sono azzardati a svolgere regolarmente il loro lavoro esercitando il diritto di cronaca nei resoconti delle candidature e delle liste” e conclude “è inaccettabile oltre che offensiva della dignità e del decoro dell’intera categoria. E’ bene ricordare ai segretari dei partiti politici e ai singoli candidati, qualora lo avessero dimenticato, che quella giornalistica è un’attività professionale che ha regole, parametri retributivi e obblighi contributivi anche in Puglia e che non si può umiliare la dignità degli iscritti all’Albo. Tanto più è illegittimo affidare lo svolgimento di questa professione a chi la esercita abusivamente, in contrasto con le prescrizioni che l’attesa riforma dell’editoria ha finalmente sancito”.
E quale sarebbe la Legge che obbliga ad un candidato di comunicare ed inviare delle proprie dichiarazioni esclusivamente con un iscritto all’ Ordine? E cosa vieterebbe eventualmente a tutti i laureati in Scienze della Comunicazione di fare ciò legittimamente? O forse in vista dei prossimi congressi per il rinnovo delle cariche del Consiglio dell’Ordine dei Giornalisti di Puglia qualcuno vuole far vedere che si occupa dei colleghi pugliesi? La Cassazione ha stabilito anni fa che è legittimo criticare (con continenza) l’operato della magistratura e persino del capo dello Stato, Quindi cosa e chi vieterebbe a qualcuno di poter esercitare il proprio legittimo diritto di critica nei confronti di una stampa tarantina nella stragrande maggioranza dei casi asservita e corrotta? O forse qualcuno a Taranto non si è accorto di un ente pubblico come la Camera di Commercio di Taranto che da qualche mesi dichiara come addetto stampa un avvocato-pubblicista, che da qualche mese firma i suoi comunicati stampa, il quale in realtà si è sempre e solo occupato di conciliazioni, ed peraltro cugino di un “noto” magistrato tarantino?
Dov’erano l’Assostampa e l’Ordine dei Giornalisti di Puglia quando il Comune di Taranto negli ultimi 10 anni ha avuto ed usato come addetto stampa una gentile “vigilessa” (non iscritta all’ Ordine)? E dov’erano queste “verginelli” della professione, quando la Provincia di Taranto a partire dalla Presidenza Gianni Florido ad oggi ha avuto ed utilizzato a tutt’oggi come addetto stampa una persona che in realtà è una segretaria dipendente dell’ente provinciale, ed anch’essa non risulta iscritta all’ Ordine dei Giornalisti? O quando per anni l’ASL Taranto ha avuto un addetto stampa che non era iscritto all’ Ordine al quale si è iscritto soltanto recentemente dopo le nostre denunce?
Ma siamo proprio sicuri che a Taranto esiste una magistratura indipendente che applica a fa rispettare le norme di Legge? I recenti accadimenti sulle vicende per il processo Ambiente Svenduto dicono purtroppo il contrario. Secondo fonti abbastanza attendibili sembrerebbe addirittura che una giornalista-sindacalista tarantina la cui firma appare molto spesso sull’edizione di Taranto della Gazzetta del Mezzogiorno svolga incarichi di comunicazione per il Commissario delle Bonifiche (in rigoroso silenzio ed anonimato…)! E come mai nessuno si meraviglia e lamenta del fatto che l’Autorità Portuale di Taranto organizza conferenze stampa, interviste, invii comunicati stampa senza che risulti assunto un giornalista idoneo a tale compito secondo la Legge 150? Forse qualcuno non si è tolto del tutto il cappuccio dalla testa per non riuscire a vedere tutto ciò….
Dov’erano questi “censori” e paladini di una finta deontologia, degni dei frequentatori di un bar…citato in un’ormai celebre affermazione del prof. Umberto Eco, allorquando giornalisti e collaboratori della redazione tarantina della Gazzetta del Mezzogiorno venivano lautamente ricompensati da un ente pubblico per le loro collaborazioni ad associazioni di categoria ed enti pubblici?
Appunto cari lettori, questa è la stampa “monnezza”. Ecco perchè l’informazione a Taranto muore lentamente di giorno in giorno. E prima del sottoscritto lo ha detto pubblicamente un certo Marco Travaglio ….in occasione dell’ultimo concerto del 1 maggio. E nessuno ha fiatato e protestato.
Il giornalista Luigi Abbate ha perso la causa contro BluStar TV. Scrive “Il Corriere del Giorno” il 27 giugno 2017. “Le sentenze non si commentano, si rispettano” dice una vecchia massima. Ma ora chi gli pagherà le “spese di giustizia compensate”? I partiti che lo corteggiavano mesi fa cosa diranno adesso? E Travaglio? “Il licenziamento del giornalista Luigi Abbate, è soltanto l’ultimo atto illegittimo adottato dall’editore dell’emittente televisiva tarantinaBlustar‘‘. Così tuonava esattamente un anno fa Raffaele Lorusso presidente dell’Assostampa, il sindacato dei giornalisti pugliesi, recentemente “promosso” alla guida della FNSI, parlando del giornalista di Taranto divenuto famoso non per le sue inchieste, ma solo per una domanda scomoda, e il microfono che gli venne allontanato in una conferenza stampa da Girolamo Archinà, responsabile delle relazioni istituzionali dell’Ilva, mentre il giornalista cercava di intervistare lo scomparso presidente Emilio Riva. Lorusso non contento dichiarò anche: “Già un anno fa, nell’assordante silenzio delle istituzioni e delle forze politiche di Taranto, Blustar Tv licenziò quattro giornalisti adducendo quale motivazione il venir meno dei centomila euro annualmente garantiti dall’Ilva”. Ma nessuno si chiese come mai le domande “scomode” Luigi Abbate non le faceva quando la sua emittente televisiva ospitava (come le altre tv locali) la pubblicità dell’Ilva? Dov’era finita l’indipendenza, la professionalità? Per il Tribunale del Lavoro di Taranto invece non è andata esattamente come Abbate ed i sindacalisti raccontavano (e non è la prima volta…!). Il Corriere del Giorno è in grado di pubblicare la sentenza, facendo parlare i documenti, di cui stranamente l’Assostampa pugliese ed il suo rappresentante tarantino Mimmo Mazza non parlano. Nessun comunicato. Nessun commento dell’Assostampa pugliese. I giornalisti-sindacalisti, è ben noto cercano solo le telecamere per manifestazioni e convegni dove sentirsi “vivi” e farsi conoscere. Avete mai visto un “vero” giornalista fare carriera grazie al sindacato? Noi non lo ricordiamo. Bene che gli vada, i giornalisti-sindacalisti notoriamente vanno a sedersi sulle poltrone lautamente profumate dell’INPGI (l’ente previdenziale dei giornalisti) o della CASAGIT (la cassa di assistenza dei giornalisti). E poi vediamo come succede. Leggete da soli. Ecco la sentenza, che non commentiamo. Ma ricordiamo a quei politici che si stracciavano le vesti di dosso, che corteggiavano Abbate, che accusavano l’on. Michele Pelillo di aver contribuito al licenziamento, che adesso dovrebbero avere il coraggio e la dignità di chiedere scusa per le accuse infondate, e se accettano un consiglio, tacere. Farebbero miglior figura! La sentenza parla di licenziamento legittimo per esubero del personale. Decreto rigetto n. cronol. 20195/2015 24 giugno 2015. Procedimento n. 448/2015 RG Tribunale di Taranto Giudice del Lavoro.
Depuratore di Specchiarica. I tanti padri di un fallimento. Ricordo molto bene quando Emiliano promise solennemente che lo scarico a mare imposto da Vendola non si sarebbe fatto.
Il Pd di Avetrana abbandona la linea Emiliano-Del Prete in tema di depurazione, scrive "La Voce di Manduria" il 12 marzo 2017. Al partito democratico di Avetrana non convince più il piano del governatore Michele Emiliano del depuratore con scarico emergenziale sul terreno e chiede di spostare il sito altrove. Dicendosi ora «da sempre contrari alla localizzazione nella località Urmo Belsito», appena due settimane fa i piddini avetranesi, esprimevano «la massima soddisfazione in merito alle decisioni che, in itinere, la Regione Puglia ed Acquedotto Pugliese, con il prezioso contributo dei Comuni Interessati, dei Consiglieri Regionali del territorio e quelli del Gruppo PD, e soprattutto del Prof. Mario Del Prete, sono in fase di elaborazione, riguardo il Depuratore Consortile Manduria-Sava». Evidentemente convinti a cambiare idea dall’onda di proteste della loro comunità che vuole contrastare a tutti i costi il progetto Aqp-Del Prete-Emiliano, gli esponenti del Pd di Avetrana scrivono ora che «i recenti sviluppi della vicenda, che prevedono uno studio di fattibilità per il superamento dello scarico in mare delle acque come recapito finale della depurazione, nonché il venir meno della realizzazione della rete fognaria nelle località marine di Manduria, rendono superata quella localizzazione. Si considera, infatti – aggiungono -, che un depuratore posto presso il mare abbia dei costi molto maggiori rispetto ad una struttura che dovrebbe servire solo ed esclusivamente i nuclei abitati di Manduria e Sava». Per questo, secondo quanta nuova linea, «Il Circolo di Avetrana del Partito Democratico chiede a gran voce che sia preso in considerazione lo spostamento del sito del Depuratore per i motivi sopra esposti, ovvero: la mancanza del servizio fognario presso le marine di Manduria, il superamento dello scarico in mare, ed i costi eccessivi di una condotta che da Sava dovrebbe arrivare fino a Urmo Belsito». Il Pd avetranese, infine, «invita tutte le componenti politiche e sociali di Avetrana a ritrovare l’unità per poter ottenere un risultato utile all’intera popolazione, piuttosto che intraprendere lotte in solitaria che non fanno altro che dividere il fronte e rendere vana la deliberazione unitaria del Consiglio Comunale del 17 febbraio scorso, in cui si confermava la contrarietà di Avetrana all’ubicazione del sito del depuratore».
SPECCHIARICA. Quando il turista malcapitato viene a San Pietro in Bevagna, a Specchiarica o a Torre Colimena dice: “qua non c’è niente e quel poco è abbandonato e pieno di disservizi. Non ci torno più!”. Al turista deluso e disincantato gli dico: «Campomarino di Maruggio, Porto Cesareo, Gallipoli, Castro, Otranto, perché sono famosi?» “Per il mare, per le coste, per i servizi e per le strutture ricettive” risponde lui. «Questo perché sono paesi marinari a vocazione turistica. Ci sono pescatori ed imprenditori e gli amministratori sono la loro illuminata espressione» chiarisco io. «E Manduria perché è famosa?» Gli chiedo ancora io. “Per il vino Primitivo!” risponde prontamente lui. Allora gli spiego che, appunto, Manduria è un paesone agricolo a vocazione contadina e da buoni agricoltori, i manduriani, da sempre i 17 km della loro costa non la considerano come una risorsa turistica da sfruttare, (né saprebbero come fare, perché non è nelle loro capacità), ma bensì semplicemente come dei terreni agricoli non coltivati a vigna ed edificati abusivamente, perciò da trascurare.
Specchiarica è Salento. Specchiarica è un territorio costiero posto sul lato orientale della marina di Taranto. E' una lontana frazione decentrata di Manduria, provincia di Taranto, attigua al confine territoriale di Porto Cesareo, provincia di Lecce. Specchiarica confina con altre frazioni manduriane: ad est con Torre Colimena; ad ovest con San Pietro in Bevagna. Specchiarica è meno nota delle precedenti località pur se, in periodo estivo, ospita il doppio dei loro villeggianti. Le sue spiagge sono alternativamente sabbiose e rocciose ed il mare è incontaminato. Specchiarica è delimitata da due importati risorse ambientali. Sul lato est di Specchiarica vi è la Salina dei Monaci, sul lato ovest vi è il fiume Chidro. Specchiarica è formata da 7 contrade: quota 10; quota 11; quota 12; quota 13; quota 14; quota 15; quota 16. Le contrade non sono altro che delle strade di campagna comunali perpendicolari alle parallele strade provinciali e statali: la litoranea Salentina e la Tarantina. Le strade contradaiole oggi asfaltate alla meno peggio, sono bucate da tutte le parti. Ai lati di queste strade comunali da sempre si è lottizzato e costruito abusivamente. Prima a ridosso della litoranea e poi man mano, fino all'interno senza soluzione di continuità. Migliaia di case e decine di strade che da private sono divenute pubbliche. Gli organi preposti giudiziari ed amministrativi, anzichè regolare questo scempio, lo hanno agevolato.
A Specchiarica è quasi impossibile arrivarci: non ci sono vie di collegamento degne di un paese civile. Non vi è una ferrovia: i treni si fermano a Taranto (50 km). Non vi è un aeroporto: gli aerei si fermano a Brindisi (50 km). Non vi sono autostrade: l'autostrada si ferma a Massafra (60 km). Non vi sono porti: le navi si fermano a Taranto o Brindisi. Non vi sono autolinee extraurbane: gli autobus si fermano a Manduria (20 km) e qualche volta ad Avetrana (6 km).
Di questo diciamo grazie a chi ci amministra a livello provinciale, regionale, statale, ma diciamo grazie anche alla maggioranza di chi abita il territorio, abulici ad ogni autotutela e servili con il potere per voto di scambio o altre forme di clientelismo. Compromessa con la politica, la maggior parte degli abitanti di Specchiarica sono consapevoli del fatto che tutte le abitazioni della zona (Specchiarica, ma anche San Pietro in Bevagna e Torre Burraco e Torre Colimena) sono insalubri (mancanza di fogna e acqua potabile) e quindi inabitabili, oltre che inquinanti la falda acquifera. Devono solo ringraziare le omissioni delle Autorità preposte allo sgombero degli immobili per sanità e sicurezza pubblica, se si può ancora usufruire di quelle case.
Gli abitanti di Specchiarica sono degni e meritevoli dell'irridenza e dello sberleffo dei "Polentoni" (mangia polenta ovvero un pò lentoni di comprendonio) che definiscono i "Terroni" retrogradi ed omertosi, anche se molti settentrionali abitano la zona e non si distinguono per niente dalla massa. Gli specchiarichesi anziché ribellarsi, subiscono e tacciono. In questo modo, per non pretendere quello che gli spetta, le loro proprietà sono svalutate ed improduttive.
Percorrendo la litoranea Salentina, Specchiarica, a guardarla dal lato del mare è un paradiso vergine ed incontaminato, ma volgendo gli occhi all'interno ci si trova un ammasso di immobili, per lo più seconde case, costruite tutte abusivamente nell'indifferenza delle istituzioni. L'urbanistica del posto non esiste, e quello che c'è, di fatto, è mancante di qualsivoglia servizio civico. Mancano: acqua potabile e sistema fognario, la cui mancanza incide sull'inquinamento della falda acquifera; percorsi di viabilità pedonale ed automobilistica; illuminazione pubblica e luoghi di svago e di ritrovo. Assurdo, ma manca addirittura una piazza e perfino i marciapiedi per camminare o passeggiare. Tempo fa a Specchiarica vi era un luogo di ritrovo. Un bar-ristorante-pizzeria con annesso parcheggio roulotte, parco giochi e sala da ballo all'aperto. Vi era movimento, luci, suoni, svago, intrattenimento. Svolgeva altresì la funzione di ufficio informazioni. Era frequentato per lo più dai turisti, ma era malvisto da molti locali, erosi dal tarlo dell'invidia, abituati all'assistenzialismo e disabituati all'iniziativa imprenditoriale ed all'emancipazione culturale ed economica. In precedenza quel luogo era usato come campo di calcio da comitati estemporanei di gente locale, per lo più di Avetrana, avendoselo appropriato illegalmente, senza ristoro economico per il proprietario. Un intrattenimento gratuito per chi si accontenta di poco o di niente e pretende che gli altri facciano lo stesso. Hanno perso il giocattolo nel momento in cui chi ne aveva diritto ha creato un'azienda. Pur essendo proprietà privata, dei "Pesare" noti possidenti di Avetrana prima di passare all'attuale legittima proprietà, le malelingue diffamatorie divulgarono la convinzione che il terreno fosse stato usurpato illegalmente a danno del demanio. Il venticello della calunnia tanto soffiò forte che un giorno d'inverno qualcuno appiccò il fuoco alla struttura. Un avvertimento del racket a chi non voleva pagare il pizzo o una mano armata dall'invidia. La calunnia ancor oggi è un venticello che non smette di soffiare. L'amministrazione pubblica non ha più dato modo ai proprietari di ricostruire quello che la mafia o l'invidia aveva distrutto. La mafia ti rovina la vita; lo Stato ti distrugge la speranza. Le rovine di un passato sono ancora lì a ricordarci l'incapacità degli amministratori pubblici di governare e gestire un territorio.
Il paradosso è che a Specchiarica ha più diritto una pianta vegetale, pur non inserita in un sistema protetto di macchia mediterranea, che un essere umano, la sua proprietà, la sua azienda.
Se tocchi una pianta o bruci le erbacce le autorità ti distruggono con la delazione di pseudo ambientalisti. Vi è indifferenza, invece, se si abitano case insalubri ed inabitabili, in zone prive di ogni strumento urbanistico.
L'amministrazione comunale di Manduria è incapace di dare un'immagine ed una regolamentazione affinchè il territorio sia una risorsa economica e sociale per il territorio. Specchiarica è un luogo desolato ed abbandonato a sè stesso. Posto nel limbo territoriale e culturale tra i comuni di Avetrana e Manduria è un luogo di vacanze. Ambìto da entrambi i Comuni, il territorio è oggetto di disputa sulla sua titolarità. Avetrana ne vanta l'autorità per precedenti storici e per l'infima prossimità. L'argomento ad Avetrana è l'unico tema per le campagne elettorali. I proprietari delle case o i locatari che li occupano temporaneamente (pagando affitti in nero) sono gente di varie origini anche estere o extra regionali o provinciali. I specchiarichesi per lo più sono di origini autoctone, ossia sono cittadini di Avetrana, ma anche di Erchie, Torre Santa Susanna, Manduria e di altri paesi pugliesi limitrofi che si affacciano sulla costa ionica.
Specchiarica ha un solo ristorante, un solo bar, un posteggio per roulotte: troppo poco per sfruttare economicamente la risorsa del turismo. Ma i locali son contenti così. I saccenti amministratori locali ed i loro referenti politici provinciali e regionali, anzichè impegnarsi a porre rimedio ad un danno economico e d'immagine incalcolabile, nel deserto hanno pensato bene di progettare lo sbocco a mare del depuratore fognario di Manduria e Sava (paesi lontani decine di chilometri), arrecando addirittura un probabile danno ambientale.
Un comitato si è formato per fermare quello che il Comune di Manduria, l'Acquedotto Pugliese e la Regione Puglia vogliono fare in prossimità della località "Ulmo Belsito", frazione turistica di Avetrana, ossia il depuratore con lo scarico a mare nella marina incontaminata di Specchiarica, frazione di Manduria; nessuno, invece, ha mai alzato la voce per obbligare a fare quello che si ha sacrosanto diritto a pretendere di avere come cittadini e come contribuenti che sul posto pagano milioni di euro di tributi.
Comunque i comitati in generale, non questo in particolare, sono composti da tanti galletti che non fanno mai sorgere il sole e guidati da personaggi saccenti in cerca di immeritata visibilità o infiltrati per parte di chi ha interesse a compiere l'opera contro la quale lo stesso comitato combatte. Questi comitati sono formati da gente compromessa con la politica e che ha come referenti politici gli stessi che vogliono l'opera contestata, ovvero nulla fanno per impedirlo. Valli a capire: combattono i politici che poi voteranno alle elezioni. Spesso, poi, ci sono gli ambientalisti. Questi a volte non sanno nemmeno cosa significhi amore per la terra, la flora e la fauna, ma per ideologia impediscono il progresso e pretendono che si torni all'Età della Pietra. Ambientalisti che però non disdegnano i compromessi speculativi, tanto da far diventare le nostre terre ampie distese desertiche tappezzate da pannelli solari e fotovoltaici che fanno arricchire i pochi. Pannelli solari che offendono il lavoro dei nostri nonni che hanno conquistato quei terreni bonificandoli da paludi e macchie. Sicuramente non vi sono professionisti competenti a intraprendere le azioni legali e giudiziarie collettive adeguate, anche con l'ausilio delle norme comunitarie. Di sicuro i membri del comitato non vogliono sborsare un euro e si impelagano in proteste infruttuose fine a se stesse. Se il singolo può adire il Tar contro un atto amministrativo che lede un suo interesse legittimo (esproprio), la comunità può tutelare in sede civile il diritto alla salute ed all'immagine ed alla tutela del proprio patrimonio.
Per quanto riguarda la costruzione ed il funzionamento del depuratore vi sono norme attuative regionali che regolano la materia. A livello nazionale invece, si fa riferimento ai due decreti legislativi il n. 152/06 (“Norme in materia ambientale”) e il n. 152/99 (recante “Disposizioni sulla tutela delle acque dall’inquinamento e recepimento della direttiva 91/271/CEE concernente il trattamento delle acque reflue urbane e della direttiva 91/676/CEE relativa alla protezione delle acque dall’inquinamento provocato dai nitrati provenienti da fonti agricole”) che, recependo la normativa comunitaria allo scopo di tutelare la qualità delle acque reflue, disciplinano che gli scarichi idrici urbani siano sottoposti a diverse tipologie di trattamento in funzione della dimensione degli agglomerati urbani. Altro è il controllo successivo rispetto ai parametri microbiologici di riferimento, gli stessi fissati dal D. lgs. 116 del 30 maggio 2008 ad integrazione del D.p.r. n. 470 dell’8 giugno 1982, norma emanata in recepimento della direttiva 79/160/CEE sulla qualità delle acque di balneazione e ora sostituita dalla più recente direttiva 2006/7/CE.
Il sindaco di Avetrana aveva firmato per il depuratore a Ulmo, scrive il 10 settembre 2015 "La Voce di Manduria". Scarico a mare no, depuratore in zona Ulmo Belsito si. E’ scontro su questo tra il vicesindaco di Avetrana, Alessandro Scarciglia e il consigliere regionale di Torricella, Peppo Turco. Il numero due della giunta avetranese fomenta la polemica postando su facebook gli atti deliberativi e i documenti attestanti la contrarietà degli avetranesi non solo alla condotta sottomarina, ma anche all’ubicazione delle vasche di raccolta e deposito previste a due passi dalla zona residenziale di Ulmo Belsito. Il consigliere Turco, da parte sua, fa notare la differenza di vedute di Scarciglia con il suo sindaco il quale, spiega Turco, è invece favorevole al sito Ulmo. «Da sempre – scrive il vicesindaco di Avetrana – siamo stati contro lo sversamento in mare delle acque reflue e contro l’ubicazione del depuratore (collettore) nei pressi dell’unica località turistica del nostro comune». Come prova di questo, l’amministratore avetranese posta tutte le delibere prodotte negli anni che, in effetti, attestano l’opposizione degli avetranesi sia alla condotta che alla sede delle vasche». Il consigliere di Torricella che con il suo collega manduriano, Luigi Morgante hanno preso a cuore la vicenda del «no scarico a mare», richiama l’amico Scarciglia e fa emergere la contraddizione tra lui e il suo sindaco. «Gli atti – scrive Turco – sono che stai facendo una figuraccia; per vincere una campagna elettorale avresti dovuto dirci tutto prima e non dopo. Negli incontri – continua il consigliere regionale – abbiamo sempre parlato di condotta». Infine Turco smaschera il capo dell’amministrazione di Avetrana citando un documento da lui sottoscritto. «Perché – chiede a Scarciglia – non posti il documento sottoscritto dal tuo sindaco in cui accetta tutto?». Più imbarazzante, per l’amministratore di Avetrana, l’intervento pubblico dell’ambientalista Nicolò Giangrande che su Facebook ha pubblicato la lettera richiamata da Turco (con tanto di firma del sindaco De Marco), con questo duro commento: «È semplice sbraitare, oggi, contro un tavolo riannodato tra mille difficoltà – si legge nel post – quando, invece, il Comune di Avetrana è stato il primo a firmare a Bari, il 4 agosto 2014, un avallo all’AQP per la condotta sottomarina. Una firma che ancora oggi pesa come un macigno nella ricerca di una soluzione condivisa tra tutti gli attori coinvolti. E’ meglio rinfrescare la memoria a quegli amministratori avetranesi – aggiunge Giangrande -, forse un po’ distratti o smemorati, che ricostruiscono la vicenda del depuratore sempre in maniera incompleta e sempre omettendo i documenti a loro più scomodi».
LA STORIA DEL DEPURATORE PUNTO PER PUNTO. Intervento del 24 aprile 2015 di Nicolò Giangrande su "Viva Voce Web". Dopo aver ascoltato molti degli interventi alla manifestazione di domenica 19 aprile, reputo sia doveroso ricostruire brevemente la decennale vertenza “no scarico a mare” per fare chiarezza sulle responsabilità del progetto al quale ci stiamo opponendo. Uno sguardo all’indietro non per motivi nostalgici bensì per chiarire alcuni elementi che, a mio avviso, stanno portando il dibattito, e il conseguente scontro, ad una contrapposizione “locale” versus “regionale”. La realtà è ben più complessa e chi vuole ridurla ad un banale schema del tipo “noi” contro “loro” ha come obiettivo quello di nascondere le responsabilità e confondere la situazione. Se vogliamo capire quanta responsabilità abbiano i diversi attori istituzionali coinvolti, dobbiamo analizzare le “parole” e i “(f)atti” che caratterizzano il loro discorso e le loro azioni.
Partiamo dal livello locale: Manduria.
Primo punto. L’Amministrazione Comunale di Manduria (sindaco Francesco Massaro, centrosinistra) ha indicato una localizzazione per il depuratore tanto lontana dal centro abitato cittadino quanto vicino all’unica area turistico residenziale di Avetrana con la motivazione di voler servire la marina manduriana. Una scelta miope che ha portato, sì, l’impianto lontano dal naso dei cittadini-elettori di Manduria ma lo ha avvicinato così troppo alla costa che l’unico scarico possibile dei reflui era, e rimane, il mare.
Secondo punto. Quando è stata presentata la Valutazione d’Impatto Ambientale (VIA) vi era la disponibilità regionale alla modifica del sito (leggere pag. 13 della VIA, febbraio 2011) e, quindi, del conseguente scarico a mare. Il Comune di Manduria (sindaco Paolo Tommasino, centrodestra) non ha colto quella preziosa occasione e la VIA è stata approvata lasciando invariato il sito. Sei mesi dopo, nell’agosto 2011, lo stesso sindaco Tommasino era in prima fila nella manifestazione di San Pietro in Bevagna ad arringare la folla contro lo scarico a mare.
Terzo punto. L’attuale Amministrazione di Manduria (sindaco Roberto Massafra, liste civiche) si oppone alla costruzione dello scarico a mare ma non lo ha ancora dimostrato con degli atti amministrativi rilevanti. Passiamo ora dal livello locale a quello regionale. Salto volutamente i commissariamenti prefettizi della Città di Manduria e il livello provinciale poiché le responsabilità in questi livelli, pur essendoci, sono minime. Metto di lato anche l’AQP perché l’Acquedotto in questa partita è il braccio operativo della Regione Puglia.
Quarto punto. Nichi Vendola – nel suo triplice ruolo di Presidente della Regione Puglia, Commissario Straordinario all’Ambiente nominato dal Governo e leader nazionale di “Sinistra, Ecologia e Libertà” - è rimasto totalmente indifferente dinanzi alle richieste, provenienti da più parti, di ascoltare le soluzioni alternative. Una persona come lui, tanto impegnata nel mettere in luce le contraddizioni di alcune opere in altre regioni italiane e pure sulla costa adriatica pugliese, avrebbe dovuto rivolgerci un’attenzione particolare. Tra le incoerenze che voglio sottolineare vi è quella lettera a firma di Luca Limongelli (dirigente del Servizio Idrico della Regione Puglia), in cui si riconosce la netta contrarietà delle popolazioni interessate, si citano le autorizzazioni mancanti e si chiede al Ministero dell’Ambiente di inserire la costruzione del depuratore nel decreto “Sblocca Italia”. È paradossale come la Regione Puglia di Vendola sia tanto impegnata ad opporsi allo “Sblocca Italia” -poiché considerato un provvedimento calato dall’alto che non permette alcun confronto con la popolazione locale- e poi un funzionario della stessa Regione lo invoca, nel silenzio di tutti i vertici regionali, per imporre una scelta ad un territorio nettamente contrario.
Quinto punto. Fabiano Amati e Giovanni Giannini - rispettivamente l’ex e l’attuale assessore regionale ai Lavori Pubblici (entrambi del Partito Democratico) - si sono rivelati strenui difensori delle scelte e degli interessi dell’Acquedotto Pugliese. Infatti, tutti e due non hanno mai voluto ascoltare le nostre proposte alternative allo scarico a mare.
Sesto punto ed ultimo. Gli attuali consiglieri regionali eletti nella circoscrizione di Taranto -Anna Rita Lemma, Donato Pentassuglia, Michele Mazzarano (PD), Alfredo Cervellera (SEL, oggi Misto), Francesco Laddomada (La Puglia per Vendola), Giuseppe Cristella, Arnaldo Sala, Pietro Lospinuso (PDL-Forza Italia), Antonio Martucci (Italia dei Valori, oggi Moderati e Popolari) - sono stati tutti quanti, chi più che meno, interpellati per occuparsi della vertenza. Gli impegni presi, però, non sempre si sono trasformati in atti tangibili. Tra di loro vi è qualcuno che negli ultimi giorni ha pure espresso vicinanza alla nostra lotta. Questi atteggiamenti da convertiti sulla via di Damasco, forse meglio dire “sulla litoranea di Specchiarica”, li fanno apparire superficiali quanto quegli studenti che il 6 di gennaio si ricordano di non aver fatto i propri compiti e pensano a quale giustificazione usare il giorno dopo. Come vediamo le responsabilità della condotta sottomarina non sono solo da un lato bensì interessano le Istituzioni di ogni livello e i Partiti di ogni colore. Manduria e Bari sono accomunate entrambe dal dire una cosa e farne un’altra. Una pericolosa separazione tra “parole” e “(f)atti” che sta portando ad un progressivo allontanamento tra le Istituzioni e i cittadini e tra i Partiti e gli elettori. Non ci si può, quindi, meravigliare se poi i giovani presenti in piazza domenica scorsa contestano apertamente i simboli e gli uomini delle Istituzioni e dei Partiti. Per risolvere questa vertenza non c’è bisogno di alcun eroe pronto a immolarsi davanti alle ruspe. Sembrerà strano ma è sufficiente che i rappresentanti che tutti noi abbiamo eletto, dal Comune fino alla Regione, facciano semplicemente il proprio dovere. Il Coordinamento Intercomunale deve quindi giocare su tre fronti: in piazza, nei tribunali e nel Palazzo. È indispensabile continuare a tenere alta l’attenzione sulla nostra lotta, spingere i rappresentanti delle Istituzionali locali a dare mandato ad avvocati che possano predisporre una corretta azione legale e, infine, preparare l’incontro con il Ministero dell’Ambiente. Una volta coinvolto il Ministero, sarà compito di quest’ultimo decidere se affrontare la questione o rimandarla indietro alla Regione Puglia che, a quel punto, avrà un nuovo Presidente, una nuova Giunta e un nuovo Consiglio regionale.
CONTRO IL DEPURATORE CONSORTILE SAVA-MANDURIA AD AVETRANA E SCARICO A MARE. LOTTA UNITARIA O FUMO NEGLI OCCHI?
Sentiamo la voce del dissenso dell’Associazione Contro Tutte le Mafie e dell’Associazione Pro Specchiarica entrambe di Avetrana. La prima a carattere nazionale e la seconda prettamente di interesse territoriale. Il perché di un rifiuto a partecipare alla lotta con gli altri, spiegato dal Dr Antonio Giangrande, componente del direttivo di entrambe le associazioni avetranesi.
«L’aspetto da affrontare, più che legale (danno emergente e lucro cessante per il territorio turistico di Avetrana) è prettamente politico. La gente di Avetrana non si è mobilitata in massa e non vi è mobilitazione generale, come qualcuno vuole far credere, perché è stufa di farsi prendere in giro e conosce bene storia e personaggi della vicenda. Hanno messo su una farsa poco credibile, facendo credere che vi sia unità di intenti.» Esordisce così, senza giri di parole il dr Antonio Giangrande.
«Partiamo dalla storia del progetto. La spiega bene il consigliere comunale Arcangelo Durante di Manduria: “Che la realizzazione a Manduria di un nuovo depuratore delle acque reflue fosse assolutamente necessario, era già scontato; che la scelta del nuovo depuratore non sia stata fatta dall’ex sindaco Francesco Massaro, ma da Antonio Calò, sindaco prima di lui, ha poca importanza. Quello che invece sembra molto grave, è che il sindaco Massaro, in modo unilaterale, nel verbale del 12 dicembre 2005 in allegato alla determina della Regione Puglia di concessione della Via (Valutazione d’Impatto Ambientale), senza informare e coinvolgere il consiglio comunale sul problema, ha indicato il mare di Specchiarica quale recapito finale del depuratore consortile”. Bene. Da quanto risulta entrambi gli schieramenti sono coinvolti nell’infausta decisione. Inoltre questa decisione è mirata a salvaguardare il territorio savese-manduriano ed a danneggiare Avetrana, in quanto la localizzazione del depuratore è posta sul litorale di Specchiarica, territorio di Manduria (a poche centinaia di metri dalla zona residenziale Urmo Belsito, agro di Avetrana)».
Continua Giangrande, noto autore di saggi con il suffisso opoli (per denotare una disfunzione) letti in tutto il mondo. «L’unitarietà della lotta poi è tutta da verificare. Vi sono due schieramenti: quello di Manduria e quello di Avetrana. Quello di Manduria è composto da un coordinamento istituito solo a fine maggio 2014 su iniziativa dei Verdi e del movimento “Giovani per Manduria” con il comitato “No Scarico a mare” di Manduria. Questo neo coordinamento, precedentemente in antitesi, tollera il sito dell’impianto, purchè con sistema di filtrazione in tabella IV, ma non lo scarico in mare; quello di Avetrana si oppone sia alla condotta sottomarina che alla localizzazione del depuratore sul litorale di Specchiarica. Il comitato di Avetrana (trattasi di anonimo comitato ed è tutto dire, ma con un solo e conosciuto uomo al comando, Pino Scarciglia) ha trovato una parvenza d’intesa fra tutti i partiti, i sindacati e le associazioni interpellate, per la prima volta sabato 17 maggio 2014, e si schierano compatti (dicono loro), superando ogni tipo di divisione ideologica e ogni steccato, che sinora avevano reso poco incisiva la mobilitazione. In mattinata del 17 maggio, il Consiglio Comunale di Avetrana si è riunito per approvare, all’unanimità, la piattaforma di rivendicazioni già individuata nella riunione fra il comitato ristretto e i rappresentanti delle parti sociali. In serata, invece, maggioranza e minoranza sono saliti insieme sul palco di piazza Giovanni XXIII per rivolgere un appello alla comunità composta per lo più da forestieri. Si legge nel verbale dell’ultima riunione del Movimento. “E’ abbastanza chiaro, inoltre, che le Amministrazioni Comunali di Manduria, che si sono succedute nel tempo da 15 anni a questa parte, non hanno avuto nè la volontà nè la capacità di modificare o di bloccare questo obbrobrio, trincerandosi dietro a problematiche e a questioni tecniche/burocratiche, a parer loro, insormontabili”. Il gruppo di lavoro unitario avetranese è composto da consiglieri di maggioranza e minoranza (Cosimo Derinaldis, Antonio Baldari, Pietro Giangrande, Antonio Lanzo, Emanuele Micelli e Rosaria Petracca). “Vorrei innanzitutto far notare come, finalmente, si stia superando ogni tipo di steccato politico o ideologico – afferma l’assessore all’Agricoltura e al Marketing Territoriale, Enzo Tarantino. Steccato veramente superato? A questo punto reputo poco credibile una lotta portata avanti da chi, di qualunque schieramento, continui a fare propaganda politica contrapposta per portare voti a chi è ed è stato responsabile di questo obbrobrio ai danni dei cittadini e ai danni di un territorio incontaminato. Quindi faccio mia la domanda proposta da Arcangelo Durante “Bisogna dire però, che il presidente Vendola è in misura maggiore responsabile della questione, poichè di recente ha firmato il decreto di esproprio, nonostante che, prima il consiglio comunale dell’ex amministrazione Massaro e dopo quello dell’amministrazione Tommasino, si siano pronunciate all’unanimità contrarie allo scarico a mare. Presidente Vendola, ci può spiegare come mai, quando si tratta di opere che riguardano altri territori, vedi la Tav di Val di Susa, reclama con forza l’ascolto e il rispetto dei cittadini presenti sul territorio; mentre invece, quando si tratta di realizzare opere che interessano il nostro territorio, (dove lei ha il potere) non rivendica e utilizza lo stesso criterio, come l’ultimo provvedimento da lei adottato in qualità di Commissario Straordinario sul Depuratore?”»
Monta la polemica per il divieto ai sindaci di salire sul palco con Romina Power, scrive il 9 aprile 2017 Nazareno Dinoi su “La Voce di Manduria”. Non ancora passati gli echi della grande manifestazione unitaria di venerdì contro ogni forma di scarico in mare del depuratore e per lo spostamento del costruendo impianto previsto sulla costa, il dibattito s’infiamma ora nella polemica tra organizzatori dell’evento e i sindaci e politici con cariche varie a cui l’altro ieri è stato impedito di conquistare il palco. Mantenendo fede agli accordi precedentemente presi da tutti i promotori della manifestazione, partiti, associazioni, comitati ed enti, tra cui il comune di Avetrana, al termine del corteo a cui hanno partecipato non meno di diecimila persone, gli esponenti politici presenti, sindaci con il tricolore, consiglieri regionali e consiglieri dei comuni di Manduria, Sava, Erchie, Lizzano ed Avetrana, hanno espresso la volontà di salire sul piccolo palco dove, secondo i programmi, sarebbero dovuti salire solo la cantante Romina Power, per un appello al presidente Michele Emiliano, e il portavoce degli organizzatori il quale avrebbe letto (come ha letto) un messaggio unitario indirizzato al sindaco di Manduria e alla struttura tecnica della Regione Puglia. Il tentativo di intrusione non è piaciuta ai coordinatori i quali avevano fatto di tutto per impedire qualsiasi caratterizzazione politica, o peggio ancora partitica, all’importante e riuscitissima manifestazione. Ne è nata un’accesa e verbalmente violenta discussione dietro al palco con i sindaci e il loro codazzo di politici al seguito che tentavano di conquistare la scaletta, e gli organizzatori che glielo impedivano. Urla, minacce, improperi, alcuni dei quali davvero irripetibili, hanno rischiato di rovinare la bella festa. I politici per convincere chi si opponeva, hanno detto di avere bisogno di una deroga al divieto concordato poiché quella mattina c’era stata a Bari un’importante riunione in cui si sarebbero prese decisioni importanti in tema di depurazione. E che bisognava riferire al popolo tali novità. Con uno sforzo alle regole, gli organizzatori della manifestazione hanno dato mandato ad uno di loro di salire sul palco e informare la folla di quanto stesse accadendo e chiedere il loro parere in merito. Il rifiuto dei manifestanti è stato univoco e rumoroso: «Niente politici sul palco». E così è stato. L’arrivo, finalmente di Romina Power, ha tolto ogni speranza ai sindaci che hanno dovuto rinunciare all’eccezionale platea dei diecimila assiepati sulla piazza. Tra le fasce tricolori che anelavano un posto su quel palco c’era anche il sindaco di Manduria, Roberto Massafra, lo stesso che una settimana prima aveva rifiutato il permesso di quella piazza che ora desiderava avere, motivando il diniego con la concomitanza del consiglio comunale che poi non si è più tenuto. Ieri, infine, è stato il giorno delle arrabbiature. Il sindaco di Avetrana, Antonio Minò, che si era fatto garante con gli altri suoi colleghi facendo lui stesso parte del comitato che ha organizzato l’appuntamento, si è scusato pubblicamente con gli ospiti tricolore accusando ancora una volta gli altri del comitato di aver privato i manifestanti delle buone notizie che venivano da Bari. In effetti dagli uffici della Regione Puglia, più che una soluzione (questo lo si è capito ieri quando le carte sono cominciate a circolare), è venuta fuori una proposta, anzi tre. In sostanza la Regione Puglia ha demandato ai consigli comunali di Manduria e Avetrana la scelta su tre ipotesi progettuali: quella originaria con il depuratore in zona residenziale Urmo e la condotta sottomarina; la seconda, proposta di recente con il depuratore sempre a Urmo, i buffer per uso irriguo dei liquami, e lo scarico emergenziale al suolo, tra le abitazioni e un hotel a 700 metri dal mare; infine una terza ipotesi che prevede lo spostamento del depuratore nell’entroterra con le vasche di drenaggio e senza scarico a mare ma in una lama che va a finire nel fiume Chidro.
Noi ambientalisti colpiti dal fuoco amico, scrive il 10 aprile 2017 Francesco Di Lauro su “La Voce di Manduria". Un clamoroso caso di fuoco amico noi sul palco a parlare di soluzioni condivise, di tavolo permanente per adottarle, ed Avetrana, che tiene famiglia, pur avendo firmato quel documento va e propone (sarebbe meglio dire si fa suggerire dall’aspirante sindaco geometra Coco) la soluzione Serpente- Canale Rizzo-Chidro. Chapeau, tutto da decidere in due giorni, neanche il tempo di prendere fiato dalla manifestazione di venerdì scorso. Alla faccia delle ‘istanze’ che dovevano arrivare dalla gente ed essere recepite dai politici, e tutto per consentire alla ditta Putignano di non perdere un appalto già assegnato (che è, naturalmente riassegnabile, ma perché “lasciare il comodo per lo scomodo?”). Non abbiamo nessun timore, da sempre, di dire quello che pensiamo anche contro una dura realtà, e la dura realtà è che questo è l’ennesimo colpo di mano a danno del territorio, ma soprattutto di un metodo che permetta davvero soluzioni condivise. Questo accade ad esserci fidati dei ‘politici’, altri, ma pur sempre politici, questa volta avetranesi, che, “giustamente ” secondo le logiche di questo raffinato ambiente, si portano a casa un risultato anche se questo lo si è ottenuto con lo stesso metodo dei savesi: per dirla con un eufemismo, “futti e camina…” Così, nello stesso istante in cui Romina Power parla di tutela della bellezze naturali della Puglia a 10.000 persone, il geometra Coco firma e fa firmare il Comune di Avetrana, di cui è neo consulente, per l’ipotesi Serpente-Chidro. Certo non rappresenta, mai ha rappresentato e mai nemmeno potrebbe, nessuno di noi, convinti assertori di quanto sia fondamentale avere un’idea di programmazione e vocazione del territorio, di rispetto dell’ambiente e delle dinamiche ecologiche. Non ho nessuna difficoltà ad esprimere l’assoluta contrarietà all’ipotesi Serpente: burocrati che hanno passato la vita a mummificare nei retrobottega amministrativi forse non sanno neanche dove sia e quanto sia intatto e pregevole il contesto Serpente-Canale Rizzu-Chidro, a fronte di centinaia di ettari di pietraie a nord di Manduria, lungo la direttrice Sava-San Pancrazio, la zona industriale, insomma ovunque ci sia onestà progettuale e soprattutto politica. Certo, restringe il campo all’obbligo dello scarico di emergenza in corpo idrico superficiale, ma proprio per questo avevamo previsto nel documento congiunto, firmato dai consiglieri di opposizione manduriani e dal sindaco di Avetrana, l’abbandono della ipotesi consortile, ‘madre di tutte le magagne’. Noi ci siamo. Tra un anno ci saranno le elezioni a Manduria, e qualcuno dovrà assumersi la responsabilità di questa ennesimo deserto (di cemento e liquami) in una cattedrale (naturalistica.) Tra pochi giorni invieremo una richiesta a Cantone (Anticorruzione) di mettere finalmente il naso in questa maleodorante vicenda. Alla magistratura contabile e penale, compresa quella ‘locale’, il compito di tappare le voragini della politica, magari ponendosi una domanda semplice semplice: se, alla luce del nuovo accordo, sarà Avetrana ad ospitare gli scarichi delle reti fognanti dei centri costieri (quelli che saranno costruiti …nel 3017) anche il progetto consortile che si vuole cominciare a tutti i costi deve essere dimezzato o ridotto in proporzione. Così come l’importo dell’appalto. Così come la necessità dello scarico emergenziale in corpo idrico, quindi la presunta necessità di farlo lì. Per tutti coloro che credono ancora nel valore di ciò che si firma e con chi lo si firma, e’ il momento di battersi per le nostre proposte alternative. Francesco Di Lauro
La minoranza di Avetrana: «il nostro depuratore in cambio di Colimena». Intervista del 10 aprile 2017 di Monica Rossi su "La voce di Manduria". Alla vigilia del consiglio comunale di domani convocato ad Avetrana per approvare la disponibilità dell’ente al futuro accoglimento dei reflui delle marine di Manduria nel proprio depuratore quale condizione indispensabile per spostare il depuratore consortile lontano dall’Urmo Belsito, il consigliere comunale di minoranza, Luigi Conte, esprime tutti i dubbi in merito a tale proposta. E ci anticipa le mosse del proprio gruppo.
In merito alla proposta partorita dall’incontro a Bari tra rappresentanti del comuni di Manduria e Sava, rispettivi tecnici e la Regione Puglia, lei l’ha definita: “dalla padella alla brace”. In che senso?
“Certo, un documento firmato con superficialità e ora quel consiglio comunale convocato in tutta fretta per dare il consenso per i reflui delle Marine…”
Ma se lei fosse stato sindaco lo avrebbe firmato quel documento?
“Assolutamente no”
Ma come mai allora?
“L’amministrazione di Avetrana paga delle scelte sbagliate fatte nel 2014, quando l’allora sindaco De Marco e assessore Minò, firmarono il documento che prevedeva il depuratore in zona Urmo. Ora abbiamo sia il depuratore che i reflui delle marine. Una idea geniale di Manduria…”
Ma la nuova collocazione del depuratore lo ha scelto il comune di Avetrana se non sbaglio.
“Certo! Un paradosso! Un comune che sceglie un luogo vicino a sè per un depuratore che servirà ad un altro comune e per di più si prende in carico i reflui delle Marine! Ma dico io: almeno avessero chiesto come contropartita Torre Colimena!”
Ma perché il sindaco e il vice sindaco hanno firmato allora?
“Non stanno comprendendo cosa hanno firmato”.
Domani lei è il suo gruppo voterete il consenso?
“Assolutamente no. Noi chiediamo che questa proposta venga spiegata ai cittadini. Se loro diranno di sì noi ci adegueremo. È grazie ai cittadini e al loro protestare e scendere in piazza che si sta cominciando a parlare di delocalizzare il depuratore. Fino a pochi giorni fa in molti dicevano che non era possibile, anche quel primo cittadino (di Manduria, ndr) che ora sale sul carro dei vincitori. Il depuratore si deve spostare anche da contrada Serpenti”.
Come mai anche questo luogo della terza ipotesi non va bene secondo lei?
“Perché se il depuratore non deve più servire le Marine, visto che vogliono dare i reflui ad Avetrana, allora perché continuarlo a fare vicino alla costa e lontano da Sava e Manduria?”
Cosa propone il vostro gruppo?
“Di rescindere il rapporto con la ditta Putignano. Di migliorare il depuratore a Manduria e farne uno a Sava. Che se proprio ce ne deve essere uno consortile, va fatto tra Sava e Manduria. Che se le Marine dovranno in futuro (ora non esiste rete fognaria e acqua) scaricare nel depuratore di Avetrana, questo deve essere accettato con indennizzo (Torre Colimena agli avetranesi). In ultimo che nessun depuratore va fatto vicino alla costa”.
Ma perché secondo lei si parte a costruire dal depuratore?
“Mistero. Mai visto costruire una casa partendo dal comignolo. Sava non ha le fogne, Manduria le ha al 50 per cento, nonostante questo che fanno? I lavori li fanno partire dal depuratore…”
E perché secondo lei si parla più volte nel documento di sanzioni della commissione europea quando non sembra essere a rischio di sanzioni questo depuratore?
“Non lo so. Forse bisogna spendere quei soldi e basta”.
Di seguito Comunicato Stampa sul depuratore Manduria-Sava del gruppo consiliare Avetrana Riparte. Avetrana Riparte durante il Consiglio Comunale di Avetrana di lunedì 10 aprile, non ha preso parte al voto che ha approvato un documento sottoscritto a Bari venerdì 7 aprile secondo il quale si chiede lo spostamento del depuratore Manduria Sava in contrada Serpente e asservimento del depuratore di Avetrana per la depurazione delle acque reflue delle marine di Manduria.
I fatti. In data 7 aprile 2017, alla presenza del Direttore del Dipartimento Opere Pubbliche (tra le altre cose) ing. Barbara Valenzano, il Sindaco di Avetrana sottoscrive un verbale in cui si prende atto della proposta del Comune di Avetrana di localizzare il depuratore consortile Manduria Sava non più in zona Urmo Belsito ma in contrada Monte Serpente. In conseguenza dello spostamento Avetrana si impegna “a ricevere i reflui delle Marine nel proprio depuratore consortile”. Detto verbale viene chiuso e sottoscritto in tarda mattinata (primo pomeriggio) a Bari. Alle ore 15:00 a Manduria inizia il corteo di protesta che sfila sulla base di una piattaforma condivisa anche dal Comune di Avetrana, che ha come obiettivi:
l’immediata sospensione dei lavori;
la delocalizzazione del depuratore lontano dalla costa;
la rinuncia alla scelta di un impianto di tipo consortile;
la rinuncia formale dello scarico a mare, sia pure di tipo emergenziale, da parte della Regione, attraverso atto deliberativo.
Al termine della manifestazione nulla si dice circa il verbale sottoscritto in Regione. Detto verbale comincia a circolare sul web.
Sabato 8 aprile nel primo pomeriggio siamo convocati in consiglio comunale per lunedì (Consiglio Comunale già convocato precedentemente) per approvare un deliberato che attesti la volontà del Comune di Avetrana a ricevere i reflui delle marine. In tutto questo, il grande assente, ancora una volta ignorato, è il cittadino. Il protagonista delle proteste, quello invocato per riempire le piazze, quello vocato al sacrificio perché cede parte del suo guadagno (con la serrata) alla causa, viene superato dai propri rappresentanti. Considerato ormai inutile. Noi invece riteniamo che questo tema non può essere liquidato in 24 ore.
Le favole. Lunedì 10 aprile alle ore 12:00 si tiene il Consiglio Comunale in cui la realtà lascia il posto alla fantasia. Scopriamo infatti che il deliberato del Consiglio è sostanzialmente diverso dal verbale sottoscritto: infatti il Consiglio Comunale di Avetrana, pur richiamando il verbale, dice che è disponibile “al recepimento dei reflui delle Marine di Manduria e, comunque, fino al raggiungimento della capienza massima prevista dal depuratore di Avetrana”. Quindi a Bari si sottoscrive una cosa e ad Avetrana se ne approva un’altra. Alla richiesta dell’opposizione di Avetrana Riparte di rinviare anche solo di 24 ore il Consiglio per avere il tempo di spiegare alla cittadinanza questa novità e chiedere il relativo parere, la maggioranza e la minoranza di Cambiamo Avetrana, vota contro, adducendo il fatto che la cittadinanza è ampiamente rappresentata. Consigliere di maggioranze e ex Sindaco grande scettico sulla possibilità di riaprire la partita con la Regione e firmatario di un accordo con il Sindaco di Manduria in cui accettava il sito in cambio di opere che fornissero accurata ambientalizzazione come risarcimento del danno per la localizzazione, si permette ora di giudicare le osservazioni di Avetrana Riparte con la solita arroganza. Certo è comprensibile perché l’attuale Sindaco ha prodotto in pochi mesi più azioni concrete rispetto al suo decennale inconcludente mandato. Consiglieri di maggioranza e minoranza poi millantano, come specchietto per le allodole, la possibilità di accedere a finanziamenti per servire con acqua potabile e impianto fognario le marine. Ricordiamo che le marine sono territorio di Manduria e che Manduria è l’unica deputata a partecipare all’assegnazione di fondi per le infrastrutture stesse. Infrastrutture che sarebbero già state realizzate se il Comune di Manduria e la Regione Puglia non fossero state così caparbie (precedente amministrazione regionale) nel non voler risolvere la questione depuratore consortile.
Conclusioni. Avetrana Riparte non volendo danneggiare il voto unanime del Consiglio e non potendo prendere a cuor leggero decisioni gravi e importanti senza adeguato approfondimento e senza un serio coinvolgimento popolare, decide di uscire dall’aula al momento della votazione.
Manduria, depuratore: troppi gli assenti in Consiglio comunale, scrive il 12 aprile 2017 "Il Corriere di Taranto". “Restiamo sconcertati da quanto accaduto in Consiglio comunale: l’Amministrazione Massafra, la stessa che appena quattro giorni fa proclamava al mondo di avere in tasca la soluzione definitiva al problema depuratore, tanto da volerla ad ogni costo sbandierare in piazza, dimostra ancora una volta tutta la sua inconsistenza, non riuscendo a racimolare i voti necessari ad approvare l’ipotesi progettuale tanto caldeggiata”: è la dura accusa del laboratorio politico Manduria Lab, al termine del Consiglio comunale di ieri. “Maggiori perplessità suscita inoltre l’assenza dall’assise cittadina dei due consiglieri che fanno riferimento al consigliere regionale Luigi Morgante, principale fautore del tavolo tecnico apertosi in Regione e massimo sostenitore dell’ipotesi C – aggiunge il movimento -. Non minore stupore suscita, inoltre, la scelta dell’opposizione di abbandonare l’aula, facendo venire meno il contraddittorio e rendendo possibile il rinvio ad una seconda convocazione, che probabilmente perverrà all’approvazione del provvedimento da parte di una risicatissima rappresentanza”. Il comportamento “degli uni e degli altri rende evidente l’assenza di certezze in chi dovrebbe comunque pronunciarsi, a favore o contro, rispetto alla problematica in esame e avvalora la nostra convinzione della necessità di un approfondimento della questione, attraverso un pubblico dibattito, con il contributo della cittadinanza e delle categorie professionali e sociali”. Quanto all’ipotesi di spostare il depuratore in Contrada Serpente (zona di grande pregio naturalistico e ricca di insediamenti produttivi), “la nostra opinione è che tale soluzione al momento non è sufficientemente motivata dal punto di vista tecnico-giuridico, per poterne discutere con cognizione di causa, e risulta comunque vincolata all’approvazione da parte di AQP e della ditta appaltatrice. Risulta tuttavia difficile da comprendere la scelta di collocare l’impianto in tale località, alla luce della accettazione da parte del Comune di Avetrana di accogliere i reflui delle marine nel proprio depuratore: se proprio si vuole conservare la soluzione consortile, in presenza di un dimensionamento proporzionato alle effettive utenze, risulterebbe più logico collocare il depuratore in una località compresa tra Sava e Manduria”.
Legambiente: giù le mani dal Monte dei Serpenti, scrive il 12 aprile 2017 "La Voce di Manduria". Noi soci del circolo Legambiente di Manduria, abbiamo sempre espresso dei dubbi sulle criticità che si andavano di volta in volta evidenziando, ma sempre con spirito collaborativo nel comune intento di conciliare la salvaguardia dell’ambiente con la necessita di avere un moderno impianto di depurazione. Adesso però, alla luce della pericolosa ed estemporanea proposta di taluni di delocalizzare il sito spostandolo in una delle aree più belle e pregevoli dal punto di vista paesaggistico e naturalistico, non possiamo assolutamente restare in silenzio. All’interno di questa lunga vicenda, questa proposta è sicuramente, di gran lunga, la peggiore fra tutte le ipotesi fino ad ora formulate (non che le altre fossero idonee, sic!) ed è ovvio, che se dovesse essere questo il sito, ci opporremo con tutti i mezzi che la legge ci mette a disposizione. L’area individuata come nuovo sito del depuratore (monte dei Serpenti) si trova circondata da innumerevoli vincoli paesaggistici ed ulteriori contesti e a differenza, di quanto affermato da qualcuno, non si tratta di 10 ettari, ma di molto meno (probabilmente sarà sfuggito qualche vincolo). Inoltre la bellezza incomparabile e l’unicità di tutta quella zona (ripeto una delle più pregevoli di questa parte del Salento) la rende inidonea ad essere utilizzata per questo scopo, infatti:
– si trova vicino a molte meravigliose masserie (ad es. Masseria Marcantuddu, la stupenda masseria dei Potenti, ecc.);
– si trova vicino al famoso sito archeologico messapico della città fortificata di Felline;
– è a fianco del meraviglioso bosco dei Serpenti che con la sua ampia biodiversità costituisce un unicum in tutta l’area di Manduria e paesi limitrofi (presenza di enormi esemplari di corbezzolo, presenza di erica arborea e presenza unica di un nucleo di querce angustifolie probabilmente ibridate con quercia virgiliana;
Inoltre si devono tener conto dei vincoli derivanti dalla legge 353 del 2000 sulle aree percorse dal fuoco (vincoli che scattano anche in mancanza di inserimento nel catasto delle aree percorse dal fuoco, perché, come ha stabilito una sentenza del Tar Liguria confermata dal Consiglio di Stato, tale inserimento ha solo valore dichiarativo e non costitutivo del vincolo); proprio a tale scopo, la nostra associazione possiede un vasto archivio documentale e video fotografico delle aree percorse dal fuoco per fini probatori.
Per ultimo, ma non per importanza, segnaliamo che:
– la nuova localizzazione del buffer 2 andrebbe a ricadere pienamente all’interno della Riserva Regionale del Litorale Tarantino Orientale;
– anche il nuovo scarico emergenziale andrebbe a finire all’interno della Riserva Regionale, proprio in una delle aree più belle e suggestive di detta Riserva. (Tra l’altro anche area bosco).
– lo scarico emergenziale in questa area, oltre che incompatibile per i motivi su esposti, lo sarebbe anche per la rarissima presenza di tane di tasso e per la tipologia di vegetazione che predilige un ambiente arido e non troppo umido (ambiente il cui microclima andrebbe stravolto con uno scarico emergenziale, oltre che per i danni meccanici che tale scarico potrebbe avere sulla flora).
Quindi proprio alla luce di quanto esposto sembra incomprensibile la decisione di spostare il sito all’interno di questa area: se le motivazioni erano quelle che il vecchio sito non era idoneo per motivi paesaggistici e per motivi di vicinanza alle aree protette, a maggior ragione questo sito risulta improponibile visto che questo progetto ricade in aree sicuramente più pregevoli e , in parte, addirittura all’interno delle stesse Riserve. Se si dovesse scegliere questo nuovo sito, risulta evidente che i rischi di ricorsi al Tar da parte di più di qualcuno, sono molto alti e concreti con un’inevitabile allungamento dei tempi per la realizzazione del depuratore per Manduria. Sempre con lo stesso spirito collaborativo che ci ha contraddistinto, restiamo a disposizione di tutte le istituzioni per un'eventuale incontro per poter descrivere le motivazioni delle nostre perplessità e soprattutto per individuare un sito idoneo che finalmente sia privo di vincoli e che abbia un bassissimo impatto sull’ambiente, sul paesaggio e sugli insediamenti turistico e produttivi. Legambiente Manduria
Depuratore, interviene anche Bruno Vespa. Il giornalista ha investito nel Primitivo ma definisce scoraggiante il nuovo progetto, scrive Nando Perrone su “la Gazzetta del Mezzogiorno” il 12 Aprile 2017. «L’ubicazione del depuratore nell’area di masseria “Serpenti” sarebbe, per me, un fortissimo disincentivo agli investimenti compiuti e a quelli programmati». Dopo Romina Power, intervenuta in una trasmissione di punta di Rai Uno (“L’arena” di Giletti) e alla mobilitazione di venerdì scorso a Manduria, ecco un altro personaggio molto popolare che esprime la propria opinione sull’ubicazione del depuratore consortile della città messapica e di Sava. E’ Bruno Vespa, giornalista che conduce da anni la trasmissione “Porta a porta”, che, da produttore vitivinicolo, invia una lettera aperta al sindaco Roberto Massafra e all’intero Consiglio Comunale poche ore prima della riunione, in prima convocazione, del consesso elettivo, che doveva discutere di depuratore ma, mancando il numero legale, è stato aggiornato ad oggi. Chiaro l’obiettivo: convincere i presenti a non approvare la delocalizzazione del sito. «Caro signor sindaco, caro Roberto, cari signori consiglieri» scrive Bruno Vespa nella lettera aperta del giornalista, «mi ha chiamato allarmatissimo Gianfranco Fino (altro produttore vitivinicolo, ndr), anche a nome delle altre masserie e delle altre strutture produttive della nostra zona, sulla ipotesi dello spostamento del depuratore dalle aree già indicate a quella della masseria Serpenti. Per le nostre strutture ricettive e produttive sarebbe la rovina. Per me personalmente un fortissimo disincentivo agli investimenti compiuti e a quelli programmati». Poi il giornalista e scrittore entra nel merito della questione esprimendo un proprio parere. «Ho il più alto rispetto per il comune di Avetrana, ma credo che sarebbe folle penalizzare una delle aree più pregiate del Primitivo di Manduria» sostiene Vespa. «Vi saremmo tutti assai grati se poteste scongiurare questo pericolo. Grazie e un caro saluto a tutti». Parlando al plurale, Vespa interpreta evidentemente la preoccupazione di tutti gli altri operatori vitivinicoli della zona. Com’è noto, il giornalista ha acquistato, nell’area di Manduria, ampi appezzamenti di vigneti (in cui produce il Primitivo di ottima qualità, già da qualche anno sui mercati internazionali) e una masseria, che sta trasformando in azienda in cui imbottigliare i propri prodotti. Nel progetto, Vespa ha pensato altresì di destinare un’area dell’immobile per la ricettività degli eno-turisti. Sin qui la posizione di Bruno Vespa. Molto meno facile quella del Consiglio comunale di Manduria, che ha ora solo tre opzioni: la prima con lo scarico in mare; la seconda con il depuratore in contrada Urmo e con il contestatissimo “ruscellamento”; la terza con la localizzazione del depuratore in contrada “Serpenti”. Non crediamo che la Regione possa ulteriormente pazientare. Non è un caso, infatti, se venerdì scorso è stato concesso un termine ristrettissimo (una settimana) per deliberare la scelta fra le tre opzioni. E temiamo che si sia ormai innescata una spirale: ovunque si tenterà di spostare il depuratore, ci sarà qualcuno che protesterà...
La replica il 12 aprile 2017 su “La Voce di Manduria”. Ma… ma, è lo stesso Bruno Vespa che, con Michele Emiliano seduto nel suo salotto televisivo, spalava merda sulla presunta sindrome Nimby dei salentini che si oppongono alla Tap? Ed è sempre lo stesso Bruno Vespa che, ora che la merda tocca a lui, sale sulle barricate sulla base – guarda un po’- della vocazione turistica del territorio (ma soprattutto dei suoi personalissimi investimenti)? Caro Vespa, e allora diciamola una volta tanto la verità. Per alcuni illustri commentatori, onorevoli, eccellenze, cavalieri, monsignori, la sindrome Nimby vale solo in un caso: quando il culo è degli altri. Danilo Lupo, giornalista La7 (La Gabbia)
Perchè a Urmo? Tutta la storia sul depuratore, scrive il 7 aprile 2017 Nazareno Dinoi su "La voce di Manduria". L’idea di localizzare il depuratore sulla costa e non nell’entroterra è nata da due fatti contingenti: il primo di natura giudiziaria, il secondo per garantire una rete fognante nelle località marine completamente (ancora) sprovviste. Percorrendo a ritroso tutti i passaggi, bisogna partire dal 2000 quando dalla Regione Puglia arrivò l’invito all’allora sindaco di Manduria, Gregorio Pecoraro, ad adeguare il vecchio depuratore situato sulla via per San Pancrazio (dov’è tuttora). L’impianto, inoltre, doveva essere potenziato per permettere un recapito anche alla rete di Sava in virtù di un accordo consortile tra i due comuni. L’amministrazione Pecoraro predispose le carte per un nuovo depuratore che ebbe il primo intoppo. Il sito confinava con un centro sportivo, regolarmente condonato, quindi incompatibile normativamente. Così gli uffici individuarono un altro lotto più distante, sempre in quella contrada «Laccello», ma i proprietari del terreno si opposero all’esproprio e il Tar gli diede ragione.
Sindaco Antonio Calò. Non se ne parlò più sino alla nuova amministrazione del sindaco Antonio Calò. Siamo nel 2003 e dalla Regione continuavano ad arrivare solleciti per il nuovo depuratore. Bisognava individuare un altro sito così l’allora sindaco Calò ebbe l’idea di spostare il depuratore verso la costa. Avanzò la proposta dei terreni della Masseria Marina, più vicini a San Pietro in Bevagna che avrebbe avuto la concreta possibilità di una rete fognante. Un’opportunità che avrebbe eliminato il fenomeno degli scarichi civili abusivi e nello stesso tempo dato più valore catastale a tutto l’abitato. Si presentò però un altro problema: all’epoca gli scarichi dei depuratori lungo la costa potevano avere solo il recapito in battigia per cui fu improponibile pensare ad una cosa simile proprio al centro di San Pietro in Bevagna così densamente abitato. Si doveva trovare una soluzione diversa, sempre sulla costa, ma lontana dalla località balneare principale.
Sindaco Francesco Massaro. Cade il sindaco Calò e viene eletto Francesco Massaro. Toccò a lui la scelta di un sito che non fosse San Pietro in Bevagna, quindi o a destra, verso Torre Borraco e l’omonimo fiume, o dall’altra parte, Torre Colimena con i corsi d’acqua della Palude del Conte, i canali dell’Arneo e la Salina. La scelta cadde proprio qui, nel punto più distante dei confini territoriali di Manduria ma più vicino a quelli di Avetrana: zona Urmo Belsito, appunto. Fu allora che si cominciò a temere l’infrazione comunitaria che aveva già puntato gli occhi sulla Puglia per i troppi depuratori non a norma: non era più possibile scaricare in falda. Bisognava fare in fretta e l’allora sindaco Massaro si preoccupò di evitare almeno lo scarico in battigia. Presentò un ricorso al Tar di Lecce che gli diede ragione. Secondo il tribunale amministrativo, uno scarico in battigia non sarebbe stato concettualmente compatibile con la vocazione turistica della zona. La soluzione alternativa fu trovata dai tecnici regionali: una condotta sottomarina che scaricasse in mare i liquami frullati e non depurati come prevedeva la normativa di allora.
Sindaco Paolo Tommasino. Dopo Massaro è stata la volta del sindaco Paolo Tommasino. Il presidente della Regione era Nichi Vendola. Le proteste degli ambientalisti e l’intervento dell’amministrazione Tommasino ottennero un altro risultato: l’affinamento delle acque in tabella 4. Acqua pulita da impiegare in agricoltura ma sempre con la condotta sottomarina di emergenza. Solo promesse, senza progetti, però. E’ stato allora che l’amministrazione Tommasino commissionò uno studio di fattibilità ai tecnici Muscoguri-Dellisanti che ipotizzarono lo spostamento del depuratore in zona Monte Serpenti e le vasche di drenaggio in zona masseria Marina. Progetto mai preso in considerazione.
Sindaco Roberto Massafra. Finisce l’era Tommasino e, dopo un periodo di commissariamento, entra in gioco l’attuale sindaco Roberto Massafra che formalizza, in accordo con l’allora sindaco di Avetrana, Mario De Marco, il progetto del depuratore all’Urmo con affinamento in tabella quattro, le vasche di raccolta e drenaggio in contrada Marina e l’uso quasi esclusivo dei liquidi depurati in agricoltura. Lo scarico emergenziale in mare, però, rimane.
Morgante-Turco-Del Prete. La storia diventa recente. I due consiglieri regionali Luigi Morgante e Giuseppe Turco, con la consulenza del geologo Mario Del Prete, convincono i tecnici regionali e dell’Aqp alla soluzione dei buffer: depuratore sempre all’Urmo, vasche alla Marina (buffer 1) e vasche a Specchiarica (buffer 2) con recapito emergenziale, per almeno 15 volte l’anno e comunque quando l’impianto a monte non funzionerà (impossibile fare ipotesi sulla frequenza e sulla durata dei guasti), sul terreno tra le abitazioni di Specchiarica, in discesa verso il mare che dista circa 700 metri. Secondo il sostenitore del famoso ruscellamento nel terreno, i liquami di emergenza non arriverebbero mai al mare e anche se fosse, a bloccarle ci penserebbero le dune. Iin realtà, proprio in quel tratto non ci sono più dune ma la strada litoranea che taglia in due la zona del buffer con il mare.
L’ultima proposta, che piace al comune di Avetrana e a molti manduriani (non al sindaco Massafra che accetta a malincuore), prevede il depuratore in zona Monte Serpenti, a circa 4 chilometri dalla costa, con impianti di dispersione e raccolta in loco, sempre uso irriguo delle acque, e uno scarico emergenziale in una lama naturale. Il resto lo stiamo vivendo in queste ore.
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Note Estese. L’inquinamento globale delle acque superficiali e dei mari combinato con la costante diminuzione dei depositi naturali di acqua potabile richiede un uso ecologicamente sensibile delle risorse idriche. Le acque reflue scaricate provocano un disturbo notevole per l’equilibrio naturale. Sempre più nuove sostanze tossiche vengono trasferite all’uomo attraverso la catena alimentare e il ciclo dell’acqua minacciandone la salute, per cui le conseguenze di ciò sul nostro attuale stile di vita moderno non possono ancora essere pienamente previste. Le nuove norme europee definiscono inequivocabilmente la qualità delle acque reflue destinate alla dispersione sul terreno del stesso tipo di quelle destinate allo scarico nei flussi di acque correnti. Le membrane a ultrafiltrazione siClaro ® separano le particelle più piccole, fino ai colloidi, nei liquidi soltanto su base fisica per le dimensioni dei pori <0,1 micron. Le membrana trattengono queste sostanze senza modificarle in alcun modo, sia fisicamente che chimicamente, così che non possano originarsi sostanze pericolose. Nella realizzazione dei filtri sono usate membrane piane, derivanti da polimeri organici, ottimizzate e molto efficaci che impediscono l’intasamento dovuto a capelli, fibre o altre sostanze grossolane. Il filtrato prodotto dall’impianto soddisfa gli elevati standard qualitativi richiesti per l’acqua di balneazione a norma del regolamento 75/160 / CEE (“EWG” Comunità Economica Europea) del Consiglio dell’Unione europea. La membrana a ultrafiltrazione costituisce una barriera assoluta per batteri e larga parte di virus come quello responsabile della paralisi infantile. Piccole molecole organiche, ioni metallici nonché sali solubili, in parte essenziali per la vita, possono attraversare le membrane a ultrafiltrazione.
Comunque per quanto riguarda il tema depuratore di Manduria-Sava rimane il controverso aspetto del costo di impianto delle condutture e dell’esproprio dei terreni, con il conseguente espianto di migliaia di alberi di Ulivi, pari ai trenta chilometri di distanza tra sito servito ed impianto servente. Tema che fino ad oggi nessuno ha avuto la capacità di trattare, impegnati tutti a contestare l'allocazione dell'impianto di depurazione principale e dello scarico delle acque reflue.
Sono innocente. Angelo Massaro. Taranto. Il Foro dell’ingiustizia. Angelo Massaro, 20 anni di carcere da innocente in folta compagnia. Non erano colpevoli, chiedono 12 mln di euro. Giovanni Pedone, Massimiliano Caforio, Francesco Aiello e Cosimo Bello, condannati per la cosiddetta «strage della barberia» di Taranto, sono tornati in libertà dopo 7 anni di detenzione e vogliono un risarcimento. Domenico Morrone, 15 anni di carcere da innocente, risarcito con 4,5 milioni di euro. E poi ci sono le condanne dubbie in presenza di confessioni verificate, e ciononostante non credute: Faiuolo, Orlandi, Nardelli, Tinelli, Montemurro, Donvito per i delitti di Sebai, il killer delle vecchiette. Cosima Serrano e Sabrina Misseri per il delitto di Michele Misseri, il killer di Avetrana.
La storia di Angelo Massaro, che ha passato 20 anni in prigione per una parola fraintesa. L’incredibile odissea dell’uomo di 51 anni che è stato condannato a 30 anni per un delitto mai commesso. È stato scarcerato con revisione del processo, scrive Carlo Vulpio il 24 febbraio 2017 su "Il Corriere della Sera". Sua moglie Patrizia festeggia oggi (ieri, ndr) il compleanno, 43 anni, ventuno dei quali trascorsi ad aspettarlo, a crescere i loro due figli, Raffaele e Antonio, e a peregrinare da un carcere all’altro: Foggia, Carinola, Rossano Calabro, Melfi e infine Catanzaro. Lui, Angelo Massaro, 51 anni, di Fragagnano, Taranto, è appena uscito dal carcere di via Tre Fontane e ha trovato lì Patrizia, che lo ha abbracciato e in silenzio lo ha aiutato a caricare le sue poche cose su una station wagon molto usata. È già sera, ci allontaniamo da quei muri ostili, scegliamo un posto più defilato per parlare e finalmente lo troviamo nella sala del biliardo di un bar della frazione di Santa Maria, a Catanzaro Lido. Sappiamo, lo ha scritto il Quotidiano di Lecce, che Angelo Massaro, condannato ingiustamente per un omicidio mai commesso, quello di Lorenzo Fersurella, ammazzato a San Giorgio Jonico il 10 ottobre 1995, dopo ventuno anni di galera è stato riconosciuto innocente grazie alla revisione del processo, in cui hanno fermamente creduto i suoi avvocati, Salvatore Maggio e Salvatore Staiano. Ma non sappiamo che già un’altra volta Massaro è stato vittima di un altro clamoroso errore giudiziario, perché ritenuto l’autore di un altro omicidio, quello di Fernando Panico, avvenuto a Taranto nel 1991. Anche allora, Massaro fu arrestato, condannato a 21 anni, incarcerato per un anno e poi giudicato definitivamente innocente e risarcito dallo Stato con 10 milioni di lire. «Non pensavo che quattro anni dopo avrei vissuto lo stesso incubo — dice Angelo Massaro — per una intercettazione telefonica in cui dicevo a mia moglie, in dialetto, “tengo stu muert”, cioè “ho questo morto, questo peso morto”, un Bobcat che trasportavo nel carrello agganciato all’auto e che dovevo lasciare prima di andare a prendere mio figlio per accompagnarlo a scuola». Massaro era intercettato per fatti di droga — che lo stavano rovinando, perché la assumeva e poi l’ha anche spacciata —, ma paradossalmente proprio questa vicenda, conclusasi con la sua condanna definitiva a 10 anni, lo ha salvato dalla seconda ingiusta condanna per omicidio. «Ho sbagliato ed era giusto che pagassi, ma se non ci fosse stato il processo per spaccio di droga, dal quale abbiamo tratto gli elementi che mi hanno scagionato dall’accusa di omicidio, oggi per tutti io sarei un assassino». Certo, adesso Massaro chiederà il risarcimento per ingiusta detenzione, come fece undici anni fa, sempre a Taranto, Domenico Morrone, 15 anni di galera per un duplice omicidio mai commesso e poi riconosciuto innocente e risarcito con 4,5 milioni di euro, forse la cifra record per questo tipo di performance della giustizia italiana. «Ma nessun risarcimento mi ridarà i miei anni perduti — dice lui — e mi consolerà delle afflizioni patite. Non ho visto i miei figli per sette anni consecutivi, dal 2008 al 2015. Ho condiviso celle minuscole con detenuti ammalati di Aids, tubercolosi, epatite C, senza che nessuno mi avesse avvertito. Mi sono stati negati i permessi più semplici, come quelli per il battesimo e la prima comunione dei miei bambini. E ora anche la beffa finale. Appena avremo finito di parlare, devo presentarmi in Questura perché mi hanno anche imposto la sorveglianza speciale. È questo il carcere che rieduca? Dalla galera, esce carico di odio anche un cagnolino docile». Massaro in carcere si è diplomato da geometra e si è poi iscritto a Giurisprudenza, facoltà in cui ha già superato cinque esami con voti alti. «Studiare mi è servito tanto — dice —, ma sono stati lo yoga, la meditazione e lo sport a non farmi impazzire, a farmi chiudere un capitolo della mia vita sbagliata e a sopravvivere alla persecuzione giudiziaria, che non auguro a nessuno».
Condannato per una parola fraintesa viene assolto dopo 20 anni di carcere. L’incredibile odissea di Angelo Massaro, 51 anni, scarcerato con revisione del processo. Pena di 30 anni per un delitto mai commesso. Il suo avvocato: «E’ ancora sotto choc», scrive Michele Pennetti su “Il Corriere della Sera” il 23 febbraio 2017. «Ho sentito Angelo stamattina, appena uscito dal carcere di Catanzaro. Era ancora sotto choc, come se fosse in preda a una piccola crisi di panico. Comprensibile, dopo 21 anni passati ingiustamente in cella». Parola di Salvatore Maggio, l’avvocato tarantino che ha portato avanti (e vinto) la battaglia di Angelo Massaro, 51enne di Fragagnano, Comune a una quindicina di chilometri di Taranto, assolto dalla Corte d’Appello di Catanzaro «per non aver commesso il fatto» dall’omicidio di Lorenzo Fersurella, ucciso nell’ottobre del 1995, e dal reato di occultamento di cadavere. L’uomo era stato condannato in via definitiva a 30 anni di reclusione (per cumulo di pene). Poi, però, la Corte di Cassazione aveva accolto la richiesta di revisione del processo avanzata proprio dall’avvocato Salvatore Maggio. La storia di Angelo Massaro, arrestato sulla base di una intercettazione telefonica e di una dichiarazione di un collaboratore di giustizia che sosteneva di aver appreso da altri del presunto coinvolgimento dell’uomo nel delitto, era stata oggetto anche di una interrogazione parlamentare dei Radicali. Massaro, arrestato il 15 maggio 1996, è stato in carcere a Foggia, Carinola (Caserta), Taranto, Melfi e Catanzaro. Nei 20 anni di detenzione è stato spesso lontano dalla residenza di famiglia e quindi dalla moglie e dai due figli. Dal carcere Massaro ha scritto lettere di sensibilizzazione al blog “urladalsilenzio”, al ministero della Giustizia, al dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, all’associazione `Antigone´ e all’associazione “Bambini senza sbarre”. Il difensore di Massaro è riuscito a dimostrare che il suo assistito si trovava in una località diversa da quella dalla quale scomparve la vittima, depositando atti, testimonianze e le intercettazioni di un altro procedimento giudiziario. Nel 2011 Massaro era stato assolto dall’accusa di un altro omicidio avvenuto nel 1991. Ora il legale presenterà domanda di risarcimento per ingiusta detenzione. Massaro è stato scarcerato dopo la sentenza, ma non ha ancora raggiunto la sua famiglia. Il legale ha dimostrato che Massaro era stato condannato per una parola equivocata. «A una settimana dall’omicidio, colloquiando con la moglie - spiega l’avvocato - aveva detto, in dialetto, “tengo stu muert”, ma in realtà voleva intendere "muers", cioè un materiale ingombrante attaccata al gancio di un autovettura e che stava trainando. Poi ho trovato un certificato da cui risultava che il mio assistito si trovava al Sert quando sparì Fersurella. Insomma, tutta una serie di elementi che non erano stati presi in considerazione. Sono contento per essere riuscito a dimostrare l’innocenza di una persona ed è una grande soddisfazione per lui, per la sua famiglia e per quello che è stato fatto».
Taranto, venti anni in carcere per un omicidio mai commesso. L'uomo fu ritenuto responsabile del delitto di Lorenzo Fersurella avvenuto a Fragagnano, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno il 23 Febbraio 2017. Assolto per non aver commesso il fatto. Ieri mattina è finito un incubo lungo 20 anni per per il 51enne di Fragagnano, Angelo Massaro, assolto dalla corte d’appello di Catanzaro, così come sollecitato dall’avvocato Salvatore Maggio dall’accusa di aver ucciso Lorenzo Fersurella (morto il 22 ottobre del 1995), reato costato una condanna definitiva a 24 anni di reclusione per Angelo Massaro, 20 dei quali scontati ingiustamente, come ora si può serenamente affermare. L'uomo, arrestato il 15 maggio 1996, è stato in carcere a Foggia, Carinola (Caserta), Taranto, Melfi e Catanzaro. Il caso è giunto all’attenzione della corte d’appello di Catanzaro a seguito dell’istanza di revisione del processo presentata dall’avvocato Maggio, istanza che in un primo momento era stata rigettata dalla corte d’appello di Potenza che l’aveva giudicata inammissibile. L’avvocato Maggio aveva così proposto il ricorso in Cassazione e la Suprema Corte così ha inviato gli atti a Catanzaro. Massaro fu condannato a 24 anni di reclusione sulla base di una intercettazione telefonica e di una dichiarazione di un collaboratore di giustizia che sostenne di aver saputo da altri del coinvolgimento del Massaro nel delitto. L’avvocato Maggio ha invece documentalmente provato che l’imputato si trovava in una località diversa da quella dalla quale scomparve Fersurella (Manduria invece che Fragagnano), portando a sostegno della tesi dell’innocenza di Massaro anche alcune testimonianze e le intercettazioni del procedimento «Ceramiche» nel quale l’uomo si professa più volte innocente. Per Massaro oltre all’assoluzione è scattata contestualmente anche la scarcerazione. L’uomo, nel 2011, sempre difeso dall’avvocato Maggio, era già stato assolto, per non aver commesso il fatto, dall’accusa di omicidio di Fernando Panico, il corriere della droga ucciso nel marzo del ’91. A oltre cinque anni di distanza dalla sentenza di primo grado, che il 1° dicembre del 2005 lo condannò a 21 anni di reclusione, per Massaro era arrivata l’assoluzione in appello. Ora l’avvocato Maggio valuterà tutta la documentazione processuale per inoltrare domanda di risarcimento per ingiusta detenzione. Nei 20 anni di detenzione è stato spesso lontano dalla residenza famigliare e quindi dalla moglie e dai due figli. Dal carcere ha scritto lettere di sensibilizzazione al blog «urladalsilenzio», al ministero della Giustizia, al dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, all’associazione Antigone e all’associazione Bambini senza sbarre. «Finalmente è emersa una verità, che poi è sempre la verità processuale che vorremmo tutti coincidesse con quella vera. Posso dire con amarezza che c'è una persona che non ha commesso il grave reato per il quale era stato condannato e che solo dopo 21 anni lascia le patrie galere. La giustizia è fatta da uomini e come tali possono sbagliare tutti. Faceva i colloqui - dice Maggio - con i familiari ogni 15 giorni. Penso che tornerà a Fragagnano. I suoi figli ora sono maggiorenni. Quando fu arrestato il secondogenito aveva appena 45 giorni. Questa è una storia molto particolare».
Lo arrestarono il 15 maggio 1996, aveva 30 anni. Un pentito, testimone "de relato" (riferiva cioè informazioni apprese da altri), lo accusava dell’omicidio di Lorenzo Fersurella, ucciso con colpi di pistola nel Tarantino per contrasti nell’ambito dello spaccio di sostanze stupefacenti facendo sparire il corpo. Una parola pronunciata in dialetto durante un colloquio con la moglie, che venne equivocata, convinse gli inquirenti della sua colpevolezza. Ma dopo quasi 21 anni di carcere Angelo Massaro, 51 anni di Fragagnano (Taranto), è stato assolto nel processo di revisione dalla Corte d’Appello di Catanzaro e scarcerato. E’ stato così ribaltato l’esito della sentenza definitiva che lo condannava a 24 anni di reclusione (diventati 30 per cumulo di pena comprensivo di una condanna a 11 anni per associazione finalizzata allo spaccio di droga) per un omicidio mai commesso. Angelo Massaro è tornato in libertà ieri, ma non ha raggiunto subito la sua famiglia nel paese di origine. «Si sente un pò spaesato. Non è facile - ha riferito l'avv. Salvatore Maggio, che ha difeso l’imputato con il collega Salvatore Staiano - vedere dopo 21 anni sempre in una cella le macchine, il bar, la strada. Il mondo è cambiato. Gli gira la testa, ha paura. Faceva i colloqui con i famigliari ogni 15 giorni. I suoi figli ora sono maggiorenni. Quando fu arrestato il secondogenito aveva appena 45 giorni». Non appena uscito dal carcere, secondo quanto riferito dai suoi legali, Massaro ha detto: «Sono felice, ma nulla potrà bilanciare le sofferenze che ho patito in questi vent'anni». «Adesso - ha detto Angelo Massaro, mentre, a Catanzaro, sbrigava le ultime questioni prima di tornare in Puglia - voglio giustizia. Se qualcuno ha sbagliato voglio che paghi». «Lotterò - ha aggiunto - perché ciò che è successo a me non capiti a nessun altro». Massaro, negli anni di detenzione, si è diplomato e si è anche iscritto alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Catanzaro sostenendo 5 esami nell’ultimo anno grazie ad alcuni permessi premio per buona condotta. Lezioni che gli sono servite dal momento che l’istanza di revisione del processo che ha portato poi alla sua assoluzione è stata curata anche da lui. La vicenda di Angelo Massaro era stata oggetto anche di una interrogazione parlamentare dei Radicali. Nel 2011 fu assolto dall’accusa di aver commesso un altro omicidio dopo l'annullamento con rinvio da parte della Cassazione. Anche in quella occasione era stato chiamato in causa da un pentito. L'uomo è stato detenuto a Foggia, Carinola (Caserta), Taranto, Melfi e Catanzaro, quasi sempre lontano dalla sua residenza famigliare. In uno dei testi inviati al blog "urladalsilenzio", Massaro (che avrebbe finito di scontare la pena il 20 aprile del 2022) ha scritto: «Lo Stato ci ha tolto da tempo la 'famosa palla al piede', ma in una detenzione come la mia che è disumana, che so i miei figli stare male a causa dei miei errori commessi in una vita sbagliata e che lo Stato mi impedisce di incontrare, quella 'palla' mi è stata posta nell’anima». Nel processo di revisione, i legali del 51enne sono riusciti a dimostrare che il suo assistito si trovava a colloquio con una assistente sociale in una località diversa da quella dalla quale scomparve Lorenzo Fersurella e ha contestato l’interpretazione di una intercettazione telefonica. «Ad una settimana dall’omicidio, parlando con la moglie - ha spiegato l’avvocato Maggio - Massaro aveva detto, in dialetto, "tengo stu muert", ma in realtà voleva intendere "muers", cioè un materiale ingombrante attaccato al gancio di un’autovettura e che stava trainando. Finalmente è emersa una verità, che poi è sempre la verità processuale che vorremmo tutti coincidesse con quella vera. Lui non è uno stinco di santo, ha i suoi trascorsi. Ma posso dire con amarezza che c'è una persona che non ha commesso il grave reato per il quale era stato condannato e che lascia le patrie galere solo dopo 21 anni, dieci in più di quanti ne avrebbe dovuti scontare in seguito alla condanna per droga. La giustizia - ha osservato il penalista - è comunque fatta da uomini e, come tali, possono sbagliare tutti». (di Giacomo Rizzo, ANSA) 23 Febbraio 2017.
Vent’anni dopo la condanna emessa dalla Corte d’assise di Taranto, il cinquantunenne Angelo Massaro è stato assolto dall’accusa di aver ucciso, il 10 ottobre 1995, Lorenzo Fersurella, scrive Lino Campicelli su "Il Quotidiano di Puglia”. «Per uno sgarro nell’ambito delle questioni di droga», fu la motivazione che sopravvisse alla causa di secondo grado con conferma in Cassazione. Per rendere giustizia all’imputato originario di Fragagnano, che ha passato tutti questi anni in carcere, è stata però necessaria un’altra pronuncia della Corte di Cassazione che nel 2015, accogliendo i rilievi mossi dall’avvocato Salvatore Maggio, prese una decisione non consueta: disse “sì” alla revisione del processo. Il placet era giunto agli inizi del maggio di quell’anno, dopo che l’avvocato Maggio aveva avviato la richiesta di revisione del processo, basata sull’esito di indagini difensive con le quali aveva puntato a scagionare l’imputato che era dietro alle sbarre. Quella richiesta di revisione, per la cronaca, era già stata bocciata dalla Corte d’appello di Potenza che l’aveva bollata come inammissibile. Contro quel verdetto, però, l’avvocato Maggio aveva proposto ricorso in Cassazione. E la decisione finale aveva premiato la sua tenacia. E quella dello stesso Massaro che sin dal primo grado di giudizio, regolato da una sentenza emessa nel novembre 1997, aveva gridato la sua assoluta estraneità all’omicidio. Nella circostanza, la Corte di Cassazione, nell’accogliere il ricorso proposto dall’avvocato tarantino, aveva rimesso gli atti relativi alla richiesta di revisione ad altra sezione della Corte di appello. E il processo era sfociato all’esame della Corte d’appello di Catanzaro che, appunto, ha mandato assolto l’imputato per non aver commesso il fatto. Lorenzo Fersurella fu trovato privo di vita in una cava alla periferia di San Giorgio Jonico, dopo la denuncia di scomparsa presentata dal padre della vittima. Il giovane sangiorgese era stato ucciso a colpi di pistola. I primi accertamenti avevano acceso i riflettori sulla posizione di Massaro, del quale Fersurella era amico. Massaro, proprio in ragione di quella amicizia vantata con la vittima, aveva da subito preso le distanze da ogni responsabilità. Una intercettazione, il cui senso era stato evidentemente equivocato, aveva indotto gli inquirenti a pigiare l’acceleratore sulla sua presunta responsabilità. Nella intercettazione, l’uomo diceva alla moglie che avrebbe tardato a rientrare perché aveva “qualcosa” da portare. Il termine qualcosa, in realtà, aveva avuto una esplicitazione dialettale, il cui senso cambiava a seconda della consonante finale. Per gli inquirenti, Massaro doveva portare un “muert”: cioè il corpo privo di vita di Fersurella da far sparire. Per Massaro, al contrario, quel qualcosa era un ““muers” che in dialetto tarantino sta ad indicare un oggetto, un materiale particolarmente ingombrante. Infatti, nessuno volle credere che l’uomo si stava riferendo a un macchinario in panne. In aggiunta a quella interpretazione, però, a segnare la sua fine giudiziaria, nel processo di primo grado, spuntò la dichiarazione di un pentito secondo il quale «negli ambienti della malavita si diceva che ad uccidere Fersurella fosse stato Massaro per motivi di droga». Massaro, il cui difensore originario aveva rinunciato all’esame di alcuni testimoni che avrebbero potuto scagionarlo, fu condannato. E quella condanna a 24 anni Massaro se la trascinò sino a sentenza definitiva. Successivamente, però, grazie a quelle testimonianze reintrodotte agli atti, a una perizia che chiarì il senso del termine intercettato, cioè “muers” e non “muert”, e grazie soprattutto a un documento scovato negli archivi da cui emerse che Massaro, nelle ore in cui Fersurella fu ucciso, era nel Sert di Manduria per problemi personali, la Cassazione rilevò la valenza e la necessità di una revisione del processo. Chiusa ieri con l’assoluzione dopo vent’anni passati in carcere.
Angelo Massaro in cella per 21 anni da innocente, scrive Simona Musco il 25 Febbraio 2017, su "Il Dubbio". Angelo Massaro, 51 anni, ha passato la sua giovinezza a scontare una condanna per aver ammazzato il suo amico, Lorenzo Fersurella, ucciso il 22 ottobre 1995 in Puglia. Ventuno anni in carcere sui 24 inflitti dalla giustizia, dopo i quali è stato riconosciuto innocente. «Sono stato sequestrato dallo Stato italiano per un reato mai commesso». Angelo Massaro parla con il Dubbio dopo 21 anni passati in cella, cercando di farsi ascoltare ma ci hanno messo la metà degli anni che ha per dargli ragione. Oggi, a 51 anni, ha il resto della sua vita davanti. Ma la sua giovinezza l’ha passata a scontare una condanna per aver ammazzato il suo amico, Lorenzo Fersurella, ucciso il 22 ottobre 1995 in Puglia. Ventuno anni in carcere sui 24 inflitti dalla giustizia, dopo i quali è stato riconosciuto innocente. Il giorno dopo il processo di revisione celebrato a Catanzaro, Massaro racconta i suoi anni in cella, arrestato per una telefonata male interpretata dagli inquirenti. «Sette giorni dopo la scomparsa del mio amico ho telefonato a mia moglie, dicendole di preparare il bambino per portarlo all’asilo. Ho detto questa frase: «Faccio tardi, sto portando u muers» – racconta al Dubbio -. Portavo dietro alla mia auto una piccola pala meccanica per fare dei lavori edili per mio padre. Questa frase l’ho detta davanti ad un’altra persona ma nessuno l’ha mai sentita». E nessuno, quel giorno, verifica cosa effettivamente Massaro stia trasportando. Fosse stato lui, avrebbero potuto beccarlo con le mani nel sacco. Invece prima di interrogarlo passano quattro mesi. «Mi chiesero se ero mai stato a San Marzano, senza spiegarmi perché», dice. L’arresto scatta sette mesi dopo quella telefonata. «Era il 16 maggio 1996. Mi stavano arrestando per aver ammazzato una persona che consideravo un fratello, l’uomo che aveva battezzato il mio figlio più grande, che avrebbe dovuto battezzare anche il piccolo, il mio compare d’anello – racconta -. Sono stato privato dell’affetto dei miei figli, della possibilità di vederli sorridere, piangere, di una carezza. Ero incredulo ma avevo fiducia. Pensavo: ora ascolteranno la telefonata e capiranno». Invece prima che qualcuno capisca l’equivoco ci vuole molto tempo. Più la vicenda va avanti, più diventa grossa. «Come potevano pensare che qualcuno trasportasse un cadavere sette giorni dopo un omicidio alle 8.30 del mattino? Perché non mi hanno sentito subito? Avrei potuto di- mostrare tutta la verità subito». Nessuna risposta a queste domande. Massaro rimane fiducioso anche nel corso del processo. Al punto che la difesa rinuncia ad ascoltare testimoni, sapendo che nessuna prova può dimostrare la sua colpevolezza. «I testimoni dell’accusa non hanno dato elementi utili», spiega infatti. All’improvviso, però, l’accusa tira fuori un pentito. «Ci siamo opposti ma non è servito – racconta Massaro -. Il collaboratore ha soltanto detto che secondo lui avrei potuto ucciderlo io il mio amico, tutto qua. Può bastare questo? Non credo». Per tre gradi di giudizio, invece, è bastato. In appello i legali chiedono una nuova perizia sulla telefonata e l’audizione di altri testimoni, «ma ci è stato negato». E non serve nemmeno la testimonianza dei carabinieri di Roma, che hanno spiegato come il tono di voce, nella telefonata, fosse tranquillo e come quella parola incriminata – “muers” – possa avere diverse interpretazioni. Nemmeno le sentenze hanno chiarito cosa sia accaduto quel lontano giorno di ottobre, quando Fersurella venne ucciso. «Lo stesso procuratore generale di Catanzaro ha criticato la sentenza, definendola piena zeppa di errori», racconta. Il carcere. «Ho vissuto 21 anni di incredulità e rabbia. Non ho mai accettato questa condanna, tremendamente ingiusta. Ho sempre lottato, studiato sui codici e due anni fa mi sono iscritto a giurisprudenza a Catanzaro. Mi ha portato avanti la rabbia, la sete di giustizia e verità», racconta ora come un fiume in piena. Quelli in carcere sono stati anni di abusi di potere e violazione dei diritti umani. «Il ministero della Giustizia mi ha sempre considerato pericoloso e fatto girare per molte carceri. Mi hanno ritenuto insofferente nei confronti delle regole penitenziarie». E per sette anni, dal 2008 al 2015, non ha potuto vedere i suoi figli. «Il tribunale aveva certificato il loro stato di depressione causato dalla lontananza del padre da casa. Nonostante il magistrato di sorveglianza di Catanzaro abbia richiesto il trasferimento a Taranto, vicino ai miei figli – denuncia -, il Dap si è completamente disinteressato». Le condizioni di vita dietro le sbarre sono state a volte intollerabili. In cella, ad esempio, mancava l’acqua «e mi lavavo con quella delle bottiglie, che ero io a comprare. E cosa è successo? Mi hanno punito con l’isolamento per lo spreco d’acqua. Questa è solo una parte delle cose subite. Ho visto gente perbene ma anche tanta violenza». La vita fuori. Angelo Massaro oggi è nella sua casa. Spaesato, felice e arrabbiato al tempo stesso. E vuole capire, vuole sapere perché sono stati commessi degli errori. «Non do la colpa a nessuno, chiedo solo che vengano fatti degli accertamenti, perché privare della libertà una persona a 29 anni è crudele e in uno stato di diritto è immorale», dice. E invita a riflettere sullo stato della giustizia in Italia, alla luce anche dei numerosi processi di revisione partiti negli ultimi anni, sintomo di un sistema da rivedere. «Chi sbaglia è giusto che paghi ma un giudice prima di condannare una persona e privarla della vita e dei sui affetti deve chiedersi se lo fa oltre ogni ragionevole dubbio – evidenzia -. Non provo rancore, voglio solo capire se questo errore poteva essere evitato». Tornare a casa è stato strano, dice. Un’emozione che richiederebbe parole nuove. Anche perché alla gioia di rivedere la moglie – che all’epoca aveva solo 22 anni – e i suoi due figli, il più piccolo dei quali era nato soltanto da 45 giorni, aumenta la sua frustrazione. «Perché ho fatto questi 21 anni di carcere?», si chiede quasi ad intervalli regolari. Perché, ripete, è il carcere ciò che non riesce ad accettare, «ma la condanna per un crimine così efferato – ha concluso -. Non potevo sopportare che mi si accusasse della morte di un mio amico, non volevo che la mia famiglia venisse additata. Ho lottato, non mi sono mai arreso. Ma spesso mi chiedo: se fosse capitato a qualcuno meno forte di me e si fosse ammazzato, chi avrebbe reso giustizia per lui?».
Taranto, la moglie dell'uomo assolto dopo vent'anni: "Così ho atteso Angelo in carcere per errore". Patrizia Massaro aveva 22 anni quando nel 1996 il marito fu arrestato con l'accusa di omicidio, per un'intercettazione interpretata male. Ora è tornato in libertà: "Ha trovato un altro mondo", scrive Vittorio Ricapito il 25 febbraio 2017 su "La Repubblica". Angelo Massaro è ancora spaesato, sta imparando a usare lo smartphone. Entrò in carcere che aveva trent'anni, lasciando fuori l'Italia del 1996, quella di Romano Prodi premier, del Milan di George Weah, della Terra dei cachi di Elio e le storie tese per uscirne 21 anni dopo catapultato nell'era dei social network. Fu condannato a 24 anni per l'omicidio di un suo caro amico soltanto per la cattiva interpretazione di una frase dialettale intercettata al telefono. Diceva alla moglie che portava un "muers", un carico ingombrante attaccato all'auto. Gli investigatori pensarono si trattasse di un "muert", cioè del cadavere. Una maledetta consonante cambiò il senso della frase e della sua vita. La revisione dopo vent'anni in cella: non è lui il killer. Ieri per Angelo Massaro il primo risveglio tra le braccia di sua moglie Patrizia, che in tutti questi anni non lo ha mai abbandonato. E poi l'abbraccio con i figli Antonio e Raffaele. Quando fu arrestato avevano due anni e mezzo l'uno e 45 giorni l'altro. Ora sono adulti e lavorano.
Patrizia, ricorda la telefonata intercettata che è costata la condanna a suo marito?
"Non ho fatto che pensarci per vent'anni. Io capii cosa voleva dire Angelo e non replicai, ma per vent'anni mi sono detta che se solo avessi pensato per un attimo che la frase poteva essere ascoltata da altri e fraintesa gli avrei detto di chiarire, di precisare a cosa si riferiva e forse gli avrei evitato a lui la condanna e a noi tante sofferenze. Avevo soltanto 22 anni quando fu arrestato mio marito. Ero una ragazzina inesperta e concordai con gli avvocati di non parlare in aula. Durante il processo di revisione a Catanzaro il procuratore generale mi ha rimproverata per questo errore e ha voluto riascoltare la telefonata".
Suo marito aveva anche un alibi?
"Lorenzo Fersurella è stato nostro compare di nozze, ha battezzato il mio primo figlio, uscivamo insieme e veniva spesso a casa nostra. Il 10 ottobre passò a cercare Angelo e poi sparì. In serata accompagnai mio marito al Sert di Manduria e dopo andammo a una festa in famiglia. Ricostruendo questi movimenti i giudici hanno deciso che mio marito è innocente, ma ci sono voluti 21 anni. Angelo fu arrestato otto mesi dopo l'omicidio. Era il 15 maggio del 1996, due giorni dopo il nostro terzo anniversario di nozze. Ricordo la camera di consiglio del processo di primo grado: nel silenzio del tribunale mi sembrò anche di sentire un giudice che non se la sentiva di condannare solo perché un pentito aveva sentito dire, ma non andò così".
Dopo la sentenza definitiva suo marito le chiese di rifarsi una vita.
"Lo fece con una lettera dal carcere. Lo andai subito a trovare e gli dissi che non si doveva neanche permettere di pensare una cosa del genere. Credevo nella sua innocenza e avremmo affrontato insieme la battaglia".
Certo è stata lunga. Ci sono stati momenti difficili?
"La maggior parte. Lui era in carcere da innocente. Non ebbe il permesso neanche per partecipare al funerale del fratello morto in un incidente due anni fa. Io dovevo affrontare la vita di una donna sola con due bambini piccoli in un paese in cui ero guardata come la moglie di un assassino. Sono arrivata a fare quattro o cinque lavori in contemporanea per sostenere le spese legali".
Come si è comportata con i suoi figli?
"Li ho mandati a scuola lontano da Fragagnano, perché non volevo che fossero additati come i figli del killer. Finché ho potuto ho cercato di nascondergli la realtà, durante le visite dicevo loro che il carcere era il posto di lavoro del papà. Poi hanno iniziato a leggere e capire. Erano alle elementari e poco prima di Natale dissi la verità. Spiegai che il papà era accusato di una cosa brutta, ma che era innocente. Crescere senza un padre non è stato facile. Gli scrivevano sognando di andare al mare insieme al suo ritorno. Anche Angelo ci scriveva tante lettere".
Dopo vent'anni arriva la revisione del processo.
"Il giorno prima è stato il mio compleanno. Non potevo ricevere regalo più bello, anche se abbiamo dovuto aspettare vent'anni. Subito dopo la sentenza Angelo è scoppiato a piangere dicendo che finalmente l'incubo era finito. Poi siamo andati per la prima volta a pranzo fuori, come due fidanzatini, in un ristorante suggerito dalle guardie carcerarie".
E ora?
"Ora facendo la spesa in paese ho visto sguardi diversi. Possiamo tornare a vivere. Non chiedo altro che invecchiare con mio marito".
Un altro caso trattato è stato quello di Anna Maria Manna avvenuto in Puglia, scrive "Il Corriere del Giorno" il 5 febbraio 2017. Nel 1999 il paese di Palagiano (Taranto) venne sconvolto da un’inchiesta giudiziaria: dei bambini di una scuola elementare confessarono alle proprie maestre di aver partecipato a dei festini a sfondo sessuale con degli adulti. Nell’inchiesta venne coinvolta anche Anna Maria Manna, una giovane trentenne, perché, sebbene confusamente, viene riconosciuta tra le foto mostrate dagli investigatori. La Manna passò 15 giorni in carcere, prima a Torino, dove si trovava per un concorso pubblico proprio in uno dei giorni in cui era svolto uno dei “festini”, poi trasferita a Taranto. Viene additata come una pedofila, emarginata e minacciata. “Non so assolutamente perchè sono finita nell’inchiesta ha dichiarato la Manna. Il suo legale Antonio Orlando ha evidenziato gli errori “In un passaggio viene chiesto ad un bambino se avesse toccato la donna e dove. Il bambino risponde: sul naso”. Ma nelle trascrizioni compare ben altro: “davanti”. Il difensore della Manna ha trovato molte altre incongruenze con le trascrizioni. Solo un bambino sostiene di aver visto la Manna fare l’amore con un uomo. “Mi accusarono di essere in una di queste feste. Mentre io ero a Torino. Ma questo non bastò agli inquirenti. Grazie all’incidente probatorio, richiesto dal suo legale, si riuscì a provare la sua innocenza. Infatti i bambini non la riconoscono. E’ la fine di un incubo. Ma chi ha pagato per questo errore giudiziario? Solo la povera Anna Maria. Che è stata risarcita dallo Stato con 63mila euro. La sua storia venne trattata anche in un precedente programma della RAI “Presunto colpevole”. Guardando gli abusi e follie giudiziarie del magistrato che ha ordinato per ben 4 volte la carcerazione del povero Lattanzi, abbiamo pensato alla richiesta di arresti del nostro Direttore formulata da due pubblici ministeri dalla Procura di Taranto sulla base del nulla (rigettata dal Gip del Tribunale ), entrambe evidentemente a caccia di protagonismo mediatico (soltanto ?), le quali adesso dovranno rispondere del loro operato dinnanzi alle Magistrature ed Autorità competenti, ci viene spontaneo chiedersi: ma è questa la “giustizia” di cui parla l’ ANM – Associazione Nazionale Magistrati ? Quando avremo anche in Italia una “giustizia giusta”, e soprattutto quando i magistrati saranno chiamati a rispondere dei loro abusi, omissioni e soprusi. Nei Paesi civili tutto questo non accade…
Taranto, svendono immobili veri in una città falsa. La vittima ha denunciato il curatore fallimentare: "io truffata", scrive di Michele Finizio, sabato 18/02/2017 su "Basilicata 24". Mettono all’asta un immobile a Palagiano, ma nell’avviso scrivono Palagianello. Un errore? Macché. L’hanno fatto apposta. Ma come è possibile? Il curatore avrebbe dato una risposta che, nel girone circense infernale dei procedimenti fallimentari a Taranto, non fa una grinza: “Se avessimo scritto Palagiano, ci sarebbe stata la fila di persone”. Ma che risposta sarebbe? L’interesse del curatore dovrebbe essere di avere una fila di compratori che garantisce più offerte e magari la vendita ad un prezzo più alto della base d’asta. Roba da denuncia. Infatti, la signora Caterina Cuscito, vittima protagonista del fattaccio, ha presentato un esposto-denuncia alla procura della Repubblica presso il tribunale di Taranto, il 28 gennaio scorso. La signora Cuscito è un'ex commerciante che ha dovuto fare i conti con la crisi e con la solita banca. Prima gli espropriano la casa, poi mettono all’asta due locali commerciali e un’auto rimessa a Palagiano (Taranto). Però, il curatore nell’avviso scrive Palagianello (Taranto). Indicare una località al posto di quella effettiva di collocazione dei beni all’asta è certamente un vizio di procedura, ma probabilmente è anche un reato. E sì. Perché la signora Cuscito legittimamente si sente truffata. La “fila delle persone” avrebbe fatto alzare il prezzo dell’immobile con un probabile vantaggio per Caterina: il ricavo di una somma residuata dalla vendita, dopo aver pagato il creditore. Questa possibilità è svanita, perché i locali sono stati venduti, a chissà chi, ad un prezzo chissà quale, a Palagiano e non a Palagianello. I compratori, dal canto loro, dovevano essere informatissimi circa la collocazione dei beni. Insomma, alla sezione fallimentare del tribunale di Taranto, le procedure sono delle vere e proprie processioni di povere vittime che non sanno più a che santo votarsi. I pescecani, invece, sanno benissimo a chi rivolgersi. A proposito anche in questo caso il giudice delle esecuzioni è sempre uno del "giro". Gli stessi del fiore da 2omila euro, del caso Delli Santi, del caso Roberto Di Taranto, della vicenda Buonsanti, gli stessi in moltissime procedure contestate. Gli stessi più volte denunciati al Tribunale competente di Potenza che archivia. Anche i curatori, gira e rigira, sono sempre gli stessi giostrai della disperazione. Alla prossima puntata, tra qualche giorno, un altro caso che riguarda direttamente il tribunale di Potenza.
"A 80 anni mi cacciano da casa mia". Lo sgombero previsto per domani 20 marzo 2017. Taranto: Angelo Delli Santi scrive al presidente della Repubblica e alle altre Istituzioni dello Stato, scrive "Basilicata24" Domenica 19/03/2017.
"Sono e mi chiamo Delli Santi Angelo Salvatore e sono un cittadino italiano (purtroppo). Le autorità locali conoscono la mia vicenda, ma un breve cenno è dovuto per quelle nazionali pure in indirizzo: ed a tutti mi rivolgo perché ognuno sappia e di ognuno sia radicata la responsabilità! Per una truffa subita oltre trent'anni fa, mi sono trovato in difficoltà e sono state aperte sia un'esecuzione immobiliare che una procedura fallimentare: e così è iniziato per me il periodo di ergastolo (solo che io non avevo fatto nulla). Se avessi ammazzato il mio truffatore, ora sarei riabilitato e rispettato (e forse riuscirei anche ad avere accesso a quel circolo chiuso di soggetti che acquistano all'asta i beni altrui come se niente fosse, incamerando anche grossi patrimoni per due spiccioli, magari anche solo al fine di riciclare denaro che, in qualche modo, deve pure essere ripulito: e tutti lo sappiamo che è così). Invece no, non potevo delinquere perché avevo i figli piccoli e dovevo mantenermi pulito per loro! Passano trent'anni e riesco a trovare chi accetta di difendermi, peraltro senza soldi (perché io i soldi non li ho nemmeno per mangiare). Il mio avvocato ci prova a difendermi per salvare la mia piccola casa e lo fa senza risparmiare fatiche ed energie, con cuore e passione, pagando un prezzo che pochi avrebbero sopportato; ma non c'è niente da fare. Niente da fare: il sistema aste e fallimenti del tribunale di Taranto è troppo marcio e radicato e tutto ivi si vende, senza rispetto della legge e senza alcun limite, indipendentemente da quello che è il valore iniziale del bene, e solo con il limite del valore di ventimila euro (e vedi un po' tu che coincidenza. . . 20.000 euro. . . giusto il costo approssimativo di una procedura esecutiva di media durata - e come non dedurne che tutto si vende per dare da mangiare alla cerchia dei soliti consulenti e custodi e avvocati e, magari, perché no, per un bel fiore, un po' costoso magari, un fiore da 20.000,00 per il giudice dell'esecuzione. Capito che c'è un muro provo ad abbatterlo e, dicendo una parziale verità, punto il mio dito contro la casta dei signori che gestiscono questi sistemi e la accuso anche di associazione a delinquere; ho detto, però, parziale verità perché ora so che l'associazione a delinquere è poca cosa rispetto a quella che è la realtà: qui c'è attacco al Popolo Italiano, attentato alla Costituzione, crimini contro i diritti umani, tortura psicologica ed ogni reato che, mortificando l'umanità, realizza spostamento della ricchezza dal popolo, sempre più povero, ai soliti e con sperticata tutela delle banche (e chissà poi perché?)! Quel muro, però, che non è ancora caduto - ma ho fiducia che cadrà - mi viene contro tentando di schiacciarmi (un po' come ho immaginato potesse accadere se decidessi di far esplodere la mia casa)... ma, come ho già detto, non sono nato delinquente, io. E veniamo ad oggi! Lunedì 20 marzo è previsto il mio sgombero. L'avvocato mi ha difeso anche rispetto a questo e le Autorità locali lo sanno bene: non si può procedere perché c'è vizio nella procedura di sgombero (e questo non lo dice il mio avvocato ma lo dice la legge); mia moglie è in ospedale e pure questo le Autorità locali lo sanno bene (e qui soccorrerebbe solidarietà ed umanità); mia figlia e mia nipote, che vivono nella casa sgomberanda, non hanno ottenuto alcuna tutela (che pure, per legge, competerebbe loro) e pure questo le Autorità locali lo sanno bene. E senza dire che tutta la procedura espropriativa in mio danno è stata portata avanti nella più totale negazione di ogni diritto vigente e nella bieca imposizione di prassi illegali: e sfido chiunque a verificare gli atti tutti prodotti nel mio interesse (e le vicende processuali sono ancora tutte aperte)! Ma nonostante ogni mio diritto, evidente quanto esistente, mi consta che in spregio di ogni legge ed equità e umanità procederete con ausilio della forza pubblica, come quando si va contro un pericoloso delinquente... ma nuovamente vi rammento che non sono nato delinquente, io. Io sono un cittadino italiano che voi state umiliando, offendendo, aggredendo ed io, cari signori, ho il dovere di difendermi; fallito per trent'anni, dopo aver riacquistato la dignità, a quasi ottant' anni, non intendo perderla subendo i vostri abusi di potere... e la mia difesa è legittima quanto sacrosanta! E al Popolo italiano, a cui pure questo scritto è rivolto a mezzo della stampa tutta, io voglio dire che è ora di riprenderci in mano le nostre vite e i nostri diritti: ci calpestano ed umiliano, trasformando la giustizia in una puttana (con vendita ai migliori offerenti, che sono sempre loro e i loro amici); ci affamano con scelte politiche scellerate; attentano alla personalità dello Stato svendono la sovranità, come vendessero cose proprie; si garantiscono privilegi per generazioni, vivendo come parassiti alle spalle di tutti; accumulano patrimoni succhiando il sangue altrui come veri vampiri; ci pisciano in testa e dicono che piove (ed è proprio vera questa frase)! E a tutti in indirizzo io dico che se anche si finge di non sapere che tutto, prima o poi, deve avere una fine, lo rammento io: la fine di ogni scempio e abuso verrà e che Dio le consacri queste mie parole... in fondo se da una società togliamo la giustizia, cosa resta? Angelo Salvatore Delli Santi
VITE ALL'ASTA. "Ho dato dei soldi per evitare che la mia casa andasse all'asta". La storia di due anziani coniugi finiti in mezzo alla strada, scrive Michele Finizio su “Basilicata 24” Venerdì 05/05/2017. Alfonso Notarnicola e Filomena Altamura, marito e moglie da una vita. Sulla soglia degli 80 anni lui, quasi 75enne lei. Vivono (si fa per dire) a Palagiano in provincia di Taranto. Nel corso della loro vita di duro lavoro e di sacrifici non avrebbero mai immaginato di finire, un giorno, per essere trattati dallo Stato come stracci da cucina. Accanto al dolore per aver perso ogni proprietà, compresa la casa dove abitavano, si è aggiunta una delusione, profonda, di quelle che fanno male. La delusione di una Giustizia ingiusta, che trasforma il cittadino in carta da sgabuzzino e lo tratta come carne da macello. Come da copione, Alfonso e Filomena, finiscono nel tritacarne delle procedure fallimentari del tribunale di Taranto, per non aver pagato alcune rate di mutuo. Come da copione, le loro proprietà, tutte, vanno all’asta. L’ultima, che riguarda un immobile del valore di mercato di poco meno di circa 1 milione e 300mila euro, è aggiudicata al prezzo vile di 275 mila euro. Niente di che, ormai è sempre così, gli articoli del codice per cui non si possono svendere gli immobili oltre determinati limiti di valore, a Taranto, ognuno li interpreta a soggetto. I coniugi Notarnicola sono stati espropriati di tutti i loro beni per pagare debiti, che forse nemmeno sono reali, nella misura indicata dalle banche, con interessi verosimilmente usurai, senza tenere in minimo conto il valore dei beni e quello del debito. Infatti, con quella vendita, il debito non è estinto. Niente di che. E’ la prassi. Quei beni sarebbero stati venduti ai soliti personaggi che lucrano sulle disgrazie altrui. Una specie di club degli affari sulle aste, in cui si affacciano persone per bene e personaggi di dubbio calibro morale. Una vicenda emblematica la racconta lo stesso Alfonso in un suo esposto alla Procura della Repubblica tarantina: …“anche noi abbiamo da dire qualcosa in merito alle cosiddette turbative d’asta! Infatti, in un recente passato… io, Notarnicola Alfonso, ho reso informazioni presso la caserma dei carabinieri di Massafra per evidenziare che il citato signor "OMISSIS" (che è stato arrestato per ben due volte nell’anno 2016) aveva richiesto anche a me del denaro per evitare che la mia proprietà fosse venduta (e inizialmente, anche in riferimento alle prime vendite, avendo paura di perdere la proprietà, all’insaputa di tutti, gliene ho anche dato denaro, in diverse tranche, se mal non ricordo circa una ventina di mila euro; poi quando ho capito che comunque non mi poteva garantire nulla e che la mia proprietà non solo restava all’asta, ma veniva venduta, non gli ho dato più nulla: e lì ho perso tutto). Ricordo che il signor Putignano ‘sapeva ben vendere’ il proprio intervento per evitare che le aste fossero aggiudicate e, in particolare, ricordo che in un’occasione lo stesso ebbe a dire: “ma cosa credete che tutto ciò che mi date è a me? Io devo accontentare quelli di Taranto”; ora chi siano quelli di Taranto non mi compete saperlo, quello che so è che devo lottare per difendermi, ma mai avrei creduto di dovermi difendere dallo Stato”. Il sognor "OMISSIS", sappiamo chi è, noto esponente di un clan malavitoso locale, non sappiamo chi sarebbero “quelli di Taranto”. Anche se la curiosità si fa sempre più rodente. Sin qui, nulla di nuovo. Abbiamo raccontato di peggio. Ciò che appare nuovo, in questo ennesimo caso di “vite all’asta”, è il trattamento subito dalla famiglia Notarnicola da parte dell’Istituto Vendite Giudiziarie. Trattamento che potremmo sintetizzare con una sola frase: cacciati illegalmente da casa, ingannati a più riprese, privati dei più elementari diritti umani.
Ma cos’è l’Istituto Vendite Giudiziarie o anche Ivg? E’ l’organo che si occupa delle esecuzioni mobiliari e che si presenta a casa della gente per prelevare i beni mobili pignorabili (televisore, divano e quant’altro), in questo caso esclusi dalla procedura di vendita, per essere poi venduti. Ebbene, il 31 gennaio 2017, il personale dell’Ivg, butta fuori di casa i due anziani, senza che questi abbiano avuto modo di liberare l’immobile dai loro effetti personali poiché non avrebbero ricevuto alcun avviso. O meglio, un avviso l’ha ricevuto il signor Alfonso, il giorno prima del “blitz”, un avviso generico nel quale non veniva indicato il giorno in cui l’Ivg si sarebbe presentato per liberare gli immobili, infatti c’era scritto: “nei prossimi giorni”. A noi della redazione viene il dubbio che l’IVG abbia confuso la disciplina o prassi che si segue quando si tratta di prelevare beni mobili con quella che invece riguarda gli immobili. Ma chiediamo al signor Notarnicola che cosa è successo: il 31 gennaio 2017 l’IVG è venuto a buttarci fuori di casa senza nessun avviso, o meglio con un preavviso scritto notificatoci solo il giorno prima (30/01/2017); avviso in cui c’è scritto che nei prossimi giorni si sarebbe recato presso di noi per immettere il custode giudiziario nel possesso del bene (e il custode giudiziario era proprio l’Istituto Vendite). Noi in quest’occasione siamo stati tranquilli ed abbiamo consentito che operassero e lo hanno fatto anche alla presenza di una bimba di cinque anni; l’operatore dell’IVG ci ha invitati a consentire che si facesse e che il giorno dopo saremmo potuti andare a prenderci le nostre cose (noi abbiamo lasciato lì tutte le nostre cose, comprese le medicine, del denaro e tutti gli effetti personali; L’operatore dell’IVG, da noi contattato, ci ha dato appuntamento per il giorno 2 febbraio per andare a riprenderci un po’ di nostre cose, ma neppure questo ci è stato consentito; ci siamo recati in caserma e i carabinieri ci hanno ottenuto un nuovo appuntamento per il 3 febbraio 2017 (ma all’ora dell’appuntamento abbiamo trovato fuori dal cancello della nostra proprietà due persone che ci hanno detto che ora non è più possibile entrare per prendere le nostre cose perché l’acquirente (che ha tutte le chiavi) è all’estero: quindi oltre il danno e la beffa… anche la presa in giro! Insomma, i signori Notarnicola, entrano in possesso dei loro effetti personali, dopo che nell’immobile era già entrato l’acquirente. Senza che siano state rispettate le procedure di legge. Sbattuti come pupazzi di pezza. Tutte situazioni illustrate nell’atto di reclamo al Giudice delle Esecuzioni, ma tant’è. In ogni caso sulla vicenda Notarnicola pende un rinvio pregiudiziale alla Corte Europea.
Luigi Abbate il 27 aprile 2017 su “L’Occhio di Abbate”, canale youtube, parla delle aste giudiziarie in Italia ed a Taranto: il fenomeno delle aste immobiliari – Alcune anomalie: il prezzo “vile” ed il duopolio degli studi legali ed il ruolo dei curatori/custodi/ausiliari e banche.
“Adesso parlo io.” J’accuse dell’avvocato Anna Maria Caramia. Aste giudiziarie e procedure fallimentari nel tribunale di Taranto. “A me le cose non quadrano”, scrive Michele Finizio Sabato 18/03/2017, su Basilicata 24. Anna Maria Caramia, 48 anni, di Massafra, avvocato, difensore di alcuni cittadini nei procedimenti fallimentari incardinati nel tribunale di Taranto. Da otto anni è in “trincea”, a combattere le “ingiustizie”. Non sono poche ormai le denunce contro quello che qualcuno ha definito "sistema criminale, stabile ed efficace". Il nostro giornale si è ampiamente occupato della vicenda tarantina con inchieste e articoli su presunte irregolarità e palesi violazioni di legge nelle aste giudiziarie e procedure fallimentari. La vicenda, sotto alcuni aspetti, coinvolge anche il tribunale di Potenza “avvezzo ad archiviare le denunce contro i giudici tarantini”. Cittadini mantenuti nello status di fallito per oltre 30 anni, vendite a prezzo vile, usura, aste “pilotate” l’ombra della malavita, presunti tentativi di concussione e corruzione, duplicazione di titoli esecutivi, avvisi di aste in luoghi inesistenti, connivenze sospette tra giudici, avvocati, consulenti, banche. Queste sono le frasi ricorrenti nelle decine di esposti, denunce, querele di cittadini che sarebbero finiti nel tritacarne di quello che, uno di loro - Angelo Delli Santi – definisce “Sistema criminale consolidato, stabile ed efficace”.
Avvocato Caramia, che sta succedendo?
«La mia esperienza parte nel 2008 allorché, nella difesa di Spera Maria, mi sono scontrata con meccanismi e decisioni che ben presto si sono rivelati tutt’altro che regolari e conformi a leggi. Usura che non viene accertata nonostante la doglianza (e che poi emerge come reale); duplicazione di titoli esecutivi; lievitazioni di debitorie oltre ogni logica, anche quella aritmetica, e, soprattutto, rigetti e rigetti e rigetti di opposizioni e procedure fondate: ma tutto doveva andare in un'unica direzione e quella direzione non è mai quella che tutela il cittadino esecutato!»
Ci risulta che lei stia avendo problemi sul piano professionale.
«Mi sono dovuta imbattere in tante situazioni per cui ho dovuto difendere me stessa. A dire il vero io l’ho sempre percepito un forte accanimento professionale, ma mi sono astenuta dal dirlo a ogni piè sospinto (anche per evitare che mi si dicesse che vedo fantasmi e che, in fondo, quello che io potevo percepire come ritorsione altro non era che il solito ‘errore’ del magistrato… tanto c’è l’appello); ma in realtà, proprio giorni fa, ho avuto contezza che in mio danno c’è stato più del solito errore da appellare. Sono anche destinataria di un esposto all’Ordine degli Avvocati da parte del presidente del tribunale di Taranto».
Lei sembra diventata la “Giovanna d’Arco” di tanti cittadini che ritengono di aver subito e di subire abusi e prepotenze dal tribunale di Taranto. Non fa più l’avvocato?
«Un collega, qualche giorno fa, mi dice: “Tu non puoi fare l’avvocato così, puoi fare politica ma non l’avvocato… non puoi attaccare i giudici che devono giudicare le tue questioni, lo faranno sempre contro di te… è una vita che prendi schiaffi qui, ed io lo so!” Queste affermazioni mi hanno convinta a parlare. Quelle parole hanno ravvivato tanti dolori, hanno svegliato in me rabbia e soprattutto la voglia di riscatto! Mi sono detta:” parlano tutti e adesso parlo pure io.” Sono e faccio l’avvocato, non mi sento un’eroina e faccio di tutto per evitare che qualcuno mi percepisca o mi faccia apparire come paladina di una causa sociale. Io faccio le cause nei processi civili nei tribunali per difendere i miei clienti. Punto. Ho appreso dai comunicati vari, di colleghi e politici e magistrati, che non ci sarebbe nulla di più candido e puro di quanto avviene nelle sezioni esecuzioni e fallimenti del tribunale. Eppure a me le cose, proprio in questi termini di candore, non quadrano affatto.»
Che cos’è che non le quadra?
«Sorvolo su tante situazioni, sulle strane attenzioni rivoltemi negli anni, sugli inviti cordiali e destra e a manca, sulle forzature nei provvedimenti di alcuni magistrati e su tanto altro: in fondo dal 2008 resisto e sono riuscita ad arrivare sino al 2016. Nel 2016, poi, si sono rivolti a me i signori Delli Santi e Montemurro, lamentando un’esecuzione immobiliare ed un fallimento che perduravano dal 1986, ovvero da ben trent’anni! La sofferenza letta nei loro occhi mi ha indotta ad entrare nella loro vicenda trentennale: e così sono diventata l’avvocato difensore di colui che, di lì a breve, sarebbe diventato per tutti il famoso Nonno Angelo. Io l’ho solo difeso con gli strumenti che ritenevo di poter azionare; lui mi ha parlato di morte, sia della sua che di quella degli altri, voleva fare del male e voleva armarsi per farlo; io ho solo sostituito un’arma atta a offendere la vita altrui con un atto giuridico! Ma non mi quadra anche altro».
La rabbia dei cittadini può trasformarsi in azioni insensate? E’ questo che vuole dire? E cos’altro non le quadra?
«Ha mai provato un sentimento di impotenza nei confronti di chi, seppure involontariamente, distrugge la sua vita? Ha mai provato a difendersi con tutti i mezzi legali e scoprire che quella stessa legalità si trasforma in un eterno labirinto senza uscita? Quando la giustizia non tutela i più deboli applicando la legge, lo stato di diritto subisce colpi mortali. Alcuni cittadini impotenti, finiti nel labirinto, hanno provato a conservare un lume di speranza rivolgendosi all’avvocato Caramia. Questo è successo. Mai, però, avrei immaginato che tutto il mondo intorno si sarebbe elevato in un grido univoco in difesa della magistratura e della purezza delle sezioni esecuzioni e fallimenti del tribunale. Mai avrei immaginato attacchi feroci, tutt’altro che disinteressati contro di me. Non è colpa mia se la legge prevede che una procedura fallimentare debba durare massimo sette anni e qui c’è gente che soffre da trent’anni. Non è colpa mia se la legge prevede vendite all’asta a prezzo giusto e qui si svende a prezzo vile. Non è colpa mia se la legge prevede che nell’avviso di un’asta bisogna indicare il luogo esatto di collocazione del bene e qui si danno indicazioni palesemente false. Non è colpa mia se la legge prevede che un giudice denunciato da un cittadino non può avere ruolo giudicante in una causa che riguarda quel cittadino. Potrei continuare a lungo, ma tant’è…»
Però, lei appare come un avvocato anomalo, che attacca i giudici per ottenere sentenze favorevoli alle sue cause.
«Mai ho inteso, con la mia condotta, attaccare la magistratura, io ci credo ancora nella giustizia, mai ho inteso attaccare i colleghi, dai quali però sono stata anche attaccata, mai ho inteso screditare il mio Ordine che invece ha avuto nei miei confronti, atteggiamenti di ostilità e rifiuto. Non ho mai attaccato alcun giudice, ho sempre e semplicemente chiesto l’applicazione delle leggi. E invece ricevo esposto all’Ordine addirittura dal presidente del tribunale che, su relazione del presidente di sezione, ritiene che io non disdegni minacciare i giudici per avere ciò che voglio, che però mai ottengo. E che la mia sarebbe condotta penalmente rilevante… e questo addebito ancora mi ‘puzza’ di strano; e nel frattempo i miei poveri clienti esecutati e falliti vengono incolpati di condizionare il corretto esercizio della funzione giurisdizionale; e nel medesimo tempo io continuo a prendere i soliti schiaffi, perdendo cause vinte e incontrando difficoltà anche allorché si tratta di ottenere liquidazioni di gratuiti patrocini. Devo dire che è da tempo che mi aspetto che qualcuno trovi il modo per arrestarmi, in senso lavorativo intendo… ma perché no anche in senso letterale. E che dire di certi colleghi avvocati?»
Mi dica.
«Ho anche appreso che, addirittura, presso il tribunale di Taranto, esistono le Camere delle esecuzioni immobiliari e delle procedure concorsuali, presiedute dagli avvocati Moretti e Buonfrate. L’avvocato Fedele Moretti ha anche grossi incarichi, nonostante il ruolo di consigliere dell’Ordine rivestito all’epoca in cui l’incarico o gli incarichi – che non avrebbe dovuto accettare – li ha accettati. E’ recente una sua intervista in cui, nella solita sperticata difesa, al professionista è piaciuto evidenziare non solo che è tutto regolare e che anche la svendita senza limite di ribasso lo è (per cui si potrebbe vendere a qualunque prezzo, ribassando di un quarto alla volta e senza limite di valore, con negazione e non solo limitazione di ogni diritto di proprietà), ma che l’unico problema, del caso aste, esiste a Massafra (e a Massafra risiede il mio cliente, Nonno Angelo, ed il suo avvocato, io). E non sarà che Moretti predica bene e razzola male? Se il codice deontologico stabilisce l’incompatibilità tra carica di consigliere dell’Ordine e funzione di incaricato alle vendite d’asta, poteva l’avvocato Moretti accettare incarichi? E se nella sua condotta c’è un’ombra (anche solo una), non sarebbe stato opportuno che tacesse anziché ergersi ad accusatore di chi si sta solo difendendo?»
Lei, dunque è sola, si sente sola, avverte isolamento?
«Sulle vicende tarantine ci sono due interrogazioni parlamentari. E’ nata un’associazione tra cittadini, si chiama “Legalità”. Un giornale, il vostro, ha dato a sta dando ampio spazio a queste vicende. Non sono sola, né mi sento sola. Detto questo, è evidente che negli ambienti giudiziari e in alcuni ambienti politici da tempo sono in atto tentativi di delegittimazione del mio operato e della mia persona. Certo sono scomoda, e vivo questo essere scomoda con forte disagio. Vorrei essere un semplice avvocato che lavora in un contesto di legalità, che fa il proprio dovere dove anche gli altri fanno il loro».
Prima di lasciarci, mi deve togliere una curiosità. Lei sa del video da noi pubblicato nel novembre scorso. In quel video, ossia una registrazione audio, emergerebbe un tentativo di concussione da parte di un curatore fallimentare, che sembrerebbe parlare a nome di un giudice, nei confronti di un imprenditore interessato in una vicenda fallimentare. Si tratterebbe dell’acquisto all’asta di beni immobili relativa ad una procedura lunga almeno 30 anni. Potrebbe anche trattarsi di una semplice proposta di transazione immaginata come concussione per causa di equivoci nella conversazione. Il dubbio deriva dal fatto che il tribunale di Potenza ha archiviato la denuncia contro quel curatore depositata dall’imprenditore che sarebbe stato vittima del tentativo di concussione. Lei che ne pensa?
«Lei si riferisce a qual video in cui si parla di un fiore da 20mila euro per “aggiustare la cosa”. L’imprenditore in questione non è mio cliente. Conosco la vicenda perché mi è stata raccontata dall’imprenditore. Ho ascoltato e visto quel video. Non posso, però, esprimere valutazioni, non ho studiato le carte della vicenda. Posso solo dire che il tribunale di Potenza archivia con troppa facilità le denunce a carico dei giudici e dei curatori fallimentari del tribunale di Taranto. Avranno i loro motivi. Per quanto riguarda questa storia particolare, mi aspetto che, se la denuncia dell’imprenditore è infondata, qualcuno denunci l’imprenditore per calunnia o per diffamazione. Adesso faccio io una domanda a lei. Il signor Angelo Delli Santi ha fatto gravi affermazioni nel suo esposto contro i giudici tarantini e potentini, definendoli, tra l’altro, parte di un sistema criminale. Non so se, allo stato, il mio cliente sia stato denunciato da qualcuno relativamente al suo esposto; ma se non lo è stato perché nessuno denuncia il signor Delli Santi?»
Già, perché?
«Si dia lei una risposta, intanto io aspetto».
I giudici di Taranto e Potenza si vogliono un gran bene, scrive Michele Finizio, Martedì 21/02/2017 su "Basilicata 24". Il “pasticcio” delle procedure fallimentari si fa sempre più ricco di episodi curiosi. Continuiamo la nostra inchiesta sulle aste fallimentari gestite dal tribunale jonico e sulle strane decisioni che assume il tribunale di Potenza sui giudici tarantini denunciati. Vi ricordate la drammatica denuncia del signor Angeli Delli Santi, 30 anni con lo status di fallito, contro gli abusi dei giudici e contro il “sistema criminale consolidato, stabile ed efficace” delle aste giudiziarie e procedure fallimentari al tribunale di Taranto? Un atto di accusa gravissimo che coinvolge anche i giudici potentini i quali in più occasioni sono stati chiamati a pronunciarsi sul comportamento dei loro colleghi tarantini. (Se avete qualche minuto, potrete rilegge l’atto di accusa di Delli Santi e tutti gli altri articoli della nostra inchiesta, “Vite all’asta”, pubblicati fino a oggi, cliccando sui link a margine). Ebbene ci risiamo. Emergono nuovi particolari episodi che lascerebbero stupefatto anche un novellino del diritto. Insomma vizi e violazioni di norme sarebbero all’ordine del giorno delle procedure fallimentari gestite dal tribunale di Taranto. Andiamo a vedere.
Il giudice Andrea Paiano e la giurisprudenza “creativa”. Paiano, è giudice delle esecuzioni. Denunciato sia dal signor Delli Santi, sia dalla moglie di questi, Giovanna Montemurro, per abuso d’ufficio e non solo. La denuncia della signora Montemurro pende al tribunale di Potenza. Logica vorrebbe, ma soprattutto il Diritto, che un giudice si astenga se ha “causa pendente o grave inimicizia o rapporti di credito o debito con una delle parti o alcuno dei suoi difensori”. Nella giostra della sezione fallimentare del tribunale civile di Taranto, questa norma non sembra avere ospitalità. Infatti, il dottor Paiano nonostante le denunce a suo carico, in qualità di giudice ha deciso più istanze presentate dai coniugi Delli Santi, naturalmente rigettandole tutte. Eppure egli sa, lo sanno tutti, che è stato denunciato dalla signora Montemurro il 24 giugno 2016, e verosimilmente egli sa, e tutti lo sanno, che è stato denunciato anche dal signor Delli Santi il 23 settembre 2016. Nel primo caso l’accusa è di abuso d’ufficio, nel secondo caso si ipotizza addirittura l’associazione per delinquere tra magistrati, curatori, consulenti, banche. I coniugi Delli Santi chiedevano con opposizione formale l’estinzione della procedura esecutiva, per vizi procedurali e violazioni delle norme. Opposizione rigettata, la casa viene aggiudicata. Si opponevano all’aggiudicazione, perché ritengono che siano state violate la legge e la procedura. Niente da fare, opposizione rigettata. La signora Montemurro si oppone anche allo sgombero con ulteriore atto. Niente da fare, anche questa opposizione è rigettata. Il giudice, da loro denunciato, agisce come se nulla fosse. Per la verità Paiano aveva chiesto l’astensione, ma il presidente del tribunale non ha autorizzato. Lo stesso presidente, però, aveva autorizzato il giudice Martino Casavola ad astenersi da quel procedimento, per evidente inimicizia con l’avvocato dei Delli Santi. Chissà, l’inimicizia è causa di astensione, le denunce al contrario non autorizzano l’astensione. Il tribunale di Taranto sarebbe un vero e proprio laboratorio di giurisprudenza “creativa”.
Il reclamo rigettato dal giudice “avvelenato”. I coniugi Delli santi, tramite il loro avvocato Anna Maria Caramia, in data 23 dicembre 2016, presentano un reclamo contro il provvedimento di rigetto del giudice Paiano. Chi decide su quel reclamo? Un collegio di tre giudici tarantini. Chi è il presidente di quel collegio? Il giudice Pietro Genoviva. Chi è Genoviva? Niente di che. Semplicemente ha il dente avvelenato contro l’avvocato dei coniugi Delli Santi, l’avvocato Anna Maria Caramia. Lo stesso avvocato di tanti altri cittadini falliti e finiti nelle maglie del tribunale di Taranto. Genoviva è il giudice che ha definito la condotta di quell’avvocato, penalmente rilevante e che ritiene i coniugi Delli Santi persone che “tentano di condizionare il corretto esercizio della funzione giurisdizionale attraverso lo strumento della denuncia contro i giudici”. Servirebbe un dentista sopra le parti.
I “giochi di prestigio” tra Potenza e Taranto. Come già detto, la signora Giovanna Montemurro il 24 giugno 2016 denuncia il giudice Andrea Paiano alla Procura della Repubblica di Potenza (procura competente a giudicare i magistrati tarantini). In quella denuncia è richiamata espressamente l’istanza di sequestro preventivo dell’immobile poi aggiudicato all’asta. Su questa istanza la procura di Potenza non si esprime. Si esprime però, e stranamente, sulla denuncia del signor Angelo Delli Santi, quella del 23 settembre 2016, con una decisione di “non luogo a provvedere”. Strano anche che una denuncia, quella di Delli Santi, contro la procura potentina finisca nelle mani dei magistrati di Potenza, cioè nelle mani del giudice denunciato. Eppure, quella denuncia è stata indirizzata a tutti tranne che, giustamente, alla procura di Potenza. Procura che è la stessa a iscrivere la notizia di reato che la riguarda a modello 45 (Registro degli atti non costituenti notizia di reato). Eppure la denuncia di Angelo Delli Santi è gravissima, altro che notizie non costituenti reato! Perché nessuno si è mosso per fare almeno una verifica sulle dichiarazioni del denunciante? Macché! Il giudice denunciato decide per se stesso: “Non luogo a provvedere”. Si autoassolve. E se il signor Delli Santi ha torto nel denunciare collusioni tra giudici tarantini e potentini, se il signor Delli Santi ha torto nel denunciare un “sistema criminale di gestione delle aste fallimentari”, perché non è destinatario di una denuncia per diffamazione o calunnia da parte dei giudici potentini e tarantini? Perché non viene arrestato per le sue gravi e infondate accuse? Staremo a vedere. Intanto la nostra inchiesta continua. A breve, con un altro caso “strano”.
Vite all'asta: un fallimento lungo 30 anni distrugge un'altra famiglia. Il girone infernale delle procedure nel tribunale di Taranto. E i giudici di Potenza stanno a guardare, scrive Michele Finizio su "Basilicata 24", Martedì 14/02/2017. Ha perso un’azienda agricola, un’azienda di sistemi di sicurezza, una casa e ora, anche il rischio di perdere l’abitazione di Parma dove vive. Da 31 anni va avanti così, per una vicenda da cinquanta milioni di lire cominciata nel 1984. Una procedura interminabile che, non gli ha consentito di riabilitarsi come imprenditore. Anzi, ha travolto l’intera famiglia, in particolare i figli i quali si sono visti serrare il futuro da una giustizia eterna. Eppure, le procedure fallimentari, anche le più complesse, dovrebbero durare non più di sette anni. Roberto Ditaranto, imprenditore di Sava, 60 anni, ora vive in Emilia. La solita trafila dei “destinati al fallimento”. Prima ti concedono un mutuo, poi fanno di tutto per evitare che lo paghi, magari ci si mette di mezzo anche la finanziaria di turno con le solite truffe. O qualcuno che ti propone di fare delle cose illegali, ma tu ti opponi e allora sono guai. Hai una bella masseria, un’azienda avviata, un appartamento e qualcuno li vuole ad ogni costo. Niente di più facile a Taranto. Ti puntano ed entri nel tritacarne della giustizia, anzi dell’ingiustizia, dove la sezione fallimentare del tribunale sembra essere, per molti “falliti”, il girone infernale delle procedure a ostacoli. Tu cerchi di difenderti. Fai di tutto, nonostante i raggiri di cui sei stato vittima, per agevolare l’iter di vendita dei tuoi beni, sperando che la tua condizione di “fallito” duri il meno tempo possibile, per riabilitarti e ricominciare. Invece, no. Loro ti tengono sulla graticola fin quando serve. Anche più di trent’anni, come in questo caso. Allora l’angoscia ti avvolge, il mondo intorno ti tratta come un essere inutile, uno stupido onesto, un presuntuoso che non ha voluto chinare la testa. Avverti l’impotenza di fronte all’ingiustizia, quell’ingiustizia che indossa il mantello scuro della legalità. E pensi ad un’unica via d’uscita: il suicidio. Perché il signor Ditaranto vive con lo status di fallito da oltre 30 anni? Uno dei motivi? Gli hanno detto che non riescono a vendere la sua porzione di masseria cosiddetta “Li Cicci” (Manduria/Oria) “perché non ci sono acquirenti”. E’ vero che non ci sono acquirenti?
Forse la risposta è nella nostra inchiesta del 4 novembre scorso. Potremmo scrivere un libro sulla vicenda del signor Ditaranto, magari noioso, pieno di codici e codicilli della procedura fallimentare. Potremmo raccontare delle presunte false perizie. Potremmo raccontare delle denunce, degli esposti, delle suppliche inviate a decine di autorità. Avremo tempo, la nostra inchiesta continua. Qui però, ci interessa fare luce su un episodio inquietante che oggi sembra dipanarsi con una conferma dei dubbi già espressi quando abbiamo iniziato le nostre inchieste sulle aste fallimentari a Taranto e sulle archiviazioni facili a Potenza: esiste un sistema di corruzione intorno alle procedure delle aste fallimentari nel tribunale jonico? Il caso del signor Ditaranto sembra essere collegato alla vicenda di cui ci siamo occupati nel novembre dello scorso anno, con un articolo corredato da un video. In quel video c’è una conversazione che farebbe emergere un tentativo di concussione da parte di un curatore fallimentare il quale afferma di parlare in nome di un giudice delle esecuzioni. L’imprenditore, per ottenere ciò che chiede da qualche tempo, dovrebbe “offrire un fiore” da ventimila euro. Quella conversazione risale al febbraio 2014, ma in un altro audio risalente al dicembre 2014, l’imprenditore in questione torna sulla vicenda chiedendo al suo interlocutore: “Perché devo dare 20mila euro, perché?” Dunque, il tira e molla sul “fiore” da quanto tempo dura?
Se due più due fa quattro e se il tribunale di Potenza la smette di archiviare. L’imprenditore cui viene chiesto il fiore da 20mila euro, è lo stesso che già possiede e vive dal 1987 in una porzione della Masseria Li Cicci. Interessato a comprare il resto dei beni immobiliari (fabbricati e terreni). Il curatore fallimentare che chiede, a suo dire per conto di un giudice, il “fiore”, sarebbe lo stesso avvocato cui è stata affidata la curatela nel procedimento Roberto Ditaranto. Il giudice cui farebbe riferimento il curatore che chiede il “fiore”, sarebbe lo stesso del caso Di Taranto. L’imprenditore interessato all’acquisto della porzione di bene del signor Ditaranto sarebbe stato anch’egli ostacolato nel suo legittimo scopo. Da circa 20 anni sta provando a regolarizzare la sua posizione, ma sarebbe stato vittima di “sabotaggi” anche attraverso perizie false e vendite a prezzo vile di terreni, ad altre persone, insistenti nel perimetro della Li Cicci. La domanda è: siamo proprio sicuri che la vicenda del signor Di Taranto dura da 30 anni perché il curatore non aveva acquirenti a cui vendere? La risposta è nelle mani della magistratura. Anche Roberto Ditaranto, come tanti altri cittadini ha denunciato curatore e giudice tarantini al tribunale di Potenza. Chissà se anche in questo caso si procederà a “facile” archiviazione.
Intanto un uomo e la sua famiglia sono allo stremo. Ecco la rabbia di Roberto. Penso a voce alta, ma l'obiettivo del curatore qual 'è? Quello di chiudere la procedura come per Legge, entro cinque o massimo sette anni! E se il curatore è incosciente di essere incosciente, dietro di lui c'è anche un giudice, c'è anche un presidente del Tribunale. (…) Io non ho potuto esercitare la mia professione quella di progetti di sistemi di sicurezza a livello militare essendo fornitore di fiducia del Ministero Difesa (…) Ma che diritto hanno di inchiodare una vita, di portare le persone a pensare di farla finita! Io nel 2000 ho fatto diversi salvataggi di aziende, ma non ho potuto accettare incarichi di amministratore delegato perché quei disonesti hanno tenuto in piedi questa procedura, finché rimane aperta sono segnalato dappertutto. Io ho avuto la fortuna di avere tanta forza, competenza e di arrivare dove sono arrivato. Ma tante persone si sarebbero già suicidate al posto mio. (…) E poi, se io mi devo raccomandare per avere un mio diritto, allora andrò via dall'Italia. Non devo usare le raccomandazioni per ottenere un mio diritto come per Legge altrimenti è finita. Anche la mia casa di Parma sta andando all'asta nonostante ho prodotto 2 denunce di usura, 1 denuncia di querela di falso, 1 denuncia di estorsione. Dal 2009 per mezzo del fallimento aperto anche i miei due figli, hanno passato e stanno passando i guai, tanti guai. Mia moglie poi, è disperata. Aiutatemi.
Il fallito non è Roberto. Il vero fallito è lo Stato, il vero fallito è la Giustizia.
Calunnia a pm, assolto dopo 16 anni l'ex senatore ds Rocco Loreto: trascorse 4 giorni in carcere. L'ex sindaco di Castellaneta (Taranto) era accusato di calunnia ai danni dell'ex pm Matteo Di Giorgio, attualmente sospeso dal servizio, e di violenza privata nei riguardi dell'imprenditore Francesco Maiorino, scrive il 27 maggio 2017 “La Repubblica”. Il tribunale di Potenza ha assolto (con la formula 'perché il fatto non costituisce reato') Rocco Loreto, ex sindaco di Castellaneta ed ex senatore dei Ds, dall'accusa di calunnia ai danni dell'ex pubblico ministero Matteo Di Giorgio, attualmente sospeso dal servizio, e di violenza privata nei riguardi dell'imprenditore Francesco Maiorino (perchè il fatto non sussiste). La vicenda è costata all'esponente politico 15 giorni di custodia cautelare: quattro in carcere e 11 agli arresti domiciliari. L'ordinanza di custodia cautelare in carcere fu notificata il 4 giugno 2001. Quattro giorni prima l'imputato aveva terminato il suo mandato parlamentare. La vicenda processuale si è prolungata per 16 anni circa e Loreto ha rinunciato alla prescrizione. Nel 2000 l'imputato aveva presentato un esposto al ministro della Giustizia e in seguito al Csm e alla Procura generale presso la Corte di cassazione contro il pm Di Giorgio, all'epoca dei fatti in servizio alla Procura di Taranto. Gli atti furono inviati dal ministero per ragioni di competenza funzionale alla Procura di Potenza. L'autorità giudiziaria potentina, non reputando inizialmente credibile quanto rappresentato da Loreto, lo aveva incriminato per calunnia e violenza privata, chiedendo e ottenendo l'applicazione della custodia cautelare: misura restrittiva annullata dal tribunale del riesame di Potenza per carenza di gravità indiziaria. Nelle more del procedimento, per altri fatti relativi a vicende riguardanti la vita politico-amministrativa del Comune di Castellaneta, anche in riferimento a un periodo in cui era sindaco il senatore Loreto, il pm Di Giorgio è stato condannato dal tribunale di Potenza per ipotesi di reato contro la pubblica amministrazione a 15 anni di reclusione e all'interdizione perpetua dai pubblici uffici: sentenza confermata dalla Corte d'appello di Potenza con pena ridotta a 12 anni e sei mesi. E' attesa la decisione definitiva della Corte di cassazione. In particolare, secondo una delle ipotesi di concussione contestate a Di Giorgio, questi avrebbe provocato illecitamente lo scioglimento anticipato del consiglio comunale di Castellaneta, dopo poco più di un anno dalla terza elezione a sindaco di Loreto, minacciando un consigliere di maggioranza costretto a firmare le sue dimissioni. Loreto è stato sindaco per tre mandati consecutivi, altrettante volte senatore e ha ricoperto numerosi altri incarichi pubblici.
Il caso Loreto: il silenzio della magistratura e dell’ANM: è così difficile ammettere di avere sbagliato? L’ex senatore Rocco Loreto e primo cittadino di Castellaneta (TA) venne arrestato dal pm Henry John Woodcock finendo in carcere ed ai domiciliari (da innocente) accusato di aver calunniato il pm Di Giorgio che è stato condannato in primo e secondo grado. Loreto, ha rinunciato alla prescrizione ed è stato ASSOLTO CON FORMULA PIENA, scrive Antonello de Gennaro il 28 maggio 2017 su "Il Corriere del Giorno". Ancora una volta il Tribunale di Potenza ha dimostrato di saper giudicare senza farsi influenzare dalle ipotesi accusatorie dei pubblici ministeri, e soprattutto di non farsi deviare dalle false testimonianze di magistrati che hanno ancora oggi la possibilità di indossare la toga. L’ex senatore Rocco Loreto dei DS (ora Pd), già sindaco di Castellaneta, venne denunciato per “violenza privata” dall’imprenditore Francesco Maiorino e per “calunnia” dall’ex pubblico ministero Matteo Di Giorgio della Procura di Taranto, il quale in quel periodo coltivava l’idea di una propria candidatura alla presidenza della Provincia di Taranto. Attualmente Di Giorgio è stato sospeso dalle sue funzioni di magistrato dal Csm. I FATTI. Il Sen. Loreto aveva presentato nel 2000, un esposto al Ministro della Giustizia e successivamente al Csm e alla Procura Generale presso la Corte di Cassazione nei confronti del sostituto procuratore della repubblica Matteo Di Giorgio, all’epoca dei fatti in servizio presso la Procura di Taranto. Gli atti, per ragioni di competenza funzionale vennero trasmessi dal Ministero alla Procura di Potenza ed assegnati al pm John Henry Woodcock (all’epoca in servizio a Potenza), il quale applicando il vecchio teorema del “cane non morde cane” non ritenne credibile quanto era stato rappresentato negli esposti dal Sen. Loreto, ed incredibilmente lo aveva trasformato da “accusatore” in “accusato“, arrivando ad incriminarlo per calunnia e violenza privata, chiedendo al Gip ed ottenendo persino l’applicazione della custodia cautelare che venne notificata al Sen. Loreto “scientificamente” il 4 giugno 2001. Perchè “scientificamente”? Semplice. Il 1 giugno era terminato il suo mandato di senatore della repubblica e quindi decaduta la sua immunità parlamentare. Uno dei tanti casi di “manette ad orologeria” di una certa magistratura. IL CARCERE. Il sen. Loreto subì l’umiliazione di trascorrere 15 giorni di custodia cautelare, 4 dei quali in carcere, ed i successivi 11 agli arresti domiciliari. Una decisione allucinante che infatti venne annullata dal Tribunale del Riesame di Potenza per “carenza di gravità indiziaria”. L’ iter processuale si è protratto per circa 16 anni e Loreto pur di avere piena giustizia ha rinunciato alla intervenuta prescrizione dei reati che gli venivano contestati dal pm Woodcock. E bene e doveroso ricordare che per altri comportamenti sicuramente illegali per delle vicende che interessavano la vita politico-amministrativa del Comune di Castellaneta, relativi proprio al periodo in cui era sindaco il senatore Loreto, quando il pm Di Giorgio secondo le accuse a suo carico mosse dai Carabinieri e dalla pm Laura Triassi della Procura della Repubblica di Potenza, e confermate in due gradi di giudizio dal Tribunale lucano, utilizzando il proprio ruolo di magistrato avrebbe minacciato e costretto un consigliere della maggioranza a firmare le sue dimissioni, provocato illecitamente lo scioglimento anticipato del Consiglio Comunale di Castellaneta, in provincia di Taranto, subito dopo che Loreto era stato rieletto sindaco per la terza volta.
LE CONDANNE. Matteo Di Giorgio è stato condannato in 1° grado a 15 anni di reclusione e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici dal Tribunale di Potenza per “reati contro la pubblica amministrazione”, sentenza che è stata confermata con pena ridotta a 12 anni e 6 mesi, in 2° grado dalla Corte d’Appello di Potenza, e Di Giorgio è stato condannato anche al risarcimento delle spese giudiziarie e dei danni del Sen. Rocco Loreto e ai suoi figli, che si erano costituiti parti civili. Adesso è in arrivo la sentenza definitiva della Corte di Cassazione.
L’ ASSOLUZIONE. Il senatore Loreto invece è stato assolto (a differenza del Di Giorgio) dal Tribunale di Potenza dalle insussistenti ipotesi accusatorie del pm Woodcock nei suoi confronti, ricevento dal collegio giudicante la migliore sentenza di assoluzione che il codice di procedura penale contempla, e cioè quella prevista ai sensi dell’art. 530 c.p.p, “perchè il fatto non sussiste” (1° comma) e “perchè il fatto non costituisce reato” (2° comma).
Resta da chiedersi a questo punto: chi ha chiesto o chiederà scusa al Sen. Rocco Loreto per gli ingiusti 15 giorni di custodia cautelare subiti, 4 dei quali trascorsi in carcere, ed i successivi 11 agli arresti domiciliari? Che una certa magistratura voglia condizionare la vita politica del Paese è cosa ben nota praticamente a tutti. E che il pm Woodcock abbia fatto arrestare il Sen. Loreto per non incolpare il suo collega Di Giorgio, purtroppo non deve meravigliare il lettore. Per capire meglio il tutto, bisogna però fare un piccolo salto indietro ed occuparsi dell’ultima vicenda sull’ inchiesta Consip che ha visto coinvolto (senza aver commesso alcun reato) Tiziano Renzi, il padre dell’attuale segretario nazionale del Pd, Matteo Renzi. Il capitano Gianpaolo Scafarto del Noe dei Carabinieri, braccio destro del pm napoletano, lo scorso 10 aprile, ore 20.15, sentendosi nell’occhio del ciclone perché in quelle ore non si parla d’altro che degli incredibili “errori” di cui era infarcita la sua informativa, si sfogava al telefono con un collega parigrado, venendo intercettato dalla Procura di Roma. “L’omissione contestata è una scelta investigativa precisa che ho condiviso anche con Woodcock” diceva il capitano Scafarto riferendosi alla principale delle contestazioni cui deve rispondere, ossia di avere prospettato alla Procura di Roma che c’erano degli 007 a seguirli nelle attività di polizia, e non, come ormai era loro chiaro, un cittadino qualsiasi che si era trovato nella strada dove l’imprenditore Alfredo Romeo ha gli uffici e che banalmente cercava parcheggio. Nell’intercettazione il capitano Scafarto racconta al suo collega molto di più. Emerge il suo timore di restare stritolato in un gioco più grande di lui. E sostiene di “pagare il conto per tanti”. E fa un nome pesante: quello del pm John Henry Woodcock. È infatti grazie a questa intercettazione in possesso dei pm romani, che nell’interrogatorio del 10 maggio scorso, gli chiedono conto dei ripetuti errori. E quando l’ufficiale dei Carabinieri prova a svicolare, con un “quei fatti mi sembravano irrilevanti”, lo incalzano. E gli dicono: “Scusi, come mai ci sono ben 3 intercettazioni nelle quali lei dice che non sono stati errori ma scelte investigative?” È in questo interrogatorio che il capitano Scafarto ammette la verità: “La necessità di compilare un capitolo specifico inerente al presunto coinvolgimento di personaggi dei servizi segreti fu da me rappresentata come utile direttamente dal dottor Woodcock. Io condivisi”. Guarda caso è lo stesso magistrato che mando in carcere il sen. Loreto. Nel frattempo tutti i magistrati delle varie sezioni e sottosezioni dell’Associazione Nazionale Magistrati tacciono. Sono forse tropo spaventati dal rischio del referendum sulla separazione delle carriere, o nessuno di loro ha la forza ed il coraggio, dimostrando di essere dei “veri” uomini e servitori dello Stato, di ammettere di aver sbagliato e chiedere pubblicamente scusa. E pensare qualche magistrato che ha mentito, grazie a delle “storture” processuali della giustizia italiana rischia… persino di fare carriera.
Il giudice Matteo Di Giorgio condannato. Ecco perché, scrive mercoledì 04 gennaio 2017 Enzo Ferrari Direttore Responsabile di "Taranto Buonasera". La condanna è di quelle pesantissime: 12 anni e 6 mesi. Per il magistrato Matteo Di Giorgio - sospeso dal Csm - resta un ultimo grado di giudizio, quello in Cassazione, per sperare in un ribaltamento della sentenza che lo ha dichiarato colpevole, anche in secondo grado, per reati che vanno dalla corruzione alla concussione. In sostanza gli viene contestato di aver approfittato della sua posizione di magistrato per determinare le vicende politiche e amministrative di Castellaneta. Perché tutto ruoterebbe, appunto, intorno al ruolo politico di Di Giorgio, considerato una sorta di dominus in grado di condizionare la vita politica e amministrativa di Castellaneta facendo forza sulla sua posizione di magistrato per arrivare addirittura a determinare lo scioglimento del consiglio comunale, facendo pressioni - secondo i giudici di primo e secondo grado - su un consigliere per imporgli le dimissioni. Una vicenda, quella di Castellaneta, che si sviluppa intorno alla accesa rivalità fra il magistrato e il senatore Rocco Loreto, più volte sindaco e figura politica di assoluto rilievo ben al di là dei confini della città di Rodolfo Valentino. Destra contro sinistra, secondo la lettura politica di quanto accaduto. Tra loro accuse e querele. Al vaglio dei giudici è finito il fitto intreccio di rapporti del magistrato con esponenti politici e dell’amministrazione comunale. Come quello con il suo «intimo amico DAlessandro», del quale Di Giorgio avrebbe favorito l’elezione a sindaco nel 2007. I giudici della Corte d’Appello di Potenza scrivono nelle motivazioni depositate nei giorni scorsi che l’intento di Matteo Di Giorgio era quello di «manipolare l’operato dello stesso D’Alessandro al fine di ottenere utilità personali nonché, attraverso l’uso distorto del suo potere giudiziario, di proteggere i suoi alleati politici e di colpire i suoi avversari politici indagati nei processi a lui affidati in qualità di P. M. di Taranto». Uno degli episodi ai quali i giudici di Potenza fanno riferimento è una durissima reprimenda dello stesso Di Giorgio al sindaco D’Alessandro, colpevole di aver favorito al Comune la promozione di un ingegnere non gradito al magistrato. «Si badi bene - scrivono i giudici nelle motivazioni della sentenza di condanna - che i feroci addebiti rivolti dal Di Giorgio al D’Alessandro non sono stati dettati dalla volontà di correggere la condotta dell’amico sindaco in quanto contrastante con violazioni di legge o con i principi di legalità, trasparenza, imparzialità, come sarebbe stato lecito attendersi da un magistrato, bensì dall’intento di censurare scelte che hanno favorito i “nemici” del Di Giorgio ed, al contempo, hanno penalizzato gli interessi suoi e dei suoi “amici”». Un ruolo chiave nel processo lo ha avuto Italo Vito Pontassuglia, grande accusatore del magistrato. Pontassuglia, per un certo periodo politicamente vicino a Di Giorgio, quando se ne è allontanato ne avrebbe subito le ritorsioni fino a perdere il proprio posto di lavoro come vigilante al villaggio turistico “Il Catalano”. Uno dei tanti quest’ultimo, del fitto groviglio di episodi che hanno segnato questa tortuosa vicenda politico-giudiziaria. Di Giorgio avrebbe persino cercato di «procurarsi indebitamente un documento» amministrativo che avrebbe potuto compromettere la richiesta dello stesso Pontassuglia di ottenere la nomina a guardia giurata. Secondo i giudici che hanno condannato Di Giorgio «costituisce grave irregolarità, soprattutto per un magistrato, ingerirsi in un procedimento amministrativo di cui non si è parte interessata, chiedere ed ottenere da un pubblico ufficiale informazioni non ostensibili e addirittura procurarsi copie di atti pubblici senza sperimentare l’unico rimedio giuridico costituito dallo strumento apprestato dalle L. 241/1990 (la legge sull’accesso agli atti amministrativi, ndr)». Altri episodi, in particolare il rinvenimento di documenti riservati nella cassaforte dell’abitazione del magistrato, inducono i giudici a stigmatizzare «la propensione del Di Giorgio a violare la legge ed a farla violare ad altri pubblici ufficiali, suoi amici, pur di procurarsi prove favorevoli al suo interesse processuale». Per i giudici di Potenza non vi sono dubbi: Di Giorgio sarebbe un magistrato «incontestabilmente aduso a modelli comportamentali disinvolti e scorretti non solo sul piano giuridico bensì anche su quello deontologico, come oggettivamente dimostrano i molteplici ed incontro verso i fatti descritti in questa sentenza». Ora sarà la Corte di Cassazione a decidere se confermare o meno quanto affermato dalla Corte d’Appello di Potenza.
Di Giorgio: «Mi è stato negato il diritto di difesa». Le motivazioni sulle quali la Corte d’Appello di Potenza lo ha condannato a 12 anni e 6 mesi di reclusione, non ne hanno scalfito la fiducia nell’epilogo della sua disavventura giudiziaria. Matteo Di Giorgio, magistrato sospeso dal Consiglio Superiore della Magistratura, farà ovviamente ricorso in Cassazione: «Sono assolutamente fiducioso», dichiara a TarantoBuonasera. Di Giorgio, anzi, passa al contrattacco: «La sentenza della Corte d’Appello di Potenza - incalza il magistrato di Castellaneta - è elusiva di tutti i motivi di appello. Quelle motivazioni non contengono alcuna risposta alle nostre doglianze. I giudici di appello si sono limitati a parafrasare e a sintetizzare la sentenza di primo grado». Nelle motivazioni della sentenza d’appello lasciano il segno le valutazioni molto pesanti che i giudici di Potenza riservano alla figura di Matteo Di Giorgio. «Mi definiscono persino “spregiudicato faccendiere”. Ma quelle affermazioni - ribatte Di Giorgio - servono a colmare l’assenza di dati contenutistici. Quelle espressioni servono a impressionare il lettore per coprire la mancanza di argomenti. C’è voluta fervida fantasia per estendere quella sentenza». A dispetto di chi afferma che le sentenze non si commentano, Matteo Di Giorgio anticipa quali saranno alcuni degli argomenti che porterà a sua difesa in Cassazione: «Nel processo ci sono settantatrè testimoni a mio favore, contro tre testimoni d’accusa. I testimoni a mio favore sono stati letteralmente ignorati, mentre si è dato credito ai tre dell’accusa». A suo parere sarebbero stati violati i diritti della difesa: «Non mi è stato possibile produrre prove perché mi è stato risposto che l’eventuale assunzione di altre prove avrebbe comportato ulteriore assunzione di prove per valutarne la fondatezza. Questa è negazione del diritto di difesa». In attesa della Cassazione, resta il peso di una condanna gravissima. «Sì - conclude Di Giorgio - ma io sono a posto con la mia coscienza. E sono assolutamente fiducioso nell’ultimo grado di giudizio».
Taranto, l'ex pm Di Giorgio condannato a 8 anni in Cassazione: andrà in carcere. Il magistrato era stato condannato a 15 anni in primo grado e a 12 anni in appello: le accuse sono di corruzione e concussione. Fra le contestazioni anche una serie di minacce in ambito politico, scrive Vittorio Ricapito l'8 agosto 2017. Condanna definitiva a otto anni di reclusione per l'ex sostituto procuratore della Repubblica tarantino Matteo Di Giorgio, attualmente sospeso dalla magistratura con provvedimento del Csm. L'ex pm fu arrestato dai carabinieri e posto ai domiciliari nel novembre del 2010 con l'accusa di aver abusato della toga per interferire nella vita politica del suo paese, Castellaneta, minacciando imprenditori e politici. In uno degli episodi contestati, ora prescritto, Di Giorgio era accusato di aver costretto un consigliere comunale alle dimissioni per provocare lo scioglimento del consiglio comunale, sotto la minaccia dell'arresto di alcuni suoi parenti. Ad aprile 2014 Di Giorgio fu condannato in primo grado per concussione e corruzione in atti giudiziari dal tribunale di Potenza (competente sui magistrati in servizio a Taranto) a 15 anni di reclusione: pena poi scesa a 12 anni e mezzo in appello a settembre 2016 e ora a otto anni in Cassazione per via della prescrizione di alcuni capi d'accusa e della concessione delle attenuanti. Secondo l'accusa, in diverse occasioni il sostituto procuratore agì perseguendo personali scopi politici: in particolare si adoperò per favorire l'elezione a sindaco di Castellaneta del suo amico Italo D'Alessandro, a propria volta condannato a titolo definitivo a tre anni di reclusione per aver autorizzato un bar abusivo nello stadio di Castellaneta affinché il titolare ritrattasse le accuse mosse contro Di Giorgio nell'ambito di un procedimento penale sorto nel corso della lunga rivalità politica con il senatore Rocco Loreto, ex sindaco del paese. Loreto, già senatore dei Ds, presentò contro Di Giorgio un esposto ai carabinieri e finì arrestato per calunnia su richiesta del pm Henry John Woodcock alcuni giorni dopo aver terminato il suo mandato parlamentare. Soltanto pochi mesi fa Loreto è stato definitivamente prosciolto da quell'accusa. Un'altra accusa riguarda le pressioni su un imprenditore, titolare di un villaggio turistico, che sarebbe stato costretto a licenziare un dipendente inviso a Di Giorgio e a ospitare gratuitamente la famiglia del magistrato in vacanza sotto la minaccia che l'intero villaggio sarebbe finito sotto sequestro, senza il suo intervento in Procura. Nella sentenza di primo grado il presidente Aldo Gubitosi scrisse che Di Giorgio ha "ideato, irrobustito e perfezionato" un sistema di potere, esercitato per molti anni abusando delle funzioni di magistrato, "deviandole dagli scopi istituzionali, facendone mercimonio o testa di ariete" e "ha costituito un apparato di forza in cui sono stati inglobati e utilizzati soggetti appartenenti alle istituzioni, alla politica, funzionari pubblici, professionisti, persone che esercitavano funzioni apicali o comunque influenti in ambito pubblico o privato" senza disdegnare di avere relazioni con Antonio Vitale, detto Tonino il pescatore, coimputato nel processo, definito in sentenza "personaggio dai torbidi trascorsi giudiziari e di polizia". A Castellaneta, scrissero i magistrati di Potenza, c'era un vero e proprio "sistema Di Giorgio" basato sull'uso di "favori in cambio di favori. E cioè il motore del moltiplicatore del potere, di cui il Di Giorgio faceva ampio uso". Il pm faceva incontri politici per candidarsi alle elezioni provinciali del 2009, era costantemente informato dal sindaco e dal vice sulle attività del Comune e utilizzava per usi personali carabinieri e poliziotti "in una ottica che possiamo definire di privatizzazione delle forze dell'ordine". Nel procedimento, un imprenditore e il senatore Loreto si sono costituiti parti civili contro alcuni imputati con l'avvocato Fausto Soggia. "Così si perde fiducia nella giustizia", ha commentato Di Giorgio uscendo dalla Cassazione subito dopo la lettura della sentenza. "Ci sono 73 testimoni che mi hanno scagionato e nonostante ciò valgono di più due testimoni contro di me", ha aggiunto l'ex magistrato. Pronto a costituirsi per scontare la sua pena.
L’ormai ex-magistrato Matteo Di Giorgio, pm della Procura di Taranto condannato definitivamente dalla Cassazione a 8 anni di carcere, scrive Antonello de Gennaro l'8 agosto 2017 su "Il Corriere del Giorno". La struttura portante del processo così come sviluppato e sostenuto dalla Procura della repubblica di Potenza nei confronti del Di Giorgio e dei suoi “sodali” anch’essi finiti sotto processo e condannati, fra i quali l’ex sindaco di Castellaneta D’ Alessandro che è stato condannato a tre anni di reclusione, è uscita indenne dalle teorie difensive dei legali del Di Giorgio. La 3A sezione della Suprema Corte di Cassazione questo pomeriggio dopo circa 4 ore di camera di consiglio ha condannato definitivamente l'ormai ex magistrato Matteo Paolo Di Giorgio, sospeso cautelativamente dal Consiglio Superiore della Magistratura, all’epoca dei fatti sostituto procuratore della repubblica di Taranto ad 8 anni di carcere per “concussione” e “corruzione in atti giudiziari”. Alla lettura della sentenza Di Giorgio ha avuto uno scatto d’impeto uscendo di corsa dall’ aula, salvo sfogarsi davanti alle telecamere della collega di Telenorba, unica testata presente insieme a noi in Cassazione, con la peggiore delle affermazioni che un (ex) magistrato poteva esprimere: “non credo più nella giustizia”. Ed invece noi crediamo nella giustizia, in quanto non è possibile immaginare che ben tre gradi di giudizio possano essere stati deviati o condizionati dal ruolo di (ex) magistrato ricoperto a Taranto dal Di Giorgio. Abbiamo imparato sulla nostra pelle che per uscire indenni da un processo bisogna dimostrare la propria innocenza oltre ogni ragionevole dubbio. Ed è stato evidentemente questo il motivo che ha indotto gli ermellini della Corte di Cassazione ad emettere una sentenza di condanna pressochè ridotta della metà rispetto alle precedenti in 1° grado (condannato a 15 anni) e di appello(12 anni e mezzo) solo e soltanto grazie all’intervenuta prescrizione di alcuni reati di cui Matteo Di Giorgio è stato chiamato a rispondere in giudizio, contrariamente a quanto scritto dal corrispondente da Taranto dell’ Agenzia ANSA (che non era presente in Cassazione) , il quale ha confuso la prescrizione con la riforma di una sentenza. Quindi la struttura portante del processo è uscita indenne, così come sviluppata e sostenuta dal pubblico ministero Laura Triassi della Procura della repubblica di Potenza, dai teoremi difensivi sostenuti dei legali del Di Giorgio e dei suoi “sodali” anch’essi finiti sotto processo e condannati, fra i quali l’ex sindaco di Castellaneta Italo D’ Alessandro che è stato condannato a tre anni di reclusione, Agostino Pepe ed Antonio Vitale. Emblematico il comportamento umano e quasi dispiaciuto del senatore Rocco Loreto, alla pronuncia della sentenza di condanna al Di Giorgio, nonostante fosse stato oggetto della attenzioni e pressioni giudiziarie-politiche dell’ex-magistrato di Castellaneta che voleva fare politica contro di lui dimenticando di portare addosso una toga di magistrato che, come i fatti hanno comprovato nei tre gradi di giudizio, è stata ripetutamente calpestata e disonorata, ed è bene ricordarlo, non soltanto da lui.
Loreto ha dichiarato in esclusiva al CORRIERE DEL GIORNO: “Non si può gioire della privazione della libertà di una persona. Soprattutto quando si conosce cosa significhi senza aver fatto nulla di male e solo per il protagonismo giudiziario e delle indagini superficiali del solito magistrato “protagonista”, finire in carcere. Non potrò mai dimenticare quella mattina quando all’alba fui ingiustamente arrestato, con i fotografi appostati sotto casa”. “Ho provato più volte – continua il sen. Loreto – ad evitare di dover ricorrere alle aule di giustizia, ma più di qualche magistrato in capo alla Procura di Taranto non mi ha voluto ascoltare ed anzi ha usato i documenti da me prodotti per avviare dei procedimenti contro la mia persona, dai quali sono uscito indenne e pulito”. “Mi auguro – conclude il sen. Loreto – che questa vicenda faccia riflettere chi esercita l’alto incarico di rappresentante della giustizia a qualsiasi livello, affinchè i cittadini possano ancora credere in una giustizia giusta, lontana dalle pressioni della politica o delle correnti interne alla magistratura. Ho sempre avuto fiducia nella giustizia, e questo mio senso di rispetto verso l’istituzione è stato ripagato da una sentenza definitiva che definisco giusta, e che ha confermato le precedenti sentenze di 1° grado ed appello. E’ bene che la Legge sia sempre uguale per tutti”.
L’ex magistrato di Castellaneta è stato condannato dalla Cassazione come riportato testualmente nel dispositivo di sentenza emesso da Corte, che solo il CORRIERE DEL GIORNO è riuscito a leggere: “risarcire le spese di rappresentanza in questo grado delle parti civili, Loreto Rocco che liquida in 3.500 euro, Loreto Angelo e Loreto Pierfrancesco che liquida in Euro 4.300 compreso l’aumento del 20%, somma maggiorata delle spese generali nella misura del 15% oltre Iva e CPA”. La Cassazione ha annullato la sentenza impugnata dal comandante dei vigili di Castellaneta Francesco Perrone, e “rinvia per un nuovo giudizio alla Corte di Appello. Rigettato il ricorso di Italo D’Alessandro, Agostino Pepe e Antonio Vitale, condannati anche al pagamento delle spese processuali”. Annullata la sentenza impugnata “limitatamente al capo A) ascritto da DI GIORGIO Matteo Paolo perchè estinto per prescrizione nonchè al capo 2) ascritto al medesimo ed a Mongelli Alessandro perchè il fatto non sussiste, revoca le statuizioni civili relative a tale ultimo capo”. Adesso a Matteo Di Giorgio non resta altro che costituirsi in carcere per scontare la pena definitiva inflittagli. La toga non la indosserà mai più. Secondo nostre fonti Di Giorgio si sarebbe subito messo in viaggio dopo la lettura della sentenza, per fare ritorno in Puglia con il suo legale, e costituirsi presso la Casa Circondariale di Taranto. Infatti nelle prossime ore verrà emesso da parte della procura generale presso la Corte d’Appello l’ordine di carcerazione nei suoi confronti.
DI GIORGIO SCONTA CONDANNA A 12 ANNI E 6 MESI. Esposto dell'ex pm di Taranto. «Un complotto contro di me». Procura di Catanzaro indaga, scrive il 29 dicembre 2016 “La Gazzetta del Mezzogiorno”. La Procura della Repubblica di Catanzaro ha avviato un’inchiesta sulla base di un esposto presentato dall’ex pm di Taranto Matteo Di Giorgio. Posto agli arresti domiciliari nel 2010 e sospeso dalle funzioni, Di Giorgio nel settembre scorso è stato condannato a 12 anni e 6 mesi di reclusione dalla Corte d’appello di Potenza con l’accusa di corruzione e concussione. Nell’esposto presentato alla Procura di Catanzaro, competente per i procedimenti che coinvolgono magistrati in servizio a Potenza, Di Giorgio ipotizza un complotto ai suoi danni ordito, a suo dire, da esponenti delle istituzioni e delle forze dell’ordine. Nel fascicolo dell’inchiesta potrebbe confluire un secondo esposto presentato, tramite l’avvocato Sabrina Rondinelli, dall’ex sindaco di Castellaneta, Italo D’Alessandro, e dall’ex comandante dei vigili urbani sempre di Castellaneta, Francesco Perrone, entrambi condannati, assieme all’ex pm Di Giorgio, rispettivamente, a tre anni ed a due anni di reclusione.
Corruzione e concussione: 12 anni al pm di Taranto, Matteo Di Giorgio, scrive Cristina Bassi, Mercoledì 05/10/2016 su "Il Giornale". Condannato in Appello (la pena passa dai 15 anni di carcere inflitti in primo grado nel 2014 a 12 anni e sei mesi) l'ex pm di Taranto Matteo Di Giorgio. Il magistrato - sospeso dal Csm - era a processo con altre sei persone ed era accusato di concussione e corruzione. Nel novembre 2010 finì ai domiciliari su richiesta del pm di Potenza Laura Triassi. La vicenda che ha portato, in attesa di un giudizio definitivo, a una condanna con pochi precedenti a carico di un magistrato nasce nei primi anni 2000 da una faida politico-giudiziara tra Di Giorgio e il suo nemico storico Rocco Loreto, ex sindaco di Castellaneta ed ex senatore Ds. Secondo le accuse, l'allora pm era impegnato più o meno direttamente nella politica della cittadina pugliese, vicino al centrodestra, e faceva un «consolidato uso personale della giustizia» - si legge nell'ordinanza di custodia cautelare del gip Gerardina Romaniello - per ottenere favori o danneggiare gli avversari politici. Di Giorgio ha sempre ribattuto di essere vittima di un sistema di potere composto da magistrati, uomini di partito e delle forze dell'ordine.
«Io, magistrato ostaggio da 15 anni per aver denunciato pm e politici». La battaglia di Di Giorgio contro il sistema di potere in Puglia, scrive Cristina Bassi, Martedì 28/06/2016, su "Il Giornale". In quel di Taranto c'è una guerra che coinvolge politici, magistrati, forze dell'ordine. Nessun colpo è escluso. Dura da oltre 15 anni tra esposti anonimi, «corvi», intercettazioni più o meno lecite e registrazioni abusive, dossier avvelenati e testi pentiti. Oggi c'è un magistrato, il sostituto procuratore sospeso Matteo Di Giorgio, condannato a 15 anni in primo grado. Che sostiene il processo d'Appello e accusa: «I miei detrattori sono convinti di averla vinta, perché mi sono spinto a denunciare il pm di Potenza che mi ha perseguito e i carabinieri responsabili delle indagini. La condanna è arrivata dopo che 67 persone hanno testimoniato a mio favore, a mio sfavore solo le controparti. Un vero paradosso giudiziario rispetto al quale ho chiamato in causa la Procura di Catanzaro, competente per le indagini sull'operato dei magistrati potentini, e il ministero della Giustizia». Un passo indietro. Nel 2000 Di Giorgio mette nel mirino l'amministrazione di Castellaneta, nel Tarantino, guidata dal sindaco e allora senatore Ds Rocco Vito Loreto. L'indagine che coinvolge pezzi grossi del Comune e lo stesso primo cittadino, avrebbe danneggiato politicamente Loreto. «Per vendetta - spiega Di Giorgio - Loreto fa partire, direttamente o tramite amici, una serie di esposti contro di me». Le vicende sono diverse: tra le altre, presunti lavori di ristrutturazione non pagati nella villa della moglie del magistrato. Presunte pressioni su un consigliere comunale con la minaccia di arrestargli i familiari. E quelle sul proprietario di un villaggio turistico perché non facesse più lavorare un «sodale» di Loreto. «Preciso - dice Di Giorgio - che tutte le presunte parti lese mi hanno scagionato». In un caso John Woodcock decide di non procedere contro il collega di Taranto, ma indaga per calunnia Loreto che finisce ai domiciliari e non viene rieletto né nella sua cittadina né a Roma. In altri casi, siamo nel 2009, il pm Laura Triassi procede e dispone molte intercettazioni, «anche in base a un esposto anonimo - sottolinea Di Giorgio -, in violazione di legge». Il risultato è appunto, nel 2014, la pesante condanna al pm sospeso per concussione e corruzione. «Ho denunciato - continua il magistrato - una inaccettabile collusione tra organi inquirenti, carabinieri e testimoni dell'accusa. Dimostrata tra l'altro da gravi violazioni del segreto d'ufficio sulle indagini che mi riguardano». Nel frattempo Loreto viene condannato in primo grado per una presunta aggressione a Di Giorgio e al figlio, che era studente nel liceo di cui era preside. «Diversi testimoni - aggiunge la toga sospesa - hanno segnalato di aver ricevuto pressioni per accusarmi. Sono in possesso di registrazioni, fatte per suo conto da un coimputato, che lo dimostrano. Un teste chiave, Vito Pontassuglia, ha raccontato di aver ricevuto minacce dai carabinieri e dal pm perché dichiarasse il falso». Poi un amico di Loreto, Vito Putignano, si sarebbe ribellato al «sistema». «Mi ha contattato - spiega Di Giorgio - dicendo di aver custodito esposti anonimi contro di me scritti dall'ex senatore, di averne depositati altri scritti sempre da Loreto e da lui stesso solo firmati e di essere stato tranquillizzato sul processo perché i magistrati erano dalla loro parte. La cricca è persino riuscita a far dichiarare inattendibili un procuratore capo e un aggiunto che hanno testimoniato a mio favore».
Parla l’ex Pm Matteo Di Giorgio: «Mi hanno distrutto, sono vittima di un complotto». Le sue accuse ai magistrati, scrive il 6 ottobre 2016 Enzo Ferrari, direttore responsabile di "Taranto Buona sera". Matteo Di Giorgio ricorrerà in Cassazione contro la sentenza di condanna a 12 anni e mezzo di reclusione.
«Voglio innanzitutto chiarire una cosa: Italo Pontassuglia non è mai stato mio amico; è stato solo una persona informata sui fatti che io, come magistrato, ho sentito alla presenza degli ispettori della Digos. Parliamo del 2000-2001».
Matteo Di Giorgio replica così alle dichiarazioni rilasciate al nostro giornale dal suo grande accusatore, Italo Vito Pontassuglia, ex gestore di servizi di vigilanza e autore della denuncia dalla quale è scaturito il procedimento che ha portato alla condanna dell’ex pubblico ministero: 12 anni e mezzo che gli sono stati inflitti dalla Corte d’Appello di Potenza. A Di Giorgio si contestano i reati di corruzione e concussione e, in sostanza, di aver approfittato della sua posizione di magistrato per determinare le vicende politiche e amministrative di Castellaneta, paese dove vive tuttora. Pontassuglia aveva affidato qualche giorno fa il suo amaro sfogo proprio a TarantoBuonasera: «Sono un uomo solo - aveva detto - da quando ho fatto quella denuncia il paese mi ha voltato le spalle, perché ho denunciato un sistema che faceva comodo a tutti».
«Non so quali siano le sue vicende personali nei rapporti con Castellaneta - replica oggi Di Giorgio - non mi piace però l’accostamento tra la mia persona e il presunto ostracismo di cui Pontassuglia sarebbe vittima». È proprio Di Giorgio, invece,a sentirsi vittima: «Contro di me - dice a TarantoBuonasera - è stato costruito un processo fondato su congetture e illazioni. In primo grado ci sono stati circa sessanta testimoni a mio favore, ma si è preferito dare credito a soli tre testimoni d’accusa. Tutti e tre, per loro stessa ammissione, animati da motivi di risentimento nei miei confronti. I testimoni che mi scagionano sono invece persone a me estranee, di ogni ceto sociale e di diversa provenienza geografica e non si capisce per quale interesse avrebbero dovuto testimoniare a mio favore».
Oggi Matteo Di Giorgio è un uomo provato dalla sua lunga e pesante vicenda giudiziaria: «Mi accusano di aver provocato il tracollo imprenditoriale e giudiziario dei fratelli Dibattista (titolari del villaggio turistico “Il Catalano, ndr), ma proprio loro mi hanno scagionato, sia in fase di indagine che in dibattimento. Peraltro io non faccio il magistrato da sei anni, quindi che potere di intimorire i testimoni potrei avere? E poi io con la politica di Castellaneta non c’entro proprio nulla. Non lo dico io, lo dicono i carabinieri: è agli atti del dibattimento che non ci sono atti dell’amministrazione comunale a me riconducibili.
La sentenza di primo grado è fondata su un assunto aberrante: una persona per il solo fatto di essere magistrato genera timori e paure. In pratica si associa la figura del magistrato a quella del mafioso. Sconvolgente». Ma perché pubblici ministeri, giudici di primo e secondo grado avrebbero dovuto accanirsi contro un loro stesso collega? «Io me lo spiego, le mie ragioni le farò valere in altre sedi. Posso dire che c’è stato un evidente pregiudizio nei miei confronti. Lo stesso pregiudizio che avverto da parte dei miei ex colleghi quando entro nei palazzi di giustizia».
L’ex pubblico ministero (Di Giorgio è stato sospeso dal Csm) è certo di essere al centro di un complotto: «Tra il processo di primo e quello di secondo grado sono venuto in possesso di nuove prove a mia discolpa. Non le hanno ammesse, in palese violazione di legge. Io ho paura, a me è stato negato l’esercizio del diritto alla difesa. Ci sono testimonianze, registrazioni, documenti non acquisiti. L’ho sempre detto: contro di me è stato ordito un oscuro disegno. L’entità della pena dice tutto». Sullo sfondo di questa vicenda resta lo scenario di Castellaneta. «In paese la gente ha capito. Ricevo centinaia di attestazioni di stima e solidarietà. La mia vita, però, è stata distrutta. Ho subito un danno professionale ed economico irreparabile e vivo con l’assegno alimentare». Il tarlo resta quello dell’andamento del processo: «Non si parla di un centesimo che avrei intascato, non si parla di tangenti, di mazzette. Niente. Dov’è allora la corruzione? E i processi truccati? Nulla di tutto questo. Purtroppo sono vittima di un sistema che ha trasformato la fantasia in verità processuale». Frasi accompagnate da una affermazione sibillina: «La politica è una falsa chiave di lettura». Le parole che chiudono il colloquio con il nostro giornale sono rivolte al suo grande accusatore: «Pontassuglia non ha denunciato un sistema, come dice. Lui ha denunciato me e io sono disposto ad un confronto con lui. Pontassuglia è stato strumentalizzato. In fondo anche lui, come me, è una vittima: vittima di un grande abbaglio del quale alcuni si sono innamorati e che altri hanno strumentalizzato».
Sentenza processo al pm Di Giorgio, i fatti che riguardano il procuratore aggiunto Argentino, scrive il 28 ottobre 2015 Antonello De Gennaro su "Il Corriere del Giorno". La sentenza “integrale” del processo che ha condannato il pm Matteo Di Giorgio e per cui il Tribunale di Potenza ordinò ai sensi dell’art. 207 c.p.p. la trasmissione degli atti alla Procura per procedere nei confronti di Argentino e Petrucci (ex procuratore capo) per il reato di falsa testimonianza. Dalle motivazioni della sentenza del processo di primo grado a carico dell’ex pm Matteo Di Giorgio escono con le ossa rotte insieme al principale imputato (condannato a 15 anni di reclusione) anche le istituzioni tarantine, i massimi esponenti del passato e attuali della Procura di Taranto, nella fattispecie l’ex procuratore capo Aldo Petrucci e l’attuale procuratore aggiunto Pietro Argentino, rappresentanti delle Forze dell’ordine, agenti della Digos, il vicequestore vicario in servizio fino a qualche anno fa, Michelangelo Giusti, un sostituto commissario della sezione di pg della Polizia di Stato della Procura e numerosi Carabinieri in servizio nelle caserme di Castellaneta e Ginosa. I due magistrati, poliziotti e militari dell’Arma dei Carabinieri, sono fra i 21 testimoni esaminati in dibattimento per i quali, con l’accusa di falsa testimonianza, il collegio del Tribunale di Potenza ha disposto la trasmissione degli atti alla Procura lucana. Nessuno è colpevole fino al terzo grado di giudizio, principio sacrosanto sancito dalla Costituzione, ma quello delineato nelle 665 pagine delle motivazioni è uno scenario inquietante. Dal processo basato su intercettazioni e numerose testimonianze emerge quello che viene battezzato “sistema Di Giorgio”, descritto come “una struttura a piani sovrapposti, le cui fondamenta erano costituite dall’esercizio o dallo sviamento delle sue funzioni giudiziarie o della sua qualità”. Un sistema, stando alla sentenza, che faceva leva sulla “connivenza di altri funzionari pubblici che operavano nella stessa struttura o diversamente abusando, a proprio profitto, delle maglie larghe di una organizzazione dell’ufficio che prevedeva pochi controlli e lasciava ampi margini di discrezionalità nella assegnazione e nella gestione dei procedimenti”. (vedi Allegato 1 – pag. 15). I fatti che riguardano il procuratore aggiunto Argentino sono emersi dalle testimonianze di due carabinieri. Il maresciallo Leonardo D’Artizio, all’epoca dei fatti in servizio alla compagnia di Castellaneta, ha riferito di un incontro tenuto di pomeriggio in Procura a Taranto con Argentino, sostituto procuratore, da lui e dal capitano Gabriele Stifanelli, comandante della compagnia (attualmente tenente colonnello). Argomento: presunti illeciti al comune di Castellaneta e pressioni di Di Giorgio sul consigliere comunale Domenico Trovisi per far cadere l’Amministrazione guidata dal sindaco e senatore Rocco Loreto. Tali circostanze gli erano state riferite da un assessore comunale, Pontassuglia, il quale, però, non aveva voluto mettere nero su bianco. Le sue dichiarazioni, comunque, erano state registrate dal maresciallo. D’Artizio ha raccontato che Stifanelli prese appuntamento con Argentino ma, quando spiegarono il motivo della loro presenza in Procura, il magistrato li condusse dal procuratore capo Aldo Petrucci. Quest’ultimo disse loro che non si poteva iniziare un’indagine così delicata con quegli elementi. La vicenda finì lì, “perché non c’è mai stata la possibilità di iniziare un’indagine”. Sarebbe stata insabbiata sul nascere, stando alle dichiarazioni rese non solo da D’Artizio. Il racconto trova conferma in quanto riferito dal comandante Stifanelli. Quest’ultimo, l’anno successivo, il 2004, in un altro contesto, l’indagine sul suicidio di un carabiniere in servizio a Castellaneta, riferì al pm Vincenzo Petrocelli dell’incontro avvenuto nel 2003 e di una relazione acquisita dallo stesso Argentino. “Era fine estate, ricordo. E poi non se ne fece niente”. Sono state le parole dell’ufficiale dell’Arma, uno dei migliori in fatto di produttività e di contrasto al crimine in provincia di Taranto da diversi anni a questa parte. Una deposizione definita “genuina” dal collegio in quanto il teste è estraneo al contesto del processo Di Giorgio e, al tempo stesso, “in stridente contrasto” con quelle di Argentino e Petrucci i quali, malgrado l’avvertimento del presidente del collegio su possibili responsabilità penali che potevano emergere dalle loro dichiarazioni, hanno negato di aver ricevuto il capitano Stifanelli e di aver acquisito la relazione. “Può ipotizzarsi un comune interesse a coprire, forse, la loro responsabilità, per avere omesso di formalizzare e inoltrare la denuncia di D’Artizio e Stifanelli. Verosimilmente perché essa coinvolgeva pesantemente il loro collega e amico Di Giorgio”. Altrimenti, sono sempre le motivazioni della sentenza, non si spiega la ragione per la quale, dopo tre anni, nel 2006, dopo aver appreso delle dichiarazioni rese da Stifanelli, Petrucci ha chiesto una relazione ad Argentino che l’ha fornita. “I dottori Petrucci e Argentino, a parere del collegio, hanno così tentato di creare una copertura reciproca, formalizzando a “futura memoria” le rispettive posizioni in un atto scritto che non riportava però fedelmente i fatti accaduti”. Un rimedio peggiore del male, stando alle conclusioni dei giudici. Durante la testimonianza, Argentino ha dichiarato di aver incontrato due marescialli dei quali non ricordava il nome ma non il capitano Stifanelli e ha sostenuto che non gli fu fatto il nome della fonte, non gli fu riferito del possibile coinvolgimento di Di Giorgio e non gli fu consegnata alcuna relazione. Anche sul contenuto dell’incontro la sua deposizione stride con quella dei testi ritenuti attendibili, D’Artizio e Stifanelli, è scritto nella sentenza, “non è credibile”. La relazione di servizio dei Carabinieri, si legge nella sentenza, avrebbe dovuto essere trasmessa a Potenza dal procuratore Petrucci ma ciò non avvenne mai. Anzi, il capitano Stifanelli rischiò di essere perseguito sotto il profilo disciplinare per una nota di censura inviata dalla Procura al comando provinciale. Riuscì ad evitare provvedimenti soltanto perché non più in servizio in Puglia. Quei fatti sono datati e le presunte responsabilità dei magistrati non sono più perseguibili per via della prescrizione. Quella stessa prescrizione prevista dal Codice, ed osteggiata dalla Magistratura. Nel frattempo, il processo a carico di Di Giorgio ed altri imputati è approdato in appello.
Condannati giornalisti della Gazzetta del Mezzogiorno: diffamarono magistrato in servizio a Taranto e la moglie, scrive Antonello De Gennaro su "Il Corriere del Giorno" il 28 dicembre 2016. Tutte le diffamazioni e condanne che la Gazzetta del Mezzogiorno e l’Assostampa di Puglia non raccontano ai propri lettori. In sede civile, pendono anche delle denunce e procedimenti penali intrapresi dal dr. Fiore e dalla dr.ssa Bruno nei confronti dei giornalisti della Gazzetta già condannati in sede civile. Nei giorni scorsi abbiamo assistito al solito “piagnisteo” mediatico-sindacale dell’Assostampa di Puglia sull’avvenuta condanna dei giornalisti della Gazzetta del Mezzogiorno. Secondo il sindacato dei giornalisti pugliesi, il cui presidente Bepi Martellotta lavora guarda caso proprio alla Gazzetta “il trasferimento dell’inchiesta ad un Tribunale diverso da quello di Taranto, dove esercitava il magistrato in questione e dove era avvenuto il concorso oggetto dell’indagine, dovrebbe far riflettere sull’interesse pubblico che tale vicenda riveste in virtù delle relazioni familiari ad essa sottese e sul diritto di cronaca esercitato dai colleghi a tutela della più completa informazione dei cittadini pugliesi su questioni che attengono la magistratura come qualsiasi altra istituzione dello Stato“. “La difesa corporativa che, invece, emerge da tale sentenza” – scrive l’Assostampa sul suo sito – “non può passare sotto silenzio e, siamo sicuri, troverà spazio per chiarimenti nell’inevitabile processo d’appello, giacché nessuno – tanto meno i magistrati – possono o debbono sentirsi immuni dal diritto di cronaca e dal diritto di verifica di quanto fanno”. Diritto di verifica? Ed in quale norma della Costituzione, della Legge sulla Stampa e della nostra Legge professionale esiste questo immaginario “diritto di verifica”? Saranno ancora i postumi dello spumante o di qualche brindisi pre-natalizio ad aver confuso la mente dell’anonimo estensore della nota pubblicata sul sito del sindacato pugliese? A proposito come mai l’Assostampa si guarda bene dal fare i nomi e cognomi dei giornalisti condannati? Eppure una sentenza è “pubblica“! Non vogliamo fare gli sciacalli, o festeggiare per la condanna dei giornalisti della Gazzetta, ma ricordiamo un ben altro “garantismo”…dell’Assostampa, quando il loro rappresentante tarantino, tale Cosimo (Mimmo) Mazza mi ricoprì di denunce sostenendo che avevo attaccato giornalisticamente alcune istituzioni di Taranto, compreso la Procura della Repubblica, e persino gli stessi suoi articoli, ipotizzando delle mie presunte fantomatiche “estorsioni giornalistiche”, accuse che la Procura di Taranto ha stralciato archiviandole, e per le quali Mazza presto risponderà in sede civile, penale e deontologica. Parlo di quello stesso Mazza che il prossimo 27 febbraio dovrà presentarsi insieme al suo direttore Giuseppe De Tommaso dinnanzi al giudice per le udienze preliminari del Foro di Bari per aver offeso la reputazione dell’Avv. Emilia Velletri del Foro di Taranto. Mazza peraltro risulta attualmente iscritto nel registro degli indagati della Procura di Taranto e di quella di Roma a seguito delle sue strumentali e false denunce presentate contro il sottoscritto ed anche nella nostra vicenda la parola spetterà alle Magistrature competenti essendosi rifiutata la Gazzetta persino di rispettare la Legge sulla Stampa ed omesso di pubblicare la mia richiesta di rettifica, prevista dalla Legge sulla Stampa.
Le sentenze di condanna sono due. Il giudice del Tribunale Civile di Potenza, dr.ssa Gerardina Romaniello ha condannato alla vigilia di Natale, la società EDISUD spa editrice de La Gazzetta del Mezzogiorno, il direttore responsabile Giuseppe De Tommaso e due giornalisti, Massimiliano Scagliarini e Luca Natile per aver diffamato il magistrato Ciro Fiore (già Gip a Taranto, poi in servizio al Tribunale Penale e, attualmente alla Procura della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni sempre a Taranto). Secondo le motivazioni della sentenza di condanna, i due giornalisti avrebbero sbagliato a citare il magistrato in quanto la vicenda che riguardava sua moglie in realtà di fatto “non aveva interesse pubblico”. Negli articoli diffamatori della Gazzetta del Mezzogiorno il dr. Fiore (a lato in fotografia) veniva a accusato di aver esercitato pressioni nell’ambito delle vicende personali della moglie, Monica Bruno, dottoressa commercialista, accuse che si sono rivelate nel corso del procedimento, come riportato in sentenza, infondate. Il Gup del Tribunale di Bari dr.ssa Alessandra Pilego, ha assolto “perchè il fatto non sussiste” la dr.ssa Bruno, assegnista di ricerca, dalle accuse del pm dr. Francesco Bretone della Procura barese di aver truffato l’Università di Bari svolgendo incarichi professionali per conto del Tribunale di Taranto, senza avere l’autorizzazione del Rettore. La Bruno assistita e difesa dall’ avv. Michele Laforgia del Foro di Bari, ha chiesto di essere giudicata con rito abbreviato, nella cui udienza il pubblico ministero aveva chiesto la condanna della Bruno al minimo della pena. Ma il Tribunale Penale di Bari ha dato ragione alla dr.sa Monica Bruno assolvendola. Ma questa non è la prima sentenza di condanna nei confronti del giornale “siculo-barese”. Infatti nello scorso febbraio 2016 vi era stata una precedente sentenza del Tribunale Civile di Taranto (rito monocratico), per un’altra diffamazione a mezzo stampa. Anche in quell’occasione ad essere condannati per diffamazione a mezzo stampa nei confronti della dottoressa Monica Bruno, furono la società editrice EDISUD spa proprietaria de La Gazzetta del Mezzogiorno, il direttore De Tommaso, ed il giornalista Scagliarini. Il Tribunale oltre al risarcimento del danno ed al pagamento spese processuali, dispose la pubblicazione della sentenza per estratto sulla Gazzetta del Mezzogiorno (quest’ultimo provvedimento, incredibilmente non risulta ancora essere stato ottemperato). Negli articoli della Gazzetta del Mezzogiorno si accusava la commercialista dr.ssa Bruno, di aver utilizzato nell’ambito del concorso universitario per un posto di ricercatore, un falso titolo preferenziale. Accusa anche questa che si è rivelata infondata, come peraltro dimostrato dalla recente sentenza emessa dal Tribunale di Bari favorevole alla Bruno. Il tutto si inserirebbe in una campagna “persecutoria” intrapresa dalla Gazzetta del Mezzogiorno nei confronti della dottoressa Bruno, che iniziò ad occuparsi continuamente delle vicende professionali e universitarie della stessa, con articoli che hanno finito per coinvolgere nomi “eccellenti” del mondo universitario e delle professioni di Bari. In alcune circostante, addirittura, la Bruno apprese incredibilmente proprio dalla Gazzetta a 24 ore dal deposito degli atti delle notizie relative alle sue vicende che diventarono di dominio pubblico. Per entrambe queste vicende arrivate a sentenza in sede civile, pendono anche delle denunce e procedimenti penali intrapresi dal dr. Fiore e dalla dr.ssa Bruno. La legge è uguale per tutti.
Taranto, un pentito svela la nuova mappa della Sacra Corona Unita sullo Ionio: “Ecco affari, riti e gerarchie criminali”. Vincenzo Mandrillo, imputato per omicidio, ha deciso di collaborare con la magistratura e sta ridisegnando la mappa di potere dei clan nella provincia ionica. E poi le 'filastrocche' di affiliazione in carcere e gli affari con le cosche calabresi. Tutto confermato dall'ultima relazione della Dia che parla di "spregiudicatezza e propensione a ricorrere in maniera disinvolta all’uso delle armi" come "modalità ordinarie per l’affermazione della leadership in seno ai singoli gruppi criminali", scrive Francesco Casula il 30 luglio 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Passeggiano come se nulla fosse nel cortile del carcere di Lecce con in mano la “santina”, recitano la “favella” e poi la formula del “giuramento” alla Sacra Corona Unita. Accanto a ogni iniziato ci sono almeno cinque persone: rendono valido il rito di affiliazione di un nuovo adepto oppure il “movimento”, il passaggio di grado di un membro dell’organizzazione. Riti, tradizioni mafiose e scalata alle gerarchie criminali che avvengono davanti a ignari agenti della penitenziaria.
Il pentito svela la geografia della Scu. “Era estate: giugno, luglio, prima che uscissi. Era l’R prima sezione, Sezione di isolamento, istituto penitenziario di Lecce. La sezione me la ricordo perché mi spostarono lì perché ebbi delle liti col certi tarantini ed il ‘movimento’ di quarta me l’avevano fatto nella Sezione R Prima, cella numero 11”. Nella calda aula del tribunale di Taranto le parole del collaboratore di giustizia Vito Mandrillo, tagliano il silenzio. Avvocati, giudici, imputati e familiari ascoltano ammutoliti le rivelazioni del 25enne che dopo l’arresto per omicidio ha deciso di collaborare con i pubblici ministeri Alessio Coccioli e Antonella De Luca, scoperchiando la pentola degli affari delle cosche del Tarantino. Perché il disastro ambientale e sanitario causato dalle emissioni dell’Ilva non è il solo problema di questa terra.
Antimafia: “E’ il nuovo Welfare”. Qui “la Sacra corona unita sta diventando un sistema alternativo allo Stato, il nuovo Welfare” ha detto la presidente della commissione parlamentare antimafia Rosy Bindi. E del resto, non è la prima volta: alla fine degli anni ’80 la guerra di mafia tra il clan dei fratelli Modeo e quello delle famiglie D’Oronzo-De Vitis diede vita a una vera mattanza: quasi duecento morti ammazzati in tre anni. Poi gli arresti, la nascita del pentitismo e i maxiprocessi come “Ellesponto” e “Penelope” inflissero secoli di carcere a capi e gregari. Ma distanza di 30 anni, in tanti hanno lasciato le celle e la maggior parte ha cercato di riprendere in mano le redini dei clan.
“Mafia tentacolare, bonifica difficile”. Negli ultimi tre anni la Direzione distrettuale antimafia di Lecce e la Procura ionica hanno messo a segno decine di operazioni, un lunghissimo elenco di titoli fantasiosi: Alias, Città nostra, Feudo, Pontefice, Undertaker, Sangue Blu, Game Over, Impresa, Fisheye, Duomo, Neve Tarantina, The old, Kinnamos, No one, Infame, Zar, Terra nostra, Mercatino. Eppure la malavita continua a sopravvivere: “Paradossalmente – ha spiegato la commissione parlamentare antimafia nell’ultima visita – la forza della Scu sta nella sua configurazione reticolare, senza vertice, con famiglie che si spartiscono pacificamente il Salento. E se questo rende possibili operazioni di smantellamento delle singole realtà, ciò però complica la completa bonifica del territorio”. Associazione mafiosa, traffico di droga, estorsioni, usura sono le accuse più frequenti. Gli omicidi sono fortunatamente rari ma, come la storia italiana insegna, quando la criminalità non spara vuol dire che gli affari vanno a gonfie vele. Taranto resta un territorio a sé rispetto al resto del Salento, ma come le cosche salentine ha stretto rapporti con le ‘ndrine calabresi o i gruppi campani: il core business è il traffico di stupefacenti, ma non solo.
Dia: “Accordi con calabresi per gli appalti”. Nella sua relazione semestrale, la Dia ricorda l’operazione Feudo delle Fiamme gialle “che aveva fatto luce sugli accordi stretti con le cosche calabresi per i traffici di sostanze stupefacenti e di tabacchi lavorati esteri, per l’usura e le estorsioni, nonché per acquisire, attraverso prestanome, il controllo di attività economiche e la gestione di appalti e servizi commerciali”. La Direzione investigativa antimafia ha ridisegnato la mappa del capoluogo individuando ben 13 famiglie: “Tali gruppi, ciascuno dominante in un’area circoscritta – in genere coincidente con un rione o un quartiere – in assenza di un capo e di regole comuni, tenderebbero ad accaparrarsi, anche con azioni di forza, il mercato dello spaccio di sostanze stupefacenti e quello estorsivo”. Poche settimane fa la Corte di Cassazione ha confermato le condanne ai capi e agli affiliati del clan mafioso dei “Taurino” che ha la sua roccaforte nel centro storico, ma è il quartiere “Paolo VI” quello costruito insieme all’Ilva che sembra una polveriera con ben 5 gruppi malavitosi: le famiglie Modeo, Ciaccia, Cesario, Pascali Cicala. In provincia il discorso non cambia con 4 gruppi che si spartiscono il territorio: le famiglie Caporosso-Putignano, Stranieri, Cagnazzo e soprattutto Locorotondo, detto Scarpalonga. L’uomo arrestato dai carabinieri nell’operazione ‘The old‘, per la Dia controlla i territori di Crispiano, Palagiano, Palagianello, Mottola, Massafra e Statte oltre a quelli di Pulsano (insieme al gruppo Agosta) e Lizzano (insieme ai fratelli Cataldo e Giuliano Cagnazzo).
Criminali spregiudicati e nuove leve agguerrite. “In provincia – si legge nella relazione – si registra una situazione conflittuale in cui sono maturati un omicidio ed un duplice tentato omicidio commessi a Pulsano, che dimostrano come la spregiudicatezza e la propensione a ricorrere in maniera disinvolta all’uso delle armi siano diventate modalità ordinarie per l’affermazione della leadership in seno ai singoli gruppi criminali o per il controllo del mercato degli stupefacenti. In questo contesto, i vecchi capi, pur mantenendo ruoli predominanti e di direzione strategica, si vedono costretti a relazionarsi con le agguerrite, nuove leve criminali”. Un quadro confermato anche dal collaboratore Mandrillo che ha indicato in Scarpalonga uno dei massimi gradi della criminalità tarantina.
Il rito di affiliazione: “Presi la mia cavallina bianca…”. Ha fatto nomi, cognomi e soprannomi, recitato a memoria le formule del cerimoniale partendo dalla “favella”, la filastrocca che ogni aspirate sacrista impara a memoria e declama davanti al suo padrino: «Fu una bella mattina di sabato santo, quando allo spuntare del sole – scandisce Mandrillo in video conferenza da una località protetta – mi venne in mente di fare una bella cavalcata, andai nella mia scuderia bianca, presi la mia cavallina bianca con fronte stellate, briglie d’oro e staffe d’argento e cavalcai per manti e colline fino quando non arrivai su una distesa pianura dove c’erano due uomini che si tiravano di coltello, scesi dalla mia cavallina bianca con fronte stellate, briglie d’ oro e staffe d’argento e mi misi spalla e spalla con il mio avversario “Cosa ne avete fatto?”, “Ne ho fatto sangue”, “E dove l’avete colpito?”, “Sotto all’avambraccio destro”, “Allora siete un bevitore di sangue?”, “Alt, saggi compagni! Non sono un bevitore di sangue, ma come ben sapete non ho fatto altro che unire due anime in un solo corpo”».
Giuramento, gradi e gerarchie. E poi il giuramento e i gradi della gerarchia criminale della Sacra Corona Unita: la «Picciotteria» (che ormai non viene più usata), la «Camorra», lo «Sgarro», la «Santa», il «Vangelo», il «Trequartino», il «Crimine», il «Medaglione», il «Medaglione con Catena» e infine il «Bastone». Qualcosa è certamente cambiato dall’idea originale di Pino Rogoli, il mesagnese fondatore della quarta mafia che si oppose all’espansione in Puglia della camorra, in particolare quella cutoliana, ma che a Taranto ancora sopravvive. Silenziosa e invisibile, ma brutale. Proprio come i fumi e i veleni delle ciminiere di cui fino a qualche anno fa nessuno parlava.
Taranto, arrestate 27 persone per mafia: coinvolti anche i sindaci di Avetrana ed Erchie. “Appalti, estorsioni e riciclaggio”. Secondo gli investigatori, il clan avrebbe creato un clima di intimidazione nei confronti di numerosi imprenditori locali che venivano così "soggiogati al sistema mafioso". Arrestati anche Antonio Minò e Giuseppe Margheriti, rispettivamente alla guida dei comuni di Avetrana ed Erchie. Un ex consigliere comunale di Manduria è accusato di scambio elettorale politico-mafioso, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 4 luglio 2017. Avevano creato un clima di intimidazione tra gli imprenditori locali, teso ad aggiudicarsi appalti pubblici, a imporre estorsioni e all’imposizione delle proprie ditte nella movimentazione terra. E avevano agganci “in alto”, fino ai vertici di due amministrazioni comunali, sospettano gli inquirenti, che questa mattina hanno eseguito 27 arresti (venti in carcere, 7 ai domiciliari) tra le province di Taranto e Brindisi nei confronti di un presunto sodalizio criminale di stampo mafioso.
Tra le persone coinvolte ci sono i primi cittadini di Avetrana ed Erchie, Antonio Minò e Giuseppe Margheriti. Oltre al vice-sindaco del paese nel Brindisino, Domenico Margheriti, e di un ex consigliere comunale di Manduria, sempre in provincia di Taranto, accusato di scambio elettorale politico-mafioso. Minò è indagato per concorso esterno ed è stato rinchiuso in carcere, mentre Margheriti si trova ai domiciliari. I 27 sono ritenuti responsabili, a vario titolo e in concorso tra loro, di associazione di tipo mafioso, voto di scambio, estorsione, corruzione, rapina, riciclaggio, lesioni personali, danneggiamento, detenzione illegale di armi da fuoco e detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti. Il presunto clan, secondo la polizia di Taranto e la Dda di Lecce, voleva strutturarsi in un “centro di potere” che avesse la capacità di intrattenere rapporti con le realtà istituzionali del territorio e con la società civile, grazie all’infiltrazione nel tessuto economico-imprenditoriale locale. Secondo gli investigatori, il clan avrebbe creato un clima di intimidazione nei confronti di numerosi imprenditori locali che venivano così soggiogati al sistema mafioso. Sono 57 in tutto gli indagati nell’inchiesta della direzione distrettuale antimafia di Lecce conclusa oggi con l’arresto in carcere di 20 persone e 7 ai domiciliari che devono rispondere a vario titolo di associazione mafiosa, associazione mafiosa esterna, traffico di droga, estorsioni ed altri reati.
In carcere sono finiti: Giuseppe Buccoliero, Antonio Campeggio, Francesco D’Amore, Luciano Carpentiere, Davide Blasi, Agostino De Pasquale, Daniele Lorusso, Giampiero Mazza, Vito Mazza, Cosimo Merola, Fabrizio Monte, Cataldo Panariti, Cosimo Damiano Pichierri, Massimiliano Rossano, Oronzo Soloperto, Cosimo Storino, Leonardo Trombacca, Antonio Minò, Pasquale Pedone, Riccardo De Santis.
Ai domiciliari: Nicola Dimonopoli, Domenico Margheriti, Giuseppe Margheriti, Gianluca Mazza, Erminio Vitillio, Marco Monaco, Giorgio Pitardi.
Le mani della mala sul 118, la Fiera Pessima e l’eolico, scrive il 4 luglio 2017 “La Voce di Manduria. Emergono i primi particolari dall’inchiesta della polizia e dell’antimafia di Lecce che coinvolge 44 persone tra indagati a piede libero e arrestati in carcere e ai domiciliari, in gran parte provenienti dai comuni di Manduria, Avetrana, Erchie. Tra i reati contestati figurano il traffico di droga, estorsione e giro di tangenti. Si ipotizzano reati per il controllo della Fiera Pessima e del servizio ambulanze del 118, ma anche appalti milionari sull’eolico. Il sindaco di Avetrana, Antonio Minò, è accusato di aver concorso con esponenti della malavita organizzata per il controllo e la gestione del servizio ambulanze del 118 imponendo ad altre associazioni l’assunzione di alcuni esponenti della mala. Per la Fiera pessima si ipotizzano tentate estorsioni all’imprenditore che l’aveva gestita nel 2013 (si parla di una mazzetta, non consegnata, di 15 mila euro). Il sindaco di Erchie, Giuseppe Margheriti, è indagato nell’ambito dei lavori di appalto dell’eolico affidato all’impresa Pedone di Manduria. Il consigliere comunale e medico del pronto soccorso, Nicola Dimonopoli è invece accusato di voto di scambio. Avrebbe fatto favori di natura sanitaria con pregiudicati del posto in cambio di appoggi alle ultime elezioni amministrative.
Mafia, 27 arresti, coinvolti anche i sindaci di Avetrana ed Erchie, scrive Giacomo Rizzo, su “La Gazzetta del Mezzogiorno" il 4 luglio 2017. Ha svelato un presunto intreccio tra mafia e politica l’inchiesta della Squadra Mobile di Taranto, coordinata dalla Dda di Lecce, sfociata oggi nell’esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di 27 indagati, due dei quali sfuggiti alla cattura. Gli inquirenti ritengono di aver disarticolato un’associazione di tipo mafioso, considerata frangia della Sacra Corona Unita, strutturata in tre gruppi collegati tra loro, che operavano nel versante orientale della provincia di Taranto e nei comuni limitrofi del Brindisino e del Leccese. Sono cinque i politici raggiunti da misura cautelare: in carcere il sindaco di Avetrana Antonio Minò (eletto nel 2016, a capo della Lista civica «Per Avetrana»), ai domiciliari invece il sindaco di Erchie (Brindisi) Giuseppe Margheriti (eletto nel 2015 per il terzo mandato con una coalizione di centrodestra), l’ex vice sindaco Domenico Margheriti, l’ex consigliere comunale di Manduria Nicola Dimonopoli (fu eletto nel 2013 con la lita civica «Proposta per Manduria») e l’ex assessore comunale allo Sport di Manduria, Massimiliano Rossano. Il presunto clan, secondo gli inquirenti, oltre ad occuparsi del traffico di droga e delle estorsioni, mirava a strutturarsi in «centro di potere» in grado di relazionarsi con le realtà istituzionali e con la società civile attraverso la sua capacità di infiltrarsi nel tessuto economico-imprenditoriale locale. Delle 27 ordinanze emesse dal gip del tribunale di Lecce Cinzia Vergine su richiesta del sostituto procuratore della Dda Alessio Coccioli, 20 prevedono la custodia in carcere e 7 ai domiciliari. Sessanta in tutto gli indagati. Sono indicati come organizzatori e promotori Antonio Campeggio, Francesco D’Amore (del gruppo che operava a Manduria e San Giorgio Jonico), Giuseppe Buccoliero (referente nel Comune di Sava), Gianpiero e Vito Mazza (sempre per la zona di Manduria). Tra gli episodi contestati spicca la tentata estorsione ai danni dei vincitori (nel 2012) dell’appalto di realizzazione della 272ma “Fiera pessima” di Manduria, ai quali fu chiesta una tangente di 30mila euro, con la giustificazione, da parte di Antonio Campeggio, di dover «accontentare persone di Bari, di Taranto e di Mesagne». Una parte sostanziosa dell’ordinanza del gip Vergine è dedicata al ruolo dei politici. Il sindaco di Avetrana, Antonio Minò, è accusato di concorso esterno in associazione mafiosa non per la sua carica istituzionale ma in qualità di presidente dell’Associazione «Avetrana Soccorso» del 118. Secondo l’accusa, avrebbe fornito consapevolmente e volontariamente un contributo importante al rafforzamento del giro di affari del clan, mettendosi a disposizione di Antonio Campeggio e Francesco D’Amore. Il sindaco di Erchie Giuseppe Margheriti e l’ex vice sindaco Domenico Margheriti rispondono di corruzione aggravata, per aver ottenuto, a titolo di tangente, - secondo gli investigatori - il pagamento di 80mila euro, oltre alla promessa di ulteriori dazioni di danaro, dietro l’impegno ad agevolare l'assegnazione di futuri appalti di opere pubbliche: in particolare i lavori di completamento delle infrastrutture primarie della zona Pip per un importo complessivo di oltre un milione di euro alla ditta Tecnoscavi srl dell’imprenditore Pasquale Pedone e la realizzazione di un parco eolico in zona Tre Torri Montugne-Cicirella. All’ex consigliere comunale di Manduria, Nicola Dimonopoli, che si è dimesso pochi giorni fa, è contestato il voto di scambio politico mafioso. Infine, l’ipotesi di corruzione è contestata all’ex assessore comunale di Manduria Massimiliano Raso, il quale si sarebbe interessato, dietro la promessa di pagamento di 1500 euro da parte del legale rappresentante di una società sportiva, per garantire l’affidamento diretto dei lavori di messa a norma della pista di pattinaggio del Centro Sportivo Polivalente di Manduria. (Giacomo Rizzo, ANSA)
Mafia pugliese. Operazione della Polizia, 27 arrestati, scrive "Il Corriere del giorno" il 5 luglioluglio 2017. Gli uomini dalla Squadra Mobile di Taranto Polizia di Taranto, affiancati dai colleghi dello S.C.O. il Servizio Centrale Operativo, delle Squadre Mobili di Lecce, Foggia, Brindisi, L’ Aquila ed Alessandria, e del Reparto Prevenzione Crimine di Lecce, col supporto del Reparto Volo e di unità cinofile di Bari, hanno eseguito all’alba di oggi 20 ordinanze di custodia cautelare in carcere e 7 ai arresti domiciliari, provvedimenti restrittivi disposti dal gip del tribunale di Lecce dr.ssa Cinzia Vergine su richiesta del sostituto procuratore dr. Alessio Coccioli della Direzione Distrettuale Antimafia, nell’ambito di un’operazione che ha visti impegnati circa 200 poliziotti, le unità cinofile ed un elicottero del Reparto Volo di Bari, eseguita nei confronti di un sodalizio criminale di stampo mafioso . Nell’inchiesta risultano indagate complessivamente 60 persone. Un importante contributo è derivato dalle attività d’intercettazione, i cui contenuti sono risultati nella maggior parte dei casi facilmente intellegibili, a dimostrazione dell’arroganza criminale dei soggetti intercettati, che parlavano apertamente della azioni criminali già compiute e rivelavano la loro appartenenza al clan, in uno scambio di opinioni col quale si voleva allo stesso tempo infondere il potere mafioso e capacità di assoggettamento verso i componenti delle altre articolazioni. Fra le ipotesi contestate vi è anche quella di riciclaggio, avendo taluni indagati (fra i quali Riccardo De Santis , attinto da misura) acquistato dal clan “D’Amore-Campeggio”, pur conoscendone la provenienza delittuosa, migliaia di capi di abbigliamento per un valore di 150mila euro da pagare in denaro contante, ostacolando l’ identificazione della stessa merce , occupandosi poi del suo smistamento, commercializzazione, trasferimento e sostituzione, il tutto in nero e senza fatture. Legata a tali condotte è pure l’intestazione fittizia a terze persone di società riconducibili al De Santis.
Fra i 27 arrestati compaiono anche amministratori ed esponenti politici locali fra i quali il sindaco di Avetrana, indagato per concorso esterno, Antonio Minò (a sinistra nella foto) infermiere professionale ed ex presidente dell’associazione Avetrana Soccorso, ed un’ex assessore comunale allo Sport di Manduria, Massimiliano Rossano il quale avrebbe anche ricevuto una tangente per i lavori alla pista di pattinaggio, indagato per scambio elettorale politico-mafioso (entrami comuni della provincia di Taranto ). Minò all’ epoca dei fatti (2013) era presidente dell’ Associazione Avetrana Soccorso del 118 provincia Jonica, ha fornito consapevolmente e volontariamente un contributo importante al rafforzamento del giro di affari, del prestigio e della fama criminale dell’ articolazione rappresentata dal citato clan, mettendosi a completa disposizione degli indagati Antonio Campeggio e Francesco D’Amore, nonché degli altri esponenti della medesima articolazione, agevolando l’ imposizione dell’assunzione del secondo, in qualità di autista, presso la postazione di San Giorgio Jonico, ai danni del presidente dell’ associazione Croce Verde Faggiano, ovvero provvedendo lui stesso all’ assunzione di altri sodali indicatigli dal Campeggio. Le tre diramazioni del clan mafioso agivano prevalentemente nel triangolo della provincia tarantina, fra Manduria, San Giorgio e Sava, e sono qualificabili come frange della Sacra Corona Unita. Grazie a intestazioni fittizie, secondo l’accusa il clan è riuscito anche a vincere gare d’appalto per il servizio di 118 in diversi comuni, reinvestendo circa 150mila euro di fondi pubblici in bar e ristoranti.
Ai domiciliari è finito Nicola Dimonopoli, un medico ex consigliere comunale di Manduria, il quale era stato eletto nel 2013 con la lista civica “Proposta per Manduria”, dimessosi lo scorso 30.06.2017 poco prima dell’arresto , il quale come si evince dall’ordinanza, per ottenere voti alle amministrative del 2013 si era rivolto al clan con cui ha stretto un patto di scambio politico-mafioso garantendo denaro e prestazioni mediche (una prognosi gonfiata in occasione di un sinistro stradale), arrivando persino a fare pressioni e minacciare gli altri consiglieri inducendoli a eleggerlo presidente del consiglio comunale. L’organizzazione mafiosa ha altresì procurato voti ad esponenti politici ad essa vicini, nell’ aspettativa di ricevere in cambio favori e appalti pubblici, in particolare in occasione della competizione elettorale comunale di Manduria, per la elezione diretta ·del sindaco e del consiglio comunale, tenutasi nel Maggio – Giugno del 2013. A fronte della promessa di ottenere l’appoggio elettorale, con procacciamento di voti raccolti mediante l’esercizio della forza di intimidazione dell’associazione, il candidato Nicola Dimonopoli (destinatario della misura degli arresti domiciliari) aveva assunto impegno nei confronti del Campeggio capo della propria articolazione mafiosa a versargli cospicue somme denaro con cadenza mensile. Da qui la contestazione del reato (scambio politico mafioso) di cui all’ art. 416 ter c.p. .nei confronti del Dimonopoli, che all’ epoca dei fatti svolgeva servizio al pronto soccorso dell’ ospedale M. Giannuzzi di Manduria, risulta aver concesso prestazioni mediche facendo ottenere, sempre su richiesta di Antonio Campeggio, giorni di prognosi a persone a costui vicine e coinvolte in incidenti stradali, ed ottenendo in cambio un intervento da parte del primo nei confronti di coloro che, di seguito all’elezione, non volevano sostenerlo per la carica alla presidenza del consiglio del comune di Manduria.
Agli arresti domiciliari sono finiti anche Giuseppe Margheriti, sindaco di Erchie, comune della provincia di Brindisi, e l’ex vicesindaco ed attuale consigliere comunale Domenico Margheriti, accusati entrambi di corruzione aggravata per aver incassato una tangente da 80mila euro per pilotare un appalto per i lavori di completamento delle infrastrutture primarie della zona Pip del valore di un milione di euro per lavori da eseguire nella zona industriale alla ditta Tecnoscavi srl dell’imprenditore Pasquale Pedone e la realizzazione di un parco eolico in zona Tre Torri Montugne-Cicirella. Il sindaco di Erchie viene accusato anche di aver mandato segnalazioni false alla Regione Puglia ed emesso un’ordinanza per bloccare un cantiere eolico in cambio della promessa di una percentuale sul subappalto che una ditta vicina al clan voleva ottenere per i lavori di movimento terra nel cantiere. Il clan mafioso smantellato era diretto da Antonio Campeggio (noto come Tonino scippatore), Antonio Buccoliero (noto come Peppolino capone) e Francesco D’Amore, secondo gli inquirenti, cercava di strutturarsi in un “centro di potere”, in occasione delle amministrative di maggio 2013 a Manduria procurando voti, capace di infiltrarsi nelle istituzioni e con la società civile grazie alla capacità di inserirsi negli affari economico-imprenditoriale locali, puntava a ricevere appalti in lavori pubblici e servizi del 118 creando un clima di intimidazione nei confronti di numerosi imprenditori locali che venivano in tal modo sottomessi al sistema mafioso, che così si insinuava nell’aggiudicazione di appalti pubblici alle estorsioni, dall’imposizione nelle attività di «movimento terra» al riciclaggio. Campeggio, Buccoliero e D’amore avevano già un ruolo direttivo in seno alla frangia manduriana della Sacra Corona Unita, ed in particolare di affiancamento al Cinieri Massimo, alias Massimino molletta, durante la contrapposizione, alla fine degli anni ’80 e primi anni ’90, del gruppo da quest’ultimo capeggiato alla cosca di Stranieri Vincenzo (elemento di vertice della SCU). Periodo in cui si registrarono delle vere e proprie lotte armate per il controllo delle attività illecite sul territorio, culminate anche in omicidi o tentati omicidi di esponenti di vertice, sino alla scalata al vertice del Cinieri ed alla costituzione del sodalizio mafioso denominato “Sacra Corona Libera”, operante nelle province di Brindisi e Taranto. Negli anni, a seguito della riconciliazione tra il vecchio padrino ed il Cinieri, Antonio Campeggio è divenuto il soggetto sul quale il clan Stranieri decideva di puntare. Gli arrestati vengono ritenuti dalla Direzione Distrettuale Antimafia, responsabili, a vario titolo e in concorso tra loro, di associazione di tipo mafioso, scambio politico elettorale-mafioso, estorsione, corruzione, rapina, riciclaggio, lesioni personali, danneggiamento, detenzione illegale di armi da fuoco e detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti. In carcere il sindaco di Avetrana, Antonio Minò. Il primo cittadino è accusato di concorso esterno in associazione mafiosa per aver favorito assunzioni al 118 imposte dal clan. Molteplici gli episodi accertati di estorsione. Tra le quali una ad un cantiere da 10 milioni di euro che lavorava alla realizzazione della nuova rete di acqua potabile per i comuni di Leporano e Pulsano, ma anche quella perpetrata nel 2010 ai danni degli organizzatori della Fiera Pessima di Manduria, che vennero costretti a pagare un pizzo di 30mila euro per non avere problemi e ritorsioni dal clan mafiosi.
Questi i destinatari della custodia cautelare in carcere:
BIASI Davide, anni 39, nato a Taranto;
BUCCOLIERO Giuseppe, anni 48, nato a Sava (TA), attualmente detenuto presso il carcere di Sulmona;
CAMPEGGIO Antonio, anni 47, nato a Manduria (TA);
CARPENTIERE Luciano, anni 51, nato a Brindisi;
D’AMORE Francesco, anni 49, nato a San Giorgio Jonico (TA);
DE PASQUALE Agostino, anni 58, nato a Manduria (TA);
DE SANTIS Riccardo, anni 49, nato a Taranto;
LORUSSO Daniele, anni 38, nato a Taranto;
MAZZA Gianpiero, anni 36, nato a Manduria (TA) attualmente detenuto presso il carcere di Taranto;
MAZZA Vito, anni 40, nato a Manduria (TA);
MINO’ Antonio, anni 57, nato a Manduria (TA);
MONTE Fabrizio, anni 48 nato a Latiano (BR);
PANARITI Cataldo, anni 38, nato a Manduria (TA);
PICHIERRI Cosimo Damiano, anni 53, nato a Sava (TA);
ROSSANO Massimiliano, anni 46, nato a Bologna;
SOLOPERTO Oronzo, anni 36, nato a Manduria (TA);
TROMBACCA Leonardo, anni 37, nato a Manduria (TA);
PEDONE Pasquale, anni 63, nato a Manduria (TA);
Questi i destinatari della misura degli arresti domiciliari:
DIMONOPOLI Nicola, anni 52, nato a Manduria (TA);
MARGHERITI Domenico, anni 58, nato a Erchie (BR);
MARGHERITI Giuseppe Antonio Salvatore, anni 46 nato a Brindisi;
MAZZA Gianluca, anni 23, nato a Manduria (TA);
MONACO Marco, anni 24, nato a Mesagne (BR);
PITARDI Giorgio, anni 26, nato a Melpignano (LE).
Blitz antimafia. La piovra manduriana nel potere economico e politico, scrive Nazareno Dinoi il 5 luglio 2017 su "La Voce di Manduria". Nomi di spicco anche tra le vittime del gruppo criminale oggetto di richiesta estorsive per assicurarsi la protezione: l’imprenditore ex patron del Taranto calcio, Gigi Blasi; Franco Spina dell’omonima impresa di impiantistica industriale. Esponenti della malavita organizzata tra potere economico e politico in un intreccio quasi asfissiante che mirava a controllare l’economia e le risorse pubbliche del territorio. La «piovra messapica» come non era stata mai presentata prima, ha sconvolto la tranquilla comunità manduriana sbattuta in prima pagina e nelle notizie d’apertura dei telegiornali per fatti che lasciano a bocca aperta. Sono quasi tutti nomi di spicco e di peso, sia criminale che politico, quelli finiti nelle 592 pagine di un’informativa dai contenuti per certi aspetti inquietanti. Dal sindaco di Avetrana, Antonio Minò, all’ex presidente del Consiglio e consigliere comunale dimissionario di Manduria, Nicola Dimonopoli, passando per l’ex assessore al Turismo e spettacolo, Massimiliano Rossano con ombre che si allungano su alte cariche pubbliche della stessa città Messapica i cui nomi vengono solo citati nell’inchiesta perchè i «risvolti penali a loro carico sono risultati esigui» e pertanto risparmiati da ogni provvedimento nemmeno da indagati. Dal girone dei politici, sono due i personaggi che più di tutti hanno provocato sgomento e incredulità in questo versante della provincia jonica: quelli del sindaco di Avetrana Minò e del consigliere Dimonopoli. Il primo è stato coinvolto non in qualità di politico ma in quanto imprenditore. Fondatore e patron di un’associazione per l’assistenza e il soccorso di infermi convenzionata con la Asl che gli ha affidato la gestione della postazione del 118 di Manduria, su di lui pesa l'accusa di concorso esterno di associazione mafiosa e per questo è stato rinchiuso nel carcere di Taranto. Il dottore Dimonopoli, medico in servizio al pronto soccorso di Manduria, ai domiciliari, è accusato di scambio elettorale politico-mafioso. Associazione mafiosa per Rossano ritenuto invece organico al presunto clan capeggiato da Antonio Campeggio, entrambi in carcere. Il sindaco Minò, secondo l’accusa, avrebbe fornito «consapevolmente e volontariamente» un contributo importante al rafforzamento, dell'articolazione del sodalizio del «padrino» Campeggio, «mettendosi a completa disposizione agevolando l'imposizione dell'assunzione di un componente del clan, in qualità di autista, nella postazione del 118 di San Giorgio Jonico, obbligando per questo il presidente l'associazione Croce Verde Faggiano. Sempre secondo la procura antimafia che lo indaga, il primo cittadino avrebbe provvedendo lui stesso all'assunzione, nella sua associazione «Avetrana soccorso» di altri membri della stessa organizzazione mafiosa. Ad incastrare Minò ci sono diverse intercettazioni telefoniche e ambientali mentre prende accordi diretti con il presunto capoclan Campeggio. Di diversa natura il coinvolgimento dell’ex consigliere Dimonopoli (da quattro giorni dimissionario per divergenze politiche con il resto del gruppo di minoranza), il quale avrebbe chiesto e ottenuto appoggi elettorali ad esponenti della malavita in cambio di favori legati alla sua attività professionale come certificazioni mediche con giorni di prognosi. Più complessa la posizione dell’ex assessore Rossano che deve rispondere di accuse ben più pesanti. Secondo gli inquirenti, il dipendente Asl (anche lui impiegato al pronto soccorso del Giannuzzi), farebbe parte dell’organizzazione mafiosa del «padrino» manduriano. Inoltre, nel periodo in cui ha ricoperto la carica assessorile, avrebbe favorito una ditta locale con la promessa di una tangente di 1.400 euro. Molto più grave la terza accusa: avrebbe costretto l’impresa che gestiva l’edizione della Fiera Pessima manduriana del 2012 ad assumere il controllo sulla guardiania della campionaria. La «piovra», spiegano gli investigatori nelle loro indagini, investiva il denaro sporco accumulato con il traffico di sostanze stupefacenti, rilevando aziende sane. Tra queste, i cui nomi compaiono nel fascicolo, i ristoranti balneari di Campomarino, Don Piccio e Bikini. L’investimento della mala non risparmiava il business del 118. Per questo è stato arrestato l’imprenditore Leonardo Trombacca, nome storico nel campo delle pompe funebri, affidatario di una convenzione con la Asl per la gestione della postazione 118 di Avetrana. Per la procura una parte dei guadagni finivano nelle casse del sodalizio criminale guidato da Campeggio. L’associazione, di fatto controllata da Trombacca, era stata intestata fittiziamente ad uno dei suoi dipendenti che risulta per questo indagato. Nomi di spicco anche tra le vittime del gruppo criminale oggetto di richiesta estorsive per assicurarsi la protezione: l’imprenditore ex patron del Taranto calcio, Gigi Blasi; Franco Spina dell’omonima impresa di impiantistica industriale, Giuseppe Caforio, titolare dell’azienda di serramenti. Dalle indagini è emerso che nessuno di loro ha ceduto al pizzo.
Mafia e politica, la difesa di Minò e Dimonopoli, scrive Nazareno Dinoi il 7 luglio 2017 su "La Voce di Manduria". A parte qualche indagato minore che ha voluto fare delle dichiarazioni spontanee, tutti gli altri si sono avvalsi della facoltà di non rispondere alle domande del gip. Tra le lacrime di alcuni e i silenzi di altri, si è conclusa ieri la prima delicata fase degli interrogatori di garanzia delle persone raggiunte martedì mattina dai provvedimenti di custodia cautelare, in carcere e ai domiciliari, emessi dal Tribunale di Lecce su richiesta della della Direzione distrettuale antimafia che indaga su presunte contaminazioni della sacra corona unita nel tessuto imprenditoriale e politico dei comuni di Manduria, Avetrana e Erchie. Il più drammatico confronto con il gip Pompeo Carriere, delegato con rogatoria dalla giudice Cinzia Vergine che ha disposto le misure, è stato sicuramente quello con il sindaco di Avetrana, Antonio Minò, finito in carcere con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Il primo cittadino, coinvolto nell’inchiesta non nel suo ruolo istituzionale ma come presidente di un’associazione di volontariato, «Avetrana Soccorso», convenzionata con la Asl di Taranto per la gestione della postazione 118 di Manduria, ha dichiarato tra le lacrime la propria innocenza dicendosi quindi estraneo a qualsiasi collusione con gli ambienti della malavita. In merito alla sua presunta pressione esercitata nei confronti del presidente di un’altra associazione di San Giorgio per l’assunzione di un esponente del clan di Antonio Campeggio, ritenuto a capo dell’organizzazione mafiosa, Minò avrebbe giustificato tale circostanza come un atto di solidarietà su cui si fonderebbe l’associazione di cui è presidente. Nel corso dell’interrogatorio non sarebbero mancati momenti di profondo sconforto da parte del politico che in più occasioni è stato costretto a fermarsi perché impossibilitato ad andare avanti. Parlando poi con uno dei suoi avvocati, Mario De Marco, che è anche componente della giunta, il sindaco si è raccomandato per il buon andamento dell’amministrazione invitando il vicesindaco Alessandro Scarciglia, che lo sostituisce, a fare di tutto per non far sentire la sua mancanza e per difendere l’ente nel migliore dei modi. Anche l’ex presidente del Consiglio comunale di Manduria, Nicola Dimonopoli, che deve rispondere di scambio elettorale politico – mafioso, ha preferito rispondere alle domande del gip sottraendosi anche lui da ogni accusa. L’ex consigliere, medico alle dipendenze della Asl di Taranto, avrebbe negato qualsiasi accordo con elementi della malavita ai quali non avrebbe chiesto appoggi dicendosi certo di conoscere quasi tutti i suoi elettori. A parte qualche indagato minore che ha voluto fare delle dichiarazioni spontanee, tutti gli altri si sono avvalsi della facoltà di non rispondere alle domande del gip. Una mossa, questa, spiegata probabilmente dalla necessità, per gli avvocati, di prendere visione degli atti in mano alla procura antimafia prima di imbastire una linea di difesa. Tutto il folto collegio difensivo composto dai penalisti Nicola Marseglia, Mario De Marco, Franz Pesare, Armando Pasanisi, Lorenzo Bullo, Mimmo Micera, Gaetano Vitale, Luigina Brunetti, Antonio Liagi ed altri, sono già al lavoro per il ricorso al Tribunale del riesame al quale chiedere intanto la revoca delle misure imposte ai propri assistiti. Desterebbero preoccupazioni infine le condizioni di salute dell’ex assessore manduriano, Massimiliano Rossano, anche lui in carcere con l’accusa di associazione mafiosa, sottoposto più volte a visita medica. Rossano che è operatore socio sanitario in servizio al pronto soccorso dell’ospedale Marianna Giannuzzi di Manduria, è sospettato di essere parte attiva dell’organizzazione mafiosa capeggiata da Antonio Campeggio, detto “Tonino scippatore”.
Inchiesta Dia, parlano gli indagati. Minò: rifarò il sindaco - Dimonopoli: basta con la politica, scrive Nazareno Dinoi il 27 luglio 2017 su "La Voce di Manduria". Nella decisione dei giudici del riesame ha avuto un buon risultato anche l’imprenditore manduriano Pietro Pedone, detenuto in carcere, che da ieri, difeso dall’avvocato Lorenzo Bullo, si è trasferito ai domiciliari. Il sindaco di Avetrana, Antonio Minò e l’ex presidente del Consiglio comunale di Manduria, Nicola Dimonopoli, sono tornati liberi. Ieri il Tribunale del Riesame di Lecce ha accolto le richieste dei rispettivi avvocati, Nicola Marseglia del primo e Franz Pesare e Armando Pasanisi il secondo. Il primo cittadino di Avetrana ha lasciato il carcere di Taranto dove era rinchiuso dal 4 luglio, mentre Dimonopoli può lasciare il proprio domicilio dove era ristretto. Il sindaco è accusato di concorso esterno in associazione mafiosa mentre Dimonopoli di voto di scambio. Minò ha fatto rientro a casa nel tardo pomeriggio di ieri accolto da una folla di parenti e cittadini in festa. Lui, visibilmente commosso e provato, ha abbracciato tutti prima di chiudersi in casa con i parenti e i suoi più stretti collaboratori. Ed ha trovato il tempo per rilasciare delle dichiarazioni. «Non ho mai dubitato e non dubiterò mai della giustizia, il mio – dice Minò - lo considero un incidente di percorso che, sono sicuro, sarà risolto definitivamente». Pronto a rimettersi in gioco, il primo cittadino non vede l’ora di riprendere la sua attività politica. «Già da lunedì – racconta – sarò nel mio ufficio in municipio e riprenderò le redini del mio comune con più energie di prima». Poi l’appello rivolto agli organi d’informazione. «Voi fate il vostro dovere e lo comprendo, ma adesso tocca a voi darmi quello che merito, la mia figura ha bisogno di positività e in questo confido in voi». Infine i ringraziamenti. «Alla mia famiglia prima di tutto che mi è stata molto vicina in questi terribili giorni, e poi a tutti gli amici e agli amministratori anche di opposizione che hanno compreso. Un ringraziamento particolare - conclude il sindaco –, al mio avvocato Marseglia che si è dimostrato un uomo e un professionista all’altezza della situazione».
Uno degli avvocati di Antonio Minò, Mario De Marco, così commenta: “La decisione del Tribunale di riesame oltre a dare grande sollievo al Sindaco ed alla sua famiglia conferma la debolezza di indagini molto sommarie svolte con metodo inquisitorio ma soprattutto allontana anche il mero accostamento tra la comunità avetranese ed ogni forma di attività criminale”. Altrettanto sollevato ma di umore differente si è presentato invece l’ex presidente del consiglio, il manduriano Dimonopoli che di politica non ne vuole più sapere. «Con questa storia ho chiuso completamente con la politica; ho capito ora più che mai quanto sia sporca; adesso – conclude Dimonopoli che è medico ospedaliero – devo concentrarmi a riconquistare la fiducia delle persone che mi stimano e dei miei pazienti». Naturalmente sia Minò che Dimonopoli restano indagati a piede libero e rischiano comunque il processo.
Nella decisione dei giudici del riesame ha avuto un buon risultato anche l’imprenditore manduriano Pietro Pedone, detenuto in carcere, che da ieri, difeso dall’avvocato Lorenzo Bullo, si è trasferito ai domiciliari nonostante le pesanti accuse di corruzione in associazione mafiosa di cui è accusato e i suoi numerosi precedenti penali. Confermate invece le misure detentive per i manduriani Luciano Carpentiere e Vito Mazza. Resta ai domiciliari anche il sindaco di Erchie, Giuseppe Margheriti mentre è libero l’ex suo vicesindaco, Domenico Margheriti. Il collegio difensivo di ieri era composto dagli avvocati Armando Pasanisi, Franz Pesare, Lorenzo Bullo, Nicola Marseglia, Raffaele Missere, Fabrizio Lamanna e Michele Iaia.
DI LECCE… Noemi una morte annunciata e le solite responsabilità.
Colpo di scena nell’omicidio di Noemi Durini, Lucio scrive al padre della ragazza, scrive il 17 aprile 2018 Elisabetta Francinella su "Velvetnews.it". Si riaccendono i riflettori sull’omicidio di Noemi Durini, la 16enne di Specchia brutalmente uccisa il 3 settembre del 2017. Il fidanzato, inizialmente reo confesso del delitto, ha cambiato nuovamente versione dei fatti puntando il dito contro suo padre. Umberto Durini, papà della giovane, lancia un appello per sapere la verità. Il fidanzato di Noemi Durini, il 18enne accusato di aver ucciso brutalmente la studentessa di Specchia di soli 16 anni il 3 settembre del 2017, ha cambiato nuovamente versione dei fatti, ma questa volta ha puntato il dito contro suo padre. In una missiva il giovane di Montesardo, che al momento dell’omicidio aveva soltanto 17 anni, ha confessato una nuova verità su quel tragico giorno. Cosa abbia rivelato nello specifico nella lettera non è ancora stato reso noto per tutelare le indagini, ma stando quanto emerso si è soffermato sul ruolo del padre nell’omicidio di Noemi Durini, il quale avrebbe preso parte nella fase di seppellimento del corpo della studentessa. Il giovane Lucio è stato ascoltato il 30 marzo scorso dalla pm Anna Carbonara della Procura dei Minori, davanti al suo avvocato difensore Luigi Rella. Per il momento gli inquirenti stanno cercando di verificare se quanto sostenuto nell’ultima missiva sia attendibile. Ospite de La Vita in Diretta è intervenuto in merito il papà di Noemi, Umberto Durini. Il padre della povera vittima ha rivelato ai microfoni del programma di Rai 1, nella puntata andata in onda il 16 aprile, di aver ricevuto una lettera dal carcere in cui si trova il fidanzato della figlia. “Ho ricevuto una lettera da Lucio, non dico molto in merito a quello che dice il testo ma posso solo citare le ultime righe”, afferma Umberto Durini aggiungendo: “Mi ha detto che io sono un padre per lui, mi ha detto che mi ha voluto bene, mi ha detto che amava Noemi”. Rivolgendosi direttamente al 18enne lancia un appello: “Prendi una decisione, fai qualcosa dopo quello che mi hai detto nella lettera. Io ti aiuterò, racconta tutto. Tuo padre ti abbandonerà come ha fatto in altre occasioni. Se davvero credi di avermi voluto bene, fai qualcosa e racconta tutta la verità. Insieme io e te possiamo avere giustizia per Noemi”. Quest’ultima versione dei fatti del fidanzato di Noemi Durini sembra assai discordante con le precedenti, specialmente con la prima avvenuta pochi giorni dopo l’omicidio di Noemi Durini, dove Lucio si assunse la piena responsabilità dei fatti dichiarandosi il solo responsabile del delitto. Nei mesi scorsi il giovane aveva ritrattato tutto, puntando il dito contro il meccanico di Patù Fausto Nicolì, iscritto per atto dovuto nel registro degli indagati.
Omicidio Noemi Durini, il padre: “Lucio mi ha scritto dal carcere”, nuovo colpo di scena, scrive Michela Becciu il 17 aprile 2018 su Urban Post. Omicidio Noemi Durini ultime notizie: ieri a La vita in diretta è intervenuto in diretta da Specchia Umberto Durini, il papà della 16enne assassinata lo scorso 3 settembre e per il cui delitto è in carcere il suo fidanzato (minorenne all’epoca dei fatti), Lucio Marzo. Il caso è tornato alla ribalta della cronaca poiché il giovane, recluso nel carcere minorile di Quartucciu (Cagliari), dopo avere inizialmente confessato il delitto ha, in due tempi, ritrattato parzialmente la sua versione dei fatti. In una prima lettera fatta recapitare ai magistrati attraverso la polizia penitenziaria, accusò infatti Fausto Nicolì di avere materialmente commesso il delitto (il 50enne meccanico di Patù è infatti indagato a piede libero come atto dovuto), lo scorso 30 marzo, però, Lucio ha rivelato una sua nuova verità dei fatti, chiamando in causa anche suo padre Biagio. Lucio ha in sostanza rivelato che suo padre lo avrebbe aiutato a seppellire il corpo della povera Noemi che – stando alle indiscrezioni emerse dalla autopsia sarebbe morta per asfissia, e sarebbe stata sepolta viva – ancora agonizzava quando le furono gettati addosso i massi che l’assassino ha trovato a portata di mano sul luogo del delitto, una zona di campagna a Castrignano del Capo. La sua nuova versione dei fatti è al vaglio della magistratura che, sebbene non ne siano ancora emerse le prove oggettive, dalla prima ora aveva ipotizzato che il ragazzo non poteva aver fatto tutto da solo, anche perché il corpo di Noemi sarebbe stato trascinato per diversi metri prima di essere sepolto dai massi.
Lucio: «Papà mi aiutò a seppellire Noemi», scrive Erasmo Marinazzo su Il Quotidiano di Puglia Sabato 14 Aprile 2018. E ora tira fuori ancora un’altra verità sulla fine della fidanzata Noemi Durini, 15 anni, di Specchia. E sostiene che il padre lo aiutò a seppellirla sotto ad un cumulo di pietre. Una verità che come le altre - almeno sette quelle raccontate finora da L.M., di Alessano, 17 anni all’epoca dell’arresto del 13 settembre dell’anno scorso - viene valutata dagli inquirenti attendendo gli esiti della perizia di tipo biologico, genetico e molecolare su tutti i reperti sequestrati. E tenendo conto anche delle conclusioni della perizia psichiatrica: «L.M. proietta su altri intenzioni ed azioni nel concreto agite da lui». Ed ancora: «Ha compreso il disvalore e l’abnormità del gesto commesso. Proprio per tale ragione egli ha avuto la rapida e perseverante premura di allontanare da se’ ogni possibile sospetto. E, dopo la confessione, ha più volte disorientato gli interlocutori verso alterne versioni dei fatti che, per quanto goffe, sono state organizzate secondo rappresentazioni per lui giuridicamente più favorevoli». Dunque, tanti e fondati i dubbi sulla possibilità che L.M. racconti cosa sia effettivamente accaduto. Non raccolse credibilità già la penultima versione della morte di Noemi: ad uccidere la sua fidanzata fu l’amico in comune F.N., 49 anni, di Patù, scrisse in una lettera il 5 gennaio scorso. L’uomo fu iscritto nel registro degli indagati e poco dopo venne interrogato in Procura alla presenza dell’avvocato difensore Luca Puce. Come atto dovuto, senza altro seguito. Ha preso invece un’altra piega, al momento, l’inchiesta della Procura ordinaria e della Procura per i minorenni sull’ultima versione riferita da L.M., anche questa volta con una corrispondenza: il giovane in regime di custodia cautelare per le accuse di omicidio volontario aggravato dalla premeditazione e dai futili motivi, nonché di occultamento di cadavere, è stato raggiunto a Bari per essere interrogato dai pubblici ministeri Donatina Buffelli Anna Carbonara, alla presenza degli avvocati difensori Luigi Rella e Paolo Pepe. Una procedura diversa da quella seguita per F.N., dunque. Perchè? Va ricordato che il padre di L.M. fu iscritto sul registro degli indagati per concorso in occultamento di cadavere (è difeso dagli avvocati Luigi Piccinni e Stefano De Francesco) quando il 13 settembre il ragazzo fece trovare il corpo di Noemi. Al netto di quello che ha detto la consulenza psichiatrica sulla tendenza di L.M. di cercare di allontanare da se’ il terribile peso di aver ucciso la ragazza per cui aveva perso la testa, l’inchiesta ha ancora la necessità di spazzare via alcune zone d’ombra. In particolare l’arma mai ritrovata, quel coltello di cui venne trovato un centimetro di punta nel cranio della ragazza. E cosa L.M. fece rientrando a casa dopo aver abbandonato il corpo di Noemi nelle campagne fra Santa Maria di Leuca e Castrignano del Capo. L.M. ha riferito che il padre lo avrebbe aiutato a ricoprire il corpo di Noemi di pietre. Il che - se fosse vero e la verità non è stata dimostrata ancora nemmeno a livello indiziario - renderebbe tutto più complicato per il genitore: la consulenza medico legale di Roberto Vaglio sostiene che Noemi fosse ancora viva quando finì sotto un cumulo di pietre. Respirava. Morì soffocata e non per le tante lesioni causate da colpi di pietra e pugni. Lo riferì lo stesso L.M. nel corso della perizia psichiatrica: «Quando sono andato via io, Noemi era viva. Lo so...diceva “che cogl...che cogl”, diceva. “Che mi hai fatto, che mi hai fatto”». Si cercano riscontri all’ultima variante di questa tragedia. Anche di tipo oggettivo: le analisi nel laboratorio dei carabinieri del Ris di Roma sui reperti. Fra i quali le unghie di Noemi, per verificare se nel tentativo di difendersi abbiano trattenuto brandelli di pelle e a chi, eventualmente, appartengano. Come pure sulle tracce di sangue trovate sulla Fiat 500 di L.M. e su tutto ciò che è stato sequestrato nella casa di famiglia.
Noemi Durini, il papà della 16enne di Specchia: “Lucio racconta la verità”. “Lucio, se davvero vuoi hai voluto bene a Noemi racconta la verità”: è questo l’appello che papà Umberto ha voluto lanciare ai microfoni della Vita in diretta. Il ragazzo gli avrebbe anche scritto una lettera dal carcere, scrive il 17 aprile 2018 "Lecce news 24". Rompe il silenzio in cui si era rifugiato in attesa di conoscere la verità, Umberto Durini che ai microfoni della trasmissione pomeridiana di Rai 1 “La Vita in diretta” ha voluto parlare della morte di Noemi e lanciare un appello a Lucio, rinchiuso nel carcere di Quartucciu: «Mia figlia forse era ancora viva quando è stata seppellita» ha dichiarato, ricordando gli ultimi dolorosi minuti di vita della 16enne di Specchia. Non più soltanto una paura: come ha confermato l’autopsia, la studentessa respirava ancora quando è stata ricoperta dalle pietre di un muretto a secco in quella campagna che per 10 giorni ha “nascosto” il corpo della 16enne agli occhi di chi la stava cercando. «Domenica sono stato nel luogo in cui hanno ritrovato mia figlia a Castrignano del Capo, nei massi ho visto tutta la crudeltà». «Se davvero hai voluto bene a mia figlia, come hai scritto nella lettera che mi hai inviato, racconta la verità e liberati da questo fardello» ha aggiunto papà Umberto che, fin da subito, ha puntato il dito contro il papà di Lucio, quel Biagio che su Facebook aveva definito “un cancro” il fidanzamento ufficiale dei due ragazzini condiviso sui social. In studio era presente anche il generale Luciano Garofano che, nel ruolo di consulente, ha assistito tutti gli accertamenti eseguiti dal maresciallo dei carabinieri del Ris di Roma, Vincenzo Verdoliva: «Sono emersi particolari scontati e altri sorprendenti, che potrebbero far luce sulla verità» ha dichiarato rispettando il segreto istruttorio. Le indagini vanno avanti, sul tavolo degli inquirenti c’è ora l’ultima versione fornita dal ragazzo di Montesardo che – questa volta – ha chiamato in causa il papà, lo ha accusato di averlo aiutato a seppellire il corpo di Noemi. Certo, il dubbio che il ragazzo non poteva aver fatto tutto da solo c’è stato da sempre. Il corpo della ragazzina è stato trascinato per diversi metri e ricoperto di pietre, ma al momento si tratta solo di parole, le ennesime di un ragazzo che fino a questo momento non ha mai saputo dire la verità.
Le verità di Lucio, un nuovo lungo interrogatorio per l’assassino di Noemi. L'ex fidanzato della 16enne di Specchia assassinata e abbandonata nelle campagne è stato sentito nel carcere minorile di Bari, scrive A.Mor. il 6 aprile 2018 su Lecce Prima. Un lungo interrogatorio alla presenza del suo legale, l’avvocato Luigi Rella, nel carcere minorile di Bari, per raccontare una nuova o più dettagliata versione sulla morte di Noemi Durini, la 16enne di Specchia assassinata e ritrovata nelle campagne di Castrignano del Capo a distanza di dieci giorni dalla scomparsa il 3 settembre scorso. Lucio, l’ex fidanzato della ragazza assassinata, è comparso nuovamente dinanzi agli inquirenti, ultimo capitolo di una lunga storia di morte e misteri. I due consulenti nominati dal gip del Tribunale per i minorenni hanno intanto stabilito che Lucio era capace di intendere e di volere al momento dei fatti e può sostenere il giudizio. Nel decreto di fermo il sostituto procuratore della Repubblica Anna Carbonara ha contestato l’omicidio premeditato, per aver provocato “la morte di Noemi prelevandola alle 4.51 dalla sua abitazione con la Fiat 500 di proprietà della sua famiglia e conducendola in aperta campagna colpendola con l’uso di corpi contundenti; con le aggravanti di aver commesso il fatto con premeditazione, per motivi abietti o futili e di aver agito con crudeltà”. Il 18enne ha dichiarato “di essersi immesso lungo uno strada che lo conduceva verso il centro abitato di Castrignano del Capo ma prima di arrivarvi, svoltava a sinistra lungo una strada sterrata. Qui dichiarava di essersi parcheggiato e, con la scusa che si sarebbero fumati una sigaretta, scendeva dall’auto insieme a Noemi con la quale si addentrava in un uliveto dove poi, approfittando di un momento propizio, colpendola con un coltello al collo, continuando a colpirla con delle pietre alla testa”. Poi si sarebbe allontanato “dal luogo dei fatti repentinamente con la propria autovettura disfacendosi del manico del coltello avvolto nella propria maglietta in un luogo che non ha saputo indicare”. L’autopsia ha stabilito che Noemi era ancora viva quando fu sepolta con dei sassi e abbandonata nelle campagne di Castrignano del Capo all’alba del 3 settembre. Il medico legale ha indicato come causa del decesso la morte per asfissia. Non furono dunque le lesioni al collo compatibili con delle ferite da arma da taglio, e alcune alla testa riconducibili all’utilizzo di un corpo contundente come una pietra, a uccidere Noemi, che fu lasciata agonizzante a morire nella terra.
NOEMI DURINI. La difesa di Lucio: "Voleva uccidere i miei genitori" (Quarto Grado). Noemi Durini, spunta un nuovo indagato, accusato dal fidanzato reo confesso: si tratta del 49enne Fausto Nicolì, amico di entrambi. Il padre di Lucio commenta la notizia, scrive il 19 gennaio 2018 Emanuela LOngo su Il Sussidiario. Durante la puntata di Quarto Grado in prima serata su Rete Quattro c'è stato ampio spazio per la retrospettiva sul caso dell'omicidio di Noemi Durini. E oltre alle accuse nei confronti di Fausto Nicolì, è stata ripercorsa anche la testimonianza di Lucio, il fidanzato della ragazza, che non ha mai fatto mistero del rapporto teso che c'era tra la sua famiglia e quella di Noemi. Tanto che a più riprese Lucio ha testimoniato riguardo al fatto che Noemi avesse voluto addirittura uccidere i suoi genitori. "L’ho uccisa perchè mi aveva chiesto di sterminare la mia famiglia, voleva che uccidessi i miei genitori." Questa d'altronde è sempre stata la versione di Lucio anche al momento dell'arresto, quando tutti i sospetti per l'assassinio di Noemi hanno finito per convergere su di lui. La testimonianza, trasmessa durante la puntata di venerdì sera di Quarto Grado, ha fatto emergere diverse incongruenze contestate anche dallo stesso Fausto Nicolì dopo le accuse ricevute a sua volta dalla famiglia di Lucio. (agg. di Fabio Belli)
"DEVO DIFENDERMI DA QUESTE BELVE". In attesa della nuova puntata di Quarto Grado, che oggi si occuperà del caso di Noemi Durini, la trasmissione Pomeriggio 5 ha trasmesso l'intervista a Fausto Nicolì, l'uomo indagato dopo le accuse rivolge dall'assassino reo confesso Lucio, fidanzatino della vittima. Quest'ultimo avrebbe accusato l'uomo non solo di aver ucciso Noemi ma anche di avere un giro di prostituzione. Fausto si è detto molto amareggiato ma allo stesso tempo "sollevato" in quanto i carabinieri ora potranno fare piena luce sulla sua posizione. Ai microfoni della trasmissione Mediaset, ha risposto anche alle accuse del padre di Lucio. Rispetto alle accuse di omicidio commenta: "Come tutte le sere, come sempre era a casa a dormire. Non c'è un granello di prova nei miei confronti né una motivazione per cui avrei dovuto farlo". C'è poi la seconda accusa, quella di favoreggiamento della prostituzione minorile: l'uomo ha ammesso di aver mandato solo pochi messaggi in un anno alla ragazza, in orari abbastanza accettabili, smentendo anche le parole del giovane secondo il quale era solito andare in casa sua. "Io mi devo difendere dalle accuse di queste belve", ha chiosato, riferendosi alla famiglia intera di Lucio. (Aggiornamento di Emanuela Longo)
FAUSTO NICOLI' REPLICA ALLE ACCUSE. Il giallo di Noemi Durini, la giovane salentina uccisa brutalmente lo scorso settembre potrebbe essere ancora molto lontano dalla sua soluzione. Nonostante la confessione del giovanissimo fidanzato, Lucio, il quale ha raccontato nel suo interrogatorio choc, passo dopo passo come avrebbe ucciso la ragazza e tentato poi di occultarne il cadavere, ora spunterebbe una novità incredibile. Potrebbe non essere stato da solo a commettere l'atroce delitto o, addirittura potrebbe essere stato qualcun'altro ad uccidere Noemi. Lucio ha infatti cambiato la sua versione accusando apertamente Fausto Nicolì, considerato "il responsabile morale" anche dal padre del 18enne in quanto sarebbe riuscito ad insinuarsi nella vita dei due ragazzi. Ora però, Fausto, anche alla luce delle nuove accuse, è stato iscritto nel registro degli indagati come atto dovuto, ma potrebbe esserci dell'altro. Secondo le novità emerse dal programma di Canale 5 condotto da Barbara d'Urso, l'uomo risulta essere oggi indagato per omicidio volontario e sfruttamento della prostituzione minorile. All'indomani dell'intervista ai genitori di Lucio, i quali hanno nuovamente parlato di Fausto dicendosi "assetati di verità", Fausto ha rilasciato una intervista al programma Pomeriggio 5 alla quale si è detto molto arrabbiato ed amareggiato. "Come rispondo alle accuse di omicidio? Come tutte le sere ero in casa a dormire", ha detto alle telecamere della trasmissione. (Aggiornamento di Emanuela Longo)
NOEMI DURINI, IL COLPO DI SCENA: NUOVO INDAGATO. Novità importanti nel caso di Noemi Durini, la sedicenne di Specchia, nel Salento, scomparsa misteriosamente il 3 settembre e rinvenuta 10 giorni dopo cadavere, massacrata e nascosta sotto un cumulo di pietre nelle campagne di Castrignano del Capo. Accusato del delitto, finora era stato il giovane Lucio M., fidanzatino all'epoca dei fatti ancora 17enne della vittima, secondo il quale avrebbe agito per impedire alla ragazza di uccidere i suoi genitori, come aveva promesso di fare. Ora però, ecco il colpo di scena: nonostante la precedente confessione, Lucio avrebbe tirato in ballo il nome di Fausto Nicolì, meccanico 49enne di Patù ed amico della coppia. Citato in una lettera inviata agli inquirenti, come spiega La Stampa, Lucio avrebbe accusato l'uomo di aver ucciso Noemi con un colpo di pistola. Per questo la procura di Lecce ha iscritto nel registro degli indagati come atto dovuto il nome del meccanico. A confermare la notizia all'AdnKronos nella giornata di ieri è stato l'avvocato difensore di Nicolì. A carico di quest'ultimo sarebbe già stata compiuta una perquisizione durante la quale sono stati prelevati soprattutto dei supporti informatici. Riparte da qui la nuova puntata della trasmissione Quarto Grado che, in attesa dell'interrogatorio a carico del meccanico seguirà da vicino la vicenda con gli ultimi importanti risvolti. Proprio Fausto Nicolì, in passato aveva già denunciato per calunnia Lucio in quanto durante un interrogatorio aveva accusato l'uomo di aver tentato di spingere Noemi ad uccidere i genitori del fidanzato, accuse confermate anche dal padre e dalla madre del ragazzo. L'avvocato Luca Puce, difensore di Nicolì, oltre a confermare che si tratti di un atto dovuto, ha spiegato che durante la perquisizione non sarebbe stato trovato nulla di rilevante. "Il mio assistito si è liberato, ora è più tranquillo e sollevato, come lo sono io. Ma è anche indignato per questa accusa infondata", ha aggiunto.
NOEMI DURINI: LE PAROLE DEL PADRE DI LUCIO (QUARTO GRADO). Nel frattempo, la trasmissione Pomeriggio 5 ha trasmesso nella puntata di ieri una doppia intervista al padre ed alla madre di Lucio, che hanno commentato le ultime novità sul delitto della povera Noemi Durini. Biagio, padre del giovane in carcere, è da sempre convinto che non tutta la verità su quanto accaduto sarebbe ancora emersa. "Ho avuto sempre dei dubbi che mio figlio avesse potuto fare tutto da solo", ha esordito il padre al programma di Canale 5. L'uomo ricorda di essere anche lui indagato in quanto gli inquirenti hanno sempre sostenuto che ci sia stato qualcuno insieme al figlio ed ora, alla luce della novità emersa, si è detto sollevato, confermando la sua estraneità rispetto alle accuse. Il padre in carcere avrebbe spronato Lucio a dire tutta la verità e di fronte alla possibilità che si sia autoaccusato del delitto di Noemi senza averlo commesso, Biagio ha commentato: "Può essere per svariati motivi, per paura della famiglia...”. "Il sospetto che ci fosse altro sotto l'ho sempre avuto ma non gli ho mai detto di fare dei nomi", ha aggiunto l'uomo intervistato. "Io ho sete vi verità io voglio sapere chi ha fatto cosa", ha aggiunto. Biagio ha poi svelato che suo figlio non starebbe affatto bene e che in dall'inizio Lucio lo avrebbe messo in guardia spronandolo a proteggere la sorella. "Ora riesco a spiegarmi quello che sta succedendo", ammette. "Lui mi ha detto che, una volta fuori dal carcere, la prima cosa che avrebbe fatto sarebbe stato uccidere Fausto. Io adesso ho capito per quale motivo", ha chiosato, riferendosi alle ultime novità in merito all'iscrizione nel registro degli indagati del 49enne.
Noemi, il fidanzato ritratta «L'ha uccisa il meccanico». L'assassino reo confesso ci ripensa e con una lettera del 3 gennaio consegnata alla Polizia penitenziaria accusa Fausto Nicolì, meccanico 48enne di Patù, coinvolto nella vicenda per fatti secondari, scrive il 14 Gennaio 2018 Francesco Oliva su La Gazzetta del Mezzogiorno. Una lettera per dichiarare la propria innocenza e accusare un amico di Noemi Durini dell’omicidio della fidanzata. L.M., assassino reo confesso della studentessa di Specchia, ci ripensa. Cambia le carte in tavola e in una missiva fornisce un’altra dinamica, un altro movente e, soprattutto, l’identità di un altro assassino. Ad uccidere la 16enne di Specchia sarebbe stato Fausto Nicolì, meccanico 48enne di Patù, già immischiato nella vicenda per fatti secondari. Ora, però, finisce al centro dell’indagine. L.M. ha consegnato la lettera ad un agente di polizia penitenziaria il 3 gennaio scorso nel carcere di Quartucciu dove si trova detenuto. La missiva è stata trasmessa alla Procura dei Minori di Lecce e allegata agli atti d’indagine. Nella lettera, il 18enne di Montesardo salentino racconta che quella sera (il 3 settembre, giorno della scomparsa della 16enne) si trovava con Noemi a Castrignano del Capo nel luogo in cui poi la giovane sarebbe stata uccisa. La coppia sarebbe stata raggiunta da una Seat Ibiza. Dall’auto sarebbe sceso Fausto Nicolì. L’uomo avrebbe consegnato alla ragazza una pistola, con la quale Noemi avrebbe voluto uccidere i genitori di L.M., secondo le dichiarazioni fornite dallo stesso giovane. A quel punto gli animi si sarebbe scaldati. Sarebbe nata una discussione culminata poi nella coltellata inferta da Nicolì al capo della vittima. Pronta la replica dell’avvocato di Nicolì, il legale Luca Puce: «Non avendo ancora una cognizione completa di quella che, a tutti gli effetti, appare come l’ennesima fantasiosa esternazione da parte di L.M., allo stato, qualsivoglia dichiarazione di intenti nell’interesse dell’assistito sarebbe prematura sebbene accuse così infamanti e impiantate sul nulla lascino basiti e, verosimilmente, non potranno non essere sottoposte, in chiave punitiva, all’autorità giudiziaria». Il contenuto della missiva ribalta le prove sinora acquisite dagli inquirenti che avevano raccolto la confessione dell’allora minorenne subito dopo il suo arresto quando L.M. raccontò di aver ucciso Noemi con un coltellata alla nuca. E di quel lungo interrogatorio, nella serata di venerdì, alcuni stralci sono stati mandati in onda dalla trasmissione televisiva «Quarto Grado». In un passaggio, L.M. si rivolge ai pm riferendo che la sua intenzione è quella di proseguire negli studi, diplomarsi, diventare elettrotecnico e trasferirsi con i suoi genitori a Milano. Dichiarazioni che non hanno comunque condizionato i periti della Procura e del Tribunale: nel loro elaborato, depositato di recente, il giovane è stato giudicato capace di intendere e di volere e in grado di affrontare un processo.
Noemi, il fidanzato prova a scaricare la colpa: "L'ho uccisa perché voleva sterminare la mia famiglia". Interrogatorio fiume nella notte: il 17enne sostiene che la vittima aveva con se un coltello e che lui avrebbe tentato di dissuaderla. Con quella stessa arma l'avrebbe uccisa. Trasferito in carcere, ha rischiato il linciaggio, scrive Chiara Spagnolo il 14 settembre 2017 su "La Repubblica". "L'ho ammazzata perché premeva per mettere in atto l'uccisione di tutta la mia famiglia": così avrebbe detto agli inquirenti, alla presenza del proprio legale, il 17enne sottoposto da mercoledì 13 settembre a fermo per l'omicidio volontario di Noemi Durini, la sedicenne di Specchia il cui cadavere è stato trovato, sepolto dalle pietre, a 11 giorni dalla sua scomparsa. Il ragazzo è stato ascoltato in un lungo interrogatorio terminato nella notte. Un interrogatorio in cui avrebbe cambiato versione più volte. Inizialmente sarebbe emersa la pista della gelosia: "Aveva troppi amici". Poi l'improvviso ribaltone. Il ragazzo avrebbe raggiunto alle 5 del mattino del 3 settembre scorso a casa della sedicenne: voleva cercare di dissuaderla a mettere in atto il piano che, forse, doveva essere attuato proprio in quella giornata. Il ragazzo ha anche detto che con sé Noemi, quando è uscita dalla sua abitazione, aveva un coltello, a dimostrazione - a suo avviso - della determinazione della giovane di portare avanti il progetto di eliminazione di chi ostacolava il loro amore. Con quello stesso coltello, lui l'avrebbe uccisa.
L'arresto. Il 17enne stato portato in carcere nella tarda serata di mercoledì 13 settembre L.M., il 17enne di Alessano che ha ucciso la fidanzata sedicenne Noemi Durini di Specchia - scomparsa da casa il 3 settembre - nascondendone il cadavere sotto un mucchio di sassi in una campagna vicino Santa Maria di Leuca. Quando è uscito dalla caserma di Specchia ha sfidato le decine di persone che lo attendevano con un ghigno e un gesto di saluto, rischiando che si trasformasse in realtà il linciaggio mediatico iniziato qualche ora prima su internet. Il ragazzo era in evidente stato di alterazione psichica, al termine dell'ennesimo interrogatorio, concluso con il fermo di polizia giudiziaria che dovrà essere convalidato dal gip nelle prossime ore. Le accuse contestate sono omicidio volontario e occultamento di cadavere, mentre il padre B.M. risponde di concorso in occultamento di cadavere. Secondo gli inquirenti avrebbe aiutato il figlio a nascondere il corpo o quantomeno le prove dell'avvenuto omicidio.
Il ritrovamento. E' stato proprio il diciassettenne a portare i carabinieri sul luogo in cui ha cercato di nascondere la fidanzata dopo averla uccisa: un fondo in località San Giuseppe di Castrignano del Capo, a una ventina di chilometri da Specchia. Il corpo era ricoperto da pietre scardinate da un muretto a secco... Noemi indossava i vestiti che aveva all'alba del 3 settembre: leggins neri, scarpe da ginnastica, una maglietta. Stando ai primi accertamenti, effettuati dai carabinieri delle investigazioni scientifiche, è plausibile che sia stata uccisa proprio nel luogo in cui è stato rinvenuto il cadavere. La zona mercoledì pomeriggio è diventata meta di un vero e proprio pellegrinaggio da parte dei familiari di Noemi, gli amici, tanti curiosi. Nella notte, vicino alla tomba improvvisata sono stati posti lumini e candele.
Le denunce della famiglia. I genitori di Noemi osteggiavano da tempo la relazione della figlia con L.M. Lui era considerato "un poco di buono" come ha riferito la nonna Vincenza Cacciatore, ma la ragazza non voleva ascoltare i consigli di chi le diceva di lasciarlo. Al contrario, più volte la sedicenne si era allontanata da casa insieme al fidanzato e su facebook continuava a pubblicare fotografie e dichiarazioni di amore. Di recente, però, sul social era comparso anche un post che lasciava intravedere un sottofondo di violenza in quella relazione che lei si sforzava di fare apparire normale. "Non è amore se ti picchia" recitava la poesia condivisa da una pagina molto frequentata dalle teen ager. A dimostrazione di una situazione difficile già da mesi ci sono anche le due denunce che la mamma di Noemi, Imma Rizzo, aveva presentato nei confronti del diciassettenne alla Procura dei minori di Lecce. Ne erano nati due procedimenti - uno penale per violenza privata, l'altro, civile, per verificare il contesto familiare in cui vive il giovane e se fossero in atto azioni o provvedimenti per porre fine alla sua indole violenta - ma nessuno dei due ha portato a provvedimenti cautelari. Una cautela che, alla luce di quello che è accaduto, viene letta come una sottovalutazione del problema da parte delle autorità preposte. Anche per questo motivo, il nonno materno Vito Rizzo ha puntato il dito contro chi avrebbe potuto fare qualcosa e non l'ha fatto. "Se fossero intervenuti per tempo non sarebbe successo - ha detto -. Ora ci aspettiamo che la legge faccia ciò che deve". A confermare la natura violenta del rapporto tra i due adolescenti, anche il cugino di Noemi, Davide, che ha raccontato di botte e lividi, spiegando che L.B. "non voleva che lei uscisse con nessuno e manifestava la sua gelosia anche in modo molto forte".
Il lutto. A Specchia, intanto, è stato proclamato il lutto cittadino. Il sindaco Rocco Pagliara ha manifestato la disponibilità dell'amministrazione a sostenere anche economicamente la famiglia Durini in questo momento particolare, mentre il parroco Don Tonino ha invitato la comunità a pregare affinché la famiglia possa trovare conforto nella fede. Mercoledì pomeriggio la casa di Noemi in via Madonna del Passo è stata meta cdi un continuo pellegrinaggio di parenti e amici, considerato che in un paese piccolo come Specchia tutti conoscevano la ragazzina o l'avevano frequentata. La mamma Imma, che ha appreso la notizia del ritrovamento del cadavere mentre stava per lanciare un appello per le ricerche in Prefettura a Lecce, si è sentita male ed è stata sottoposta a trattamenti sedativi. Poi si è rinchiusa in casa, da dove non è mai uscita per tutta la giornata di mercoledì. La sorella 22enne Benedetta, invece, ha fatto la spola con la casa dei parenti in cui è stata ospitata la sorellina di 9 anni, assistita da una psicologa, che ha cercato di evitare l'assalto mediatico, chiedendo rispetto per il dolore della famiglia. Benedetta - che il 28 ottobre dovrebbe laurearsi a Reggio Emilia - martedì ancora manifestava speranza: "Noemi tornerà e festeggeremo insieme", diceva. Ma, appresa la notizia della morte, si è lasciata andare alla rabbia: "Lo sapevate tutti e non avete fatto niente".
SVOLTA DOPO LA SCOMPARSA DELLA STUDENTESSA DI SPECCHIA. Scrive il 13 Settembre 2017 "La Gazzetta del Mezzogiorno". Ha rischiato il linciaggio il 17enne reo confesso dell’omicidio della sedicenne Noemi Durini quando, poco fa, è uscito dalla sede della stazione carabinieri di Specchia dove è stato ascoltato per molte ore alla presenza del proprio difensore e del procuratore capo del tribunale dei minori Maria Cristina Rizzo. All’uscita il giovane si è reso protagonista di atteggiamenti irriguardosi e di sfida alzando la mano destra in segno di saluto alla gente che gli fischiava contro e lo apostrofava. «L'ho ammazzata perché premeva per mettere in atto l’uccisione di tutta la mia famiglia": così avrebbe detto agli inquirenti, alla presenza del proprio legale, il 17enne sottoposto da ieri sera a fermo per l’omicidio volontario di Noemi Durini, la sedicenne di Castrignano del Capo il cui cadavere è stato trovato ieri, sepolto dalle pietre, a 11 giorni dalla sua scomparsa. Il ragazzo è stato ascoltato in un lungo interrogatorio terminato nella notte. L’avrebbe uccisa - ha raccontato il 17enne - con lo stesso coltello che Noemi aveva portato con sé. "Ho reagito - questo il racconto di Lucio - di fronte all’ ostinazione di Noemi a voler portare a termine il progetto dello sterminio della mia famiglia». «Ero innamoratissimo di lei": è questa una delle frasi che Lucio, il 17enne omicida reo confesso dell’omicidio di Noemi Durini avrebbe detto durante l'interrogatorio che si è svolto nella notte, alla presenza del suo difensore, nella stazione dei carabinieri di Specchia. «Dopo lo sterminio della mia famiglia volevamo fuggire a Milano». E’ uno dei passaggi fatti dal 17enne di Alessano reo confesso dell’omicidio della sedicenne di Specchia, Noemi Durini. Nell’interrogatorio che si è concluso nella notte il ragazzo ha raccontato agli investigatori del progetto di sterminio della sua famiglia che Noemi premeva fosse messo in atto per vivere liberamente il loro amore. Subito dopo l’uccisione dei componenti della famiglia di lui, i due - sempre secondo il racconto dell’omicida reo confesso - avrebbero progettato di fuggire a Milano e a prova di quanto da lui detto, il giovane ha affermato agli investigatori che avrebbero potuto trovare sotto il suo letto una lista di numeri di telefono di Milano, numeri di telefono di luoghi dove era possibile poter dormire.
«Vigile e cosciente della sua posizione». Così il procuratore per i minori di Lecce Maria Cristina Rizzo, presente all’interrogatorio terminato nella notte, ha definito il 17enne reo confesso dell’omicidio di Noemi Durini.
Noemi Durini era scomparsa da casa il 3 settembre scorso: l’ultima sua immagine è stata catturata da una telecamera di sorveglianza e risale alle 5 del mattino di quel giorno. Si vede una Fiat 500 bianca sulla quale sale e alla cui guida si trova il fidanzato 17enne che oggi, a 11 giorni dalla scomparsa della ragazzina, ha confessato l’omicidio. Nell’immagine si vede l’utilitaria arrivare e fermarsi in via San Nicola, a Specchia, a poche centinaia di metri da casa della giovane. A bordo ci sono i due fidanzati, con il 17enne al volante della vettura intestata alla madre. Agli inquirenti, per giorni, il 17enne, di Alessano, ha raccontato di aver accompagnato la sedicenne nei pressi del campo sportivo di Alessano e di averla lasciata lì. Ma la versione del ragazzo, sin dal primo momento, non ha convinto gli investigatori che hanno concentrato l’attenzione sul 17enne, un ragazzo dalla personalità violenta. E c'è un breve filmato che descrive bene il suo carattere: il 17enne è stato ripreso mentre rompe a colpi di sedia i vetri di una vecchia Nissan Micra parcheggiata per strada ad Alessano. L’auto sarebbe di una persona con la quale il giovane avrebbe avuto un acceso litigio e risalirebbe alla scorsa settimana, pochi giorni dopo la scomparsa di Noemi e poco tempo dopo un alterco avuto con il padre della sedicenne che si era recato ad Alessano per avere informazioni sulla figlia. I famigliari di Noemi avevano un rapporto conflittuale con il 17enne: non volevano che la sedicenne avesse una relazione con lui. Qualche tempo fa la mamma di Noemi aveva segnalato alla magistratura minorile il ragazzo a causa del suo comportamento violento. Per questo motivo erano sorti accesi contrasti tra le due famiglie. A far temere il peggio è stato il fatto che Noemi aveva lasciato a casa il cellulare, i documenti e i soldi. Numerosi gli appelli dei famigliari, soprattutto della nonna e della sorella di Noemi, Benedetta, che il 28 settembre deve laurearsi e che proprio ieri aveva detto ai giornalisti di essere ottimista: 'alla mia laurea - aveva detto - ci sarà anche leì. Invece oggi la confessione del ragazzo.
Il cadavere della sedicenne è stato trovato sotto dei massi, adagiato per terra, in una campagna, a Castrignano del Capo, a 30 chilometri da Specchia, il paese dove viveva la ragazza. A condurre gli investigatori sul posto è stato lo stesso ragazzo che è indagato per omicidio volontario assieme al papà 41enne. Sul luogo del ritrovamento del cadavere ci sono i magistrati della procura ordinaria e di quella dei minorenni che si stanno occupando del caso. I genitori della 16enne hanno appreso della confessione del 17enne mentre erano in prefettura a Lecce dove doveva cominciare una conferenza stampa alla quale dovevano partecipare. La mamma di Noemi è stata colta da malore ed è stato richiesto l’intervento di un’ambulanza. La ragazzina, come confermano i primi esami medico legali, è stata uccisa con una pietra il giorno della sua scomparsa. Per le ricerche di Noemi erano stati utilizzati anche i cani molecolari. Gli investigatori hanno cercato nei casolari abbandonati, negli inghiottitoi, nei pozzi e nelle grotte tra la cittadina in cui viveva la ragazzina, Specchia, il paesino in cui risiede il suo fidanzato 17enne, Alessano, fino al Capo di Leuca. I vigili del fuoco del Saf ieri si sono calati con un’autoscala nelle Vore di Barbarano, una voragine profonda circa 40 metri. Ma della ragazzina nessuna traccia. Da qui la decisione, di accelerare gli accertamenti iscrivendo, stamani, i nomi del 17enne e del padre di quest’ultimo indagato per sequestro di persona e occultamento di cadavere (l'ìnformazione di garanzia è stata notificata nel corso di una perquisizione nella sua abitazione). Il diciassette reo confesso dell’omicidio di Noemi Durini è in una caserma dei carabinieri dopo aver fatto trovare oggi, nelle campagne di Castrignano del Capo, il cadavere della fidanzata 16enne scomparsa il 3 settembre. Nei suoi confronti sarà emesso un provvedimento cautelare. Sul luogo in cui è stato trovato il corpo sono al lavoro i carabinieri del Ris per i rilievi di rito e i magistrati. La strada che porta al luogo di ritrovamento del cadavere è delimitata da un nastro rosso e nessuno può avvicinarsi. Anche i giornalisti sono tenuti a distanza. Qualche settimana fa il fidanzato 17enne e presunto assassino di Noemi Durini era stato denunciato alla Procura per i minorenni dalla mamma di Noemi, Imma Rizzo, a causa del suo carattere violento. La donna, che temeva per la sorte della figlia che da un anno frequentava il giovane, chiedeva ai magistrati di intervenire per far cessare il comportamento violento del ragazzo e per allontanarlo dalla figlia. Ne erano nati due procedimenti: uno penale per violenza privata, l’altro, civile, per verificare il contesto familiare in cui vive il giovane e se fossero in atto azioni o provvedimenti per porre fine alla sua indole violenta. Procedimenti - a quanto è dato sapere - che non hanno portato ad alcun provvedimento cautelare, come il divieto di avvicinarsi alla sedicenne, ma che sono stati attualizzati dalla Procura per i minorenni solo dopo la denuncia di scomparsa di Noemi. L’unica conseguenza che ha prodotto la denuncia della mamma della 16enne è stato un inasprimento dei rapporti tra le famiglie dei due fidanzati. Il fidanzato e presunto assassino di Noemi «era possessivo e geloso, non voleva che mia cugina vedesse altre persone, la picchiava». Lo dice Davide, cugino di Noemi, la sedicenne scomparsa il 3 settembre da Specchia il cui cadavere è stato trovato oggi nelle campagne di Castrignano del Capo dopo la confessione del 17enne. "Noemi, assieme ai genitori, era andata anche in caserma per denunciare le aggressioni subite dal diciassettenne, e aveva ancora i segni della violenza sul volto - racconta il giovane -, ma non è stato fatto nulla».
L’abitazione a Specchia in cui viveva Noemi Durini, la ragazza di 16 anni scomparsa il 3 settembre scorso il cui cadavere è stato trovato oggi dopo che il fidanzato 17 enne ha confessato di averla uccisa, è presidiata a distanza dai carabinieri e da alcuni amici della famiglia. Nessuno dei parenti della ragazza ha voglia di parlare ed è stato chiesto alle forze dell’ordine di evitare riprese per tutelare la privacy. Dal portone di casa di Noemi entrano ed escono parenti e amici della ragazza in un clima di grande tristezza che traspare dai volti della gente. La strada - via Madonna del Passo - è stata parzialmente transennata proprio per rispettare il dolore dei famigliari della ragazza. «Sono sgomento. È una tragedia difficile da metabolizzare": lo ha detto il sindaco di Specchia, Rocco Pagliara, commentando il ritrovamento del cadavere della sedicenne Noemi Durini, il cui omicidio è stato confessato dal fidanzato 17enne. Il primo cittadino poco fa è entrato nell’abitazione in cui la sedicenne uccisa viveva con la sorella Benedetta e la madre, che è separata dal padre, per portare il cordoglio di tutta la comunità locale, ma non ha potuto parlare con la madre della ragazza perché la donna stava riposando, prostrata dal dolore. Il sindaco ha intanto proclamato da subito il lutto cittadino, che ovviamente si protrarrà sino al giorno dei funerali di Noemi. «Ci abbiamo creduto sino alla fine - ha detto ancora il sindaco - abbiamo lavorato dal primo momento sperando nella buona notizia, abbiamo chiesto ai media di tenere i riflettori accesi sulla vicenda. Poi stamani il prefetto ci ha dato la terribile notizia». Il sindaco ha riferito che domani alle 17 incontrerà il parroco di Specchia per concordare iniziative di sostegno alla famiglia di Noemi, mentre il Comune sta pensando di accollarsi le spese del funerale della sedicenne.
«L'ho vista per l’ultima volta il sabato precedente alla scomparsa - dice singhiozzando il nonno, Vito - era tranquilla». L'uomo piange quasi costantemente, cerca di darsi forza appoggiandosi al muro di un’abitazione, a pochi metri da quella della sua nipote, e fuma nervosamente un piccolo sigaro. A chi gli mette una mano sulla spalla per consolarlo, lui risponde: "La forza prima o poi se ne va». Scuote la testa quando gli si dice che la mamma di Noemi aveva denunciato per due volte per violenze il fidanzato di sua nipote. «L'ho visto solo una volta" ricorda, forse pensando se avrebbe mai potuto fermarlo. Un ragazzo che sarebbe stato tradito - contrariamente a quanto si era saputo inizialmente - anche da alcune tracce ematiche trovate nell’auto da lui guidata e lasciate probabilmente dopo il delitto, nonostante una presunta opera di pulizia delle stesse tracce.
Un ragazzo violento. A 17 anni era già in cura al Sert per uso di droghe leggere, aveva subito tre trattamenti sanitari obbligatori in un anno e aveva qualche guaio con la giustizia. Pur non avendo la patente, guidava regolarmente la Fiat 500 della mamma, fatto di cui si vantava con gli amici. Non riusciva a controllarsi, era irascibile con tutti, anche con la sua fidanzata, una studentessa ribelle e innamoratissima di lui, tanto da assecondarlo ogni volta, anche se il ragazzo la picchiava perché geloso e possessivo. E’ questo il ritratto che gli investigatori fanno sulla personalità del fidanzato di Noemi Durini, che oggi ha confessato il delitto della sedicenne scomparsa da Specchia all’alba del 3 settembre. Ciò che descrive meglio la personalità del giovane è un breve video, acquisito dai carabinieri, nel quale il 17enne, la scorsa settimana, è stato ripreso con un cellulare da un automobilista mentre rompe a colpi di sedia i vetri di una vecchia Nissan Micra parcheggiata per strada ad Alessano. L’auto sarebbe di una persona con la quale il giovane avrebbe avuto un acceso litigio pochi giorni dopo la scomparsa della minorenne e poco tempo dopo un alterco avuto con il padre di Noemi che si era recato ad Alessano, città in cui vive la famiglia del 17enne, per avere notizie sulla figlia. Ma c'è di più. Qualche settimana fa il ragazzo era stato denunciato alla Procura per i minorenni dalla mamma di Noemi, Imma Rizzo. La donna chiedeva ai magistrati di intervenire per far cessare il comportamento violento del ragazzo e per allontanarlo dalla figlia, che frequentava con qualche difficoltà l’istituto professionale 'Don Tonino Bellò di Alessano. Il fidanzato «era possessivo e geloso, non voleva che mia cugina vedesse altre persone, la picchiava», racconta Davide, cugino della vittima. L'unica conseguenza che ha prodotto la denuncia della mamma della 16enne è stato un inasprimento dei rapporti tra le famiglie dei due fidanzati. Forse a causa delle violenze subite la ragazzina, il 23 agosto, aveva condiviso di Facebook il post di Amor De Lejos, Amor De Pendejos in cui si vede il volto emaciato di una ragazza alla quale la mano di un giovane imbavaglia la bocca. Sul polso del ragazzo c'è un tatuaggio con la scritta 'Love?'. "Non è amore se ti fa male. Non è amore - è scritto - se ti controlla. Non è amore se ti fa paura di essere ciò che sei. Non è amore, se ti picchia. Non è amore se ti umilia (...). Il nome è abuso. E tu meriti l’amore. Molto amore. C'è vita fuori da una relazione abusiva. Fidati!». Ma Noemi non si è fidata, ha voluto rischiare. All’alba del 3 settembre è uscita da casa per incontrare il fidanzato, forse dopo una telefonata, ed è stata uccisa. E pensare che un mese fa, il 12 agosto, i due avevano festeggiato il loro primo anno di fidanzamento. Noemi aveva scritto su Fb: «E non stupitevi se siamo ancora qua, abbiamo detto per sempre e per sempre sarà!».
Noemi: dopo ore d’interrogatorio, il fidanzato “saluta” la folla e lascia la caserma. Esplode la rabbia, scrive TRNews il 14 settembre 2017. Pochi minuti dopo la mezzanotte, il fidanzato di Noemi ha lasciato la caserma dei carabinieri di Specchia. Fuori, ad attenderlo, diversi cittadini pieni di rabbia e rancore. Inutile commentare le urla e le parole di disprezzo contro il ragazzino, che proprio nella tarda mattinata di mercoledì 13 settembre ha confessato l’omicidio della 16enne, indicando agli inquirenti il luogo in cui si è verificata la tragedia e dove nelle scorse ore è stato recuperato il cadavere: all’interno di una campagna di Castrignano del Capo, in una fossa ricoperta da sassi, a ridosso di un muretto. I carabinieri hanno cercato di calmare i cittadini, chiamando anche alcuni rinforzi davanti all’ingresso. Poi, dieci minuti dopo la mezzanotte si è aperta la porta e lui, con una felpa bianca e cappuccio, “ha salutato”, ha sorriso alla folla e subito dopo è salito in fretta e furia sull’auto della pattuglia, tra le urla di disprezzo e rabbia di un’intera comunità che ora chiede solo giustizia.
La 16enne ammazzata a colpi di pietra. Il procuratore: “lui aveva problemi psichici”, scrive TrNews il 13 settembre 2017. Un cumulo di pietre, ai piedi di un muretto a secco, è stata la tomba di Noemi per dieci giorni. Il suo corpo è stato portato via da pochi minuti, intorno alle 17, dopo ore estenuanti per poter tirarlo via e ricomporlo degnamente, prima di trasferirlo nella camera mortuaria del Vito Fazzi per l’autopsia. Sul posto, in un oliveto a due passi dal mare di Leuca, resta lo sgomento. La Scientifica ha effettuato i rilievi, ma la calca è tanta e oltre ai giornalisti ci sono tanti, troppi curiosi. Quel che appare certo è che la 16enne di Specchia sia stata uccisa qui, a colpi di pietra, e trascinata sotto al muro, coperta da vari massi. Era visibile solo il suo piede. Lo stato in cui il cadavere è stato ritrovato è compatibile con un decesso avvenuto dieci giorni fa. Il luogo è stato indicato dallo stesso fidanzato, durante la confessione resa ai carabinieri. Non si conosce ancora il movente, probabilmente gelosia, non si sa se all’alba di quella domenica 3 settembre, dopo averla presa da casa con la 500 bianca, lui – che da minorenne non poteva neppure guidare – l’abbia portata qui per cercare un po’ di intimità o per provare ad avere un chiarimento o se fosse già nelle sue intenzioni scegliere questo luogo per arrivare al peggio. Se sia stato un delitto premeditato o d’impeto saranno le indagini a dirlo. Ma è sicuro che il fidanzato di Noemi dei problemi li aveva già. “Problemi psichici documentati”, come ribadito dal procuratore capo Leonardo Leone De Castris, sul posto assieme alla dottoressa Maria Cristina Rizzo della Procura dei Minori. Il dolore è tanto. Nei campi arriva anche il sindaco di Castrignano del Capo, Santo Papa, commosso ed esterefatto: “sono qui per portare la mia solidarietà alla famiglia e alla comunità di Specchia”, dice. Il cerchio si era stretto sin da subito attorno al 17enne di Montesardo. Il pressing di questi giorni lo ha portato a confessare un delitto in cui nessuno, inizialmente, pensava si potesse tramutare l’ipotesi di una fuitina tra fidanzati.
Noemi, il giorno più buio. Il fidanzato confessa: “L’ho uccisa io”, scrive il 13 settembre 2017 TRNews". “Mi dispiace comunicarvi una triste notizia: è stato trovato il corpo senza vita di Noemi”. Con queste parole ha inizio una terribile giornata, quella che nessuno avrebbe mai voluto vivere. A pochi minuti dalla notizia dell’iscrizione nel registro degli indagati del fidanzato di Noemi, con l’accusa di omicidio volontario, ecco giungere la sua confessione del luogo in cui era stata uccisa e sepolta. Una confessione che ha fatto saltare anche la conferenza stampa con la famiglia e che ha fatto calare un triste sipario, dopo 10 giorni di ansia e attesa. Inutile commentare il malore della mamma di Noemi dopo aver appreso la notizia, che ha portato in una folle corsa sul luogo del ritrovamento: a Castrignano del Capo, in una campagna, in località San Giuseppe. Sul posto vigili del fuoco, 118, protezione civile, i Ris, i Saf, mentre a pochi passi tantissima gente, amici e parenti si sono radunati tra abbracci, lacrime e tanta rabbia. Alle 17.00 le nostre telecamere sono riuscite ad avvicinarsi sul posto dove Noemi è stata uccisa e poi sepolta in una fossa, coperta da pietre, a ridosso di un muretto a secco. La morte risalirebbe al giorno stesso in cui la ragazza è scomparsa da Specchia: domenica 3 settembre. Poco dopo, in un rispettoso silenzio, il corpo della 16enne è stato prelevato e portato via su un carro funebre a margine di una giornata ancora piena di punti interrogativi e con un’unica certezza: Noemi non c’è più.
Il 17enne in caserma per tutto il giorno, indagato anche il padre, scrive il 13 settembre 2017 "TrNews". Il fidanzato di Noemi è stato trattenuto in caserma, a Specchia, per tutto il giorno, dopo la confessione che ha permesso ai carabinieri della locale stazione di ritrovare il corpo. È indagato per omicidio volontario e occultamento di cadavere. E un avviso di garanzia per sequestro di persona e occultamento di cadavere è stato notificato anche al papà del 17enne assassino reo confesso. L’atto, dovuto, gli è stato notificato in occasione della perquisizione nell’abitazione di famiglia a Montesardo, frazione di Alessano. Stamattina, invece, si era invece appreso che il papà del 17enne era sottoposto ad indagini per omicidio volontario in concorso con il figlio. Qualche settimana fa, il 17enne era stato denunciato alla Procura per i minorenni dalla mamma della vittima, Imma Rizzo, a causa del suo carattere violento. La donna chiedeva ai magistrati di intervenire per far cessare il comportamento violento del ragazzo e per allontanarlo dalla figlia. Da lì sono scaturiti due procedimenti: uno penale per violenza privata, l’altro, civile, per verificare il contesto familiare in cui vive il giovane e se fossero in atto azioni o provvedimenti per porre fine alla sua indole violenta. Procedimenti – a quanto è dato sapere – che non hanno portato ad alcun provvedimento cautelare, come il divieto di avvicinarsi alla sedicenne, ma che sono stati attualizzati dalla Procura per i minorenni solo dopo la denuncia di scomparsa di Noemi. L’unica conseguenza che ha prodotto la denuncia della mamma della 16enne è stato un inasprimento dei rapporti tra le famiglie dei due fidanzati.
Lo strazio della mamma di Noemi, lapidata a 16 anni dal fidanzato. «Hanno portato via la mia pazzarella», scrive Francesco Sozzo, Giovedì 14 Settembre 2017, su “Il Mattino”. «Hanno ritrovato Noemi. Morta». Imma non regge. Grida e crolla in uno dei saloni della Prefettura di Lecce, mentre aspettava di partecipare ad una conferenza stampa convocata dalla famiglia e dal legale, Mario Blandolino per fare l'ennesimo appello alla figlia. Ma era morta. «Lo sapevate, lo sapevate tutti che lui l'aveva ammazzata». Non si dà pace mamma Imma Rizzo. Aveva provato in ogni modo a convincere sua figlia Noemi,16 anni, che era meglio lasciarlo perdere quel ragazzino che l'amava in maniera così morbosa. Che non voleva uscisse con altri, che frequentasse gli amici, soprattutto che la picchiava. Perché mamma Imma prima dell'estate aveva provato anche a denunciarlo L.M., il fidanzatino-assassino. Ma senza risultati. La pazzareddha de casa, la chiamava mamma Imma, ovvero la pazzerella di casa. Purtroppo non ha potuto mandare il messaggio alla sua figlia. In tarda mattinata la Procura ha avvisato il prefetto Claudio Palomba: il fidanzato della giovane ha confessato. L'ha uccisa lui. E ha fatto trovare il corpo. Era in Prefettura mamma Imma, insieme con la sorella maggiore di Noemi, Benedetta, quando ha saputo che non c'era più nulla da fare. Da lì a poco l'arrivo, a sirene spiegate, di un'ambulanza nel cortile della Prefettura. Imma non ha retto alla notizia. «Ha avuto una forte reazione emotiva», si è limitato a dire il prefetto di Lecce. Al riparo dei fotografi, in uno dei saloni della Prefettura, Imma si è disperata, ce l'aveva con tutto il mondo, con la famiglia del fidanzato, con lo stesso ragazzo. Non si dava pace, diceva che forse si sarebbe dovuti intervenire prima. «Se l'avessimo cercata prima...», continuava a dire. A gridare la rabbia, furibonda, incontenibile, invece è stata la cugina di Noemi, Alma Morciano. Arrivata sul posto, in mezzo a centinaia di curiosi che pian piano hanno intasato la provinciale, Alma ha urlato: «Lo sapevate tutti». A fermarla il padre, che l'ha abbracciata stretta, quasi per non farla muovere, per cercare di calmarla. Ma Alma non si è data pace: «Vi ammazzo tutti», ha gridato piangendo. Intanto a Specchia la protezione civile e i carabinieri hanno provveduto a limitare l'accesso alla gente in via Madonna del Passo dove vivono la mamma, la sorella e i nonni di Noemi. In strada, appoggiato ad un muro, jeans e camicia a quadri, c'è nonno Vito. Capelli bianchi, occhi azzurri, viso rigato dal sole e dalle lacrime: «Chi è stato a compiere tutto questo è un bastardo e un animale che non capisce niente». Imma non nascondeva la sua contrarietà alla relazione che Noemi aveva con il 17enne di Montesardo. In cuor suo sperava che la storia finisse. Da mamma sapeva che quello non poteva essere amore. Era una relazione malata dalla quale non è riuscita a difendere la figlia Immediato l'intervento dei medici del 118, arrivati in Prefettura per assisterla. Imma è in casa con il suo dolore e con quella speranza ormai infranta. Aveva lottato, era convinta di poter ritrovare Noemi sana e salva. Invece così non è stato. A portargliela via, quell'amore adolescenziale troppo malato.
Noemi poteva essere ancora viva, il ragazzo poteva essere fermato prima, scrive il 14 settembre 2017 "La voce di Venezia". Noemi potrebbe essere oggi ancora viva, se “Qualcuno avesse fatto qualcosa”. Questa la sensazione che trapela dal dolore il giorno dopo la scoperta della tragedia. La casa di Noemi, alla fine di un vicolo che porta al numero 73 di via Madonna del Passo, nel borgo antico di Specchia, è presidiata a distanza dai carabinieri. Niente telecamere, accesso consentito solo a parenti e amici della sedicenne uccisa dal fidanzato 17enne la cui relazione era mal vista dalla famiglia della ragazza, tanto che la madre di lei aveva denunciato per due volte il ragazzo accusandolo di picchiare la sedicenne. Noemi ha vissuto qui fino al 3 settembre scorso, giorno della sua scomparsa e probabilmente della sua morte, viveva con la madre, Imma Rizzo, con la sorella maggiore Benedetta, prossima laureanda, e la sorellina di 9 anni. “L’ho vista per l’ultima volta il sabato precedente alla scomparsa – dice singhiozzando il nonno, Vito – era tranquilla”. L’uomo piange quasi costantemente, cerca di darsi forza appoggiandosi al muro di un’abitazione, a pochi metri da quella della sua nipote, e fuma nervosamente un piccolo sigaro. A chi gli mette una mano sulla spalla per consolarlo, lui risponde: “La forza prima o poi se ne va”. Scuote la testa quando gli si dice che la mamma di Noemi aveva denunciato per due volte per violenze il fidanzato di sua nipote. “L’ho visto solo una volta” ricorda, forse pensando se avrebbe mai potuto fermarlo. Un ragazzo che sarebbe stato ‘tradito’ – contrariamente a quanto si era saputo inizialmente – anche da alcune tracce di sangue trovate nell’auto da lui guidata e lasciate probabilmente dopo il delitto, nonostante una presunta opera di ‘pulizia’ delle stesse tracce. In via Madonna del Passo, transennata per 200 metri per rispettare il dolore della famiglia di Noemi, oggi si parlava a bassa voce, si camminava a testa bassa e c’era chi, passando a piedi, rivolgeva uno sguardo furtivo a quel vicolo, ma probabilmente avrebbe voluto abbracciare chi sta vivendo momenti terribili dietro quelle mura. “Sono sgomento, è una tragedia difficile da metabolizzare” dice il sindaco di Specchia, Rocco Pagliara, pensando a come improvvisamente il suo paese di sole cinquemila anime sia finito sotto i riflettori. Pagliara è appena uscito da casa di Noemi, ma non ha potuto parlare con la madre della ragazza. In quei frangenti stava riposando, spiega, la donna è distrutta dal dolore. “Ci abbiamo creduto fino all’ultimo di trovarla viva – ripete – abbiamo cercato subito di far coordinare le ricerche e chiesto ai media di non spegnere mai i riflettori sulla scomparsa di Noemi. Poi stamani il prefetto ci ha dato la notizia che non avremmo mai voluto sentire ed è crollato tutto”. Il fidanzato e presunto assassino di Noemi “era possessivo e geloso, non voleva che mia cugina vedesse altre persone, la picchiava”, racconta Davide, cugino della sedicenne. “Noemi, assieme ai genitori, – continua il ragazzo – era andata anche in caserma per denunciare le aggressioni subite dal diciassettenne, e aveva ancora i segni della violenza sul volto – racconta il giovane -, ma non è stato fatto nulla”. A Specchia già da oggi è stato proclamato il lutto cittadino, che proseguirà fino al giorno dei funerali di Noemi, di cui il Comune dovrebbe accollarsi l’onere. Domani il sindaco incontrerà il parroco del paese per concordare iniziative concrete dell’intera comunità locale a sostegno della famiglia della ragazza. Specchia non vuole dimenticare, ma ripartire da una tragedia senza precedenti. Noemi Durini, ira dei familiari: autorità sapevano ma non hanno fatto niente.
Nonostante la denuncia per violenze della madre della 16enne uccisa, la Procura dei minori non ha mai emesso misure cautelari nei confronti del fidanzato reo confesso, scrive Tgcom il 14 settembre 2017. "Tutti sapevano e nessuno ha fatto niente". E' l'urlo lanciato, in prefettura a Lecce, dalla sorella maggiore di Noemi Durini dopo la confessione del fidanzato killer. E ora ci si chiede come mai le autorità non siano intervenute prima allontanando il 17enne quando era ancora possibile. Era risaputo che il giovane avesse comportamenti violenti nei confronti della ragazza. Le violenze erano state denunciate dalla madre di Noemi alla Procura dei minori. Ne erano nati due procedimenti: uno penale per violenza privata, l'altro, civile, per verificare il contesto familiare. Ma, nonostante questo, nessun divieto di avvicinamento era stato attivato dalla Procura dei minori che ha attualizzato il provvedimento cautelare solo dopo la denuncia della scomparsa. La rabbia della famiglia - "La picchiava. Era possessivo e geloso, non voleva che mia cugina vedesse altre persone, la picchiava", afferma il cugino della vittima. "Noemi, assieme ai genitori, era andata anche in caserma per denunciare le aggressioni subite e aveva ancora i segni della violenza sul volto – racconta il giovane – ma non è stato fatto nulla". "Bisognava intervenire, allontanarlo prima e affidarlo a una casa di cura ma la legge comanda, fa quello che vuole", ha detto da parte sua il nonno.
La tragedia di Noemi, le denunce nel vuoto e un ragazzo-uomo sbagliato, scrive il 13 Settembre 2017 "Piazza Salento". Il ragazzo era stato soggetto a diversi trattamenti sanitari obbligatori; era stato denunciato dalla madre di lei per gli atteggiamenti violenti e con la richiesta di allontanarlo; si erano avviati due procedimenti, uno penale per violenza privata, l’altro civile per vedere se ci fossero programmi o interventi per curare l’indole del 17enne L.M.. Niente. Non era accaduto niente, nessun provvedimento cautelare a difesa di Noemi Durini, visti anche i rapporti di carabinieri e servizi sociali sulla situazione. Solo alla notizia della scomparsa della ragazza, La Procura per i minori aveva preso in mano il fascicolo. L’unica conseguenza pratica alla denuncia di Emma Rizzo era stato un inasprimento dei rapporti, già molto tesi, tra le due famiglie. Quella del 17enne non vedeva di buon occhio quel rapporto con una 16enne giudicata troppo indipendente e libera; quella della 16enne messa in guardia tra l’altro dai segni delle violenze subite dalla propria congiunta. Come faceva un 17enne a guidare la macchina in un paese in cui tutti si conoscono e sanno che non aveva l’età? L’aveva presa di nascosto dalla madre, come nell’alba del 3 settembre, per l’ultimo definitivo viaggio con lei? Noemi esce di casa alla chiamata giunta al cellulare, esce senza portare niente con sé, evidentemente convinta di dover sostenere l’ennesimo litigio – forse perché non aveva voluto uscire in quel sabato – e poi di poter tornare in casa. Tra i due le grandini di foto da innamorati folli si susseguono ad abissi di divieti e scontri. Lei si va convincendo, sostenta dalle amiche del cuore, che non si può andare avanti così. Il 12 agosto su Facebook pubblica risvolti drammatici di questa relazione: “Non è amore se ti fa male, se ti controlla, se ti picchia, se ti umilia, se si fa paura, se ti proibisce di indossare i vestiti che ti piacciono, se ti impedisce di studiare o di lavorare, se ti tradisce, se ti fa sentire piccola, stupida, pazza…”. Se ne sta convincendo ma non è ancora pronta a troncare. I suoi familiari lo vorrebbero. Quando scoprono il letto vuoto la mattina di domenica sanno già cosa pensare. Quando il padre si reca ad Alessano per incontrare il giovane e chiedere notizie l’alterco è dietro l’angolo ed infatti scoppia. Uno dei tanti degli ultimi mesi. Ma ormai poco importa quanto poteva succedere – se magari ci fossero state risposte più tempestive da parte delle autorità chiamate in causa – e non è stato. “La legge…la legge fa quello che vuole, dice quello che vuole …” commenta amaro il nonno di Noemi in una dichiarazione a Telenorba. Certo non gli interessa che adesso siano arrivati tre magistrati (il Procuratore capo, il magistrato della Procura ordinaria e quello dei Minori). Però spera nella giustizia: “Il lavoro non lo ha fatto da solo”, ripete convinto. Il riferimento logico sembra essere al padre di lui, sotto inchiesta per il momento. Quel corpo trasportato in una stradina che collega Castrignano del Capo a Leuca e poi nascosto alla meglio sotto un cumulo di pietre potrebbe aver richiesto l’aiuto di qualcuno per arrivare lì dove lo hanno trovato. “C’è chi nasce e chi muore, io da morto sono rinato” ha scritto pochi giorni fa nella rete social il giovane. E ancora. “Ho smesso di affezionarmi alle persone, tanto o ti lasciano o ti tradiscono”. A seguire un grande adesivo al gruppo Truceklan, rapper romani particolarmente violenti. Non stava bene l’omicida e non da ora. E non solo perché pensava di essere il padrone di una donna. Omicidio volontario e occultamento di cadavere sono i reati di cui dovrà rispondere, lui che voleva entrare nel mondo dei grandi dalla parte più sbagliata. “Ora che so per certo che quello che ho visto e pensato è la causa di tutto questo – scrive una amica della vittima – non posso far altro che ricordare i momenti trascorsi con te… quando mi chiamavi e mi chiedevi aiuto, ti vedevo distrutta, ti dicevo di lasciarlo… ma non ne hai avuto modo”. Il luogo dove ha giaciuto per dieci giorni Noemi adesso ha qualche cero e mazzi di fiori. Una cosa normale, in questi casi, per una vita che ha preso alla fine un’altra strada.
Quell’amore controverso e i retroscena su fb. Il padre di lui: “un cancro”, scrive il 13 settembre 2017 Trnews. Se di amore si può parlare, quello tra Noemi Durini e Lucio di sano sembra proprio non aver avuto nulla. Un rapporto che non poteva certamente godere della benedizione della famiglia di lei, che più volte aveva visto rientrare a casa la figlia con segni di violenza sul corpo, stando alla denuncia sporta dalla madre. Ma i retroscena viaggiano in rete, e riguardano anche il padre di lui: lo scorso 11 agosto Noemi aggiorna lo stato sentimentale sul suo profilo fb da “single” in “fidanzata ufficialmente”. Il padre di Lucio è il primo a commentare: “un cancro” scrive. A tenere in vita in legame dunque, tra un tira e molla e l’altro, erano solo i due giovani protagonisti di una storia che è culminata in tragedia. Lo scorso 12 agosto Noemi pubblica sul suo profilo un photo collage di lei e Lucio insieme in più occasioni: si abbracciano, si baciano, sorridono all’obiettivo. “E non stupitevi se siamo ancora qui -scrive Noemi- abbiamo detto per sempre, e per sempre sarà”. Lei che il suo Lucio “non lo avrebbe dato neanche se lo avesse avuto doppio” così come scrive in uno dei tanti post dedicati a lui. Il “per sempre” però non manca neanche nei post di lui: “andiamo via” cita la sua immagine di copertina, e poi “ho bisogno di te” scrive. Ma in quelle stesse pagine tante ombre: Noemi, più volte, condivide post e citazioni sull’amore violento, “quello che lascia lividi e cicatrici e che in realtà amore non è”. Intanto lui racconta, sempre a mezzo post, di quella fiducia persa nelle persone: “ho smesso di affezionarmi -scrive lo scorso 9 agosto- tanto o ti abbandonano o ti tradiscono”. I due profili, poco dopo la confessione e il ritrovamento del cadavere di Noemi, si trasformano nuovamente: il sole e la luna. Sulla bacheca fb di lei tantissime le immagini e le dediche. Amici, compaesani, compagni di scuola: “ti ricorderemo così: felice spensierata -scrivono- un angelo strappato via troppo presto dalla violenza, rifugio degli incapaci”. Sulla bacheca di lui, invece, va in scena il linciaggio di chi ancora non si spiega come abbia potuto un 17enne uccidere e tacere tanto a lungo proprio lei, Noemi, che per lui la vita l’avrebbe data, ma certamente non così. E.Fio
Chi l’ha visto, i genitori del fidanzato di Noemi Durini scoprono in tv che il figlio ha confessato. Una delle scene più brutali della tv italiana: Chi l'ha visto? ha mandato in onda l'intervista in cui il padre di Lucio, Biagio Marzo, faceva pesanti insinuazioni nei confronti di Noemi Durini e la dipingeva come una poco di buono. Poi la notizia, scrive "Next Quotidiano" giovedì 14 settembre. Ieri a Chi l’ha visto è andata in onda una delle scene più brutali della storia della televisione italiana. I genitori del fidanzato di Noemi Durini, che ieri ha confessato di aver ucciso la fidanzata 16enne e di aver nascosto il cadavere, sono stati intervistati da Paola Grauso mentre il figlio si trovava alla stazione dei carabinieri di Specchia. I due erano ignari di quanto stesse succedendo e hanno appreso dalla giornalista che il figlio aveva confessato. Chi l’ha visto? ha mandato in onda l’intervista in cui il padre Biagio faceva pesanti insinuazioni nei confronti di Noemi Durini e la dipingeva come una poco di buono, seguita dalla reazione dei due alla notizia della confessione del figlio. Al padre del ragazzo ieri sera è stato consegnato un avviso di garanzia per sequestro di persona e occultamento di cadavere. L’atto è stato notificato all’indagato in occasione della perquisizione in corso nell’abitazione di famiglia a Montesardo, frazione di Alessano. Stamani si era invece appreso che il papà del 17enne era sottoposto ad indagini per omicidio volontario in concorso con il figlio. Ma è quello che si è visto e sentito nell’intervista di Chi l’ha visto ad aver shockato di più. Nell’intervista il padre Biagio ha infatti raccontato di un rapporto difficile tra i due ragazzi ma ha anche detto, tra l’altro in un italiano perfetto e senza usare nemmeno una parola di dialetto, che la ragazza era “esperta”, volendo alludere che lei ha in qualche modo circuito il figlio; ha anche raccontato un episodio – del quale non si era fatto parola prima – che riguardava Noemi, la quale si sarebbe nascosta in un armadio di casa loro per non farsi vedere dai genitori di notte per poi andare nella camera del figlio. Il padre ha anche offerto una spiegazione per il video, pubblicato ieri proprio da Chi l’ha visto?, in cui si vede il ragazzo ora accusato di omicidio mentre rompe i vetri di un’automobile parcheggiata con una sedia. Secondo Biagio il figlio sarebbe andato ad un appuntamento con il padre di Noemi e altri parenti della ragazza che lo avrebbero aggredito, poi ha chiamato i carabinieri per denunciare l’aggressione e ha spaccato i vetri dell’automobile per non consentire ai proprietari di andarsene con l’auto in attesa dei carabinieri. L’auto, ha sempre detto il padre del ragazzo, non era assicurata e per questo è stata sequestrata. Il padre ha anche detto che il figlio è stato sottoposto a tre trattamenti sanitari obbligatori a causa di Noemi (in realtà i TSO sono stati fatti per abuso di sostanze stupefacenti). E che la ragazza aveva sobillato il ragazzo ad uccidere i genitori, pagando anche un tossicodipendente per portare a termine un misterioso “accordo” per farli fuori. Proprio mentre raccontavano queste storie, Paola Grauso li ha informati che la ragazza era stata ritrovata, senza specificare se viva o morta. Quando lo ha detto, i due genitori si sono lasciati andare a grida d’esultanza: poi la giornalista ha aggiunto che la ragazza era morta e che il figlio ha confessato e i due genitori si sono lasciati andare a gesti e urla di disperazione. Il servizio si è concluso con la madre del ragazzo che ha urlato: “Siamo morti adesso. Morti”. Ieri intanto il giovane ha rischiato il linciaggio mentre usciva dalla sede della stazione carabinieri di Specchia dove è stato ascoltato per molte ore alla presenza del proprio difensore e del procuratore capo del tribunale dei minori Maria Cristina Rizzo. All’uscita, racconta l’ANSA, il giovane si è reso protagonista di atteggiamenti irriguardosi e di sfida alzando la mano destra in segno di saluto alla gente che gli fischiava contro e lo apostrofava. Ad attenderlo c’erano oltre un migliaio di persone, soprattutto giovani, che si erano radunate in via Giovanni XXIII, dove ha sede la stazione dei carabinieri. Il 17enne, nei confronti del quale da oggi c’è un provvedimento di fermo del pm con l’accusa di omicidio volontario, col cappuccio della felpa sulla testa, ha sorriso, sfidando la gente e provocando la reazione dei presenti che hanno tentato di raggiungerlo e di aggredirlo nonostante il cordone di sicurezza dei carabinieri. Il giovane è stato fatto salire a fatica su un mezzo dei carabinieri ed è stato poi condotto presso la compagnia dei carabinieri di Tricase in attesa di essere portato in carcere.
Omicidio Noemi: una veggente l'aveva ''vista'' in una casetta di pietre. La sconcertante storia rivelata alla giornalista del TgNorba, scrive il 13 settembre 2017 Telenorbaonline. Nella drammatica vicenda di Noemi Durini, la ragazza di 16 anni trovata uccisa stamani nelle campagne di Castrignano del Capo, c’è spazio anche per una storia inquietante che riguarda una medium di Casarano. Nei giorni scorsi, infatti, un’amica della famiglia Noemi che si era rivolta a una veggente per chiedere che l’aiutasse a ritrovare la ragazza di Specchia scomparsa dal 3 settembre scorso. Ecco cosa scrive la veggente in un sms: "Vedo Noemi, la vedo in una casetta di pietre, in campagna e io la vedo arrabbiata. La vedo con due persone". E poi in un successivo messaggio ha scritto: “Non la vedo più”. Il messaggio della veggente, con la data, è stato mostrato dalla donna che lo ha ricevuto alla giornalista del TgNorba Stefania Congedo. Il messaggio era stato consegnato anche ai carabinieri.
Omicidio di Noemi, chi è il "fidanzatino" killer. Ecco come si giustifica il diciassettenne che ha ucciso la ragazza: "L'ho ammazzata perché premeva per sterminare la mia famiglia", scrive il 14 settembre 2017 Panorama. A 17 anni un ragazzo dovrebbe guardare al futuro mosso da grandiosi progetti. Ma i progetti che aveva il "fidanzatino" killer che ha ucciso la sua ragazza sedicenne, Noemi Durini, erano progetti di violenza e morte. Reo confesso, nella notte tra il 13 e il 14 settembre è stato interrogato nella stazione dei carabinieri di Specchia (Lecce), alla presenza del difensore. Dopo aver cambiato versione più volte, ha sostenuto di aver ucciso Noemi perché la giovane voleva portar avanti il piano - ordito insieme - di uccidere la famiglia di lui, che avrebbe osteggiato il loro rapporto. Ecco i dettagli.
Come si giustifica il diciassettenne: "Ero innamoratissimo di lei", ha detto L., il 17enne omicida, originario di Alessano (Lc). "L'ho ammazzata perché premeva per mettere in atto l'uccisione di tutta la mia famiglia": così avrebbe spiegato agli inquirenti. Il minorenne è sottoposto a fermo per l'omicidio volontario di Noemi Durini, la sedicenne di Specchia il cui cadavere è stato trovato il 13 settembre, sepolto dalle pietre nella campagna di Castrignano del Capo, a 11 giorni dalla sua scomparsa, dopo che il giovane ha indicato agli investigatori il luogo dove cercare. "L'ho uccisa con un coltello che Noemi aveva con sé quando è uscita dalla sua abitazione", ha detto ancora, per cercare di avallare la sua versione dei fatti: un progetto di sterminio della famiglia di lui che Noemi premeva fosse messo in atto per vivere liberamente il loro amore. "Dopo lo sterminio della mia famiglia volevamo fuggire a Milano". Subito dopo l'uccisione dei componenti della famiglia di lui, i due - sempre secondo il racconto dell'omicida reo confesso - avrebbero progettato di fuggire a Milano e, a prova di quanto da lui detto, il giovane ha raccontato agli investigatori che avrebbero potuto trovare sotto il suo letto una lista di numeri di telefono di Milano, numeri di telefono di luoghi dove era possibile poter dormire. L. avrebbe quindi ucciso Noemi con lo stesso coltello che lei aveva portato con sé: "Ho reagito di fronte all'ostinazione di Noemi a voler portare a termine il progetto dello sterminio della mia famiglia". Il procuratore per i minori di Lecce Maria Cristina Rizzo, presente all'interrogatorio, ha definito il diciassettenne "vigile e cosciente della sua posizione". L. è stato trasferito in una casa protetta.
Ecco perché il "fidanzatino" ha confessato. Il "fidanzatino" di Noemi, scomparsa il 3 settembre scorso, è stato subito sospettato. A inchiodare il giovane una telecamera di sicurezza di Specchia che aveva inquadrato Noemi la mattina del 3 settembre, attorno alle 5, presumibilmente dopo essere uscita dalla sua abitazione: dopo aver percorso alcune decine di metri, era salita a bordo della Fiat 500 intestata alla madre del diciassettenne ma che proprio il minorenne guidava (pur non avendo la patente, la guidava regolarmente, fatto di cui si vantava con gli amici). Da quel momento di Noemi, che aveva lasciato a casa soldi, cellulare e documenti, si era persa ogni traccia. L. inizialmente ha a lungo sostenuto di aver accompagnato Noemi nei pressi del campo sportivo di Specchia e di averla lasciata lì. Sono state delle piccole tracce ematiche, trovate nell'auto utilizzata per allontanarsi da casa di Noemi, a far crollare il giovane. Si tratta di tracce molto piccole perché il ragazzo avrebbe pulito per bene tutto. Nella prima ispezione cadaverica, il medico legale Roberto Vaglio ha rilevato la presenza di alcune lesioni sul collo di Noemi. L'esame autoptico dovrà stabilire se quelle lesioni siano state provocate con un'arma da taglio oppure dall'azione di larve durante gli 11 giorni in cui il corpo della vittima è rimasto seppellito.
Un ragazzo dall'indole violenta. L. è descritto come un ragazzo dall'indole aggressiva. Proprio la mamma di Noemi Durini lo aveva denunciato alla Procura per i minorenni, a causa del suo carattere violento. La donna, che temeva per la sorte della figlia che da un anno frequentava il giovane, chiedeva ai magistrati di intervenire per far cessare il comportamento violento del ragazzo e per allontanarlo dalla figlia. Ne erano nati due procedimenti: uno penale per violenza privata, l'altro, civile, per verificare il contesto familiare in cui vive il giovane e se fossero in atto azioni o provvedimenti per porre fine alla sua indole violenta. L'unica conseguenza che ha prodotto la denuncia è stato un inasprimento dei rapporti tra le famiglie dei due fidanzati. "Era possessivo e geloso, non voleva che Noemi vedesse altre persone, la picchiava", racconta il cugino della vittima. Gli inquirenti lo ritraggono come un ragazzo che non riusciva a controllarsi, era irascibile con tutti, anche con la sua fidanzata, una studentessa ribelle e innamoratissima di lui, tanto da assecondarlo ogni volta, anche se il ragazzo la picchiava per gelosia. A conferma di questo ritratto c'è un breve video in cui L. è stato ripreso, la scorsa settimana, mentre rompe a colpi di sedia i vetri di una Nissan Micra parcheggiata per strada ad Alessano. L'auto apparterrebbe a una persona con la quale il giovane avrebbe avuto un acceso litigio proprio sulla sorte di Noemi.
Il sindaco di Specchia: ''Il fidanzato di Noemi già segnalato ai carabinieri". L'amministrazione comunale si farà carico delle spese del funerale, scrive il 13 settembre 2017 Telenorbaonline. "Nei giorni scorsi avevamo avuto notizie sul fatto che il fidanzato di Noemi fosse violento e su presunte percosse subite dalla ragazza, fatti che non sono normali, ma che evidentemente da parte dei genitori e anche delle istituzioni sono stati sottovalutati". E' duro il monito del sindaco di Specchia (Lecce), Rocco Pagliara, a poche ore dal ritrovamento del cadavere di Noemi Durini. La notizia della morte di Noemi ha provocato profonda commozione a Specchia, il piccolo centro del Capo di Leuca dove la ragazza viveva insieme alla madre. Il sindaco spiega che "c'era stata una denuncia da parte dei carabinieri di Alessano arrivata al Tribunale dei Minorenni". E aggiunge: "La mamma, o forse gli stessi carabinieri, d'ufficio, avevano attivato una procedura di segnalazione, come magari ce ne sono a centinaia. Non so se ciò abbia scatenato ancora di più questa violenza, ma fatto sta che, come la madre e la nonna di Noemi mi hanno raccontato, la ragazza era stata invitata a lasciare il fidanzato. Che io sappia la segnalazione stava facendo il percorso per arrivare a qualcosa di più, ma purtroppo non c'è stato il tempo di portare a termine il procedimento". Rocco Pagliara, che nel pomeriggio, ha riunito la sua giunta per dichiarare il lutto cittadino e per adottare misure di sostegno alla famiglia, aggiunge: "Pensiamo di accollarci le spese dei funerali e di coordinare tutti gli aiuti che, spontaneamente, i miei concittadini vogliono indirizzare ai familiari della ragazza".
Omicidio Noemi, il vescovo: ''Tragedia oltre la nostra comprensione'', scrive il 13 settembre 2017 Telenorbaonline. "Noemi era una ragazza che cercava di vivere in maniera solare, aperta alla vita e all'amore". Così Imma, la madre di Noemi Durini, ha descritto al vescovo di Ugento, don Vito Angiulli, la figlia uccisa dal fidanzatino. Il prelato ha fatto visita questa mattina ai familiari della ragazza chiusi nella loro abitazione di Specchia. "Questi avvenimenti così tragici - ha detto il prelato dopo l'incontro - vanno oltre la nostra capacità' di comprensione". Imma, la mamma di Noemi - ha riferito mons. Angiuli - è estremamente provata ma sta trovando conforto nella fede e nella preghiera”. "Ci sono due ragazzi coinvolti in una vicenda veramente triste, che affidiamo alla misericordia di Dio", ha aggiunto ribadendo di non voler esprimere giudizi e di non volere entrare in dinamiche che sarà la magistratura a dover appurare.
Noemi, Tribunale aveva deciso di affidarla ai servizi sociali. 17enne: meglio se mi uccidevo. Ha rischiato il linciaggio il 17enne reo confesso dell’omicidio della sedicenne Noemi Durini quando è uscito dalla sede della stazione carabinieri di Specchia, scrive il 14 Settembre 2017 “La Gazzetta del Mezzogiorno". «Voleva che ammazzassi la mia famiglia. L’ho uccisa per questo». Scarica le colpe su Noemi, il suo presunto assassino; tira in ballo chi non può più difendersi, il fidanzato diciassette, dopo averla uccisa e abbandonata sotto un mucchio di pietre al bordo della strada: «quello che ho fatto è stato per l’amore che provo per voi. Noemi voleva che io vi uccidessi per potere avermi con sé». Ci sono ancora tanti punti da chiarire nell’ennesima triste storia della provincia italiana più profonda, in cui la ragazzina sedicenne è la prima vittima ma non l’unica. Nodi che la confessione del ragazzo, che esce dalla caserma dei Carabinieri dopo l’arresto con lo sguardo di sfida e rischia di essere linciato dalla folla inferocita, non scioglie. Perché per capire davvero come è andata bisogna, prima, ricostruire il rapporto tra i due, le relazioni tra le famiglie, gli odi reciproci. E mettere ordine ai veleni del paese. Definire quello che gli investigatori e gli inquirenti chiamano il contesto. «Diciamo - racconta uno di loro - che la situazione socio familiare di entrambe le famiglie era di qualche disagio, per usare un eufemismo». Tre Tso negli ultimi sei mesi e la prescrizione di farmaci inibenti atti di ira e collera per il ragazzo, la segnalazione dei servizi sociali per un’assistenza al Sert per Noemi sono lì a confermarlo. Atti ufficiali come il provvedimento del tribunale dei minori che chiedeva sempre ai servizi sociali di farsi carico di Noemi. Peccato sia arrivato quando lei era già scomparsa e, probabilmente, morta. Quella mattina del 3 settembre, ha raccontato in sostanza il ragazzo, Noemi voleva trasformare lui e lei in novelli Erika e Omar. Quando alle 5 del mattino è andato a prenderla, lei si è presentata con un coltello. «L'ho uccisa con quello - ha raccontato - ho reagito di fronte alla sua ostinazione nel voler portare a termine il progetto di sterminare la mia famiglia». Parole che non potranno trovare alcuna conferma e dunque, dicono gli investigatori, vanno prese per quello che sono: dichiarazioni di un ragazzo confuso e malato, che ha però confessato l’omicidio. Tra l’altro, aggiungono, non c'è al momento alcuna traccia del coltello di cui parla il diciassettenne: fin quando non verrà eseguita l’autopsia non sarà possibile dunque stabilire se sul corpo di Noemi vi siano delle ferite compatibili con un’arma da taglio. Di certo c'è l’odio tra le due famiglie, culminati nelle denunce reciproche a distanza di venti giorni l’una dall’altra. Per lesioni quella dei familiari di Noemi; per atti persecutori quella presentata dai genitori del ragazzo. Stalking. «Lui non doveva guardarsi intorno se c'era qualche ragazza - sostiene la madre del giovane - subiva da lei e ultimamente ha reagito così. Reagiva, quando la vedeva. Lei gli ha fatto il lavaggio del cervello, l’ha fatto diventare un mostro». «Ma se era lui che era geloso marcio» replica Leila, la migliore amica di Noemi. «Me lo avrà detto centinaia di volte, che voleva lasciarlo. Ma aveva paura. E aveva ragione: una volta le ha riempito la faccia di lividi solo perché aveva guardato una moto. Una moto, capisci? Lui era convinto che avesse guardato il ragazzo che c'era sopra ma lei manco lo aveva visto quello». «Noemi era una ragazza che cercava di vivere in maniera solare, aperta alla vita e all’amore». Così Imma, la madre di Noemi, ha descritto al vescovo di Ugento, don Vito Angiulli, la figlia uccisa dal fidanzatino. L’interrogatorio di garanzia, che ancora non è stato fissato, forse servirà a fare un po' di chiarezza ulteriore. A partire dal ruolo del padre. L’uomo avrebbe detto che il figlio, la sera prima del ritrovamento del corpo, gli rivelò quel che aveva fatto e gli chiese di accompagnarlo dai carabinieri. «Se hai le palle ci vai da solo» gli ha risposto lui, a conferma che questa è innanzitutto una storia di degrado familiare e che il diciassettenne è l’altra vittima. Forse ha cominciato a capirlo anche lui, chiuso in una struttura protetta da ieri sera e sorvegliato a vista per evitare che tenti di uccidersi. «Ho sbagliato - continua a ripetere - se mi fossi ammazzato si sarebbe evitato questo casino».
L’accusa della mamma di Noemi Durini su presunte inerzie della Procura per i minori di Lecce non resterà inascoltata. Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha chiesto all’ispettorato di verificare se ci sono state sottovalutazioni e se l’omicidio della sedicenne poteva essere evitato. Per questo gli ispettori svolgeranno accertamenti preliminari sull'operato dei pm minorili a cui era giunta la denuncia della mamma di Noemi contro il fidanzato 17enne della ragazza, che ieri ha confessato l’omicidio. Sulla vicenda anche la prima commissione del Csm ha chiesto al comitato di Presidenza l’apertura di una pratica. Ispettori e Csm dovranno verificare anche un altro particolare finora inedito: anche la famiglia del ragazzo, a 15-20 giorni di distanza dalla denuncia della famiglia Durini, aveva denunciato la ragazza per stalking. Le denunce incrociate risalirebbero al maggio scorso e proverebbero l’astio crescente tra le due famiglie, tanto che il padre del 17enne si era spinto a commentare su Facebook che il fidanzamento tra Lucio e Noemi era "un cancro». La commissione del Csm potrebbe ora acquisire le denunce e verificare che tipo di approfondimenti sono stati disposti dai magistrati che le hanno ricevute.
Omicidio Noemi, il Csm aprirà una pratica. Approfondire il perché le denunce della mamma non furono ascoltate, scrive il 14 settembre 2017 Telenorbaonline. Il Consiglio superiore della magistratura aprirà una pratica sul caso dell’omicidio di Noemi Durini. Non cade nel vuoto l'accusa della madre di Noemi Durini, la sedicenne uccisa dal fidanzato a Specchia, sulle inerzie che ci sarebbero state in relazione alle sue denunce e per comportamenti violenti del ragazzo. La prima commissione del Csm ha infatti chiesto al comitato di Presidenza l'apertura di una pratica sul caso. La donna, Imma Rizzo, avrebbe presentato queste denunce alla procura per i minorenni di Lecce.
Omicidio Noemi, il ministro Orlando dispone ispezione. Verificare perché le denunce della mamma siano rimaste inascoltate, scrive il 13 settembre 2017 Telenorbaonline. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha disposto accertamenti preliminari tramite gli ispettori del ministero sul caso dell'omicidio di Noemi Durini, su cui indaga la Procura dei minorenni di Lecce. L’ispezione servirà a verificare perché le ripetute segnalazioni da parte della mamma di Noemi non siano state recepite tempestivamente. La signora Imma, infatti, aveva denunciato più volte episodi di percosse nei confronti della ragazza. Perché quelle richieste di aiuto non sono state poi seguite da provvedimenti cautelari? Gli stessi familiari di Noemi si dicono convinti che si poteva fare di più per evitare questo efferato delitto. Gli investigatori, analizzando anche i social network, hanno appurato che il rapporto tra i due ragazzi ultimamente era complicato. L'ultimo post pubblicato da Noemi su Facebook è del 23 agosto. La ragazza aveva pubblicato una foto di una giovane con il viso pieno di lividi e la mano di un uomo che le chiude la bocca, accompagnata da queste parole: "Non è amore se ti fa male. Non è amore se ti controlla. Non è amore se ti fa paura di essere quello che sei. Non è amore, se ti picchia. Non è amore se ti umilia. Non è amore se ti proibisce di indossare i vestiti che ti piace. Non è more se dubiti della tua capacità intellettuale. Non è amore se non rispetta la tua volontà. Non è amore se fai sesso. Non è amore se dubiti costantemente della tua parola. Non è amore se non si confida con te. Non è amore se ti impedisce di studiare o di lavorare. Non è amore se ti tradisce. Non è amore, se ti chiama stupida e pazza. Non è amore se piangi più di quanto sorridi. Non è amore, se colpisce i tuoi figli. Non è amore, se colpisce i tuoi animali. Non è amore se mente costantemente. Non è amore se ti diminuisce, se ti confronta, se ti fa sentire piccola. Il nome è abuso. E tu meriti l'amore. Molto amore. C'è vita fuori da una relazione abusiva. Fidati!".
L'amica di Noemi: aveva paura di lasciarlo, scrive il 14 Settembre 2017 "La Gazzetta del Mezzogiorno". «Me lo avrà detto centinaia di volte, che voleva lasciarlo. Ma aveva paura. E aveva ragione: una volta le ha riempito la faccia di lividi solo perché aveva guardato una moto. Una moto, capisci? Lei amava le moto, ma lui era convinto che avesse guardato il ragazzo che c'era sopra. Lei manco lo aveva visto quello». Leila continua a tormentarsi le mani, mentre continua a guardare verso il vicolo dove abitava Noemi Durini, come se la sua amica dovesse uscire da un momento all’altro. Leila è la migliore amica della sedicenne di Specchia uccisa dal fidanzato; con lei ha passato giornate intere a raccontarsi sogni e paure, amori e delusioni. «Stavamo sempre insieme - racconta - eravamo unitissime». Ma chi era Noemi, Leila? «Era una ragazza solare, piena di vita. Aveva sempre il sorriso e quando doveva sfogarsi veniva da me. Una volta, ero a casa, lei è arrivata senza dirmi nulla. E appena è entrata mi ha detto: Leila abbracciami». E perché, si sentiva sola? «No, non era sola - risponde la ragazzina toccandosi i capelli - ma aveva bisogno di affetto, tanto affetto. E poi Noemi era forte, tanto forte». Leila si ferma un attimo. Poi aggiunge: «solo con lui era debole». Secondo la ragazza, la storia tra i due era nata per caso. Una sera in cui si incontrano quattro ragazzi. «Noemi stava con il miglior amico» del suo assassino, racconta. «Quella sera una ragazza di Alessano si è baciata con lui e allora lei, per fargliela pagare, ha baciato» l’altro ragazzo. Che era, appunto, il diciassettenne che poi l’ha uccisa. «All’inizio il loro rapporto era sereno, Noemi andava anche a casa sua e aveva un buon rapporto con i genitori». E poi cosa è successo? Leila si chiude. «Quello che ti posso dire è che non è vero che tutto è cominciato quando lei si nascose nell’armadio a casa sua, come dice qualcuno. Ha litigato con il padre. E lo ha fatto per il suo ragazzo». Oltre la ragazza non va, anche perché su questo aspetto è già stata sentita dai carabinieri. Certo è che lui però la picchiava. «E pure più volte - dice Leila - Lei lo amava, cento volte mi ha detto che voleva lasciarlo ma non ci riusciva. Aveva paura e aveva questo sentimento che non la faceva ragionare». Ma quando l’hai vista l'ultima volta. «Dopo ferragosto, poco prima che sparisse. E' venuta da me. Vuoi sapere se abbiamo parlato di lui? No, forse è stata l’unica volta che non l’abbiamo fatto. Era serena e felice».
Noemi, la pm minorile: "Guerra tra le due famiglie". Il papà e la mamma del 17enne: "Meglio un morto che tre". Ministro e Csm inviano a Lecce gli ispettori per capire se ci sono stati ritardi nell'affrontare le segnalazioni arrivate al tribunale dei minorenni di Lecce. Il ragazzo guardato a vista nella casa protetta dove è rinchiuso, scrive Chiara Spagnolo il 15 settembre 2017 su "La Repubblica". “L’ho fatto per voi, per salvarvi”: il diciassettenne di Alessano, reo confesso dell’omicidio di Noemi Durini ha scritto ai genitori di avere assassinato la fidanzatina sedicenne di Specchia perché lei aveva ordito un piano per ucciderli ed essere libera di vivere la relazione d’amore. In un bigliettino che la madre del giovane ha tirato fuori davanti alle telecamere de “La Vita in diretta” c’è la conferma dell’ultima versione che il 17enne ha fornito ai carabinieri nell’interrogatorio del 13 settembre, finito il quale è stato arrestato. Non è chiaro se si tratti di un manoscritto originale (nonostante la firma in lettere maiuscole sul retro) e neppure il motivo per cui i genitori non l’hanno consegnato agli investigatori, che hanno perquisito più volte l’abitazione familiare di Alessano. Così come non è chiaro se corrispondano alla verità le dichiarazioni del padre del diciassettenne (indagato per concorso nell’occultamento di cadavere), secondo il quale il figlio - la sera prima della confessione - gli avrebbe raccontato di avere assassinato la fidanzata. Le ispezioni di ministero e Csm. Tali questioni complicano ulteriormente il quadro investigativo, sul quale si è abbattuto anche il ciclone degli accertamenti disposti dal ministero della Giustizia e dal Csm per verificare se il Tribunale dei minori di Lecce abbia vagliato tempestivamente la denuncia della mamma di Noemi, che chiedeva di allontanare quel ragazzo violento dalla sua bambina. La segnalazione è stata fatta prima dell’estate, a luglio il tribunale dei minorenni ha chiesto una relazione ai Servizi sociali del Comune di Specchia, che è stata inviata nello stesso mese. Il 31 agosto dal Tribunale è partito un provvedimento di affidamento di Noemi ai Servizi sociali e al Sert, che è giunto a destinazione il 5 settembre, quando la ragazzina era già morta. Tale provvedimento sarebbe servito a disporre un aiuto per la sedicenne e, forse, avrebbe potuto salvarla. Se avrebbe potuto essere più rapido lo disporranno gli ispettori romani, dopo la valutazione della documentazione sul caso che sarà acquisita negli uffici giudiziari salentini. Gli inquirenti di Lecce. Sulle denunce incrociate e il tempismo dei provvedimenti, a Lecce bocche cucite. Il procuratore generale della Repubblica, Antonio Maruccia, si trincera dietro un “no comment”, la procuratrice presso il Tribunale dei minori, Maria Cristina Rizzo, spiega che sono in corso le verifiche sui tempi delle denunce e i successivi provvedimenti nonché sul contenuto delle stesse, tenendo in considerazione il fatto che "alla base di tutto c'è una guerra tra famiglie". Meno criptico il sindaco di Specchia, Rocco Pagliara, che ha chiesto ai Servizi sociali il fascicolo su Noemi e chiarito che “la nostra assistente sociale ha ricevuto a luglio una richiesta di relazione sulla situazione della famiglia dal Tribunale dei minori e l’ha evasa nello stesso mese, dopo aver ascoltato la ragazza e anche la madre”. Il documento è poi arrivato al magistrato che il 31 agosto ha emesso un provvedimento di affidamento della sedicenne ai Servizi sociali e al Sert. Al vaglio degli inquirenti, però, ci sono anche le denunce che la famiglia del ragazzo ha presentato allo stesso Tribunale contro Noemi, accusata di atti persecutori. Le indagini. Intanto, proseguono le indagini sull’omicidio, nel tentativo di chiarire i numerosi punti oscuri rimasti. Innanzitutto quelli relativi alle complicità, a partire da quella presunta del padre ma anche di altri componenti della famiglia. L’automobile con cui il diciassettenne all’alba del 3 settembre è andato a prendere Noemi a casa della madre ed è stata sequestrata dopo il ritrovamento di tracce di sangue all’interno. Le modalità dell’omicidio invece potranno essere chiarite solo dopo l’autopsia, che sarà effettuata lunedì dal medico legale Roberto Vaglio. Sul corpo della ragazzina sono presenti segni di pietre (spiegabili anche con il fatto che era sepolto da pezzi di un muretto a secco) e tagli (che il giovane ha dichiarato di avere effettuato con un coltello ma potrebbero anche essere stati provocati da animali). Il fidanzato, dal canto suo, è stato trasferito in una località protetta, in considerazione del pericolo che potrebbe correre in carcere, visto che già all’uscita della caserma di Specchia - mercoledì sera - è stato sottratto al linciaggio da parte della folla. Nella struttura penitenziaria è controllato a vista per evitare che possa commettere atti autolesionistici. A questa intenzione farebbe pensare il biglietto in cui ha scritto: “Ho sbagliato, potevo uccidermi e avrei evitato questo casino”.
Omicidio di Noemi Durini: denunce, verifiche e provvedimento in ritardo. «Solo schiaffi non sembrava grave». I lividi sul volto, le fughe da casa, i problemi a scuola. Mamma Imma era molto preoccupata per Noemi e per la tormentata relazione con quel ragazzo che considerava la causa prima dei suoi mali, scrive il 14 settembre 2017 "Il Corriere della Sera”. I lividi sul volto, le fughe da casa, i problemi a scuola. Mamma Imma era molto preoccupata per Noemi e per la tormentata relazione con quel ragazzo che considerava la causa prima dei suoi mali. «È violento, sbandato e pericoloso, fate qualcosa per favore».
Era lo scorso maggio quando bussò alla porta del comandante dei carabinieri di Specchia, Giuseppe Borrello, chiedendo che venisse allontanato da Noemi. Lo fece formalmente, presentando una denuncia contro di lui e in qualche modo anche un po’ contro Noemi, visto che lei continuava a frequentarlo, prigioniera forse di un vortice dal quale non usciva. «E non stupitevi se siamo ancora qua, abbiamo detto per sempre e per sempre sarà», scriveva il 12 agosto per festeggiare il primo anno di fidanzamento. Contro tutto e contro tutti. Nonostante le botte, le furiose litigate e i tre Tso (trattamento sanitario obbligatorio) a cui è stato sottoposto il diciassettenne di Alessano negli ultimi sei mesi. La madre aveva però capito che Noemi era entrata in un tunnel pericoloso e con lei l’aveva capito anche la sorella di Noemi, Benedetta, entrambe unite nella condanna del ragazzo.
A luglio al tribunale dei minori. Oltre alla denuncia finita alla procura per i minorenni di Lecce, Imma Rizzo aveva chiesto anche l’intervento dei servizi sociali perché sentiva che la situazione poteva sfuggire al suo controllo. Il primo luglio è stata convocata da un assistente del Tribunale dei minori. «Se è un problema, se può essere d’aiuto a mia figlia, intervenite anche su di lei», aveva implorato quel giorno. E il tribunale ha chiesto al Comune di Specchia una relazione sulla situazione familiare di Noemi. «Sulla base di questo documento e di valutazioni autonome dei magistrati, il Tribunale ha emesso un provvedimento di presa in carico della ragazza da parte dei servizi sociali», ha spiegato il sindaco di Specchia, Rocco Pagliara. Il provvedimento sarebbe però giunto sul tavolo degli operatori sociali solo il 6 settembre. Troppo tardi. Noemi era già stata uccisa e sepolta sotto un cumulo di pietre nelle campagne di Castrignano del Capo.
«Di segnalazioni così ne arrivano a decine». Le domande sono naturalmente quelle: perché si è perso tanto tempo? Perché non si è fatto nulla per bloccare un giovane violento? Gli inquirenti rispondono in modo univoco: «Perché dalla denuncia non emergeva una situazione gravissima. Alla ragazza erano stati dati pochi giorni di prognosi per lesioni da schiaffeggiamento: di denunce come quella ne arrivano a decine». E i Tso? E il fatto che il ragazzo scorrazzasse in macchina senza patente? «Sui trattamenti stavamo facendo delle verifiche», rispondono alla Procura per i minorenni. «Quanto alla patente, se solo l’avessimo scoperto una volta…», conclude amaro il comandante dei carabinieri.
Dietro alla tragedia emerge un ambiente di forte degrado. Due famiglie che si odiavano: quella di lei e quella di lui, entrambi a rifiutare ferocemente i fidanzati dei loro figli. Dopo la denuncia della madre di Noemi è stata la volta dei genitori di lui, che hanno puntato il dito sulla ragazza presentando una controdenuncia. La madre del giovane ha caricato le parole con la polvere da sparo: «È stata lei a farlo diventare un mostro, hanno mandato gente da Taviano per ucciderlo». Senza pietà. «Follie», ha tagliato corto l’avvocato che assiste la famiglia di Noemi, Mario Blandolino. Con lui, mamma Imma ha indagato per prima sulla scomparsa della figlia. Sapeva che era sparita fra le 2 e le 7 del mattino del 3 settembre. Ha cercato una telecamera nella zona, l’ha trovata, ha visionato il filmato e ha scoperto che Noemi era uscita alle cinque di notte per incontrare il suo fidanzato diventato assassino.
I genitori del killer di Noemi: "Così ha rovinato nostro figlio". I genitori dell'assassino di Noemi Durini ai microfoni di "Chi l'ha visto": "Ha aggredito e graffiato nostro figlio", scrive Luca Romano, Giovedì 14/09/2017 su "Il Giornale". La vicenda dell'omicidio di Noemi Durini si arricchisce di nuovi retroscena. Per il delitto della 16enne di Specchia nel Leccese è stato arrestato il fidanzato. Ma in questa storia emerge sempre più la famiglia del killer. Il padre, anche lui finito nell'inchiesta, ai microfoni di Rai Tre a Chi l'ha visto, poco prima di apprendere della confessione del figlio e del ritrovamento del cadavere della ragazza, ha parlato del rapporto che Noemi aveva col ragazzo: "Questa ragazza è entrata in casa mia ben accetta come la fidanzatina di mio figlio, circa un anno fa. Dopo neanche un mese, invitata a una festa qua vicino con mio fratello, ha piazzato un casino della madonna contro una ragazza chiamata Rebecca. Per gelosia. Mi ha detto 'ti devo fare impazzire'. Mi ha detto di tutto 'drogato, coglione'. Ho tollerato tutto per amore di mio figlio. Una notte, al mio rifiuto di chiamare sua madre per dirle che rimaneva qui a dormire, lei due notti dopo è entrata dalla finestra, si è nascosta nell'armadio e nottetempo è andata a dormire con mio figlio. Era fine gennaio". Poi ha aggiunto: "Quella ragazza è cresciuta in mezzo alla strada da quando aveva 12 anni - continua -. Aveva un bagaglio d'esperienza molto più grande di mio figlio, era lei che comandava nel gruppo. Una volta mi chiamano dalla scuola: 'Guardi che li ho visti con i miei occhi, la ragazza ha assalito suo figlio e lui è tutto graffiato'. Era lei che picchiava lui. Addirittura gli diceva di scannarci. Aveva trovato i soldi da dare a un certo tipo per comprare una pistola per spararci. Era tutt'altro che una brava ragazza. Era una ragazza cresciuta allo stato brado". Il padre del ragazzo infine avrebbe raccontato che il figlio sarebbe stato sottoposto a tre trattamenti Tso puntando il dito contro la ragazza. Ma su questo punto altre fonti sostengono che il ragazzo sia stato sottoposto a questo tipo di trattamento per l'uso di droghe leggere.
Omicidio Noemi, il padre del fidanzato contro la vittima: “Cresciuta in strada, incitava mio figlio a scannarci”. In una intervista a Chi l’ha visto? Biagio Marzo, il padre del 17enne che ha ucciso la fidanzatina Noemi a Specchia, si scaglia contro la vittima: “Basta balle, era lei che picchiava mio figlio, lo incitava a ucciderci”. Pochi minuti dopo la scoperta della confessione di suo figlio. La moglie: “Dai Biagio, è finita”, scrive il 14 settembre 2017 Angela Marino su "Fan Page". "Incitava mio figlio a scannarci tutti e due, era gelosa, era lei che lo picchiava. Basta balle in Tv: era tutt'altro che una brava ragazza". Sono le parole che precedono un momento surreale, carico di tensione, quello in cui i genitori di Lucio, il diciassettenne di Specchia, accusato dell'omicidio della fidanzatina, apprendono in Tv che il proprio figlio ha confessato. L'intervista è stata trasmessa da Rai Tre, nella puntata del 13 settembre del programma Chi l'ha visto?. Le immagini mostrano l'inviata della trasmissione condotta da Federica Sciarelli, Paola Grauso, nella casa del diciassettenne. La signora Marzo, madre di Lucio e moglie di Biagio, a sua volta indagato per sequestro di persona e occultamento di cadavere, comincia a raccontare del periodo che ha preceduto la scomparsa di Noemi Durini, avvenuta lo scorso 3 settembre dalla cittadina di Specchia, nel Leccese.
"Mi vergognavo di quel fidanzamento". "Abbiamo passato un anno di inferno, stiamo prendendo gli ansiolitici", premette, poi interviene il marito Biagio, tratteggiando un ritratto duro della sedicenne: "È entrata in casa mia ben accetta come la fidanzatina di mio figlio, è cominciato un rapporto malato, era gelosa, mi ha chiamato con tutti gli epiteti, mi ha detto chiaramente che mi avrebbe fatto impazzire, mi ha chiamato drogato. Per la salute mentale di mio figlio ho tollerato il rapporto con questa ragazza purché lo facessero fuori dal paese, perché mi creava vergogna". "Mio figlio ha avuto tre trattamenti sanitari obbligatori, da quanto ha conosciuto questa ragazza". "È un po' strano, no?", chiede la giornalista: "Perché ha avuto tre TSO?". "Perché gli è dato di volta il cervello, da quando è ha incontrato questa ragazza – la prima ragazza della sua vita – è successo il finimondo. A un mio diniego di chiamare sua madre e di informarla che sarebbe rimasta a casa mia, la notte dopo si è infilata dalla finestra, si è chiusa nell'armadio e nottetempo è andata a dormire con mio figlio". "Si erano innamorati questi due ragazzi – fa notare Paola Grauso – "sembrava una cosa da ragazzini". "Pur avendo un anno meno di mio figlio aveva un ‘bagaglio' molto più grande, era lei che comandava tra i due".
Le accuse alla vittima. Sull'atteggiamento violento di suo figlio Lucio descritto da amici della coppia dice: "Mi ha chiamato un professore dalla scuola dicendo di aver visto Noemi che assaliva mio figlio, era tutto graffiato: era lei che picchiava mio figlio". "Però dicono anche il contrario" ribatte l'inviata. Ancora per giustificare quanto dicono amici e conoscenti dei ragazzi, Marzo aggiunge: "Dopo tre trattamenti sanitari", "Voleva togliersela da dosso!", si intromette la moglie, per poi lasciare la parola al marito, che racconta: "Alla festa del patrono del paese (pochi giorni prima della morte di Noemi, ndr) lei gli è andata incontro dicendo: "Ti voglio bene, ti amo" e lui per scollarsela le ha dato quattro schiaffoni". Al riferimento della giornalista al video circolato online che ha immortalato Lucio mentre distrugge l'auto del padre di Noemi, poco dopo la scomparsa della fidanzatina, Marzo risponde: "Il padre di Noemi gli ha dato un pugno, allora mio figlio con una sedia gli ha sfasciato tutti i vetri, in modo che no scappassero, per bloccarli, perché sapeva che non avevano i documenti dell'auto". "Non è questo il modo" fa notare ancora una volta la Grauso. Secondo quanto affermato da Marzo, il padre della ragazza avrebbe sferrato un pugno in volto a Lucio, provocandogli una ferita con sei punti di sutura all’arcata di un occhio. In reazione, il giovane gli ha sfagliato l’auto per non farlo andare via in attesa dell’arrivo delle forze dell’ordine. Secondo Marzo, Noemi avrebbe aizzato suo figlio contro di loro: "Incitava mio figlio a scannarci tutti e due, aveva trovato un somma di denaro da dare a un certo tipo per comprare una pistola per spararci. Sentito questo ho sporto querela perché fosse allontanata da mio figlio. Basta balle in televisione, era tutt'altro che una brava ragazza, era una cresciuta allo stato brado, in strada da quando aveva 12 anni". Quanto al proprio ruolo nella vicenda, a fronte delle accuse di sequestro e occultamento di cadavere, precisa: "Sono stato un genitore accorto e ho visto tutti i cambiamenti di mio figlio, sta ragazza usava una tecnica per obbligare mio figlio ai suoi voleri: ti lascio e mio figlio sbatteva la testa contro il muro, per terra, quando ho visto queste cose ho dovuto intervenire coi sanitari. Lui aveva bisogno della mia presenza per sentirsi più uomo davanti a lei".
L'ultima sera. Pochi minuti prima che arrivi la notizia della confessione di Lucio, suo padre ribadisce ancora una volta la sua versione dei fatti riguardo alla notte della scomparsa: "Si danno un appuntamento per il sabato notte, avendo mio figlio l'auto a disposizione. "‘Per favore, usciamo', gliel'ha chiesto piangendo lei!", interviene la moglie. "Mio figlio – riprende la parola Marzo – voleva prendersi un momento di intimità, molto probabilmente lei, però, era pronta a scendere dall'auto. Di fronte c'era una macchina scura parcheggiata, Noemi è scesa e si è incamminata verso la macchina, è salita e se ne sono andati". "A me Lucio ha detto: ‘Stai sereno, quando la troveranno capiranno che io non c'entro niente'".
La notizia choc della confessione. "Hanno trovato la ragazza", lo interrompe la giornalista. "Bene! Son contento!", commenta prima di essere interrotto: "È morta e Lucio ha confessato". Marzo si accascia con le braccia sul tavolo, urlando: "Hanno creato un mostro!". "Hanno esasperato mio figlio – grida la moglie – suo padre (riferito a Noemi, ndr) ha mandato gente di Taviano per ammazzarlo, un tossico. "Siamo morti!" gridano insieme, poi la madre di Lucio si rivolge al marito: "Biagio è finita, dai".
Dopo la messa in onda dell'intervista, la conduttrice di Chi l'ha visto?, Federica Sciarelli, ha preso le distanze da quanto detto dai genitori di Lucio sul conto di Noemi.
Pomeriggio 5, la madre dell'assassino di Noemi in tv: "Adesso sto meglio", scrive il 14 Settembre 2017 "Libero Quotidiano”. Sconcerto in diretta tv. A Pomeriggio 5, il programma di Barbara d'Urso su Canale 5, si parla del caso di Noemi Durini, la 16enne leccese uccisa dal fidanzato di 17 anni che ieri, mercoledì 13 settembre, ha confessato il delitto. Il ragazzo, ora, prova a scaricare la colpa dell'omicidio su di lei, accusandola di voler uccidere la sua famiglia. La mamma del killer, che ha appreso della confessione del figli ieri in tv a Chi l'ha visto?, lo difende: “Si è liberato, mio figlio. Siamo stati noi a denunciare l’allontanamento, non la famiglia della ragazza”, ha raccontato alla d’Urso. Che poi ha rivelato: “Ha subito tre TSO per colpa di questa ragazza, l’ha fatto diventare un mostro”. E non ha lesinato particolari inquietanti: “Lei col coltello in mano lo voleva far venire a casa nostra”. Un crescendo di violenza (verbale) quello della donna. Che alla fine pronuncia le parole più sconcertanti: "Mi sento meglio ora”.
Sciarelli, il delitto di Noemi e la pornografia dell'orrore. Che senso ha mandare in onda la reazione dei genitori dell'omicida della ragazza alla confessione del figlio? Non è giornalismo. Solo cibo per gli intestini già infiammati degli italiani, scrive Francesca Buonfiglioli il 14 settembre 2017 su "Lettera 43". Quale è il limite della pornografia televisiva? Fino a dove le ragioni dello share si possono spingere in un servizio che si dice pubblico? Se esistevano dei paletti la puntata di Chi l'ha visto? mandata in onda il 13 settembre non solo li ha superati: li ha sradicati.
PORNOGRAFIA DELL'ORRORE. Focus della trasmissione, e non poteva essere altrimenti, l'omicidio della 16enne di Lecce. Che tale è diventato quando il fidanzato di appena un anno più grande ha confessato di averla massacrata portando gli inquirenti nel luogo in cui aveva nascosto il cadavere. Fino ad allora, almeno nei familiari, era rimasta viva la speranza che la ragazza fosse scomparsa, fuggita da una relazione che definivano malata. Per questo, l'inviata di Federica Sciarelli aveva intervistato i genitori del 17enne. Mentre padre e madre difendono il figlio, gettando fango sulla ragazza scomparsa, la giornalista riceve via messaggio la notizia della confessione. «Hanno trovato Noemi», dice la giornalista in modo asettico interrompendo la filippica del padre, che ora risulta indagato perché sospettato di aver aiutato il figlio a nascondere il corpo.
LA REAZIONE DEI GENITORI SBATTUTA IN PRIMA SERATA. «È morta. Suo figlio dice di averla ammazzata». La scena che segue può essere lasciata all'immaginazione. Ma non per la trasmissione. Che decide di mandare in onda il servizio registrato nonostante tutto. Sì, registrato è bene sottolinearlo. «Immagini forti», «nemmeno noi lo sapevamo», balbetta Sciarelli da studio lanciano il "contributo". No, non sono immagini forti. La reazione scomposta di due genitori sbattuta in prima serata è pornografia del dolore. Non c'è altra definizione possibile. Non c'è notizia. Non c'è "servizio". Ci sono solo disperazione, rabbia, urla, visi che si sciolgono in smorfie, pugni sbattuti sul tavolo dati in pasto a un pubblico che già sa. Sa che il ragazzo ha confessato, che quei genitori stanno in realtà offendendo una vittima. Senza saperlo, loro (su questo punto le indagini sono in corso). Una scena rilanciata come scoop pure sui social della trasmissione, con tanto di fotogramma dell'attimo della rivelazione. E che ha solo un effetto: accendere l'odio nello spettatore, come se ce ne fosse bisogno. Su Twitter in tempo reale qualche account di satira rilancia addirittura un meme della madre dell'omicida che grida: «La Gif per voi era d'obbligo: Siamo morti», è il commento. E cinguetta: «Si è ripartiti col botto». Non c'è molta differenza con la cronaca morbosa dei dettagli dello stupro di Rimini pubblicata e rivendicata da Libero e altri quotidiani. Pornografia e voyeurismo che lontani dal tutelare le vittime, le usano come arma per una battaglia ideologica. Politica. Di share e copie vendute.
IL PRECEDENTE DI AVETRANA. Chi l'ha visto? non è nuovo a porcherie di questo genere. Nel 2010 mentre Concetta Serrano, mamma di Sarah Scazzi, era in collegamento da Avetrana in studio arrivò la notizia del possibile ritrovamento del corpo. «Ha capito cosa sta succedendo?», chiese Sciarelli alla donna. «Se vuole interrompere il collegamento lo può fare in ogni momento». «Chiami i carabinieri, si metta in contatto con gli investigatori». Serrano era ormai ridotta a una statua senza reazioni, mentre le telecamere indugiavano sul suo volto-non volto. «È una notizia terribile, di grande imbarazzo, che non vorremmo mai dover confermare», andò avanti Sciarelli. Dimenticando che l'unico dovere che aveva in realtà era interrompere quell'obbrobrio in diretta per tutelare una vittima.
TRASH DELL'ORRORE. Questo non è giornalismo. Non è servizio né tantomeno è pubblico. È trash dell'orrore e del dolore, della disperazione, cibo per gli intestini infiammati dei telespettatori. Sono forconi virtuali dati in mano a una folla inferocita che ogni giorno, sui social e davanti ad altri schermi, invoca la pena di morte, la giustizia fai-da-te, la tortura. Nella "migliore" (sic) delle ipotesi, la tragedia e l'orrore diventano una gif, una presa in giro, un meme. O un costume di carnevale come accadde con «zio Michè».
Assassinio di Noemi Durini: “Chi l’ha visto?”, interrogazione parlamentare di Dario Stefàno. Il senatore salentino parla di "inaccettabile voyeurismo giornalistico". Attacco anche dal direttore del tgnorba: come il caso Scazzi, si è risolto di mercoledì, scrive "Noi Notizie" il 14 settembre 2017. Il direttore del tgnorba fa questo ragionamento. Il ritrovamento del cadavere di Sarah Scazzi avvenne di mercoledì sera, nella sera della diretta tv di “Chi l’ha visto?”. Il ritrovamento del corpo di Noemi Durini, con indagine nei confronti del fidanzato che ha confessato, di mercoledì. Il giorno di “Chi l’ha visto?”. Coincidenza, dice Enzo Magistà che però fa un richiamo ad autorità della sicurezza e autorità della comunicazione. L’attacco alla trasmissione di Raitre è frontale. Una trasmissione che, si osserva da qua, ha comunque contribuito a risolvere un sacco di casi di scomparsa, con il ritorno a casa di tanta gente. Stavolta, peraltro, quella trasmissione è nell’occhio del ciclone, per il caso di Noemi Durini. Vicenda che finisce anche in parlamento. Di seguito un comunicato diffuso dal senatore Dario Stefàno: “Questo metodo, se da un lato non rispetta la dignità e la privacy dei soggetti coinvolti da questi terribili episodi, dall’altro interpreta con modalità inopportune e incoerenti la necessità di trasferire notizie ai telespettatori. E’ una testimonianza allarmante della deriva che talvolta può assumere un certo modo di concepire il servizio televisivo, in particolar modo di una rete pubblica”. Sono le parole che si leggono in una interrogazione presentata nel pomeriggio dal senatore Dario Stefàno, Presidente de La Puglia in Più, indirizzata al Ministro dello Sviluppo Economico, a seguito del servizio andato in onda su Rai 3 durante la trasmissione “Chi l’ha Visto?” sul caso Noemi Durini. “Tale approccio – continua Stefàno – tende a porsi in piena sintonia con la diffusa e censurabile tendenza alla rincorsa senza scrupoli degli ascolti, nella cui prospettiva la spettacolarizzazione delle sventure più intime e raccapriccianti viene usata come una delle leve più efficaci e a portata di mano. Queste modalità sviliscono e mercificano ciò che nella vita vi è di più alto, drammatico e riservato, come per esempio il dolore e la sofferenza delle persone”. “Il Garante per la protezione dei dati personali si è già pronunciato più volte, in senso critico, a proposito del principio di essenzialità dell’informazione e a proposito della diffusione di dati, soprattutto in presenza di minori coinvolti”. “La giornalista inviata – conclude Stefàno – non era certo la figura deputata e competente per dare comunicazione di tale terribile notizia e degli esiti delle indagini agli interessati, soprattutto se quella notizia riguardava un soggetto di minore età, e credo che la scelta di mandare in onda questo servizio necessitasse di ben altra valutazione rispetto a quella operata”.
IL FATTO 14/09/2017 TGNorbaonline. Editoriale a cura del direttore Enzo Magistà di giovedì 14 settembre 2017. Tema del giorno: l'omicidio della sedicenne Noemi Durini compiuto dal reo confesso Lucio Marzo. C’è chi trova paralleli tra il delitto di ieri, di Specchia e quello di 7 anni fa di Avetrana. Sforzo inutile. Si tratta di delitti diversi. Maturati in ambienti diversi. Ispirati da follie diverse. Realizzati da personaggi diversi. C’è una sola concomitanza fra i due delitti: lo spettacolo finale. O meglio, la spettacolarizzazione televisiva che se n’è fatta. Ai più, forse, sarà sfuggita. Non a noi. Sarah Scazzi venne ritrovata un mercoledì sera in diretta televisiva. Mentre un troupe di “Chi la visto?” si trovava in casa della vittima ad intervistare sua madre. E propria alla madre in diretta televisiva venne detto, venne comunicata la notizia che il corpo della figlia era stato ritrovato grazie alla confessione di Michele Misseri. Il corpo di Noemi Durini, la ragazza di Specchia, è stato ritrovato sempre di mercoledì. Mentre una troupe della stessa trasmissione televisiva si trovava in casa dell’assassino ad intervistare i suoi genitori, ai quali è stata data in diretta la notizia del ritrovamento e dell’arresto del figlio. Che coincidenza! E queste sono le uniche che si possono fare tra i due casi: la presenza delle telecamere di “Chi la visto”. Bravissimi i nostri colleghi, ma è tutto merito loro? Un sospetto, consentitecelo, è legittimo. Anche se, attenzione, due indizi non fanno una prova. Valgono, però, una denuncia e la facciamo, perché non vorremmo trovarci ad un terzo caso. Perché allora lo Stato, lo Stato e chi lo rappresenta a livello di informazione e di controllo del territorio, allora sì che dovrebbe farsi un profondo esame di coscienza. Perché non si può giocare con queste tragedie tenendole in sospeso per settimane, per giorni, in attesa che arrivi un mercoledì sera.
Di seguito si riportano i commenti idioti pubblicati su giornali che dovrebbero essere capitani di credibilità. Invece riportano scarabocchi di chi fa della volgarità e dell’ignoranza il suo stile di vita.
Diffamando gratuitamente un padre, che per il momento è solo indagato. Poi, i più meschini e diffamatori, di chi non è ancora sazio nell’oltraggiare il Salento ed Avetrana in particolare che nella vicenda non ha nulla a che fare.
Se questi son giornalisti… “Ma nessuno si fa troppe domande, giù nel Basso Salentino, tra Specchia e Alessano, belle ville di vacanza della swinging Puglia e terre riarse dei poveracci, masserie rifatte a bed and breakfast e pozzi sperduti nel buio. Come ad Avetrana, del resto, l’omertoso paese di Sarah Scazzi, che dista un’ora di strada da qui, ma meno d’un sospiro di silenzio da questa trama mostruosa, quest’altra, quasi in fotocopia, di un’altra ragazzina sepolta nei campi, di altre famiglie disfunzionali o malate, di familismi amorali che diventano delitto e complicità, perché la legge non varca l’orto di casa”. Goffredo Buccini 13 settembre 2017 Corriere della Sera.
Non aspettatevi, però, tutela della comunità da parte degli amministratori locali.
Noemi, le denunce inutili e quel padre complice. Nel silenzio agghiacciante le grida disperate dei parenti, lacrime come pioggia acida, amarissima, conclusione di undici giorni che racchiudevano ancora la speranza di rivedere Noemi, viva, scrive Tony Damascelli, Giovedì 14/09/2017, su "Il Giornale". Non c'è soltanto il nonno eroe che perde la vita cercando di salvare la propria famiglia, con lui morta nel fango buio dell'alluvione. Non c'è soltanto un padre che tenta invano di salvare il proprio figlio e la propria moglie dai fumi della solfatara. Livorno e Pozzuoli sono nuvole bianche, pagine stracciate da un'altra cronaca nera. C'è anche un padre bastardo che aiuta il proprio figlio assassino a nascondere il cadavere di una ragazza di sedici anni, uccisa per amore violento e miserabile esistenza. L'uliveto, uno dei mille, nella campagna di Castrignano del Capo, mostra alberi antichi, malati di xylella; sotto i rami bruciati dalla maledetta, giaceva il corpo straziato di Noemi, appena e vilmente coperto da alcune pietre staccate dal muretto a secco davanti al quale era stato lasciato dai due delinquenti, dopo averla finita, a colpi di pietra, qualche metro più in là, dove la terra è diventata più rossa, di sangue, poi coperta e bonificata dalla calce viva. Nel silenzio agghiacciante le grida disperate dei parenti, lacrime come pioggia acida, amarissima, conclusione di undici giorni che racchiudevano ancora la speranza di rivedere Noemi, viva. Undici giorni nei quali tutti sapevano, molti supponevano, alcuni mormoravano, nessuno interveniva. Il Salento scopre l'orrore dopo un'estate di follia turistica, le masserie e le spiagge ritrovano il silenzio di settembre, la bara bianca si è portata via Noemi mentre attorno è incominciata la sagra del macabro, la processione dei pellegrini non verso il santuario di Santa Maria di Leuca, là dove si uniscono i due mari, le acque dell'Adriatico e quelle dello Ionio, ma sono curiosi ignoranti che vogliono vedere, quasi toccare, il luogo del misfatto, scattare fotografie, portare via un ricordo maligno, larve e insetti umani come sono larve e insetti quelli che ammorbavano l'aria intorno al luogo del delitto. Padre e figlio, il complice e l'assassino, sono un'altra immagine, l'ultima in ordine di tempo, di una terra che ha già offerto la storia miserabile di Avetrana, un altro padre che decise di nascondere il cadavere di una nipote, una ragazza bambina, uccisa da altre mani di famiglia, una follia mafiosa, una complicità schifosa che denuncia una miseria sociale ed esistenziale che si aggrappa alla droga, al furto, alla violenza domestica, alle minacce, ai ricatti. Sarah Scazzi e Noemi Durini sono vittime di realtà fintamente felici, di giovinezze falsamente libere e indipendenti. Sono segnali di fumo nero e acre di una società tossica che fugge alle proprie responsabilità, che non affronta e, soprattutto, non comprende il pericolo, non risolve le denunce, dieci, cento, mille, di violenze, di soprusi, di aggressioni, perché ormai fanno parte del quotidiano, di una movida che conduce all'immobilità di menti e di corpi. Adolescenti alla ricerca della libertà e famiglie sfatte, disgraziate, disperate, senza grazia, senza speranza. L'omicidio di Noemi Durini non è un semplice fatto di cronaca nera. È la sirena di allarme che continua a suonare mentre pensiamo che si tratti di un cattivo funzionamento, di una finestra socchiusa, di una porta lasciata aperta per caso. Invece è la gioventù che si spegne nel degrado, nella polvere di sogni facili, è la storia di famiglie che non sono più tali, di padri che non sono eroi ma assassini e complici, di madri silenziose, vittime codarde. Il Salento è la terra bellissima de «lu sule, lu mare e lu ientu». Nell'uliveto di Castrignano del Capo, il sole è calato, il mare è appena oltre il muretto a secco e il vento puzza di morte.
NOEMI SI POTEVA SALVARE. Violenze e soprusi per la 16enne uccisa: tutti sapevano. Ma indifferenza e omertà hanno prevalso Il fidanzato confessa: massacrata con le pietre. Padre indagato per occultamento di cadavere, scrive "Il Quotidiano di Puglia" (Taranto) il 14 Settembre 2017. La tensione era palpabile ieri mattina nelle Procure ed al comando provinciale dei carabinieri. Era attesa una giornata decisiva per l’inchiesta sulla scomparsa di Noemi Durini. La svolta tuttavia, l’ha data il fidanzato quando si è presentato dai carabinieri per confessare. Una decisione presa spontaneamente? In realtà il ragazzo ha sentito addosso tutta la pressione degli indizi raccolti in questi giorni dagli inquirenti e confluiti inequivocabilmente verso di lui. A cominciare dalle due tracce di sangue trovate nella Fiat 500 con cui è andato a prendere Noemi verso le quattro di domenica mattina 3 settembre e portata all’autolavaggio subito dopo. Peraltro che fossero insieme lo dimostra anche il filmato di un impianto di videosorveglianza: la pressione quel ragazzo l’ha sentita anche grazie al giro nelle campagne fatto martedì pomeriggio con i carabinieri e deve essersi sentito con le spalle al muro quando ieri mattina gli è stato notificato l’avviso di garanzia sotto forma di decreto di perquisizione della casa. Il caso è stato preso particolarmente a cuore dagli inquirenti. Da Roma, su richiesta della Procura, sono arrivati gli specialisti delle ricerche degli indizi invisibili ad occhio nudo: i carabinieri del Ris. Ed anche il Ros con la sezione specializzata in crimini violenti. Le ricerche per le campagne hanno visto l’impiego della protezione civile, dei volontari e dei reparti speciali dei vigili del fuoco. Ieri c’era anche un elicottero che sorvolava sul Basso Salento. E poco dopo mezzogiorno e mezzo è atterrato a Castrignano del Capo, in contrada San Giuseppe. Nello spiazzo libero da alberi, più vicino a quella campagna di muretti a secco ed ulivi dove poco prima L.M. 17 anni, di Montesardo, ha accompagnato i carabinieri. Il dispositivo delle ricerche e delle indagini ha chiuso un caso che ha destato preoccupazione con il passare dei giorni: la ragazza è scomparsa domenica 3 settembre, il martedì successivo la madre ha sporto denuncia. Ha preso un po’ di tempo perché la ragazza altre volte si era allontanata da casa senza dire nulla, per fare ritorno non più tardi di un giorno, un giorno e mezzo. Resta da capire, e se ne occuperanno la Procura ed il Tribunale per i minorenni, come sia possibile che una ragazza di 16 anni venga ammazzata dal fidanzatino, nonostante due “Trattamenti sanitari obbligatori” ne abbiano dimostrato la pericolosità.
Il tormento di Noemi, la paura e le fughe tra le braccia del suo assassino, scrive Goffredo Buccini il 13 settembre 2017 su "Il Corriere della Sera". Come tutte le sedicenni, Noemi aveva un confidente: Facebook. Così, forse, sarebbe bastato porsi qualche domanda in più, leggendo quella poesia rilanciata sul suo profilo in un post del 23 agosto, appena undici giorni prima d’essere lapidata in mezzo agli ulivi e i muri a secco della campagna leccese: «Non è amore se ti fa male/ non è amore se ti controlla/ non è amore se ti picchia/ non è amore se ti umilia...», un grido di dolore di tutte le donne violate e abusate dai loro uomini infami.
Ma nessuno si fa troppe domande, giù nel Basso Salentino, tra Specchia e Alessano, belle ville di vacanza della swinging Puglia e terre riarse dei poveracci, masserie rifatte a bed and breakfast e pozzi sperduti nel buio. Come ad Avetrana, del resto, l’omertoso paese di Sarah Scazzi, che dista un’ora di strada da qui, ma meno d’un sospiro di silenzio da questa trama mostruosa, quest’altra, quasi in fotocopia, di un’altra ragazzina sepolta nei campi, di altre famiglie disfunzionali o malate, di familismi amorali che diventano delitto e complicità, perché la legge non varca l’orto di casa.
Quello che ha confessato d’averla uccisa ha un anno più di lei, 17: dunque ha diritto all’anonimato e dovremmo chiamarlo «fidanzatino», se appellativo e diminutivo non suonassero come una bestemmia. Uno sbandato, dicono di lui, «che ha già fatto tre Tso», terapie obbligatorie, sussurrano. «Uno che viveva in paranoia», tanto da sfasciare a seggiolate, in un allucinante video girato e rigirato su Whats App, l’utilitaria del papà di Noemi venuto a chiedergli notizie della figlia sparita da giorni. Uno «con problemi psichici» ha ammesso perfino il Procuratore che indaga assieme ai carabinieri. Già. Tra queste case basse e candide a ridosso della Provinciale per Leuca, tra questi vicoli lastricati di nulla, la vita si spreca nella noia, la giovinezza sfuma così, uno spinello, due, il rap sparato nello stereo, la luna sopra la testa che sballa, le notti che non muoiono all’alba, la voglia di qualcosa di più forte. Noemi da più d’un anno si stava perdendo appresso a quel suo ragazzo balengo, era già stata bocciata a scuola, era presa di lui e al tempo stesso da lui terrorizzata. Le amiche dicono: «La picchiava». Lo ha detto, inutilmente, anche la mamma di Noemi, Imma, che aveva fatto denuncia al Tribunale dei minori contro il ragazzo quando la figlia le era tornata con la faccia gonfia; ma si sa come sono le indagini in certi casi. Il sindaco di Specchia, Rocco Pagliara, dice che «le cose sono state sottovalutate» e che «le istituzioni non sono senza colpa». Nessuno è senza colpa e tuttavia occorre pietà per ciascuno. Prima di tutto per la famiglia di lei, adesso arroccata nella piccola casa di Specchia, in via Madonna del Passo: con mamma Imma è rimasta solo la figlia più grande, Benedetta; il papà se n’è andato ma vive a cinquecento metri; i nonni poco lontano. Il 28 settembre Benedetta si laurea e nei giorni in cui la sorella era sparita e tutti la cercavano perfino con gli immancabili veggenti e coi cani molecolari (sì, quelli diventati famosi al tempo di Sarah) le aveva lanciato un tenero appello: «Non puoi perderti la mia festa, torna». Pensavano all’ennesima fuga, in quei giorni d’attesa e speranza. Era complicato da un pezzo stare dietro a quella ragazzina smarrita e innamorata che su Facebook postava pure le acconciature da mezzo matto di lui, scrivendo orgogliosa «anche se ne potessero fare due non ve lo darei comunque». Come al solito, paura e malìa. Solita trappola: «Mi pesta perché tiene tanto a me». Cinque volte in tre mesi era scappata Noemi. E quando non scappava tornava alle sei di mattina. Un cugino la portava spesso a Montesardo, la frazione di Alessano, dove abitava lui. E lui stava lì ad aspettarla, ormai sempre più sospettoso, geloso, «vuoi lasciarmi, vuoi tradirmi...». Colpa di lei, certo, si sa, è sempre colpa di una lei, no?, quando un lui la riempie di botte per amore...Vito, il nonno materno, lo dice senza girarci attorno: «Bisognava intervenire prima. Quello là andava rinchiuso in una casa di cura. E penso che il lavoro non l’abbia fatto da solo», aggiunge in un soffio. Quel soffio spalanca un incubo dentro l’incubo. Perché assieme al ragazzo è sotto accusa il padre, Biagio, uno che descrivono in lite perenne con la giustizia, senza un lavoro stabile, uno che s’arrangia. Uno che di Noemi diceva: «È un cancro per mio figlio». Chissà quanto c’è di vero; gli odi tra le due comunità, Specchia e Alessano, sono radicati come piante secolari. Si odiavano le famiglie, finché l’odio non è tracimato anche sull’amore di due poveri adolescenti già traballante di suo. Dicevano che l’accusa per il padre fosse «tecnica». Dovevano perquisire la 500 bianca su cui il ragazzo ha portato via Noemi la notte del 3 settembre. Lui, a 17 anni e in barba alla legge, guidava abitualmente. Ma la macchina è del papà, sarebbe stato un «atto dovuto». E tuttavia: qualcuno l’ha lavata la macchina, cancellando almeno le tracce più visibili. E tuttavia: i tabulati potrebbero raccontare di qualche telefonata alle cinque del mattino, le celle telefoniche potrebbero ricostruire qualche spostamento inspiegabile se non in un quadro di complicità. E il quadro s’è fatto più fosco, dunque. Ancora una volta viene in mente Avetrana: l’ombra di zia Cosima che cattura Sarah, quella di zio Michele, schiavo di famiglia e di masseria, che si china a nascondere Sarah nel pozzo. Un pozzo così simile alla tomba di pietre che ha sepolto gli incubi di Noemi e la mala coscienza di chi non li ha scacciati in tempo.
Ordine giornalisti: osservare doveri deontologia, scrive il 14 Settembre 2017 "La Gazzetta del Mezzogiorno". Un invito «ad osservare i doveri deontologici nell’esercizio del diritto di cronaca, pur nel comprensibile coinvolgimento emotivo» viene rivolto con una nota a tutti gli iscritti dall’Ordine dei giornalisti della Puglia in relazione alla vicenda di Specchia (Lecce) dell’uccisione della sedicenne Noemi Durini da parte del fidanzato 17enne. «Cronache e immagini devono, in casi come questi - spiega l'Ordine dei giornalisti - richiedere un supplemento di professionalità, che impone pertanto di applicare i principi deontologici nell’uso di tutti gli strumenti di comunicazione, compresi i social network. Il diritto all’informazione, specie quando si tratta di vicende che riguardano i minori, impone di elaborare e diffondere con ogni accuratezza possibile ogni dato, ogni immagine, ogni notizia di pubblico interesse secondo la verità sostanziale dei fatti ed essenzialità dell’informazione».
Specchia. Noemi Durini e Lucio Marzo. Un film già visto, come Sarah Scazzi. Lucio Marzo, fidanzato di Noemi, ha confessato ed ha fatto trovare il corpo. Per il delitto di Sarah Scazzi, Michele Misseri, reo confesso, anch’egli ha fatto trovare il corpo, ma non è stato condannato per l’omicidio. Chi sarà condannato per il delitto di Noemi Durini?
Non aspettatevi, però, tutela della comunità da parte degli amministratori locali, se non fumo negli occhi.
Omicidio Noemi, Specchia non ci sta: “chi offende la nostra città ne risponderà in Tribunale”. Con una delibera di Giunta è stato deciso di dare mandato a un legale che avrà il compito di tutelare buon nome della città, scrive il 29 settembre 2017 Lecce news. Sono trascorse due settimane esatte da quel 13 settembre, quando, a seguito della confessione del fidanzato, è stato ritrovato, nascosto tra i sassi di un terreno agricolo di Castrignano del Capo, il corpo senza vita della giovane Noemi. L’omicidio della 16enne di Specchia ancora fa parlare e riempie le pagine di tutti, proprio tutti, gli organi di informazione locale e nazionale. Una vicenda triste, tristissima, quella della giovane studentessa che ha sconvolto moltissime persone ma, soprattutto, la comunità di Specchia che ancora piange la scomparsa della sua piccola concittadina. Naturalmente, non poteva essere diversamente, ripetiamo, questa storia ha avuto una eco mediatica importante e, per certi versi, sproporzionata. In questo contesto non sono mancati i riferimenti negativi nei confronti della piccola e bellissima cittadina del Salento, impegnata da sempre nel promuovere le proprie bellezze storico-artistiche-architettoniche e culturali del proprio entroterra. Con il trascorre degli anni, infatti, Specchia è divenuta un’eccellenza turistica della provincia di Lecce, si è affermata come uno dei borghi più belli d’Italia, dei comuni gioiello d’Italia ed è stata insignita della Bandiera arancione del Touring Club, oltre a ospitare ogni estate 10mila turisti provenienti da ogni dove. Non è, quindi, quel “Villaggio dal nome sconosciuto, che si è conosciuto a causa dell’omicidio di Noemi e che non ha futuro”, come è stato scritto in alcuni articoli. Per questo motivo l’Amministrazione comunale ha deciso di tutelare il buon nome della città e, nella giornata di oggi, con una Delibera di Giunta ha fornito atto di indirizzo per la nomina di un legale che ponga in essere ogni azione utile a tutelarne il nome, l’immagine e l’onorabilità. In questi ultimi tempi, è bene chiosarlo, si è un po’ tracimato e, senza dubbio, anche la comunità specchiese può essere definita una “vittima” di tutto ciò.
Specchia, il sindaco chiede i danni: «Lesa la nostra immagine», scrive Donato Nuzzaci su "Il Quotidiano di Puglia" Sabato 30 Settembre 2017. Sconvolta dal dolore per la tragica vicenda di Noemi Durini - la 16enne trovata morta nelle campagne di Castrignano del Capo dopo circa 10 giorni dalla notizia della scomparsa -, la comunità di Specchia cerca ora di rialzarsi, non senza togliersi qualche sassolino dalla scarpa. L’amministrazione comunale, guidata dal sindaco Rocco Pagliara, ha deciso di fare il punto sul racconto a livello mediatico di questo drammatico evento, arrivando ad una prima conclusione: mandato legale per difendere l’immagine di Specchia che in determinati servizi giornalistici «è stata denigrata nella maniera peggiore». Così ha deliberato l’altro giorno la giunta comunale prendendo atto che, a suo dire, in tanti «hanno provato a descrivere Specchia entrando in una realtà che non conoscevano e della quale si è parlato in modo spropositato, sbagliato e non consono rispetto a ciò che ogni giorno si vive in questa comunità». «Il paese ha un tessuto sociale e culturale sano ed è complessivamente un borgo vivo e sopra la media sia in termini qualitativi che quantitativi», spiega il sindaco Pagliara. «Qualche giornalista ha definito Specchia “un villaggio dal nome sconosciuto”, “villaggio senza età né futuro” e altre espressioni che a nostro avviso sono insinuazioni completamente infondate e diffamatorie», si legge nella delibera.
«TERRE DI NIENTE E DI NESSUNO…» Avetrana e Specchia come «le pietraie dell’Afganistan» è un articolo apparso il 21 settembre 2017 sui giornaletti locali a bassa tiratura. Si riferisce ad un testo del giornale on-line Lettera43 che pubblica un articolo a firma del giornalista Massimo del Papa con un titolo e contenuto che non è stato gradito al vice-sindaco di Avetrana Alessandro Scarciglia. Nell’articolo il giornalista paragona Avetrana e Specchia “alle pietraie dell’Afganistan,” e così Alessandro Scarciglia, a nome del Comune di Avetrana, ha segnalato l’autore del contenuto all’Ordine dei Giornalisti delle Marche chiedendo “di verificare l’eventuale presenza di violazioni etiche e morali del giornalista e di tenere informato il Comune di Avetrana sugli esiti di una eventuale azione che il Consiglio di Disciplina volesse intraprendere.” Qui di seguito la segnalazione integrale inviata All’OdG delle Marche dal vice sindaco: «Ill.mo Ordine, con la presente voglio segnalare un articolo pubblicato in data 18 settembre 2017 sul giornale on-line “LETTERA 43” a firma del giornalista sig. Massimo Del Papa, dal titolo “Avetrana, Specchia e le pietraie d’Italia figlie del Grande Fratello” e dal sottotitolo “Villaggi dai nomi sconosciuti, che un giorno tutti imparano per le ragioni più atroci. Villaggi senza età né futuro. Storditi davanti a un televisore, incantati da personaggi che non esistono”. Il giornalista Del Papa, nel paragonare il comune della giovane vittima di Specchia (LE) al Comune di Avetrana (TA), usa, a parere dello scrivente, termini alquanto offensivi nei confronti dell’intera comunità di cui mi onore di amministrare. Di seguito riporto alcuni passaggi del suddetto articolo che fanno riferimento ai comuni di Avetrana e Specchia:
• “terre di niente e di nessuno, senza speranze, che i telegiornali mostrano simili a pietraie dell’Afganistan”;
• “qui la gente si limita a sospettare altre forme di vita su altri pianeti mostrati dalla televisione, neanche internet, che serve a chattare la non-vita di ogni minuto”;
• “nelle pietraie del Sud d’Italia riparte la faida”;
• “la televisione è ancora l’unico antidoto alla noia della pietraia, insieme alle canne e, a volte, altra roba più forte”;
• “non si vuole dire che chi guarda il Grande Fratello poi diventa balordo e criminale, si vuole semplicemente dire che, nelle mille pietraie d’Italia, l’orizzonte culturale è quello, la speranza di vita è quella”.
Non starò certo qui ad annoiare l’ Ill.mo Ordine dei Giornalisti elencando le bellezze naturalistiche e storiche dei nostri luoghi o i diversi concittadini che si sono distinti (e continuano a farlo) per vari meriti in ambito nazionale ed internazionale; non starò qui a dire che negli ultimi anni il turismo cresce a livello esponenziale grazie all’impegno dei privati e delle pubbliche amministrazioni che quotidianamente, con umiltà, sacrifici e amore per la propria terra, si impegnano ad offrire servizi migliorativi. E non starò certo qui ad annoiare con una difesa di parte sull’onorabilità del comune di Avetrana e dei suoi cittadini. Sono qui solo ad esprimere la propria rabbia (e a rappresentare quella degli abitanti di Avetrana) per quanto scritto nell’articolo in questione. Si chiede al Consiglio di Disciplina dell’Ordine dei Giornalisti delle Marche, che legge in copia, di verificare l’eventuale presenza di violazioni etiche e morali del giornalista e di tenere informato il Comune di Avetrana sugli esiti di una eventuale azione che il Consiglio di Disciplina volesse intraprendere. Per le eventuali contestazioni penali e/o civili ci stiamo consultando con i legali del Comune per verificare la fattibilità di un’azione giudiziaria che possa ridare dignità alla città di Avetrana, da troppo tempo martoriata ed infangata da certa stampa. Nell’esprimere la massima stima all’Ordine dei Giornalisti di tutta Italia, porgo sinceri saluti. Alessandro Scarciglia (Vicesindaco Comune di Avetrana)».
Sicuramente è il massimo che da questi amministratori locali ci si potesse aspettare.
Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.
Popolo di Avetrana, se avete un po’ di dignità ed orgoglio, indignatevi e condividete questo post su quanto ha scritto contro gli avetranesi Nazareno Dinoi, amico dei magistrati di Taranto (ma non dei magistrati di Bari, per cui è stato processato a Lecce per aver diffamato il Procuratore Laudati) e direttore de "La Voce di Manduria", un giornalino locale di un paese vicino ad Avetrana. Il "mandurese" diffama indistintamente tutti gli avetranesi, e non me ne spiego l'astio, e gli amministratori locali e la loro opposizione non sono capaci di difendere l’onore di Avetrana contro la gogna mediatica programmata sin dal 26 agosto 2010 e protratta da giornalisti da strapazzo sui giornali ed in tv.
“La triste fine di Sarah Scazzi ha dato improvvisa notorietà al piccolo paese di Avetrana altrimenti sconosciuto ai più. Ha portato luce su un paese in ombra infastidendo chi vi abita. Ed è anche sugli avetranesi che il caso Scazzi si è contraddistinto per un’altra peculiarità: l’omertà, il visto e non visto, il non ricordo, il forse, il lo so ma non ne sono sicuro, il meglio farsi gli affari propri. Un popolo onesto che di fronte alla richiesta di coraggio si è tirato indietro. Anche in questo caso parlano i numeri e i dati: gli investigatori hanno ascoltato poco più di duecento persone, per la maggioranza avetranesi, poche hanno detto di aver visto qualcosa, nessuno si è presentato spontaneamente per aiutare la giustizia con l’amaro risultato che resterà negli annali delle cronache giudiziarie: dodici di loro sono stati indagati per falsa testimonianza o addirittura per favoreggiamento. Un record in negativo con cui Avetrana e gli avetranesi dovranno fare i conti.”
Il giornalista, come lui si definisce, dovrebbe sapere che i conti si fanno alla fine. Per ora omette di contare i due imputati assolti dall'accusa di favoreggiamento...o questo per omertà o censura non si può dire?
Quarto Grado. Nuzzi, Longo ed Abbate, Avetrana vi dice: vergogna!
Per il resto ospite è Grazia Longo, cronista de “La Stampa”, che si imbarca in accuse diffamatorie, infondate e senza senso: «…e purtroppo tutto questo è maturato in seno ad una famiglia ed anche ad un paese dove mentono tutti…qui raccontano tutti bugie».
Vada per i condannati; vada per gli imputati, ma tutto il paese cosa c’entra?
Ospite fisso del programma è Carmelo Abbate, giornalista di Panorama, che anche lui ha guizzi di idiozia: «io penso che da tutto quello che ho sentito una cosa la posso dire con certezza: che se domani qualcuno volesse scrivere un testo sull’educazione civica, di certo non dovrebbe andare ad Avetrana, perché al di là della veridicità o meno della dichiarazione della ex compagna di Ivano, al di là della loro diatriba, è chiaro che qui c’è veramente quasi un capannello di ragazzi che nega, un’alleanza tra altri che si mettono d’accordo: mamma ha visto questo, mamma ha visto quest’altro. Ma ci rendiamo conto di quanto sia difficile scalfire, scavalcare questo muro, veramente posto tra chi deve fare le indagini e la verità dei fatti? E’ difficilissimo. Cioè, la sicurezza, la nostra sicurezza è nelle mani di noi.»
Complimenti ad Abbate ed alla sua consistenza culturale e professionale che dimostra nelle sue affermazioni sclerotiche. Cosa ne sa, lui, dell'educazione civica di Avetrana?
Fino, poi, nel prosieguo, ad arrivare in studio, ad incalzare lo stesso Claudio, come a ritenerlo egli stesso di essere omertoso e reticente. Grazia Longo: «…però Claudio anche tu devi parlare, anche tu, scusa se mi permetto, dici delle cose e non dici. Io non ho capito niente di quello che hai detto. Tu sai qualcosa e non lo vuoi dire!»
Accuse proferite al fratello della vittima…assurdo!
Eppure questi amministratori locali sono stati interpellati dal sottoscritto dr Antonio Giangrande:
Al Presidente del Consiglio Comunale di Avetrana
Per il sindaco di Avetrana e la Giunta Comunale
Per i consiglieri comunali
Avetrana lì 3 giugno 2015
Oggetto: Art. 47/49 Statuto di Avetrana. Richiesta di convocazione di un Consiglio Comunale monotematico attinente il Caso Sarah Scazzi per la ricerca di strumenti di tutela dell’immagine e della reputazione del paese e dei suoi cittadini di fronte alla gogna mediatica a cui è perennemente sottoposto.
Il sottoscritto Dr Antonio Giangrande, scrittore, nato ad Avetrana il 02/06/1963 ed ivi residente alla via Manzoni, 51, presidente nazionale della Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno, direttore di Tele Web Italia e vice presidente della Associazione Pro Specchiarica, sodalizio di promozione del territorio, con sede legale in via Piave 127 ad Avetrana, tel 0999708396 cell. 3289163996,
premesso che sin dal 26 agosto 2010, dal momento della scomparsa di Sarah Scazzi in Avetrana, i cittadini del paese sono oggetto di una gogna mediatica senza soluzione di continuità che non trova pari in nessun altro caso di cronaca nazionale ed internazionale. Da allora ho scritto 3 libri sul delitto, rendicontando giorno per giorno eventi avvenuti e commenti elargiti in tutta Italia. Per gli effetti ho verificato che di Avetrana si è fatta carne da macello. Se da una parte, per quanto riguarda i protagonisti della vicenda, il diritto di cronaca è tutelato dalla Costituzione italiana, quantunque per esso non vi è giustificazione quando per loro questo si travalica. E’ criminale, però, quando si coinvolgono in questa matassa tutti gli altri cittadini di Avetrana che nulla centrano con la vicenda. Eppure dal 26 agosto 2010 tutti gli avetranesi sono stati dipinti come retrogradi, omertosi e mafiosi. Chi riesce ad andare oltre i confini della “Cinfarosa” si accorge che Avetrana è conosciuta in tutto il mondo e certo non in toni lusinghieri. Tanto da far mortificare i suoi cittadini e far pagare loro fio per colpe non commesse. Non basta il mio prodigarmi a favore di Avetrana attraverso la pubblicazione dei miei libri o di video o di note stampa sui miei o altrui blog per ristabilire la verità. Io sono sempre un semplice cittadino che non fa testo e questo è un limite, oltretutto, chi mi segue, per come mi conosce, non pensa che io sia di Avetrana e ciò rende meno efficace la posizione da me assunta. D’altra parte, però, a difesa dei diritti di Avetrana si è notato una certa mancanza di iniziativa adeguata da parte dell’Amministrazione Comunale, tanto meno la minoranza ha adottato misure opportune di pungolo o di critica. Il tutto per mancanza di coraggio o di impreparazione comunicazionale. E per questo nei libri non ho mancato di rilevare l’ignavia atavica degli amministratori. Poco si è fatto e quel poco è risultato al di più dannoso. Se da una parte può essere considerato opportuno, con oneri per la comunità, costituirsi parte civile nei confronti di chi si addita prematuramente come responsabile e comunque non ha nulla da risarcire, intollerabile è che Pasquale Corleto, avvocato per il Comune di Avetrana, che dovrebbe tutelare l’immagine degli avetranesi, dica in pubblica udienza inopinatamente: «Avetrana è una città di gente che lavora e vi preannunzio per andare sempre più in fretta LA GENTE DI AVETRANA E’ COME MICHELE MISSERI. Se ad Avetrana non ci fosse stata gente sana, non avremmo potuto parlare della contestazione d'accusa di sequestro di persona». Io non sono come Michele Misseri. Io non mi accuso di essere un assassino!
A Specchia il 29 settembre 2017 si è dato mandato ad un legale per presentare un atto contro i diffamatori che poteva essere fatto motu proprio senza spese con una semplice querela di parte. Ad Avetrana anziché presentare motu proprio la querela contro i giornalisti diffamatori, il 29 agosto 2017 il Consiglio Comunale ha approvato la spesa fuori bilancio di oltre 42 mila euro per un avvocato, non di Avetrana, per prendersela con i Misseri. Anzichè prendersela con i giornalisti, si sono spesi oltre 40 mila euro per un avvocato, Pasquale Corleto di Lecce e non di Avetrana, per prendersela con i Misseri e per dire “LA GENTE DI AVETRANA E’ COME MICHELE MISSERI”.
Comunque, l’inadeguato contrasto da parte del Comune di Avetrana ha portato all’apice dell’ignominia.
In occasione della notifica dei 12 gli avvisi di conclusione delle indagini preliminari fatti notificare a quanti, secondo l’accusa, erano a conoscenza di fatti e particolari riguardanti l’omicidio e hanno taciuto, o peggio detto il falso, dinanzi ai pubblici ministeri o alla corte d’assise, i media si sono sbragati.
Nel caso dell'omicidio di Sarah Scazzi, trattato molto spesso da “Quarto Grado” su “Rete 4” di Mediaset la redazione (guidata da Siria Magri) si è attestata su una linea prevalentemente conforme agli indirizzi investigativi della pubblica accusa, cioè della Procura della Repubblica di Taranto. Tanto che i suoi ospiti, quando sono lì a titolo di esperti (pseudo esperti di cosa?) o, addirittura, a rappresentare le parti civili, pare abbiano un feeling esclusivo con chi accusa, senza soluzione di continuità e senza paura di smentita. A confermare questo assioma è la puntata del 15 maggio 2015 di “Quarto Grado”, condotto da Gianluigi Nuzzi ed Alessandra Viero e curato da Siria Magri.
A riprova della linea giustizialista del programma, lo stesso conduttore è impegnato a far passare Ivano come bugiardo, mentre il parterre è stato composto da:
Alessandro Meluzzi, notoriamente critico nei confronti dei magistrati che si sono occupati del processo, ma che sul caso trattato è stato stranamente silente o volutamente non interpellato;
Claudio Scazzi, fratello di Sarah;
Nicodemo Gentile, legale di parte civile della Mamma Concetta Serrano Spagnolo Scazzi.
Solita tiritera dalle parti private nel loro interesse e cautela di Claudio nel parlare di omertà in presenza di cose che effettivamente non si sanno.
Per il resto ospite è Grazia Longo, cronista de “La Stampa”, che si imbarca in accuse diffamatorie, infondate e senza senso: «…e purtroppo tutto questo è maturato in seno ad una famiglia ed anche ad un paese dove mentono tutti…qui raccontano tutti bugie».
Vada per i condannati; vada per gli imputati; vada per gli indagati; ma tutto il paese cosa c’entra?
Ospite fisso del programma è Carmelo Abbate, giornalista di Panorama, che anche lui ha guizzi di idiozia: «Io penso che da tutto quello che ho sentito una cosa la posso dire con certezza: che se domani qualcuno volesse scrivere un testo sull’educazione civica, di certo non dovrebbe andare ad Avetrana, perché al di là della veridicità o meno della dichiarazione della ex compagna di Ivano, al di là della loro diatriba, è chiaro che qui c’è veramente quasi un capannello di ragazzi che nega, un’alleanza tra altri che si mettono d’accordo: mamma ha visto questo, mamma ha visto quest’altro. Ma ci rendiamo conto di quanto sia difficile scalfire, scavalcare questo muro, veramente posto tra chi deve fare le indagini e la verità dei fatti? E’ difficilissimo. Cioè, la sicurezza, la nostra sicurezza è nelle mani di noi.»
Complimenti ad Abbate ed alla sua consistenza culturale e professionale che dimostra nelle sue affermazioni sclerotiche. Cosa ne sa, lui, dell'educazione civica di Avetrana?
Fino, poi, nel prosieguo, ad arrivare in studio, ad incalzare lo stesso Claudio, come a ritenere egli stesso di essere omertoso e reticente. Grazia Longo: «...però Claudio anche tu devi parlare, anche tu, scusa se mi permetto, dici delle cose e non dici. Io non ho capito niente di quello che hai detto. Tu sai qualcosa e non lo vuoi dire!»
Accuse proferite al fratello della vittima…assurdo! Tutto ciò detto di fronte a milioni di spettatori creduloni.
Si noti bene: nessun ospite è stato invitato per rappresentare le esigenze della difesa delle persone accusate o condannate o addirittura estranee ai fatti contestati.
Per questi motivi
SI CHIEDE ALLA SV VOSTRA
Non essendoci fin qui, colpevolmente, nessun provvedimento adottato per motu proprio, ossia d’ufficio, nonostante le segnalazioni verbali al presente ufficio di presidenza, al sindaco, al vice sindaco ed ad esponenti della minoranza, di convocare ai sensi dello Statuto del Comune di Avetrana, come previsto dagli artt. 24 comma 3, 29, 37, attraverso la presente richiesta di pubblico interesse inoltrata in virtù del dettato dello Statuto del Comune di Avetrana, ex art. 47, in qualità di presidente di una associazione ed ex art. 49 da semplice cittadino, un consiglio comunale monotematico per le motivazioni in oggetto, opportunamente pubblicizzato e partecipato. In tale sede si ricerchino e si adottino, finalmente all’unanimità ed in unione, adeguati e netti strumenti di tutela dell’onorabilità di Avetrana e dei suoi cittadini, come per esempio una denuncia per diffamazione a mezzo stampa e relativa azione civile contro i giornalisti ed al direttore del programma televisivo citati. Altresì aggiungersi una campagna stampa istituzionale, affinchè, a tale delibera adottata, sia data ampia rilevanza nazionale in modo tale che la querela non sia fine a se stessa ma attivi un clamore mediatico. In questo modo, dal dì di approvazione in poi, sia di monito a tutti e, finalmente, tutti si possano lavare la bocca prima di pronunciare qualsivoglia considerazione malevola sul nostro paese.
Comunque qualcosa va fatto, in quanto la misura è abbondantemente colma e con vostra responsabilità.
Mi è stato consigliato di soprassedere alla mia proposta, ovvia e normale in altri luoghi, ma forse considerata estemporanea ad Avetrana. Io non dispero, considerando, nonostante tutto, Avetrana un paese normale.
Con ossequi. Dr Antonio Giangrande
“La triste fine di Sarah Scazzi ha dato improvvisa notorietà al piccolo paese di Avetrana altrimenti sconosciuto ai più. Ha portato luce su un paese in ombra infastidendo chi vi abita. Ed è anche sugli avetranesi che il caso Scazzi si è contraddistinto per un’altra peculiarità: l’omertà, il visto e non visto, il non ricordo, il forse, il lo so ma non ne sono sicuro, il meglio farsi gli affari propri. Un popolo onesto che di fronte alla richiesta di coraggio si è tirato indietro. Anche in questo caso parlano i numeri e i dati: gli investigatori hanno ascoltato poco più di duecento persone, per la maggioranza avetranesi, poche hanno detto di aver visto qualcosa, nessuno si è presentato spontaneamente per aiutare la giustizia con l’amaro risultato che resterà negli annali delle cronache giudiziarie: dodici di loro sono stati indagati per falsa testimonianza o addirittura per favoreggiamento. Un record in negativo con cui Avetrana e gli avetranesi dovranno fare i conti.” Così scriveva il 29 luglio 2015 Nazareno Dinoi sul Corriere del Mezzogiorno – Corriere della Sera e su “La Voce di Manduria”. Un giornalista che sicuramente i conti li deve fare con la sua coscienza e la sua professionalità, in quanto ha qualche problema nello scrivere con libertà e verità stante la sua propensione a favore della posizione dei magistrati, di cui è ampio megafono, e dedito alla menzogna, se parla di Avetrana come paese omertoso sol perché i suoi amici magistrati lo hanno fatto passare come tale, anche se in questo è in buona moltitudine compagnia con i suoi colleghi pseudo giornalisti. Altra sedicente giornalista, tal Annalisa Latartara, non nuova ad exploit del genere (si pensi viene dalla nordica Taranto), lo stesso giorno e sempre a proposito ha scritto su “Il Corriere del Giorno” di Taranto: «Ma l’opera di depistaggio della famiglia Misseri è stata agevolata dall’omertà di chi ha visto e non ha raccontato nulla, né di sua spontanea iniziativa, né dinanzi agli investigatori. Di chi chiamato a deporre in aula non ha detto tutto quello che sapeva.» Ma contro i pregiudizi non ci sono limiti. Da ultimo e non sarà l’ultima volta, un sedicente giornalista, tal Paolo Ojetti, il 7 marzo 2013 in riferimento al delitto di Sarah Scazzi ha scritto su “Il Fatto Quotidiano”: «Quello che alla fine lascia pensosi è il “contesto”, una alchimia di arcaico e ipermoderno, di barbarie da profondo sud e di spregiudicato uso dei media da parte di assassini e di comprimari…E il movente? Messaggini erotici da tenere segreti. Ricatti sessuali adolescenziali. Difesa della purezza familiare, valore dalla cintola in giù che giustifica tuttora violenza, stupro, incesto, femminicidio. Può anche darsi che la cronaca nera punti solo all’Auditel. Ma, almeno in questo caso, è stato uno schiaffo benefico che riporta con i piedi sulla terra di un paese arretrato». In riferimento al gruppo di Sarah Scazzi il sedicente giornale “padano” di Taranto, “Taranto Sera”, scrive «Un gruppo in cui non si sarebbe disdegnata qualche pratica parecchio ‘spinta’, inconfessabile, a maggior ragione in un contesto come quello di un piccolo paese del profondo Mezzogiorno, quale Avetrana.» Ed ancora altro sedicente giornalista, tal Pasquale Amoruso e sempre a riguardo su “Il Quotidiano Italiano” (padano anch’esso) di Bari ha scritto: «L’omertà è il vero strumento di contrasto alla Giustizia nel caso Scazzi. L’omertà di Giovanni Buccolieri, il fioraio di Avetrana che dichiarò di aver visto zia e cugina costringere Sara in lacrime salire in macchina, salvo poi ritrattare la sua versione, dicendo di non aver visto effettivamente la scena, ma piuttosto, di averla sognata, e l’omertà di tre suoi parenti, indagati per favoreggiamento personale e intralcio alla Giustizia. L’omertà dei nove testimoni le cui dichiarazioni contrastano con le prove in mano agli inquirenti e l’omertà di chi, pur sapendo come stanno le cose, perché qualcuno c’è, non parla per preservare, non so cosa sia peggio, un assassino o una rispettabilità ormai perduta. Insomma, quante persone occorrono per uccidere una ragazzina? Tutte quelle che non parlano.» Ed ancora. «Sullo sfondo di queste tesi difensive, però, il ficcante lavoro della procura che abbiamo visto nelle udienze passate ha scandagliato con accuratezza la grande mole di indizi, intercettazioni, testimonianze e confidenze, entrando anche e soprattutto, non dimentichiamolo questo, nell’humus sociale, culturale e familiare nel quale si è realizzato il terribile omicidio.» Dice a mo di lacchè dei magistrati Walter Baldacconi, direttore del TG di Studio 100 tv, emittente “Padana” con sede a Taranto, criticando le tesi difensive di Nicola Marseglia e le prese di posizione di Franco Coppi in merito al fuori onda che hanno dato l’imput all’astensione dal processo Scazzi della Trunfio e della Misserini.»
Ma Nazareno Dinoi quando le cose non le sa, perchè le scrive? Scrive Giovanni Caforio il 9 aprile 2017 su Viva Voce web. Informare è giusto. Diffamare è un altro conto. E su questo il direttore de La voce di Manduria dovrebbe preoccuparsi. Seriamente. Questa mattina il cellulare è impazzito: “Corri, ho una notizia incredibile per te!” Era questa la prima chiamata domenicale. Incontro al bar e sul bancone, assieme all’ottimo caffè dell’Elio bar, mi trovo la copia festiva del Quotidiano di Puglia. Titolone “Il racket delle sepolture dietro l’attentato al sindaco di Sava”. Addirittura. Il caffè viene sorseggiato in modo anomalo. E’ troppa la curiosità di leggere l’articolo che con il titolo copre tutta la prima pagina. E poi è scritto da Nazareno Dinoi, mica uno qualunque! Ma andiamo all’articolo e ai passi che hanno colto il nostro stupore e la nostra incredulità. “La sostituta procuratrice, Ida Perrone chiederà il rinvio a giudizio” e quindi, vuol dire che non lo ha ancora chiesto, pertanto non c’è nessuna richiesta sul tavolo di rinvio a giudizio ma solo indagini. Andiamo avanti, e qui viene la lode al sindaco pro tempore savese: “Del giovane ma coraggioso sindaco che da poco eletto cominciava ad interessarsi di cose evidentemente pericolose”. Stop su questo passo. Dinoi scorda, o fa finta di scordare, che il “giovane sindaco” aveva prolungato il contratto con la Global Work per un altro anno quando la stessa era stata bandita pochi mesi prima dalla DDA di Lecce per infiltrazioni camorristiche nella sua Manduria. Ma questo Dinoi lo ha scordato? Proseguiamo. Un dato importantissimo: l’attentato fu subito da IAIA nell’aprile del 2013. La gara d’appalto per i servizi cimiteriali fu espletata nel gennaio 2015. “Anche la gara d’appalto al cimitero era stata aggiudicata facendo ricorso alle minacce”. Falso. Doppiamente falsa questa affermazione. Ecco perché: fui invitato io a presiedere nell’ufficio del dirigente al Patrimonio, arch. Alessandro Fischietti, all’apertura delle buste delle ditte che concorrevano per la gara di aggiudicazione dei lavori all’interno dell’area cimiteriale. Furono 4 le ditte che parteciparono. Di queste 4 una fu esclusa in quanto mancava parte della documentazione richiesta. Delle restanti tre, due presentarono un ribasso del 21.50% e l’altra del 24,50%. La terza, quella della cooperativa di D’Ambrogio presentò un ribasso del 41%. E visto che la gara d’appalto parlava del massimo ribasso, l’architetto Alessandro Fischietti affidò in seduta stante alla Cooperativa Aurora, che vedeva Fernando D’Ambrogio presidente, la gestione dei lavori cimiteriali per due anni. Data questa stabilita dalla gara. Quindi, caro Dinoi, non ci sono state ne minacce ne tanto altro che lasci trasparire nel tuo articolo. Il Comune di Sava, in questo caso rappresentato dal dirigente al Patrimonio architetto Alessandro Fischietti attento e vigile sull’evolversi della seduta di aggiudicazione, non ha potuto far altro che legittimare la gara. E non ha obbligato l’ente savese ad affidare per forza la gara alla Cooperativa Aurora. Ed era tutto regolare!!! Ero testimone di tutta l’operazione, come si dice, oculare!!! Quanto all’attentato alla sorella del primo cittadino, mi devi spiegare caro luminare del giornalismo come fa un auto che parte da Torre ovo, e fare circa una dozzina di chilometri, e poi fermarsi e notare che i bulloni della sua ruota sono stati svitati? Me lo spieghi, per favore? Ma la dinamica sappiamo cos’è? La sappiamo bene? Non abbiamo il tuo curriculum giornalistico, e questo non ci cambia la vita, ma abbiamo la logica delle cose …Giovanni Caforio
Curriculum giornalistico? Ma non è infermiere?
Bavaglio all’informazione, ASL Taranto: Due procedimenti disciplinari in poco tempo a infermiere – giornalista, scrive il 28 settembre 2017 "La Voce di Maruggio". “Per me si tratta di un bavaglio”. Nazareno Dinoi dipendente ASL infermiere presso il 118 di Manduria, vive a Manduria e come giornalista ha curato gli articoli di cronaca nera sulla drammatica storia di Sarah Scazzi ad Avetrana. È il direttore de “La Voce di Manduria”, collabora con il Quotidiano di Puglia, ha collaborato per il “Corriere del Mezzogiorno è anche scrittore e autore di diversi libri tra cui “Dentro una vita” e “Sarah Scazzi, il pozzo in contrada Mosca”. Giornalista di cronaca nel tempo libero, finito nelle ultime ore dentro la notizia, per una vicenda che lo vede contrapposto all’ Asl di Taranto. “Ho sempre scritto senza mai avere problemi di alcun tipo – ci ha raccontato a telefono – fino a quando il consigliere regionale Giuseppe Turco, a gennaio, ha presentato un esposto contro di me, secondo cui le due attività di infermiere e giornalista sono incompatibili. Da lì è partito un procedimento disciplinare, a marzo ho avuto la sospensione senza stipendio per un mese. La motivazione addotta dalla Asl è che io non potevo avere la partita iva, necessaria per documentare gli introiti della mia attività giornalistica. Ovviamente ho fatto opposizione e ne discuteremo davanti al Giudice del lavoro a novembre”. “Adesso mi è arrivata un’altra contestazione. In sostanza -spiega – mi dicono che posso fare il giornalista, senza però trattare argomenti che riguardano la Asl, genericamente, senza entrare nello specifico; non mi dicono, per esempio, che non posso scrivere di malasanità. La cosa particolare, però, è che gli articoli oggetto della contestazione riguardano una vicenda di cronaca nota a tutti, l’omicidio di una signora al Pronto Soccorso dell’ospedale di Taranto commesso da uno squilibrato”. “Nel primo pezzo riporto fedelmente degli estratti dai comunicati stampa del Sindaco, dell’Onorevole Vico e del consigliere Borraccino; nel secondo riporto una delibera pubblicata sul sito della Asl, accessibile da chiunque, per cui l’Azienda Sanitaria Locale si costituirà parte civile quando inizierà processo per il delitto della signora. Il 3 ottobre si riunirà la commissione di disciplina e mi aspetto che ci andranno con la mano pesante, parliamo di due contestazioni in breve tempo. Lo stesso contratto prevede l’inasprimento della pena”. “Che tutto sia iniziato con l’esposto di Turco non lo dico io, lo scrive la stessa Asl nelle motivazioni del provvedimento di sospensione. Ora, non mi dicono che io non posso scrivere, cosa che tra l’altro non si può fare perché viola il diritto costituzionale della libertà d’espressione, però così passa il messaggio che non posso scrivere cose scomode a loro, ed è brutto”.
Va bene, ma gli amministratori locali e con essi l’opposizione consiliare cosa hanno fatto?
«Nonostante lo smacco giudiziario e l’offesa mediatica a tutta la popolazione avetranese il sindaco della ridente località, Mario De Marco, del Popolo delle Libertà, e la sua giunta cosa fanno? Anziché prendersela con chi ci sputtana, le loro ire si rivolgono alle parti più deboli, forse responsabili di delitti che, però, niente hanno a che fare con le insinuazioni o le vere e proprie accuse di omertà ed arretratezza sociale e culturale della comunità. «Avetrana - si legge nell'atto di parte civile - si è guadagnata la triste fama di cittadina quasi omertosa, simbolo di un profondo sud, vittima ancora oggi di troppi luoghi comuni. Sono note le spedizioni dei cosiddetti turisti dell'orrore - continua l'avvocato Corleto - che si sono avventurati nei luoghi simbolo della vicenda: le vie in cui si trovano le abitazioni della famiglia di Sarah e della famiglia Misseri, lo stesso cimitero che ospita la tomba di Sarah, nonché il pozzo di campagna nel quale è stato rinvenuto il cadavere della ragazzina sono stati meta di veri e propri pellegrinaggi. In questa dolorosa vicenda ci sono due vittime. La prima è certamente Sarah, l'altra è la città di Avetrana». «Gli Avetranesi hanno nel cuore Sarah e sono offesi dal comportamento della famiglia Misseri. Perché a prescindere dalle singole responsabilità che saranno accertate nel dibattimento, sono stati loro a innescare la morbosa attenzione dei media su questo caso e la conseguente ripercussione negativa per l'immagine della nostra comunità», rincara la dose il vicesindaco Alessandro Scarciglia. «In tutta questa situazione la popolazione di Avetrana è rimasta letteralmente disorientata, privata della propria serenità, impossibilitata ad osservare il dovuto silenzio e rispetto nei confronti della giovane vittima, nonché violentata in ogni aspetto della quotidianità, oltre che letteralmente assediata dai mezzi di informazione». Una «sete di giustizia», continua il documento della costituzione di parte civile, per «un’offesa enorme, una ferita profonda che merita di essere valutata e adeguatamente riparata in sede giudiziaria». Per gli amministratori che si dichiarano parte offesa, quindi, «il nome di Avetrana è ormai tristemente associato al crimine del quale sono chiamati a rispondere gli imputati» che dovrebbero così, se condannati, rifondere la somma «che sarà poi quantificata - ha spiegato il penalista Corleto - in un secondo tempo e in sede civilistica». Lo stesso avvocato che dovrebbe difendere la reputazione di Avetrana afferma inopinatamente: «Avetrana è una città di gente che lavora e vi preannunzio per andare sempre più in fretta LA GENTE DI AVETRANA E’ COME MICHELE MISSERI. Se ad Avetrana non ci fosse stata gente sana, non avremmo potuto parlare della contestazione d'accusa di sequestro di persona». E MENO MALE CHE DIFENDE L'ONORE DI AVETRANA, perchè gli Avetranesi non gettano i bambini nei pozzi!!!! L’avvocato Pasquale Corleto il quale, in rappresentanza del Comune di Avetrana, ha fatto un’esposizione giuridica che ha ricalcato, potenziandola, la tesi dei pubblici ministeri. Difendendo a suo parere subito la «parte sana» della comunità avetranese (e meno male se fosse stato il contrario?), per il cui danno all’immagine ha chiesto 300 mila euro di risarcimento danni, il penalista leccese ha esordito dicendo che «la popolazione di Avetrana non è omertosa, è fatta di persone buone», fatta eccezione, ha aggiunto diffamando gratuitamente, prima con un’intervista a Blustar TV e poi in aula, coloro che in giudizio non sono. «Il collegio dei Falsi, cioè Valentina (Misseri) e compagni, che buttando a mare tutti gli avvocati precedenti, hanno imposto questa linea della banda del falso che come Ivano Russo sono i giganti del turpiloquio e del depistaggio: una serpe. E’ il soggetto più turpe, più viscido. La serpe che entra nel processo. Che parla fuori, dentro le aule, le interviste, alle telecamere e tutto ciò che sapete, quando deve dire qualcosa di concreto, è questo il vangelo dettato dalla regia. Quando si sono visti con le mani al collo non potevano più dire chiacchiere a gente con la toga e dicono non ricordo». Avetrana: omertà e mafia, luoghi comuni che si rincorrono. «Un massacro gestito con metodi mafiosi. Sarah Scazzi è stata massacrata ed è un massacro peggiore per le condotte successive al delitto che denotano un metodo mafioso, da 416 bis. Sarah non doveva essere solo uccisa - ha spiegato Nicodemo Gentile, l’avvocato degli Scazzi - ma doveva sparire ed essere annientata. Non doveva esistere più. Doveva diventare uno di quei tanti volti che fanno parte dell'esercito di scomparsi.» Chi rappresentava Avetrana avrebbe fatto meglio a cercare e catalogare in questi anni ogni articolo di stampa ed avrebbe dovuto registrare ogni intervento delle miriadi trasmissioni tv per far rendere il conto delle loro denigrazioni ai rispettivi responsabili, siano essi ignoranti giornalisti o che siano pseudo esperti improvvisati. Come non dar ragione all’altra parte politica di Avetrana: «Sono Cinzia Fronda, cittadina del paese di Avetrana e segretaria sezionale del Partito Democratico. Scrivo da cittadina di un paese devastato, maltrattato, violentato da tanto orrore. Ovviamente mi riferisco al caso Scazzi che da qualche giorno è tornato prepotentemente alla ribalta. Ho sentito diversi giornalisti che con una facilità pericolosa e poco professionale, secondo la mia opinione, continuano a denigrare Avetrana e i suoi abitanti facendoci passare per quelli omertosi, ignoranti e, perché no? Cittadini di serie C2! Sono veramente stanca di questo continuo maltrattamento mediatico, vorrei fare presente che la maggior parte dei cittadini di Avetrana sono persone normali, con una cultura normale, con una vita normale e che non mi sembra assolutamente giusto che si faccia di tutta l'erba un fascio. Con tutto il rispetto per gli abitanti di Brembate, che hanno anche amministratori di rispetto che ben si sono guardati dall'esporsi in maniera esagerata, non cedendo al fascino mediatico, vorrei far presente che lì la famiglia di Yara ha chiesto il silenzio stampa e allora tutti a parlarne bene mentre per il caso di Avetrana si continua a dare addosso agli abitanti perchè molti continuano ad amare intrattenersi con i giornalisti, anche quando sarebbe il caso di smettere di parlare a vanvera e lasciare che gli inquirenti facciano serenamente il loro lavoro. Basta violenze mediatiche, Avetrana non è il paese dei mostri, è un paese che ha voglia di riprendere a vivere normalmente e serenamente». Peccato che anche lei si è limitata a dire parole, parole, parole...»
Giustizia, d’ora in avanti i processi facciamoli solo in tv, commenta Antonello Caporale su “Il Fatto Quotidiano”. Quanto costa un processo? Ma soprattutto quanto vale un omicidio? Uno a caso. Per Yara Gambirasio la Procura di Bergamo quanti soldi ha speso per raggiungere la sua verità? Mille, diecimila, centomila, un milione di euro? Di più? E cosi fa sempre? Si impegna fino allo spasimo per giungere a una giusta condanna, foss’anche l’ultimo derelitto a chiedere giustizia? E sempre a proposito di soldi: la famiglia accusata dell’efferato omicidio di Avetrana, per non parlare delle altre, a quali fondi occulti attinge per avvalersi di quella tribù di avvocati, criminologi, psichiatri, analisti tutti di eccellente e prezioso curriculum? Ma soprattutto: la severità dell’indagine, lo scrupolo col quale accusa e difesa avanzano indizi o li neutralizzano è amore per la verità o (anche) frutto dell’aspettativa del tempo di esposizione in televisione e dunque del fatturato che ne deriverà dalla notorietà acquisita? Voglio spiegarmi meglio: tutti questi bei processoni che producono faldoni zeppi di documenti e di consulenze, tonnellate di prove e controprove, sono il risultato di una sincera sete di giustizia o solo, e purtroppo, il magico saldo del bisogno ossessivo di tv? Perché, nel caso fosse vera la seconda ipotesi, varrebbe la pena saltare il tribunale e infilare l’imputato, i suoi accusatori e i suoi difensori, dopo averli fatti passare in sala trucco, direttamente in uno studio televisivo.
E' iniziato il 3 luglio 2015 il processo per l'omicidio di Yara Gambirasio. E subito si è attivato il circo mediatico, con dispiegamento di telecamere ed analisi chiamati a interpretare la psico-somatica dell'imputato. Sarebbe invece il caso di spegnere le luci dei riflettori: per una difesa garantista di chi è accusato e per il rispetto della povera vittima, scrive Gianluca Veneziani su “L’Intraprendente”. Eccolo là, l’imputato, arrivare abbronzatissimo, in jeans, maglietta e scarpe da ginnastica, nel tribunale di Bergamo per l’inizio del processo a suo carico. Ed eccolo là, il circo mediatico che si riattizza, pronto a scrutare ogni minimo gesto dell’uomo accusato dell’omicidio di Yara Gambirasio, a cogliere ogni suo segno di cedimento, a interpretare il “suo muovere continuamente i piedi” – scrivono le agenzie – “come un sintomo di nervosismo”. Ed eccole lì, le troupe televisive, munite di arnesi in grado di riprendere senza comprendere, e i curiosi assembrarsi davanti all’ingresso del Palazzo di giustizia e addirittura accamparsi dal giorno prima pur di assistere all’Evento, immortalare l’Evento, essere spettatori e al contempo protagonisti di quell’Evento. A prescindere da quale sarà l’esito della vicenda giudiziaria, l’esordio non è stato affatto buono, perché ha dato il segnale che il processo a Massimo Bossetti possa trasformarsi nella versione aggiornata, 2.0, del caso Avetrana. Con una spettacolarizzazione mediatica fuori luogo (magari con qualche tablet e smartphone in più rispetto ad alcuni anni fa), con la stessa attenzione morbosa, quasi voyeuristica, su dettagli insignificanti, con l’elevazione preventiva dei protagonisti del fattaccio di cronaca a icone del Male o viceversa del Bene (spietati carnefici o, al contrario, vittime della giustizia, perché così vuole la semplificazione giornalistica), e quindi con la riduzione di quello che è stato un dramma familiare abnorme (la morte di una ragazza di tredici anni) a pretesto di un ennesimo fenomeno di costume e malcostume italico. Sarebbe bene piuttosto che il processo rientrasse nei ranghi e nei canoni che più gli sono propri, cioè quelli giudiziari. E sarebbe opportuno in primo luogo per Bossetti, la cui immagine rischia di essere cannibalizzata da tv e giornali e associata, in modo indelebile, a quella del “mostro”. In un sistema garantista la difesa dell’imputato e la sua reputazione come innocente fino a sentenza definitiva dovrebbero passare anche dalla tutela della sua privacy e dalla sua non eccessiva esposizione mediatica. Ci vorrebbe pudore anche nel (non) mostrare il volto del (presunto) colpevole, una sobrietà nel non utilizzare il suo corpo come cavia sulla quale psicologi d’accatto possano esercitare le loro fasulle velleità ermeneutiche (vedi il tic della gamba). Ma il ridimensionamento del processo a un ambito meno prossimo all’avanspettacolo sarebbe soprattutto una forma di rispetto nei confronti della piccola vittima e della sua memoria. Sarebbe doloroso vedere Yara costretta alla sorte mediatica di Sarah Scazzi, ridotta a oggetto di assurdi sondaggi e ricostruzioni post-mortem (“Ma a chi stava più antipatica, secondo voi, a zio Michè o alla cugina Sabrina? Votate!”), a pedina di un gioco macabro funzionale allo share nonché a destinataria simbolica di indecenti pellegrinaggi dell’orrore. Ricordare così il nome di una persona significa offenderne la memoria, visitare così la sua tomba significa profanare il luogo in cui riposa. Lasciamo dunque che la giustizia faccia il suo corso, senza processi preventivi e complementari fuori dall’aula e nei salotti tv, e lasciamo che i morti seppelliscano i morti, custodendo le spoglie della piccola Yara, affinché il suo nome non venga ulteriormente violato dal chiacchiericcio e dai “si dice”. Prendiamo esempio dai genitori della ragazzina di Brembate di Sopra, che hanno deciso di non figurare in aula, di non farsi attirare dalle luci dei riflettori, imprigionati nel ruolo di “vittime da compiangere” che impone loro il copione, ma hanno preferito stare in disparte, preservare in silenzio il loro dolore, senza renderlo osceno, volgare, inautentico, magari con un pianto studiato durante un talk show. E prendiamo le distanze dalle parole dello stesso Bossetti, che ha chiesto a gran voce che le telecamere fossero presenti in aula, affinché «tutti possano vedere, in quanto non ho niente da temere o da nascondere», volendo diventare forse il protagonista dell’ennesima saga mediatico-giudiziaria all’italiana, in onda sui migliori schermi. Il Male si compie al buio, in una periferia abbandonata, lontani da occhi indiscreti. Ma poi la celebrazione del rito che dovrebbe giudicarlo e, in caso, punirlo, la si vuole necessariamente a porte aperte, a favore di telecamera, alla presenza del pubblico in aula e degli spettatori a casa. C’è una contraddizione palese: il marcio si occulta ma il suo lavacro (che può essere gogna o catarsi, comunque espiazione) deve essere guardato da tutti, senza vergogna. Quasi che la visibilità del giudizio e della pena possa ridurre la potenza del Male, alleviare i nostri animi e assolverci per non essere stati presenti e non aver voluto vedere, quando c’era da assistere e da non voltare lo sguardo altrove.
Intanto Avetrana non è più scenario di un efferato delitto, ma set del film “Belli di papà”, scrive “Manduria Oggi”. La comunità avetranese ha “adottato” la troupe, composta da circa 70 unità fra attori ed equipe tecnica, del film diretto da Guido Chiesa, che ha come protagonista uno dei pilastri del cinema e del teatro italiano contemporaneo: Diego Abatantuono. Non più scenario di un efferato delitto, trasformato in una sorta di romanzo noir ancora alla ricerca dell’ultimo capitolo che sveli trame e colpevoli e al centro di una smisurata attenzione mediatica. Da una decina di giorni, Avetrana è il set del film “Belli di papà”, che si propone come uno dei “cine panettoni” del prossimo Natale. Uno strumento efficace per offrire al grande pubblico un volto differente di questo centro. La comunità avetranese ha “adottato” la troupe, composta da circa 70 unità fra attori ed equipe tecnica, del film diretto da Guido Chiesa, che ha come protagonista uno dei pilastri del cinema e del teatro italiano contemporaneo: Diego Abatantuono. Con lui recitano anche Francesco Facchinetti (al debutto in un film), Matilde Gioli, Andrea Pisani, Francesco Di Raimondo e alcuni attori pugliesi (fra questi, Uccio De Santis e Umberto Sardella). Dopo alcune scene girate a Roma e a Taranto, attori e cineoperatori si sono stabiliti ad Avetrana. Hanno “invaso” alberghi, ristoranti e bed & breakfast, che registrano il “tutto esaurito”, soprattutto nei week end, quando i protagonisti del film vengono raggiunti da familiari o amici. Non solo un ritorno di immagine notevole dal grande schermo per questa cittadina, che si sforza di cancellare un neo che ne offusca qualità e pregi, ma anche un riscontro economico immediato più venale. «Siamo felicissimi e orgogliosi per questa scelta» sono le parole di Emanuele Micelli, operatore culturale del posto, che si è offerto di svolgere gratuitamente il ruolo di “location manager”, collaborando, gomito a gomito, con la troupe per l’organizzazione logistica. «I ritorni sono sotto gli occhi di tutti: non solo quelli diretti e immediati per le attività ricettive (che, a mio avviso, non si discostano dagli introiti prodotti da un paio di stagioni estive), ma soprattutto quelli di immagine. Tutta l’Italia potrà ammirare le bellezze di una cittadina purtroppo assurta alla notorietà per un delitto». Diverse scene sono già state girate nel centro storico della cittadina dell’estrema area orientale della provincia. Presto le telecamere si sposteranno all’interno dello storico palazzo Pignatelli e di un capannone della zona industriale. Anche Torre Colimena ha conquistato gli scenografi di “Belli di papà”: sono state effettuate tre giornate di registrazione nel ristorante “da Caterina” e, presto, una scena sarà ambientata nella pescheria “Mancini”.
Però Guido Chiesa bacchetta i giornalisti: “Giornalismo etico modello AVETRANA”...mi domando, perché (quasi) nessuna testata - nazionale e peggio ancora locale - cita il nome di AVETRANA. Giriamo “Belli di papà” per 1 settimana a Roma, 1 a Taranto (città di sorprendente fascino), e 4 settimane, dico Q-U-A-T-T-R-O a AVETRANA, paese in provincia di Taranto al confine con quella di Lecce, città semplice e ospitale, con una delle più belle spiagge d’Italia. La gente ci ha accolto con una disponibilità straordinaria. Ora, mi domando, perché (quasi) nessuna testata – nazionale e peggio ancora locale – cita il nome di AVETRANA, preferendo menzionare le pur belle e ospitali San Michele Marzano (dove faremo 3 giorni di riprese) e Manduria (1 giorno)? Forse perchè non vogliono insudiciare le loro testate con il nome di un paese in cui è accaduto un tragico fatto di cronaca? Ma allora smettiamo di parlare di Padova per via di Michele Profeta o Roma per la banda della Magliana. E basta parlare di Firenze come città di Dante, dei Medici o del Battistero, perché c’è stato Pacciani e la città è marchiata a vita. E via dalle mappe Novi Ligure, Cogne, Erba, ecc. Cari amici giornalisti, io vi adoro e rispetto, ma vi prego, non offendete con le vostre “dimenticanze” tanta brava gente che qui vive, lavora ed è giustamente orgogliosa del suo paese. Ve l’abbiamo detto e ripetuto, non potete far finta di non saperlo: noi giriamo a AVETRANA e ne siamo felici. Felici di far sì che per almeno un po’ – speriamo per tanto – questo paese sia ricordato per qualcosa di positivo, speriamo divertente. Con affetto. Post pubblicato sulla pagina di Fb di Guido Chiesa, regista, e sul suo blog, poi ripreso da “La voce di Maruggio”.
Come nessuno parla dei natali e del "tesoretto di Avetrana". Tesoretto che i locali sognano di trovare con la cosiddetta "Occhiatura", ossia non come se ne dà il significato ordinario come il rito contro il malocchio o i buchi del formaggio, ma un divenir in sogno di un buco (occhiatura), indicato da un parente morto, in cui scavare e trovare un piccolo anfratto che porta ad una antica tomba o la bocca di una grotta dove vi è custodito un antico tesoro. O il lascito nascosto dai "Scianari" o dai "Masciari" o addirittura dallo "Zù Lauru". Le Gatte masciare. Queste streghe si trovano a Bari e possono trasformarsi in gatti e girovagare per la città di notte, operando i loro malefici. Al tramonto, si dice, questa donne si ungono di olio masciaro, che permette loro di potersi gettare nel vuoto, dai tetti delle case, e volare. Ecco dunque che ritorna l'unguento come uno degli strumenti magici delle streghe. Il termine masciaro sembra derivi dal latino megaera, da cui appunto proviene il nostro megera, che significa strega, maga. C'è un piccolo collegamento fra le gatte masciare pugliesi e le cogas sarde: se un uomo era convinto che un gatto fosse in realtà una strega, poteva recitare una formula magica e il gatto si sarebbe immediatamente trasformato in una donna nuda. Erano inoltre chiamati masciari coloro che si erano venduti al demonio e potevano così entrare in possesso di poteri straordinari. Janare. Le janare sonno terribili streghe della Campania – nei pressi di Caserta esiste il monte Ianaro, che da loro ha preso il nome – brutte e con lunghe zanne di cinghiale. Vestono con un mantello nero macchiato di sangue. Poteva penetrare nelle fessure delle finestre diventando vento e si dice che rubasse asini e cavalli nelle stalle, riportandoli all'alba stremati. Il suo nome probabilmente deriva da Dianare, ossia le sacerdotesse di Diana. Laùru. Da piccolo ricordo che i vecchi mi raccontavano del "lauro". Nei racconti è un piccolo gnomo o folletto dispettoso con un cappello in testa. Si dice che Lu Laùru appare di notte, e seduto sulla pancia fa svegliare il malcapitato che dorme a causa della difficoltà nel respirare e togliendogli la forza di qualsiasi movimento. Se chi svegliandosi riesce a sottrargli il cappello, lui pur di riaverlo è pronto ad esaudire un desiderio. Si raccontava di questo folletto che di notte andava ad intrecciare la coda dei cavalli o i crini e guai a scioglierli: l'animale sarebbe morto. Nella realtà si tratta di ben 1915 monete, venute alla luce in contrada “Demani” nel 1936, scrive “Manduria Oggi”. Ben 1915 monete in argento della Repubblica Romana e, nello specifico, 1.669 denari e 241 quinari, coniate fra il 211-195 e il 38 avanti Cristo. E’ una parte del “tesoretto” di Avetrana, venuto alla luce nel 1936, in contrada “Lupara”, in una zona denominata “Demani”. Si narra, infatti, che attraverso questa straordinaria scoperta archeologica, in un orciolo di terracotta, furono recuperate quasi quattromila monete romane, ben conservate e non ancora poste in commercio. Quest’ultimo particolare lascia presagire la probabile esistenza in zona di un vero e proprio cono romano. La riproduzione fedele di queste monete, oggi custodite nel Museo di Taranto, sarà consegnata alla città di Avetrana dal Soprintendente ai Beni Culturali della Puglia, Luigi La Rocca, nel corso di una cerimonia che si terrà domani sera 9 giugno 2015, alle 18,30, nell’aula delle assemblee della Banca di Credito Cooperativo di Avetrana. Si tratta di uno dei ritrovamenti più significativi in materia di monetazione archeologica. Si narra che per il “tesoretto di Avetrana” al rinvenimento è seguito l’occultamento e, in un secondo tempo, il tentativo di alienazione. Questi tentativi il più delle volte si concludono con l’intervento delle forze dell’ordine e il sequestro del materiale. Anche il “tesoretto di Avetrana” non è sfuggito a questa infausta “prassi”. Infatti coloro che lo rinvennero cercarono di venderlo al Museo Provinciale di Lecce, ma la notizia venne diffusa, qualche tempo dopo, sulla stampa e, pertanto, la Guardia di Finanza si attivò per recuperare il gruzzolo. Fu poi Ciro Drago, all’epoca direttore del Reale Museo Nazionale di Taranto, a condurre in porto il recupero come si evince anche dalla una lettera del 26 agosto 1936, conservata nell’archivio storico della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Puglia. Il materiale venne sequestrato e poi confiscato ed infine assegnato al Museo di Taranto dove tuttora si trova. Il “tesoretto”, seppur in copia, ritornerà a partire da domani ad Avetrana, su iniziativa dell’Amministrazione Comunale e dell’associazione turistico-culturale “Terra della Vetrana”, grazie alla sponsorizzazione garantita dalla Banca di Credito Cooperativo di Avetrana e sotto la supervisione della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Puglia. «Potremo conoscere e apprezzare in tutta la sua bellezza il “tesoretto”» annuncia l’assessore al Marketing Territoriale, Enzo Tarantino. «Ovviamente si tratterà di una fedele riproduzione, mentre ai presenti verrà donato il catalogo illustrativo delle monete esposte, nella consapevolezza che esso possa costituire fonte di arricchimento e l’avvio di un percorso virtuoso che incrementi sempre più l’apporto di materiali provenienti dal passato, fosse anche solo in riproduzione, dimenticati dalla memoria comune, al fine di produrre alimento alla coscienza di quel sano spirito di appartenenza ad una comunità ed alla sua storia». Una prima parte del “tesoretto di Avetrana” è ritornata nel centro ionico. Si tratta delle prime cinquanta monete su un totale di 1915 della Repubblica Romana (211-38 a.C.), ritrovate nel maggio del 1936 in una campagna di Avetrana. Sono state riprodotte, in argento come le originali, dal restauratore, avetranese anch’egli, Cosimo De Rinaldis. Potranno essere inizialmente ammirare all’interno della Banca di Credito Cooperativo di Avetrana, che ha sostenuto finanziariamente l’iniziativa, per poi entrare a far parte della mostra archeologica già esistente, arricchendola, nella casamatta del torrione. «Questa operazione si inquadra nell’ottica della diversificazione dell’offerta turistica della nostra cittadina» hanno rimarcato sia il sindaco Mario De Marco, sia l’assessore al Marketing Territoriale, Enzo Tarantino. «Non solo mare e gastronomia, ma anche le testimonianze della nostra storia. Con la riproduzione delle prime cinquanta monete di quel “tesoretto”, intendiamo riappropriarci di una parte delle radici culturali della nostra cittadina, un patrimonio che vogliamo far scoprire anche alle nuove generazioni». La riproduzione eseguita dal tecnico restauratore della Soprintendenza, Cosimo De Rinaldis. La professionalità e il legame forte per la sua terra alla base della riproduzione in argento delle prime cinquanta monete del “tesoretto di Avetrana”. Tecnico restauratore della Soprintendenza, Cosimo De Rinaldis, avetranese, ha le “mani d’oro”. Nella sua ormai lunga carriera ha recuperato e restituito al loro originario splendore migliaia di preziosissimi reperti archeologici, venuti alla luce in diverse regioni del sud. Proprio per questa sua straordinaria abilità, fu inserito, ad esempio, nella squadra dei quattro restauratori cui fu affidato, qualche lustro fa, il delicato compito di ridar lustro agli “Ori di Taranto”. E’ stato lui a far da tramite fra Comune di Avetrana e associazione “Terra della Vetrana” con la Soprintendenza per i Beni Archeologici affinchè questo sogno potesse realizzarsi. «Ho impiegato pochi giorni per riprodurre le prime cinquanta monete» ci racconta Cosimo De Rinaldis, che poi ci spiega le tecniche e i materiali utilizzati. «Per i calchi, abbiamo scelto materiali che non potessero danneggiare in alcun modo le monete. Il calco è stato realizzato con gesso di fusione, mentre il metodo che ho seguito è stato quello denominato “a cera persa”». Per De Rinaldis la “sfida” continua. E’ stato proprio il Soprintendente La Rocca ad annunciare la prossimo operazione: la riproduzione delle due “pintadere” ritrovate nella grotta “Dell’Erba” di Avetrana. Si tratta degli antesignani degli attuali clichè, che venivano utilizzate come stampo o timbro per decorare il corpo, il pane o i tessuti.
Non aspettatevi, però, tutela della comunità da parte degli amministratori locali.
A Specchia, come ad Avetrana, si aspettavano i giornalisti con le palle, ma son arrivati solo…i coglioni.
Intervista, critiche a Chi l'ha visto. Iniziato «turismo del macabro». La rabbia del parenti: «È una vergogna, mancano solo le bancarelle per le noccioline», scrive il 14 Settembre 2017 "La Gazzetta del Mezzogiorno". Critiche su Chi l’ha visto che ieri sera ha mandato in onda un’intervista ai genitori del ragazzo, presunto assassino della fidanzata, Noemi Durini, nel corso della quale è l’inviata a dare loro la notizia della confessione del figlio. A puntare l’indice contro la scelta sono i sindacati dei giornalisti; critiche anche dall’Aiart, l’associazione cattolica che si occupa di tv. «La decisione dell’inviata della trasmissione Rai Chi l’ha visto di comunicare ai genitori del presunto assassino di Noemi Durini la notizia della morte della ragazza e della confessione del ragazzo e la successiva messa in onda di immagini che ne mostravano lo strazio e la disperazione rappresentano una pagina di pessimo giornalismo e un tentativo crudele di spettacolarizzare una tragedia», affermano Raffaele Lorusso e Giuseppe Giulietti, segretario generale e presidente della Fnsi, e il segretario dell’Usigrai, Vittorio Di Trapani, augurandosi che la Rai e la conduttrice del programma, Federica Sciarelli, "con la sensibilità e la professionalità che la contraddistinguono, trovino il coraggio di chiedere scusa alle persone coinvolte e ai telespettatori». Parla di «brutta pagina della televisione» Massimiliano Padula, presidente dell’Aiart, che in un intervento per l'agenzia stampa della Cei sottolinea che si è scritta «un’altra pagina della storia della televisione annientando, non soltanto ogni regola deontologica (minori, famiglie, fascia protetta, segreto istruttorio, questi sconosciuti), ma dando un calcio in faccia a chi, suo malgrado, si ritrovava davanti al televisore, in un mercoledì sera qualunque, poco dopo l’orario di cena, magari insieme ai propri figli». Per Padula «non c'è diritto di cronaca che tenga di fronte alla tracotanza di una scelta irresponsabile che dimostra come l’informazione possa precipitare in baratri così profondi e irrespirabili». Nel corso dell’intervista, realizzata in un momento in cui ancora non c'era stata la svolta nelle indagini, comunicata alla giornalista con una notizia sul telefonino proprio in quel momento, i genitori del ragazzo presunto assassino (ma che ancora non era tale) non fanno altro che parlare male della ragazza attribuendo solo a lei ogni responsabilità del rapporto difficile tra i due giovani. Il padre, che sostanzialmente è l'unico a rispondere, anche a nome della moglie, dice anche come la presenza della giovane non fosse gradita nella loro casa. Quando ricevono la notizia mostrano prima contentezza per il ritrovamento, poi stupore alla notizia che è stata trovata morta, infine disperazione nel sapere che il figlio ha confessato. Una reazione che va vista, però, anche alla luce delle affermazioni dello stesso padre di oggi, secondo le quali era stato informato dell’omicidio dal figlio già martedì sera.
«Inizia il rito del turismo del macabro». Non ha usato mezze misure il filosofo Mario Carparelli per definire sui social l’enorme afflusso di curiosi che ieri pomeriggio si sono recati in via San Giuseppe alla notizia del ritrovamento del cadavere di Noemi Durini. «Leuca è già invasa dai turisti del macabro - ha scritto il Presidente del Presidio del libro del Capo di Leuca – abbiate pietà e rispetto». Una folla enorme, un via vai sostenuto di persone che si informavano su quanto accaduto e che commentavano frammenti di notizie che trapelavano sia attraverso i social che sui mass media. «Manca solo che mettano le bancarelle per le noccioline - ha commentato infastidito uno zio di Noemi che si è recato sul posto insieme ad alcuni familiari - e qui possono organizzare una fiera. Vergogna – ha aggiunto prima di invitare moglie e figlio a lasciare la piccola frazione di Castrignano del Capo – la piccola Noemi non ce la ridarà indietro nessuno». La campagna in cui è stato ritrovato il corpo della vittima si trova quasi ai margini (occorre seguire un tratto di strada sterrata che conduce all’interno) di una via di comunicazione molto trafficata in questo periodo, che collega Castrignano alla marina di Santa Maria di Leuca e sulla quale, poco distante, si innestano gli svincoli della statale 274 per Gallipoli. Raggiungere il posto è stato quindi facile per chi ha voluto osservare da vicino l’evolversi degli eventi (di cui riferiamo a parte) tanto che il cavalcavia della statale è stato trasformato in una sorta di balcone di osservazione privilegiato. Gran da fare anche per i vigili urbani di Castrignano, che hanno dovuto smistare il traffico verso Leuca e impedire l’avvicinamento dei veicoli non autorizzati, mentre un doppio cordone con nastri di sbarramento era stato disposto da carabinieri e protezione civile alcune centinaia di metri prima del sito in cui si trovava il cadavere. Lo stesso medico legale Roberto Vaglio ha avuto non poche difficoltà ad attraversare la folla con la sua auto prima di raggiungere gli investigatori.
La giustizia complice dell'assassino, scrive Manila Alfano, Venerdì 15/09/2017, su "Il Giornale". Il dopo fa sempre impressione. E rabbia. Donne che si scoprono essere state vittime due volte; del compagno violento prima e della giustizia, che troppo spesso non ce la fa ad arrivare in tempo. Denunce che cadono letteralmente nel vuoto. Donne offese due volte perché quando parlano e trovano il coraggio di raccontare, di stracciare il velo del pudore e dell'umiliazione nessuno le ascolta davvero. Secondo l'Istat solo il 12 per cento delle vittime denuncia il partner, ma di questa quota arriva a condanna una percentuale dello zero virgola. Perché non succede niente? Dove sono i pm, i giudici, qui che il tempo è tutto, che spesso fa la differenza tra la vita e la morte. Fascicoli accartocciati in uno straziante imbuto in cui scorrono le storie di sangue che ogni giorno riempiono l'Italia. Un imbuto regolato dalla magistratura. Troppe volte le denunce restano in un cassetto, troppe volte esaminate con superficialità, prese poco sul serio, troppe volte non si dà il giusto peso al grido di queste donne. Troppe volte i pubblici ministeri e i giudici trattano con burocratica distanza questioni che sono sangue e sofferenza. Nessuno certo ha la bacchetta magica, ma spesso la magistratura non è al passo con l'evolversi della situazione, e troppe volte le violenze sfociano in morti annunciate e che quindi si potevano evitare. E di chi è la colpa? Noemi aveva solo sedici anni e una mamma spaventata che era corsa a denunciare. Ma a cosa è servito? Giordana aveva vent'anni e una bambina piccola di quattro anni. Lei il passo lo aveva fatto; il coraggio lo aveva anche trovato. Era andata dai carabinieri per stanare l'uomo che la picchiava e la spaventava a morte. Uccisa dall'ex il giorno dell'udienza per stalking. Troppo tardi anche per Marianna, lei che aveva implorato e bussato alle porte di tutti collezionando dodici denunce. «Con questo coltello ti ucciderò». Lo aveva detto ai pm che sono stati condannati perché un giorno lui poi l'ha fatto davvero. In passato il problema era il silenzio, le vittime che non parlavano, preferivano subire e non dire. Nel 2010 i dati sulle violenze erano ancora nebulosissimi proprio per questa cappa che aleggiava sulla privacy delle case. Chi soffriva lo faceva in silenzio. Le vittime erano passate da 101 nel 2006 a 127 nel 2010 e la maggior parte delle donne erano rimaste sempre a tacere. Ancora oggi, 8 volte su 10 la donna non chiede aiuto. Ma se lo avessero fatto si sarebbero salvate? Purtroppo non è sempre così. Ora alcune cose stanno cambiando. Ma il problema spesso è anche dove si fanno le denunce perché l'Italia è a macchia di leopardo. C'è una legge del 2001 che permette l'allontanamento del partner violento. Ci sono zone - più spesso al nord - in cui si riesce ad ottenerlo dopo due giorni e altre in cui occorrono tre mesi. Un tempo assurdo. Giorni e notti dove può accadere di tutto. Dove lui ha tutto il tempo di mettere in pratica il suo piano omicida. E di farlo con calma.
Noemi, le richieste di aiuto che non sappiamo più ascoltare, scrive Rosario Tornesello su "Il Quotidiano di Puglia". Se ne è andato anche il sorriso. Il suo, per primo. Aveva scritto su Facebook che non glielo avrebbe portato via nessuno, mai. Sbagliava. Noemi aveva l’età in cui si credono vere alcune cose, false altre, errando spesso in entrambi i sensi: se ne sognano di immortali, come l’amore; se ne scoprono di laceranti, inattese e autentiche, come il dolore. Lei le ha vissute tutte, e velocemente. Non è bastato a proteggerla. L’adolescenza ha ritmi accelerati, fasi convulse, scarti improvvisi. Troppo per la mente umana degli altri, gli adulti, a volte lenta, spesso distratta, per poter valutare, capire, agire. Se ne è andata col suo sorriso. L’assassino - fidanzato no, risparmiamocelo, ché la parola rimanda ad altro e lui non era quest’altro - gliel’ha strappato a colpi di pietra, seppellendolo in campagna. «Ero esasperato», ha detto confessando l’orrore e ammettendo il delitto, come se le cose fossero allineate in sequenza logica. «Ero esasperato, l’ho uccisa». Non è questo l’epilogo scritto? Non si fa così nell’era certificata del femminicidio? In questa sciagurata stagione, infinita e perciò fuori dal tempo, di cui prima o poi capiremo le cause per trovare i rimedi che non siano nella spirale necessaria e inutile della pena e del carcere, non funziona così? «Ero esasperato». L’ha uccisa. Cos’altro resta? Qualcuno dirà che la forma in fondo è sostanza, e che perciò la cornice stretta e angusta, per forza di cose alienante, di un paesino del profondo sud sia il contesto in cui ritrovare - volendo - le chiavi di lettura di un delitto, l’ennesimo, seguendo le figure classiche della tragedia: l’amore, la gelosia, le famiglie contro, l’omertà, il nulla che aleggia fino al dramma finale. Morte e dolore, sangue e lacrime, tutto assieme. Ma buona parte di questa riflessione si porta appresso il dubbio che no, stavolta forse non c’entra. A partire dal sud, non così profondo, e dal paese, non così depresso. E quanto alla gelosia, da qualsiasi lato brandita, difficile inquadrarla come sentimento quando latitano equilibrio e senso di responsabilità. Qui sono mancati l’uno e l’altro. Ed è mancata, soprattutto, una generale capacità di ascolto. Disperati sono i casi umani, non i luoghi. Ci sono codici e canali comunicativi che sembrano ormai aver perso il ruolo salvifico dell’allarme. Evidente, concreto, palpabile. Il frastuono che rende possibile tutto e il contrario di tutto nell’epoca della “post-verità” dilagante e del “fake” imperante, dentro e fuori la Rete, annacqua gli elementi con cui il pericolo si fa presente in quanto fatto reale e visibile. La madre aveva denunciato in caserma le percosse subite da Noemi quattro mesi fa, un giorno che l’aveva vista rientrare piena di lividi e di lacrime. Non basta? La stessa ragazza aveva compilato un post, l’ultimo, sul suo profilo Facebook, il 23 agosto scorso. Ore 13.30, immagine eloquente: una donna picchiata e oltraggiata, una mano d’uomo a tapparle la bocca, sul polso un tatuaggio: Love? “Non è amore se ti fa male; non è amore se ti controlla; non è amore se ti fa paura di essere ciò che sei. Non è amore, se ti picchia; non è amore se ti umilia”. Neanche questo è bastato. E in paese tutti, o quasi, sapevano dei contrasti, delle accuse reciproche e dei tormenti. Tra le foto che abbiamo visto e ancora vedremo, sui giornali e in internet, ce n’è una di Noemi che colpisce per la sua radiosità: sguardo fiero, sorriso oltre il rossetto, sulla mano sinistra alcune lettere scritte a penna, una per ogni dito. Se ne scorgono quattro, la quinta si intuisce: “Happy”. Ma è durato poco. Così la tragedia si compie: non abbiamo saputo ascoltare le richieste di aiuto. Non siamo stati in grado di interpretare l’allarme, leggere l’emergenza, intuire il dramma. Non sono bastati la denuncia formale e il messaggio multimediale, le voci di piazza e i trattamenti sanitari. Il silenzio e l’omertà qui davvero c’entrano poco, anzi nulla. È sud, ma non così profondo; non così depresso. Tanto da poter, persino, non essere sud. Perché questo omicidio non è più disgrazia locale ma sciagura universale replicabile ovunque, nella nostra indifferenza, più volte testata e brevettata, qui e altrove. Eccoli i risultati. Noemi è sgusciata fuori dalla porta di casa nel buio della notte, poco prima che sorgesse il sole, il 3 settembre. Incontrando il suo assassino (fidanzato no, davvero no) è scivolata fuori dalla propria vita, ma non dalla nostra. Ritroveremo il suo sorriso solo quando ritroveremo noi stessi.
Noemi, oggi l'interrogatorio del 17enne sotto accusa per omicidio premeditato. Il ragazzo che ha confessato di aver ucciso la sedicenne di Specchia scomparsa il 3 settembre scorso e fatto ritrovare il corpo, sarà sentito per la convalida del fermo nella località protetta dove è ospitato dopo l'arresto, scrive Chiara Spagnolo il 16 settembre 2017 su "La Repubblica". L'omicidio di Noemi Durini - la sedicenne scomparsa da Specchia il 3 settembre - è stato premeditato dal fidanzato che non sopportava l'idea che lei potesse lasciarlo. Lo scrive la Procura dei minori di Lecce nel decreto di fermo con cui il 13 settembre ha imposto la custodia cautelare al diciassettenne di Alessano, che ha confessato il delitto e consentito il ritrovamento del corpo della ragazza, sepolta otto un cumulo di pietre in una campagna a pochi chilometri da Santa Maria di Leuca. Omicidio aggravato dalla premeditazione, nonché dai futili motivi e dalla crudeltà è l'accusa ipotizzata allo stato, anche sulla scorta della testimonianza di un amico, al quale il ragazzo avrebbe manifestato l'intenzione di uccidersi o di uccidere la compagna. Gli inquirenti, dunque, non credono alla versione fornita dal giovane, secondo il quale il delitto sarebbe scaturito d'impeto nel tentativo di fermare Noemi che, all'alba di quel 3 settembre, era uscita di casa armata di un coltello per andare a uccidere i genitori di lui. Così come, al momento, non ha riscontro l'accusa lanciata dal padre di Noemi, Umberto Durini, contro il papà del ragazzo: "Protegge suo padre, ha fatto tutto lui". Tali parole sono state pronunciate davanti alle telecamere nella mattinata di venerdì 15 settembre, dopo un tentativo di irruzione di Umberto nell'abitazione di Montesardo (frazione di Alessano) in cui vive la famiglia del 17enne. La tensione è salita alle stelle e per riportare la calma è stato necessario l'intervento dei carabinieri.
Umberto si è sfogato duramente: "Il ragazzo era stato cacciato di casa, dormiva nei casolari, io l'ho accolto da me, gli ho comprato i vestiti, mia figlia l'amava e per questo sono andato da suo padre e mi hanno aggredito e chiamato delinquente". La sua teoria - che vedrebbe l'altro padre in un ruolo attivo nell'omicidio - al momento non ha alcun riscontro investigativo. "Interrogheremo il papà di Noemi - dicono dal palazzo di giustizia di Lecce - se ha notizie circostanziate da fornire le ascolteremo". Intanto sul fronte investigativo si lavora nel tentativo di capire quale sia stata l'arma del delitto, considerato che la tac effettuata sul cadavere dal medico legale Roberto Vaglio ha mostrato l'assenza di fratture sul cranio e dunque escluso che la morte della sedicenne sia avvenuta a causa dei colpi di pietra. Possibile che l'arma utilizzata sia un coltello, così come ha raccontato il ragazzo, che ne attribuisce la proprietà a Noemi. I dubbi sul punto potrebbero essere sciolti nell'interrogatorio del diciassettenne che comparirà davanti alla gip del Tribunale dei minori di Lecce, Addolorata Colluto alla presenza della pm Anna Carbonara e degli avvocati difensori Luigi Rella (lo stesso che difese Cosima Serrano, la zia di Sarah Scazzi condannata all'ergastolo insieme alla figlia Sabrina Misseri) e Paolo Pepe. Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando è a Lecce per partecipare alle Giornate del Lavoro della Cgil. Non si esclude che il ministro possa incontrare i vertici degli uffici giudiziari di Lecce, dopo l'avvio di un'ispezione sul caso Noemi. L'obiettivo delle verifiche è capire se provvedimenti più tempestivi da parte del Tribunale dei minori, a cui la mamma della sedicenne aveva chiesto l'allontanamento del fidanzato violento, avrebbero potuto salvare la ragazza. I primi documenti sarebbero già stati acquisiti dagli ispettori negli uffici giudiziari salentini. "Abbiamo ritenuto opportuno intervenire perché a una prima valutazione sono emerse delle condotte nell'attività dei magistrati che possono far supporre delle abnormità - ha detto il ministro -. Gli atti sono stati acquisiti da poco, non ci sono ancora novità". La verifica riguarderebbe la cosiddetta "abnormità funzionale", ovvero ipotetici comportamenti dei magistrati, che potrebbero aver determinato una stasi nel procedimento in atto, che riguardava la richiesta di allontanamento del fidanzato manesco. Allo stadio embrionale anche l'indagine del Csm, che martedì esaminerà il caso nella riunione del Comitato di Presidenza e deciderà se avviare un procedimento disciplinare.
Omicidio di Noemi Durini, il papà: «La colpa? È del padre del ragazzo». Le accuse del papà della 16enne davanti alla casa dell’assassino. La madre: dai servizi sociali solo promesse, scrive Andrea Pasqualetto il 15 settembre 2017 su "Il Corriere della Sera". Maglietta nera, testa pelata, faccia scura e un incontenibile furore. Ieri mattina il padre di Noemi si è presentato così a casa dei genitori del ragazzo che ha confessato di aver ucciso sua figlia. Non sono state carezze: «Bastardo, vieni fuori!». E giù calci sul cancello, fortunatamente chiuso, peraltro ripreso dalle telecamere della trasmissione Quarto grado. Arriva un carabiniere che cerca di fermarlo: «Durini, stai calmo!». Umberto Durini decide di mollare la presa e, visibilmente alterato, prova a spiegare le ragioni di tanto odio: «Non potevano vedere mia figlia». Biascica, si dispera, racconta la sua versione dei fatti mentre guarda con ferocia la casa del presunto assassino: «Quella mattina mia figlia è uscita per chiarire. Subito dopo essere salita in macchina il ragazzo deve averla stordita con un pugno...». Secondo Durini il ragazzo l’avrebbe portarla a casa sua. «Il padre ha fatto tutto il resto, l’ha finita e buttato il cadavere. Io il ragazzo lo perdono, protegge suo padre ma non lo salverà». Parole pesanti come pietre. Una convinzione che non si capisce dove trovi fondamento, in quali prove se non in una sensazione radicata dentro se stesso, l’ennesima esplosione del grande odio maturato nell’ultimo anno fra queste due famiglie. Ma per gli inquirenti la verità, al momento, è un’altra: il fidanzato l’ha uccisa (una Tac eseguita ieri ha escluso che l’arma fosse una pietra) e il padre l’ha aiutato a nascondere il corpo sotto un cumulo di sassi. Durini ricorda quasi con comprensione quel «ragazzo pazzo. Il papà l’aveva cacciato e lui andava a dormire nelle case abbandonate. Noemi era commossa e mi diceva “aiutiamolo noi”. L’ho così ospitato per tre mesi a casa mia (è separato dalla moglie, ndr). Gli ho comprato sigarette, vestiti, medicine...». Ma la moglie, Imma, ha visto il pericolo in quel ragazzo e a maggio l’ha denunciato. «Dopo la denuncia sono venuto qui da loro, volevo parlare, volevo trovare un punto d’incontro — prosegue lui —. E loro mi hanno trattato da delinquente. “Non vogliamo drogati”, dicevano a me che non so nemmeno cosa sia la droga».
Imma lo sostiene: «Mia figlia era allegra, educata e rispettosa. È nata in una famiglia sana, ecco perché è morta. Se è morta è colpa di quell’uomo (intende il padre del ragazzo, ndr)...». Imma Rizzo è incredula di fronte ai genitori del diciassettenne che hanno usato parole di disprezzo per la figlia uccisa: «Con quale coraggio parlano ancora di Noemi?». Nel giorno in cui il ministro Orlando parla di «abnormità nell’attività dei magistrati», la madre di Noemi tira in ballo gli assistenti sociali: «Dal 19 luglio mi avevano promesso che sarebbero intervenuti per aiutarmi a fare un piano rieducativo per mia figlia... e invece non è successo. Vedevo che la situazione mi stava sfuggendo di mano, per questo mi sono rivolta a loro. Ma non volevo rinchiuderla in qualche istituto. Volevo soltanto che ci aiutassero». Nel frattempo Durini si calma e si allontana dall’odiata casa. Si affaccia la madre del ragazzo. Dice che il padre di Noemi ha sfasciato una macchina parcheggiata dall’altra parte dell’abitazione. Esce anche il padre e conferma. In effetti, dietro casa, c’è un’automobile con il lunotto in frantumi. Ma quella macchina non è loro, precisano i genitori del diciassettenne che oggi sarà interrogato dal gip dei minori. Pare sia del fratello di un vicino di casa, che vive Torino. Ma Durini, questo, non lo sapeva.
A «Studioaperto» del 15 settembre 2017 lo sfogo della donna nei confronti dei genitori del fidanzato-omicida intervistato da «Quarto Grado». A Studio Aperto, telegiornale di Italia1, è andata in onda un'intervista esclusiva, realizzata da «Quarto Grado», alla mamma di Noemi, la 16enne di Specchia, in Salento, che sarebbe stata uccisa dal fidanzato, come da lui stesso confessato. Nell’intervista prosegue la lotta a distanza tra le due famiglie, quella di lui e quella della vittima: «Queste persone hanno sempre calunniato mia figlia e gli inquirenti lo sanno».
Noemi, è scontro fra le due famiglie. La mamma della 16enne: sono tutti complici, lʼhanno minacciata. Il papà della vittima: "Ad ucciderla è stato il padre del ragazzo". La mamma del fermato: "Lei aveva comprato una pistola per ucciderci", scrive Tgcom il 15 settembre 2017. Non trova pace Noemi Durini. A 48 ore dalla svolta nelle indagini e dal ritrovamento del corpo nel Leccese, la sua famiglia accusa quella del fidanzato 17enne. A loro volta i genitori del reo confesso rispondono per le rime, accusando la vittima di aver addirittura comprato una pistola per ucciderli. La madre del fermato: "Noemi aveva la pistola"- Secondo la madre del presunto omicida, Noemi era una ragazza diabolica. Ai microfoni di Pomeriggio Cinque la donna ha raccontato di "averla vista con i miei occhi. E' stata espulsa dalla scuola perché aveva picchiato una ragazza". Affrontando la situazione psicologica del figlio, ha invece spiegato che lui "doveva fare la terapia, un po' la lasciava, un po' la riprendeva. Noemi? So che ha fatto la colletta per comprare una pistola e uccidere me, mio marito e mia figlia dodicenne. E' diabolica". La donna ha quindi definito "una persona pericolosa" il padre di Noemi. Le accuse del padre di Noemi - Davanti ai microfoni di Quarto grado era stato il padre di Noemi a dare il via alla battaglia a distanza. Umberto Durini si era presentato davanti all'abitazione di Alessano dove abitano i genitori del 17enne e ha accusato il padre del ragazzo. "Lui ha ucciso Noemi", ha attaccato. Il ragazzo "sta nascondendo suo padre, lo protegge, ma quello non si salverà, ha fatto tutto lui", ha sottolineato, sostenendo di voler perdonare il giovane per quello che ha fatto. La mamma di Noemi: "Hanno calunniato mia figlia, ci sono le minacce" - L'ultima, per ora, a prendere la parola è stata Imma Durini. Ai microfoni di Quarto Grado la donna ha difeso la figlia: "E' nata in una famiglia sana: mentre lei (riferito al padre del fermato, ndr) non la poteva vedere, perché suo figlio doveva diventare il secondo delinquente come lei". E ancora: "Hanno calunniato mia figlia, che invece voleva fare la crocerossina con quel ragazzo. Queste persone hanno sempre mandato calunnie nei confronti di mia figlia e gli inquirenti lo sanno: prenderanno i tabulati e ci saranno le minacce vocali, telefoniche, con messaggi di Whatsapp o altri messaggi normali". Un fiume in piena la donna in tv. "Noemi era sempre allegra, educata e rispettosa. Così la devono ricordare... come la ricordiamo noi, non la vedo più entrare in casa per colpa loro... la devono pagare tutti in questa famiglia, tutti! Sono tutti complici!" ha poi ribadito la mamma. "Gli assistenti sociali non sono intervenuti. Dal 19 luglio mi avevano promesso che sarebbero intervenuti per aiutarmi e fare un piano rieducativo per mia figlia... e invece non è successo", ha proseguito Imma Rizzo. "Perché - ha aggiunto la donna - vedendo la situazione con mia figlia che mi stava un po' sfuggendo, ho chiesto aiuto ai servizi sociali... ma non perché mia figlia dovesse essere rinchiusa, ma perché mia figlia doveva essere aiutata insieme alla mamma".
Noemi Durini, la rabbia della madre: “Su mia figlia solo calunnie”, scrive il 15 settembre 2017 "Diretta news". Continua a non darsi pace Imma Rizzo, la mamma di Noemi Durini, uccisa barbaramente dal fidanzato Lucio Marzo e trovata nelle campagne del Sud Salento due giorni fa. La donna più volte aveva denunciato le violenze perpetrate dal 17enne nei confronti della figlia. E’ stata proprio la donna disperata a ribadire questo aspetto appena si è diffusa la notizia della morte: “Lo sapevate, lo sapevate tutti che lui l’aveva ammazzata”, ha urlato. Proprio per questa ragione, il ministro della Giustizia Orlando ha avviato un’inchiesta sulla procura per i minorenni di Lecce. Gli ispettori dovranno accertare se realmente siano rimaste inevase le denuncia di Imma Rizzo. Intanto, il papà di Noemi è tornato ad accusare Biagio Marzo, padre di Lucio, sostenendo che a suo avviso sarebbe lui l’assassino della figlia. Imma Rizzo, in queste ore, ha voluto difendere la memoria della figlia barbaramente uccisa in un’intervista alla trasmissione televisiva Quarto Grado. Ha sottolineato la mamma di Noemi Durini: “Mia figlia è una ragazza solare, che parlava con tutti. Le piaceva avere amicizie con tutti, però queste persone cattive me l’hanno portata via”. La donna ha aggiunto: “Queste persone hanno sempre calunniato mia figlia e gli inquirenti lo sanno. Quando prenderanno i tabulati, emergeranno le minacce telefoniche, con messaggi Whatsapp e anche con messaggi normali”. Imma Rizzo poi guarda fisso la telecamera e si rivolge al padre dell’assassino reo confesso della figlia: “Quindi signor Marzo, lei può dire a me qualunque cosa, ma mia figlia non la deve toccare mai più”. La mamma di Noemi Durini respinge poi le accuse secondo le quali la 16enne avrebbe anche tentato di acquistare una pistola per poi uccidere i ‘suoceri’: “Mia figlia non si sarebbe mai permessa, anche perché mia figlia è nata in una famiglia sana, in una famiglia perfetta e proprio per questo si è ritrovata morta. Lei, signor Marzo, non la poteva vedere, perché suo figlio doveva diventare un delinquente come lei. E mi assumo la responsabilità di quello che sto dicendo”.
La mamma di Noemi Durini a Quarto Grado: “Sono tutti complici”, scrive Filomena il 16 settembre 2017 su "Ultime notizie flash". Per la prima volta in tv in una lunga intervista, la mamma di Noemi Durini, la signora Imma, parla alle telecamere di Quarto Grado, nella puntata in onda il 15 settembre 2017. Una intervista piena di rabbia, di dolore e di disperazione. Il racconto della vita di sua figlia, le difficoltà. “Io avevo chiesto aiuto, mi ero resa conto che mia figlia sfuggiva alla mia educazione. Per questo mi sono rivolta agli assistenti sociali. Non di certo perchè la rinchiudessero ma perchè mi dessero una mano, usando la loro competenza. E nessuno mi ha aiutato” queste le parole della signora Imma. Noemi era una ragazzina veramente speciale. Anzi… è tuttora una ragazzina speciale, perché ci guida da lassù. Lei sta con noi… è un pezzo di cuore che resterà sempre qua dentro. Noemi era solare e lo potete chiedere a tutti. Era sempre allegra, le piaceva dialogare e avere amicizie. Però queste persone cattive me l’hanno portata via. All’inizio hanno fatto finta di volerle bene. Ma quando hanno visto che mia figlia veniva da una famiglia di onesti, di persone che si guadagnano un pezzo di pane lavorando da mattino a sera per mantenere la famiglia… hanno visto che non potevano competere. Questa, forse, è la risposta più giusta. Con l’onestà e il lavoro delle persone che sudano dalla mattina alla sera, no, non ce la facevano… Sono persone disoneste: lo sanno tutti. Però, adesso, che purtroppo Noemi quelle brutte persone me l’hanno portata via… perché sono veramente delle brutte persone…, la devono smettere di infangare la memoria di mia figlia".
La mamma di Noemi parla di sua figlia ricordando come fosse amata e ben voluta da tutti. E anche la sorella di Noemi ha qualcosa da dire per descrivere quello che era il comportamento del fidanzato di Noemi. Quando ha capito che aveva usato violenza contro sua sorella gli ha proibito di entrare in casa e gli ha detto di non farsi vedere in paese, lui per tutta risposta, l’avrebbe minacciata. Le due donne sono convinte di una cosa: Noemi voleva fare la crocerossina e ha pagato per questo suo errore. La signora Imma invita i genitori di Lucio a lasciare da parte le sceneggiate. Crede nella giustizia e aspetta che sia faccia davvero luce su quanto accaduto: ci sono dei messaggi, delle mail, i tabulati. Le indagini dimostreranno come sono andate davvero le cose e Noemi potrà riposare in pace. "Mia figlia è nata in una famiglia sana, perfetta: ecco perché è morta. Mia figlia, grazie a lei, signor Biagio, a lei che non la poteva vedere, perché suo figlio doveva diventare il secondo delinquente come lei… Mi assumo tutte le mie responsabilità e con questo ho chiuso".
Il veto di mamma Imma sui funerali: “Niente banda o show, sennò urlo”. Il paese di Specchia preparava esequie solenni coi maxischermi. La madre della ragazza: “No, solo la bara a casa per l’ultimo saluto”, scrive Francesco Grignetti il 15/09/2017 su "La Stampa". Ora che Noemi non c’è più, il suo cadavere parla. Urla. Ma quella famiglia che era diventata invisibile agli occhi del paese, con i suoi drammi, la sua caduta nella povertà, dieci anni di vita agra che nessuno aveva voluto vedere, e ora pure il precipizio di un violento in casa, non ci sta a diventare icona di un dolore troppo ostentato per essere del tutto sincero. A caldo, a Specchia è nato un comitato spontaneo che aveva immaginato di fare le cose in grande: camera ardente in un locale comunale, feretro che sfila per la strada principale del paese, banda, contorno di motociclisti «perchè Noemi amava tanto le moto». E poi fiori da tutte le parti, gigantografia, messa solenne, forse pure gli altoparlanti e i maxi schermi in piazza. Invece no, mamma Imma rifiuta ogni pompa esteriore. La sua voce arriva ferma nella sala comunale dove ieri sera, attorno alle 19 si sono trovati in tanti, con assessori e parroco, a progettare l’ultimo saluto. «No a tutto - ha scandito la madre - non voglio fiori, non voglio sfilate e banda. Voglio solo che mi portino la bara a casa per un ultimo saluto, io e lei, con la nostra famiglia e basta. E poi dritti in chiesa. Dove nessuno deve neppure gridare, perché se no griderò io, con il dolore che provo, ci manca pure che qualcuno faccia lo show». Niente altoparlanti, allora. E se proprio ci devono essere le motociclette, «le voglio con il motore spento». Così parlò mamma Imma. Che palesemente rifugge tutti questi eccessi un po’ sospetti dell’ultima ora. Ha altro a cui pensare. Un cuore spezzato per non essere riuscita a impedire quel che aveva visto avvicinarsi. Si è sentita abbandonata da tutto e da tutti. Si capisce lo sfogo della cugina, Alma, che quando è accorsa, l’altra sera, ha preso a spintoni i troppi curiosi che affollavano la stradina dove Noemi abitava, urlando «Lo sapevate tutti!». Forse no, forse nessuno sapeva. Ma questo non assolve il paese. Nessuno sapeva perché nessuno voleva sapere. Una mamma che da dieci anni si spaccava la schiena per portare avanti la famiglia, dopo che il marito l’aveva mollata senza un perchè e soprattutto senza un soldo. Nella piazza del paese, dove si fa il punto della situazione come accade da tempi antichi, il signor Giuseppe, dalla soglia della sua bottega di ciabattino, ammette: «Lo sapeva tutto il paese che Imma faticava a tirare avanti, con le due figlie grandi del primo matrimonio e poi la terza figlia del nuovo compagno. Per un periodo ha fatto da badante ad alcuni vecchi. Da qualche tempo aveva trovato un lavoretto nel paese vicino, in un asilo, dove teneva i bambini». Anche il parroco, don Antonio, non sapeva. Si torce le mani per il dispiacere. «Imma è una donna di fede, partecipa alle attività parrocchiali, è nel coro. Ma con me non si è mai confidata. Io, che Noemi avesse un ragazzo, l’ho saputo solo ora. E pensare che quel ragazzo è del mio paese. Se Imma me ne avesse parlato, chissà, mi sarei attivato». Imma aveva preferito investire lo Stato. Due denunce ben particolareggiate alla magistratura. E nessuna risposta. Di questo ora i magistrati leccesi parleranno con gli ispettori inviati dal ministro Orlando. Qualcosa doveva avere detto anche ai carabinieri, tanto che il maresciallo del paese, Giuseppe Borrello, è andato quasi a colpo sicuro sul fidanzato violento. Conferma, il maresciallo, che la signora Imma «ci fece un paio di segnalazioni nei mesi scorsi, perché la figlia non era tornata a casa la notte». Piccole ragazzate, aveva pensato il maresciallo. Già, la famiglia invisibile si trovava a fronteggiare un tumore dilagante in casa, con il ragazzo manesco e quella adolescente ribelle che non aveva mai digerito sul serio la rottura tra i genitori e forse nemmeno l’entrata in scena di un padrino, ma nessuno ha alzato un dito. Una totale solitudine. Fatto sta che nell’ultimo anno Noemi viveva da una parte, la mamma da un’altra, il padre desaparecido nonostante vivesse nello stesso fazzoletto di case, la sorella all’università. E Lucio, il suo lui, era diventato qualcosa di importante. Un salvagente. Nonostante le mattane, la gelosia, le botte che ogni tanto partivano a casaccio. Una volta era tornata piena di lividi e lo zio Rocco non riusciva a darsi pace che quei due ancora filassero. Raccontano in tanti che dopo la separazione tra i genitori, fossero stati i nonni materni, Vito e Vincenza, a tirare su quella bambina in crisi. «Io - dice la giovane Paola, al bancone del bar nella strada principale del paese - quando vedo alla televisione certe storie, mi sembrano così lontane che non le sento reali. Poi capita qui accanto, a una che conoscevo e ha quasi la mia età, e non riesco a crederci. Posso toccare con mano la cattiveria». Il giorno dopo lo show di Lucio, intanto, Imma ha realizzato che il rischio è l’infermità mentale. «Quello se la cava facendo il pazzo». E il Comune ha deciso di stanziare dei soldi per un buon avvocato. Si costituirà parte civile. In fondo a Imma e a Noemi glielo devono.
Noemi, il genitore accusa il papà del fidanzato: ha fatto tutto lui. Sabato mattina l'interrogatorio di garanzia del 17enne. Gli ispettori del ministero hanno acquisito gli atti, scrive il 15 Settembre 2017 "La Gazzetta del Mezzogiorno". «Ha fatto tutto lui». Umberto Durini non ha dubbi: a provocare la morte di sua figlia Noemi non è stato il fidanzato diciassettenne reo confesso ma suo padre, che provava nei confronti della ragazzina «un odio indescrivibile». Con il passare dei giorni, quello che era il dramma di una sedicenne che ha avuto l’unica colpa di innamorarsi del ragazzo sbagliato diventa sempre più una faida tra famiglie. Intrisa di veleni e rancori. Dove Umberto trovi tutte queste certezze, non è dato sapere: le indagini dei carabinieri e della procura di Lecce non hanno ancora chiarito il ruolo del padre di Lucio, che resta indagato per sequestro di persona e occultamento di cadavere. Una serie di accertamenti sono in corso e qualche risposta potrebbe arrivare dall’autopsia sul corpo della ragazza, che si terrà martedì, e dall’esame delle macchie di sangue rinvenute sulla 500 con cui alle 5 del mattino del 3 settembre il ragazzo è andato a prendere Noemi. Allo stato, dunque, l’ipotesi più probabile resta quella che il ragazzo abbia confessato al padre quello che aveva fatto e questi lo abbia aiutato a far sparire il corpo di Noemi. O, quantomeno, a pulire l’auto dopo che il giovane si era liberato del cadavere della fidanzata. Umberto Durini è convinto però che sia andata in tutt'altro modo e anche se non dice mai in maniera chiara che è stato il padre di Lucio ad uccidere sua figlia, la sua ricostruzione dei fatti è tutta in quella direzione. Tanto che di prima mattina si è presentato davanti a casa della famiglia di Lucio ad Alessano urlando e cercando di entrare. «Me l’ha uccisa, vieni fuori bastardo, vieni fuori» ha inveito più volte, con i carabinieri che a fatica sono riusciti a fermarlo. Poi l’uomo si è calmato e si è sfogato con i cronisti. Noemi «era la ragazza più brava del mondo. Non era perfetta, ma era brava e onesta». Una sedicenne che una settimana prima di sparire sembrava aver trovato finalmente la pace, stando a quello che dice il padre. «Stava finalmente bene, tornava a casa tutte le sere alle 20 e mi abbracciava. Era riuscita a lasciarlo, anche se lo amava e lo adorava». Ma era Lucio il problema? «No» risponde lui. E torna indietro nei mesi. «Lui con me era come un agnello. Quando l’hanno cacciato di casa, perché vedeva mia figlia, è venuto a dormire da me. Andava a dormire nelle baracche e io me lo sono portato a casa. Gli ho preso le medicine in farmacia, gli ho dato i vestiti e le sigarette. E lui si era calmato». Sono stati i suoi genitori, il padre in particolare, a far precipitare tutto. «Dopo le denunce di mia moglie avevo la verità davanti agli occhi e non volevo vederla - sostiene Umberto Durini - Però sono andato da loro, volevo parlare, io sono una persona che parla non un violento. Volevo trovare un punto d’incontro. E loro mi hanno aggredito. Mi hanno trattato come un delinquente, dicevano “noi non vogliamo avere a che fare con i drogati”. A me? Che non so neanche dove sta la droga». Quella famiglia, aggiunge, «provava un odio indescrivibile per mia figlia, un odio che non era comprensibile». Accuse condivise anche dalla mamma di Noemi, Imma. «Mia figlia era allegra, educata a rispettosa. E’ nata in una famiglia sana, ecco perché è morta» dice la donna, che poi si rivolge direttamente al padre del presunto assassino. «Mia figlia, grazie a lei, a lei che non la poteva vedere» è morta, «perché suo figlio doveva diventare il secondo delinquente come lei...Mi assumo tutte le mie responsabilità». L’odio secondo Umberto Durini è esploso definitivamente la mattina del 3 settembre. L’uomo si mette le mani sul viso, poi si volta verso la casa del padre del presunto assassino, e sibila. «Io Lucio lo perdono. Io voglio suo padre e basta, perché so tutto. Quella mattina mia figlia è uscita per chiarire. Subito dopo essere salita in macchina il ragazzo deve averla tramortita con un pugno». E poi? «E poi è venuto qua - Umberto indica la casa del padre di Lucio -. Il padre ha capito la situazione e ha detto “ci penso io”. E’ lui che ha fatto tutto il resto». L’uomo si ferma, poi riattacca. «Lucio sta nascondendo suo padre, lo protegge. Ma non lo salverà. Ha fatto tutto lui e ha fatto festa come un bambino a Disneyland».
LA TAC ESCLUDE LA MORTE PER LA PIETRA - Noemi non è stata uccisa con un colpo di pietra alla testa. Lo hanno escluso i risultati di una Tac eseguita, alla presenza del medico legale Roberto Vaglio, nella camera mortuaria dell’ospedale Vito Fazzi di Lecce sul corpo della ragazza, scomparsa da casa il 3 settembre scorso, presumibilmente ammazzata la stessa mattina e il cui corpo, nascosto sotto un cumulo di pietre, è stato trovato due giorni fa nelle campagne di Castrignano del Capo (Lecce) su indicazione del presunto omicida reo confesso, il fidanzato di 17 anni. Dall’esame non emergerebbero segni di fratture scheletriche sul cadavere, né tanto meno alla testa e questo fa escludere l'ipotesi iniziale che la ragazza sia stata uccisa a colpi di pietra. Domani alle 10,30, nella casa protetta dell’hinterland leccese in cui è rinchiuso in stato di fermo, ci sarà l'interrogatorio di garanzia del 17enne dinanzi al gip del tribunale per i minorenni di Lecce. Il ragazzo, quando ha confessato il delitto, disse di aver ucciso Noemi con un coltello che la ragazza avrebbe portato con sé uscendo da casa il 3 settembre. Della presunta arma del delitto non è stata trovata traccia, ma per sciogliere i dubbi su come la sedicenne di Specchia sia stata uccisa sarà decisiva l’autopsia che dovrebbe essere eseguita lunedì prossimo. Un primo esame esterno del cadavere, il giorno del ritrovamento, ha evidenziato la presenza di lesioni al collo: potrebbero essere state procurate da qualcuno con un’arma da taglio, ma potrebbero anche essere le conseguenze dell’azione di insetti e larve su un corpo in stato di decomposizione, quale era quello della sedicenne. L’interrogatorio di garanzia di domani potrebbe servire a chiarire, ad esempio, il movente del delitto. Il 17enne, accusato di omicidio volontario e occultamento di cadavere in concorso, quando ha confessato il delitto ha riferito di aver ucciso la fidanzata perché Noemi voleva che lui sterminasse la sua famiglia, che ostacolava la loro relazione sentimentale. Così come non è ancora chiaro il ruolo che, secondo l’accusa, potrebbe avere avuto nella vicenda il padre del ragazzo, indagato per sequestro di persona e concorso in occultamento di cadavere. Che tra le famiglie dei due adolescenti non corresse buon sangue lo si era capito dalla denuncia che la mamma di Noemi, Imma Rizzo, aveva sporto nel maggio scorso alla Procura per i minori per presunte violenze che la ragazza avrebbe subito dal fidanzato, e dalla contro-denuncia che la famiglia del 17enne aveva presentato un paio di settimane dopo nei confronti della ragazza, accusata di stalking. Da quel momento la situazione di astio reciproco si è andata trascinando fino all’epilogo tragico. E’ il motivo per cui ieri il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha chiesto all’ispettorato di verificare se ci siano state sottovalutazioni e se l’omicidio della sedicenne potesse essere evitato. «Abbiamo ritenuto opportuno intervenire - ha spiegato ancora oggi il ministro Orlando - perché a una prima valutazione sono emerse delle condotte nelle attività dei magistrati che possono far supporre delle abnormità. Gli ispettori hanno acquisito gli atti oggi. Naturalmente - ha aggiunto - questo non cancellerà il dolore dei famigliari».
Domani alle 10,30, nella casa protetta dell’hinterland leccese in cui è rinchiuso in stato di fermo, ci sarà l'interrogatorio di garanzia del 17enne dinanzi al gip del tribunale per i minorenni di Lecce. Il ragazzo, quando ha confessato il delitto, disse di aver ucciso Noemi con un coltello che la ragazza avrebbe portato con sé uscendo da casa il 3 settembre. Della presunta arma del delitto non è stata trovata traccia, ma per sciogliere i dubbi su come la sedicenne di Specchia sia stata uccisa sarà decisiva l’autopsia che dovrebbe essere eseguita lunedì prossimo. Un primo esame esterno del cadavere, il giorno del ritrovamento, ha evidenziato la presenza di lesioni al collo: potrebbero essere state procurate da qualcuno con un’arma da taglio, ma potrebbero anche essere le conseguenze dell’azione di insetti e larve su un corpo in stato di decomposizione, quale era quello della sedicenne.
L’interrogatorio di garanzia di domani potrebbe servire a chiarire, ad esempio, il movente del delitto. Il 17enne, accusato di omicidio volontario e occultamento di cadavere in concorso, quando ha confessato il delitto ha riferito di aver ucciso la fidanzata perché Noemi voleva che lui sterminasse la sua famiglia, che ostacolava la loro relazione sentimentale. Così come non è ancora chiaro il ruolo che, secondo l’accusa, potrebbe avere avuto nella vicenda il padre del ragazzo, indagato per sequestro di persona e concorso in occultamento di cadavere.
Lecce, 16enne scomparsa: trovato il corpo. Il fidanzato minorenne confessa l'omicidio. Le tappe della vicenda. Noemi Durini è stata vista l'ultima volta la mattina del 3 settembre: l'ansia dei genitori, le indagini degli inquirenti. Terminati i primi esami a bordo della Fiat 500 dove la giovane è stata vista per l'ultima volta, scrive Raffaella Cagnazzo il 13 settembre 2017 su "Il Corriere della Sera".
La vicenda: Noemi scomparsa il 3 settembre. È stata la mamma la prima ad accorgersi che Noemi Durini non era nella sua stanza, la mattina di domenica 3 settembre. La giovane, 16 anni, vive a Specchia, in provincia di Lecce, dalla separazione dei genitori: è con la madre Imma Rizzo, il nuovo compagno di lei e la sorella Benedetta. Si era già allontanata da casa altre volte, ma solo per pochi giorni, due o tre - spiega la madre - ed era sempre rientrata. A destare sospetti è il fatto che Noemi abbia lasciato a casa i suoi effetti personali: il portafogli e il telefono cellulare. Dopo alcuni giorni di silenzio, martedì 5 settembre la donna presenta la denuncia e scattano le ricerche della Prefettura di Lecce che attiva il tavolo di coordinamento delle ricerche.
Le ricerche e l'attenzione alle amicizie «a rischio». La ricerche si fanno sempre più serrate e la segnalazione della ragazza scomparsa si allarga su tutto il territorio nazionale. Per cercarla, arrivano in Puglia anche i cani molecolari dell'unita cinofila in dotazione a carabinieri e vigili del fuoco. Le indagini si concentrano in particolare sulla cerchia di amicizie della ragazza, considerate «a rischio», e sul fidanzato di Noemi, un minorenne di Montesardo, frazione di Alessano.
Le ricerche e l'interrogatorio del fidanzato. Le ricerche si concentrano attorno a Macurano di Alessano, paese di origine del fidanzato di Noemi. È stato lui l'ultima persona ad aver visto viva la ragazza, all'alba del 3 settembre: una telecamera di sorveglianza li ha ripresi mentre transitano in via San Nicola di Specchia. Sul caso la magistratura indaga per sequestro di persona e apre due inchieste: un fascicolo della Procura ordinaria e uno presso il Tribunale per i minorenni. I controlli, anche con cani molecolari, sono estesi a grotte, inghiottitoi, cisterne, pozzi: un terrapieno in una campagna lungo la strada che da Alessano conduce a Novaglie viene ispezionato senza risultati.
Il fidanzato indagato per omicidio volontario. La svolta nell'indagine arriva mercoledì 13, a dieci giorni dalla scomparsa della ragazza: Il fidanzatino 17enne di Noemi Durini è indagato per omicidio volontario. Le telecamere di sicurezza di un'abitazione di Specchia certificano che il ragazzo e Noemi erano insieme all'alba del 3 settembre, a bordo di una fiat 500 di proprietà della famiglia del ragazzo: a bordo dell'auto - da giorni sotto sequestro - non sono stati trovati elementi utili all'indagine. Il fidanzato ha raccontato di aver lasciati Noemi nei pressi del campo sportivo, ma le sue dichiarazioni avrebbero lati oscuri e qualche contraddizione. L'iscrizione del suo nome nel registro degli indagati è disposta dalla Procura per i minorenni di Lecce per permettere l'esecuzione di accertamenti utili alle indagini.
Trovato il corpo, il fidanzato confessa: «L'ho uccisa io». Un episodio con tanti lati oscuri che man mano che passano i giorni, si connota sempre meno come un allontanamento volontario e assume i contorni del giallo. Fino alla confessione del fidanzato. A dieci giorni dalla scomparsa di Noemi durini, gli investigatori trovano il corpo e lui confessa l'omicidio.
Noemi su Facebook: «Non è amore se ti fa male». Il profilo Facebook di Noemi si popola, con il passare delle ore, di messaggi e di appelli, anche di violenza verbale. Commenti che vengono lasciati sotto gli ultimi post della ragazza tra foto dei suoi look, selfie e frasi ripostate: «Non ve lo darei neanche se l'avessi doppio» commentava con un cuore accanto ad una foto abbracciata al fidanzatino, l'11 agosto gioiva per il suo «Fidanzamento ufficiale», pochi giorni dopo scriveva «La voleva l'amore mio» accanto ad un selfie in shorts di jeans. Tra i tanti post anche frasi condivise da altri siti e pagine social, una in cui si legge: «Se ha voglia di te, non se ne va, non sparisce. Non credere a chi ti dice il contrario, sono solo parole. Chi ti ama ti vuole vicino, ha bisogno di stringere la tua mano, anche restando semplicemente lì, in silenzio». E ancora in un post del 23 agosto: «C'è vita fuori da una relazione abusiva. Non è amore se ti fa male, non è amore se ti controlla, non è amore se ti fa paura di essere ciò che sei, non è amore se ti picchia, ti umilia, non rispetta la tua volontà.
Noemi, parla il carabiniere che ha interrogato il ragazzo. "Non si è pentito", scrive il 16 Settembre 2017 Giuseppe Spatola su "Libero Quotidiano”. Un'ora e tre quarti faccia a faccia con il mostro che non ti aspetti, cercando una ragione della follia che ha spezzato due giovani vite e gettato un intero paese nel dramma. Così il maresciallo capo Giuseppe Borrello, 40 anni e tre figli, comandante della stazione dei carabinieri di Specchia, nella lunga notte passata in caserma con l'unico indiziato ha cercato di riordinare gli ultimi scampoli di vita di Noemi Durini, portando il giovane fidanzato ad ammettere l'atroce mattanza. Lui, ragazzino violento con un passato già frastagliato da "problemi", ha confessato ma non si è pentito. Anzi. «Il ragazzo è stato lucido e chiaro nella ricostruzione dei fatti - ha confermato il maresciallo -. Ma non ha avuto crisi di pianto o momenti di sconforto, dal punto di vista emotivo e di ricostruzione dei fatti non ha evidenziato disagio di tipo psichico».
Freddo e distaccato, anche quando vi ha detto "sono stato io"?
«Nessuna reazione. Per noi è stata una conferma drammatica di quanto avevamo raccolto con le indagini dal giorno della scomparsa».
Cosa lo ha portato a confessare...
«Si sentiva braccato. La pressione psicologica lo ha portato a venire a confidarsi con me. Cercava qualcuno che lo potesse guidare verso la confessione per liberarsi del peso. Del resto i giornali e l'opinione pubblica lo avevano indicato come principale sospettato. Aveva paura dell'arresto. Si è tolto un peso e ha scelto di farlo con chi nei giorni passati lo aveva sentito ma anche consigliato, rassicurandolo che sarebbe stato tutelato in tutti i sensi data la sua giovane età. A quel punto ha parlato...».
Ma con lei non ha fatto lo sbruffone, non si è bullato così come ha invece fatto all' uscita della Caserma...
«Il ragazzo con me è stato molto tranquillo, remissivo, non ha fatto colpi di testa. Non mi aspettavo questa reazione all' uscita dalla caserma. Non è stato un bel gesto nei confronti della popolazione. Eppure pochi istanti prima mi aveva fatto intendere che non dormiva da giorni per il peso che nascondeva e la paura di finire in manette. Non ce la faceva più a sopportare un peso simile anche a livello fisico».
Una confessione che tira fuori dai guai il padre, pure lui coinvolto nell' inchiesta.
«Non ha mai parlato del padre. Per l'adulto la vicenda sarà magari approfondita dall' autorità giudiziaria».
La questione che lascia però perplessi è la storia tormentata di questa giovane coppia, dove tutti parevano sapere dei litigi e delle violenze ma in paese nessuno ha mai parlato fino al giorno dopo il dramma. È normale?
«I problemi ci sono stati, è innegabile, ma la comunità ci ha aiutati tanto da ipotizzare il coinvolgimento del giovane».
La famiglia del fidanzato aveva denunciato la ragazza per atti persecutori nei confronti del giovane. La denuncia sarebbe stata fatta alcuni mesi fa e 15-20 giorni dopo quella presentata invece dalla madre di Noemi che accusava il ragazzo di lesioni nei confronti della figlia. Come può una madre tutelare la figlia maltrattata se neppure denunciando il fidanzato manesco si riesce ad avere la giusta serenità?
«La madre ha fatto tutto il possibile per tutelare la giovane. Ma parlare dopo è facile. Certo lui non era un agnello, ha commesso un omicidio efferato senza provare pentimento. Solo quando ci ha portato davanti alla tomba di sassi dove aveva nascosto il corpo martoriato di Noemi l'ho visto barcollare. Un attimo. Poi è tornato presente e lucido, quasi distaccato».
Specchia come Avetrana?
«Quando muore una giovane il dramma è condiviso dall' intera comunità. Il paese avrà modo di elaborare il lutto, capendo dove si è sbagliato».
L'autopsia in prima pagina: quando la cronaca diventa abuso. La nera tra tv e giornali. Quello di Noemi Durini è soltanto l'ultimo caso della deriva di un certo tipo di giornalismo italiano, scrive Francesco Merlo il 15 settembre 2017 su "La Repubblica". È odiosa la deriva selvaggia di questo giornalismo italiano che attizza la morbosità e ti fa dimenticare la sedicenne uccisa a Specchia e l’oltraggio subito da tutte le ragazze del mondo, presi come siamo a violarne gli spasmi sotto le pietre, “anzi no, era un coltello”. Ora al pantografo sono finite le ferite, il sangue e la lama affilata. Ma le mani restano manacce che colpiscono e manine che si chiudono, e la descrizione dei colpi di bastone ti fa sentire il legno che sbatte sulle ossa. Poi si passa ai lividi vecchi che, recuperati e rinfrescati dal sempre più pietoso prosatore, bene illustrano le botte dei titoloni a tutta pagina. E così, alla fine, quando arrivi in fondo all’articolo e già attacchi il secondo, che viola lo smarrimento della madre, e poi ce ne sono un terzo sull’arma e un quarto sul luogo dell’esecuzione, alla fine, dicevo, non c’è più la morte di una bella ragazza che tutti avremmo voluto come figlia, ma c’è solo l’infinita indecenza. E non è vero che lì c’è il Dio dei dettagli, la storia concentrata. Al contrario, c’è la fuga dalla notizia alla pornografia. E più ti avvicini e più ingrandisci il dettaglio morboso più Dio si allontana da te, dal giornale, da tutti. È un giornalismo spudorato quello che in video mostra l’androne dove sono state stuprate le due ragazze americane a Firenze: «Non ne facciamo il nome» dice lo scoopista indignato mentre ci accompagna a casa loro, e in quel buio dove è stata consumata la violenza prova a rievocare lo smarrimento, vorrebbe misurare l’incommensurabilità del dolore, ma la verità è che, in questo modo, la cronaca del delitto diventa a sua volta delitto, e la notizia dello stupro è lo stupro della notizia. Ed è stato un interrogatorio “di polizia”, anzi una vera e propria trappola quella di Chi l’ha visto? ai genitori del fidanzato assassino. Il padre e la madre di Vincenzo hanno appreso dalla giornalista che il corpo era stato ritrovato e che il loro figlio aveva confessato: uno spettacolo orribile e terribile. Mentre cercavano, maldestramente, di difendere il loro ragazzo c’era infatti una bandella che annunziava quello che stava per accadere: «Ancora non sapevano che il figlio avesse confessato». Il padre, che è indagato, dice allora «bedda mia», si appoggia al tavolo, si agita come una bestia ferita: «Hanno creato un mostro» grida. Poi c’è la lunga inquadratura sullo strazio della madre che si abbandona a una serie di frasi sconnesse, straparla di killer venuti da lontano, infine sbotta «ora siamo morti» e piange nascondendo la testa tra le braccia conserte poggiate sul tavolo. Ecco, tutto questo ci ha lasciato non a bocca aperta ma a bocca chiusa. Anche la mamma dell’assassino ha diritto alla compostezza pubblica e alla disperazione privata. E invece la giornalista non le ha dato il tempo di dominarsi, di raccapezzarsi e l’ha esposta all’insana curiosità dell’Italia, ha ridotto la sua pena a tecnica spettacolare. Diciamo la verità: il rigetto è totale. È vero che Mussolini aveva proibito la cronaca nera considerandola “eversiva ed emulativa” ed è stata una liberazione riappropriarsene, un dovere del giornalismo democratico occuparsene. È insomma giusto che la cronaca nera, che non è solo roba da stampa scandalistica, occupi anche le prime pagine dei quotidiani d’informazione responsabile, dei giornali-istituzione che sanno servire il pubblico con un controllo qualificato delle reticenze, svolgendo il ruolo dei grandi testi di riferimento del passato. Come si sa, infatti, la grande letteratura gialla proviene proprio dalla cronaca nera. Ebbene, grazie alla qualità dei giornali italiani, la cronaca nera nel dopoguerra è diventata letteratura, con Dino Buzzati, Orio Vergani, Tommaso Besozzi...Ma ci sono dei doveri che il giornalista non dovrebbe mai dimenticare. E invece, in un crescendo che dura da un po’ di anni, anche colleghi sensibili, perspicaci e intelligenti, non si fermano più dinanzi alla sconcezza. Ma non è civile l’idea che il diritto di cronaca significhi infilare il naso nelle nefandezze. Ricordate il caso Cogne? Quell’omicidio ci colse impreparati. Non capimmo subito quello che stava accadendo nell’informazione italiana. In molti ricorderanno l’iniziale spaesamento e poi il crescente disagio dinanzi alla rappresentazione della violenza, alla voglia di mostrare nel dettaglio lo scempio di un corpicino, all’indugiare sul particolare raccapricciante, al calcolo dei colpi mortali, al dilungarsi sull’efferatezza, allo spacciare per scienza il bla-bla vanitoso degli psicologi del sabot assassino, alla sanguinolenta esibizione di sapere degli esperti di tragedie greche, alla truce chiacchiera su criminologia, cervello e maternità. Insomma, ci abbiamo messo un po’ di tempo a capire che dietro l’eccesso di cronaca c’era la morbosità, e che non si trattava di analisi fredda e neppure di resoconto intelligente, ma di compiacimento. Poi però, da un omicidio all’altro, da uno stupro all’altro, da un femminicidio all’altro, siamo arrivati all’attuale accanimento dell’informazione sulla cronaca nera: la pedofilia (ricordate Rignano?), le streghe di Avetrana, Meredith, Yara, la mamma assassina di Loris... Ed è stata un’escalation che ha accompagnato la crisi dei giornali, la perdita di lettori, il bisogno di fare audience e di vendere copie. Sino allo stupro di Rimini e alla diffusione di quei verbali, che ovviamente avevamo pure noi, anche se non ci è mai passato per la mente che fossero uno scoop. Erano infatti una roba da pattumiera dell’anima, un’immondizia adatta al giornalismo- immondizia e non certo alla Rai, a Mediaset, ai grandi quotidiani e ai settimanali italiani che, come già denunziò l’allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi — nel 2003! — «danno un rilievo altissimo ai fatti di violenza», eccedono, insistono, scavano con un furore che «finisce per dare a quei drammi una valenza esemplare che essi sicuramente non hanno», e alla fine questa gutter press, questo giornalismo da rigagnolo, commette, concludeva Ciampi, «un grave attentato alla dignità umana». Noi non pensiamo che la rappresentazione, il racconto, la fotografia, la discussione, anche quella inutile e oziosa sulla violenza, debbano essere denunziate più della violenza stessa. Ma una cosa è raccontare che c’è stato un caso di harakiri e un’altra mostrare lo sparpagliamento delle viscere. Ci sono cose che debbono essere fatte perché sono importanti: il magistrato, per esempio, deve indagare e anche, con la polizia, tendere tranelli. E il chirurgo deve operare. Ma l’operazione non si fa su Raitre o a Canale 5. E i processi si celebrano in tribunale. Né basta esibire un’indignazione morale che diventa essa stessa spettacolo. Durante il caso di Rignano, seguendo un’idea “neutrale”, furono messi a confronto in televisione i genitori dei bimbi e i presunti pedofili. Esiste, secondo noi, l’abuso di cronaca che dovrebbe essere sanzionato, non in tribunale ma nelle coscienze, dalla cosiddetta deontologia, specie quando l’abuso si spaccia per verità senza tabù, per “necessità di sapere”, per scoop. Ci sono degli eccessi e ci sono casi di abbrutimento della vita che sono così eccezionali da meritare professionalità eccezionali che sappiano, quando occorre, anche chiudere gli occhi per pietà. Così il racconto di uno stupro, come quello di Rimini, almeno sui grandi giornali come il nostro, deve essere riassunto, mediato dalla professionalità e dal pudore del giornalista, dal riserbo se necessario. Non può diventare un furto d’anima, uno squartamento interiore, il feroce avvilimento dell’umanità, un’orgia scritta di carne e liquidi, di posizioni, di sodomie, tutti convinti di scrivere come Balzac, Simenon e Truman Capote, tutti piccoli Tarantino, tutti virtuosi dello splatter. Tutti arrapati, invece, che con la penna incidono, aprono, fanno l’autopsia, sporcano e si sporcano. La cronaca nera, ci insegnarono i nostri maestri, non si commenta mai. Ma, questa volta, per dirla con Montale: «Codesto solo oggi possiamo dirti, /ciò che non siamo, ciò che non vogliamo».
Quando si oltrepassa il comune senso del pudore, scrive il 15 Settembre 2017 Oscar Iarussi su "La Gazzetta del Mezzogiorno". Ci sarebbe da lasciare la pagina in bianco. Ci sono già troppe parole intorno alla tragica fine di Noemi Durini, la sedicenne salentina di Specchia, morta per mano del suo ragazzo di 17 anni. «Ho sbagliato, potevo uccidermi io e avrei evitato questo casino», avrebbe dichiarato il presunto assassino, che l’altra notte ha rischiato il linciaggio quando ha sfoderato un atteggiamento di sfida - un saluto inquietante, una smorfia derisoria - verso la folla che ne attendeva il trasferimento. Chiuso in una struttura protetta, con un passato di trattamenti psichiatrici, il «fidanzatino» - come molti continuano a definirlo con impropria tenerezza - viene descritto in preda a una confusione che si riflette nelle diverse versioni della sua confessione. «Ero innamoratissimo di lei», ha detto ai Carabinieri. «Ho reagito di fronte all’ostinazione di Noemi nel voler portare a termine il progetto dello sterminio della mia famiglia». Arma del delitto? Le pietre. Anzi, un coltello che la stessa vittima avrebbe portato con sé, di cui però finora non v’è traccia. Una storia tremenda, vissuta quasi «in prima persona» da chiunque abbia figli adolescenti, così vicini così lontani rispetto al mondo adulto. Noi genitori possiamo intuirne il disagio, i turbamenti, i dolori, ma spesso è difficile andare al cuore del loro comportamento. Perché davvero, con Pascal, «il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce», persino nei casi più foschi. Così è nel tunnel oscuro e criminale di questa vicenda in un paese invece solare e ventoso qual è Specchia, un luogo elevato - dal latino specula - adatto per le osservazioni. Tra l’altro, ogni estate vi si svolge un piccolo festival dedicato al «Cinema del reale», il cui titolo rischia ora di suonare beffardo. Si è infatti subito scatenato il reality / irreality show dei mass media. Cartoline dell’irrealtà spedite a raffica, tanto più quando una tragedia - accadde anche per lo scontro ferroviario di Andria nel luglio 2016 - dà la stura a un inconsapevole e sottile svilimento del Sud. Così ieri abbiamo letto su un quotidiano milanese che «nessuno si fa troppe domande, giù nel Basso Salento, tra Specchia e Alessano, belle ville di vacanza della swinging Puglia e terre riarse dei poveracci». Noi diremmo piuttosto che tutti in Italia si fanno molte domande, in cerca di una risposta che possa «spiegare» seppur lontanamente quello che purtroppo a volte succede, nelle «terse riarse dei poveracci» come nel caso dell’omicidio di Garlasco, in provincia di Pavia. Ma il clou del Barnum mediatico è stato toccato in televisione, tanto che i vertici dei sindacato dei giornalisti, il pugliese Raffaele Lorusso e Giuseppe Giulietti, deplorano che l’inviata di Chi l’ha visto abbia comunicato in diretta ai genitori del presunto assassino di Noemi la notizia della morte della ragazza e della confessione del figlio. Sulla necessità di cautelare i minori intervengono anche il Comitato regionale per le Comunicazioni della Puglia e l’Ordine dei giornalisti della Puglia che ricorda l’importanza «di applicare i principi deontologici nell’uso di tutti gli strumenti di comunicazione, compresi i social network». Pare d’accordo l’avvocato del ragazzo, Paolo Pepe, che ieri ha dichiarato: «Nel rispetto della riservatezza e sensibilità delle famiglie coinvolte, e nel rispetto delle indagini dell’Autorità Giudiziaria, tuttora in corso, ci si esime dal diffondere e trattare mediaticamente la vicenda». Tuttavia, poco dopo, la madre del reo confesso ha letto davanti alle telecamere di La vita in diretta un biglietto che le avrebbe lasciato il figlio: «Quello che ho fatto è stato per l’amore che provo per voi. Noemi voleva che io vi uccidessi per potere avermi con sé. Sono un fallito e mi faccio schifo. Ti voglio bene papà e mamma». Il macabro «circo» ovviamente non si fermerà e già abbiamo assistito ai selfie di rito sul luogo del delitto o ad altre dirette Tv nelle quali l’informazione live degrada verso lo spettacolo della morte. Sono segnali di scadimento morale che riflettono l’orizzonte imbarbarito dagli stupri e dal razzismo. Allora, nonostante il pudore che spingerebbe a tacere, viene il sospetto che le parole servano: pacate, riflessive, ferme. Quelle dei giudici, quando toccherà a loro. Quelle degli adulti, ogni giorno. Quelle dei liceali pugliesi che ieri, in memoria di Noemi e delle vittime della violenza di genere, hanno testimoniato il loro sdegno con i sit-in a Bari e in altre città unite dall’hashtag «Ti amo da vivere». «Perché - dicono gli studenti - non si può morire amando e non si uccide mai per amore».
Due molotov lanciate nella notte contro la casa dei genitori dell'assassino di Noemi. Non erano state accese, quindi non sono esplose. Alta tensione tra le due famiglie: entrambe le case sono piantonate, scrive Chiara Spagnolo il 17 settembre 2017 su "La Repubblica". Cresce la tensione ad Alessano, il paese in cui vive la famiglia del diciassettenne reo confesso dell’omicidio della fidanzata sedicenne Noemi Durini. Due ordigni rudimentali - costruiti utilizzando bottiglie incendiarie - sono stati lanciati nella notte tra venerdì e sabato contro l’abitazione di Montesardo (frazione di Alessano) in cui il ragazzo viveva assieme ai genitori e ai fratelli. Laddove, pochi giorni fa, il padre di Noemi, Umberto Durini, era andato ad urlare la propria rabbia, accusando l’altro genitore di essere l’assassino della figlia. “Il ragazzo lo sta coprendo” aveva detto Umberto, lanciando un’accusa durissima, che potrebbe presto essere raccolta sotto forma di testimonianza dalla Procura di Lecce. Per il momento l’unico responsabile dell’omicidio viene considerato il fidanzato, indagato per omicidio premeditato, aggravato dai futili motivi e dalla crudeltà, mentre il padre è indagato solo per occultamento di cadavere. L’ipotesi è che abbia aiutato il figlio a disfarsi del corpo senza vita della fidanzata ma stride con le ammissioni del giovane, che ha raccontato agli inquirenti di avere assassinato Noemi nella campagna vicino Santa Maria di Leuca in cui è stato trovato il cadavere. Molte le contraddizioni nei suoi interrogatori, a partire dalle modalità dell’omicidio, che ha detto prima di avere effettuato con una pietra e poi con un coltello che si sarebbe spezzato. Ma sul cranio della vittima non sono state trovate ferite compatibili con le pietrate e del coltello non c’è traccia. Per non aggravare ulteriormente la sua posizione, il 17enne ha scelto di rimanere in silenzio davanti al gip Ada Colluto, chiamata a convalidare il fermo del 13 settembre e a disporre nuova misura cautelare. I difensori Luigi Rella e Paolo Pepe hanno chiesto di trasferire il ragazzo in una struttura protetta non detentiva e di sottoporlo a una perizia psichiatrica, anche allo scopo di verificare la capacità di intendere e di volere al momento del delitto. La diffusione della notizia di tale strategia processuale (che se fosse accolta potrebbe incidere molto su una futura valutazione della pena) ha ulteriormente sollecitato la rabbia degli amici e conoscenti di Noemi e l’indignazione della famiglia. A far crescere la tensione, le migliaia di commenti sui social, che spesso si trasformano in minacce che rischiano di diventare realtà. Come è accaduto appunto venerdì notte, quando ignoti hanno raggiunto la villetta gialla in cui abita la famiglia di Montesardo e hanno lanciato due molotov contro il muro: gli ordini non hanno preso fuoco. I genitori del diciassettenne erano in casa. I carabinieri di Alessano hanno recuperato i resti di due bottiglie incendiarie e verificato la presenza di telecamere di sorveglianza nei pressi dell’abitazione, che potrebbero aver ripreso i responsabili. Entrambe le abitazioni, quelle dei genitori di Noemi e del fidanzato, sono piantonate. Lunedì 18 settembre intanto dovrebbero iniziare gli accertamenti autoptici sul corpo di Noemi, che si potrebbero concludere martedì, per cui i funerali - ai quali il sindaco di Specchia Rocco Pagliara ha invitato a presenziare il ministro della Giustizia, Andrea Orlando - potrebbero tenersi mercoledì o addirittura giovedì.
Omicidio Noemi, l'ex fidanzato: «Così l'ho uccisa: abbiamo fatto l’amore poi l’ho colpita alla testa». Il pm nel decreto di fermo del 17enne: «Condotta violenta, crudele e premeditata», scrive Andrea Pasqualetto, inviato a Specchia, il 16 settembre 2017 su "Il Corriere della Sera". Si conclude così una lunga lettera scritta da Lucio (il fidanzato 17enne arrestato con l’accusa di avere ucciso Noemi) e trovata dagli investigatori in una pen drive. È datata 30 agosto. Dopo tre giorni Lucio l’ha uccisa e lui l’ha confessato così: «Quella notte ci siamo incontrati perché mi aveva nuovamente chiesto di far fuori i miei genitori. Aveva un coltello, credo da cucina... Dopo averglielo tolto, l’ho colpita alla testa e poi con alcuni sassi. Con il coltello una sola volta perché la lama si è spezzata e il manico mi è rimasto in mano… Prima avevamo avuto un rapporto sessuale». Al di là del movente e delle modalità del delitto, sui quali gli inquirenti hanno molte perplessità, restano i fatti: da una parte una lettera d’amore, dall’altra un delitto. Entrambi firmati da questo diciassettenne che ieri, su consiglio dei suoi difensori, ha deciso di non aggiungere altro davanti al gip del Tribunale per i minorenni di Lecce. L’avvocato Luigi Rella ha chiesto per lui una perizia psichiatrica per stabilire la capacità di intendere e di volere al momento dell’omicidio. Ma il pm non crede né all’incapacità né al delitto d’impeto: «Condotta violenta, crudele e premeditata tenuta da L. nelle prime ore del 3 settembre», ha scritto nel decreto di fermo. Rimangono dei dubbi sul perché L. abbia ucciso e, soprattutto, sul ruolo di suo padre, indagato per concorso in occultamento di cadavere «solo per una questione tecnica, cioè per poter eseguire alcune perquisizioni», ha aggiunto ieri un investigatore. E rimane questa strana lettera, nella quale L. ripercorre l’ultimo tormentato anno, con Noemi e con il padre. «Un giorno andai con il mio migliore amico alla villetta del paese per incontrare gli altri amici e vidi una ragazza di nome Noemi che mi piaceva già da un bel po’ e feci di tutto per rimorchiarla… Dopo 30 giorni stavamo insieme e iniziarono guai seri con mio padre e mia madre che mi portarono all’esaurimento nervoso. Una sera furono così tante le lamentele da parte dei miei che io mi ribellai scatenando tutta la rabbia che avevo verso di loro…». E lì volarono le «manate» e ci fu il primo Tso. «Lei mi dava la forza per scappare da mio padre… Con Noemi però litigavo spesso e io soffrivo talmente tanto che mi rinchiusero a Casarano». Altro Tso. E un altro ancora lo scorso 21 luglio, dopo nove birre bevute in una sera e un crollo «etilico». Poi venne il giorno del delitto, i tentativi di depistaggio e la consegna. «E lui lo chiamava amore», ha sospirato ieri sera Umberto Durini, il padre di Noemi, passandosi una mano sulla testa. «Poco prima della scomparsa — ha ricordato sua moglie Imma — mia figlia mi aveva detto “mamma io parto, mi prendo il diploma e aiuterò le persone in difficoltà”». Nel ragazzo pare sia spuntato un barlume di pentimento: «Ho sbagliato — avrebbe detto — potevo uccidermi e avrei evitato questo casino».
Specchia e Alessano unite nel dolore: non alimentiamo faide, scrive il 17 Settembre 2017 "La Gazzetta del Mezzogiorno". Non ci sono faide, non ci sono guerre tra paesi né propositi di vendetta incrociata. Però è necessario che tutti quanti abbassino i toni, altrimenti si rischia un’altra tragedia; si rischia che qualcuno dalle parole e dalle accuse, per il momento solo urlate dalle due famiglie dei ragazzini protagonisti di questa triste vicenda, possa passare ai fatti. Sono le istituzioni di Specchia e Alessano a capire prima di tutti che è necessario lasciare che la giustizia segua il suo corso, senza alimentare odi e rancori. Anche perché, come dimostrano le parole pronunciate anche oggi dalla madre di Noemi, Imma, gli animi sono tutto tranne che tranquillizzati. «Voglio giustizia - ha detto la donna - queste persone hanno fatto male a mia figlia e devono stare dentro. Lucio in prima persona deve rispondere di questo omicidio, poi ne risponderà anche la famiglia. Non sono persone normali, sono due delinquenti e nessuno di loro si deve permettere di nominare mia figlia, la lascino in pace e la smettano di offendere il nome di Noemi, che trovando loro ha trovato solo la morte». L’assassinio della sedicenne ha sconvolto profondamente una comunità dove tutti si conoscono e dove in molti sapevano del rapporto tormentato tra la ragazza e Lucio. Nei bar e nei capannelli in mezzo alla strada si parla solo di questo, ognuno dice la sua per spiegare un omicidio orrendo e, soprattutto, fioriscono i pettegolezzi, le voci non verificate, i si dice che non fanno altro che complicare e distorcere una vicenda ancora da chiarire fino in fondo. Ecco perché le istituzioni lanciano una sorta d’appello, chiedendo prima di tutto alla stampa e poi ai propri concittadini di moderare i toni. Specchia e Alessano sono unite nel dolore e nella vicinanza ad una famiglia distrutta - dice il primo cittadino del comune dove abitava Noemi, Rocco Pagliara - Ogni giorno mi sento con il sindaco di Alessano e viviamo entrambi questo dramma che riguarda l’intera comunità. Non c'è alcuno scontro tra le due comunità, tanta gente di Alessano mi ha chiamato in questi giorni per esprimermi vicinanza, per dirmi di portare il loro abbraccio alla famiglia di Noemi». Ed in ogni caso, aggiunge, «il tessuto sociale dei due paesi è sanissimo, qui c'è gente civile. Poi purtroppo ci sono anche le eccezioni che fanno clamore, ma non sono la realtà. Che è invece quella di una comunità unità». Parole condivise dal collega di Alessano, Francesca Torsello. «Ma quale guerra, ma quale faide. Fin dalle prime ore siamo vicini alla famiglia di Noemi. L’intera comunità - sostiene il sindaco - è spaesata e attonita, non capisce questa violenza. I miei concittadini sono tutti affranti e nessuno tenta di difendere l’indifendibile. Siamo una comunità con un grande senso di civiltà». Quel che è certo, aggiunge, è che «bisogna abbassare i toni. C'è una famiglia che sta soffrendo in maniera inaudita e il silenzio è il modo migliore per esserle vicino». La pensa così anche don Antonio De Giorgi, il parroco di Specchia. «È evidente che bisogna moderare i termini. Invito tutti al silenzio e a pregare per quella povera ragazza - è il suo messaggio - Le nostre comunità sono unite e vicine nello stringersi attorno alla famiglia della ragazza e a condannare unanimemente chi si è macchiato di questi delitto. Non ci sono tifoserie che patteggiano per l’uno o per l’altro, perché questo è un dramma che ha scosso tutto il territorio».
Abuso di cronaca nera su giornali e tv. La deriva selvaggia del giornalismo che attizza la morbosità, scrive Francesco Merlo il 15 settembre 2017 su "La Repubblica". E’ odiosa la deriva selvaggia di questo giornalismo italiano che attizza la morbosità e ti fa dimenticare la sedicenne uccisa a Specchia e l’oltraggio subito da tutte le ragazze del mondo, presi come siamo a violarne gli spasmi sotto le pietre, ” anzi no, era un coltello”. Dunque ora al pantografo sono finite le ferite da taglio, il sangue e la lama affilata, ma le mani restano manacce che colpiscono e manine che si chiudono, e la descrizione dei colpi di bastone ti fa sentire il legno che sbatte sulle ossa. Poi si passa ai lividi vecchi che, recuperati e rinfrescati dal sempre più pietoso prosatore, bene illustrano le botte dei titoloni a tutta pagina. E così, alla fine, quando arrivi in fondo all’articolo e già attacchi il secondo, che viola lo smarrimento della madre, e poi ce ne sono un terzo sull’arma e un quarto sul luogo dell’esecuzione, alla fine, dicevo, non c’è più la morte di una bella ragazza che tutti avremmo voluto come figlia, ma c’è solo l’infinita indecenza. E non è vero che lì c’è il Dio dei dettagli, la storia concentrata. Al contrario, c’è la fuga dalla notizia alla pornografia. E più ti avvicini e più ingrandisci il dettaglio morboso più Dio si allontana da te, dal giornale, da tutti. E’ un giornalismo spudorato quello che in video mostra l’androne dove sono state stuprate le due ragazze americane a Firenze: “non ne facciamo il nome” dice lo scoopista indignato mentre ci accompagna a casa loro, e in quel buio dove è stata consumata la violenza prova a rievocare lo smarrimento, vorrebbe misurare l’incommensurabilità del dolore, ma la verità è che, in questo modo, la cronaca del delitto diventa a sua volta delitto, e la notizia dello stupro è lo stupro della notizia. Ed è stato un interrogatorio “di polizia”, anzi una vera e propria trappola quella di “Chi l’ha visto?” ai genitori del fidanzato assassino. Il padre e la madre di Vincenzo hanno appreso dalla giornalista che il corpo era stato ritrovato e che il loro figlio aveva confessato: uno spettacolo orribile e terribile. Mentre cercavano, maldestramente, di difendere il loro ragazzo c’era infatti una bandella che annunziava quello che stava per accadere: “ancora non sapevano che il figlio avesse confessato”. Il padre, che è indagato, dice allora “bedda mia”, si appoggia al tavolo, si agita come una bestia ferita: “hanno creato un mostro” grida. Poi c’è la lunga inquadratura sullo strazio della madre che si abbandona ad una serie di frasi sconnesse, straparla di killer venuti da lontano, infine sbotta “ora siamo morti” e piange nascondendo la testa tra le braccia conserte poggiate sul tavolo. Ecco, tutto questo ci ha lasciato non a bocca aperta ma a bocca chiusa. Anche la mamma dell’assassino ha diritto alla compostezza pubblica e alla disperazione privata. E invece la giornalista non le ha dato il tempo di dominarsi, di raccapezzarsi e l’ha esposta all’insana curiosità dell’Italia, ha ridotto la sua pena a tecnica spettacolare. Diciamo la verità: il rigetto è totale. E’ vero che Mussolini aveva proibito la cronaca nera considerandola “eversiva ed emulativa” ed è stata una liberazione riappropriarsene, un dovere del giornalismo democratico occuparsene. E’ insomma giusto che la cronaca nera, che non è solo roba da stampa scandalistica, occupi anche le prime pagine dei quotidiani d’informazione responsabile, dei giornali-istituzione che sanno servire il pubblico con un controllo qualificato delle reticenze, svolgendo il ruolo dei grandi testi di riferimento del passato. Come si sa, infatti, la grande letteratura gialla proviene proprio dalla cronaca nera. Ebbene, grazie alla qualità dei giornali italiani, la cronaca nera nel dopoguerra è diventata letteratura, con Dino Buzzati, Orio Vergani, Tommaso Besozzi…
Ma ci sono dei doveri che il giornalista non dovrebbe mai dimenticare. E invece, in un crescendo che dura da un po’ di anni, anche colleghi sensibili, perspicaci e intelligenti, non si fermano più dinanzi alla sconcezza. Ma non è civile l’idea che il diritto di cronaca significhi infilare il naso nelle nefandezze.
Ricordate il caso Cogne? Quell’omicidio ci colse impreparati. Non capimmo subito quello che stava accadendo nell’ informazione italiana. In molti ricorderanno l’iniziale spaesamento e poi il crescente disagio dinanzi alla rappresentazione della violenza, alla voglia di mostrare nel dettaglio lo scempio di un corpicino, all’indugiare sul particolare raccapricciante, al calcolo dei colpi mortali, al dilungarsi sull’efferatezza, allo spacciare per scienza il bla-bla vanitoso degli psicologi del sabot assassino, alla sanguinolenta esibizione di sapere degli esperti di tragedie greche, alla truce chiacchiera su criminologia, cervello e maternità. Insomma, ci abbiamo messo un po’di tempo a capire che dietro l’eccesso di cronaca c’era la morbosità, e che non si trattava di analisi fredda e neppure di resoconto intelligente, ma di compiacimento. Poi però, da un omicidio all’altro, da uno stupro all’altro, da un femminicidio all’altro, siamo arrivati all’attuale accanimento dell’informazione sulla cronaca nera: la pedofilia (ricordate Rignano?), le streghe di Avetrana, Meredith, Yara, la mamma assassina di Loris… Ed è stata un’escalation che ha accompagnato la crisi dei giornali, la perdita di lettori, il bisogno di fare audience e di vendere copie. Sino allo stupro di Rimini e alla diffusione di quei verbali, che ovviamente avevamo pure noi, anche se non ci è mai passato per la mente che fossero uno scoop. Erano infatti una roba da pattumiera dell’anima, un’immondizia adatta al giornalismo-immondizia e non certo alla Rai, a Mediaset, ai grandi quotidiani e ai settimanali italiani che, come già denunziò l’allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi – nel 2003! – , eccedono, insistono, scavano con un furore che , e alla fine questa gutter press, questo giornalismo da rigagnolo, commette, concludeva Ciampi. Noi non pensiamo che la rappresentazione, il racconto, la fotografia, la discussione, anche quella inutile e oziosa sulla violenza, debbano essere denunziate più della violenza stessa. Ma una cosa è raccontare che c’ è stato un caso di harakiri e un’altra mostrare lo sparpagliamento delle viscere. Ci sono cose che debbono essere fatte perché sono importanti: il magistrato, per esempio, deve indagare e anche, con la polizia, tendere tranelli. E il chirurgo deve operare. Ma l’operazione non si fa su Raitre o a Canale 5. E i processi si celebrano in tribunale. Fa bene il macellaio a squartare il vitello, ma non certo davanti a un pubblico pagante. Né basta esibire un’indignazione morale che diventa essa stessa spettacolo. Durante il caso di Rignano, seguendo un’idea ‘neutrale’, furono messi a confronto in televisione i genitori dei bimbi e i presunti pedofili. Esiste, secondo noi, l’abuso di cronaca che dovrebbe essere sanzionato, non in tribunale ma nelle coscienze, dalla cosiddetta deontologia, specie quando l’abuso si spaccia per verità senza tabù, per necessità di sapere, per scoop. Ci sono degli eccessi e ci sono casi di abbrutimento della vita che sono così eccezionali da meritare professionalità eccezionali che sappiano, quando occorre, anche chiudere gli occhi per pietà. Così il racconto di uno stupro, come quello di Rimini, almeno sui grandi giornali come il nostro, deve essere riassunto, mediato dalla professionalità e dal pudore del giornalista, dal riserbo se necessario. Non può diventare un furto d’anima, uno squartamento interiore, il feroce avvilimento dell’umanità, un’orgia scritta di carne e liquidi, di posizioni, di sodomie, tutti convinti di scrivere come Balzac, Simenon e Truman Capote, tutti piccoli Tarantino, tutti virtuosi dello splatter. Tutti arrapati, invece, che con la penna incidono, aprono, fanno l’autopsia, sporcano e si sporcano. La cronaca nera, ci insegnarono i nostri maestri, non si commenta mai. Ma, questa volta, per dirla con Montale: “Codesto solo oggi possiamo dirti, /ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”.
Vittorio Feltri il 16 Settembre 2017 su "Libero Quotidiano": l'informazione si accorge solo ora che la verità fa male. Ma ai tempi di Nicole Minetti...Credo di potermi definire amico di Francesco Merlo, editorialista della Repubblica, col quale per alcuni anni lavorai al Corriere della Sera. Il quale ieri ha scritto un articolo sofferto per deplorare il giornalismo-verità aduso a raccontare i fatti di cronaca con la crudezza con cui sono stati compiuti, non trascurando dettagli scabrosi. Egli condanna i colleghi accusandoli di compiacersi nel descrivere gli scempi commessi da stupratori e assassini. A Merlo, scrittore raffinato, non mancano gli argomenti per trafiggere la categoria cui, come lui, appartengo. Però mi stupisco della sua tardiva consapevolezza del problema che tratta con ardore e disgusto. Narrare le schifezze che contraddistinguono i comportamenti orrendi dell’umanità offende spesso i buoni sentimenti dei lettori, ma bisogna decidere se essi hanno il diritto di sapere oppure se noi pennaioli abbiamo il potere di occultare, addolcire, omettere. Il quotidiano al quale Francesco collabora si è distinto in un recente passato per la tigna con cui ha riferito delle porcherie avvenute nelle istituzioni del Paese e dintorni. Ricordiamo le prodezze della signora D’Addario, della signora Minetti, delle varie olgettine, che la Repubblica ha ricostruito sulle proprie pagine con scrupolo notarile. Tutte costoro sono state cordialmente sputtanate allo scopo di incrementare le vendite. O per sport? La reputazione italiana andò a farsi benedire con quella di Berlusconi. Fu una bella operazione? Non mi pare. Opportunamente Merlo ricorda i grandi inviati del Corriere della Sera, che si dedicarono a fatti di nera, per esempio quello di Rina Fort che massacrò una famiglia a Milano nell’immediato dopoguerra. Mi sono riletto in proposito i pezzi del grande Dino Buzzati, che avrebbe meritato il Nobel se non fosse stato contrastato dalla sinistra perché non apparteneva alla consorteria, e ho scoperto che non trascurò di narrare i particolari della strage, insistendo sul bimbo soppresso mentre era seduto sul seggiolone e mangiava la pappa. Questo dimostra che il giornalismo di un tempo, oggi osannato e rimpianto, non era molto diverso, se si esclude la qualità della prosa, rispetto a quello odierno. Caro Merlo, non diciamo cose inesatte. Buzzati nell’arte di spaccare il capello (specialmente se sporco) era un maestro. I suoi resoconti sui peggiori crimini e sciagure sono passati alla storia e non alla barzelletta. Non voglio dilungarmi, ma hai seguito sulla Repubblica ed altre pubblicazioni chic (si fa per dire) la vicenda dolorosa di Bossetti, all’ergastolo per l’uccisione di Yara? Costui ha appreso di avere una mamma leggerotta, e quindi di essere figlio non di suo padre anagrafico, direttamente dai quotidiani. Nessuno tranne me ha protestato. Sempre dai giornali Bossetti ha saputo che sua moglie gli ha messo le corna quando lui era già in carcere. Bello? Cosicché i bambini del galeotto, ancora via stampa, sono stati informati di essere eredi di un omicida e di una fedifraga, nonché nipoti di un cornuto e di una nonna infedele. Potrei vergare la storia di mille altre persone maltrattate (caso Tortora) dal tuo e da altri giornali organi di informazione, tuttavia, non si sono mai sognati di scusarsi. Adesso arrivi tu a deplorare coloro che hanno stilato articoli sugli ultimi stupri e delitti vari. Non ti sembra di essere lento e troppo critico nei confronti di colleghi che fanno il loro dovere nel porgere ai lettori quanto scoperto nello spulciare le carte processuali? E che dire delle intercettazioni abusive, se non rubate, relative a episodi riguardanti gente più o meno importante, divulgate urbi et orbi dal tuo foglio autorevole, ma non immune dagli stessi difetti che rilevi in altre pubblicazioni che non ti piacciono? Non è un peccato spiattellare la verità, lo è ometterla. Vittorio Feltri
Noemi, convalidato il fermo di Lucio: via dalla Puglia. Il vescovo: mantenere la calma, scrive il 17 Settembre 2017 "La Gazzetta del Mezzogiorno". Prima le urla disperate del padre di Noemi contro il papà di Lucio, da lui accusato di aver avuto un ruolo nella tragica fine della figlia, poi le tre molotov lanciate l’altra notte contro l’abitazione della famiglia del fidanzato e assassino reo-confesso della sedicenne di Specchia. Dopo l’attentato le misure di sicurezza sono aumentate. Il prefetto di Lecce ha disposto la vigilanza sotto casa della vittima e della famiglia di Lucio, che era in casa quando è stato compiuto l’attentato e ha dato l’allarme. Le bottiglie incendiarie sono finite sul terrazzino dell’appartamento della frazione di Montesardo di Alessano, ma non sono esplose perché non innescate. Nessuna conseguenza, quindi, ma l’attentato intimidatorio prova però come la 'guerrà in atto tra le due famiglie abbia raggiunto livelli altissimi. Tutto è accaduto alla vigilia della decisione del gip del Tribunale per i minorenni di Lecce che ha convalidato oggi il fermo del diciassettenne per omicidio premeditato aggravato dai futili motivi e dalla crudeltà e ne ha disposto il trasferimento in una struttura protetta per minori fuori dalla Puglia. Al momento non è dato di sapere quando il minorenne sarà trasferito nell’Istituto protetto per minori fuori regione che sarà scelto sulla base di una valutazione dei servizi sociali e degli psichiatri che lo hanno in cura. Per il giudice, il giovane ha un equilibrio psicofisico «labile» che potrebbe portarlo non solo a fuggire nuovamente da casa, ma anche ad essere pericoloso per se stesso e per i suoi familiari, come dimostrano i tre Trattamenti sanitari obbligatori (Tso) subiti in un anno e richiesti - a quanto si sa - proprio dalla sua famiglia. Sul luogo dell’attentato i carabinieri hanno recuperato i cocci (per rilevare eventuali impronte) delle tre bottiglie di birra trasformate in molotov, lanciate dal lato dell’abitazione che affaccia su via Santa Barbara. I militari stanno inoltre cercando le immagini degli attentatori nelle riprese degli impianti di sorveglianza della zona. Sulla vicenda è intervenuto durante la messa del mattino il parroco di Specchia, don Antonio De Giorgi. In serata un appello alla comunità è stato lanciato anche dal vescovo, monsignor Vito Angiuli. «Stiamo vivendo - dice il parroco - giorni terribili. Invito tutti i cittadini e i parrocchiani di Specchia a mantenere la calma ed il controllo delle parole e delle azioni e a non commettere gesti di cui poi potrebbero pentirsi perché non è con la vendetta che si ottiene giustizia per la povera Noemi». «La violenza porta solo altra violenza - aggiunge - in una spirale che alla fine rischia di distruggere anche l’ultimo brandello di umanità». Sull'omicidio di Noemi è al lavoro anche la Procura ordinaria di Lecce che ha indagato il papà del diciassettenne per concorso in sequestro di persona e occultamento di cadavere. Gli investigatori stanno rileggendo le sue dichiarazioni rese a verbale tra la scomparsa della ragazza (il 3 settembre) fino al ritrovamento del cadavere (il 13 settembre). Il 9 settembre l'uomo dice ai militari di aver saputo più volte dal figlio che "Noemi lo incitava ad ammazzare me e mia moglie» (la stessa versione fornita dal 17enne durante la confessione del delitto) e che la sedicenne «stava raccogliendo danaro» da dare ad un giovane di Patù «che, dopo aver comprato una pistola, mi doveva ammazzare». L’11 settembre il 61enne dice, però, di avere dubbi sulla versione del figlio in relazione alla scomparsa della giovane e ammette per la prima volta: «Ho paura che abbia fatto del male a quella ragazza. Dubbi atroci che ho anche rappresentato all’avvocato». Sarà conferito il 19 settembre, al medico legale Roberto Vaglio, l’incarico di compiere l’autopsia: il medico legale è stato convocato presso la Procura per i minorenni di Lecce alle ore 10 dal pubblico ministero inquirente Anna Carbonara.
Noemi, il 17enne potrebbe aver avuto un complice. Insulti sul web agli avvocati della difesa. Troppe contraddizioni nei racconti del ragazzo che ha confessato di aver ucciso la fidanzata. Il padre è indagato per occultamento di cadavere. La famiglia di Noemi si rivolge a Giulia Bongiorno, scrive Chiara Spagnolo il 18 settembre 2017 su "La Repubblica". Il diciassettenne che si è accusato dell'omicidio della fidanzata sedicenne Noemi Durini potrebbe aver agito insieme a un complice. Si legge tra le righe dell'ordinanza con cui la gip dei minori di Lecce Ada Colluto ha imposto la custodia in carcere minorile, convalidando il fermo per omicidio premeditato e aggravato dalla crudeltà e dai futili motivi ma non per il reato di occultamento di cadavere. Significa che non ci sono elementi univoci sulla responsabilità del ragazzo nella creazione di quel tumulo fatto di pietre e che qualcun altro potrebbe essere intervenuto nella campagna vicino Santa Maria di Leuca per far sparire Noemi. Il padre del diciassettenne B.M., forse. Al momento è l'unico indagato dell'inchiesta della Procura ordinaria, che gli contesta proprio il reato di occultamento di cadavere. Il suo ruolo non è chiaro ma l'attenzione su di lui alta, anche in virtù dell'odio viscerale verso Noemi, tirato fuori a più riprese davanti alle telecamere. E anche dell'accusa precisa lanciata dal papà di Noemi: "E' stato lui, il figlio lo sta coprendo". Tutti questi elementi sono al vaglio degli inquirenti, che non hanno messo la parola fine alle indagini, anche perché la ricostruzione fornita dal reo confesso non è limpida in ogni sua parte, ma ricca di contraddizioni, a partire dall'arma del delitto, che prima ha detto essere stata una pietra e poi un coltello. I dubbi saranno sciolti dall'autopsia, che sarà effettuata martedì 19 settembre dal medico legale Roberto Vaglio, e indicherà con maggiore precisione cosa ha provocato il decesso di Noemi. Altri dubbi riguardano lo stato di salute del 17enne. Per i suoi avvocati (Luigi Rella e Paolo Pepe) "il ragazzo deve essere curato" e, per questo motivo, avevano chiesto che il fermo non venisse convalidato e fosse trasferito in una casa di cura. La gip invece ha accolto integralmente la richiesta della pm Anna Carbonara e disposto la detenzione in un istituto penitenziario minorile, "da individuare fuori dalla Puglia" per cercare di smorzare la carica di violenza nei suoi confronti, che si sta diffondendo aiutata dal web e venerdì notte ha portato ignoti a lanciare due bottiglie molotov contro la sua abitazione di Alessano, in cui si trovavano i genitori. Nel decreto di convalida del fermo, la scelta di applicare la misura cautelare più restrittiva è motivata in virtù "dell'equilibrio psico-fisico labile" dell'indagato, che potrebbe portarlo a fuggire ma anche ad essere pericoloso, per se stesso e per gli altri. Per la difesa, il giovane dovrà essere sottoposto a una perizia psichiatrica, che ne attesti la capacità di intendere e di volere, anche al momento del delitto. Tale strategia processuale è stata duramente condannata dal popolo del web, che in coda agli articoli dei giornali online e sui social ha lanciato accuse durissime contro gli avvocati di L.M., in alcuni casi diventate vere e proprie minacce. Per questo motivo l'Aiga (Associazione italiana giovani avvocati) di Lecce ha stigmatizzato "la deriva populista della grave vicenda di sangue che ha sconvolto il Salento", puntando il dito contro "la spettacolarizzazione delle vicende investigative e giudiziarie, che sta producendo una valanga di insulti e di minacce nei confronti dei difensori". "La gente comune - scrive l'Aiga - sempre di più identifica il presunto colpevole con il suo avvocato, visto quale favoreggiatore se non complice. Ciò significa che si è smarrito il senso civico e si vuole negare il diritto di difesa, costituzionalmente garantito". Restando in tema di assistenza legale, è di poche ore la notizia che la famiglia di Noemi Durini potrebbe essere assistita oltre che dall'avvocato salentino Mario Blandolino anche dall'avvocata Giulia Bongiorno, già presidente della Commissione giustizia della Camera dei deputati, difensore di Giulio Andreotti ma anche di Raffaele Sollecito e fondatrice della onlus Doppia Difesa, che si occupa di donne vittime di abusi e violenze. Intanto a Roma, gli ispettori del ministero della Giustizia inizieranno a breve a vagliare la documentazione sul "caso Noemi" inviata dagli uffici giudiziari minorili di Lecce dopo l'avvio di accertamenti preliminari sul caso. "Valutiamo se nei passaggi davanti alla giurisdizione tutto abbia funzionato o se esistano passaggi che hanno un rilievo disciplinare" ha detto sabato a Lecce il ministro della Giustizia Orlando, che è stato invitato dal sindaco di Specchia, Rocco Pagliara, a presenziare al funerale della ragazzina, che dovrebbe tenersi mercoledì o giovedì. La mamma Imma Rizzo, ha chiesto che le esequie non vengano trasformate in, uno show.
L’urlo degli avvocati: «Basta giustizia show», scrive il 20 settembre 2017 Simona Musco su "Il Dubbio". L’appello dell’ordine di Lecce: «Basta anonimi su internet e basta impunità». «Dobbiamo insegnare che il rifiuto dell’odio serve a far sì che fatti come questo non si ripetano». L’appello del presidente del Consiglio dell’ordine degli avvocati di Lecce, Roberta Altavilla, è rivolto ad avvocati, magistrati e giornalisti. Ed è stato lanciato durante un incontro organizzato dall’ordine degli avvocati e dalla presidenza della Corte d’Appello, alla presenza del neo presidente Roberto Tanisi, dopo le minacce nei confronti dei legali del reo confesso dell’omicidio di Noemi. «Dobbiamo uscire dai tribunali e insegnare che legalità significa responsabilità e che il rifiuto dell’odio serve a far sì che fatti come questo non si ripetano». L’appello di Roberta Altavilla, presidente del Consiglio dell’ordine degli avvocati di Lecce, è a tutti: avvocati, magistrati e giornalisti, chiamati a fare rete per arginare l’odio ormai sempre più pervasivo in rete e dire no ai linciaggi. È stato questo il tema affrontato ieri nel corso di un incontro organizzato dall’ordine degli avvocati e dalla presidenza della Corte d’Appello, alla presenza del neo presidente Roberto Tanisi, un incontro urgente a seguito delle minacce nei confronti dei legali del 17enne reo confesso dell’omicidio di Noemi Durini. Il clima a Specchia e Alessano, paesi in cui risiedevano la vittima e il suo presunto assassino, è di tensione. Sono gli stessi primi cittadini, Rocco Pagliara e Francesco Torsello, ad evidenziarlo, richiamando tutti al buon senso e ai «valori della legalità». Gli avvocati salentini si sono schierati con Paolo Pepe e Luigi Rella, i due legali sottoposti alla gogna mediatica, accusati di essere «complici», «parassiti» e ai quali è stata augurata anche la morte. Ma il caso è solo l’ultimo di una lunga serie che ha dato voce al “partito dei forcaioli”. «Abbiamo voluto dare un messaggio di unità e rete tra avvocatura e magistratura nella battaglia contro l’odio – ha spiegato Altavilla – Anche la stampa deve starci accanto. Dispiace molto che questi messaggi di minacce ai colleghi, a corredo di un articolo pubblicato sul web, non siano stati rimossi subito. Il nostro obiettivo è far capire a chi scrive che c’è un principio di responsabilità e che bisogna rispettare la funzione dell’avvocato e la sua terzietà». Un appello è stato rivolto anche alla politica, affinché chi viene colpito da minacce e ingiurie sul web non sia costretto a difendersi da sé. «La tutela deve venire da chi è deputato a questo», ha commentato Altavilla. Tra i soggetti colpiti spesso e volentieri ci sono anche gli avvocati, che hanno un ruolo fondamentale nelle democrazie, ha evidenziato Tanisi. «Ho dato un’occhiata a quei messaggi e sono rimasto allibito. Chi li ha scritti può tentare di fare linciaggi. Anche lo Stato migliore diventerebbe prevaricatore nei confronti del cittadino senza avvocati – ha sottolineato – Però c’è la convinzione diffusa che l’avvocato intralci il corso della giustizia. Ovviamente non è così». Ma il problema, va da sé, non riguarda solo il Salento. «È una questione generale – ha spiegato – che a monte ha un humus culturale degradato. C’è una concezione forcaiola data dall’idea di farsi giustizia da sé che dipende da una sfiducia nella giustizia, che arriva tardi, e in leggi ritenute “permissive”». La soluzione, ha spiegato Tanisi, sta nelle norme e nelle scuole. Convinzione condivisa anche dagli avvocati, che stanno portando avanti un progetto di alternanza scuola lavoro per promuovere la cultura della legalità. Lo scopo è far comprendere ai giovani, ma anche ai loro genitori, che internet è un luogo in cui possono essere commessi anche dei reati. «Ingiuriare, offendere, diffamare, calunniare sono azioni contro la legge – ha rimarcato Altavilla – e chi li compie deve averne la consapevolezza». Ma c’è anche un altro problema da affrontare, ovvero l’immedesimazione del reo con l’avvocato. «Non esiste – ha aggiunto – L’avvocato in quel momento è come il sacerdote che coglie in confessionale il peccato del fedele e non può essere identificato con esso. La moralità comune è cosa diversa dal comportamento deontologicamente corretto dell’avvocato, che deve svolgere il proprio mandato in libertà e autonomia. Faccio appello anche alla stampa, perché il processo show non aumenta il livello della cultura e della giustizia». E va superata anche la cultura dell’anonimato: «la materia va regolamentata – ha aggiunto – è giusto che chi si avvicina al web abbia un nome e cognome. In un sistema nel quale non c’è responsabilità non ci può essere giustizia».
Specchia, il paese di Noemi tra vendetta e sete di giustizia. Molotov lanciate contro la casa dei genitori dell’ex fidanzato killer, scrive Grazia Longo il 18/09/2017 su "La Stampa". Al netto dell’orrore per la morte di Noemi e della sete di vendetta contro i genitori del suo fidanzato-assassino culminata con il lancio di tre molotov contro la loro abitazione, la cifra di questo piccolo centro nel cuore del Salento è l’incomunicabilità. «Nessun uomo è un’isola» scriveva Thomas Merton, ma a Specchia - cinquemila anime tra un borgo antico e una periferia cresciuta troppo in fretta - c’è una comunità smarrita. Dove ciascuno è rinchiuso nella propria isola e fatica a confrontarsi con gli altri. Non c’era vero dialogo tra i due ex innamorati, per la gelosia spietata di quest’ultimo, schizoide e manipolatore, che ha spento sogni e desideri della bella e dolce sedicenne. Non c’era comprensione tra Lucio e i suoi genitori, in particolare il padre, che hanno ostacolato il suo fidanzamento con pedinamenti e botte. Non c’era possibilità di confronto tra le due famiglie, se non a colpo di denunce e contro denunce. E oggi assistiamo al gesto estremo di chi vuole farsi giustizia da sé. Non parole di condanna, o richieste di un chiaramente per un delitto brutale e ancora avvolto nel giallo ma un episodio concreto. Terribile e insidioso. Certo, le tre bottiglie di benzina scagliate alle tre della notte tra venerdì e sabato scorso contro la finestra della villetta di Lucio, nella vicina Montesardo frazione di Alessano, non erano accese. Eppure la sensazione è ugualmente devastante. In passato, prima dell’omicidio, chissà, qualcuno si è forse girato dall’altra parte di fronte a un 17 enne sulla 500 del padre pur senza patente e maltrattava in pubblico la sua ragazza. Oggi invece in molti hanno cercato di linciarlo quando l’altra notte è uscito dalla caserma dei carabinieri dopo aver confessato e qualcuno con le molotov ha deciso di sostituirsi alla legge e punire i suoi genitori. Forse in particolar modo suo padre, indagato per sequestro di persona e occultamento di cadavere. Ma sarebbe troppo facile inquadrare questo dramma in un contesto sociale di indifferenza. La realtà ha tanti volti. Accanto a quelli, sconosciuti, di chi ha confezionato e scaraventato le molotov artigianali ci sono anche quelli degli amici di Noemi che escono dalla sua casa. «Fatti come questo non aiutano nessuno - dice una ragazzina con i capelli lunghi schiariti sulle punte -. L’unico modo per rendere giustizia a Noemi è mandare in prigione il fidanzato che invece si finge pazzo». Un adolescente con la camicia di jeans e un berretto con la visiera: «Anche il parroco ha detto che così non andiamo da nessuna parte. Ha ragione lui: ci vuole giustizia, non vendetta». E un pensionato che è venuto a porgere le condoglianze ai genitori di Noemi «anche se non li conosco» insistite che «qui siamo brava gente, non vogliamo diventare la nuova Avetrana». Il sindaco Rocco Pagliara difende il suo paese: «Le molotov sono un atto spregevole ma isolato, frutto forse dell’esasperazione per le parole dei genitori del ragazzo che lo hanno difeso sostenendo che con l’omicidio si è liberato una volta per tutte di Noemi. Ma Specchia non cerca vendetta, è con la legge. Ho parlato anche con il sindaco di Alessano, Francesca Torsello, entrambi ribadiamo che le nostre comunità sono sane». Ecco allora snocciolati i dati sulle tante associazioni di volontariato che a Specchia coinvolgono i giovani, il Festival del cinema del reale che a luglio richiama tanti spettatori e la bandiera arancione attribuita al borgo antico dalle organizzazioni turistiche. Intanto ieri sera una folla ha partecipato alla veglia di preghiera nella chiesa di Sant’Antonio. Il vescovo della Diocesi di Ugento, monsignor Vito Angiuli, ha voluto celebrare una messa anche per stemperare il clima di tensione. E il parroco di Specchia, Antonio de Giorgi, ribadisce: «Viviamo giorni terribili. La tragedia che ha colpito la nostra comunità e lo shock che ne è seguito ci chiama a una prova dura e difficile. Invito tutti i a mantenere la calma e il controllo delle parole e delle azioni e a non commettere gesti di cui potrebbero pentirsi». Non si ferma, nel frattempo, l’inchiesta giudiziaria. I difensori del ragazzo, che compirà 18 anni a dicembre, gli avvocati Luigi Rella e Paolo Pepe, puntano a una perizia psichiatrica per verificare la capacità di intendere e di volere al momento del delitto. Ipotesi che fa inorridire la madre della vittima, Imma Rizzo: «Ma quale pazzo! Anche se ha avuto i tre Tso e prendeva psicofarmaci, quello è furbo e spietato». Anche il padre, Umberto Durini insiste: «L’ha uccisa nel peggiore dei modi. E chissà fino a che punto è coinvolto anche suo padre».
Intanto il gip ha convalidato il fermo solo in relazione al reato di omicidio volontario pluriaggravato, ma non per l’occultamento di cadavere. Sul lancio delle molotov non ci sono immagini, perché il vicino di casa aveva disattivato le telecamere di sorveglianza. Il prefetto di Lecce ha disposto la vigilanza sotto casa della vittima e della famiglia di Lucio. L’autopsia è prevista domani, entro giovedì il funerale.
Noemi, minacce e insulti sul web agli avvocati del 17enne, scrive Erasmo Marinazzo Lunedì 18 Settembre 2017 su "Il Quotidiano di Puglia". Insulti e minacce agli avvocati che hanno preso la difesa del 17enne reoconfesso dell’omicidio della fidanzata Noemi Durini, 16enne di Specchia. Il “partito forcaiolo” si è scatenato sul web appena i genitori di L.M., di Alessano, hanno nominato l’avvocato Paolo Pepe. E anche all’avvocato Luigi Rella è stata riservata una sfilza di parole offensive - ed anche l’auspicio che certe cose accadano alla sua famiglia - sull’inopportunità di garantire la difesa a chi ha ammesso di aver ucciso la giovanissima fidanzata con un colpo di coltello alla gola ed un colpo di pietra alla testa. Intanto la casa di L.M. è presidiata giorno e notte. Lo ha stabilito il prefetto Claudio Palomba, dopo che nella notte fra venerdì e sabato sono state scagliate due molotov. Non sono esplose, ma danno comunque la dimensione del livello di tensione. Il web invece si è riempito di sfoghi e di rancori soprattutto dopo che l’avvocato Rella - davanti alle telecamere delle tv - ha spiegato che il ragazzo si è avvalso della facoltà di non rispondere, che ha bisogno di cure e che chiederà, insieme con il collega Pepe, una perizia psichiatrica sulla capacità di intendere e di volere al momento del fatto e sulla capacità di stare in giudizio. Nella giornata odierna i legali dell’indagato per omicidio volontario aggravato dalla premeditazione, dalla crudeltà e dai futili motivi, stabiliranno se presentare un esposto in Procura ed anche se chiedere l’intervento del Consiglio dell’Ordine degli avvocati. Intanto sul linguaggio dell’odio è intervenuto l’avvocato Michele Laforgia: «Chi insulta e minaccia gli avvocati che fanno il loro dovere, invece, ne è complice». Gli strali più offensivi sono tutti raccolti nella sezione commenti del video in cui parla l’avvocato Rella. Commenti che, per scelta, non pubblichiamo. C’è anche chi ha attaccato l’intera categoria. In pratica i legali di L.M. sono diventati i parafulmini delle ingiurie e delle accuse del processo, con giustizia sommaria, e senza diritto alla difesa, riservato dalla rete al ragazzo. Esponente dell’associazione “Antigone per i diritti e le garanzie del sistema penale”, l’avvocato Laforgia è intervenuto sulla sua pagina Facebook: «Il minorenne che ha assassinato Noemi aveva subito tre Tso, acronimo che sta per trattamento sanitario obbligatorio. Una misura eccezionale ed estrema, che si adotta nei confronti dei malati psichici pericolosi per se stessi e per gli altri. Eppure quel minorenne non è stato curato né fermato prima di commettere un delitto atroce. Com’è stato possibile? E come si può - perché si può, e si deve - prevenire tragedie terribili come questa? Sono domande difficili, me ne rendo conto, perché la morte di una sedicenne tende a travolgere emotivamente ogni riflessione e soprattutto perché comportano l’assunzione di un principio di responsabilità collettiva, come dovrebbe accadere sempre quando il sangue di un innocente rischia di travolgere le basi della nostra convivenza sociale, famiglie comprese. Il processo serve anche a questo. A rendere possibili queste domande e, magari, a trovare qualche risposta, senza annegare tutto nella invocazione di altro sangue. Chi assume la difesa dell’imputato difende anche tutti noi dalla stessa ottusa violenza che ha reso possibile il delitto. Chi insulta e minaccia gli avvocati che fanno il loro dovere, invece, ne è complice».
Noemi, spunta un teste. «Inseguiti da un'Ibiza». Una seconda auto sulla scena? Il racconto in tv: quella notte l'ho vista salire in auto col fidanzato, scrive il 19 Settembre 2017 Gianfranco Lattante La Gazzetta del Mezzogiorno. Una seconda auto. Un testimone. Il sospetto di un complice. Le indagini sull’omicidio di Noemi Durini, la 16enne di Specchia uccisa dal fidanzato 17enne, si arricchiscono di nuovi elementi. Ora spunta un testimone che, ai microfoni della trasmissione «Mattino Cinque», ha raccontato di aver visto Noemi (proprio la notte in cui è scomparsa, il 3 settembre scorso) salire sull’auto del fidanzato e di aver notato una seconda macchina, una Seat di colore verde, che li avrebbe seguiti: «Ho visto sfrecciare una Seat davanti a me, una Ibiza verdone, vecchio modello». Il testimone, dunque, avanza l’ipotesi che quella notte ci fosse una seconda auto coinvolta nell’omicidio. Gli investigatori frenano ma non smentiscono che sono in corso indagini alla ricerca di un eventuale complice. La confessione del fidanzato di Noemi non sembra essere convincente nella parte in cui sostiene di aver fatto tutto da solo. Di certo i carabinieri hanno acquisito e stanno esaminando i filmati delle telecamere che si trovano lungo la statale che porta al luogo in cui è stato trovato il cadavere di Noemi, nelle campagne di Castrignano del Capo, ad una decina di chilometri da Specchia. Gli investigatori stanno verificando il passaggio di tutte le auto, concentrando l’esame intorno agli unici orari che, al momento, sembrano essere certi. Sono quelli forniti dalla telecamera installata vicino alla casa di Noemi: alle 5.09 la Fiat Cinquencento condotta dal 17enne si allontana con la ragazza a bordo. Finora, per concorso in occultamento di cadavere e sequestro di persona, è indagato il papà 61enne del ragazzo, sul quale sono in corso accertamenti che tendono a verificane gli spostamenti subito dopo la scomparsa della vittima. Ma non risulta che l’uomo abbia in uso una Seat. L’assassino reo confesso di Noemi, da ieri mattina, non è più nell’istituto minorile di Monteroni. È stato trasferito a Bari ma, secondo quanto disposto dal gip Ada Colluto del Tribunale dei minori di Lecce, dovrà andare in Sardegna, in una struttura specializzata dove sarà curato. Nell’ordinanza di custodia cautelare, infatti, il gip lo descrive come un ragazzo con «un’organizzazione borderline della personalità con capacità intellettive al limite» che non mostra segni di «un reale senso di colpa». Per il gip il ragazzo deve seguire «un percorso trattamentale altamente specialistico», anche se al momento, non ci sono elementi per ritenere che al momento dell’omicidio «non fosse pienamente in grado di intendere e di volere». Il trasferimento in Sardegna è anche un modo per tenerlo lontano dalla guerra in corso fra la sua famiglia e quella della vittima, dal clima di avversione sociale nei suoi confronti, sfociata nel lancio di tre molotov non innescate contro l’abitazione dei suoi genitori. Oggi, intanto, sarà eseguita l’autopsia. L’accertamento potrà fare chiarezza sulle modalità e sull’arma dell’omicidio: pietra o coltello? Il ragazzo ha sostenuto di aver ucciso Noemi con alcune coltellate al collo. Della presunta arma del delitto non è stata trovata traccia. Dalla Tac non sarebbero emersi segni di fratture tali da far pensare a colpi di pietra. Il papà di Noemi ha contattato l’avvocato Giulia Bongiorno (che in passato ha difeso Giulio Andreotti e Raffaele Sollecito) per l’assistenza legale. Intanto i difensori del 17enne sono finiti al centro di minacce sul web. E proprio questa mattina l’ordine degli avvocati di Lecce insieme con la presidenza della Corte d’Appello ha organizzato un incontro su «Linguaggio dell’odio, diritto di difesa e informazione sul web».
Noemi, un testimone in tv: «C'era un'altra auto», scrive Erasmo Marinazzo su “Il Quotidiano di Puglia” il 18 settembre 2017. «La notte del 3 settembre percorrevo quella strada. Alle tre e mezzo ho notato il ragazzo arrestato, a bordo di una Fiat 500 bianca. Stava da solo. Stavo andando verso l’incrocio sulla destra ed ho visto sfrecciare davanti a me una Seat Ibiza verdone, vecchio modello». E’ la testimonianza raccolta dai microfoni di “Mattino Cinque”. Un ragazzo del Capo di Leuca ha raccontato di aver visto L.M. la notte del 3 settembre vicino alle campagne fra Santa Maria di Leuca e Castrignano del Capo, alla guida della macchina dei genitori. E di aver visto passare lo stesso modello di macchina indicata dal giovane che si trova in un Istituto penale per minori, con l’accusa di omicidio volontario aggravato dalla premeditazione, dai futili motivi e dalla crudeltà, nella quarta delle versioni sulla scomparsa della fidanzata Noemi Durini: una Seat Ibiza. Si tratta di una testimonianza che al momento non ha trovato riscontri nei filmati, anche quelli più recenti, acquisiti dai carabinieri. E che potrebbe invece servire a capire se L.M. abbia fatto o meno un sopralluogo nelle campagne dove qualche ora più tardi avrebbe condotto la fidanzata. Per ucciderla. Tuttavia chi ha parlato al microfono non ha riferito nulla di ciò che ha visto agli inquirenti. La ricostruzione della sequenza tragica di domenica 3 settembre ha come punto fermo il filmato dell’impianto di video sorveglianza di una villa poco distante dalla casa della ragazza, a Specchia: L.M. e Noemi sono stati ripresi a bordo della Fiat 500 bianca alle 5.05. Il fidanzato era arrivato lì alle 4.51, nel video si vedono ripartire alle 5.09. Più tardi, almeno un’ora più tardi, i fidanzati sono stati ripresi mentre passavano da Santa Maria di Leuca all’altezza del santuario sulla strada per Castrignano del Capo. Stavano per raggiungere contrada San Giuseppe dove mercoledì scorso L.M. ha fatto ritrovare il corpo della ragazza. E la Seat Ibiza? Ne parlò L.M. ai carabinieri dopo che gli fecero presente l’esistenza del filmato in cui era stato ripreso davanti casa di Noemi e della possibilità che altri impianti di videosorveglianza confermassero che avessero trascorso insieme la nottata. Sentito appena la madre della ragazza presentò la denuncia di scomparsa, nella tarda mattina del 6 settembre, L.M. sostenne di non saperne nulla: non la vedeva dal 28 agosto perché si erano lasciati. Messo al corrente del filmato cambiò versione almeno altre due volte, fino a raccontare di averla accompagnata alla rotatoria per Morciano di Leuca. Lì, ad attenderli, ci sarebbe stata una Seat Ibiza, di colore nero, con un uomo alla guida. Noemi sarebbe scesa dalla Fiat 500 per salire a bordo dell’altra auto e allontanarsi. Tutto inventato: dopo le perquisizione in casa, il sequestro della macchina con il ritrovamento di tracce di sangue, l’avviso di garanzia con la contestazione di omicidio volontario, L.M. la mattina del 13 settembre ha chiesto di parlare con i carabinieri. E si è liberato del peso di aver ucciso la fidanzata: ha fatto ritrovare il corpo, ha accompagnato gli investigatori nelle campagne di contrada San Giuseppe. Caso chiuso? No. Ancora no. Perché se l’indagato ha sostenuto di avere ammazzato Noemi con un colpo di coltello alla testa e che la lama si sarebbe spezzata all’interno, è vero anche che la Tac ha smentito questa ricostruzione: la lama non è stata individuata. Qualche chiarimento potrebbe arrivare dall’autopsia prevista nella giornata di oggi. Il medico legale Roberto Vaglio cercherà di capire se quelle lesioni sulla parte sinistra del collo siano compatibili con una coltellata. E verificherà anche le lesioni sulla testa che potrebbero essere state procurate con la pietra intrisa di sangue, trovata a circa cinque metri dal corpo di Noemi. Servirà, insomma, l’autopsia, a verificare l’attendibilità dell’indagato. A difenderlo, gli avvocati Luigi Rella e Paolo Pepe, mentre la famiglia di Noemi si è affidata a Giulia Bongiorno ed Mario Blandolino.
Noemi, la perizia psichiatrica sul fidanzato: "Capacità intellettiva al limite", scrive il 18 Settembre 2017 "Libero Quotidiano". È questa la patologia di cui soffrirebbe Lucio, il 17enne che ha confessato di avere ucciso Noemi Durini, la sua fidanzata 16enne: "Un'organizzazione borderline di personalità con capacità intellettive al limite". Emerge nel decreto di convalida del gip del Tribunale per i Minorenni di Lecce Ada Colluto, in riferimento alla relazione neuropsichiatrica psicologica del dipartimento di salute mentale dell'Asl di Lecce redatta lo scorso 14 settembre. Per il gip, il giovane "non manifesta cenni di reale senso di colpa". Nel decreto di convalida del fermo il gip ritiene che sussista un pericolo di fuga, c'è la possibilità che "egli non rimanga coerente in quel suo atteggiamento rispetto alla vicenda e si renda irreperibile magari anche per cercare di risolvere a suo modo la situazione di totale avversione sociale che avverte nei confronti suoi e della sua famiglia". Tutti elementi comunque che secondo il magistrato "non possono portare in ogni caso a ritenere in questa fase che" il ragazzo "non fosse pienamente in grado di intendere e di volere nel momento in cui ha commesso l'azione delittuosa. È evidente - conclude - che allo stato non è possibile soddisfare le esigenze cautelari con misure meno gravi, mentre proprio un contesto totalizzante, pienamente regolato e separato come quello dell'Istituto penale minorile può consentire di creare le condizioni minime per la profonda ricostruzione della personalità".
Omicidio di Noemi Durini, pm chiede la perizia per Lucio, il diciassettenne reo confesso, scrive il 30 Settembre 2017 "La Gazzetta del Mezzogiorno". Lucio, il 17enne e assassino reo-confesso di Noemi Durini, era capace di intendere e di volere quando ha assassinato la sua fidanzata? E’ la domanda che il pm del Tribunale per i minorenni di Lecce, Anna Carbonara, rivolge al gip Ada Colluto chiedendole di disporre un incidente probatorio che accerti nell’immediato la capacità processuale dell’indagato, detenuto per omicidio volontario aggravato dalla premeditazione, dai futili motivi e dalla crudeltà. Lucio è ritenuto dai sanitari un ragazzo difficile e violento perché faceva uso di droghe leggere e perché, in un anno, è stato sottoposto a tre trattamenti sanitari obbligatori, i cosiddetti Tso. Gli stessi difensori del giovane, subito dopo il fermo per l'omicidio, avevano presentato al Tribunale una richiesta per procedere a una perizia psichiatrica che ne attestasse la capacità di intendere e volere al momento dei fatti. L'accertamento chiesto dal pm minorile è ritenuto fondamentale dalla Procura, che ritiene pure che si debba svolgere nell’immediato piuttosto che nella fase processuale i cui tempi potrebbero pregiudicare irreparabilmente la valutazione psichiatrica del giovane, che a dicembre diventerà maggiorenne. L'indagine tecnico-scientifico è rilevante per la decisione dibattimentale. Infatti, ai sensi dell’articolo 98 del Codice penale, la capacità di intendere e volere del minore che ha compiuto 14 anni ma non ancora i 18, a differenza dell’adulto, non è presunta, ma deve essere accertata. Nel caso in cui dovesse essere accertata l’incapacità di intendere e di volere, Lucio potrebbe finire, se ritenuto colpevole, in un manicomio giudiziario; se il vizio di mente dovesse essere parziale, il diciassettenne risponderà del reato commesso, ma la pena sarà diminuita. Lucio, detenuto presso l’Istituto penale minorile di Quartucciu (Cagliari), in Sardegna, avrebbe picchiato e poi accoltellato a morte la fidanzata all’alba del 3 settembre scorso, giorno il cui la sedicenne scomparve da Specchia, città del Basso Salento in cui viveva. Il cadavere fu fatto ritrovare dallo stesso fidanzato dopo 10 giorni, il 13 settembre, nelle campagne di Castrignano del Capo, sulla strada per Santa Maria di Leuca. Il corpo si trovava sotto un cumulo di pietre. Le telecamere di sorveglianza nella zona avrebbero accertato che Lucio avrebbe agito da solo al momento del delitto. Per il sequestro di persona e occultamento di cadavere è invece indagato a piede libero il papà del ragazzo.
Avetrana, Specchia e le pietraie d'Italia figlie del Grande Fratello. Villaggi dai nomi sconosciuti, che un giorno tutti imparano per le ragioni più atroci. Villaggi senza età né futuro. Storditi davanti a un televisore, incantati da personaggi che non esistono, scrive Massimo Del Papa il 18 settembre 2017 su "Lettera 43". Quante sono le Avetrana, le Specchia che covano mostri? Anus mundi, villaggi dai nomi sconosciuti, senza età, senza futuro, che un giorno li imparano tutti, per le ragioni più atroci. Morto il mito ambiguo, consolatorio della provincia lontana dalla metropoli e dalle sue perversioni, feroce nei suoi rituali presociali ma almeno sana nel preservarne i legami e quei valori ingenui forse mai esistiti, resta la realtà delle ragazzine scannate per niente, delle faide familiari, la banalità di un male più banale, senza neppure l'alibi dell'illusione.
TERRE DI NIENTE E DI NESSUNO. Noland, terre di niente e di nessuno, senza speranze, che i telegiornali mostrano simili a pietraie dell'Afghanistan, ma qui la gente ci nasce e non vuole andarsene, si limita a sospettare altre forme di vita su altri pianeti mostrati dalla televisione, neanche internet, che serve a chattare la non-vita di ogni minuto, proprio l'eterna televisione che poi, un giorno, mostra «in diretta» il ritrovamento dei loro cadaveri in un pozzo o un bosco o una cava, come una lapidazione postuma. Sostituendosi ai carabinieri, ma col loro permesso, com'era successo, e sempre da Chi l'ha visto?, per la giovanissima Sarah Scazzi e come si è ripetuto per la pressoché coetanea Noemi Durini, quindici, sedicenni per le quali la stessa televisione del brutto e del macabro spreca le formule del decadentismo romanzato borghese, «aveva una relazione difficile», «il fidanzato», «il legame tormentato». Ragazzine irretite in una vita che non arriva mai, ma che è l'unica che c'è, finché c'è.
E RIPARTE LA FAIDA. «Abbiamo fatto l'amore» confessa il «fidanzatino» con fare vissuto, «poi l'ho massacrata con un sasso». E alla gente che lo vuol linciare fa le linguacce da Gain Burrasca ritardato, la manda affanculo, lascia biglietti sgangherati, veri o apocrifi, che sembrano usciti da romanzi d'appendice che non leggerà mai, neanche in carcere: «Era meglio che mi ammazzavo io». E già gli hanno spiegato che, «gestito» come si deve, cioè «facendo il pazzo», come teme la madre di Noemi, uscirà prestissimo perché c'è sempre qualche prete sociale, ma soprattutto mediatico, che lo aspetta. E puntuale, nelle pietraie del Sud d'Italia, ma non necessariamente, riparte la faida, il padre della vittima che vuole sterminare l'altra famiglia, i parenti dell'omicida, abbonato al Tso, per niente ammansiti, che danno la colpa alla ragazzina trucidata, il parroco che fa il Ponzio Pilato, «Io non ne sapevo niente», unico in una noland dove tutti sanno tutto e sapevano del disagio della madre di Noemi, Imma, anche lei con storie difficili alle spalle, con altri figli da mantenere, costretta a una trama di lavoretti duri e inutili, ma nessuno o quasi l'aiuta e tutti sanno tutto. Tranne il parroco. Lo stesso che adesso guida il comitato dei festeggiamenti, perché a Specchia, Afghanistan italiano, hanno subito colto al balzo la palla nell'abisso umano per inventarsi una sorta di fiera, di sagra che avrebbe fatto impazzire Fellini: processione del feretro, magari con inchino davanti casa dei notabili, corteo di motociclette rombanti, fiori, la banda che suona come dopo un delitto di mafia, la gigantografia di lei tratta da Facebook, altoparlanti, maxischermo, fortuna che Imma in un sussulto di orrore s'è opposta: no a tutto, ha ringhiato, altrimenti il casino lo faccio io.
LE LITANIE DEL DOLORE. Su Facebook la ragazzina Noemi postava le sue litanie del dolore, «se non ti rispetta non è amore, se ti alza le mani non è amore», ma si lasciava pestare e a mollare quel balordo di villaggio non ci pensava, un conto era la ragione del social, un altro la sua vita non-vita che era l'unica che aveva e un'altra vita sapeva non sarebbe mai arrivata. E così, un brutto giorno arriva la resa dei conti e il «fidanzatino» chiude la storia, senza una ragione, così, perché gli è salita la furia, perché il Tso non funzionava. Anche il ministro Andrea Orlando sospetta, con la prudenza del burocrate, «che qualcosa non abbia funzionato» e così ha mandato gli ispettori i quali, inutili come tutti gli ispettori, concluderanno nella nebbia e nel discarico di responsabilità, anche se la madre Imma disperata aveva fatto due o tre denunce, puntualmente cascate nel vuoto di chi tutto sapeva, tutto si aspettava. Quante sono le pietraie d'Italia dove il buon senso, l'umanità, il diritto finiscono inghiottite?
UN ANTIDOTO STORDENTE. «Io quando le vedo alla televisione queste storie non mi sembrano vere, invece siamo noi», ha detto alla televisione, in un fiorire di anacoluti, qualche ragazzina del posto. E la televisione è ancora l'unico antidoto alla noia della pietraia, insieme alle canne e, a volte, altra roba più forte. Ma la televisione è la più stordente di tutte. Hanno calcolato che la prima puntata del Grande Fratello Vip è stata vista dal 25% dei televisori, uno su quattro accesi, 4,5 milioni di spettatori che si bevono gli aneliti di Malgioglio e i fratelli di Belen. In crescita rispetto agli anni scorsi. Uno su due ha tra i 15 e i 24 anni, una su tre è donna, particolarmente al Sud. Tutto per un programma che non esiste, con personaggi che non esistono, con un copione che non c'è anche se la sua narrazione pornografica ha sostituito i romanzi d'appendice, giunto al suo 17esimo anno. Ovviamente non si vuol dire che chi guarda il Grande Fratello poi diventa balordo e criminale, si vuol semplicemente dire che, nelle mille pietraie d'Italia, l'orizzonte culturale è quello, la speranza di vita è quella. E non cambia.
La negligenza dei PM. Marianna Manduca e le altre o gli altri. Per la Corte di Cassazione 12 denunce disattese valgono “la negligenza inescusabile” dei PM. Commento di Antonio Giangrande. Scrittore e sociologo storico. Trattare il caso di Marianna Manduca, anche in video, è come trattare miriadi di casi identici, così come ho fatto in “Ingiustiziopoli. Disfunzioni del sistema che colpiscono i singoli”, e mi porta ad affrontare un tema che tocca argomenti inclusi in vari saggi da me scritti e pubblicati su Amazon e su Lulu.
Per la verità la decisione della Corte di Cassazione, tanto enfatizzata dai media, è intervenuta solo per affermare un principio giuridico formale. La Suprema Corte ha accolto il ricorso con il quale il tutore dei tre bambini (Carmelo Calì che è un cugino della loro mamma che vive a Senigallia, nelle Marche) ha fatto valere il diritto dei piccoli a ottenere giustizia. La Corte di Appello di Messina non potrà più respingere la richiesta sostenendo che sono scaduti i termini e che l’azione andava esercitata entro i due anni dalla morte di Marianna. Per la Cassazione invece le argomentazioni dei magistrati messinesi «non hanno giuridico fondamento» perchè - spiegano i supremi giudici - il termine biennale, in un caso del genere, non può decorrere dal giorno della morte della donna ma «dal momento in cui i minori stessi avessero acquistato la capacità di agire», ovvero dal giorno in cui un adulto veniva ufficialmente nominato loro tutore.
La Corte Suprema, sulla base della legge del 1988 sulla responsabilità civile dei magistrati, ha affermato che i figli di Marianna ora potranno avere un risarcimento dallo Stato per la «negligenza inescusabile» dei pm che avrebbero dovuto invece occuparsi di quelle denunce.
Tanto si è parlato del caso di Marianna Manduca. Per la Cassazione i magistrati non diedero importanza alle denunce della donna poi uccisa dal marito ed è per questo che i suoi tre figli hanno diritto ad un risarcimento. Il padre uxoricida è stato condannato a soli venti anni di reclusione. Le aggressioni alla ex moglie erano tutte avvenute in pubblico. Ciò nonostante nessuno condusse indagini e nemmeno prese provvedimenti a tutela della donna in pericolo, nonostante le sue richieste di aiuto.
«Spesso la legge non tutela le donne, ma in questo caso anche quelle previste non sono state applicate - denuncia l'avvocato Corrado Canafoglia - è incredibile che 12 dodici aggressioni avvenute in strada, pubblicamente e alla presenza di testimoni l'uomo non sia stato allontanato». Ergo: sbagliano le toghe, pagano gli italiani, muoiono le vittime.
Ma a tutti è sfuggito un particolare importante che porta a chiederci: per le toghe quante denunce insabbiate valgono una vita umana? Una, due, tre, dieci…Oppure fino a che punto lo stantio o l’inerzia provoca l’inevitabile evento denunciato?
E perché, come ai poveri cristi, alle toghe omissive non viene applicato il reato di omissione d’atti di ufficio, ex art. 328 C.P.? Non si paventa il dolo omissivo?
Non si pensi che la morte di Marianna Manduca sia un caso isolato e riferito solo alla trinacride magistratura. Per i miscredenti vi è un dato, rilevato dal foro di Milano tratto da un articolo di Stefania Prandi del “Il Fatto Quotidiano”. “Per le donne che subiscono violenza spesso non c’è giustizia e la responsabilità è anche della magistratura”. A lanciare l’accusa sono avvocate e operatrici della Casa di accoglienza delle donne maltrattate di Milano che puntano il dito contro la Procura della Repubblica di Milano, “colpevole” di non prendere sul serio le denunce delle donne maltrattate. «La tendenza è di archiviare, spesso de plano, cioè senza svolgere alcun atto di indagine, considerando le denunce manifestazioni di conflittualità familiare – spiega Francesca Garisto, avvocata Cadmi – Una definizione, questa, usata troppe volte in modo acritico, che occulta il fenomeno della violenza familiare e porta alla sottovalutazione della credibilità di chi denuncia i maltrattamenti subiti. Un atteggiamento grave da parte di una procura e di un tribunale importanti come quelli di Milano». Entrando nel merito della “leggerezza” con cui vengono affrontati i casi di violenza, Garisto ricorda un episodio accaduto di recente: «Dopo una denuncia di violenza anche fisica subita da una donna da parte del marito, il pubblico ministero ha richiesto l’archiviazione de plano qualificandola come espressione di conflittualità familiare e giustificando la violenza fisica come possibile legittima difesa dell’uomo durante un litigio».
La sua storia è esemplare: è il padre di Carmela. «Una ragazzina di 13 anni - scrive Alfonso - che il 15 aprile del 2007 è deceduta volando via da un settimo piano della periferia di Taranto, dopo aver subito violenze sessuali da un branco di viscidi esseri», ma poi anche le incompetenze e la malafede di quelle Istituzioni che sono state coinvolte con l’obiettivo di tutelarla», perché «invece di rinchiudere i carnefici di mia figlia hanno pensato bene di rinchiudere lei in un istituto (convincendoci con l’inganno) ed imbottendola di psicofarmaci a nostra insaputa». Carmela aveva denunciato di essere stata violentata; e nessuno, né polizia, né magistrati, né assistenti sociali le avevano creduto o l’avevano presa sul serio. Ma le istituzioni avevano anche fatto di peggio. Hanno considerato Carmela «soggetto disturbato con capacità compromesse» e, quindi, poco credibile.
Invece di perseguire chi l’aveva violentata, hanno di fatto perseguito una bambina rinchiudendola in vari istituti in cui Carmela non voleva stare. E, come ha denunciato il padre, usando il metodo facile di «calmarla» con psicofarmaci.
Fin qui la questione attinente al femminicidio.
L’uomo orco da scotennare? No! C’è un paradosso da non sottovalutare. Se i Pm insabbiano, i giudici sono punitivi.
«Giudici punitivi, sempre dalla parte delle madri. E padri disperati: troppe le storie quotidiane di sofferenza atroce». E’ agguerrito Alessandro Poniz di Martellago (Ve), coordinatore Veneto dell’associazione Papà Separati. Esprime la rabbia e la frustrazione che ogni giorno tanti genitori «vessati dall’ex coniuge» riversano su di lui. «Ci si scontra continuamente con madri “tigri” tutelate dalla legge - accusa Poniz - . Non mi stupisce il dramma del papà di Padova. Sì, sono convinto che per la disperazione si possa arrivare a togliersi la vita. Sapete quanti padri si presentano puntuali a prendere i figli, secondo le sentenze stabilite dai tribunali, suonano il campanello e vengono mandati via dalla madre con la scusa che il bimbo è ammalato? Escamotage simili vanno avanti per anni... E quanti scontano l’odio e il rancore di figli “plagiati” dalle madri?».
«Il sistema non è mai pronto a intervenire tempestivamente», sostiene Alessandro Sartori, presidente Veneto dell’associazione italiana avvocati per la famiglia e per i minori (Aiaf). «Ci vorrebbe una formazione specifica sia per i giudici che per i servizi sociali. A volte sono chiamati a pronunciarsi su questa materia delicatissima giudici che fino al giorno prima si occupavano di diritto condominiale...».
Divorzi e paternità: ecco come la donna violenta l'uomo. False denunce e false accuse tra violenze fisiche, verbali e paternità negate. Nella coppia la donna diventa sempre più violenta. Ecco i risultati sconcertanti del questionario, scrive Nadia Francalacci su “Panorama”. “Sono prive di fondamento le teorie dominanti che circoscrivono ruoli stereotipati: donna/vittima e uomo/carnefice”. Ad affermarlo è la psicologa forense Sara Pezzuolo, dopo aver condotto in Italia la prima “Indagine conoscitiva sulla violenza verso il maschile”. “Dal questionario emerge come anche un soggetto di genere femminile sia in grado di mettere in atto una gamma estesa di violenze fisiche, sessuali e psicologiche - continua a spiegare a Panorama.it, l’esperta - che trasformano il soggetto di genere maschile in vittima”.
E quando gli affidi diventano scippi e le vittime sono i figli ed entrambi i genitori?
Ci sono i falsi abusi, ma che realizzano vere tragedie. Solo 3 denunce su 100 si concludono con una condanna.
Minori strappati dalle mura domestiche e rinchiusi all’interno di comunità. Storie di sofferenze, abusi, maltrattamenti, ma anche di errori giudiziari, che segnano indelebilmente la vita di minori, costretti a vivere e crescere in comunità o famiglie affidatarie lontane dall’affetto dei genitori.
Da quanto detto si estrae una semplice conclusione. Il sistema esaspera gli animi ed il debole soccombe. Non vi è differenza di sesso od età. Solo i media esaltano il fenomeno del femminicidio. Lo fanno per non colpire i veri responsabili: i magistrati.
Bene. Anzi, male. Perché se è vero, come è vero, che questo sistema della stagnazione delle denunce o la loro invereconda procedibilità viene applicato anche per qualsiasi altro tipo di reato violento, allora si è consapevoli del fatto che ogni vittima è rassegnata al peggio. Si badi bene. Qui si parla anche di vittime di estorsioni. Quindi vittime di mafia. Senza parlare poi delle vittime di errori giudiziari.
Ecco, allora, chiedo a Voi toghe. Quando scatterebbe la “la negligenza inescusabile” dei PM che provoca morte o rassegnazione, dopo una, due, tre, dieci…denunce? Ce lo dite con una vostra alta sonante pronuncia, in modo che noi vittime, poi, teniamo il conto di quelle già insabbiate. Se poi, in virtù dell’indifferenza sopravviene la morte, chissà, forse i nostri figli si potranno rivalere economicamente, non sui responsabili, come sarebbe giusto, ma, bontà vostra, sui nostri e vostri concittadini che pagano le tasse anche per quei risarcimenti del danno. Danni riferiti a responsabilità dei magistrati, ma non a questi addebitati.
È morta la 15enne di Ischitella colpita al volto dall'ex della madre, scrive il 21 Settembre 2017 "La Gazzetta del Mezzogiorno". E’ morta la ragazza di 15 anni, Nicolina Pacini, che ieri era stata ferita al volto da un colpo di pistola sparato dall’ex compagno della mamma, Antonio Di Paola, di 37 anni, che, dopo una fuga nelle campagne circostanti il paese, si è ucciso sparandosi con la stessa arma, una calibro 22. La ragazza è morta poco prima delle 7 di questa mattina per un ennesimo arresto cardiaco. La quindicenne, Nicolina Pacini, ieri, intorno alle 7.30, stava scendendo le scale di via Zuppetta, a Ischitella, per raggiungere la fermata dell’autobus che l’avrebbe condotta a scuola, a Vico del Gargano, quando è stata avvicinata da Antonio Di Paola, che - probabilmente - le ha chiesto notizie della mamma, Donatella Rago, di 37 anni, fino ad un mese fa la sua compagna. Al rifiuto della ragazzina, l’uomo avrebbe sparato colpendola al viso. Donatella Rago è stata raggiunta dalla notizia mentre si trovava in una località della Toscana dove lavora e dove, pare, avesse cominciato una nuova relazione. Antonio Di Paola non si dava pace e voleva in tutti i modi ritornare insieme alla donna che di recente lo aveva denunciato due volte per minacce, l'ultima un paio di settimane fa. Nicolina Pacini, a causa delle condizioni di disagio famigliare, viveva a casa dei nonni ai quali era stata affidata dai servizi sociali insieme al fratello.
La madre: inutile la mia denuncia, scrive il 20 Settembre 2017 "La Gazzetta del Mezzogiorno". I miei figli «erano in affidamento ai miei (genitori, ndr) ed io ho avvertito che sarebbe successo qualcosa, nessuno mi ha dato retta. Io non c'ero, ma i miei che li avevano in affido dov'erano? Non doveva prendere il pullman visto che c'erano delle denunce in corso, ma dovevano accompagnarla loro a scuola». Lo scrive su Facebook la mamma della 15enne ferita con un colpo di pistola al volto ad Ischitella (Foggia). Per il ferimento viene ricercato l’ex compagno 37enne della donna. Quest’ultima non vive in Puglia. «E l’assistente sociale del Comune di Ischitella - accusa la mamma - che mi aveva assicurata che dai miei stavano benissimo? Complimenti!» L'avevo «supplicata - aggiunge - di portarli in un altro posto perché sapevo che sarebbe successo tutto questo. Non mi ha ascoltato, anzi ha detto: 'Stanno bene dove stanno'. Ora mia figlia è in coma farmacologico. Mio Dio ti prego aiuta la mia unica stella, era l’unica figlia femmina che ho. Ti prego, ti prego, ti prego. Mio Dio! Ascolta la mia preghiera. Sono disperata, lei non c'entrava nulla». La donna ieri aveva pubblicato la foto di tre ragazzi, forse i suoi tre figli, e aveva scritto: «La mia forza, la mia vita, il mio ossigeno: siete tutto quello che ho amori miei».
E la mamma della ragazzina rivela: «Hanno ignorato le mie denunce». Lo sfogo della donna sui social: «Sapevo che sarebbe successo», scrive Massimo Malpica, Giovedì 21/09/2017, su "Il Giornale". Ancora una volta una tragedia annunciata. Ancora una volta il dubbio che l'inerzia dello Stato abbia contribuito a versare del sangue innocente. Anche a Ischitella, nel Foggiano, dove un 37enne ha sfogato la sua malata gelosia per l'ex compagna, sparando in volto alla figlia quindicenne della donna prima di suicidarsi. Ora la ragazzina lotta tra la vita e la morte, e le sue condizioni sono «disperate». E a soffiare sul fuoco delle polemiche arrivano i post «social» della madre, che su Facebook ha commentato la notizia, sostenendo di aver più volte denunciato l'ex compagno, e di aver avvertito invano le autorità di temere questo terribile esito. Almeno due sarebbero le denunce presentate contro l'uomo che ha sparato alla figlia, e l'ultima porterebbe la data di un paio di settimane fa. Tra l'altro la donna, Donatella, sostiene anche di aver chiesto che i figli, affidati ai nonni, venissero portati via da Ischitella. «Perché sapevo si legge in uno dei messaggi scritti ieri sul social network dalla madre - che sarebbe successo tutto questo». Un episodio che ricorda quanto accaduto pochi giorni fa con la morte di Noemi Durini, ammazzata dal fidanzato nonostante le numerose denunce presentate sia dalla madre della ragazza che dalla famiglia di lui, e che non avevano portato ad alcuna forma di tutela prima che si consumasse la tragedia. Tornando a Ischitella, è di ieri alle 13 il primo messaggio postato dalla donna, che nel frattempo dopo aver rotto la relazione con l'uomo che ha aggredito la figlia per poi ammazzarsi si è trasferita in Toscana. «Mia figlia!», esclama a commento di un articolo sulla sparatoria. E rispondendo ai commenti di amici e parenti, ecco la denuncia: «Erano in affidamento ai miei - scrive la madre - ed io ho avvertito che sarebbe successo qualcosa ma nessuno mi ha dato retta». E ancora: «Non doveva prendere il pullman visto che c'erano delle denunce in corso, ma dovevano accompagnarla loro a scuola», lamenta la donna, rivolgendosi poi per nome all'assistente sociale del paese: «Complimenti... io ti avevo supplicata di portarli da un altro posto che sapevo che sarebbe successo tutto questo, non mi ha ascoltato anzi ha detto stanno bene dove stanno... ora mia figlia è in coma farmacologico». Poi la mamma della 15enne ferita se la prende con l'ex compagno. «Spero che ti ammazzi bastardo lurido - scrive - prendertela con una ragazza di soli 15 anni, sei un rifiuto umano», e poco dopo aggiunge «tu non meriti di vivere», per poi commentare la notizia del suicidio, ancora su Facebook: «Ditemi che è vero». Ce n'è abbastanza per riaccendere il dibattito sulla scarsa efficacia dello Stato nel proteggere chi denuncia violenze e minacce. A seguito degli esposti della donna, i carabinieri erano intervenuti con perquisizioni personali e domiciliari, concluse senza alcun esito tranne, nel 2016, un deferimento per porto illegale di coltello.
La mamma della 15enne uccisa posta un messaggio su Facebook: «Senza te non siamo niente», scrive il 22 Settembre 2017 "La Gazzetta del Mezzogiorno". «Amore senza di te non siamo niente», "ricordati di tua mamma di tuo padre e del tuo fratellino», «torna tra noi, ti prego, ti aspetto». Sono alcuni dei passaggi del post che ha pubblicato su Facebook Donatella Rago, madre di Nicolina Pacini, la 15enne uccisa dall’ex compagno della donna. Rago ha pubblicato il post ieri, in tarda serata, aggiungendo numerose foto in cui Nicolina è ritratta in diverse occasioni: col vestito elegante, mentre si scatta un selfie davanti allo specchio, in posa per sembrare ancora più bella. «Eccoti amore mio - scrive sua madre - così bella, solare, allegra, carattere forte...con questi occhi blu più del sole e del mare...tu la mia vita, il mio sole il mio tutto...io e te si litigava, io e te ci confidavamo a vicenda, eravamo due sorelle e non madre e figlia. Tutti ci invidiavano amore mio, vita mia, mi manchi tantissimo». «Ora - prosegue la mamma di Nicolina - tu sei un piccolo angelo in mezzo a tanti angeli mah! Qui giù ricordati di tua mamma, di tuo padre e il tuo fratellino, amoreeeeee senza di te siamo niente...tesoro mio ti va di venire (a darci, ndr) un bacio?». «Così - conclude - ci sembra che tu stia ancora qui con noi...nico ci manchi amore mio, torna tra noi, ti prego a mamma, ti aspetto!!!!». Al post seguono messaggi di condoglianze e vicinanza, ma anche molte critiche alla mamma per «non aver badato a sua figlia» e perché «espone il suo dolore su Facebook». Stessi attacchi che ha ricevuto anche dopo il post pubblicato questa mattinata, con una foto di Nicolina con due ali da angelo: «Il mio angelo per sempre», ha scritto Donatella. «Sapevo che aveva una pistola e l’ho anche detto ai carabinieri quando ho presentato le denunce perché mi minacciava: ho ancora i messaggi conservati sul telefono. Era un violento, sapevo che c'era pericolo per i miei figli», ha poi detto Donatella Rago all''Ansa.
Nicolina non ce l'ha fatta. Lo sfogo della madre: l'avevo messa in guardia. Il killer aveva già minacciato con un coltello la 15enne. Il ministro chiede una relazione, scrive Bepi Castellaneta, Venerdì 22/09/2017 su "Il Giornale". Il filo di speranza si è fatto sempre più sottile e si è affievolito ancor di più con il passare delle ore. Fino a quando, poco prima delle 7, il cuore di Nicolina Pacini, 15 anni, raggiunta da un colpo di pistola al volto sparato dall'ex compagno della madre che poi si è suicidato, si è fermato per sempre in una stanza degli Ospedali Riuniti di Foggia, là dove era stata ricoverata dopo un agguato gelido e spietato in un vicolo di Ischitella, piccolo centro del Gargano. Fin dal primo momento i medici si erano mostrati pessimisti: troppo gravi le lesioni riportate, la ragazza è stata ferita a un occhio e la pallottola ha causato un'emorragia cerebrale. «Impossibile operare», è stato il drammatico verdetto. E così, dopo una notte di agonia, per la quindicenne non c'è stato niente da fare: i suoi sogni e il suo destino sono stati cancellati sugli scalini insanguinati di via Zuppetta, il vicolo del centro storico che stava percorrendo per raggiungere la fermata dell'autobus e andare a scuola. Adesso in questo angolo della provincia di Foggia il dolore si mescola alla rabbia. E crescono le polemiche per quella che in tanti definiscono una tragedia annunciata. A cominciare dalla madre, Donatella Rago. Che non usa mezzi termini e sul suo profilo Facebook sostiene di aver dato più volte l'allarme puntando l'indice contro l'ex compagno, Antonio Di Paola, 37 anni, l'uomo che ha ucciso e si è tolto la vita poche ore dopo nelle campagne del paese con la stessa pistola. In un'intervista a Mattino Cinque la donna rivela il contenuto dell'ultima telefonata con Nicolina, data in affidamento ai nonni materni su disposizione della magistratura minorile. «Io mi sto preoccupando perché so cosa vuole fare», le ha detto quattro giorni fa la madre, che era riuscita a chiudere il rapporto con Di Paola tornando a Viareggio, dove vive l'ex marito che insieme a lei ieri ha raggiunto Ischitella per piangere sul corpo della figlia. Aveva paura, Donatella. Temeva che il 37enne, quell'uomo con cui ha convissuto due anni, un tipo violento con precedenti penali e noto in paese come «una testa calda», potesse in qualche modo vendicarsi dopo che lei aveva deciso di interrompere la relazione e di fargliela pagare nel modo più atroce. Del resto lui lo aveva detto chiaramente: secondo quanto risulta nella denuncia presentata nel 2016, Di Paola nel corso di una lite avrebbe minacciato Nicolina con un coltello, intervennero ai carabinieri e l'arma fu sequestrata; e poi ancora: due settimane fa il pregiudicato avrebbe chiesto con insistenza alla quindicenne notizie della ex compagna, la ragazza si è rifiutata di rispondere e ha riferito tutto alla madre. Risultato: è stata presentata una seconda denuncia, questa volta in Toscana. Insomma Donatella temeva che nella mente di Di Paola, in preda a una gelosia ossessiva, avrebbe potuto persino prendere forma il feroce disegno di una vendetta trasversale. E così è stato. «Non siamo stati capaci di evitare una tale tragedia», dice il parroco della chiesa di Santa Maria Maggiore, Dino Iacovone. E mentre in paese la gente si interroga su ciò che poteva essere fatto per fermare l'assassino, il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, annuncia l'intenzione di chiedere maggiori dettagli sul caso.
La mamma della 15enne uccisa «Aveva già minacciato mia figlia». Poi attacca i genitori: dove erano? Scrive il 22 Settembre 2017 “La Gazzetta del Mezzogiorno". «Nessuno muore finchè vive nel cuore di chi resta. E' questo uno degli striscioni che campeggiavano stasera nel corso della fiaccolata a Ischitella per ricordare Nicolina Pacini, la 15enne uccisa dall'ex compagno della mamma. Il sindaco ha proclamato il lutto cittadino in occasione dei funerali che avranno luogo sabato, alle 15.30. Intanto, la mamma della ragazza, in un post ha dato sfogo alle sue emotivi: «Amore senza di te non siamo niente», "ricordati di tua mamma di tuo padre e del tuo fratellino», «torna tra noi, ti prego, ti aspetto». Sono alcuni dei passaggi del post che ha pubblicato su Facebook Donatella Rago, madre di Nicolina. Rago ha pubblicato il post ieri, in tarda serata, aggiungendo numerose foto in cui Nicolina è ritratta in diverse occasioni: col vestito elegante, mentre si scatta un selfie davanti allo specchio, in posa per sembrare ancora più bella. «Eccoti amore mio - scrive sua madre - così bella, solare, allegra, carattere forte...con questi occhi blu più del sole e del mare...tu la mia vita, il mio sole il mio tutto...io e te si litigava, io e te ci confidavamo a vicenda, eravamo due sorelle e non madre e figlia. Tutti ci invidiavano amore mio, vita mia, mi manchi tantissimo». «Ora - prosegue la mamma di Nicolina - tu sei un piccolo angelo in mezzo a tanti angeli mah! Qui giù ricordati di tua mamma, di tuo padre e il tuo fratellino, amoreeeeee senza di te siamo niente...tesoro mio ti va di venire (a darci, ndr) un bacio?». «Così - conclude - ci sembra che tu stia ancora qui con noi...nico ci manchi amore mio, torna tra noi, ti prego a mamma, ti aspetto!!!!». Al post seguono messaggi di condoglianze e vicinanza, ma anche molte critiche alla mamma per «non aver badato a sua figlia» e perché «espone il suo dolore su Facebook». Stessi attacchi che ha ricevuto anche dopo il post pubblicato questa mattinata, con una foto di Nicolina con due ali da angelo: «Il mio angelo per sempre», ha scritto Donatella.
«Sapevo che aveva una pistola e l’ho anche detto ai carabinieri quando ho presentato le denunce perché mi minacciava: ho ancora i messaggi conservati sul telefono. Era un violento, sapevo che c'era pericolo per i miei figli», ha poi detto Donatella Rago all''Ansa. «Nicolina era stata già minacciata ad agosto dell’anno scorso dal mio ex compagno che le ha puntato un coltello alla pancia». Donatella ricorda che non lasciava «mai Nicolina da sola con lui» ma quel giorno «ero a fare un colloquio di lavoro» e "Nicolina volle tornare a casa sua per riprendersi delle foto di lei e di suo fratello. Appena entrò - ricorda Donatella - trovò tutte le foto per terra e si arrabbiò molto: fu allora - conclude - che mia figlia fu minacciata». «Avevo chiesto ai miei figli di venire con me a Viareggio dove mi sono trasferita per lavoro, per dare loro un futuro migliore - spiega la donna - ma non hanno voluto seguirmi perché qui avevano la scuola e le loro amicizie. Avevano detto che non sarebbe successo nulla». Qualche giorno prima dell’omicidio, Donatella dichiara di aver avvisato i suoi genitori, invitandoli a stare attenti. «Qualcuno - racconta Donatella - mi ha telefonato per dirmi che il bastardo (il suo ex compagno, ndr) era stato visto nei dintorni di casa mia», ma "mio padre mi ha detto che era al bar con gli amici». E poi, aggiunge Donatella, «ha chiamato il padre di Nicolina dicendogli di non farmi telefonare più». «Volevo che i miei figli fossero trasferiti altrove, fuori dal paese. Ma l'assistente sociale mi diceva sempre che non c'era posto più sicuro di casa dei nonni: si è visto com'è andata a finire». La donna riferisce che tempo fa aveva avvertito Nicolina di stare attenta perché il suo ex le aveva telefonato dicendo di averla vista in giro con la zia. «Lasci tua figlia in mano agli altri?», le aveva chiesto. Rago spiega che alla sua richieste di guardarsi le spalle, Nicolina aveva risposto: «Mamma, ma allora non posso più uscire?». «Io - conclude Donatella piangendo - l’avevo pregata di non uscire mai da sola». «Andrò a Foggia e comprerò a mia figlia il vestito più bello che c'è, perché me l'hanno lasciata nuda, non mi hanno fatto neppure trovare i suoi vestiti», ha continuato la mamma di Nicolina. Rago, tra le lacrime, punta il dito contro i nonni della piccola, i suoi genitori, ai quali era stata affidata e con i quali i rapporti si erano deteriorati. Li accusa, tra l’altro, di non aver fatto vedere neppure al papà di Nicolina, ieri a Ischitella, l’altro figlio più piccolo, pure lui affidato ai nonni. «Sapevano saremmo arrivati e se ne sono andati - dice Rago - con l’unico figlio che gli rimane».
IL FATTO. Norbaonline. 22 settembre 2017. L’editoriale del direttore del TgNorba Enzo Magistà. Tema del giorno: Femminicidi in costante crescita. Quali sono le carenze nelle istituzioni e nella rete familiare delle vittime?
«Le famiglie denunciano, le istituzioni sembrano sorde. E nel frattempo gli omicidi continuano. In Puglia sembra che si sia aperta una pericolosa spirale, a Specchia come ad Ischitella. C’è un dato che fa paura. C’erano due probabili assassini in giro, denunciati, conosciuti, liberi, nessuno li ha fermati. E così due ragazze sono state uccise. Stato impotente? Servizi insufficienti? Istituzioni disattente? Si è detto e si è scritto di tutto in questi giorni tanto che il CSM e il Ministero della Giustizia hanno messo sotto indagine la procura minorile di Lecce. Noemi e Nicolina si potevano salvare per davvero? E che cosa avrebbero dovuto fare le istituzioni per salvarle dalla morte più di quanto non abbiano fatto? Dovevano arrestare preventivamente i probabili assassini, introducendo il reato del sospetto? Noemi prima di essere uccisa uscì di casa di sua spontanea volontà all’alba di quel giorno. Uscì con i suoi piedi, con le sue gambe, forse anche armata. Potevano saperlo i servizi sociali di Specchia? Poteva saperlo la procura minorile di Lecce? O dovevano prevederlo i suoi genitori? E così Nicolina, doveva essere accompagnata a scuola dai nonni, perché girava da sola per le strade deserte di Ischitella di mattina presto? Le due vicende, purtroppo, dimostrano che ci sono disattenzioni familiari prima delle disattenzioni istituzionali. Si fa presto a dire “Lo Stato non ci protegge”. Ma in famiglia cosa si fa per meritarsi anche questa protezione? Certo, fa male parlare così delle famiglie delle vittime in questo doloroso momento per loro però le riflessioni se si devono fare si devono fare a 360° guardando alle responsabilità di tutti. I genitori, i parenti, hanno responsabilità dirette che vengono prima delle responsabilità sociali. Se si bypassa la rete di protezione familiare, se si fa un buco in questa rete allora ci si deve aspettare di tutto. E non è un caso che i delitti più efferati avvengano nell’ambito delle famiglie se non addirittura tra le mura domestiche. Ci sarà un perché. Questo perché è nascosto dietro la porta di casa».
A Ischitella i funerali di Nicolina. Il parroco: “Dopo Noemi, ancora dolore in Puglia”. Tantissime persone, di Ischitella ma anche dei paesi vicini, sono intervenute nella chiesa di San Francesco e all’esterno per i funerali di Nicolina Pacini, la quindicenne uccisa dall’ex compagno della madre, scrive il 23 settembre 2017 Susanna Picone su "Fan Page". Nel pomeriggio di oggi, nella chiesa di San Francesco a Ischitella, in provincia di Foggia, più di mille persone sono intervenute per dare l’ultimo saluto a Nicolina Pacini, la quindicenne uccisa dall’ex compagno della madre il 20 settembre. “Per la seconda volta, in una settimana, la nostra Puglia è stretta in un abbraccio di dolore: prima i funerali di Noemi, a Specchia, nel profondo Sud; oggi quelli per Nicolina. Una terra che ci invidia il mondo, in cui alla luce splendida delle sue albe, si alterna l'oscurità della violenza; alla bellezza dei suoi paesaggi, l'orrore per questi crimini; alla santità che ha benedetto questa nostra diocesi, con san Michele Arcangelo e con San Pio da Pietrelcina, di cui oggi ricordiamo la festa liturgica, il terribile peccato del femminicidio”, le parole pronunciate durante l’omelia da don Dino Iacovone. “Nicolina rivive non solo nel ricordo di chi l'ha conosciuta e amata, rivive in noi quando ci incontriamo per pregare, quando allacciamo relazioni amorevoli e sincere, quando ci battiamo per liberare l'aria e la terra dai rifiuti dell'odio. Solo così il suo sacrificio non sarà vano”, ha detto ancora il sacerdote. Lutto cittadino a Ischitella – Oltre ai genitori della ragazza, ai nonni e al fratellino, sono presenti alle esequie, fra gli altri, il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, il sindaco di Ischitella, Carlo Guerra, autorità civili e militari, sacerdoti, famiglie e anche tanti bambini e ragazzi. Tantissime le persone, arrivate anche dai paesi vicini, che sono rimaste fuori dalla chiesa. A Ischitella oggi è stato proclamato il lutto cittadino mentre ieri c’è stata una fiaccolata per la ragazzina. Il corteo era aperto da uno striscione: “Nessuno muore finché vive nel cuore di chi resta”. Nicolina frequentava il secondo anno del liceo “Publio Virgilio Marone” di Vico del Gargano ed è lì che stava andando la mattina in cui ha incontrato l’uomo che poi le ha sparato in viso. Un uomo che dopo il delitto si è tolto la vita.
Un delitto di abbandono mentre tanti sapevano, scrive Enrica Simonetti il 23 Settembre 2017 su "La Gazzetta del Mezzogiorno". Il nome sembra quello della protagonista di una favola: Nicolina. Pure il paese, con 4mila anime, arroccato su una collina verde, sembra da favola. Il paradosso è che la favola è invece un horror, un ennesimo horror sbarcato nel nostro strano mondo, in cui pensiamo di sapere e di potere tutto. E invece, fino all’altro giorno, nulla conoscevamo di Nicolina e della sua stirpe, della mamma «volata» lontano, del padre assente, dei nonni ai quali era affidata, della casa-famiglia in cui aveva abitato e di tutte le vicissitudini da lei vissute nel breve tempo dei suoi 15 anni. Nulla si sa, perché nulla siamo e nulla facciamo. Non sappiamo dei fascicoli pendenti in qualche Tribunale per i minori, nulla di qualche assistente sociale che doveva avere in carico il caso. Sappiamo solo che c’è una nuova black story da consumare, divorare e buttar via. Una storia in cui tutto sembra assurdo: dal fatto che una ragazzina e il suo fratellino possano essere stati lasciati nel mezzo di un pericolo di vendetta, fino al mistero di un uomo rancoroso tranquillamente fornito di pistola. Nelle favole c’è dolore, è vero, ma qui ce ne sta troppo; nelle favole c’è meraviglia, ma esiste pure un po’ di felicità. Che qui sembra invisibile. In questa storia pugliese che ha tanto di interplanetario e nulla di esclusivamente pugliese, c’è l’ennesima beffa contro i deboli. C’è una famiglia dilaniata in una società altrettanto dilaniata: una società che perde tempo a parlare di femminicidi e di pedagogia dell’ascolto e nulla riesce a fare per fermare la mano violenta di un uomo e per sanare la mente impazzita davanti al volto aperto di Nicolina. Una ragazzina forse forte, ma indebolita dalle carenze di uno Stato che non ha potuto proteggerla nonostante fosse stata minacciata un mese fa con un coltello puntato alla pancia da chi poi le ha sparato. Una debolezza dietro l’altra: è debole un sistema sociale in cui i servizi sociali languono; è debole una famiglia che fugge ed è debole chi soccombe; è debole chi non riesce a tollerare la separazione; è debole chi adesso fa il «finto forte» insultando la madre di Nicolina su Facebook. Deboli ma violente le liti familiari che fanno da sfondo a questo caso, con le barriere di odio che serpeggiano tra le case, tra i legami, tra le incomprensioni. La vita ha le parole che può, la fiaba ha le parole che deve. Mai fiaba e vita possono coincidere, ma a Ischitella, sembra che si riproduca quel cruento delle fiabe che Kafka già ai suoi tempi intravedeva come reale. E il disagio è accorgersi che nulla cambia, nemmeno con l’avanzare dei tempi e dei diritti. Perché l’infelice fine di una ragazzina trovatasi sola contro il nemico è un fatto moderno e antico allo stesso tempo, figlio della nostra era, così apparentemente completa e così definitivamente arresa al Nulla. Possibile che nel 2017 Nicolina sia rimasta sola a combattere il deserto di una famiglia e di un mondo? Le cose che si dicono dopo un delitto purtroppo finiscono per somigliarsi tutte, un po’ come le famiglie felici-infelici citate da Tolstoj. La ritualità di queste stragi familiari è ormai terribilmente «tipica»: con l’esperto che commenta, con l’inchiesta che scava, con quella piazza provinciale che diventa l’Italia affamata di noir. Un’era fa i cronisti passavano ore davanti a queste case inondate di orrore, mendicavano una foto, un ricordo, una dichiarazione. Oggi si digita un nome sfortunato su Facebook e si «rapiscono» gli istanti di una vita, con un fiume di immagini e di sorrisi da offrire per lo «spettacolo». A Specchia come a Ischitella e come in tutti questi delitti, c’è una rosa di immagini dei tempi felici, capaci di inondare il racconto orrifico delle tragedie. E queste immagini ci arrivano e ci soffocano, spezzano il racconto, distraggono dall’obiettivo: pensate, come se Shakespeare avesse fotografato Desdemona soffocata da Otello invece di descriverla... forse quella storia non sarebbe mai stata così indimenticabile. E allora, il rischio della debordante e breve attenzione mediatica di fronte a questi orrori è quello di produrre oblìo, non memoria. Di fare casciara e non analisi. In poche parole: di continuare a ignorare Nicolina e coloro che hanno come lei una sfortunata e intensa vita. Un po’ come quelle favole onnipresenti che si sanno, si ripetono... e si dimenticano. Enrica Simonetti.
Il papà: «Giustizia per Noemi». Il padre di Lucio alza il tiro: «Lei vittima della sua famiglia», scrive Sabato 23 Settembre 2017 il "Quotidiano di Puglia”. «Voglio verità e giustizia per mia figlia Noemi»: a dirlo è Umberto Durini, il padre della sedicenne di Specchia uccisa il 3 settembre dal suo fidanzato di 17 anni che ha poi confessato l'omicidio. L'uomo si è affidato all'avvocato del foro di Perugia Walter Biscotti, già legale della mamma di Sarah Scazzi e difensore di Salvatore Parolisi, che si è recato appositamente nella città pugliese. «Umberto Durini - ha detto l'avvocato Biscotti - vuole ringraziare le forze dell'ordine e tutti quelli che hanno collaborato alle indagini. Chiede che rimanga alta l'attenzione sul caso perché ci sono punti ancora oscuri legati alla confessione del ragazzo». Secondo il legale «occorre chiarire in particolare il ruolo del padre del diciassettenne». «Sono andato ai servizi sociali, mi sono inginocchiato e ho detto: “Mi aiuti a trovare una struttura dove mio figlio possa essere curato”. Non mi hanno mai contattato. Lei era gelosa e morbosa». «Ho cercato di salvarli tutti e due: sarebbe bastato che mi avessero ascoltato». Sono alcuni dei passaggi dell'intervista, mandata in onda ieri su Retequattro, a 'Quarto Gradò, a Biagio, il padre di Lucio, il ragazzo che ha confessato di essere responsabile dell'omicidio di Noemi Durini, la ragazza di 16 anni, di Specchia, ammazzata il 3 settembre scorso. Il ragazzo è accusato di omicidio volontario. Anche il padre è indagato per sequestro di persona e concorso in occultamento di cadavere. «Sono stato ai servizi sociali per chiedere come mai questa ragazza fosse sempre fuori di casa e non fosse seguita dalla famiglia. Mi sono inginocchiato e ho detto: “Mi aiuti a trovare una struttura dove chiudere mio figlio, in modo che venga curato”. Se ne sono usciti con un "sarai contattato da un consultorio". Consultorio che non si è fatto mai vivo», ha raccontato l'uomo. «Che questa ragazza fosse pericolosa per mio figlio me ne sono accorto quasi subito, perché era gelosa e morbosa. Me ne sono accorto - continua l'uomo - sin dai primi giorni, quando veniva accompagnata da un ragazzo di Casarano molto più grande di lei». «È pericolosa questa gente qua? a venire a casa a buttare molotov. I carabinieri lo avevano già detto: «Occhio! A causa di questa ragazza Lucio frequenta persone molto adulte... erano amici loro, amici delle loro famiglie. Non è vero che questa ragazza chiedesse il permesso per uscire di casa: usciva quando voleva. Tempo fa, poi, vengo a sapere che raccoglieva soldi per comprare una pistola e ammazzarci», ha detto il padre di Lucio. «Adesso - ha concluso - siamo passati che la mia è una cattiva famiglia, che non seguivo mio figlio, e che Noemi invece era una brava ragazza. Ho pietà per lei. Per me era vittima della sua famiglia. Questa è la pura e sacrosanta verità. E quando ci sarà l'opportunità tirerò fuori vita morte e miracoli di questa famiglia. A Lucio non posso dire niente perché non ce l'ho più. Ho cercato di salvarli tutti e due: sarebbe bastato che mi avessero ascoltato».
Che stravagante e bizzarra è la coincidenza per la quale sia diventato l’avvocato del padre di Noemi l’avvocato di Parolisi e della famiglia Scazzi, ossia l’avvocato di Perugia Walter Biscotti, che oltretutto si è occupato anche del caso dell’omicidio di Meredith Kercher. Egli difendeva il condannato Rudy Guede. Per quel delitto sono stati assolti Amanda Knox e Raffaele Sollecito. Anche loro vittime dei PM di turno innamorati della loro ipotesi investigativa.
Gli avvocati Biscotti e Gentile si sono offerti alla famiglia Scazzi (a dire degli avvocati, gratuitamente) e si avvarranno della consulenza dell’ex comandante del Ris di Parma, l'ex generale Luciano Garofano. «Vogliamo essere di supporto alla Procura – ha spiegato Gentile – abbiamo incontrato il sostituto procuratore Mariano Buccoliero (dirige l’inchiesta sulla scomparsa della minore) depositando le nostre nomine.
E poi, nonostante si fosse in preda alla disperazione, che annebbia la razionalità, e si fosse consapevole che nelle situazioni di clamore mediatico tutti avrebbero approfittato per essere illuminati dai media per conseguire notorietà, la famiglia Scazzi il 21 settembre 2010 si è affidata agli avvocati Walter Biscotti e Nicodemo Gentile.
L'anomalia è che la famiglia Scazzi sceglie come difensore l'avvocato Walter Biscotti, già difensore di Rudy Guede nel processo Meredith, e coinvolto anche nel caso Marrazzo. L'avvocato risiede a Perugia. C'è da domandarsi come ha fatto la famiglia a scegliere un difensore che risiede a centinaia di chilometri, e con che criterio. Inoltre, nella fase di ricerca di una persona scomparsa, il difensore è assolutamente inutile, non essendoci procedimenti né civili né penali da affidare al legale. Guarda caso poi, il legale in questione non solo trova il tempo di recarsi personalmente ad Avetrana, ma ha anche la fortuna di trovarsi alla trasmissione "Chi l'ha visto" proprio quando in diretta mandano la notizia del ritrovamento del cadavere.
Sulla mediaticità degli avvocati, anche il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto fa dei rilievi. In riferimento al caso Sarah Scazzi a Daniele Galoppa viene contestata la sovraesposizione mediatica, a Vito Russo e Emilia Velletri anche l'accaparramento di clientela. Per Russo si aggiunge anche la violazione delle norme di correttezza e decoro. In seguito agli eventi su esposti l'avv. Russo e l'avv. Velletri hanno lasciato la difesa di Sabrina Misseri. Sicuramente, questi, non hanno l'opportunità, riservata a Galoppa, Biscotti e Gentile, (per questi la sovraesposizione mediatica mai contestata e per gli avvocati di Perugia, nemmeno l’essersi offerti “gratuitamente” per accaparrarsi la clientela), di presenziare nei talk show televisivi, non invitati da quei media poco inclini a dare spazio alle tesi difensive o a sposare la tesi dell'innocenza di Sabrina o Cosima, ovvero sentire rimostranze contro gli atteggiamenti della procura di Taranto e del GIP Martino Rosati.
Dove ci sono le telecamere, subito dopo appaiono loro. I casi più seguiti dai media sono roba loro. Non è accaparramento illecito di clientela. Sia mai. Non è come per gli avvocati tarantini Vito Russo ed Emilia Velletri. Per loro, sì, che si son mossi Procura e Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Taranto. Inoltre i legali degli Scazzi collaborano in modo “simbiotico e significativo” sia con i giornalisti, sia con i magistrati. Gli avvocati di Perugia Walter Biscotti e Nicodemo Gentile rappresentano anche Salvatore Parolisi come persona offesa nell'indagine sull'omicidio della moglie Melania Rea. Anche in questo caso non mancano di soffermarsi su un fatto: stabilire la loro verità. Gli avvocati Gentile e Biscotti hanno spiegato che con la loro nomina intendono "contribuire all'accertamento della verità". «Abbiamo incontrato il pm Umberto Monti - ha detto Biscotti, avvicinato dai cronisti ad Ascoli Piceno - offrendo massima collaborazione. La volontà di Parolisi è essere considerato parte offesa in questa vicenda, collaborando con gli investigatori, come ha già fatto finora». Intanto si è proceduto nei confronti di Parolisi come se si trattasse del vero responsabile. Sia da parte della stampa, sia da parte della procura, che pur procedendo alla perquisizione in casa di Parolisi, a questo non gli è stato indicato di nominare un legale. L'irresistibile ascesa dei due avvocati perugini alla fama nazionale. Si tratta di Valter Biscotti e Nicodemo Gentile che hanno ricevuto l'incarico di difendere Winston Manuel Reves, 41enne domestico di origine filippina che ha ammesso di aver ucciso la contessa Alberica Filo Della Torre. Un delitto che ha trovato soluzione, grazie a nuove tecniche di laboratorio, a quasi 20 anni di distanza. La contessa, infatti, fu uccisa, nella camera da letto della sua splendida villa situata all'interno del parco dell'Olgiata, a Roma, il 10 luglio 1991. Sarà un processo importante per la coppia di avvocati perugini, l'ultimo di una serie che li ha visti protagonisti. Hanno assistito la famiglia di Emanuele Petri, l'agente della Polfer, assassinato il 2 marzo 2003, sul treno Roma-Firenze, dal brigatista Mario Galesi. Hanno poi difeso Rudy Guede nel processo per il delitto di Meredith Kercher. Assistono la famiglia Scazzi dopo il delitto di Sarah, il cui corpo senza vita fu ritrovato nelle campagne intorno ad Avetrana, il 6 ottobre 2010. Infine, i due penalisti, difendono la famiglia di Brenda, il trans brasiliano trovato morto, asfissiato, nella sua modesta abitazione romana, il 20 novembre 2009. Brenda era testimone eccellente nel caso che portò alle dimissioni il governatore del Lazio, Piero Marrazzo. Infine, il solo Biscotti è stato nominato difensore di Sara Tommasi, la starlette ternana comparsa tra le ragazze che avrebbero frequentato le feste di Arcore nella villa di Silvio Berlusconi. Attaccare Sabrina Misseri considerandola responsabile del delitto di Sarah Scazzi, o definire la madre, Cosima Serrano, come fortino da espugnare, riferendosi al fatto non provato che il delitto fosse stato commesso in casa con l’apporto di tutta la famiglia, non sono il solo exploit diffamatorio del duo perugino. Sapete cosa dissero Biscotti e Gentile al processo in cui difendevano Rudy Guede? Vi riporto il passaggio di un articolo de “Il Corriere della Sera” del 25 ottobre 2008. «Chi era Meredith Kercher? Non era certo una ragazza estremamente riservata e che non si faceva avvicinare da nessuno, anzi, amava bere, assumeva delle droghe (cannabis) quando si trovava in compagnia. Aveva inoltre una vita sessuale piena, a trecentosessanta gradi, e provava attrazione non solo per il proprio fidanzato italiano».
Stavolta l'ineffabile Ghedini non se l'è sentita, scrive L’Unità. Di trash e pulp, noir e spy, in effetti, in questi anni, ne ha visto e vissuto fin troppo. E poi si vede che questa era troppo persino per lui. Così la denuncia penale che mira a svelare il complotto demo-pluto-giudaico-massonico che nel 2011 costrinse Berlusconi a lasciare palazzo Chigi e che dopo il giornalista Alan Friedman è stato svelato anche dall'ex segretario al Tesoro Usa Timothy Geithner, è stata firmata da Walter Biscotti, toga nota agli addetti ai lavori, un po' meno alla grandi masse, con bellissimo studio nel corso principale che taglia in due la città vecchia di Perugia. Dove, negli anni novanta, nacque il primo club Forza Silvio. E da dove, per l'appunto, Biscotti ha iniziato, non più giovanissimo, la scalata alla notorietà che gli è valsa, in effetti, qualche uscita nel salotto di Porta a Porta. Una veloce carrellata sui casi che portano in calce la sua firma dimostra la predilezione dell'avvocato per il trash, il pulp e il noir profondo. E' stato difensore dell'ivoriano Rudy Guede, condannato con rito abbreviato a sedici anni per l'omicidio della studentessa inglese Meredith Kercher. Si è appassionato al caso Marrazzo e ha assistito la mamma di Brenda, la transessuale testimone del caso del caso del governatore poi trovata morta in casa. Un crescendo fino ai casi di Avetrana, dove ha assistito la famiglia di Sarah Scazzi. Fino all'omicidio Parolisi dove ha assistito il marito-militare. In questo percorso, non poteva mancare il giallo dell'Olgiata: qui Biscotti difende Manuel Winston, il filippino che dopo vent'anni ha confessato di essere stato l'autore dell'omicidio rimasto irrisolto. Insomma, dove c'è Biscotti c'è il caso di cronaca nera che conta. E che fa audience. Poi sono cause difficili da vincere. Ma molto popolari. Certo, adesso la faccenda è diversa: c'è di mezzo Berlusconi, un complotto internazionale, un'associazione dal nome altisonante e altamente evocativo. L'esposto-denuncia per cui la procura di Roma ieri ha dovuto aprire il fascicolo, è infatti presentato dalla deputata azzurra Micaela Biancofiore e dalla associazione Tribunale Dreyfus. Entrambi ipotizzano i reati di attentati contro i diritti politici del cittadino e di violazione della norma che punisce le associazioni segrete (legge Anselmi). Walter Biscotti e il giornalista Arturo Diaconale (che pure firma la denuncia), affermano che è "assolutamente necessario l'individuazione degli European Officials, così come denominati dall'autore del libro (Geithner)" , e ritenuti autori delle pressioni, nel 2011, per costringere l'allora premier italiano a lasciare palazzo Chigi. Una trama straordinaria. Un complotto perfetto. “Demo-giudo-plutaico-massonico” amava dire qualcuno.
Valter Biscotti: dal processo Pecorelli al caso di Avetrana, l’intervista di Daniel Chiabolotti su “La Goccia”. L’avvocato Valter Biscotti, originario di Peschici, da anni esercita la professione nella città di Perugia. Recentemente si è occupato di casi di notevole rilievo della cronaca giudiziaria italiana: dalla difesa di Rudy Guede, accusato del delitto della studentessa inglese Meredith Kercher, all’assistenza legale fornita alla famiglia della giovane Sarah Scazzi e in ultimo a Salvatore Parolisi, vedovo di Melania Rea, la ventinovenne di Somma Vesuviana trovata uccisa il 20 aprile scorso nel bosco delle Casermette in provincia di Teramo. Nell’intervista che l’Avv. Biscotti ci ha rilasciato, invece d’investigare nei particolari più foschi degli ultimi risvolti processuali, abbiamo preferito approfondire la chiave del suo successo personale e conoscere più da vicino il legame che si instaura tra legale e assistito in processi molto delicati.
Avvocato come è riuscito ad “aggiudicarsi” dei casi di notevole rilievo della recente cronaca giudiziaria italiana?
«Da oltre venticinque anni svolgo la professione d’avvocato. I casi Kercher e Scazzi non sono i primi di una certa importanza che tratto. Verso la metà degli anni novanta ho fatto parte del collegio difensivo di Giuseppe Calò nel processo per l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli, svoltosi a Perugia; nel 2003 sono stato legale di parte civile della famiglia di Emanuele Petri (l'agente della POLFER ucciso da Mario Galesi e Desdemona Lioce esponenti delle nuove Brigate Rosse) e Massimo D’Antona, ho rappresentato la parte civile nel processo della strage di piazza della Loggia a Brescia. Assieme al collega Nicodemo Gentile mi sono occupato della difesa di Rudy Guede, processo che vedeva il giovane ivoriano accusato dell’omicidio di Meredith Kercher, suscitando grande clamore nella cronaca italiana e internazionale. Da allora ho instaurato un ottimo lavoro di collaborazione con l’avvocato Gentile: lavoriamo in sintonia e dopo il caso Kercher abbiamo assunto la difesa della mamma di Brenda, la transessuale del “caso Marrazzo”; in autunno si aprirà il processo. Attualmente ci stiamo occupando del caso di Avetrana e della difesa di Manuel Winston che ha confessato di essere l’autore dell’omicidio dell’Olgiata e di Salvatore Parolisi».
Come si comportano i clienti le prime volte che si rivolgono a voi, considerando l’attenzione mediatica posta su di loro?
«Inizialmente sono timidi nel cercarci, non sanno come approcciarsi. Tuttavia cerchiamo fin da subito di instaurare un clima disteso, cercando di far capire che siamo persone molto alla mano. Ancorché lei vede lo studio tutto ovattato e affrescato, nel quale ci troviamo durante quest’intervista, spesso accade di incontrare i miei clienti a casa loro, nella loro cucina, in un tranquillo ambiente familiare mettendoli più a loro agio. È fondamentale manifestare un segno di vicinanza in tutti i modi».
Instaurare un clima disteso tra avvocato e cliente vi aiuta nel vostro lavoro…
«…Esatto. Svolgere i colloqui in un tranquillo ambiente domestico aiuta a metterli più a loro agio. Bisogna essere vicini al proprio assistito accorciando il più possibile la distanza tra cliente e avvocato. Ovviamente poi l’avvocato deve saper interpretare il proprio ruolo in maniera professionale all’interno del processo, e dare il meglio per ottenere il massimo risultato processuale».
È stato ospite in svariate trasmissioni televisive che si occupano di cronaca giudiziaria, da “Quarto Grado” a “Porta a Porta”, da “Chi l’ha visto?” a “Matrix” come valuta l’apporto del mezzo televisivo?
«Determinati casi di cronaca per forza di cose assumono una forte visibilità mediatica, è normale che se ne parli nei programmi d’approfondimento. Quando tuttavia la trasmissione assume dei toni troppo insinuatori il cliente viene in qualche modo mal rappresentato o addirittura già giudicato dal pubblico televisivo. Ritengo che l’avvocato in queste situazioni debba prendere parte in questo “processo mediatico”. A partire dal caso di Rudy immediatamente giudicato e condannato dalla televisione, fino a Salvatore Parolisi linciato pubblicamente e processato dai media quando è soltanto il marito della povera Melania. Se il processo si fa, sempre più frequentemente in tv, l’avvocato deve rappresentare il suo cliente anche in questa situazione e le assicuro che non è una cosa semplice».
Giustizia, i Perry Mason dell’Umbria: i grandi casi mediatici visti e raccontati dagli avvocati. L'avvocato Valter Biscotti si è occupato della difesa di Rudy Guede, di Salvatore Parolisi, dei familiari di Sarah Scazzi e dei processi alle vecchie e nuove Br: "Mi fermano in giro per l'Italia e mi chiedono di salutare mamma Concetta", scrive Umberto Maiorca il 19 ottobre 2016 su “La Notizia Quotidiana”. La toga sulle spalle, a discutere davanti ai giudici di Corte d’assise, e poi davanti ad una selva di microfoni e telecamere. Una scena che l’avvocato Valter Biscotti ha vissuto molte volte, sia come difensore dell’imputato sia come rappresentante legale della parte offesa.
Da studente universitario ad avvocato “mediatico”, come hai iniziato?
«Sono avvocato da 28 anni e mi sono diviso sempre tra diritto industriale, dai tempi dell’università, e penale. Ricordo che iniziai con un paio di processi con due maestri come Stelio Zaganelli e Fabio Dean. Poi arrivò l’occasione di partecipare al processo Pecorelli, con la difesa di Calò. Sono stati cinque anni molto intensi, una settimana al mese di udienza, una sorta di master universitario sul campo con professionisti del calibro di Coppi, Naso, Oliviero, Taormina e magistrati come Cardella, Cannevale e Orzella».
Nel tempo sono arrivati altri processi importanti.
«Ho iniziato ad occuparmi di casi di omicidio, come quello di un ragazzo che aveva ucciso la madre o di un anziano che aveva assassinato la moglie. Entrambi furono assolti per incapacità. Il grande salto nel mondo dei media è arrivato con la difesa di Rudy e il processo Mez. Anche se qualche anno prima avevo iniziato ad occuparmi del delitto del soprintendente Emanuele Petri da parte delle nuove Br e avevo partecipato anche al procedimento per l’omicidio di Massimo D’Antona. Si è trattato dei primi delitti delle Br dopo tanti anni durante i quali si riteneva di aver sgominato i terroristi. Assisto ancora oggi i familiari degli uomini della scorta di Aldo Moro, trucidati in via Fani. Sono stato anche difensore di parte civile per la strage di piazza della Loggia. Tutti casi impegnativi che hanno avuto grande risalto su giornali e televisioni. Il processo a Rudy guede, però, è stato un evento mondiale e molto impegnativo. Ricordo che in occasione dell’udienza del riesame avevano montato delle torri per poter trasmettere i servizi. I giornalisti che hanno seguito il caso penso che siano stati, almeno presenti una volta, oltre 200».
Quale rapporto tra giustizia e media, tra avvocati e giornalisti?
«Devi essere capace di trattare con la stampa, perché i media hanno una rilevanza enorme nel processo, soprattutto quando si tratta di un procedimenti indiziario. In certi casi la sovraesposizione mediatica del caso può danneggiare lo svolgimento del processo e le parti coinvolte. L’avvocato, quindi, visto che è chiamato in gioco, deve giocare, nel rispetto delle regole professionali, ma deve saper usare il circo mediatico anche per bilanciare i vari elementi dell’inchiesta giudiziaria. Il “no comment” davanti ai giornalisti è un danno per il cliente. L’avvocato deve saper reagire alle notizie che provengono dalla controparte del difensore dell’imputato. La disparità di potere è rilevante, quindi a volte, bisogna impressionare l’opinione pubblica. Purtroppo mi è capitato che un magistrato si sia lasciato impressionare e abbia avuto paura di prendere decisioni conformi alle risultanze processuali».
Verità processuale e verità dei fatti, le sentenze rispecchiano l’evento?
«No. Alcuni esempi? Il caso Parolisi. È ingiusto perché le risultanze processuali non rispecchiano il tenore delle sentenze. Il caso Rudy lascia ancora tanti dubbi e ombre su quanto sia avvenuto in via della Pergola. Il caso di Sarah Scazzi è stato molto importante e seguito, forse il più mediatico, con ogni canale e ogni trasmissione che ogni settimana dedicava uno spazio. Eppure di omicidi simili ce ne sono stati tanti e ce ne sono in Italia. Dalla sentenza sappiamo tante cose, ma non emerge la verità piena, come è avvenuto l’omicidio, la dinamica resta un mistero».
Troppa visibilità danneggia il lavoro dell’avvocato?
«In casi come quelli nominati occorrono nervi saldi e e una serie di collaboratori per tutti i fronti e per controllare ogni aspetto del procedimento. Bisogna scegliere i migliori consulenti. E bisogna saper rispondere a tutti. Qualche anno fa c’erano solo “Un giorno in pretura” e “Chi l’ha visto?”, adesso ci sono almeno cinque programmi nazionali e decine di siti che fanno cronaca nera. La visibilità porta anche ad essere fermato da estranei nei posti più impensati in giro per l’Italia, tipo in autogrill, e mi dicono: Salutami Parolisi, oppure dì a Concetta, la mamma di Sarah Scazzi, che le sono vicino».
L'avvocato: «Silenzi, omissioni e complicità: come ad Avetrana», scrive Lunedì 25 Settembre 2017 "Il Quotidiano di Puglia”. Questi silenzi, queste omissioni, queste complicità: non voglio richiamare il caso Missere, ma le sensazioni e l’esperienza processuale mi dicono che bisogna ancora chiare se e quale ruolo abbia avuto la famiglia dell’indagato». Parla l’avvocato Walter Biscotti a poche ore dalla nomina ricevuta dal padre di Nomi Durini, di seguire gli sviluppi dell’inchiesta che vede indagato il fidanzato della ragazza per omicidio volontario aggravato dalla premeditazione, dalla crudeltà e dai futili motivi. Non è la prima volta che il legale di Umberto Durini affronti casi di particolare interesse mediatico: è stato l’avvocato di parte civile della madre di Sarah Scazzi (la ragazza di 15 anni fatta ritrovare morta dallo zio Michele Missere il 6 ottobre del 2010 nelle campagne di Avetrana) e l’avvocato difensore Salvatore Parolisi (il caporal maggiore condannato per l’omicidio della moglie Melania Rea del 18 aprile del 2011 a Ripe di Civitella, in provincia di Teramo).
Avvocato Biscotti, perché ritiene che vada approfondito il ruolo della famiglia?
«Le mie sono sensazioni, per ora solo sensazioni, dettate dall’intervista rilasciata al padre e dalla madre a “Chi l’ha visto”. Dico questo perché successivamente il genitore ha affermato di essere stato messo a conoscenza di tutto dal figlio la sera prima. Alla luce delle esperienza maturata in tanti processo in Corte d’Assise, non posso non pensare ad aiuti forniti dalla famiglia. So che la Procura di Lecce sta svolgendo un lavoro egregio, resto però dell’idea della necessità di scandagliare il ventaglio delle possibili responsabilità anche ai genitori. Del resto c’è un dato oggettivo: il padre è indagato per concorso in occultamento di cadavere. Non so se sia stata solo una scelta procedurale per fare perquisizioni o altro, staremo a vedere. Siamo qui anche per questo».
Se dovesse profilarsi un favoreggiamento cambierebbe qualcosa?
«No. Manca la punibilità del reato: nel nostro codice non può essere contestato ad un familiare dell’indagato».
Avvocato, alla luce della ricostruzione fatta dal ragazzo e dei primi esiti dell’autopsia, che idea si è fatto: L.M. mente?
«Ho ricevuto l’incarico poche ore fa, per questo non ho avuto possibilità di valutare direttamente i fatti. Dalle notizie diffuse dagli organi di informazione e fermandomi solo a considerazioni di carattere generale, posso dire che ci siano certamente zone d’ombra nella ricostruzione del delitto. Resta da chiarire se ci siano state delle omissioni volontarie con lo scopo di proteggere qualcuno o se l’indagato non ha saputo essere più preciso durante il primo interrogatorio».
L’autopsia sembra costituire il punto di svolta dell’inchiesta: nominerete un medico legale?
«Non ne vedo la necessità. Il professore Francesco Introna (nominato dalla madre di Noemi, ndr) è uno dei migliori medici legali in Italia. Ed ho già avuto modo di collaborare con lui».
Cerchia familiare e delitti di Puglia. Cosa unisce gli ultimi casi di cronaca con vittime ragazze belle e giovani? Scrive Giandomenico Amendola il 26 settembre 2017 su "Il Corriere della Sera". La cronaca sembra dar ragione al filosofo francese Jean Baudrillard il quale afferma che nella società contemporanea la realtà insegue l’immaginario e tende a riprodurlo. Tesi ripetuta in un suo volume dal titolo, oggi incredibilmente attuale, “Il delitto perfetto”. Perché è ai delitti di casa nostra che la citazione di Baudrillard fa pensare. Gli assassini di ragazze, belle e giovanissime, Noemi a Specchia e Nicolina ad Ischitella ieri, e Sarah Scazzi ad Avetrana prima, sembrano uscire dalle sceneggiature dei film e delle fiction televisive che raccontano le storie di piccoli paesi, perfetti visti da lontano ma che nascondono terribili segreti. Specchia, Ischitella ed Avetrana sono i più piccoli dei tanti piccoli paesi della Puglia ed anche loro come le cittadine del Midwest dei film americani nascondevano qualcosa. Quelli di Noemi, Nicolina e Sarah non sono, a ben guardare, i consueti delitti passionali, crimini consumati sull’onda del desiderio inappagato o della rabbia per il tradimento. C’è certamente anche questo ma in più appare un terzo inquietante protagonista: la famiglia di cui le ragazzine sono, almeno simbolicamente, le vittime. La zia e la cugina di Sarah ad Avetrana mentre Nicolina è la vittima della passione malata dell’ex compagno della madre. Nella vicenda di Noemi a Specchia incombe l’ombra delle famiglie in antico conflitto tra di loro. Se sia questo uno dei motivi che ha armato la mano di un ragazzo violento e border line non è dato di sapere. Riappare improvvisamente nello scenario di un Mezzogiorno, ormai considerato assolutamente modernizzato, l’antico protagonismo delle famiglie, tema tradizionale di cento ricerche e dell’interesse di autorevoli studiosi stranieri. Nel 1958, quando le nostre regioni sembravano uscire dall’arretratezza secolare, venne proposto dal politologo statunitense Edward Banfield il “familismo amorale” come tratto caratterizzante delle “Basi morali di una società arretrata” (era il titolo del suo importante volume). Le ricerche le aveva condotte vivendo in un paesino della Basilicata, ribattezzato Montegrano. Qui nulla sembrava pensabile senza dover far riferimento alla famiglia i cui valori morali erano assolutamente autoreferenziali o, detto in altri termini, centrati solo sull’interesse e sulle pulsioni dei membri del nucleo. Sono passati sessant’anni da quel libro ed il Mezzogiorno è cambiato profondamente ma, evidentemente, qualcosa del familismo amorale sembra permanere. Nei piccolissimi centri certamente ma anche nelle grandi città come mostrano eloquentemente la politica e le università dove il peso – più o meno amorale – della famiglia è ancora rilevante.
Lo sfogo del papà di Noemi: "Ho sbagliato tutto". Uno sfogo in lacrime davanti le telecamere che ha colpito gli spettatori. Il padre di Noemi: "Con lei e Lucio ho sbagliato", scrive Luca Romano, Lunedì 25/09/2017, su "Il Giornale". Il dolore non passa. Il padre di Noemi Durini fa ancora i conti con quanto accaduto, con quella mano assassina che gli ha portato via una figlia. E in un'intervista a Mattino Cinque il padre della 16 uccisa a Specchia nel Leccese si sfoga e accusa se stesso, colpevole a suo dire, di non aver evitato il peggio per la ragazzina: "Mia figlia era una ragazza dolce e spensierata prima di incontrare quel ragazzo. Il loro era un amore malato. Non ho mai visto un livido sul suo corpo ma sapevo che le faceva del male e quando l’ha capito pure lei è rinata”. Poi svela alcuni retroscena sul passato che hanno una sorta di sapore che sa di rimpianto: “Ricordo ancora quando l’ho portata l’ultima volta al mare e le ho montato la tenda per passare lì la serata. Sono stato uno stupido. Mi ero illuso di poterli aiutare entrambi, e invece ho sbagliato tutto. Mi sento terribilmente in colpa – ha ammesso in lacrime il signor Umberto – potevo fare molto di più per la mia piccola, e invece ho sbagliato”. Il padre della ragazza dunque si sente in colpa per non aver fatto abbastanza per separare quell'unione tra i due ragazzi che infine è costata la vita a Noemi. Un dolore immenso per un padre che adesso prova a cercare delle risposte a domande che forse non ne hanno.
Elisabetta: “Il fidanzato di Noemi mi ha aggredita”, scrive il 25 settembre 2015 Tgcom 24. A Mattino Cinque, parla l’amica di Noemi proprietaria dell’auto distrutta dal ragazzo. Elisabetta, amica di Noemi nonché la proprietaria dell’auto distrutta dal 17enne reoconfesso, racconta in esclusiva ai microfoni di Mattino Cinque i momenti concitati della lite con il fidanzato della giovane di Specchia. “Ho provato a difendere il papà di Noemi dopo che i due stavano discutendo animatamente. Il 17enne alle domande di Umberto ha reagito con un pugno, e così sono intervenuta io. Poco dopo però il giovane ha perso le staffe e ha colpito la mia macchina con una sedia di un bar lì vicino”. Le immagini mostrano il 17enne che distrugge i vetri della Nissan Micra di Elisabetta. “Poi mi ha inseguita – ha aggiunto l’amica di Noemi - per quasi 200 metri urlando “dov’è il papà di Noemi, portatemelo qui”. Stava per raggiungermi, ma per fortuna sono arrivati i carabinieri. Ho avuto paura”.
Noemi: Lucio solo sul luogo del delitto. Telecamera riprende la 500 entrare in uliveto, unica auto in zona, scrive "L'Ansa" il 26 settembre 2017. Spunta un video che confermerebbe che Lucio, il 17enne reo confesso dell'omicidio della fidanzata Noemi Durini, avrebbe agito da solo la notte del delitto. A fornirlo la telecamera di sicurezza di una villa che si affaccia lungo via Enea, il proseguimento della provinciale che da Castrignano del Capo conduce a Santa Maria Leuca, che si affaccia proprio sull'ingresso dell'uliveto dove é stato trovato il cadavere della sedicenne di Specchia il 13 settembre, dieci giorni dopo la scomparsa e il delitto. L'apparecchio riprende poco prima dell'alba del 3 settembre la Fiat 500 con a bordo verosimilmente i due fidanzati, arrivare sul posto e poi, dopo un po', andare via. Da quel terreno quella notte sarà l'unica auto ad entrare ed uscire. L'utilitaria guidata da Lucio viene ripresa la notte del delitto da tutte le telecamere posizionate lungo il tragitto percorso, fino al rientro a Montesardo di Alessano, dove vive Lucio, poco dopo le 7. Il diciassettenne, anche in questo caso, è da solo.
ANSA 19 settembre 2017. L’autopsia compiuta sul corpo in avanzato stato di decomposizione di Noemi Durini non ha finora fornito elementi certi per stabilire le cause della morte della sedicenne, ma i medici legali hanno “forti sospetti” su alcune lesioni presenti tra il collo e la testa della giovane. Il fidanzato di Noemi, detenuto per l’omicidio, ha detto di aver ucciso la ragazza con una coltellata al collo. Noemi sarebbe stata uccisa il giorno della scomparsa, il 3 settembre. L’accertamento sulle cause della morte è abbastanza difficile. Il cadavere di Noemi era molto malmesso, quasi pre-mummificato, e vi erano numerose lesioni su diverse parti del corpo provocate da larve. Il medico legale nominato dalla Procura, Roberto Vaglio, e il consulente della famiglia, il prof. Francesco Introna, hanno deciso di compiere esami istologici e cito-chimici sui tessuti prelevati dal cadavere e hanno disposto l’esame delle larve per accertare l’epoca della morte. I funerali della ragazza si dovrebbero tenere domani alle 16 a Specchia.
L’autopsia conferma: Noemi è stata prima picchiata, poi accoltellata. Rinvenuta nel cuoio capelluto della ragazza la punta del coltello che l’ha colpita. Sul cadavere invece non sono presenti segni di pietrate. Per l’assassino reo confesso, ora rinchiuso in carcere in Sardegna, l’accusa è di omicidio premeditato, scrive "Il Corriere della Sera" il 22 settembre 2017. Prima di essere uccisa Noemi Durini è stata picchiata, probabilmente a mani nude, e successivamente è stata accoltellata al capo e al collo. Lo ha stabilito l’autopsia. I medici legali hanno riscontrato sul cadavere della sedicenne «lesioni contusive multiple da picchiamento al capo e agli arti e lesioni da arma bianca al capo e collo». Come era già emerso ieri, nel cuoio capelluto della sedicenne di Specchia (Lecce) è stata trovata la punta del coltello utilizzata per il ferimento ed è confermata la circostanza, già emersa, che sul cadavere della ragazzina non sono presenti segni di pietrate. L’autopsia è stata compiuta tre giorni fa dal medico legale nominato dalla Procura, Roberto Vaglio, e dal consulente della famiglia della vittima, il medico legale barese Francesco Introna. L’omicida reo confesso, il fidanzato 17enne della ragazzina, è attualmente detenuto in Sardegna con l’accusa di omicidio premeditato. La lama curva, più larga alla base per finire all’estremità ben appuntita, meno lunga del palmo di una mano, col manico di plastica invece di lunghezza maggiore: è la descrizione del coltello da cucina, di quelli usati per sbucciare frutta e ortaggi, che il 17enne fidanzato della sedicenne Noemi avrebbe usato per colpire e uccidere la sua fidanzata. È stato lo stesso giovane reo confesso, attualmente detenuto presso l’Istituto penale per i minorenni di Quartucciu (Cagliari), in Sardegna, a disegnarlo agli inquirenti su un foglio di carta, durante l’interrogatorio del 13 settembre scorso, affermando di non ricordarsi dove lo avrebbe occultato. Il disegno compare tra gli atti acquisiti dagli investigatori. Il 17enne, nel corso dell’interrogatorio, ha riferito di avere avvolto il coltello nella maglietta che indossava e di averlo occultato in una buca fatta nella terra in una zona di campagna in agro di Castrignano del Capo (Lecce), ma non vicino al luogo in cui è avvenuto il delitto. In ogni caso il ragazzo non è stato in grado di indicare il luogo perché in quei momenti era molto agitato. Noemi Durini era scomparsa il 3 settembre scorso ed il suo corpo senza vita è stato ritrovato dieci giorni dopo, sepolto parzialmente sotto un cumulo di pietre in aperta campagna, non lontano da Santa Maria di Leuca, nel comune di Castrignano del Capo. Secondo le dichiarazioni dello stesso ragazzo, sarebbe stata Noemi a portare con sé il coltello la mattina del 3 settembre, per mettere in atto il proposito di uccidere i genitori del ragazzo. Dopo l’esame autoptico, eseguito dal medico legale Roberto Vaglio, la salma di Noemi Durini è stata restituita alla famiglia, e mercoledì scorso, a Specchia, si sono svolti i funerali.
Noemi, l'autopsia non scioglie i dubbi: «Lesioni a collo e testa», scrive il 19 Settembre 2017 "La Gazzetta del Mezzogiorno". L’autopsia non ha fornito elementi certi per stabilire le cause della morte di Noemi Durini, ma i medici legali hanno «forti sospetti» su alcune lesioni presenti tra il collo e la testa della sedicenne. Il fidanzato di Noemi, detenuto per omicidio premeditato, ha confessato di aver ucciso la ragazza con una coltellata al collo: se gli ulteriori accertamenti medico legali dovessero confermare questi sospetti, è probabile che Lucio abbia detto la verità sulle modalità del delitto. Resta da accertare, invece, quale sia stata l’arma utilizzata e se ci sono stati eventuali complici che abbiano aiutato il minorenne a nascondere il corpo. La ragazza - stando ai primi accertamenti - sarebbe stata uccisa il giorno della scomparsa, il 3 settembre, dieci giorni prima il ritrovamento del cadavere sotto una catasta di sassi nelle campagne di Castrignano del Capo. Fu Lucio a portare i carabinieri sul luogo della sepoltura e a dire: "L'ho uccisa io". L’accertamento sulle cause della morte della sedicenne è abbastanza difficile. Il cadavere è molto malmesso, quasi pre-mummificato, e vi sono numerose lesioni su diverse parti del corpo provocate dalle larve. La difficoltà di stabilire le cause della morte nascono proprio da queste lesioni: bisogna capire quali sono quelle inferte dall’assassino e quali quelle provocate dalla larve. Per questo motivo, il medico legale nominato dalla Procura, Roberto Vaglio, e il consulente della famiglia della vittima, Francesco Introna, hanno deciso di compiere esami istologici e cito-chimici sui tessuti prelevati dal cadavere e hanno disposto l'esame delle larve per accertare con esattezza il giorno e l'ora della morte. L’autopsia ha confermato anche quando emerso nei giorni scorsi: la Tac compiuta sul cadavere non ha rilevato fratture né sul capo né altrove. Da qui la ricerca delle cause della morte tra le tante lesioni presenti sul cadavere. All’autopsia erano presenti anche il procuratore per i minorenni Maria Cristina Rizzo e il pm Anna Carbonara. Intanto, la tensione tra le famiglie di Lucio e Noemi resta altissima. I sindaci di Alessano e di Specchia, Francesca Torsello e Rocco Pagliara, chiedono alle loro comunità «di vivere i sentimenti di sgomento e di dolore per l’accaduto con doveroso rispetto». «Ora è giusto - concludono - che la giustizia e le istituzioni operino in un clima sereno, che consenta di giungere alla verità dei fatti, nella convinzione che qualsiasi atto di ritorsione privata e di eccessiva spettacolarizzazione mediatica dell’accaduto danneggino il lavoro degli inquirenti». Si dovrebbero tenere domani pomeriggio, nella chiesa di Specchia, i funerali di Noemi Durini. Il sindaco di Specchia, Rocco Pagliara, si è recato in serata all’ospedale Vito Fazzi di Lecce dove si è tenuta l’autopsia sul corpo della ragazza per firmare alcune pratiche relative al rilascio della salma. A quanto si è saputo, il corpo della ragazza dovrebbe essere restituito alla famiglia già nelle prossime ore. La bara sarà trasportata in via Madonna del Passo, a Specchia, nell’abitazione dove Noemi abitava con la madre mentre domani mattina sarà trasferita presso la camera ardente allestita nel centro “Catsda” che nei giorni della scomparsa della sedicenne aveva funzionato come centro di coordinamento delle ricerche. Alle 15 la salma sarà portata in chiesa e alle 16 si terranno i funerali.
Noemi, dopo il delitto il fidanzato avrebbe compiuto un furto: le immagini delle telecamere. La trasmissione “Quarto Grado” mostra due frame delle immagini riprese dalle telecamere all’interno del negozio. Il diciassette reo confesso dell’omicidio di Noemi Durini avrebbe rubato merce dal valore di pochi euro qualche ora dopo aver ucciso la fidanzata, scrive il 22 settembre 2017 "Fan Page". Prima avrebbe picchiato e accoltellato la sua fidanzata Noemi Durini uccidendola e poi, poco dopo, il ragazzo di diciassette anni ora in carcere con l’accusa di omicidio premeditato avrebbe anche compiuto un furto in un emporio gestito da cittadini di origini cinesi. Lo rivela la trasmissione televisiva di Rete4 “Quarto Grado”, che nella puntata di questa sera ha fornito degli aggiornamenti sulla tragica storia della sedicenne di Specchia (Lecce) uccisa lo scorso 3 settembre. Lucio, re confesso dell’omicidio di Noemi, nel negozio dei cinesi avrebbe rubato due penne di tipo laser, del valore complessivo di tre euro. "Quarto Grado" ha mostrato due frame delle immagini riprese dalle telecamere all’interno del negozio. La rapina sarebbe avvenuta poco dopo le 18.15 del 3 settembre, quindi appunto a poche ore dalla scomparsa e dall’omicidio della adolescente pugliese. Il coltello disegnato dal fidanzato di Noemi – L’inviato della trasmissione Remo Croci ha anche riferito che il ragazzo arrestato, durante l’interrogatorio nella caserma di Specchia in cui ha ammesso di essere l'autore del delitto, ha disegnato l’arma usata per uccidere Noemi. Da quanto emerso, si tratterebbe di un coltello a serramanico che il diciassettenne portava spesso con sé. L’arma avrebbe un bottone che dà lo scatto per l’uscita della lama. Il disegno è stato realizzato su un foglio che poi è stato consegnato agli inquirenti. Il ragazzo avrebbe spiegato di non ricordare il luogo in cui ha nascosto l’arma che per ora non è stata ancora ritrovata. Sicuramente, secondo quanto emerso dall’autopsia effettuata sul cadavere della giovane vittima, l’assassino ha usato un coltello per uccidere. I medici legali hanno infatti riscontrato sul cadavere di Noemi “lesioni contusive multiple da picchiamento al capo e agli arti e lesioni da arma bianca al capo e collo”. Nel cuoio capelluto della ragazzina è stata rinvenuta anche la punta del coltello.
Omicidio Noemi: il ruolo dell’amico Fausto al centro dell’inchiesta, ecco perché, scrive sabato 23/09/2017 Michela Becciu su "Urban Post". L’uomo è stato chiamato in causa dal 17enne reo confesso, che lo accusa di essere stato assoldato dalla vittima per sterminare la sua famiglia. Omicidio Noemi Durini, a Quarto Grado nella puntata del 22 settembre un lungo approfondimento sul delitto di Specchia. Si è parlato, tra le altre cose, di un uomo adulto cui la giovane vittima era legata. Fausto, chiamato in casa dall’assassino reo confesso, secondo cui sarebbe stato assoldato da Noemi per uccidere i suoi genitori che osteggiavano la sua relazione con la ragazza. Remo Croci di Quarto Grado ha intervistato Fausto, che ha rimandato al mittente ogni accusa: “Noemi era legata ad Elisabetta, la figlia dell’amica mia. Lei mi voleva bene, mi chiama papà. Tra noi ci sono stati sempre dei rapporti alla luce del sole”, ha detto. “La Noemi non ha mai fatto uso di droga, che io sappia si limitava a cercare erba, cose così… Ed io ero contrario quando lei e Lucio fumavano le canne, ma lui mi rispondeva che non c’era problema, che fumava spesso l’hashish insieme a suo padre”. Fausto delinea il rapporto conflittuale fra Lucio e suo padre: “Aveva una grande rabbia contro suo padre, una volta mi raccontò che lo picchiò con una pala in testa … Dopo i TSO Lucio era cambiato, sembrava intontito. Dopo l’ultimo, poi, sembra un robot, aveva questi occhi da demone … un demone”. Nega di aver assoldato qualcuno, su richiesta di Noemi, per sterminare la famiglia di Lucio, come invece asserito agli inquirenti dal ragazzo e dai suoi genitori, che lo hanno accusato di ciò di fronte alle telecamere di Chi l’ha visto? – “Assolutamente no, non ho mai fatto una cosa del genere” – ed ammette soltanto di avere sferrato due cazzotti a Biagio, padre del 17enne reo confesso: “Sì è vero, il giorno del ritrovamento di Noemi (13 settembre ndr), erano le 13:30 e l’ho visto fuori dal bar con occhiali e cellulare, era baldanzoso … così ho fermato lo scooter e gli ho dato due cazzotti. Mi hanno fermato, ma io volevo mandarlo all’ospedale … ho i miei dubbi su di lui”. Anche Fausto dunque, così come il padre di Noemi, sospetta che il padre Lucio sia coinvolto nell’omicidio.
«Noemi non mi chiese aiuto per uccidere i genitori di lui», scrive Alessandro Cellini su "Il Quotidiano di Puglia" Giovedì 28 Settembre 2017. Era stato tirato in ballo dal 17enne reo confesso dell’omicidio di Noemi e dai suoi genitori: secondo loro, avrebbe dovuto procurare alla ragazza un’arma con cui ucciderli. Ora Fausto Nicolì, 49enne di Patù, vuole giustizia. Non gli va giù quella ricostruzione (che anche gli investigatori ritengono poco credibile) che lo dipinge come un complice nel progetto di un duplice omicidio. E così si è rivolto alla giustizia: assistito dall’avvocato Luca Puce, Nicolì ha querelato il giovane e i suoi genitori rispettivamente per i reati di calunnia e di diffamazione. L’uomo, nell’atto depositato sia presso la Procura ordinaria che presso quella peri minorenni, ripercorre tutta la vicenda che lo ha visto, suo malgrado, protagonista. Spiega di aver conosciuto entrambi i ragazzi «lo scorso anno, per caso in un bar di Montesardo. Sebbene piuttosto ampia fosse la differenza di età tra noi, accadeva spesso e volentieri di frequentarci anche insieme ad altri giovani». Poi le cose precipitano: la scomparsa di Noemi, il 3 settembre, le indagini, le tensioni in paese e le prime dicerie che corrono di bocca in bocca. Fino alla confessione dell’omicidio, avvenuta dieci giorni dopo, e a quella ricostruzione fornita prima ai carabinieri da L.M. e poi ale telecamere di diverse trasmissioni televisive dai genitori. «Da circa due mesi ho saputo che Noemi Durini, insieme a Fausto Nicolì, avevano deciso di comprare una pistola con cui ammazzare la mia famiglia»: questo ha dichiarato il giovane durante l’interrogatorio. E poi quelle frasi della mamma di lui: «Voleva ammazzare me, mio marito e mia figlia. Aveva raccolto i soldi, la signorina, per darli a Fausto Nicolì di Patù». Troppo, insomma. Accuse insopportabili. Tanto più che lo stesso Nicolì scrive a chiare lettere nella querela: «Il mio coinvolgimento in un presunto progetto di Noemi di uccidere i suoi genitori è del tutto falso». Quando il 49enne viene a conoscenza di queste accuse, non riesce a credere ai suoi occhi e alle sue orecchie: «Sono rimasto letteralmente basito. Conoscevo sì, per sommi capi, di accuse pesanti rivolte al mio indirizzo dal ragazzo, ma mai avrei potuto ipotizzare che costui per difendersi potesse giungere a tanto; ad infangare il mio nome, sebbene io gli sia sempre stato amico e l’abbia anche sempre difeso, tirandomi dentro ad una storia di cui sono, viceversa, mero spettatore e, ancor più, a demolire l’immagine della sua fidanzata, che lui sosteneva di amare tanto». Da qui, dunque, la decisione di querelare sia il ragazzo che i suoi genitori. Un ulteriore tassello in una storia, quella dell’omicidio di Noemi Durini, 16enne di Specchia, che per alcuni versi appare ormai chiara; e per altri - ad esempio sul fronte delle indagini sull’arma del delitto, che ancora non si trova - quanto mai fumosa.
Noemi, è il giorno del funerale. In centinaia per l’addio alla 15enne. L’autopsia: «lesioni provocate da oggetti diversi, ma non da colpi di pietra. L’assassino reo confesso è stato trasferito nel carcere minorile di Cagliari, scrive il 20 settembre 2017 "Il Corriere della Sera". Le «lesioni multiple» rilevate durante l’autopsia compiuta sul collo e sulla testa di Noemi Durini sono state «indotte da mezzi diversi». Quali siano questi mezzi, al momento non è certo perché il corpo è fortemente interessato dall’azione demolitiva delle larve degli insetti. Saranno quindi necessari esami istologici sui tessuti. Sul corpo della 16 enne di Specchia, uccisa dal fidanzato, non sono presenti segni di colpi di pietra. I medici legali sono riusciti a ricostruire quanto è avvenuto il 3 settembre scorso, giorno della scomparsa e dell’uccisione della giovane. Sulla ricostruzione dei fatti, la procura di Lecce ha imposto il riserbo. Durante l'autopsia sono stati anche eseguiti tamponi che saranno inviati al Ris di Roma. L’accertamento è stato disposto al fine di procedere a confronti con il dna di persone che potrebbero aver avuto un contatto con la vittima o anche solo con il suo cadavere. Materiale per procedere a questo confronto sarebbe già in possesso degli investigatori. Per questo motivo la famiglia di Noemi, oltre al medico legale di fiducia che ha partecipato all'autopsia (Francesco Introna) ha nominato consulente la genetista forense romana Marina Baldi. Su eventuali complici che possano aver aiutato Lucio, il fidanzato 17enne e assassino reo-confesso della ragazza, la Procura ha indagato formalmente per sequestro di persona e occultamento di cadavere il padre di Lucio a casa del quale, nei giorni scorsi, i Ris hanno compiuto una minuziosa perquisizione.
I funerali di Noemi. La bara bianca della 15enne è stata trasportata a spalla tra due ali di folla e accompagnata da un lungo applauso commosso fino alla nella chiesa parrocchiale di Santa Maria Vergine di Specchia, dove sta per iniziare la cerimonia funebre. Il feretro è stato vegliato nella camera ardente, era preceduto da una grande foto di Noemi e seguito dalla famiglia della giovane, mamma, padre e due sorelline. La chiesa è gremita e moltissima gente è rimasta fuori. Alla cerimonia, presieduta dal vescovo, Vito Angiuli, partecipa anche il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano.
L’omelia. «Non rifugiatevi nella solitudine del vostro mondo, ma lasciateci intravvedere l'immenso desiderio di bene che alberga dentro di voi. Affrontate con coraggio la vita, non scoraggiatevi di fronte alle difficoltà». È uno dei passaggi dell'omelia di monsignor Vito Angiuli, vescovo di Ugento, al funerale di Noemi. Operatori tv e fotografi sono rimasti fuori, e nel piazzale antistante la chiesa un altoparlante ha diffuso il rito funebre alle tante persone che non sono riuscite ad entrare. «L'uccisione di una donna si ripresenta, nel nostro tempo, con sempre maggiore frequenza - ha detto ancora il vescovo - Cambiano scenari, motivazioni, età e condizioni sociali, ma efferatezza, crudeltà e ferocia sono simili. Cosa sta accadendo alla nostra società? perché, nonostante il tanto parlare, la donna non è ancora rispettata? Perché sempre più spesso i giovani si sentono soli e, non trovano chi ha tempo da dedicare a loro per ascoltarli e orientarli?». Cara Noemi, cercavi l’amore, hai trovato la morte ma Dio ti ridona la vita». Con queste parole monsignor Angiuli, ha chiuso l’omelia.
La mamma di Noemi: «Non voglio odio». «Non voglio odio, non odiate, perché l'odio porta solo violenza». È l'appello che la mamma di Noemi Durini ha rivolto ai giovani parlando dall'altare a conclusione della cerimonia funebre per la figlia uccisa dal suo fidanzato. «Vi chiedo - ha aggiunto - se avete problemi, venite a casa di Noemi e parlate, la porta sarà sempre aperta per ascoltarvi». Alla fine della cerimonia ci sono stati altri applausi e palloncini bianchi sono stati fatti volare sulle note della canzone «Vietato morire» di Ermal Meta, hanno accompagnato l'uscita della bara bianca di Noemi dalla chiesa parrocchiale di Specchia. Il feretro era portato a spalla da personale della protezione civile che nei giorni corsi ha partecipato alle ricerche della ragazza, quando ancora si sperava che fosse viva.All'uscita della chiesa, il corteo si è diretto verso la casa di Noemi per una breve sosta di raccoglimento. Poi si è mosso nuovamente verso il cimitero dove domani avverrà la tumulazione.
Lucio è a Cagliari. Intanto, il diciassettenne è stato trasferito dall’istituto minorile penale di Bari a quello di Quartucciu, in provincia di Cagliari. Nel carcere sardo il giovane sarà anche sottoposto a cure mediche. Intanto, l’insegnante Agnese Maisto, amica della mamma di Noemi, ha lanciato un appello a raccogliere fondi per sostenere le spese processuali della famiglia Durini. E anche per avviare la costruzione di un centro antiviolenza.
Noemi, l'appello della madre ai funerali: "Giovani, l'odio porta soltanto violenza". Centinaia di persone hanno partecipato in Salento al funerale della ragazza uccisa dal fidanzato 17enne. L'omelia di monsignor Angiuli contro la violenza sulle donne, scrive Chiara Spagnolo il 20 settembre 2017 su "La Repubblica". "Non voglio odio. Non odiate, perché l'odio porta soltanto violenza". E' l'appello che la mamma di Noemi Durini ha rivolto ai giovani parlando dall'altare a conclusione della cerimonia funebre per la figlia sedicenne uccisa dal suo fidanzato. "Mia figlia è morta, ma ha vinto lo stesso perché lei non provava odio - ha aggiunto - A voi ragazzi ora chiedo: se avete problemi, venite a casa di Noemi e parlate. La porta sarà sempre aperta per ascoltarvi". La messa è stata celebrata dal vescovo della diocesi di Ugento-Santa Maria di Leuca, monsignor Vito Angiuli, il quale ha lanciato un appello dall'altare: "Ciò che è accaduto a vostra figlia e alla vostra famiglia potrebbe accadere ad altre ragazze e ad altre famiglie: Noemi cercava l'amore e ha trovato la morte". Migliaia di persone hanno partecipato alla cerimonia funebre a Specchia: fra loro anche il governatore Michele Emiliano. Nel piccolo paese del Salento è stato un altro giorno segnato dal dolore. Prima la veglia funebre in casa della ragazza, poi la camera ardente allestita nel centro Capsda in cui fino a sette giorni fa sono state coordinate le ricerche. Le lacrime delle amiche, i ricordi spezzati dal pianto, gli abbracci alla mamma Imma e alla sorella Benedetta, per ore seduta accanto alla bara bianca. C'era anche il padre della vittima, Umberto Durini, che nei giorni scorsi aveva lanciato accuse durissime, ipotizzando il coinvolgimento nell'omicidio del padre del fidanzato della figlia, indagato per occultamento di cadavere. Al ragazzo (arrestato il 13 settembre e trasferito nel carcere minorile di Quartucciu a Cagliari, dopo alcuni giorni trascorsi a Bari) vengono contestati i reati di omicidio premeditato, aggravato dalla crudeltà e dai futili motivi, occultamento di cadavere e porto di oggetti atti ad offendere fuori dalla sua abitazione. L'autopsia non ha fornito risposte definitive sul decesso ma sul collo e sulla testa della ragazza sono state riscontrate "lesioni multiple" probabilmente prodotte da più armi. E se pure l'intera comunità di Specchia è stata coinvolta prima nelle ricerche della ragazza (scomparsa il 3 settembre e il cui corpo è stato trovato il 13 vicino Leuca grazie alla confessione del fidanzato) e poi nell'inchiesta (molte le persone interrogate), in paese c'è stato spazio soltanto per il dolore. "Sappiamo che in un momento tragico come questo è difficile tenere a freno il rancore e l’amarezza- ha detto nell'omelia monsignor Angiuli - Il lutto può generare torpore e stordimento. E' possibile, forse, nutrire sentimenti di astio e di risentimento nei riguardi di chi ha portata via troppo presto vostra figlia. È un evento destabilizzante e devastante. Vanno in frantumi il futuro, i sogni, i progetti. Muore una parte della vostra vita". Ma proprio in questo momento di dolore lacerante, il vescovo ha rinnovato la vicinanza della comunità alla famiglia. Durini. E don Tonino De Giorgi, parroco di Specchia, ha ribadito la necessità di "affidare agli inquirenti la ricerca della verità", invitando i testimoni "a dire tutta la verità". Dell'ansia di giustizia del piccolo paese salentino ha parlato anche il sindaco Rocco Pagliara al termine della celebrazione funebre: "La morte di Noemi ci ha lasciato la responsabilità di chiedere giustizia e di non permettere più che una donna subisca un'azione violenta. Per questo esorto tutte le ragazze ad aprire gli occhi, a essere vigili, a non accettare nemmeno il primo schiaffo o la violenza verbale, che uccide una donna rendendola fragile". Il primo cittadino ha poi ammesso che una diversa attenzione da parte di tutte le istituzioni avrebbe potuto salvare la vita della ragazza: "Non abbiamo capito e non siamo intervenuti quando avremmo potuto. Perdonaci, Noemi, se ti abbiamo lasciata sola". Per lei, per la sedicenne che le amiche durante la preghiera hanno ricordato come "una ragazza solare", "grintosa e un po' ribelle per celare le tue insicurezze", all'uscita della bara bianca dalla chiesa madre sono stati esposti striscioni e lanciati in volo palloncini bianchi. Un lungo applauso ha accolto il passaggio tra migliaia di persone, mentre il coro intonava la canzone Vietato morire di Ermal Meta. Quella che a Noemi piaceva tanto e mai avrebbe pensato sarebbe stata suonata al suo funerale.
Camera ardente a Specchia alle 16 i funerali di Noemi, scrive il 20 Settembre 2017 "La Gazzetta del Mezzogiorno". Disperazione, strazio di una intera comunità, dolore, incredulità, e tanta rabbia, ma l'odio no. E’ stata la mamma di Noemi a tentare di tenere fuori della chiesa di Specchia, gremita per i funerali di sua figlia uccisa dal fidanzato, il sentimento più distruttivo che si possa provare dinanzi al feretro bianco di una sedicenne. Lo ha fatto dall’altare rivolgendosi ai giovani dopo giorni di accuse e tensioni incrociate tra le famiglie coinvolte nella vicenda: «Non voglio odio - ha detto - perché l’odio porta solo violenza». «Vi chiedo - ha aggiunto - se avete problemi, venite a casa di Noemi e parlate, la porta sarà sempre aperta per ascoltarvi». Parole che hanno fatto esplodere la commozione trattenuta fino ad allora a stento nella chiesa e sul sagrato dove centinaia di persone si sono fermate non riuscendo ad entrare. E che hanno rilanciato l’appello rivolto dal vescovo di Ugento, mons. Vito Angiuli, che nella omelia si è rivolto anche lui ai giovani invitandoli a «non rifugiarsi nella solitudine del loro mondo, ma ad aprire i loro cuori e confidarsi». Un appello diretto al mondo di adolescenti in cui è maturata questa tragedia e a Lucio, il diciassettenne che il 13 settembre scorso, dopo dieci giorni di ricerche, ha confessato di avere ucciso Noemi e di averla nascosta sotto una catasta di pietre in campagna. «Noemi, cercavi l’amore e hai trovato la morte», ha detto il vescovo, esprimendo comprensione per lo strazio della famiglia ma invitandola a «tenere a freno rancore e amarezza, nutrendo sentimenti di astio e risentimento nei riguardi di chi ha portato via troppo presto vostra figlia». Mons. Angiuli si è anche interrogato sulle cause che hanno portato a questa tragedia e ha invitato tutti a riflettere «perché - ha detto - ciò che è accaduto a Noemi potrebbe accadere ad altre ragazze e ad altre famiglie. Anzi, accade sempre più spesso». All’ingresso e all’uscita dalla chiesa ali di folla hanno accompagnato con applausi il passaggio della bara bianca di Noemi. L’ultimo corteo, all’uscita dalla chiesa, è stato preceduto dalle note della canzone di Ermal Meta 'Vietato Morire' e dal lancio di palloncini bianchi. La fine del funerale e la tumulazione, che avverrà domani, non mettono la parola fine sulla vicenda perché, dal punto di vista investigativo sono ancora molti i quesiti da chiarire. L'autopsia, infatti, eseguita ieri, non ha chiarito del tutto le modalità dell’uccisione di Noemi accertando comunque che la morte è stata provocata da lesioni multiple sul collo e sulla testa provocate da oggetti di varia natura. Non si sa ancora quale sia l’arma usata e questo è importante per capire se il presunto assassino abbia detto la verità quando ha confessato di avere accoltellato la ragazza e di avere agito da solo. Il coltello non è stato trovato, e gli investigatori sospettano che qualcuno lo abbia aiutato. Per questo è indagato anche il padre del ragazzo, accusato al momento di sequestro di persona e occultamento di cadavere. Più chiarezza arriverà dagli esiti di altri esami e dalla comparazione di eventuali tracce di Dna di altre persone che potrebbero essere entrate in contatto con la ragazza primo o dopo la morte. Oggi, mentre Lucio veniva trasferito dall’Istituto minorile penale di Bari a quello di Quartucciu (Cagliari) dove sarà anche sottoposto a cure mediche, a Specchia la comunità sconvolta tentava di reagire: un gruppo di cittadini ha avviato una raccolta fondi per creare un centro anti-violenza e di aiuto alle persone che vivono disagi e difficoltà. A rappresentarli è Agnese Maisto, una delle insegnati di Noemi. (Di Paola Laforgia, ANSA)
Omicidio Noemi, il padre di Lucio in diretta a Quarto Grado: “Noemi vittima delle sue amicizie”, scrive Filomena Procopio il 7 ottobre 2017 su "Ultime Notizie Flash". Nella puntata di Quarto Grado in onda il 6 ottobre 2017 è stato trattato ancora una volta, un tema delicato, quello dell’omicidio di Noemi Durini, la sedicenne di Specchia uccisa dal suo fidanzato Lucio, diciassettenne di Alessano. Come sempre, anche in questa occasione, l’inviata del programma di Rete 4 era davanti la casa dei genitori di Lucio in diretta per raccontare le ultime notizie sul caso. Dopo qualche minuto, chiede di poter intervenire anche il padre di Lucio, il signor Biagio, che vuole precisare alcune cose in diretta. L’uomo spiega a Nuzzi, correggendolo, che i famosi cellulari “presi” da suo figlio, sono stati riconsegnati ai Carabinieri da lui, a dimostrazione del fatto che in questa vicenda ha sempre voluto collaborare e non ha mai nascosto quello che suo figlio faceva. Il conduttore ha poi chiesto al signor Biagio quali siano le responsabilità in questa storia, delle famiglie. La sua risposta: Io credo che le famiglie non abbiano responsabilità in questa storia, soltanto che magari qualcosa è sfuggita di mano, certamente le responsabilità, secondo me vanno cercate nelle amicizie di queste ragazze, io credo, mi posso sbagliare ma non credo. Queste le parole del padre di Lucio che ancora una volta ribadisce il suo punto di vista. Il conduttore gli chiede poi se abbia una parola per Noemi, sperando di ascoltare magari, finalmente, qualche parola d’affetto. L’uomo risponde con queste dichiarazioni: Una parola per Noemi, per me è una vittima, lo è sempre stata, è una vittima delle sue amicizie e di qualcuno che non ha fatto il suo dovere. Mi ascolti signor Nuzzi, mio figlio viveva a casa mia, io ho cercato di fare il meglio. Io penso che nella famiglia di lei debba trovare le risposte. Qualcuno deve mordersi dove non riesce. Quella ragazza andava curata. Dopo le parole del padre di Lucio ha deciso di intervenire in diretta la madre di Noemi che non può permettere che sua figlia, anche da morta, venga insultata in questo modo.
La mamma di Noemi Durini in diretta a Quarto Grado: “La famiglia di Lucio deve pagare con la galera”, scrive ancora Filomena Procopio il 7 ottobre 2017 su "Ultime Notizie Flash". E’ stata una puntata movimentata quella di Quarto Grado in onda il 6 ottobre 2017. In studio si parlava dell’omicidio di Noemi Durini, la sedicenne di Specchia uccisa dal suo fidanzato, il giovane Lucio. Mentre in diretta si raccontavano le ultime notizie sul caso, il padre di Lucio ha chiesto di intervenire rilasciando delle discutibili dichiarazioni che hanno provocato, come era immaginabile, la reazione della mamma di Noemi, la signora Imma, che ha deciso quindi di chiamare il programma per dire la sua in diretta. Il padre di Lucio ancora una volta ha tirato in ballo le amicizie di Noemi, dicendo che bisogna cercare in quella cerchia i motivi della morte della ragazza. La mamma di Noemi non ci sta e vuole ricordare chi fosse realmente sua figlia. “Io non volevo più intervenire, da un mese viviamo un dolore immenso, mia figlia è sotto terra e qui si parla ancora di amicizie” queste le parole della mamma di Noemi che definisce delle bestie i genitori di Lucio e che chiede che giustizia venga fatta. “Adesso basta, questa bestia, devono lasciare in pace mia figlia, noi ce la piangiamo e loro dimenticano che sta sottoterra. Il buonismo non esiste in quella famiglia. Noi siamo le persone oneste. Qui si trattava di un ragazzino che ha sempre subito sin dall’adolescenza. Io la querelo signor Biagio. Lei non deve diffamare mia figlia. Noemi sta sotto terra. L’altra sua figlia la sta facendo diventare peggio di lei. Io non ho paura. Io non odio. Io non porto rabbia l’ho sempre detto ma adesso basta, dovete lasciare in pace mia figlia, Noemi deve riposare in pace. Lei sta in mezzo alle persone che le vogliono bene. Io ogni giorno vado al cimitero per pregare mia figlia. Adesso basta. Questa bestia deve stare in silenzio. Io sono una mamma”.
Il conduttore le chiede perchè il padre di Lucio tira sempre in ballo queste amicizie: Mia figlia era sempre amica di tutti, mia figlia andava ad aiutare le persone con i problemi, perchè di questo non si parla? Perchè buttare fango? Si dovrebbe solo guardare allo specchio e vergognarsi. Le loro anime saranno dannate a vita. La giustizia ci deve essere. Mia figlia ha sedici anni e non c’è più. Io li voglio vedere tutti in galera a pagare per quello che hanno fatto.
Noemi Durini: gli ultimi istanti dei due fidanzati visti dalle telecamere. Da Quarto Grado le novità e opinioni sul caso della giovane assassinata dal fidanzato, scrive Marta Migliardi su "it.blastingnews.com" il 6 ottobre 2017 e curato da Federico Gonzo. La famiglia è il tema della puntata del 6 ottobre di #Quarto Grado. E, trattando il caso Durini, si concentra particolarmente sulle figure della madre e del padre di Lucio. Ma tutto comincia con l'osservare ancora le #telecamere, che, data la confessione spesso contraddittoria del presunto omicida, al momento sono capi saldi che possono direzionare le indagini.
I ragazzi sembravano tranquilli. Nel servizio di Croci e Lombardi si vedono due figure che si muovono nella notte, Lucio e Noemi. Nelle immagini sgranate della telecamera i due sembrano tranquilli. Salgono in auto e si accede la lucina interna. Alle 5.09 la macchina parte. A Castigano del Capo, nell'oliveto a pochi Km di distanza Noemi verrà poi trovata morta. Lucio dichiara di aver avuto con Noemi un rapporto sessuale e dopo una lite di averla uccisa. Tutto da solo. Lui dichiara che il luogo dove si è recato con Noemi fosse casuale. Ma le cose stanno così? Davvero il luogo era uno qualsiasi? Nella confessione racconta che prima si erano fermati a Santa Maria di Leuca. La costante nei suoi racconti, cercando di depistare, è che Noemi facesse uso di droga. Nella droga arriva ad indicare un possibile movente, prima di confessare. L'oliveto dove farà ritrovare il cadavere, tra l'altro, è diviso in 14 appezzamenti. Perché l'ha scelto? Forse voleva allontanare i sospetti lasciando la ragazza inerme su un terreno con molti possibili collegamenti? Possibile che gli agricoltori addetti alla potatura non lo abbiano notato? Le immagini delle telecamere Lucio e Noemi mentre salgono in macchina sono gli unici documenti oggettivi di questa storia e ne fissano la dinamica. Possono anche far venir fuori le contraddizioni del ragazzo. Le telecamere possono raccontare se Lucio ha fatto da solo o no. Che ruolo ha il padre di Lucio, che prima del ritrovamento del corpo ammise che il figlio gli diceva bugie?
La telecamera davanti all'ingresso secondario. Le telecamere ci aiutano, come quella davanti all'ingresso secondario della casa di Lucio. Quarto Grado scopre che sotto il pergolato del vicino vi è una telecamera che potrebbe aver ripreso Lucio al suo rientro a casa il 3 Settembre. Si interpellano i vicini stessi, proprietari della telecamera, ed effettivamente si vede bene il garage da dove Lucio sarebbe rientrato con la macchina. Il vicino dice che il 3 settembre la camera funzionava. Questo modello di telecamera sovrascrive i dati ogni tre giorni, ma gli inquirenti hanno sequestrato la memoria, che potrebbe rivelare se davvero Lucio era solo e a che ora è tornato. Qualora si riuscissero a recuperare, le immagini potrebbero anche svelare se il ragazzo indossava la maglietta o era a torso nudo, come da lui dichiarato. A indicare la telecamera fu proprio Biagio, il padre di Lucio. Il sig. Lucio si presta alle telecamere di Quarto Grado e dice che le responsabilità vanno ricercate nelle amicizie che aveva Noemi. Ribadisce che Noemi stessa è una vittima delle sue amicizie.
La mamma di Lucio. Che ruolo ha la mamma di Lucio? Nel servizio di Valentina Fabris vediamo descrivere meglio la figura della madre di Lucio, Rocchetta Rizzelli. Una madre preoccupata e in ansia, così pare, che definisce il figlio schiavo del rapporto con Noemi. Una madre attenta che però non si preoccupa del fatto che a mancare dal guardaroba sia proprio la maglia che pare Lucio indossasse il giorno del delitto. Ha sempre accompagnato Lucio agli interrogatori. Non era invece presente quando lui confessò. Gli inquirenti stessi hanno notato un cambio di atteggiamento. Senza la madre piange, è meno strafottente e spavaldo. La donna, comunque, è convinta che il figlio la abbia uccisa per difenderli, perché Noemi voleva, a detta sua, assassinare lei e il marito. I sospetti verso la donna sono nati anche per l'astio feroce verso Noemi, nei confronti della quale, anche una volta saputo della sua morte, non sono state spese parole di pietà. Sempre in tema di famiglia Remo Croci riporta una lettera scritta questa volta dalla mamma di Noemi, la signora Irma, dove la donna si aggrappa alla fede e respinge ogni forma di odio e di rabbia. Ma ci tiene a specificare che Noemi era una 16enne come tutte le ragazzine della sua età. "Noemi è la vittima, solo la vittima. Nessuno ha il diritto di infangare la sua memoria. Manterrò la promessa e le farò giustizia" #noemi durini.
Noemi, la madre in tribunale: «Sono fiduciosa», scrive Il Quotidiano di Puglia Giovedì 4 Ottobre 2018. «Ce la faremo a fare giustizia, ragazzi, ce la faremo. Oggi é il giorno della verità che tutti, specialmente io, stiamo aspettando da un anno». Lo ha detto Imma Rizzo, la madre di Noemi Durini, parlando con i giornalisti al suo arrivo al Tribunale dei Minorenni di Lecce dove é in corso l'ultima udienza del processo, con rito abbreviato, in cui é imputato Lucio Marzo, il 18enne di Montesardo salentino reo confesso dell'omicidio della sua fidanzata Noemi, uccisa il 3 settembre del 2017. Il corpo della ragazza fu scoperto solo dopo 10 giorni sotto un cumulo di pietre in una campagna di Castrignano del Capo. Imma Rizzo é arrivata accompagnata dalla figlia Benedetta e dal suo legale, l'avvocato Mario Blandolino. È tutta vestita di verde. «Come la speranza che non ho mai perso», ha risposto ai giornalisti che le facevano notare il significato del colore dei suoi vestiti. «Sono serena - ha aggiunto Rizzo - perché sono stata sempre fiduciosa, sin dal primo giorno. Vediamo se oggi cominceranno a funzionare un pò queste leggi». La madre di Noemi, nei due giorni precedenti il processo iniziato il 2 ottobre, aveva preferito non essere presente in aula. «Ho preferito restare in disparte e ascoltare - ha spiegato - ma oggi é il giorno della verità». In aula é presente anche il padre di Noemi, Umberto, e il nonno Vito. Non ci sono invece i genitori di Lucio, su sua espressa richiesta. Fuori dal tribunale ci sono anche le amiche del cuore di Noemi che indossano una maglietta con la stampa del volto di Noemi e la scritta «L'amore é un'altra cosa». Dopo la controreplica del pm Anna Carbonara, il gup Aristodemo Inguscio si ritirerà in Camera di consiglio per la sentenza
Omicidio Noemi Durini, il fidanzato Lucio Marzo condannato a 18 anni e 8 mesi. Il 18enne reoconfesso è stato condannato dal Tribunale dei Minorenni di Lecce dove il processo si è celebrato con rito abbreviato, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 4 ottobre 2018. Diciotto anni e 8 mesi di reclusione. È la condanna stabilita dal Tribunale dei minorenni di Lecce per Lucio Marzo, il 18enne reo confesso dell’omicidio della sua fidanzata sedicenne Noemi Durini, uccisa il 3 settembre del 2017 e il cui corpo fu ritrovato dieci giorni dopo in campagna. Il gup Aristodemo Ingusci mercoledì aveva respinto le istanze del difensore di Marzo e fissato per oggi la sentenza, arrivata poco dopo mezzogiorno. La pm Anna Carbonara aveva chiesto 19 anni e mezzo di carcere, cumulando l’omicidio e i reati connessi emersi nel corso del processo. Il procedimento per la morte della 16enne di Specchia, in provincia di Lecce, il cui cadavere venne ritrovato nelle campagne salentine di Castrignano de’ Greci sotto un cumulo di pietre, si è svolto con rito abbreviato, garantendo lo sconto di un terzo della pena all’imputato. La giovane, secondo il medico legale, morì “per insufficienza respiratoria acuta conseguente ad asfissia da seppellimento mediante compressione del torace e dell’addome”. Noemi era quindi in vita quando il suo assassino l’ha ricoperta con delle pietre di un muretto a secco ed è morta dopo una lenta agonia. L’esame autoptico aveva evidenziato che il fendente inferto con un coltello da cucina, la cui punta è stata rinvenuta conficcata nella nuca della vittima, non è stato letale, poiché la lama non è entrata nella scatola cranica. Secondo Vaglio, inoltre, la presenza di tagli sull’avambraccio sinistro della ragazza dimostrerebbero il tentativo della 16enne di difendersi mentre le percosse al capo potrebbero aver prodotto “una commozione cerebrale” che l’aveva resa incosciente anche a causa di “una lesione laringea”. L’assassino, quindi, stando al perito, l’ha picchiata, poi ferita e ne avrebbe quindi trascinato il corpo privo di coscienza nell’uliveto per circa 5 metri per poi seppellirlo. Il peso delle pietre avrebbe provocato quindi l’asfissia e l’insufficienza respiratoria.
Noemi Durini, fidanzato Lucio Marzo condannato a 18 anni. Omicidio Noemi Durini, oggi la sentenza per Lucio Marzo: condannato a 18 anni di carcere. La mamma della vittima, Imma Rizzo “no soddisfazione, lei non c'è più…”, scrive il 4 ottobre 2018 Niccolò Magnani su "Il Sussidiario". «Non c'è soddisfazione di nulla. Mia figlia non c'è più. Ora Lucio resterà in carcere per 18 anni e 8 mesi, spero che rifletta su quello che ha fatto», ha detto la mamma di Noemi Durini, Imma Rizzo, uscendo dal Tribunale di Lecce dopo la sentenza letta dal gup. Ha poi sottolineato, «Mi aspettavo anche 30 anni, non basta una vita per un gesto come questo». Secondo l’avvocato della difesa, Luigi Rella, la condanna è stata invece molto alta e non è stato riconosciuta la nuova richiesta di perizia psichiatrica sul ragazzo: «Vedremo le motivazioni e capiremo. Lucio sta male e ha bisogno di aiuto, la pena è troppo gravosa». Il Tribunale ha infatti accolto di fatto tutte le richieste del pm - 19 anni di carcere - non tenendo invece conto delle richiesta dei legali difensivi che volevano l'esclusione dell'aggravante della premeditazione nonché «la riqualificazione da soppressione del cadavere in semplice occultamento».
LUCIO CONDANNATO A 18 ANNI E 8 MESI DI CARCERE. Lucio Marzo è stato condannato a 18 anni e 8 mesi di reclusione per l’omicidio efferato della fidanzatina 16enne Noemi Durini, nell’orrendo delitto di Specchia dello scorso settembre: lo ha deciso il Tribunale dei Minorenni di Lecce dove il processo sia celebrato con rito abbreviato, con annessa garanzia di sconto di un terzo della pena. Viene così confermata in pieno la tesi della Procura e la superperizia portata come prova centrale del processo: Noemi Durini, secondo il medico legale, morì «per insufficienza respiratoria acuta conseguente ad asfissia da seppellimento mediante compressione del torace e dell’addome». Era ancora in vita quando è stata sepolta viva, il che rende ancora più tragica e drammatica la fine della sua esistenza per mano dell’ira furente dell’allora fidanzatino. È stato poi il peso delle pietre avrebbe provocato quindi l’asfissia e l’insufficienza respiratoria.
DELITTO NOEMI DURINI: L’ATTESA DELLA MAMMA. Per Lucio Marzo oggi sarà il “giorno della verità”: lo ha detto prima di entrare in tribunale a Lecce la mamma di Noemi Durini, la 16enne trucidata dal fidanzatino reo confesso lo scorso 3 settembre 2017. Mamma Imma Rizzo è arrivata per quella che è l’ultima giornata del processo con rito abbreviato nei confronti di quel ragazzino, oggi 18enne, che ha picchiato e sepolto viva la sua fidanzata per motivi ancora non del tutto chiari. In sede di inchiesta e processo, numerose versioni, depistaggi e “false piste” sono state “provate” da Lucio e dalla sua famiglia, ma oggi saranno i giudici a dover decidere se confermare la richiesta di pena a 18 anni avanzata dalla pubblica accusa. «Ce la faremo a fare giustizia, ragazzi, ce la faremo. Oggi é il giorno della verità che tutti, specialmente io, stiamo aspettando da un anno», ha aggiunto ancora la madre di Noemi, vestita di verde come la speranza che nutre «Sono serena perché sono stata sempre fiduciosa, sin dal primo giorno. Vediamo se oggi cominceranno a funzionare queste leggi».
COSA RISCHIA LUCIO MARZO: OGGI LA SENTENZA. Omicidio abbietto e con futili motivi, oltre all’occultamento di cadavere: Lucio Marzo rischia grosso, anche se vi sono diversi punti poco chiari specie sul fatto di aver utilizzato o meno dei complici, su tutti il padre Biagio. Alla sbarra per ora c’è solo il giovanissimo maggiorenne ma possibili “clamorose” novità potrebbero sorgere nei prossimi mesi; il difensore di Lucio Marzo ha chiesto una nuova perizia psichiatrica. Secondo il suo legale, il ragazzo all'epoca dei fatti non fosse in sé, quindi non stesse bene né seguendo le giuste cure. Lo ha confermato lo stesso papà di Lucio ieri a La Vita in Diretta, «mio figlio non stava bene, non stava seguendo le cure di cui aveva bisogno». Difficile pensare che oggi non si arrivi a sentenza dura per Lucio ma ipotesi di “attenuanti” o di nuovi elementi investigativi non sono da escludere, seppur in maniera assai poco “probabile”. Ad incastrare Lucio c’è la famosa “superperizia” della Procura secondo cui Noemi sarebbe stata picchiata a mani nude, poi accoltellata e seppellita mentre era ancora viva. Secondo quanto da lui raccontato, quella sera Noemi lo pressava per uccidere i suoi genitori che si opponevano alla loro relazione, simulando una rapina in casa: a quel punto la decisione di ucciderla.
Omicidio di Noemi Durini, il fidanzato condannato a 18 anni e 8 mesi. La giovane fu uccisa il 3 settembre 2017. Il 18enne reo confesso aveva nascosto il cadavere, che fu ritrovato dopo 10 giorni, scrive il 4 ottobre 2018 Quotidiano.net. Lucio Marzo, il 18enne reo confesso dell'omicidio della sua fidanzata sedicenne Noemi Durini, è stato condannato a 18 anni e 8 mesi di reclusione. Lo ha deciso il Tribunale dei Minorenni di Lecce dove il processo si è celebrato con rito abbreviato. Il pm Anna Carbonara aveva chiesto per il fidanzato di Noemi la condanna a 18 anni di carcere. La richiesta di una nuova perizia psichiatrica per il ragazzo, reo confesso, è stata rigettata. L'OMICIDIO - Il ragazzo di Montesardo Salentino, dopo l'omicidio avvenuto il 3 settembre del 2017, nascose il corpo della ragazza che abitava a Specchia, Lecce. Il cadavere fu scoperto solo dopo 10 giorni sotto un cumulo di pietre in una campagna di Castrignano del Capo. Noemi era stata malmenata e accoltellata a morte. I GENITORI DI NOEMI - "Non c'è soddisfazione, mia figlia non c'è più". Sono le prime parole di Imma Rizzo, la madre di Noemi, dopo la lettura della sentenza di condanna. "Ora resterà (Lucio Marzo, ndr) in carcere per 18 anni e 8 mesi, spero che rifletta su quello che ha fatto", aggiunge. "Mi aspettavo anche 30 anni, non basta una vita per un gesto come questo", dice lasciando l'aula. Parlando con i giornalisti al suo arrivo al Tribunale dei Minorenni di Lecce, dove era in corso l'ultima udienza del processo, la donna aveva detto: "Non potrò mai perdonarlo, bisogna dargli l'ergastolo". Nei giorni scorsi aveva parlato anche il padre della vittima, Umberto Durini. "Io non ho odio, lo dico col cuore - le sue parole a La Vita in Diretta, su Rai 1 -. Lui ha il diritto di rifarsi una vita, però 20 anni o 18 li deve fare in galera".
Omicidio Noemi: il fidanzato condannato a 18 anni e 8 mesi. La sentenza del Tribunale dei minori di Lecce per il 18enne Lucio Marzo reo confesso del delitto della sua fidanzata di 16 anni nel settembre 2017. La madre di Noemi Durini: "meritava l'ergastolo, non potrò mai perdonarlo", scrive Globalist il 4 ottobre 2018. E' stato condannato a 18 anni e 8 mesi di reclusione Lucio Marzo, il 18enne di Montesardo Salentino reo confesso dell'omicidio della sua fidanzata di 16 anni Noemi Durini, uccisa il 3 settembre del 2017. Lo ha deciso il Tribunale dei Minorenni di Lecce dove il processo si è celebrato con rito abbreviato. Il corpo della ragazza fu scoperto solo dopo 10 giorni sotto un cumulo di pietre in una campagna di Castrignano del Capo. Il Tribunale ha sostanzialmente accolto le richieste avanzate dal pm Anna Carbonara che aveva chiesto 18 anni per l'omicidio e un altro anno e mezzo per reati collaterali. L'avvocato difensore di Marzo, Luigi Rella, aveva giudicato alta la pena richiesta e aveva chiesto una nuova perizia psichiatrica, con la nomina di nuovi consulenti, il riconoscimento delle attenuanti generiche, l'esclusione dell'aggravante della premeditazione nonché la riqualificazione da soppressione del cadavere in semplice occultamento. Ma le sue richieste non sono state accolte. "Vedremo le motivazioni e capiremo", ha detto il legale ribadendo che "Lucio sta male e ha bisogno di aiuto". "Non c'è soddisfazione di nulla - ha detto dopo la sentenza Imma Rizzo, la madre di Noemi - mia figlia non c'è più. Ora Lucio resterà in carcere per 18 anni e 8 mesi, spero che rifletta su quello che ha fatto. Mi aspettavo anche 30 anni, non basta una vita per un gesto come questo". "Non potrò mai perdonarlo - ha aggiunto la madre di Noemi - meritava l'ergastolo. Con Lucio ci siamo guardati negli occhi e in quello sguardo c'era un anno intero di sofferenza. La parola perdono non esiste perché non potrò mai perdonarlo. Lui dovrà chiedere perdono a Noemi e alla sua coscienza". "Non ha mai chiesto perdono - ha aggiunto il padre di Noemi, Umberto Durini - non mi ha mai guardato in faccia. Era impassibile, lucido e cosciente di quello che ha fatto. Diciotto anni sono giusti, deve marcire in galera".
Salento, si scontrano due treni in provincia di Lecce: 27 tra contusi e feriti. È accaduto all’uscita di Galugnano, frazione di San Donato, in provincia di Lecce. Coinvolti due convogli delle Ferrovie Sud Est. Nessuno dei feriti è in gravi condizioni. Accertamenti sulle cause: «Non rispettato un segnale rosso», scrive il 13 giugno 2017 “Il Corriere della Sera”. Due convogli ferroviari delle Ferrovie Sud Est si sono scontrati all’uscita di Galugnano, frazione di San Donato, in provincia di Lecce. Sono 278 le persone rimaste ferite lievemente. Nessuna di loro è in gravi condizioni perché i convogli in quel tratto procedono a bassa velocità. Sul posto sono intervenuti i soccorritori, che per raggiungere il luogo dello scontro hanno dovuto percorrere un tratto di circa venti minuti a piedi, portando le attrezzature attraverso i campi. L’incidente - avvenuto intorno alle 17.30 - su una tratta in cui il binario è unico. «Uno dei due convogli era fermo al segnale di ingresso della stazione di Galugnano, mentre l’altro è partito in direzione Lecce non rispettando il segnale rosso», spiega in una nota Ferrovie dello Stato, proprietaria da alcuni mesi delle Ferrovie del Sud Est. Le cause sono in corso di accertamento. Sui convogli viaggiavano un’ottantina di persone, compresi alcuni turisti. La tratta ferroviaria collega Lecce a Otranto ed è molto trafficata in estate. I contusi sono dieci e 5 i feriti portati in ospedale. Una donna ha riportato le ferite più gravi: ha una lesione lacero-contusa alla fronte che è stata suturata. Poteva andare peggio. In attesa che la Procura di Lecce (che ha già sequestrato scatole nere, documenti, ascoltato testimoni e nominato un consulente) accerti le cause dell’incidente di San Donato, sono scoppiate anche in questo caso le polemiche sulla sicurezza della rete ferroviaria in concessione in Puglia. Proprio oggi il Tribunale Fallimentare di Bari ha ammesso Ferrovie Sud Est al concordato preventivo così come proposto dalla società, fissando per il prossimo 12 dicembre l’udienza per il voto dei creditori. La società (recentemente rilevata da Ferrovie dello Stato) è proprietaria dei due treni che si sono scontratati. La proposta di concordato che ha ottenuto il via libera dei giudici, ma che eviterà l’ipotesi di fallimento solo in caso di voto favorevole dei creditori, prevede il pagamento di tutti i debiti nei confronti dei creditori privilegiati e di circa la metà delle somme dovute ai creditori chirografari. Complessivamente i debiti della società ammontano ad oltre 200 milioni di euro nei confronti di quasi 400 soggetti fra banche, fornitori, debiti previdenziali e tributari. «È assurdo che le Regioni italiane non abbiano alcun potere di vigilare ed eventualmente bloccare quelle linee ferroviarie che non risultino assolutamente sicure». Lo afferma in una nota il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, dopo l’incidente ferroviario sulla linea delle Ferrovie del Sud Est. Emiliano rileva come «solo un miracolo oggi non ci consegna un bilancio grave e inaccettabile come quello del 12 luglio dell’anno scorso», quando sulla tratta Andria-Corato morirono 23 persone in uno scontro frontale tra convogli della Ferrotramviaria. Il 12 luglio 2016 in Puglia ci fu un altro scontro frontale sulla tratta a binario unico di un’altra azienda ferroviaria pugliese in concessione, la Ferrotramviaria, tra Andria e Corato: l’incidente provocò la morte di 23 persone e 50 feriti.
Lecce, scontro fra treni delle Sud Est: 7 feriti, nessuno è grave. "E' stato un errore umano". L'impatto all'uscita di Galugnano, frazione di San Donato, sul binario unico come nel disastro ad Andria. Uno dei due convogli era fermo al segnale di ingresso e l'altro è partito senza rispettare il rosso. L'assessore regionale ai Trasporti: "Ferrovie Sud Est non utilizzò tutti i fondi stanziati per la sicurezza", scrive Chiara Spagnolo il 13 giugno 2017 su "La Repubblica". Un altro scontro fra treni su un binario unico in Puglia. Stavolta si tratta di due convogli delle Ferrovie Sud Est sulla tratta Lecce-Otranto. L'impatto è avvenuto intorno alle 17,30 all'uscita di Galugnano, frazione di San Donato, a pochi chilometri da Lecce. Sette persone sono rimaste ferite in maniera lieve - fra loro c'è anche un bambino di pochi mesi - e una decina hanno riportato contusioni: tutti i feriti sono stati accompagnati all'ospedale Vito Fazzi di Lecce. A bordo dei treni c'erano un'ottantina di passeggeri, alcuni dei quali turisti. I due convogli procedevano in senso opposto, ma a bassa velocità: i mezzi non hanno riportato grossi danni. Fse ha disposto immediatamente un servizio di autobus sostitutivi.
"Un segnale non rispettato". I passeggeri e i feriti sono stati soccorsi sul luogo dell'incidente, in una zona di campagna, da vigili del fuoco e operatori del 118. I soccorritori hanno aiutato i passeggeri a raggiungere a piedi un tratto di strada che costeggia la tratta ferroviaria: uno scuolabus ha trasportato tutti in municipio a San Donato. L'intero percorso delle Sud Est è a binario unico. L'incidente, si legge in una nota dell'azienda (che ha già aperto un'inchiesta), è stato provocato da un errore umano: "Uno dei due convogli era fermo al segnale di ingresso della stazione di Galugnano, mentre l'altro è partito in direzione Lecce non rispettando il segnale rosso".
Il precedente sulla Andria-Corato. Il 12 luglio 2016 in Puglia ci fu un altro scontro frontale sulla tratta a binario unico di un'altra azienda ferroviaria pugliese in concessione, la Ferrotramviaria, fra Andria e Corato: l'incidente provocò 23 morti e 50 feriti. "Un altro scontro di treni in Puglia. Bastaaaaa. Vogliamo sicurezza. Vergogna, Stato assente. Regione assente" si legge in un post pubblicato sulla pagina Facebook dell'Astip, l'associazione 'Strage treni in Puglia 12 luglio 2016', sorta per la ricerca della verità e della giustizia per le vittime della tragedia. Sequestrate le scatole nere. Anche il procuratore della Repubblica di Lecce, Leonardo Leone de Castris, è arrivato sul luogo dell'incidente. Il magistrato, assieme al pm Giovanni Gagliotta, ha ascoltato alcuni testimoni e disposto l'acquisizione di documenti utili alle indagini e il sequestro delle scatole nere dei due treni. Nell'indagine che è stata avviata non viene finora ipotizzato un reato, in attesa dell'acquisizione dei primi elementi di prova.
"Quei fondi inutilizzati". "La linea ferroviaria interessata dall'incidente è a binario unico ma è attrezzata con il sistema di sicurezza 'conta assi', che in caso di linea già impegnata da un convoglio fa scattare il semaforo rosso per altri treni sulla linea", fa sapere l'assessore ai Trasporti della Regione Puglia, Giovanni Giannini. L'esponente del governo regionale ricorda che con la "programmazione 2007-2013 dei Fesr (Fondi europei di sviluppo regionale) la Regione Puglia stanziò 83 milioni per la sicurezza ferroviaria, in particolare per il montaggio degli Scmt (Sistema controllo marcia treno) a bordo e a terra. Alle Ferrovie del Sud Est furono assegnati 36 milioni che la società ha utilizzato soltanto in minima parte, non avendo rispettato il termine di scadenza per l'utilizzo dei fondi Por". E il Movimento 5 Stelle in Puglia ha chiesto "le dimissioni immediate dell'assessore Giannini". Gli otto consiglieri regionali lamentano in una nota "la situazione del sistema pugliese" giudicando in "una situazione che non può più andare avanti". "E' soltanto un miracolo - sostengono - che non vi siano state vittime".
Il governatore Emiliano e lo scandalo Fse. "È assurdo - tuona il governatore Michele Emiliano - che le Regioni italiane non abbiano alcun potere di vigilare ed eventualmente bloccare quelle linee ferroviarie che non risultino assolutamente sicure". Emiliano parla dello "scandalo" delle Sud Est e si augura che la magistratura accerti "le responsabilità dei tanti che hanno spolpato una società della quale è stato azionista unico per decenni il governo della Repubblica e ha oggi contribuito oggettivamente alla mancata realizzazione, anche su quel tratto ferroviario, di sistemi di sicurezza per i quali la Regione Puglia aveva già messo a disposizione il denaro necessario". Ma questa è una materia sulla quale è al lavoro da tempo la magistratura, che indaga sul saccheggio di una società che ha debiti per 200 milioni e che è stata ammessa al concordato preventivo.
La replica delle Sud Est. "La rete ferroviaria e i servizi di trasporto di Ferrovie del Sud Est sono stati integrati nel Gruppo FS Italiane a fine 2016, dopo il trasferimento dell’ex ferrovia concessa", si legge in una nota. "Il nuovo management di Ferrovie del Sud Est, nominato da FS Italiane, ha immediatamente attivato un piano di interventi per l’adeguamento tecnologico e infrastrutturale dell’intera rete ex concessa e dei treni. Piano che prevede l’installazione dei più moderni sistemi di gestione e controllo del traffico ferroviario e di distanziamento in sicurezza dei treni". E ancora: "I primi lavori sono stati avviati già lo scorso anno e si concluderanno entro il 2017, con un investimento complessivo da 19 milioni di euro. La seconda parte degli interventi di potenziamento infrastrutturale e tecnologico partiranno nelle prossime settimane, come programmato, e saranno conclusi entro il 2018 (Bari e Taranto) e il 2019 (Salento), con un investimento da 53 milioni di euro. Entrambi gli interventi sono finanziati dalla Regione Puglia".
L'inchiesta sul disastro di Andria. Stando alle indagini della Procura di Trani, ancora in corso, a causare l'incidente fra Andria e Corato sarebbe stato un errore umano dovuto all'utilizzo del blocco telefonico (ritenuto dagli inquirenti obsoleto e assolutamente non sicuro) su una linea a binario unico. E da parte dei dirigenti della società Ferrotramviaria, l'aver omesso "la collocazione di impianti e apparecchiature tecnologiche - ipotizza la Procura di Trani - deputate alla protezione della marcia dei treni (il conta assi) idonei a prevenire ed evitare il disastro ferroviario". La tratta ferroviaria è ancora sotto sequestro. In 13 sotto inchiesta. Nell'inchiesta sono indagate 13 persone (il capotreno superstite, due capistazione, tecnici e amministratori della società Ferrotramviaria) per i reati, a vario titolo contestati, di disastro ferroviario colposo, omicidio colposo plurimo e lesioni personali colpose plurime e omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro. Ai dirigenti della società si contesta inoltre di aver contribuito a causare l'incidente - o meglio, "di non averlo impedito" - commettendo una serie di omissioni relative alla corretta informazione sulle norme che riguardano la sicurezza dei lavoratori e dei fruitori del servizio ferroviario.
Scontro treni in Salento. «Il macchinista scese dal treno». L'inchiesta interna avrebbe accertato che il conducente stava provando i freni, ma è risalito prima della partenza, scrive Massimiliano Scagliarini il 15 giugno 2017 su "La Gazzetta del Mezzogiorno". È probabile che il macchinista del 544, quello che si sarebbe mosso da solo causando martedì l’incidente (senza vittime) di Galugnano sulla linea Lecce-Zollino delle Sud-Est, sia sceso dal suo treno lasciandolo incustodito per un tempo più o meno lungo. E per questo non sarebbe riuscito a intervenire quando il convoglio è ripartito per via della leggera pendenza della linea. È questa l’ipotesi su cui ieri si sarebbe orientata la commissione tecnica delle Ferrovie Sud-Est, che ha ascoltato i due macchinisti con lo scopo di ricostruire la dinamica dell’impatto avvenuto intorno alle 17,30. Una ipotesi tutta da riscontrare, naturalmente, ma che si basa su una serie di circostanze di fatto e su una considerazione pratica: il macchinista del 544, R.R., avrebbe avuto tutto il tempo di accorgersi che qualcosa non andava e dunque di intervenire. La dinamica può essere raccontata così. Il 549 proveniente da Lecce era fermo al segnale della stazione impresenziata di Galugnano. L’altro treno, il 544 proveniente da Otranto, una Aln 668 presa a noleggio da Trenitalia, era giunto al segnale di protezione (un semaforo rosso). A quel punto, il capotreno del 544, è sceso dal treno per recarsi nei locali tecnici della stazione e azionare la cosiddetta «rar», un dispositivo che serve ad effettuare la manovra di incrocio. Ha insomma dato il via all’altro treno, cioè al 549 da Lecce, per attraversare la stazione. Invece, per qualche motivo, è stato il 549 a muoversi nonostante il segnale rosso. «È partito da solo e non sono riuscito a frenare», è la ricostruzione di R.R. (assistito dal delegato sindacale della Uil). Il macchinista del 544 ha riferito ieri di essersi accorto che l’altro treno gli stava andando addosso, e di aver cominciato a muoversi a retromarcia, di qualche decina di metri, per attutire l’impatto. Ma gli ispettori nominati da Sud-Est (altri sono stati designati dall’Agenzia nazionale per la sicurezza ferroviaria e dal ministero delle Infrastrutture) devono capire esattamente cosa è avvenuto. Per il momento non possono accedere alle zone tachigrafiche, la scatola nera dei treni, sequestrate dalla Procura di Lecce. È un fatto che il capotreno del 549 fosse sceso, e pare sia stato anche visto sbracciarsi quando ha visto che il convoglio aveva cominciato a muoversi. Tuttavia, dicono i tecnici, le cose non quadrano. Il 549 ha tallonato il deviatoio (lo scambio) sul ramo sbagliato, e questo provoca quattro forti colpi di cui il macchinista a bordo si sarebbe dovuto accorgere. Visto che il treno non aveva preso velocità, è il ragionamento, c’era tutto il tempo per fermarlo anche se - come è stato detto - fossero state tirate le «funicelle» (dispositivi che si trovano a centro treno e che servono a scaricare l’impianto pneumatico di frenatura: una manovra che richiede, appunto, la discesa dal treno, ma che di norma viene effettuata dal capotreno). «Ero sceso per effettuare una prova freni ma poi sono risalito», è la giustificazione che sarebbe stata fornita rispetto a questa incongruenza. Tuttavia fonti sindacali ieri hanno fatto circolare la foto qui in alto, foto che sarebbe stata scattata subito dopo l’impatto. Si vede il ceppo del freno che non aderisce perfettamente alla ruota del primo asse: sarebbe la dimostrazione - a detta di chi la ha scattata - che il freno a mano della Aln668 non funzionava correttamente. Tuttavia - dicono i tecnici - se il treno aveva il freno a mano inserito, anche nella modalità immortalata dalla foto, difficilmente si sarebbe mosso per gravità. E dunque il freno a mano potrebbe essere stato azionato in un momento successivo. Tutte circostanze che ora dovranno essere esaminate dalla Procura di Lecce, che con il pm Giovanni Gagliotta indaga al momento a carico di ignoti per disastro ferroviario e lesioni colpose. La Polfer sta continuando a raccogliere elementi, mentre sarà una consulenza tecnica ad accertare la dinamica dell’incidente e il funzionamento dell’impianto frenante. L’impatto tra i due treni, che trasportavano complessivamente 80 persone, ha causato 27 feriti tutti molto lievi. Questo perché il treno 549 procedeva a bassissima velocità, meno di 30 all’ora: tanto che nessuno dei due convogli (sequestrati dalla Procura insieme alla documentazione) ha riportato danni evidenti.
Scontro treni sulla Andria-Corato. Pm: disastro per plurimi errori, scrive il 15 giugno 2017 "La Gazzetta del Mezzogiorno". La strage ferroviaria del 12 luglio 2016 sulla linea Andria-Corato di Ferrotramviaria (23 morti, 50 feriti) fu causata da «plurimi errori umani», forse compiuti «da più di tre» dipendenti della società. E’ quanto emerge dall’incontro, svoltosi in Procura a Trani tra pm e Polizia, convocato per valutare le migliaia di elementi di prova finora raccolti per accertare le responsabilità del disastro. Oltre all’errore umano si valuta se all’incidente abbia contribuito, e in che misura, il sistema ritenuto dai pm «obsoleto e insicuro" del blocco telefonico. Questo è il sistema cui è affidata la sicurezza della tratta ferroviaria del disastro (e non solo), in base al quale i capistazione si scambiano dispacci per segnalare la partenza e l'arrivo dei treni. Il blocco telefonico è ritenuto dagli inquirenti talmente «obsoleto» da non essere più riconosciuto neanche come sistema di sicurezza. Ma quello che è ancor più grave - a giudizio degli inquirenti - è che l’utilizzo del blocco telefonico è in contrasto con la normativa in vigore, che non lo ammette. Proprio su questo tema è un corso un esame degli inquirenti che dovranno valutare se il blocco telefonico sia addirittura da considerare illegittimo. Per quanto riguarda l’errore umano - è il ragionamento degli inquirenti -, questo sarebbe stato compiuto da più persone e non solo del solo capostazione di Andria, Vito Piccarreta, che avrebbe dato erroneamente il via libera al treno ET1021 diretto verso Corato, che si è poi scontrato frontalmente, sulla tratta a binario unico, con il convoglio ET1016 partito da Corato. Oltre ai tanti errori tecnici finora accertati, gli inquirenti non escludono che vi siano altri livelli di responsabilità all’interno di Ferrotramviaria. Vengono infatti esaminati ruoli e responsabilità non solo di chi è nella catena di comando, ma anche di chi, all’epoca dei fatti, si occupava di formazione e aggiornamento del personale. Nell’inchiesta - coordinata dal procuratore reggente Francesco Giannella - sono indagate 13 persone e la società per i reati, contestati a vario titolo, di disastro ferroviario, omicidio e lesioni colpose plurime e omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro. Intanto, proseguono le indagini della Procura di Lecce sull'altro incidente ferroviario avvenuto in Salento il 13 giugno scorso (30 feriti) dove si sono scontrati frontalmente due treni delle FSE. Il macchinista che è partito col segnale rosso sostiene che ci sia stata un’avaria ai freni, l’altro di aver innestato la retromarcia per attutire l’impatto.
Lecce, truffa sui fondi per le vittime: presa la presidente di un'associazione antiracket Maria Antonietta Gualtieri. Arrestato un funzionario comunale. Trentadue le persone indagate: fra loro c'è anche l'assessore comunale ai Lavori pubblici, Attilio Monosi. Al setaccio una convenzione del 2012 con il Viminale, scrive Chiara Spagnolo il 12 maggio 2017 su "La Repubblica”. Una bufera giudiziaria si abbatte sull'amministrazione comunale di Lecce nel giorno in cui si avvia la presentazione delle liste elettorali per le elezioni dell'11 giugno. Un'inchiesta della guardia di finanza su presunti illeciti in alcune attività dello Sportello antiracket ha portato all'arresto della presidente dell'associazione, Maria Antonietta Gualtieri, e di un funzionario dell'ufficio Patrimonio del Comune di Lecce, Pasquale Gorgoni (già coinvolto nell'inchiesta sulle assegnazioni delle case popolari). Le ipotesi di reato - contestate nell'ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip Giovanni Gallo su richiesta dei sostituti procuratori Massimiliano Carducci e Roberta Licci - sono corruzione e truffa e riguardano le azioni di un presunto sodalizio criminale che sarebbe capeggiato proprio da Gualtieri. Un provvedimento di interdizione dai pubblici uffici è stato emesso nei confronti dell'assessore comunale ai Lavori pubblici, Attilio Monosi, candidato al consiglio comunale in una delle liste che sostengono il candidato sindaco del centrodestra Mauro Giliberti. Proprio nelle ore in cui la guardia di finanza stava notificando le ordinanze del gip, a Palazzo Carafa era in programma la presentazione ufficiale dei candidati. In totale sono quattro le ordinanze di custodia cautelare (tre in carcere e una ai domiciliari) disposte dal gip, sette le misure interdittive dai pubblici uffici e 32 sono le persone indagate. Sequestrato anche l'equivalente di somme indebitamente percepite dal ministero dell'Interno, pari a 2 milioni di euro. Secondo la ricostruzione degli investigatori, nel 2012 Gualtieri avrebbe stipulato convenzioni con il Viminale per istituire tre Sportelli antiracket a Lecce, Brindisi e Taranto. Le indagini hanno accertato che tali strutture in realtà non sono mai state operative, avendo come unico obiettivo l'indebita percezione dei fondi pubblici destinati alle vittime di racket e usura. Documentati la fittizia rendicontazione di spese per il personale impiegato; l'utilizzo di fatture per operazioni inesistenti afferenti l'acquisizione di beni e servizi; la rendicontazione di spese per viaggi e trasferte in realtà mai eseguite; la falsa attestazione del raggiungimento degli obiettivi richiesti dal progetto in termini di assistenza ai nuovi utenti e numero di denunce raccolte. Un altro capitolo dell'inchiesta ha riguardato le presunte collusioni con pezzi dell'amministrazione comunale di Lecce. A partire dal funzionario Gorgoni, che avrebbe fatto carte false per far sì che alcuni lavori di ristrutturazione dell'ufficio dello Sportello antiracket venissero pagati dal Comune anziché dal commissario Antiracket. L'obiettivo - secondo la tesi investigativa - era agevolare il costruttore che ha effettuato i lavori e che avrebbe poi avuto un occhio di riguardo per il funzionario pubblico per altri interventi eseguiti nella sua abitazione. Anche le ristrutturazioni eseguite all'ufficio dello Sportello antiracket di Brindisi sarebbero state viziate da anomalie, relative a false certificazioni di interventi mai ultimati da parte di dipendenti comunali. Ad aggravare ulteriormente la situazione di Gualtieri c'è il fatto che avendo appreso che alcuni suoi collaboratori erano stati convocati dalla finanza per gli interrogatori, li avrebbe istruiti sulle versioni da fornire al fine di cercare di nascondere i numerosi illeciti commessi al fine di ottenere indebitamente i soldi del Fondo antiracket, sottraendoli al loro legittimo utilizzo.
Il Quotidiano di Puglia scrive: Gli arrestati finiti in carcere sono Maria Antonietta Gualtieri, presidente dell'associazione antiracket di Lecce, Giuseppe Naccarelli, ex dirigente del settore finanziario del Comune di Lecce, e Lillino Gorgoni, funzionario di Palazzo Carafa. Agli arresti domiciliari è finita invece Simona Politi, segretaria dell'associazione antiracket. Tra le sette misure interdittive c'è il divieto di ricoprire cariche pubbliche per l'attuale assessore al Bilancio del Comune di Lecce Attilio Monosi, in procinto di candidarsi alle elezioni amministrative con Direzione Italia, e che proprio alcuni giorni fa aveva inaugurato il suo comitato elettorale. Stessa misura per l'avvocato Marco Fasiello, uno dei legali dell'associazione antiracket.
Antiracket Lecce, da anni polemiche accuse e sospetti sulla presidente dell’associazione arrestata. “In un momento come quello attuale, particolarmente critico per l’economia del Paese, cancri sociali come il racket e l’usura insidiano il sistema produttivo, mettendo radici”. Così parlava Maria Antonietta Gualtieri ad aprile 2013 nel presentare un convegno dell’Antiracket Salento a Brindisi e oggi arrestata per truffa aggravata, scrive Luisiana Gaita il 12 maggio 2017 su "Il Fatto Quotidiano". “In un momento come quello attuale, particolarmente critico per l’economia del Paese, cancri sociali come il racket e l’usura insidiano il sistema produttivo, mettendo radici”. Così parlava Maria Antonietta Gualtieri ad aprile 2013 nel presentare un convegno dell’Antiracket Salento a Brindisi. Eppure, secondo la procura di Lecce, che ha lavorato all’indagine sulla presunta truffa finalizzata a ottenere un finanziamento da due milioni di euro destinato alle vittime del racket e dell’usura, molto era già accaduto. Tanto che già in passato si era gettata qualche ombra sull’operato dell’associazione, ben prima dell’operazione della Guardia di Finanza scattata oggi nel Salento. Ma negli ultimi anni l’Antiracket Salento è stata al centro di polemiche, accuse, sospetti e anche inchieste che, in un modo o nell’altro, l’hanno coinvolta. A giugno 2013 a fare andare su tutte le furie Maria Antonietta Gualtieri furono le parole del presidente della Camera di Commercio di Brindisi Alfredo Malcarne che annunciava l’apertura presso l’ente di uno sportello antiracket. “Solo noi siamo l’unico sportello riconosciuto dal ministero dell’Interno finanziato con i fondi Pon sicurezza” si affrettò a chiarire la presidente, ricordando che l’associazione era l’unica ad aver firmato un protocollo con la Procura della Repubblica. “Vorrà pur dir qualcosa – aggiunse – ci sono associazioni che sono cattive imitazioni”. Poi le accuse ad altre realtà del territorio: “Ce ne sono alcune dalle quali ho subito pressioni – disse – perché non vogliono che cambino le cose. Con il loro atteggiamento favoriscono il consenso sociale alla criminalità, non aiutano le vittime di racket e usura. Tanto da pensare che ci possano essere delle infiltrazioni”. Inevitabili le reazioni. Come quella del presidente antiracket di Mesagne (Brindisi) Fabio Marini: “Una cosa è certa, noi siamo un’associazione non profit composta da vittime del racket e dell’usura che hanno deciso di lottare e aiutare gli altri, facciamo volontariato, mentre lo sportello antiracket Salento vive perché ha ottenuto un finanziamento di 2 milioni di euro”. E a proposito di quel finanziamento, a gennaio 2014 si diffuse la notizia che la Corte dei Conti di Napoli stava indagando sul trasferimento di fondi pubblici a favore di alcune associazioni antiracket. Al centro i 13 milioni e 433mila euro stanziati dall’Unione Europea e arrivati agli inizi del 2012 che facevano parte del Pon-Sicurezza, il Programma Operativo Nazionale finanziato per lo sviluppo del Mezzogiorno. E al Sud nell’albo prefettizio risultavano attive oltre cento associazioni antiracket. I fondi, però, furono destinati solo a tre di esse, tra cui l’Antiracket Salento, che ha ottenuto qualcosa come un milione e 862mila euro. Già a marzo del 2012, in realtà, le associazioni ‘La Lega per la Legalità’ ed ’S.O.S. Impresa’ avevano inviato una lettera all’allora ministro Anna Maria Cancellieri, denunciando l’esistenza di una vera e propria “casta dell’antiracket”. Lino Busà, presidente di S.O.S Impresa, commentando l’indagine fece proprio il suo nome: “Prendiamo il caso di Maria Antonietta Gualtieri, presidentessa dell’Antiracket Salento e già candidata a Lecce sei anni fa nella lista civica di Alfredo Mantovano”. La presidente smentì di essere coinvolta nell’indagine della Corte dei Conti, sottolineando la correttezza dell’iter che aveva portato al finanziamento degli sportelli antiracket. Di fatto l’associazione non ha partecipato ad alcun bando pubblico. E Busà ricordava che sia le norme italiane che quelle europee prevedono, invece, “bandi ed avvisi pubblici”, arrivando a parlare di “una trattativa privata”. Un anno dopo, nel luglio 2015, un’altra inchiesta della procura di Lecce ha coinvolto l’associazione. Un avvocato e un commercialista sono finiti nel registro degli indagati, accusati di avere estorto denaro durante la loro attività di consulenti allo sportello Antiracket di Lecce. Nel fascicolo del procuratore Cataldo Motta si parlava di parcelle che andavano dai 100 ai 900 euro per gli imprenditori che si rivolgevano all’associazione per chiedere pareri sui tassi di interesse dei mutui accesi con le banche. In quella occasione, però, le accuse partirono proprio dalle denunce presentate da un imprenditore, dalla presidente dell’associazione Maria Antonietta Gualtieri e da altre due persone. Il rapporto di collaborazione tra i due consulenti e lo sportello antiracket si interruppe, ma i consulenti depositarono una querela per calunnia contro la presidente Gualtieri.
"A Lecce case popolari a elettori del centrodestra": indagati il sindaco Perrone e Poli Bortone. Inchiesta dei pm salentini sull'affidamento degli alloggi dopo l'esposto del Pd: tra i 46 avvisi di garanzia anche due assessori comunali, l'ex ministra del governo Berlusconi e il deputato di Marti (Cor), scrive Chiara Spagnolo il 28 febbraio 2017 su "La Repubblica". Indagati eccellenti nell'inchiesta della Procura di Lecce sull'assegnazione delle case popolari nel capoluogo salentino: la richiesta di proroga delle indagini formulata dai pm ha fatto venire fuori i nomi del sindaco uscente Paolo Perrone e dell'ex sindaca Adriana Poli Bortone, del deputato Roberto Marti (Cor, già assessore comunale) e degli attuali componenti della giunta Nunzia Brandi e Damiano D'Autilia. Il terremoto arriva in piena campagna elettorale, con Perrone che cerca di passare il testimone al giornalista Mauro Giliberti e si ricandida come consigliere comunale. Quarantasei, in totale, le persone su cui si concentrano le indagini dei finanzieri del Nucleo di polizia tributaria, coordinate dai sostituti procuratori Massimiliano Carducci e Roberta Licci, che stanno passando al setaccio gli atti relativi al periodo fra il 2006 e il 2016. L'ipotesi - ancora parzialmente da verificare - è che l'assegnazione degli alloggi popolari di Lecce sia stata improntata a criteri poco trasparenti. Dettata da favoritismi più che dal rispetto delle regole e da una serie di atti pilotati in favore di elettori del centrodestra, come dimostra il fatto che tra gli indagati figurano anche numerosi dirigenti del Comune. A fare scattare le indagini furono gli esposti presentati negli anni da diversi esponenti del Pd, a partire dall'assessora regionale alle Attività economiche, Loredana Capone, che nel 2012 fu candidata sindaco a Lecce. Fu lei a denunciare in Procura e al prefetto l'esistenza di "un contesto elettorale a rischio" e nella stessa direzione andarono qualche anno più tardi la viceministra Teresa Bellanova e il parlamentare pd Salvatore Capone, recapitando ai magistrati un articolato dossier sul meccanismo di assegnazione delle case popolari. Tra la documentazione al vaglio degli investigatori, le testimonianze di inquilini che lamentavano richieste di mazzette da parte di esponenti politici per il mantenimento dell'assegnazione, le visite nel corso delle campagne elettorali, le occupazioni abusive e molti altri presunti illeciti. I reati, contestati a vario titolo, vanno dall'associazione per delinquere alla corruzione, abuso d'ufficio, falso materiale e ideologico, truffa.
Lecce, favori nell’assegnazione di case popolari: indagati il sindaco Perrone, Adriana Poli Bortone e il deputato Marti. I reati ipotizzati dalla procura salentina sono falso, abuso d’ufficio, omissione di atti d’ufficio e invasione di edifici. 46 le persone sotto inchiesta, tra loro - oltre all'attuale primo cittadino e all'ex ministro del governo Berlusconi - anche due assessori comunali, i due ultimi segretari di palazzo di città. Secondo l'accusa, gli indagati avrebbero agevolato determinati inquilini a colpi di sanatorie di occupazioni abusive, semplici delibere, passaggi indebiti dalle case parcheggio agli alloggi. Tra questi ci sono anche persone ritenute vicine ai clan della Scu, scrive Tiziana Colluto il 28 febbraio 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Nel bel mezzo della campagna elettorale per le amministrative, a Lecce deflagra la bomba alloggi popolari. Emergono nomi eccellenti dal vaso di Pandora della lunga inchiesta che tiene col fiato sospeso la politica cittadina. Il punto di partenza degli inquirenti è noto: presunti favori nell’assegnazione delle case in cambio di sostegno alle elezioni del 2012 e anche prima. Nel registro degli indagati finisce, ora, l’attuale sindaco Paolo Perrone, che ha annunciato che tornerà a correre in prima persona a sostegno del candidato del centrodestra Mauro Giliberti. Poi, ci sono l’ex primo cittadino Adriana Poli Bortone e il deputato fittiano Roberto Marti, già assessore alla Casa del Comune di Lecce. Si aggiungono gli attuali assessori alle Politiche giovanili e al Welfare, Damiano D’Autilia e Nunzia Brandi; i due ultimi segretari comunali Domenico Maresca e Vincenzo Specchia; il capo di Gabinetto Maria Luisa De Salvo; i dirigenti Luigi Maniglio, Nicola Elia e Raffaele Attisani; l’ex consigliere regionale di Azzurro Popolare Aldo Aloisi. I reati ipotizzati sono quelli di falso, abuso d’ufficio, omissione di atti d’ufficio e invasione di edifici. Sono 46 in totale i nomi che emergono dalla richiesta di proroga delle indagini preliminari notificata nella giornata di ieri dai militari del Nucleo di Polizia tributaria della Guardia di Finanza. Nell’atto presentato al gip Giovanni Gallo e a firma dei pm Roberta Licci e Massimiliano Carducci, compaiono anche altri dipendenti comunali e molti residenti delle case popolari della zona 167. Intere palazzine di via Potenza, via Pistoia, Piazzale Cuneo e Piazzale Genova sarebbero state assegnate con criteri poco trasparenti, tra il 2006 e il 2016. Per almeno 28 appartamenti, cioè, si sospettano attribuzioni senza requisiti, a colpi di sanatorie di occupazioni abusive, semplici delibere, passaggi indebiti dalle case parcheggio agli alloggi. Il tutto con la presunta influenza degli amministratori e commistione dei dipendenti di Palazzo Carafa, per agevolare precisi gruppi di inquilini. Tra questi ci sono anche persone ritenute vicine ai clan della Scu. La contiguità con ambienti della criminalità organizzata in questo settore è stata uno dei terreni su cui ha vigilato anche la commissione parlamentare antimafia, durante la sua visita a Lecce un anno fa. Ed è uno dei temi che ha visto impegnato il prefetto Claudio Palomba in prima persona, con la sorveglianza esterna del Settore casa del Comune. Le faglie di questo terremoto giudiziario vengono da lontano, dagli esposti che avvelenarono la precedente campagna elettorale per le amministrative. Due anni fa, si sentirono le prime scosse, quando vennero notificati i primi quattro avvisi di garanzia a due assessori della giunta Perrone, attualmente ancora in carica, Attilio Monosi e Luca Pasqualini, oltre che ad un consigliere comunale Pd e a un dirigente comunale. L’accusa, allora, fu di aver messo in piedi una vera e propria associazione a delinquere bipartisan, ritenuta la regia di “gravi e plurimi favoritismi” negli iter burocratici relativi all’assegnazione delle case popolari, “con grave evidente danno dei legittimi aspiranti all’assegnazione”. Stando ad una indagine di Nomisma Federcasa, Lecce resta, probabilmente non a caso, la capitale d’Italia delle occupazioni abusive, con la percentuale più alta in relazione al numero di abitanti: a vivere nelle case popolari senza requisiti è un inquilino su tre.
Inchiesta alloggi popolari, D’Autilia: “io estraneo ai fatti”. Perrone: “atto dovuto”. In merito all'inchiesta sugli alloggi popolari intervengono l'assessore comunale comunale Dmiano d'Autila, che si dice estraneo ai fatti, e il primo cittadino Paolo Perrone, fiducioso nell'operato nella Magistratura, scrive il 28 febbraio 2017 TrNews. L’assessore comunale Damiano D’Autilia interviene in merito all’inchiesta della Procura di Lecce sulle case popolari, definendosi “estraneo ai fatti”. “Sono rimasto amareggiato per essere stato raggiunto da un avviso di garanzia da parte della Procura di Lecce– afferma- durante la mia esperienza amministrativa non ho mai avuto ruoli o incarichi che potessero essere riconducibili alla vicenda relativa all’assegnazione degli alloggi di proprietà comunale”. Per il primo cittadino Paolo Perrone si tratta di un “un atto dovuto e, per certi versi– dice- sono sollevato da questa inchiesta, che dimostrerà in modo inequivocabile la nostra correttezza”. Sull’ipotesi che la vicenda possa gravare sulla campagna elettorale del candidato del centro destra precisa che la faccenda ha una duplice chiave di lettura: “se fossimo stati condannati -conclude- avrebbe potuto gravare. Laddove l’indagine dimostri la nostra lealtà, per noi potrebbe essere una spinta”.
"Mai interessata agli alloggi, se ne occupavano Marti e Perrone", scrive Paola Ancora su “Il Quotidiano di Puglia” l'1 Marzo 2017. «Mi sono chiesta che c’entro io. Non mi sono mai occupata di case. Se ne occupavano gli assessori: Marti, Perrone». Adriana Poli Bortone, ex ministro e parlamentare e sindaco della città dal 1999 i primi mesi del 2007, liquida con queste parole la notizia dei nuovi sviluppi nell’inchiesta sulla gestione delle case popolari che la vede indagata. Poche parole e l’indicazione di coloro che, all’epoca della sua amministrazione e a suo avviso e memoria, si occupavano di case quando lei sedeva sulla poltrona di sindaco: gli ex assessori, oggi rispettivamente parlamentare e sindaco, Roberto Marti e Paolo Perrone, indagati come lei.
Senatrice come ha reagito alla notizia di essere indagata?
«Veramente io ho saputo di questo fatto dai giornali. Non so nemmeno che dire. Mi sono chiesta che c’entro io».
Lei è stata sindaco fino all’inizio del 2007 e l’inchiesta copre un arco temporale dal 2006 al 2015.
«Sì, ma io non mi sono mai occupata di case. Gli assessori se ne occupavano: Marti, Perrone. Loro se ne occupavano. è la prima volta che vengo a conoscenza di certe cose. E mi ripropongo di andare a capire se posso almeno sapere e chiedere di che si tratta, di che parliamo».
Olimpiadi Concorso infermieri ASL LE: I tempi dei vincitori. ASL Lecce, si assumono gli infermieri che per primi fanno le domande e non per meriti, scrive il 17 gennaio 2017 Lucio Marengo direttore di Metropoli. “Se la Costituzione stabilisce che nella pubblica amministrazione si entra per concorso pubblico, la Asl di Lecce si supera e comunica che per l’avviso pubblico per personale infermieristico il criterio sia l’ordine di arrivo delle domande. Un’escalation di assurdità, proprio a ridosso dalle elezioni amministrative, che avvalora i dubbi sulla questione che abbiamo avanzato nei giorni scorsi: è venuto il momento di un intervento diretto e deciso del presidente Emiliano”. Così il presidente del Gruppo consiliare di Forza Italia, Andrea Caroppo. “Facciamo un passo indietro. Era già incomprensibile, come abbiamo denunciato insieme ai sindacati, -prosegue- la pubblicazione di un avviso per incarichi infermieristici della durata di 60 giorni, mentre si licenziavano gli infermieri precari già in servizio prima della scadenza dei contratti. Ma se non bastava già questa moltiplicazione di precari, ora arriva la grande beffa: molti interessati non sono riusciti a trasmettere le domande di partecipazione perché la casella Pec della Asl risulta piena. E ancora, il gran finale: la Asl comunica agli infermieri precari di non inoltrare più le domande perché il criterio di assunzione è quello –rullo di tamburi – dell’ordine di trasmissione della stessa domanda. In altre parole, non si assume chi ha più meriti, ma chi ha avuto la fortuna di venire a conoscenza prima dell’opportunità. Il che, chiaramente, ci fa pensare ancora più ad una manovra dal sapore elettorale, ledendo non solo i diritti di coloro che sono stati licenziati prima del tempo, ma anche di chi ha trasmesso la domanda e che magari, pur essendo più meritevole di altri, si vede superato da coloro che hanno appreso dell’avviso prima (magari grazie a qualche ‘uccellino’ che vuole accaparrarsi qualche voto in più)”. “Per questo – conclude Caroppo – chiedo formalmente l’intervento del presidente-assessore Emiliano per il ritiro immediato dell’avviso pubblico ed il ripristino dei principi di trasparenza e meritocrazia nella pubblica amministrazione”.
DI BRINDISI… Assenteismo, a Erchie sospesi 6 dei 22 dipendenti comunali. Il sindaco indagato per peculato. Il primo cittadino Giuseppe Margheriti, eletto nel 2015 con una lista civica che fa capo a Forza Italia, è accusato di aver utilizzato per fini personali le auto del Comune, scrive Sonia Gioia l'8 febbraio 2017 su "La Repubblica". Sei dipendenti del Comune di Erchie, in provincia di Brindisi, sono stati sospesi per assenteismo. Altri 12 sono indagati con la stessa accusa e saranno interrogati nei prossimi giorni. Indagati per peculato d’uso anche il sindaco Giuseppe Margheriti e l’ex presidente del consiglio comunale Ivan Volpe. Secondo gli inquirenti il primo cittadino avrebbe usato le auto di proprietà del Comune per motivi personali. Volpe invece è accusato di avere fatto il pieno alla propria auto usando le schede carburante messe a disposizione dei dipendenti pubblici. Il provvedimento del giudice per le indagini preliminari del tribunale di Brindisi decapita l'ente, che conta un totale di 22 dipendenti. La sospensione per i sei dipendenti è arrivata al termine di cinque mesi di indagini condotte dagli agenti della guardia di finanza e coordinate dalla pm Valeria Farina Valaori. Si tratta dei dirigenti Agata Rodi (vicesegretaria generale), Lucia Panuli (dirigente Servizi sociali), Carmelino Ciccarese (ufficio Lavori pubblici) e Antonio Gigli (ufficio Urbanistica) e degli impiegati Antonello Gennaro e Alda Annamaria Tanzarella. Sono tutti accusati di aver lasciato il posto di lavoro dopo aver timbrato il cartellino per dedicarsi a faccende personali. Le ipotesi di reato formulate dal magistrato inquirente sono di truffa, peculato, peculato d'uso e falso. Accuse di cui i dipendenti indagati dovranno rispondere anche di fronte alla Corte dei conti. Il sindaco Giuseppe Margheriti respinge ogni accusa a proprio carico. Il primo cittadino è stato eletto nel 2015 con una lista civica che fa capo a Forza Italia. "Mi affido all'operato della magistratura, davanti alla quale chiarirò la mia posizione. Di fatto hanno decapitato un ente".
Assenteismo comune Erchie. «Quella telefonata al 117», scrive "La Gazzetta del Mezzogiorno" l’11 febbraio 2017. Alla genesi delle indagini che hanno portato alla scoperta di un diffuso malcostume al Comune di Erchie – funzionari e impiegati comunali in orario di lavoro sistematicamente sbrigavano le loro faccende private pur risultando presenti negli uffici dell’ente – c’è la segnalazione di una dipendente del Comune. «La segnalazione è pervenuta – annota il gip Stefania De Angelis nell’ordinanza che l’altro ieri ha fatto notificare agli indagati – al numero di pubblica utilità 117 e trasmessa dal Comando provinciale della Guardia di Finanza alla compagnia di Francavilla Fontana». La dipendente del Comune «rappresentava comportamenti illeciti, durante l’orario di lavoro, posti in essere da altri dipendenti dello stesso Comune, con particolare riferimento al fenomeno dell’assenteismo, precisando di essere in possesso di cospicua documentazione di quanto da lei asserito». Convocata negli uffici delle Fiamme gialle della città degli Imperiali, la donna, che è impiegata presso l’ufficio personale del Comune di Erchie, ha riferito agli investigatori «di aver riscontrato, quotidianamente, irregolarità nella registrazione delle timbrature relative alle presenze. In particolare – riporta il gip nell’ordinanza –, alcuni dipendenti comunali, compresi i responsabili di settore, omettevano di timbrare il cartellino, non rispettavano l’orario di lavoro, non effettuavano la timbratura del budge in uscita per la pausa pranzo o per motivi diversi». Giusto il tempo di esaminare la documentazione loro consegnata dall’impiegata dell’ufficio personale del Comune di Erchie, e gli investigatori delle fiamme gialle si sono messi al lavoro. In che modo? I finanzieri hanno proceduto ad installare, avendo prima chiesto e ottenuto l’autorizzazione del pm (titolare del fascicolo di indagine è il sostituto procuratore della Repubblica Valeria Farina Valaori) una telecamera nell’androne del municipio. Contemporaneamente hanno predisposto una serie di servizi di osservazione, controllo e pedinamento e hanno acquisito la documentazione inerente gli incarichi di lavoro di tutti i dipendenti del Comune di Erchie. Infine, si sono procurati la documentazione relativa alle due auto di servizio dell’ente locale (una Lancia Lybra e una dacia Lodgy) e ai buoni carburante elettronici. A conclusione delle indagini il gip, dopo un’attenta analisi della richiesta del pm, ha disposto nei confronti dell’architetto Carmelo Ciccarese (responsabile del IV settore – Lavori pubblici del comune di Erchie), Lucia Fanuli, Antonello Gennaro e Agata Rodi «la sospensione dall’esercizio del pubblico ufficio ricoperto presso il Comune di Erchie, interdicendo ai predetti, per la durata di mesi quattro dalla data di inizio dell’esecuzione, l’esercizio di ogni attività inerente l’ufficio». Con lo stesso provvedimento il gip ha disposto «l’applicazione, nei confronti di Alda Anna Maria Tanzariello e Antonio Gigli della misura interdittiva della sospensione del pubblico ufficio ricoperto per la durata di tre mesi».
DI FOGGIA… San Marco in Lamis, il boss ucciso con 2 fucilate alla nuca. Confermato il rito dell'esecuzione per Luciano Romito: stessa modalità anche per il cognato che fungeva da autista, scrive l'11 Agosto 2017 "La Gazzetta del Mezzogiorno". E’ stato ammazzato con due fucilate alla nuca il boss di Monte Sant'Angelo Mario Luciano Romito. E' quanto è emerso dalle autopsie eseguite presso l’istituto di medicina legale di Foggia delle quattro vittime dell’agguato di tre giorni fa a San Marco in Lamis. La stessa sorte è toccata al cognato di Romito, Matteo de Palma, che era l’autista del boss: anche lui è stato ucciso con un colpo di fucile alla nuca. I due fratelli contadini, uccisi perchè testimoni involontari del duplice omicidio, sono stati giustiziati con colpi sparati a distanza ravvicinata. Il questore di Foggia ha vietato i funerali, in forma pubblica, del presunto boss Mario Luciano Romito, ucciso nell’agguato dell’altro giorno. Si svolgeranno invece alle 16,00 di oggi nella chiesa della Collegiata, a San Marco in Lamis, dove è stato proclamato lutto cittadino, i funerali per Aurelio e Luigi Luciani, i due fratelli uccisi dai killer. I fratelli - è emerso dalle autopsie - sono stati ammazzati dai killer con colpi sparati con il fucile d’assalto AK 47 Kalashnikov: Aurelio Luciani che aveva tentato di fuggire uscendo dall’auto, è stato raggiunto da due colpi al fianco e uno al gluteo; il fratello Luigi è stato ucciso con due colpi alla testa e uno alla nuca. «A settembre il Csm provvederà alla nomina del nuovo Procuratore della Repubblica di Foggia. Sarà una delle prime azioni che faremo». Lo afferma Antonio Leone, Consigliere laico del Consiglio Superiore della Magistratura. "Mi sono confrontato con il Vicepresidente Legnini immediatamente dopo il drammatico episodio accaduto sul Gargano. Gli ultimi pareri relativi all’iter della nuova nomina sono arrivati proprio alla fine di luglio. Per questo motivo completeremo il percorso non appena gli uffici torneranno operativi. Per il futuro - conclude - valuteremo anche la richiesta al governo di un aumento dei Sostituti Procuratori per far fronte alle oggettive necessità del territorio. Purtroppo i fatti di questi ultimi giorni ci impongono, oltre che delle riflessioni, anche il compimenti di azioni rapide ed efficaci».
Foggia, agguato in strada al boss: 4 morti. Freddati due contadini testimoni involontari. A San Marco in Lamis l'obiettivo era Mario Luciano Romito, che è morto sul colpo con suo cognato. Poi i sicari hanno ucciso due fratelli che avevano visto tutto. Il ministro Minniti a Foggia per l'emergenza, scrive il 9 agosto 2017 "La Repubblica". Una pioggia di proiettili. E una strada di solito poco trafficata che si trasforma in una scena da Far West. La strage era stata pianificata nei minimi dettagli. Tutto è accaduto in pochi minuti intorno alle 10 sulla strada provinciale 272, nei pressi della vecchia stazione di San Marco in Lamis, in provincia di Foggia: quattro persone uccise da un commando armato e formato, forse, da quattro o cinque killer. Le vittime erano a bordo di due mezzi, trovati a una distanza di circa 500 metri l'uno dall'altro: due uomini sono stati uccisi mentre erano su un Maggiolone Wolkswagen blu scuro, gli altri due erano in un Fiorino bianco.
L'obiettivo dei killer era nel Maggiolone: si tratta del boss Mario Luciano Romito, cinquant'anni, di Manfredonia, a capo dell'omonimo clan che negli ultimi anni si è contrapposto al clan Li Bergolis nella cosiddetta 'faida del Gargano'. Con lui, nella vettura, c'era il cognato Matteo De Palma, che gli faceva da autista, anche lui morto all'istante. Secondo la ricostruzione fatta dai carabinieri del comando provinciale di Foggia, un'automobile con i sicari a bordo avrebbe affiancato il Maggiolone e i killer avrebbero aperto il fuoco con un fucile d'assalto kalashnikov Ak-47 e un fucile da caccia calibro 12, uccidendo sul colpo con una sventagliata di proiettili Romito e De Palma.
Poi il commando si è messo all'inseguimento del Fiorino a bordo del quale stavano tentando di fuggire due contadini, testimoni scomodi - a quanto sembra - del duplice omicidio. I due agricoltori, i fratelli Luigi e Aurelio Luciani, di San Marco in Lamis, rispettivamente di 47 e di 43 anni, hanno visto uccidere e hanno capito di essere in pericolo: avrebbero tentato la fuga, ma sono stati raggiunti e uccisi. Uno dei due contadini ha cercato anche di fuggire a piedi, ma i killer non hanno avuto alcuna pietà e hanno continuato a sparare. Uno dei due fratelli era ancora vivo quando è stato trasportato nell'ospedale di San Severo, dove però è morto poco dopo. Nel Fiorino sono stati trovati dai carabinieri attrezzi utilizzati per coltivare la terra e raccogliere verdure: i due agricoltori nulla avevano a che fare, secondo quanto emerso finora, con il boss e il cognato. Questi ultimi probabilmente erano arrivati per un appuntamento che si è rivelato invece essere una trappola mortale. L'agguato è stato compiuto da un gruppo di feroci criminali per affermare il proprio potere.
"Li immagino i fratelli Luciani, Luigi e Aurelio, capire in una frazione di secondo che quello che avevano visto li avrebbe condannati a morte", ha scritto Roberto Saviano sulla sua pagina Facebook. "Dopo aver freddato il presunto boss Mario Luciano Romito e il cognato e guardaspalle Matteo De Palma, i sicari li hanno inseguiti nei campi e li hanno finiti a sangue freddo. Il mio pensiero è subito corso a Rosario Livatino. La colpa dei fratelli Luciani era di essere al lavoro il 9 agosto. Vittime innocenti, colpevoli.
Secondo quanto emerge dalle indagini, coordinate dalla Direzione distrettuale antimafia (Dda) di Bari - sul luogo dell'agguato c'era il magistrato antimafia Pasquale Drago - i sicari potrebbero aver agito per una vendetta collegata a omicidi avvenuti in precedenza nella stessa zona. L'agguato è avvenuto in un tratto di strada che si trova a pochi chilometri da San Severo e Apricena, altri due comuni della Capitanata in cui recentemente sono avvenuti omicidi a causa della lotta tra clan per la spartizione degli affari illeciti sul territorio.
Dall'inizio dell'anno sono 17 gli omicidi avvenuti nel territorio foggiano. L'ultimo delitto, il 27 luglio, è stato quello di un ristoratore di Vieste, il 31enne Omar Trotta, freddato a colpi di pistola all'ora di pranzo mentre si trovava nel suo locale. "Quello che è accaduto - ha detto il sindaco di San Marco in Lamis, Michele Merla - è terribile, non ci sono parole per descrivere quello che è avvenuto". l punto della situazione dopo l'ennesimo agguato avvenuto nel Foggiano sarà fatto giovedì 10 dal ministro dell'Interno, Marco Minniti, che presiederà a Foggia una riunione del Comitato nazionale per l'ordine e la sicurezza pubblica, al quale parteciperà anche il governatore pugliese Michele Emiliano. Al termine il ministro incontrerà il sindaco di Foggia e i primi cittadini di alcuni dei comuni della Provincia. Il governo non fa "niente", accusa il leader della Lega, Matteo Salvini, che invoca l'esercito per le strade del Gargano. Libera, invece, per dare un segnale annuncia che il prossimo 21 marzo la Giornata della memoria e dell'Impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie si terrà a Foggia.
Il boss Romito era sfuggito ad altri agguati. Fra gli episodi più eclatanti c'è quello del 18 settembre 2009: il boss uscì illeso da un attentato dinamitardo mentre si stava recando, in compagnia del fratello Ivan, nella caserma dei carabinieri in cui aveva l'obbligo di firma. Il cofano dell'Audi A4 station wagon sulla quale viaggiavano lui e il fratello - anche lui non ebbe ferite - saltò in aria a causa di una bomba. E' stato inoltre coinvolto nel blitz contro la faida del Gargano portato a termine dai carabinieri il 23 giugno del 2004, ma due anni più tardi venne assolto da tutte le accuse. Mario Luciano è fratello di Franco Romito, anche lui considerato dagli inquirenti uno dei presunti boss delle famiglie coinvolte nella faida. Il regolamento definitivo dei conti tra le famiglie Romito e Li Bergolis cominciò subito dopo la sentenza di primo grado del secondo maxiprocesso alla mafia garganica (sentenza del 7 marzo 2009): poco più di un mese dopo, il 21 aprile 2009, Franco Romito venne ucciso insieme col suo autista. Da anni - è scritto negli atti giudiziari - Franco Romito aveva svolto un ruolo di confidente dei carabinieri e aveva perfino partecipato con i carabinieri a posti di blocco per riconoscere alcuni latitanti della mafia garganica.
I Romito e i Li Bergolis erano stati alleati per anni, nella loro lotta contro il clan rivale degli Alfieri-Primosa, ma l'alleanza era durata fino alla lettura degli atti giudiziari, sino a quando i Li Bergolis avevano scoperto che Franco Romito li aveva traditi da tempo, quando era diventato confidente degli investigatori, anche barattando, dunque, i suoi amici di un tempo con la libertà. Franco Romito soltanto una decina di mesi prima di essere ucciso era stato assolto da accuse pesanti: associazione mafiosa, traffico di droga, duplice omicidio. Sia in primo sia in secondo grado era emersa la sua collaborazione con i carabinieri a varie operazioni tra le quali una trappola tesa nella sua masseria di Manfredonia (nella quale aveva fatto piazzare microspie agli investigatori) per far confessare omicidi ed estorsioni ai boss dei clan rivali dei Li Bergolis e Lombardi. All'uccisione di Franco Romito seguirono varie feroci esecuzioni con una scia di morti, tra cui il figlio di lui il 23enne Michele, freddato il 27 giugno del 2010 in un agguato mentre era in auto con lo zio, Mario Luciano Romito, scampato alle pallottole e ferito in maniera lieve.
San Marco in Lamis, omicidio fratelli Luciani: uno scambio di persona? Agricoltori uccisi: spunta l’ipotesi di uno scambio di persona, turista “graziata” dal commando. Aurelio e Luigi Luciani potrebbero esser stati scambiati per due fedelissimi di Mario Luciano Romito, che avrebbero lo stesso pick up bianco dei due agricoltori uccisi, scrive Maria Grazia Frisaldi l'11 agosto 2017 su "Foggia Today". Uccisi perché testimoni scomodi di un agguato di mafia, oppure - ipotesi investigativa che prende sempre più corpo nelle ultime ore - perché vittime di un tragico scambio di persona. Nel giorno delle esequie di Luigi e Aurelio Luciani, vittime innocenti dell’agguato di mafia del 9 agosto scorso, si fa strada l’idea che i due fratelli agricoltori di San Marco in Lamis possano essere stati uccisi dal commando che lo scorso mercoledì mattina ha freddato, a colpi di kalashnikov e fucili, il presunto boss Mario Luciano Romito ed il cognato Matteo De Palma, entrambi di Manfredonia, perché scambiati per due “fedelissimi” dei Romito. Agricoltori uccisi, uno scambio di persona? A trarre in inganno i killer potrebbe essere stato il mezzo a bordo del quale i due Luciani, agricoltori incensurati del posto amati e stimati da tutti, erano a bordo: un pick up bianco, identico a quello di altri due sammarchesi con i quali verosimilmente Romito e De Palma avevano un appuntamento nei pressi della vecchia stazione ferroviaria del paese garganico, luogo dell’imboscata. Sulle indagini, condotte dall’Arma dei carabinieri, vige il più stretto riserbo. Ma questa ipotesi investigativa lascerebbe intendere che i sicari non fossero del posto, ovvero che non conoscessero direttamente gli obiettivi dell’agguato, ma avessero solo indicazioni sui mezzi da colpire. La turista americana minacciata e graziata dal commando. Un’ipotesi che prende corpo e sostanza anche alla luce della circostanza, ancora tutta da vagliare, secondo la quale, una terza persona - una donna, turista straniera in transito sulla Pedegarganica - sia stata “graziata” dal commando: minacciata con le armi, la donna sarebbe stata costretta ad allontanarsi nonostante fosse da ritenersi, anche lei, una “testimone scomoda” dell’agguato al pari delle altre due vittime. L’autopsia sui corpi e i funerali. Nella mattinata di ieri, intanto, è stata effettuata l’autopsia sui corpi dei quattro coinvolti nella strage. Almeno una trentina di colpi, quelli esplosi dai killer, con kalashnikov e fucili calibro 12. Per i due Luciani, questo pomeriggio, nella chiesa della Collegiata di San Marco in Lamis, si terranno i funerali di Stato; quelli di Romito e De Palma sono stati effettuati in forma privata questa mattina per essere tumulati subito dopo. Altre 15 perquisizioni, insieme a quelle effettuate dai carabinieri nell’immediatezza dei fatti, sono state eseguite nelle ultime ore dai militari a carico di pregiudicati della zona.
Se la mafia uccide l’antimafia se ne infischia, scrive Piero Sansonetti l'11 Agosto 2017 su "Il Dubbio". Giornali, politici, intellettuali anti-mafia ignorano la strage di mafia di San Marco in Lamis, in provincia di Foggia. L’altro giorno nelle campagne di San Marco in Lamis, provincia di Foggia, la mafia pugliese ha trucidato quattro persone. Due delle vittime forse erano anche loro legate ai clan, le altre due erano due contadini di passaggio, che hanno visto e hanno provato a scappare, ma sono stati inseguiti, raggiunti e scannati sul posto, perché erano testimoni pericolosi. Mi pare che una strage mafiosa di queste dimensioni e di questa ferocia non avvenisse da diversi anni, forse dobbiamo risalire alla mattanza di Duisburg di dieci anni fa per trovare un precedente. Eppure sulla stampa non ha avuto grande risalto. Guardavo ieri mattina le prime pagine dei giornali più legati all’idea di giornalismo gridato ( e cioè Libero, il Giornale, Il Fatto Quotidiano e La Verità) ma la notizia della strage pugliese non appare. Zero titoli, zero righe. Neppure sulla prima pagina di un giornale di livello intellettuale decisamente superiore, come il manifesto, ci sono titoli né righe. La compagnia dell’antimafia che se ne infischia delle cosche. E sui giornali che invece se ne occupano non ho trovato dichiarazioni di esponenti politici nazionali, o di uno dei capi della commissione parlamentare antimafia. Neanche ho visto interviste a magistrati del settore. Fatto insolito. L’unico che si è occupato della cosa – oltre al ministro Minniti è il Superprocuratore Roberti, e la cosa va a suo merito. Non mi indigno, perché la bellezza del giornalismo – e della politica, e forse anche della magistratura – è che ciascuno è autorizzato a valutare le notizie come crede. Però mi stupisco un po’. Perché mi pareva che un omicidio plurimo così feroce – al di là di come la si pensi sulla politica, o sulla mafia, o sulla giustizia – fosse degno di essere preso in considerazione dal sistema dell’informazione. E potesse suggerire delle riflessioni, anche importanti, su eventuali novità nel pianeta mafioso. Tanto più che siamo in pena estate, le notizie mancano e molti giornali, proprio ieri, per trovare un titolo da mettere in prima pagina si sono dovuti occupare di un certo Gianluca Vacchi, che io non ho ancora capito bene chi sia e perché sia famoso, oltre che per una discreta quantità di muscoli e – pare – di milioni. Però questa situazione mi spinge a due riflessioni serie. Una delle quali riguarda la mafia e l’altra riguarda il giornalismo. Partiamo dalla mafia. Da molti anni l’intellettualità italiana è attiva sul tema della lotta alla mafia. Per lei è un fiore all’occhiello. L’antimafiosità dell’intellettualità italiana è la prova della sua tempra morale. E schierata compatta dietro ogni iniziativa della magistratura. In particolare lo sono alcuni giornali, e sicuramente – ad esempio – il Fatto è tra questi. Come mai, invece, sulla strage di Foggia questo disinteresse? Temo che la spiegazione sia scritta in quel famoso articolo di Leonardo Sciascia, che negli anni ottanta, con una geniale intuizione, segnalò l’esistenza dei «professionisti dell’antimafia». All’inizio questa categoria riguardava un certo numero di persone che combatteva realmente la mafia, e poi faceva della lotta alla mafia uno strumento politico, o di potere, o di carriera. Successivamente si è sviluppata, col tempo, si è trasformata in “compagnia antimafia”, si è allargata a dismisura, ha conquistato la commissione parlamentare ( che si è messa alla sua testa, insieme a un paio di intellettuali doc e qualche giornalista) ed è diventata un luogo dove nessuno sa niente di mafia, nessuno si occupa di combatterla, ma in molti si applicano alla possibilità di usare la categoria dell’antimafia per ragioni di lotta politica e come strumento per manganellare gli avversari. Si è creata una completa scissione e autonomizzazione tra mafia e antimafia. Si è persa ogni connessione. L’antimafia esiste a prescindere dalla mafia e non è molto interessata all’evoluzione della mafia. E’ indipendente. Così succede che se per caso in un paese del casertano arrestano un assessore e lo accusano di concorso esterno in associazione mafiosa, l’intera compagnia dell’antimafia scatta come un sol uomo, e grida contro quest’assessore, e lo dichiara colpevole, e chiede conto al suo partito e ogni tanto chiede anche le dimissioni del ministro dell’Interno. Non parliamo dell’ipotesi che nella città più grande d’Italia vengano arrestati un po’ di tangentari incalliti e anche loro colpiti col famoso articolo 416bis (associazione mafiosa), anche se abbastanza presto appare a tutti evidente che la mafia non c’entra nulla. Titoli a nove colonne (si diceva così una volta) su tutti i giornali per giorni e giorni, riunioni, dichiarazioni, sit- in, flash-mob, fiaccolate e convegni. E molta indignazione su Facebook. Se poi la mafia, la mafia vera, attuale, vivente, prende un kalasnikov e cosparge di sangue la campagna di Foggia, tutti pensano che sia un piccolo fatto di cronaca nera, da lasciare ai neristi. Perché? Esattamente per la ragione che dicevamo prima. Loro dicono: «Noi siamo l’antimafia, che ci importa a noi della mafia?». L’avete vista, ieri, Rosy Bindi? Macché. Si è occupata recentemente del campionato di calcio, delle tifoserie, di come si fanno i giornali, ha interferito nella compilazione delle liste elettorali, ma una strage mafiosa non sembra materia per la sua commissione. La seconda riflessione riguarda di striscio la questione mafiosa, ma riguarda il giornalismo. E il modo nel quale sta evolvendo. Sempre più lontano dai fatti, dalle cose che succedono, da quelle che una volta si chiamavano le notizie. E’ attratto da tutt’altro. Il giornalismo è sempre stato un campo di battaglia politica, e lo è in tutto il mondo. Persino negli Stati Uniti, dove forse esiste il giornalismo migliore e più moderno del pianeta, la politica c’entra sempre ed è uno dei campi di azione Da noi però sta avvenendo un completo ribaltamento della struttura del giornalismo. Il giornalismo sta diventando – per un numero sempre crescente di giornali – esclusivamente uno strumento di battaglia politica. E le notizie che non abbiano implicazioni nella battaglia politica sono diventate prive di interesse. Una volta alla riunione di redazione si elencavano prima tutte le notizie, poi si decideva come occuparsene, in quale gerarchia ordinarle, ed eventualmente come commentarle e come costruire su di esse delle battaglie politiche o culturali. Oggi alla riunione di redazione si decide che battaglia aprire (in genere è una battaglia contro Renzi…) e poi si vede se ci sono notizie che possono essere utili per questa battaglia, e si lavora su di esse. Tutte le altre notizie, se c’è posto, nelle ultime pagine.
PARLIAMO DELLA SARDEGNA.
Doddore Meloni muore come Bobby Sands: di fame, scrive Damiano Aliprandi il 6 luglio 2017 su "Il Dubbio". L’indipendentista sardo,74 anni, era in carcere dallo scorso 28 aprile per obiezione fiscale, da due mesi aveva smesso di nutrirsi. Si dichiarava «detenuto politico». È morto Doddore Meloni, dopo quasi due mesi di sciopero della fame intrapreso durante la sua detenzione. A fine giugno era stato ricoverato d’urgenza all’ospedale Santissima Trinità di Cagliari. Le condizioni sempre più gravi, il diffuso stato soporoso e la lentezza generalizzata del paziente hanno spinto il coordinatore sanitario della Casa circondariale di Cagliari - Uta Antonio Piras a trasferire Meloni in ospedale. Il suo legale aveva messo in guardia le istituzioni che Meloni rischiava di morire. Francesca Meloni, la figlia di Doddore, si era incatenata sulle scale del Palazzo di Giustizia di Cagliari, per chiedere che al padre vengano riconosciuti gli arresti domiciliari. Accompagnata da Cristina Puddu, l’avvocato difensore di Doddore, Francesca si era incatenata alla ringhiera d’ingresso del tribunale, imbavagliata, mentre altri attivisti avevano avviato una raccolta di firme per solidarietà. Il legale aveva fatto istanza al tribunale di sorveglianza per chiedere i domiciliari, ma in seguito il magistrato la respinse. Poi si è aggravato sempre di più tanto da essere trasferito in ospedale: ma era troppo tardi e dopo due giorni di coma è morto. Meloni era l’ultimo degli indipendentisti sardi. Era stato arrestato il 28 aprile scorso autodichiarandosi subito “detenuto politico belligerante ai sensi dei trattati internazionali sui diritti umani ratificati anche dallo Stato italiano”. L’indipendentista sardo era un uomo di 74 anni controverso, visionario, protagonista di clamorose proteste e azioni. Si era dichiarato innocente per l’ultimo arresto per reati di natura fiscale. Si era sentito vittima di un accanimento giudiziario. L’indipendentista sardo, prima di essere fermato dai carabinieri, aveva detto: «Sono condanne ingiuste frutto della persecuzione giudiziaria scatenata nei miei confronti nel 2008, all’indomani della proclamazione della Repubblica indipendente di Malu Entu, per impedirmi di continuare a lottare per l’indipendenza di tutta la Sardegna». Doddore ha condotto una vita sempre in bilico che persegue un’idea politica propriamente sovversiva. Nato a Ittiri (Sassari), ma residente a Terralba (Oristano), autotrasportatore di professione con la passione politica dell’indipendentismo, Doddore è un personaggio molto noto in Sardegna, non solo perché anni fa, con un centinaio di militanti indipendentisti aderenti al Partito Indipendentista Sardo (Paris), ha occupato l’isola di Mal di Ventre, autoproclamandosi presidente della Repubblica di Malu Entu (il nome sardo di Mal di Ventre). Il suo nome balzò alle cronache per la prima volta più di 30 anni fa, per un presunto golpe separatista che costò a Meloni nove anni di carcere. Allora militava nel Partito sardo d’Azione, ed era stato accusato di aver compiuto un attentato alla sede di Cagliari della Tirrenia dopo che in casa gli avevano trovato dell’esplosivo. Con lui finì in carcere un noto indipendentista sardo, il professor Bainzu Piliu, considerato “la mente” del presunto complotto separatista per staccare la Sardegna dallo Stato italiano e altre 13 persone, tra cui un libico che, secondo l’accusa, aveva preso contatti con i separatisti sardi in Sicilia. E qui entra in scena perfino Gheddafi. Meloni raccontò che il colonnello libico addestrava i “patrioti sardì” nei campi paramilitari nel deserto africano, preparandoli all’ora x che sarebbe dovuta scattare una notte di Natale, con l’occupazione di una caserma militare e il blocco delle strade dell’Isola. Una rivoluzione in piena regola con proclama annunciato alla radio, raccontava Doddore. Dopo un lungo periodo di silenzio, una volta uscito dal carcere, Meloni era poi tornato alla carica con l’occupazione dell’isola di Mal di Ventre, dove aveva costituito un governo con tanto di invio al segretario generale delle Nazioni Unite della richiesta di ammissione della Repubblica di Malu Entu all’Onu. Viene creata la bandiera – rosso e blu in bande orizzontali con al centro sei figure che rappresentano la cultura sarda e la scritta Repubblica Malu Entu – e la moneta locale. Da allora Meloni è tornato spesso all’onore delle cronache con decine di iniziative (occupazioni, sciopero della fame davanti alla Regione Sardegna) anche contro Equitalia, e promuovendo, nel passato, anche un referendum sull’indipendenza della Sardegna. Meloni credeva nella sua lotta politica. Non a caso si era portato in cella la biografia di Bobby Sands, l’indipendentista irlandese di 27 anni che nel 1981 si è lasciato morire in carcere di fame e di sete. Doddore Meloni aveva annunciato l’intenzione di fare lo stesso. Infatti, non ha più mangiato, e per molto tempo non aveva bevuto. Alla fine gli è toccata l’amara e tragica sorte del suo punto di riferimento politico.
…DI CAGLIARI. Turbativa d'asta: indagati 3 magistrati. Vicenda relativa assegnazione villa in Costa Smeralda, scrive "L'Ansa" il 9 marzo 2017. Due magistrati di Cagliari, Chiara Mazzaroppi (Tribunale, sezione civile) e Andrea Schirra (Procura generale) ed un giudice dell'esecuzione di Tempio Pausania, Alessandro Di Giacomo, sono indagati dalla Procura di Roma per turbativa d'asta in relazione all'aggiudicazione di una villa a Baia Sardinia dell'imprenditore di Arzachena Sebastiano Ragnedda, titolare delle cantine Capichera, scomparso nel 2015. Indagati per la stessa ipotesi di reato anche due avvocati, Giuliano Frau e Tomasina Amadori, marito e moglie legali di Mazzaroppi e Schirra, la cui abitazione e lo studio legale sono stati perquisiti, su iniziativa del pm Stefano Rocco Fava, ad Arzachena ed Olbia dalla guardia di finanza e dalla polizia. Al centro della vicenda - si legge nel decreto di perquisizione - la procedura di vendita dell'immobile, di proprietà della società Rebus, presso il tribunale di Tempio Pausania. Secondo l'accusa la villa sarebbe stata assegnata nel gennaio 2016 a Mazzaroppi, quest'ultima figlia di Francesco, già presidente del tribunale di Tempio Pausania per otto anni, e Schirra a 472 mila euro, prezzo calcolato, rispetto a quello d'asta di 524 mila euro, con l'abbattimento del 25 percento per la presenza nell'immobile di un occupante che, in realtà, era morto nell'ottobre del 2015. Con la maggiorazione dovuta all'assenza dell'occupante il prezzo d'asta sarebbe lievitato a 655 mila euro.
PARLIAMO DELLA SICILIA.
Ingroia indagato a Palermo per peculato: "rimborsi non dovuti". Interrogato in procura, i reati contestati sarebbero stati commessi in qualità di amministratore di Sicilia e-Servizi. Indagine sull'indennità di risultato da 117 mila euro che l'ex pm si è liquidata. La replica: "Non ho nulla da rimproverarmi", scrive il 7 marzo 2017 "La Repubblica". L'ex pm di Palermo Antonio Ingroia è indagato per peculato. L'ex magistrato, ora amministratore della società regionale Sicilia e servizi, è stato interrogato questa mattina, in procura. Secondo l'accusa avrebbe percepito, indebitamente, una serie di rimborsi per trasferte, proprio nella qualità di amministratore della società regionale. Sotto inchiesta, inoltre, è finita anche l'indennità di risultato che Ingroia si è liquidato. La Procura mantiene il più stretto riserbo sul caso. L'indagine, coordinata dall'aggiunto Dino Petralia e dai pubblici ministeri Piero Padova ed Enrico Bologna, prende in esame il periodo compreso tra il 2014 e il 2016. Secondo gli inquirenti, Ingroia avrebbe intascato rimborsi per trasferte per 30 mila euro comprensivi dei trasporti e delle spese di vitto e alloggio, nonostante fossero rimborsabili solo i soldi spesi per il viaggio. L'ex magistrato, assistito dall'avvocato Mario Serio, si è difeso sostenendo che la norma che disciplina i rimborsi comprende non solo il trasporto, ma anche le altre spese di viaggio. Più complessa è la contestazione relativa alla liquidazione dell'indennità di risultato. Secondo l'accusa a fronte di un utile di 33 mila euro, l'amministratore di Sicilia e servizi si sarebbe liquidato un'indennità di 117 mila euro: somma che avrebbe comportato per la società un deficit di bilancio. L'indennità di risultato, dal 2008, ha una nuova disciplina che prevede la liquidazione delle somme solo in presenza di utili e comunque in misura non superiore al doppio del cosiddetto compenso omnicomprensivo. La previsione legislativa renderebbe indebito, a fronte di un utile di 33 mila euro un compenso di 117 mila.
Ingroia: "Sempre agito nel rispetto delle leggi". L'ex pm, in lunga nota, ribatte alle accuse. "In merito all'indagine della procura di Palermo sui miei compensi come amministratore di Sicilia e-servizi, preciso che si tratta di una vicenda vecchia, che avevo già ampiamente chiarito a suo tempo in sede giornalistica, dal momento che a sollevare il caso fu un articolo del settimanale L'Espresso del febbraio 2015 in cui erano riportate cifre inesatte e notizie incomplete. Questa indagine mi consente comunque di sgomberare una volta e per tutte, anche in sede giudiziaria, il campo da ogni equivoco, sospetto e maldicenza su una storia totalmente infondata". "Oggi - aggiunge - sono stato convocato in procura a Palermo per dare spiegazioni e ho fatto presente ai magistrati il mio stupore perchè la contestazione nei miei confronti si basa su una legge del 2006 abrogata nel 2008 dalla legge n. 133 (Art. 61, Comma 12). Per quanto riguarda in particolare il cosiddetto premio di indennità da risultato, si tratta di un riconoscimento previsto dalla legge in caso di raggiungimento di determinati obiettivi e serve a integrare una indennità certamente non commisurata alle grandi responsabilità in capo all'amministratore di una società come Sicilia e-Servizi, che gestisce svariate decine di milioni di euro ogni anno". Inoltre, continua Ingroia, "Va puntualizzato che il diritto all'indennità non me la sono certamente attribuita io ma mi è stata riconosciuta dall'assemblea dei soci e segnatamente dalla Regione Sicilia. Per quanto riguarda invece il capitolo relativo alle spese di viaggio da me sostenute, ricordo solo che all'atto della mia nomina come amministratore unico di Sicilia e-Servizi ero già residente a Roma da tempo e che la legge prevede, in caso di nomina di professionisti residenti fuori sede, il rimborso delle spese di viaggio, ossia trasporto, vitto e alloggio, così confermato da più pronunce della Corte dei conti. Spese tra l'altro contenute, come ho avuto modo di dimostrare alla procura, sulla base di un regolamento dei rimborsi spese che io per la prima volta ho introdotto a Sicilia e-Servizi. Detto questo, rivendico con orgoglio i risultati raggiunti alla guida di Sicilia e-Servizi, avendo salvato nel 2013 la società dal baratro del fallimento e avendo così salvato sia i servizi informatici per i siciliani che i posti di lavoro dei dipendenti". "Restano lo stupore e l'amarezza - conclude Ingroia - per questa contestazione fondata su leggi non più in vigore già al tempo dei fatti e, in più, nel constatare che qualcuno ha dato in pasto alla stampa la notizia di questa indagine. Ma siccome sono certo del riserbo mantenuto dai magistrati sono certo che la procura di Palermo saprà agire con la stessa energia e saggezza dimostrata dalla procura di Roma dopo la fughe di notizie sull'inchiesta Consip, perchè è stupefacente che la notizia sia stata data dalle agenzie di stampa solo pochi minuti dopo che io ho lasciato gli uffici della procura".
Consulenze folli in Sicilia: "Dodici volte gli stipendi". La Corte dei conti denuncia le irregolarità nelle partecipate. Aperte 51 istruttorie sulla sanità, scrive Lodovica Bulian, Mercoledì 1/03/2017, su "Il Giornale". Irregolarità gestionali. Violazioni dei divieti di assunzione. Consulenze facili. Obblighi di trasparenza aggirati. Un «fenomeno grave» e una «piaga per la finanza regionale» che nemmeno scandali e cicliche ondate di indignazione riescono a curare. Il buco nero delle partecipate siciliane continua a inghiottire risorse. E nel carrozzone che si alimenta con soldi pubblici ma è sempre a secco, spesso il fine del bene comune sbiadisce negli intrecci tra affari e poltrone. Il quadro dipinto dalla procura della Corte dei Conti all'inaugurazione dell'anno giudiziario offre una bocciatura senza appello alla rete di società controllate della Regione Sicilia. Ma anche alla classe politica, ai gruppi del parlamentino a cui «manca il senso del non sono soldi miei, manca il senso dello Stato», e pure alla sanità, tra errori professionali e finanziari. L'appalto dell'ospedale di Agrigento, per esempio, è costato 12 milioni di danni. Ma è l'economia regionale la bestia nera. Nel solo 2016 la magistratura contabile ha aperto 13 istruttorie e scoperchiato un calderone da cui sono emerse «irregolarità» dovute a «risorse pubbliche impiegate per il reclutamento di personale in violazione dei divieti di assunzione e di ogni obbligo di evidenza pubblica». Dentro la giungla delle controllate non c'è solo l'ultimo caso riportato dal Giornale di Riscossione Sicilia, l'ente nato per incassare tasse ma che negli ultimi dieci anni non ne ha riscosse per 52 miliardi di euro. A proposito, perdeva 14 milioni nel 2014, ultimo bilancio pubblicato, ma con la finanziaria presentata all'Ars il governo Crocetta è pronto a iniettarci altri 42,5 milioni, oltre ai 29 già previsti per il prossimo anno. Settanta in due anni per una società che nel 2015 è stata capace di recuperare 480 milioni su 5 miliardi di tributi da riscuotere. Cifre su cui si litiga in questi giorni in commissione Bilancio. Il presidente Vincenzo Vinciullo avverte: «Manca la relazione tecnica che giustifica l'impiego di questi 42 milioni e degli altri 29. Non approveremo poste che non siano motivate e dettagliate. A che servono tutte queste somme?». Non c'è solo Riscossione, appunto. L'occhio della procura è caduto su Sicilia Immobiliare Spa, la partecipata creata nel 2006 per «valorizzare» il patrimonio pubblico della Regione. È già avviata alla liquidazione ma continua a macinare denaro dei contribuenti attraverso consulenze «che superano fino a 12 volte l'importo delle retribuzioni dei dipendenti», ha denunciato il procuratore regionale Giuseppe Aloisio. Si tratta soprattutto di legali esterni ingaggiati per l'assistenza in contenziosi accesi in gran parte contro la stessa controllante, la Regione siciliana. Un circolo vizioso di sprechi, quello dei contenziosi «instaurati dai terzi nei confronti delle società» e dei costi «per consulenze e incarichi conferiti dagli amministratori». «Convocheremo i vertici, chiederemo spiegazioni di queste consulenze e in caso invieremo gli atti in Procura», assicura Vinciullo. Intanto il virus della malagestione infetta anche la sanità. Qui le istruttorie aperte sono 51 e contengono «errori sanitari da non imputare solo al personale medico ma anche all'organizzazione delle aziende sanitarie». I problemi riguardano la fornitura di beni e servizi. Come l'appalto per la costruzione dell'ospedale di Agrigento, «realizzato con cemento depotenziato: il danno è di 12 milioni di euro».
Se in due anni i disabili in Sicilia aumentano del 130 per cento. Dopo le urla tra Pif e il governatore Crocetta, scrive Felice Cavallaro il 26 febbraio 2017 su "La Repubblica". Dopo le urla tra Pif e Rosario Crocetta, fra il regista alla guida di una truppa di disabili in carrozzella e il governatore della Sicilia, dopo le dimissioni dell’assessore alla Famiglia e il terremoto seguito all’inchiesta tv delle «Iene» sull’abbandono di chi ha diritto all’assistenza, la regione da sempre con il più alto numero di falsi invalidi rischia di guadagnare un altro ignobile primato perché da una indagine interna si scopre che, negli ultimi due anni, i portatori di gravissimi handicap sarebbero aumentati del 130 per cento. Passando da 2.203 a 3.682 casi. Con stratosferiche punte del 3.500 per cento in un paese sotto l’Etna come Giarre. E con Agrigento in testa fra i capoluoghi di provincia, visto che con 60 mila abitanti ne avrebbe 323, contro i 102 di Palermo che ha 770 mila abitanti. Inevitabile pensare a quel disabile che qualche anno fa, durante una partita di serie A, seppure inchiodato alla carrozzella che gli aveva consentito di attraversare gratuitamente tutti i varchi di sicurezza, piazzandosi col suo accompagnatore a bordo del prato della Favorita, schizzò su per miracolo saltando di gioia al primo gol del Palermo. Eloquente istantanea di una furbizia meridionale da macchietta cinematografica. La stessa scoperta proprio da Crocetta, dopo avere dimissionato l’assessore beccato dalle «Iene», Gianluca Micciché, insediandosi al suo posto come assessore pro tempore. Immediata una ricognizione fra burocrati allarmati. Clamorosa la denuncia rivelata da Crocetta ieri mattina davanti al ministro della Salute Beatrice Lorenzin mentre stavano celebrando i 110 anni della più antica casa di cura italiana, la «Candela» di Palermo. Da una parte, gli elogi a una struttura privata con un’attività di servizio pubblico definita eccellente. Dall’altra, il disastro delle cifre. A Licata, con 61 mila abitanti, ci sarebbero 144 disabili con necessità di assistenza continua, cioè 42 in più di Palermo dove il fenomeno è tenuto sotto costante controllo dal direttore dell’Azienda sanitaria Antonio Candela, non a caso più volte minacciato, ma recentemente premiato per questo al Quirinale dal presidente Mattarella. Si impone così un monitoraggio stretto, «modello Palermo» come dice il sindaco Leoluca Orlando, e come ribadisce il ministro Lorenzin: «Siamo in sintonia con la Regione. In questo campo non si possono distogliere risorse». Come Crocetta pensa sia accaduto: «Forse in tanti comuni si pensa più alle cooperative che devono espletare i servizi e meno ai veri sfortunati che hanno bisogno di assistenza».
Forestali, finti malati e vitalizi. Ecco l'isola del Bengodi. I 23mila agenti costano 250 milioni, quanti abusi sui permessi. E i politici in pensione pesano per 18 milioni, scrive Angelo Amante, Venerdì 17/02/2017, su "Il Giornale". Non solo la libertà di non pagare tasse per cinquantadue miliardi di euro come svelato ieri dal Giornale, ma un intero sistema di illegalità e compiacenze, che fa della Sicilia un'isola del Bengodi. Con soldi pubblici. E naturalmente a vantaggio dei furbetti con un santo in paradiso. I più noti tra questi sono i ventitremila forestali, arruolati periodicamente da politici a caccia di voti. Secondo una relazione presentata dalla Corte dei conti regionale, costano 250 milioni di euro l'anno. Non basta. A causa di un accordo sindacale, dal 2002 a oggi seimila addetti all'antincendio si sono visti rimborsare trasferte, anche di pochi chilometri, per ulteriori 40 milioni. La macchina pubblica è elefantiaca, malgrado la riduzione dei costi raggiunta grazie a una pioggia di pensionamenti. Nel 2016 la Regione ha speso quasi 600 milioni di euro per gli stipendi del personale, cento in meno dell'anno prima. Ciò nonostante, la cifra rimane sei volte superiore a quella sborsata dalla Lombardia. La Sicilia è anche terra di malati immaginari. I più cagionevoli di salute sono gli agrigentini, capaci di denunciare le più svariate patologie, dai problemi di udito fino al diabete, allo scopo di ottenere i benefici della legge 104. Sono centinaia di insegnanti e bidelli, desiderosi di assicurarsi un posto di lavoro vicino casa. E ci riuscivano, con l'aiuto di medici compiacenti oggi finiti sotto indagine. Il sistema di smaltimento dei rifiuti fotografa meglio di tutti il legame tra sprechi e malaffare nella regione governata da Rosario Crocetta. Quindici miliardi buttati dal 2002 a oggi, senza trovare soluzioni alternative alle discariche. Una differenziata pressoché inesistente (al dodici per cento) e l'assenza di termovalorizzatori portano nelle tasche degli imprenditori del pattume 800 milioni l'anno. Il risultato, nonostante i siciliani paghino cifre astronomiche per la gestione dell'immondizia, è il collasso del sistema. Sacchi neri per le strade, impianti stracolmi e l'ombra della mafia che avrebbe imposto assunzioni alle ditte. Le mani di Cosa nostra si allungano anche sulla società che operano nella rete idrica. Lo scorso anno la Dda di Palermo ha messo nel mirino la Girgenti Acque, attiva nel territorio di Agrigento. Anche in questo caso, l'illegalità si sarebbe accompagnata a un sistema di assunzioni in cambio di voti. Un capitolo a parte è lo scandalo formazione professionale. Gli enti sorti in tutta l'isola avrebbero utilizzato fondi regionali per 200 milioni di euro a scopo privato. Soldi dei cittadini finiti in automobili, gioielli e orologi. La politica pura, quella dei palazzi, non si comporta meglio delle amministrazioni che governa. La Sicilia spende 18 milioni l'anno per pagare i vitalizi agli ex deputati regionali e le pensioni di reversibilità ai parenti. È una cifra più alta di quella necessaria a saldare gli stipendi annuali dei componenti dell'assemblea. Esponenti di tutti i partiti sono stati condannati dalla Corte dei conti a restituire soldi pubblici scialacquati negli anni trascorsi a Palazzo dei Normanni. L'ultimo in ordine di tempo è Francesco Musotto, ex capogruppo del Movimento per l'Autonomia di Raffaele Lombardo, che dovrà restituire 589mila euro. Completano il quadro le spese per l'acquisto di «materiale informatico e tecnico» nel 2016. La Sicilia ha speso in penne e matite 1,7 milioni di euro, contro i 112 mila della Lombardia e i 640 mila della Campania.
La Sicilia degli sprechi. Ars, diciotto milioni per le pensioni. Sette vanno agli eredi dei deputati. La spesa annuale per la reversibilità. Tra i beneficiari anche figli e vedove di nove parlamentari della prima legislatura e onorevoli rimasti in carica poche ore, scrive Emanuele Lauria l'8 gennaio 2017 su "La Repubblica". Quella spesa è una delle voci fisse del bilancio dell’Ars. Perenne, immutabile. Circa diciotto milioni di euro annui che, senza sensibili variazioni, nell’ultimo lustro sono andati via per pagare i vitalizi agli ex deputati e le pensioni di reversibilità a parenti di onorevoli scomparsi. Una somma superiore a quella degli stipendi per i parlamentari in carica. A perpetuarsi è un sistema di favore che premia gli eredi di esponenti politici, a volte semisconosciuti, che hanno militato fra i banchi di Sala d’Ercole persino nell’immediato Dopoguerra. Proprio quest’anno ricorre il settantesimo anniversario della prima seduta dell’Ars: a nove parenti di deputati presenti quel giorno l’amministrazione di Palazzo dei Normanni paga ancora una pensione. Chi sono? Una pensione da circa tremila euro al mese va alla figlia di Ignazio Adamo, un marsalese eletto per il Blocco del popolo e all’Ars sino al 1955. Anna Maria Cacciola è invece la discendente in linea diretta di Natale Cacciola, che nacque in provincia di Messina prima del terremoto e nel ’47 si candidò per il Partito monarchico: grazie all’esperienza in Parlamento del papà (durata quattro anni in tutto), la signora Cacciola percepisce ancora un vitalizio da oltre duemila euro al mese. E chi si ricorda di Elios Costa, altro esponente trapanese del Blocco del popolo che subito dopo la guerra sbarcò all’Ars grazie a 14mila voti di preferenza? Se ne rammenta di certo la Ragioneria dell’Assemblea, che alla vedova versa ogni mese una pensione da 2.500 euro. Un altro pioniere fra i comunisti all’Ars fu Pietro Di Cara, che rimase in Parlamento dal 1947 al ’55 e in quel periodo fu pure segretario della Camera del Lavoro di Messina: la vedova è tuttora titolare di un assegno di reversibilità. Francesco Lanza di Scalea era invece un esponente del blocco liberale democratico qualunquista: a Sala d’Ercole stette appena tre anni. Un mandato che tuttora vale una pensione da duemila euro per la moglie. Stesso beneficio per la vedova di Michele Semeraro, altro frequentatore della prima legislatura dell’Ars (adesso siamo alla sedicesima) che rappresentava il Blocco del popolo. Carneadi e nomi noti della politica siciliani si alternano, nell’elenco dei percettori della pensione di reversibilità all’Ars: un assegno va anche al figlio di Giuseppe Alessi, il primo presidente della Regione siciliana, e alla vedova di Pompeo Colajanni, storica figura di partigiano e antifascista, che in Assemblea è rimasto per sei legislature, ricoprendo anche la carica di vicepresidente. Fra i beneficiari pure la moglie di Giuseppe D’Angelo, esponente della Dc che nel primo governo Alessi fu assessore all’Alimentazione e che all’Ars è rimasto fino al 1967 (ricoprendo anche l’incarico di presidente della Regione). La lista degli assegni di reversibilità comprende 130 nomi di beneficiari, undici in più di quelli che comparivano due anni fa. Il costo? Ogni mese 590mila euro, circa sette milioni l’anno. Sono invece 180 gli ex onorevoli ancora in vita che sono titolari di vitalizi “diretti”, per una spesa complessiva di quasi 882mila euro al mese, oltre dieci milioni di euro l’anno. Fra questi, anche parlamentari che sono passati dalle parti di Palazzo dei Normanni per poche settimane. È il caso di Salvatore Caltagirone, esponente di Alleanza nazionale che il 12 aprile del 2001 subentrò al collega Pippo Scalia e si fece giusto uno scampolo di legislatura: cinque sedute in tutto prima delle elezioni che ancor oggi gli fruttano un vitalizio da circa tremila euro. Il caso limite è quello di Franco Bisignano, che all’Ars neanche ci mise piede. Si candidò nel 1976 con il Movimento sociale, fu il primo dei non eletti. Bisignano però non si arrese: iniziò a farsi chiamare “onorevole” (anche se era soltanto sindaco del minuscolo comune di Furnari) e cominciò una guerra a colpi di carta bollata contro Antonino Fede, eletto al suo posto ma non residente in Sicilia. Alla fine, nel 1996, il tribunale gli diede ragione: solo che la legislatura si era conclusa da “appena” 15 anni. Poco male però: a Bisignano vennero concessi comunque la liquidazione e il vitalizio, che dopo la morte è passato alla vedova.
Vitalizi d’oro ai deputati siciliani. Reversibilità in eterno ai familiari. Assegno alla figlia di Alessi, primo presidente nel ’47, vissuto 103 anni, scrive Giovanni Rossi l'8 gennaio 2017 su "Quotidiano.net". Non sarà etica – o forse sì, dipende dai punti di vista – ma di sicuro garantisce assegni poderosi la criticatissima legislazione della Regione Sicilia su vitalizi e pensioni di reversibilità destinati agli ex deputati regionali o ai loro fortunati eredi. Secondo i dati aggiornati al 31 dicembre (elaborati dall’Agi), il conto annuale dell’erogazione previdenziale – generoso parto di uno Statuto speciale che attribuisce ai consiglieri regionali lo status di «deputati» – ammonta infatti a 18 milioni di euro: quasi un milione e mezzo al mese di risorse pubbliche che l’Ars (l’Assemblea regionale siciliana) trasferisce sui conti correnti di 310 esponenti della politica regionale – peraltro non sempre usciti di scena – o loro familiari. Nel dettaglio, il bengodi previdenziale mensile ammonta a 801.407 euro per gli assegni vitalizi di 163 ex deputati (media per deputato 4.916 euro mensili). Costano 572.830 euro i 127 assegni di reversibilità garantiti agli eredi dei deputati scomparsi (media pro capite 4.510 euro mensili). Le 17 pensioni erogate con il nuovo sistema pro-rata pesano per 98.384 euro mensili (media 5,813 euro mensili). Chiudono il conto i 9.788 euro per i soli 3 assegni di reversibilità pro rata figli dell’ultima ‘sforbiciata’ legislativa (media 3.262 euro mensili). Cifre comunque impressionanti in un’Italia che arranca e che, a fronte di bilanci costi-benefici platealmente misurabili come quello siciliano, si interroga sull’opportunità e sulla credibilità di un sistema decisamente compiacente anche dopo i tagli stabiliti cinque anni fa. Il Problema dal quale non c’è uscita riguarda i diritti pregressi. Mamma Ars – dicono in Sicilia – non dimentica nessuno. E l’Agi cita l’esempio della figlia del primo presidente della Regione, Giuseppe Alessi (scomparso nel 2009 all’età di 103 anni) tuttora protetta dall’assegno paterno. Alessi fu presidente della Sicilia dal 1947 al 1949, bissò l’incarico dal 1956 al 1957, quando diventò presidente dell’Ars (fino al 1959), prima di spiccare il volo al Senato e poi alla Camera. Un personaggio-chiave della storia siciliana e italiana (il ‘provino’ del marchio Dc fu partorito nel suo studio). Che il suo impegno politico così protratto, munifico e tuttavia lontano nel tempo – oltre che già remunerato con lauta pensione fino all’età di 103 anni – possa ora beneficare un erede sotto forma di assegno di reversibilità è una vicenda limite epperò simbolica. Specie se parametrata ai dolori delle nuove generazioni. La Sicilia ha modificato la normativa previdenziale nel 2012. Stop ai vitalizi (tranne quelli precedentemente maturati) e passaggio al sistema contributivo: al compimento dei 65 anni di età, il trattamento pensionistico premierà solo il consigliere regionale – pardon, il deputato – che possa vantare almeno cinque anni all’Ars (con anticipo a 60 anni per chi ha svolto almeno due mandati). Altri punti qualificanti: introduzione di nuove cause di incumulabilità della pensione; sospensione del trattamento previdenziale quando il deputato sia rieletto all’Ars, o sia eletto al Parlamento, al Parlamento europeo o a un Consiglio regionale o ricopra specifiche cariche pubbliche; sospensione anche nei casi di condanna con interdizione dai pubblici uffici. Insomma, nella Sicilia dei notabili e della politica formato mangiatoia questa è una fase di passaggio: convivono gli assegni vitalizi integralmente maturati fino al 2011 e le nuove pensioni dirette maturate in diversa percentuale con il sistema retributivo e l’attuale sistema contributivo. A regime, le pensioni dei deputati siciliani (e le erogazioni di reversibilità) saranno tutte contributive. L’allineamento alla realtà lentamente procede.
DI…CATANIA. Femminicidio: Palazzo Chigi impugna risarcimento orfani. La presidenza del Consiglio avrebbe dovuto pagare per la condanna dei magistrati negligenti che non avevano preso in considerazione 12 denunce della donna contro il marito che poi l'ha uccisa, scrive l'1 agosto 2017 "La Repubblica". È stato un femminicidio annunciato: fu uccisa dal marito che aveva denunciato, invano, 12 volte alla procura della Repubblica di Caltagirone. I magistrati sono stati ritenuti responsabili di negligenza dal tribunale civile di Messina e la presidenza del Consiglio è stata condannata a risarcire il danno subito dagli orfani. Palazzo Chigi, però, ha appellato la sentenza. Lo rendono noto gli avvocati Alfredo Galasso e Licia D'Amico legali dei figli di Marianna Manduca, assassinata dal marito, Saverio Nolfo, nel 2007. "Si tratta di una decisione grave ed inattesa, che tende a porre nel nulla un provvedimento giudiziario che per la prima volta riconosce e punisce la responsabilità non della magistratura nel suo complesso, ma di singoli magistrati, colpevoli di una inerzia giudicata dai loro stessi colleghi ingiustificabile", dicono gli avvocati. "C'era parso - spiegano - che una corretta ed imparziale applicazione della legge sulla responsabilità civile dei magistrati, recentemente riformata, avrebbe indotto il presidente del Consiglio dei ministri ad adottare una diversa e solidale decisione nei confronti di una famiglia notoriamente generosa e bisognosa come quella che ha accolto da anni i figli di Marianna Manduca". "Ma ciò che è ancor più grave - proseguono - e che ci indigna è che è nell'atto di appello è stata chiesta la sospensione dell'esecuzione della sentenza di primo grado, allo scopo di non pagare al padre adottivo Carmelo Calì il modesto risarcimento riconosciuto, in attesa dell'esito di un appello che riteniamo del tutto infondato e dilatorio". Dodici denunce per maltrattamenti, minacce e percosse non furono sufficienti a salvare la vita a Marianna Manduca. Nonostante avesse segnalato agli inquirenti anche il progetto omicida del marito, nessuno fermò la mano dell'assassinio. Dopo una lunga battaglia legale, il Tribunale civile di Messina ha condannato la presidenza del Consiglio dei ministri a risarcire 300 mila euro di danni patrimoniali ai tre figli della donna. I giudici hanno applicato la norma sulla responsabilità civile dei magistrati, ritenendo che i pm che si occuparono del caso, in servizio nella procura di Caltagirone (Catania), non fecero quanto in loro potere per evitare il femminicidio.
Sicilia, condannata la procura: non fermò in tempo l'uomo che uccise la moglie. Saverio Nolfo era stato denunciato dodici volte dalla moglie alla Procura di Caltagirone. La corte d'Appello: "Inerzia dei magistrati". Condanna a 260mila euro, scrive Manuela Modica il 13 giugno 2017 su “La Repubblica”. “Mi ha minacciato con un coltello, non so più che devo fare: aiutatemi”: con queste parole Marianna Manduca si rivolgeva alla procura di Caltagirone, poco prima di essere uccisa dal marito, Saverio Nolfo con sei coltellate al petto e all’addome il 4 ottobre del 2007 a Palagonia. Dodici denunce cadute nel vuoto e fattesi particolarmente allarmanti negli ultimi sei mesi di vita. Quei sei mesi in cui i pm la ignorarono: “All’epoca la questione fu considerata alla stregua di una lite familiare”, commenta l’avvocato del padre adottivo dei figli di lei, Alfredo Galasso. La procura di Caltagirone (genericamente il capo dell'ufficio all’epoca dei fatti, Onofrio Lo Re, che nel frattempo è morto) è stata infatti condannata da tre giudici messinesi, due donne e un uomo, della corte d'Appello di Messina. Si tratta della presidente Caterina Mangano, Giovanna Bisignano e Mauro Mirenna, che hanno riconosciuto il danno patrimoniale condannando la presidenza del Consiglio dei ministri al risarcimento di 260mila euro, e riconoscendo l’inerzia dei magistrati dopo una lunga trafila giudiziaria. L’azione legale di Carmelo Calì, lontano cugino della donna uccisa che ha oggi adottato i tre figli maschi (15, 13 e 12 anni) è iniziata cinque anni fa. Il processo infatti ha dovuto passare un giudizio di ammissibilità, richiesto nel caso di responsabilità dei magistrati. L’ammissibilità della richiesta era stata rifiutata dal tribunale di Messina, poi dalla corte d’Appello fino alla Cassazione che ha bocciato le corti messinesi. Solo dopo la sentenza della corte di Cassazione, dunque, che ha accolto la richiesta dei legali Alfredo Galasso e Licia D’Amico, il processo ha avuto inizio e il 7 giugno il tribunale di Messina ha depositato la sentenza riconoscendo la responsabilità negli ultimi sei mesi di vita di Marianna della magistratura. La donna aveva 35 anni quando fu uccisa da sei coltellate al petto e al torace sferrate dal marito Saverio Nolfo, all’epoca trentasettenne, adesso in carcere, condannato a vent’anni per l’omicidio. Lei era geometra e lavorava presso uno studio privato mentre lui era disoccupato e tossicodipendente. I giudici di Messina hanno riconosciuto il danno patrimoniale derivato dal fatto che i tre figli non hanno più goduto dello stipendio della madre: “Siamo parzialmente soddisfatti, ricorreremo in appello: c’è un danno morale che a Messina non è stato riconosciuto soltanto perché all’epoca la legge sulla responsabilità della magistratura era diversa ma non è un caso che sia stata modificata e che non riguardi più soltanto la limitazione della libertà personale”, ha concluso Galasso.
Denunce a perdere. Marianna Manduca e la condanna civile dei Pubblici Ministeri negligenti. 12 denunce disattese che hanno causato la morte di Marianna per mano del marito. La condanna è per responsabilità civile del Magistrato, fatto eccezionale e dopo traversie, dove a pagare sarà lo Stato e non il Magistrato, in quanto i fatti sono antecedenti all'entrata in vigore della legge sulla responsabilità civile. Lo Stato, comunque, se si si rivarrà sul suo dipendente, sarà rimborsato dall’assicurazione per responsabilità civile che i magistrati hanno stipulato per poche decine di euro annue. Assicurazione valida anche come strumento risarcitorio post riforma. Come dire: Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.
La condanna non è per omissione d’atti di ufficio.
La condanna non è per omicidio colposo o per concorso in omicidio volontario con dolo eventuale, in quanto l’evento dannoso o pericoloso, da cui dipende la esistenza del reato, è conseguenza della sua azione od omissione. Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo (art. 40 c.p.).
Cari giornali, fate i nomi dei condannati anche se si tratta di due pm di Catania, scrive Vincenzo Vitale il 15 giugno 2017 su "Il Dubbio". Le agenzie di stampa e i giornali di tutta Italia hanno riportato in questi giorni a più riprese la triste vicenda di quella donna – Marianna Manduca – uccisa dal marito, ma che inutilmente aveva denunciato, alla Procura della Repubblica, numerosi precedenti di aggressioni subite dallo stesso. Per tale motivo, i figli della donna uccisa hanno intentato causa allo Stato per ottenere un congruo risarcimento del danno per la negligenza mostrata nel caso in specie da parte di due pubblici ministeri – allora in servizio a Catania o a Caltagirone (le notizie si contraddicono) – i quali, esaminando le denunce della donna, non avevano fatto quanto necessario a dotarla di un opportuno dispositivo di sicurezza che la ponesse al sicuro dalle aggressioni del marito. E dunque, lo Stato dovrà pagare trecentomila euro ai figli e poi si potrà rivalere sui due magistrati riconosciuti responsabili dal Tribunale di Messina per tale inescusabile negligenza. La notizia suscita interesse per due motivi.
Innanzitutto, perché si tratta di una delle rarissime occasioni in cui un Tribunale riconosce la responsabilità di un magistrato (anzi di due magistrati) nell’esercizio della propria funzione: a questi esiti l’opinione pubblica è del tutta non avvezza, al punto che ormai di ricorsi per responsabilità dei giudici se ne propongono in misura sempre decrescente – prossima allo zero – temendo appunto che vengano rigettati, consacrando invece una sorta di originaria infallibilità di costoro.
Invece, da un secondo punto di vista, scandalizza davvero che nessuna agenzia di stampa o fonte giornalistica in tre giorni filati che la notizia esce a ripetizione abbia sentito il normale impulso professionale a fare i nomi di questi due pubblici ministeri: silenzio assoluto! Nessuno, dico nessuno fra gli organi di stampa li ha pubblicati o forse addirittura conosciuti: e questo sarebbe ancor più assurdo.
Ma come è possibile? Come è possibile che chi siano costoro – tanto più se, come pare, uno almeno di loro è ancora in servizio – rimanga avvolto dalla nebbia più fitta? Che si tratti di un segreto di Stato? Che ce lo dicano… E allora delle due l’una. O la stampa si autocensura, evitando di rendere pubblici i nomi dei due pubblici ministeri, per una sorta di timore non confessabile (ma timore di che cosa? Di possibili ritorsioni? Da parte di chi? E perché?); oppure opera in modo sotterraneo, ma ben percepibile dagli addetti ai lavori, una sorta di silenziosa forza intimidatrice, proveniente dal sistema giudiziario nel suo complesso, la quale mette paura a chi sia incaricato per vocazione e per obbligo deontologico – come appunto il giornalista – di dire la verità: in questo caso la verità del nome di questi due pubblici ministeri.
Questa eventualità – se fosse vera – sarebbe ancor più inquietante dell’autocensura. E allora, siccome io non credo né alla prima tesi né alla seconda, chiedo qui formalmente a tutti gli organi di stampa italiani di trattare questi due pubblici ministeri come di solito si trattano in casi del genere i sindaci, gli assessori, i primari di medicina, gli avvocati, gli stessi giornalisti e in genere tutti gli uomini normali: chiedo cioè di fare una buona volta i nomi di questi due innominati. Chi sono? Come si chiamano? Attendo.
DI…MESSINA. Pornografia minorile, arrestato giudice a Messina. Gaetano Maria Amato è in servizio alla Corte d’appello di Reggio Calabria, scrive il 2 ottobre 2017 "Il Corriere della Sera". Un giudice in servizio alla Corte d’appello di Reggio Calabria, Gaetano Maria Amato, è stato arrestato dalla polizia a Messina per pornografia minorile. Nei suoi confronti il Gip della città dello Stretto, su richiesta del procuratore Maurizio De Lucia e dell’aggiunto Giovannella Scaminaci, ha emesso un’ordinanza di custodia cautelare in carcere. La notizia è stata confermata all’Ansa da fonti giudiziarie, che non forniscono altri particolari a tutela delle vittime.
Rischia la sospensione. Rischia la sospensione dalla funzione e dallo stipendio, con la collocazione fuori dal ruolo organico della magistratura, da parte della sezione disciplinare del Csm, il giudice in servizio alla Corte d’appello di Reggio Calabria, Gaetano Maria Amato, arrestato dalla polizia per pornografia minorile. La sezione disciplinare del Csm dovrà valutare la richiesta dei titolari dell’azione disciplinare, ossia il Pg della Cassazione e il ministro della Giustizia, di applicazione delle misure cautelari nei confronti del magistrato. Solitamente nei casi di arresto, tale misura è obbligatoria, e dopo l’istanza, il Csm agirà quindi in tempi rapidi.
A giugno la difesa di un collega. Amato nel giugno dello scorso anno, quando era ancora al Civile, partecipò ad una conferenza stampa, insieme a tutti i colleghi giudicanti della Corte, per spiegare e difendere l’operato di una collega finita al centro delle polemiche per non avere osservato i tempi per la redazione delle motivazioni della sentenza del processo «Cosa mia» sulle cosche di ’ndrangheta di Rosarno, circostanza che avrebbe portato alla scarcerazione di tre presunti affiliati alle ’ndrine. In quell’occasione, tutti i giudici della Corte d’appello reggina fecero presente che le scarcerazioni erano dovute «ad una rimodulazione dei termini all’indomani delle assoluzioni dei tre dai reati più gravi, tra cui omicidio ed estorsione aggravata, e ciò al fine di dare esecuzione alle scansioni processuali del Codice di procedura penale». I giudici sottolinearono anche le gravi condizioni di carenze di organico dell’ufficio.
Messina, pornografia minorile: un giudice finisce in carcere. Gaetano Maria Amato, 57 anni, era in servizio alla corte d'Appello di Reggio Calabria. Il gip ha emesso un'ordinanza di custodia cautelare. Nel 2009 aveva subito una sanzione dal Csm per i ritardi nella pubblicazione delle sentenze, scrive il 2 ottobre 2017 "la Repubblica". Un giudice in servizio alla corte d'Appello di Reggio Calabria, Gaetano Maria Amato, è stato arrestato dalla polizia a Messina per pornografia minorile. Nei suoi confronti il gip della città dello Stretto, su richiesta del procuratore capo Maurizio de Lucia e dell'aggiunto Giovannella Scaminaci, ha emesso un'ordinanza di custodia cautelare in carcere. Gli investigatori non forniscono particolari, a tutela delle vittime. Gaetano Maria Amato, 57 anni, nato a Messina, ha iniziato la sua carriera giudiziaria come pretore a Naso. Si era poi spostato a Messina, prima al tribunale civile e poi a quello fallimentare. Infine, nel 2009, il trasferimento alla corte d'Appello di Reggio Calabria. È padre di tre figli. Il giudice Amato nel 2009, quando era in servizio a Messina, subì un procedimento del Consiglio superiore della magistratura per presunti ritardi nel deposito degli atti. Nella contestazione si rilevava come ci fossero troppe sentenze del magistrato depositate oltre i termini. Per questi ritardi il Csm lo aveva dichiarato colpevole e sanzionato con l'ammonizione. Il reato di pedopornografia configura vari tipi di comportamento, dalla sola detenzione di materiale pornografico alla cessione e diffusione, fino alla produzione di immagini con lo sfruttamento di minori. Il reato prevede, in caso di condanna, la reclusione fino a 12 anni.
DI…PALERMO. Sale Bingo, parenti e gamberoni. Le ombre sul candidato grillino. Palermo, nello studio di Forello lavorava il figlio della pm accusata di corruzione. Nel suo tour elettorale in vista delle comunali, Beppe Grillo è stato ieri a Palermo dove ha pranzato con il candidato a sindaco Ugo Forello, scrive Ilario Lombardo l'8/06/2017 su "La Stampa". C’è un intreccio familiare e societario a Palermo in cui ritorna sempre lo stesso cognome: Forello. È il cognome di Ugo Salvatore, il candidato sindaco del M5S a cui ieri ha portato il suo sostegno diretto Beppe Grillo, sceso per l’occasione in Sicilia. Forello, com’è noto, è stato a lungo il leader di Addiopizzo, l’associazione che si batte contro il cancro dell’estorsione mafiosa nell’isola. Ma è anche un avvocato e un imprenditore. E l’impresa, come anche la professione legale, l’ha gestita molto in famiglia. Alcuni sospetti sulle sue attività hanno portato i suoi avversari a verificare la rete societaria di Forello e a fare visure alla camera di commercio di cui La Stampa è venuta in possesso. I Forello sono tanti e tutti in affari insieme. E uno dei loro core business sono le Sale Bingo. Un settore che dovrebbe creare un certo imbarazzo a un grillino, esponente di un Movimento che da sempre si batte contro il gioco d’azzardo. Il cugino e lo zio, Giuseppe e Lorenzo Forello, gestiscono il Millionaire Bingo, a Moncalieri, provincia di Torino, una delle più grandi sale d’Europa. E a Palermo il Las Vegas Big Bingo, riaperto due anni fa dopo essere stato confiscato al clan mafioso di Nino Rotolo. Per evitare la chiusura e la perdita dei posti di lavoro scese in piazza la Cgil. Proprio in quei giorni un magistrato denunciò: «Cosa nostra ha tentato di riprendersi la sala Bingo. Solo un imprenditore è risultato avere i requisiti necessari. E con lui stiamo chiudendo la trattativa». Quell’imprenditore era Giuseppe Forello, cugino di Ugo. Ma qui è interessante soprattutto il nome del magistrato: Silvana Saguto, ex presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo rinviata a giudizio il 25 maggio dalla procura di Caltanissetta. Saguto è accusata di vari reati, tra cui la corruzione, per la gestione dei beni confiscati. Il suo nome torna in questa storia che riguarda Ugo Forello perché a lei porta lo studio del candidato grillino, Palermo Legal, un crocevia fondamentale per riprendere la strada che ritorna alle imprese di famiglia. A Palermo Legal ha lavorato Francesco Caramma, figlio di Saguto. E a fargli il colloquio è stato proprio Forello, che alla Stampa dà la sua versione dei fatti. «Ha collaborato a titolo gratuito, realizzando articoli giuridici, senza mai una cointeressenza economica». Forello è avvocato e pesa molto bene le parole. Dice che la collaborazione del figlio di Saguto è successiva ai guai della madre e di non avere «mai avuto rapporti diretti con lei sui beni confiscati». Sempre a Palermo Legal fino a poco tempo fa lavorava anche Viviana Caniglia, cugina di Forello (per parte di padre) e figlia di Mario Caniglia. Il suo nome spunta nelle carte dell’inchiesta su Saguto perché a lui il magistrato si rivolse per ottenere sei chili di ventresca e svariati gamberoni da portare a una cena. Dopo la cena, Caniglia, intercettato, espresse un desiderio a Saguto: «Non mi dispiacerebbe avere un’altra amministrazione giudiziaria». Ma Caniglia risulta anche essere socio della Siase, società del settore alberghiero, assieme a Lorenzo, Giuseppe Forello e, attraverso la Inpa spa, Ugo. I Forello insieme sono soci anche della Solfin che a sua volta partecipa alla Gea Turismo, altra società in cui rispunta la cugina-avvocatessa Viviana Caniglia e di nuovo Ugo, attraverso la Forfin, una srl aperta con il fratello Giuseppe, omonimo del cugino che si occupa di Sale Bingo. «La Forfin però non è mai entrata in quel business - spiega Forello - e nel mio programma ho inserito la lotta contro il gioco d’azzardo». Se dovesse vincere, Forello dovrebbe dunque assumere iniziative che avrebbero un effetto sulle sale bingo dello zio e del cugino di cui lui è socio in affari.
Palermo, il presunto estorsore viene assolto: le associazioni antiracket condannate a pagare le spese. A risarcire le spese processuali anche la famiglia dell'imprenditore che denunciò le pressioni della cosca. "Siamo amareggiati", dice il figlio. Il giudice assolve 11 presunti mafiosi e ne condanna 5. Scarcerato il vecchio boss di Bagheria Pino Scaduto, scrive Romina Marceca il 3 aprile 2017 su “La Repubblica”. Stupore e prese di posizione dopo la condanna del giudice Gigi Omar Modica al pagamento delle spese processuali da parte della famiglia dell'estorsore che denunciò il pizzo e delle associazioni antiracket che si erano costituiti parti civili nel processo. La decisione è di ieri. Il giudice ha assolto 11 presunti capimafia, gregari ed estortori dei clan mafiosi di Bagheria, Villabate, Ficarazzi, Casteldaccia e Altavilla Milicia (quattro vengono scarcerati) e ne ha condannati 5. Per uno degli assolti Giovanni Mezzatesta arriva anche il rimborso delle spese processuali. «Siamo molto amareggiati. Oggi ci confronteremo con il nostro avvocato», dice Tommaso Toia, il figlio dell’imprenditore. «Impugneremo e faremo valutare alla corte d’Appello la correttezza di questa decisione», afferma Fausto Maria Amato, l’avvocato di Solidaria, Sos Impresa e Coordinamento delle vittime dell’estorsione, dell’usura, della mafia. «Il problema più grosso è comprendere come si arriva a un’assoluzione. Il giudice – dice Enrico Colajanni, volto storico di Libero Futuro – avrà avuto i suoi buoni motivi. Se questo determina un danno per le parti civili poi sarà la legge a stabilirlo. Noi non abbiamo un euro, penso che impugneremo il provvedimento. E di certo non abbiamo mai ottenuto nemmeno uno dei risarcimenti che ci sono stati riconosciuti. Spesso i mafiosi non hanno nulla di intestato». La decisione del giudice Modica arriva dopo la presa di posizione di altri giudici di cassare alcune parti civili nei processi di estorsione. I giudici ormai hanno capito l’antifona e cominciano a decimare le parti civili, sottolineando come non sia sufficiente uno «scopo sociale generico e astratto». Di certo questa sentenza si impone come un precedente per chi, assolto in un processo di mafia, vorrà rivalersi sulle parti civili. E così la famiglia degli imprenditori Toia che denunciò le pressioni della cosca dovrà risarcire i duemila euro di spese avanzate da Mezzatesta, insieme alle altri parti civili: il Comune di Ficarazzi, Addiopizzo, Sos Impresa Palermo, Confesercenti Palermo, la Fai, l'associazione anrtiracket e antiusura "Coordinamento delle vittime della estorsione, dell'usura e della mafia", Solidaria, Confindustria Palermo, Confcommercio, Libero Futuro, associazione antimafia e antiracket Libero Grassi, associazione antimafie e antiracket Paolo Borsellino, centro studio e iniziative culturali Pio La Torre. Il processo nasce da un'inchiesta della Dda di Palermo che, nel 2014, portò al fermo di 31 persone accusate a vario titolo di mafia, estorsione e favoreggiamento. I pm, nel corso della requisitoria, avevano chiesto condanne per 150 anni di carcere. Francesco Centineo e Silvestro Girgenti sono stati condannati a 6 anni e 8 mesi, Giacinto Di Salvo a 9 anni, Francesco Mineo a 7 anni e un mese e Pietro Liga a 6 anni 8 mesi. Tutti dovranno risarcire i danni riconosciuti, come provvisionale immediatamente esecutiva, alle parti civili costituite: i Comuni di Santa Flavia, Ficarazzi, Altavilla e Bagheria, alle vittime del racket e all'associazione antiracket Libero Futuro. L'indagine, alla quale hanno contribuito diverse vittime del racket, svelò che a pagare il pizzo al clan di Bagheria era anche una casa di riposo. Nella lista degli estortori c'erano anche agenzie di scommesse, autofficine, commercianti di pesce e 28 imprenditori edili. Gli assolti sono Salvatore Lauricella, Giovanni Mezzatesta, Umberto Guagliardo, Onofrio Morreale, Giacinto Tutino, Andrea Carbone, Nicola Eucaliptus, Giuseppe Scaduto, Giovanni Trapani, Gioacchino Mineo e Francesco Lombardo. Per l'anziano boss di Bagheria, Pino Scaduto, e Gino Mineo, il mafioso col pallino della poesia, è stata decisa la scarcerazione. Scaduto era al 41 bis dal 2008, Mineo da due mesi era agli arresti domiciliari. Scarcerati anche Umberto Guagliardo e Giacinto Tutino.
Accusato di estorsione e assolto. La vittima dovrà risarcirlo, scrive Riccardo Lo Verso su “Live Sicilia" il 3 aprile 2017. Ha denunciato il racket del pizzo e si è costituito parte civile contro i taglieggiatori. Nel frattempo è morto e la sua battaglia è stata continuata dai figli. Oggi il giudice ha assolto il presunto estorsore, Giovanni Mezzatesta (assistito dall'avvocato Salvo Priola) e ha condannato gli eredi dell'imprenditore Giuseppe Toia - i figli Daniele, Tommaso e Fabrizio - a pagare le spese sostenute per il processo dall'imputato. Ai costi del procedimento dovranno partecipare anche le associazioni antiracket -Libero futuro, Addiopizzo, associazione Paolo Borsellino, Fai e Centro Pio La Torre, pure costituitesi parte civile, e il Comune di Ficarazzi. La decisione è del gup, Gigi Omar Modica, e dovrebbe essere collegata al fatto che già la Cassazione aveva annullato il semplice obbligo di dimora imposto a Mezzatesta ritenendo che nei suoi confronti non ci fossero neppure i semplici indizi di colpevolezza. Nonostante la sentenza della Cassazione è arrivata lo stesso la costituzione di parte civile. Da amico dei boss a stritolato dai boss. “Mi consideravano praticamente come la loro cassa privata.”, aveva raccontato Domenico Toia, ucciso da una brutta malattia. Toia si era ribellato al racket nel 2013. A cavallo fra gli anni Ottanta e Novanta le commesse, pubbliche e private, però, arrivavano a pioggia. La mafia che, per stessa ammissione dell'imprenditore, lo aveva agevolato alla fine gli avrebbe presentato il conto. Forse è per questa passata contiguità che è caduta l'estorsione, ma per saperlo si dovranno attendere le motivazioni. I boss si fecero vivi per la prima volta “verso la fine degli anni 80-inizi anni '90, ancor prima che venisse pubblicato il bando relativo alla manutenzione dell'impianto di illuminazione pubblica comunale di Bagheria”. Poi, qualcuno dell'ufficio tecnico gli fece sapere che "gli amici avrebbero avuto il piacere dell'aggiudicazione dell'appalto alla mia ditta”. E aggiudicazione fu. Subito dopo cominciarono le richieste di assunzioni di parenti e amici dei mafiosi. E soprattutto di soldi. Per la precisione “3 milioni di lire al mese per i parenti di Pino Scaduto, che nel frattempo era finito in cella”, per un totale di 360 milioni.
Dal 41 bis alla scarcerazione. Liberi il boss e il suo vice poeta, scrive ancora Riccardo Lo Verso su “Live Sicilia" il 3 aprile 2017. Il padrino e il suo vice. Così venivano descritti dagli investigatori. L'anziano boss di Bagheria, Pino Scaduto, e Gino Mineo, il mafioso che amava la poesia, condividono in queste ore la scarcerazione. Il primo passa dal 41 bis, regime a cui era sottoposto dal 2008, alla libertà. Il secondo, invece, da due mesi era agli arresti domiciliari. Scaduto e Mineo erano stati condannato perché presero parte alla restaurazione di Cosa nostra stoppata dal blitz dei carabinieri denominato Perseo. Ora entrambi, assistiti dall'avvocato Jimmy D'Azzò, sono stati assolti dal giudice per l'udienza preliminare Gigi Omar Modica che ne ha ordinato l'immediata scarcerazione. Così come per Umberto Guagliardo e Giacinto Tutino difesi dagli Antonio Turrisi, Salvo Priola e Raffaele Bonsignore. “Un intimo amico mio che sta assime a me…”, diceva Scaduto parlando di Mineo al quale nel gennaio scorso erano stati concessi gli arresti in casa con il parere favorevole della stessa Procura. L'avvocato D'Azzò aveva tracciato il profilo di un uomo che in carcere sarebbe cambiato. A Voghera ha iniziato a scrivere poesie e sceneggiature di spettacoli teatrali. Niente a che vedere con il mafioso che, dopo, avere già scontato una pena negli anni Novanta, finì di nuovo in carcere nel 2008. Ora la notizia dell'assoluzione che chiude le sue pendenze giudiziarie.
Sempre in riferimento a quel giudice....
“Erano minacciati di morte”, il giudice di Palermo assolve due scafisti. Costretti a pilotare un gommone dalla Libia alla Sicilia. Nel naufragio erano affogati in 12. I pm volevano l’ergastolo. Il dramma. Nel corso della traversata il gommone si era forato. Erano morti 12 migranti, scrive l'8/09/2016 Riccardo Arena su “La Stampa”. Scafisti per caso, scafisti per forza: un giudice di Palermo assolve due migranti, accusati di avere pilotato un gommone stracarico di altri disperati come loro, 12 dei quali annegarono perché l’imbarcazione di fortuna si sgonfiò nel Canale di Sicilia, durante la traversata tra la Libia e la Sicilia. I due imputati, che rispondevano di omicidio plurimo, sono stati assolti dal gup Gigi Omar Modica col rito abbreviato: applicata la discriminante dello «stato di necessità», perché i due fecero da scafisti ma non decisero «autonomamente e liberamente di avventurarsi per il Mediterraneo alla guida di un mezzo di fortuna, carico all’inverosimile di persone», con un centinaio di passeggeri in un natante di dieci metri. Tutto fu organizzato piuttosto da «soggetti libici armati», che minacciarono i due, ieri assolti perché il fatto non costituisce reato. Sentenza a sorpresa, quella emessa nei confronti di Jammeh Sulieman, di 21 anni, originario del Senegal, e Dampha Bakary, di 24, gambiano, che sono stati anche rimessi in libertà: e contro di loro, difesi dagli avvocati Cinzia Pecoraro e Chiara Bonafede e imputati di omicidio plurimo, la Procura, che aveva chiesto l’ergastolo, si prepara a presentare il ricorso in appello. La decisione provoca sconcerto tra i pm (il titolare del fascicolo è Claudio Camilleri, coordinato dal procuratore aggiunto Maurizio Scalia), che tuttavia non fanno commenti. Oltre che sulla mancata dimostrazione del legame tra i due imputati e i libici trafficanti di uomini, la motivazione, racchiusa in 17 pagine, punta anche su un altro aspetto considerato fondamentale dalla Procura, la credibilità degli altri migranti. Il gup Modica manifesta infatti dubbi sulla genuinità di testimonianze che consentono di ottenere il permesso di soggiorno («beneficio non secondario») e parla di «preciso interesse a rendere dichiarazioni accusatorie», che per questo motivo «devono essere sottoposte ad un attento vaglio di credibilità intrinseca ed estrinseca». La traversata oggetto dell’inchiesta risale al luglio 2015: i passeggeri superstiti del gommone furono salvati dalla nave Dattilo e trasportati al porto di Palermo. Sulieman e Bakary furono individuati grazie alle testimonianze raccolte - non senza difficoltà, dati i problemi di comprensione di lingue e dialetti - dalla polizia. A parlare furono soprattutto tre maghrebini, le cui deposizioni sono apparse però contraddittorie e per niente coerenti al gup. Sin dall’inizio gli avvocati Pecoraro e Bonafede avevano sostenuto che i libici, armati di kalashnikov e attrezzati per queste operazioni, per evitare l’arresto di loro uomini, ricorressero a minacce e pesanti intimidazioni nei confronti di alcuni passeggeri, scelti a caso, costringendoli a pilotare da sé le imbarcazioni di fortuna. Il giudice concorda con i difensori: i due scafisti per forza «non avevano altra scelta se non quella di commettere i reati» a loro attribuiti, «per salvare la loro vita da una situazione superiore alla loro volontà». Non parlavano la lingua dei libici, non si capivano nemmeno tra di loro, Sulieman e Bakary («Nessuno dei testi riferisce di un ruolo organizzativo di tipo preparatorio») e, «quando giungono in spiaggia, trovano già il natante carico di migranti... sotto la minaccia di armi da guerra non possono che accondiscendere alla determinazione dei libici su chi dovesse guidare l’imbarcazione. Tornare indietro sarebbe stato un atto del tutto scellerato». Si sarebbero opposti infatti gli altri migranti, che avevano «pagato un prezzo esoso», ma il rischio di essere uccisi dai trafficanti di uomini sarebbe stato molto concreto. «Proseguire invece nella rotta - conclude la sentenza - poteva significare invece coltivare una qualche speranza di giungere sani e salvi in un Paese sicuro e libero come l’Italia».
Anche un magistrato fra i clienti dei pusher. Mille consumatori nella rete delle indagini. Quindici avvocati, un carabiniere, un dentista, un assistente di volo, due noti ristoratori. Un giro d'affari da 300mila euro al mese, scrive Salvo Palazzolo il 15 febbraio 2017 su "La Repubblica". C'è anche un magistrato in servizio ad Agrigento fra i clienti degli spacciatori, era in contatto con Antonino Di Betta, uno degli arrestati del blitz della squadra mobile. E' lunghissima la lista dei consumatori finiti nella rete dell'indagine. Quindici avvocati, un appuntato dei carabinieri, un dentista, un assistente di volo, un assicuratore, alcuni commercianti e due noti ristoratori del centro città. L’ultima inchiesta della procura diretta da Francesco Lo Voi su due gruppi di attivissimi spacciatori ha registrato 919 clienti. I consumatori di polvere bianca chiamavano a tutte le ore i cinque pusher arrestati la scorsa notte: si tratta di Stefano Macaluso, 32 anni; Antonino Di Betta, 27; Danilo Biancucci, 27; Giovanni Fiorellino, 25; Alessandro La Dolcetta, 21. Gravitavano tutti nella zona della Zisa, sono delle vecchie conoscenze delle forze dell’ordine. Offrivano la sostanza stupefacente a prezzi concorrenziali: 50 euro per due dosi. Ricevevano una media di 300-400 chiamate al giorno, 30mila chiamate in tre mesi. Numeri che offrono uno spaccato inquietante del consumo di cocaina a Palermo. Le indagini, coordinate dal sostituto procuratore Maurizio Agnello, hanno svelato una vera e propria agenzia dello spaccio, che era attiva 24 ore su 24. I due gruppi erano specializzati nelle consegne a domicilio. I clienti facevano riferimento a due utenze cellulari, una sorta di call center, in cui si alternavano i componenti delle bande. Molti dei clienti sono stati già segnalati alla prefettura, come assuntori abituali di droga. Acquistavano dalle due alle sei dosi a settimana. Il boom di richieste era nel week-end. Le indagini della sezione Narcotici proseguono per accertare i componenti dell’organizzazione che riforniva di droga i due gruppi. Il giro d’affari mensile dello spaccio è stato stimato in 300mila euro. Fra i clienti anche molti giovani, studenti universitari.
Il giudice di Agrigento sorpreso con lo spacciatore. Si allarga l'inchiesta sulla cocaina nella città bene. La polizia è intervenuta mentre il magistrato incontrava il pusher nel centro di Palermo. E lui ha mostrato il tesserino agli agenti, scrive Salvo Palazzolo il 16 febbraio 2017 su "La Repubblica". Venerdì tre febbraio, il telefonino di Antonino Di Betta, attivissimo spacciatore della cosiddetta “Palermo bene”, è rovente. Nel fine settimana, è sempre così. «Compare, dove sei?», gli chiede un giovane. Una telefonata come tante, quella sera. Però, l’uomo che chiama Di Betta sembra avere particolarmente fretta. È un giudice, ha 35 anni, è in servizio al tribunale penale di Agrigento. Ma i poliziotti della Narcotici ancora non lo sanno: da ore stanno intercettando il pusher e stanno seguendo i suoi movimenti. Una squadra è incollata alle cuffie, nella sala ascolto della squadra mobile; un’altra è mimetizzata fra i ragazzi della movida e osserva ogni passo di Antonino Di Betta, che è sfuggente, prudente più che mai, gli investigatori non sono ancora riusciti a sorprenderlo con un cliente. Da qualche minuto è passata la mezzanotte. Il giudice telefona tre volte allo spacciatore per avere un appuntamento. «Compare dove sei?», ripete. «Sono in via Mazzini», gli dice Di Betta. È davanti al Chatulle pub, uno dei locali più gettonati delle notti palermitane. Lo spacciatore e il giudice si salutano, scambiano qualche parola. È un attimo. I ragazzi della Narcotici piombano sull’insolita coppia. Di Betta ha 25 dosi di cocaina in tasca, evidentemente sperava di fare grandi affari. Invece, si ritrova in manette. L’uomo che è accanto a lui non ha droga in mano, e neanche in tasca. Ma appare comunque nervoso. Mette la mano nella giacca e tira fuori un tesserino: «Sono un giudice», dice. Come a chiedere chissà cosa. Ma fa poca differenza per i poliziotti della Mobile di Palermo. Si segue la procedura di ogni volta, si segue la legge. E, adesso, c’è anche il nome del giudice nella lista dei clienti eccellenti degli spacciatori della cosiddetta “Palermo bene”. Accanto ai 15 avvocati, all’assistente di volo, a due noti ristoratori del centro città, al dentista, all’assicuratore.
Pizza, vino e droga: mille clienti. Quelle notti bianche a tutta coca, scrive Riccardo Lo Verso il Riccardo Lo Verso, Mercoledì 15 Febbraio 2017, su "Live Sicilia". Dicembre 2016. Una coppia è seduta al tavolo di una delle pizzerie più apprezzate della città. L'uomo prende il telefonino e compone il numero di Antonino Di Betta, uno dei cinque arrestati del blitz antidroga della Squadra mobile di Palermo. Quel telefono era sotto controllo e ha registrato una delle tantissime ordinazioni di cocaina. I numeri fotografano un fenomeno dilagante. I clienti censiti sono stati quasi mille. Poi, ci sono quelli non identificati che fa schizzare ad oltre seicento il numero dei consumatori. Uomini e donne, un magistrato che lavora fuori città, avvocati, commercianti, assicuratori, gestori di pizzerie, ristoranti e botteghe di generi alimentari molto conosciuti in città, assistenti di volo, studenti, un dentista e forse anche un carabiniere: l'inchiesta svela livelli preoccupanti di consumo di cocaina. In pochi mesi gli agenti coordinati dal procuratore Francesco Lo Voi e dal sostituto Maurizio Agnello hanno registrato ottanta richieste di droga al giorno, che raddoppiavano nei giorni festivi, finendo col toccare quota 22 mila conversazioni in appena due mesi. Oltre cinquemila messaggi. Veniva spacciata un chilo di cocaina al mese che giungeva dai mercati, calabrese e campano, per un giro d'affari di 400 mila euro. Il capitolo investigativo sugli approvvigionamenti resta aperto. Di Betta e Stefano Macaluso avevano un gran bel da fare per accontentare i clienti, di cui una buona fetta era composta da avvocati, giovani e meno giovani, ora segnalati alla Prefettura come consumatori. Il telefono di servizio dei pusher era attivo 24 ore su 24. Le consegne erano immediate, gli spacciatori si muovevano in sella a scattanti scooter modello Honda Sh. Consegne immediate, ma anche alla luce del sole. Spacciatore e consumatori non si infrattavano in luoghi bui e isolati. Sceglievano locali molto frequentati e strade affollate. Di sera, ma anche durante la pausa pranzo. Si mescolavano fra la gente, credendosi forse al di sopra di ogni sospetto. Frequentavano i locali più alla moda. Ed invece i poliziotti si erano appostati a poche decine di metri da loro. Leggere i passaggi delle intercettazioni significa instillare il dubbio che uno dei tanti episodi di spaccio possa essere avvenuto sotto i nostri occhi. “In via Mazzini”, “al tennis”, “al bowling”, “in via Sciuti”, “al Politema”, “al Motel Agip”: Macaluso e soci non temevano di essere scoperti. Le intercettazioni sono zeppe di nomi di strade ma anche di pub, enoteche, bar, ed altri esercizi commerciali dove venivano fissati gli appuntamenti. Per non parlare degli indirizzi degli studi legali, molti nella zona del Palazzo di giustizia, e delle abitazioni dei tanti avvocati-clienti. Il loro non era un consumo occasione, ma un'abitudine. Le cimici dei poliziotti hanno registrato 50, 70, 90 contatti fra ogni singolo avvocato e il pusher. Un paio di dosi costavano cinquanta euro. “... vado a fare bancomat e ci vediamo sotto lo studio”, diceva un legale. Ce n'è abbastanza per sostenere che “gli acquirenti cercavano insistentemente i pusher - si legge nel provvedimento del giudice per le indagini preliminari Guglielmo Nicastro - chiedendo loro una o più dosi e dichiarandosi pronti a consegnare il denaro dandosi appuntamento nei pressi dei rispettivi studi legali ovvero nei locali pubblici centro della cosiddetta movida palermitana.
Scandalo Saguto, comune di Palermo chiede di costituirsi parte civile. Procura si oppone, scrive il 13 luglio 2017 "Telejato". Il Comune di Palermo ha chiesto di costituirsi parte civile nell’udienza preliminare che vede al centro le presunte irregolarità nella gestione dei beni sequestrati alla mafia e nell’assegnazione degli incarichi di amministrazione giudiziaria da parte della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo all’epoca in cui era presieduta da Silvana Saguto, anche lei imputata insieme ad altre 17 persone. Ma la Procura di Caltanissetta si è opposta alla richiesta avanzata dal legale del Comune di Palermo, l’avvocato Giovanni Airò Farulla. Quest’ultimo ha motivato la richiesta sostenendo che l’ente avrebbe subito un danno patrimoniale in quanto diversi beni ricadono nel territorio comunale, ma per i magistrati nisseni il Comune non ha titolo a entrare in giudizio in quanto non ci sono i presupposti per considerarlo parte offesa. Il gup Marcello Testaquatra, che sta celebrando l’udienza preliminare, deciderà nell’udienza fissata per lunedì prossimo. Gli imputati rispondono a vario titolo di associazione a delinquere, corruzione, abuso d’ufficio, truffa e falso. I difensori dei 18 imputati nell’udienza preliminare del caso Saguto – accusati a vario titolo di associazione a delinquere, corruzione, abuso d’ufficio, truffa e falso – si sono opposti alla costituzione di parte civile di alcune amministrazioni giudiziarie – che avevano avanzato tale richiesta lo scorso 22 giugno – in quanto non sono assistite dell’Avvocatura dello Stato. I legali hanno motivato l’opposizione sottolineando che le amministrazioni giudiziarie possono costituirsi parte civile per conto proprio solo se l’Avvocato generale dello Stato esprime parere contrario al patrocinio. Inoltre gli avvocati Giuseppe Dacquì e Carmelo Peluso si sono opposti alle richieste di costituzione di parte civile del ministero dell’Interno e del Ministero della Giustizia, in quanto non rappresenterebbero gli interessi della collettività, visto che, secondo i due componenti del collegio di difesa, l’unico rappresentante dell’interesse della collettività è la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Il gup Marcello Testaquatra comunicherà le proprie decisioni nell’udienza fissata per lunedì prossimo.
Telejato chiede che sia tolto il bavaglio al processo contro Pino Maniaci, scrive il 14 luglio 2017 "Telejato". Il divieto che la procura di Palermo, a nome del presidente della seconda sezione penale del tribunale di Palermo Benedetto Giaimo, che non ritiene che il processo abbia rilevanza sociale e a nome del pm Amelia Luise, che ritiene “difficoltoso proteggere le opposte esigenze di tutte le altre parti del processo”, ha suscitato in tutta Italia, e in particolare tra i giornalisti siciliani un coro di proteste e di solidarietà nei confronti di Pino Maniaci, perché, senza porre troppi termini in mezzo, è proprio la ripresa delle fasi del processo che lo riguardano, che non si vuole rendere nota al pubblico. Ultimo comunicato è quello del presidente dell’Ordine regionale dei giornalisti Riccardo Arena. Quello della trasmissione integrale delle udienze è un servizio pubblico che dai tempi del maxiprocesso viene garantito, a vantaggio di tutti, non solo dei giornalisti, ma anche degli avvocati e dei magistrati. Perché adesso e in questo processo quest’ordine di silenzio? È una domanda che da ieri circola, anche sui vari dibattiti in rete e che lascia forti ombre sulla democraticità garantita alle informazioni e sulla trasparenza degli atti di un dibattito che, sino a prova contraria, non sarà fatto a porte chiuse. Si potrebbe replicare che nessuno impedisce ai giornalisti di prendere appunti, ma la stenografia è una scrittura che ormai pochi conoscono. Per quel che riguarda le richieste di alcuni mafiosi di non volere essere ripresi, il problema si chiude subito: nelle fasi che il tribunale, al momento dell’apertura dell’udienza e non preventivamente, come invece è stato fatto, ritiene non debbano essere trasmesse, basta o bastava prescrivere tale indicazione e il problema era risolto. A parte il fatto che i mafiosi, per quel che sembra, non vogliono essere ripresi dalla telecamera, ma sulle riprese microfoniche non si sa perché preferirebbero non essere registrati. Quindi, senza girarci troppo intorno il divieto è fatto essenzialmente per inibire l’accesso a Telejato, per non dare troppa importanza al processo, per farlo sembrare un procedimento secondario e senza importanza e per poi concluderlo con la mazzata di una qualsiasi condanna, a conferma che l’impianto accusatorio era fondato ed ha retto. Si tratta di “strategie” che ovviamente hanno qualche stratega e lo hanno avuto sin dall’inizio, con l’obiettivo di buttar fango sull’emittente, isolarla dal contesto di informatori, collaboratori e promotori pubblicitari che ne consentono una già molto precaria conduzione e arrivare in ultima soluzione alla sua chiusura. Un processo amplificato potrebbe far correre il rischio di svelare queste strategie e dissolvere un impianto accusatorio fondato sul nulla, che ha il suo più brillante ritrovato nell’associazione di Pino Maniaci con i mafiosi di Borgetto, loro estorsori per mafia, Maniaci estorsore semplice di pochi spiccioli, ma sempre estorsore. Quello che da questa emittente ci permettiamo di suggerire ai colleghi giornalisti che lavorano soprattutto nelle radio e nelle televisioni private e, oseremmo dire, anche in quelle nazionali, è di inoltrare richieste a ripetizione di effettuare riprese e obbligare la procura a notificare i suoi divieti e le sue censure a ognuno. Dopodiché ci sarà da vedere se il rispetto delle esigenze di alcuni mafiosi, che possono benissimo essere tutelati, non permettendo le riprese delle loro “deposizioni”, debba essere prevalente sul diritto di un imputato che vuole rendere note le lacune del procedimento cui è stato sottoposto. Insomma, vanno tutelati solo i mafiosi? Se è così meglio fare uscire di carcere Totò Riina per consentirgli “una morte dignitosa”.
Processo Maniaci e il no a Radio Radicale. Ordine e Assostampa: “Scelta non condivisibile”, scrive il 13 luglio 2017 "Telejato". La decisione della seconda sezione del Tribunale di Palermo di negare a Radio Radicale l’autorizzazione alla registrazione delle udienze di quello che per gli organi di informazione è il cosiddetto “processo Maniaci”, appare non condivisibile per una serie di aspetti. Tralasciando il carattere tecnico-giuridico del provvedimento, che in sé lascia molti dubbi anche ai profani, non si comprende come la richiesta non susciti “il consenso unanime delle parti” se il dibattimento non è ancora cominciato. Soprattutto, poi, non si capisce come si possa sostenere che non ricorra “alcun interesse sociale particolarmente rilevante alla conoscenza” di un dibattimento in cui è imputato, fra gli altri, un giornalista ritenuto particolarmente impegnato nell’antimafia, accusato di estorsione nei confronti di amministratori pubblici, che sarebbero stati ricattati con la minaccia di pubblicare notizie e servizi televisivi sfavorevoli nei loro confronti. Negare l’importanza e la rilevanza sociale e pubblica della documentazione di un processo del genere è a nostro avviso veramente arduo: sta al tribunale, semmai, contemperare l’innegabile interesse pubblico per questa parte del giudizio con le esigenze delle altre parti e degli altri imputati che sono estranei alle contestazioni mosse a Maniaci. Quanto al collega imputato, non riteniamo che egli intenda non far conoscere ciò che avviene nel processo a suo carico: è anzi suo interesse che si sappia come sono andate veramente le cose. Invitiamo dunque il tribunale a rivalutare la questione alla prima udienza, interpellando in particolare Maniaci e stabilendo forme e misure che possano consentire, ad esempio, la registrazione delle udienze e degli atti dibattimentali che coinvolgono la posizione del giornalista pubblicista ed escludendo gli atti non inerenti questo contesto.
Proibite le riprese televisive per il processo di Pino Maniaci. Siamo tornati al ventennio fascista, scrive il 13 luglio 2017 Salvo Vitale su "Telejato". I nove imputati sono sotto processo essenzialmente per estorsione mafiosa fatta nei confronti di alcuni commercianti della zona. Il caso di Pino Maniaci, in questo contesto si presenta anomalo, trattandosi, la sua, di estorsione semplice, che quindi non andrebbe giudicata da una corte, ma da un giudice monocratico. La richiesta di uno stralcio del processo è stata rigettata, e quindi Maniaci non potrà separare la sua vicenda da quella degli altri mafiosi, anche se con loro non ha nulla da spartire e malgrado ne abbia denunciato le malefatte attraverso la sua emittente. L’intenzione di chi dirige le operazioni della procura è chiara: Maniaci va trattato come mafioso e omologato ai mafiosi sotto processo. Ci sarebbe già da discutere molto su questa circostanza, ma è successo e sta succedendo di più: l’emittente Radio Radicale ha chiesto al presidente della seconda sezione penale del tribunale di Palermo, Benedetto Giaimo, di registrare le udienze del processo che inizierà mercoledì prossimo e tale richiesta è stata rigettata con curiose motivazioni, scritte a mano a margine della richiesta: Il Pubblico Ministero Amelia Luise ha scritto che «si nega il consenso risultando difficoltoso proteggere le opposte esigenze di tutte le altre parti del processo». Sembra di capire che i mafiosi non vogliono essere ripresi neanche radiofonicamente e, per tutelare le loro esigenze, a seguito di inspiegabili “difficoltà”, si ritiene necessario non tutelare il diritto di cronaca né tantomeno rendere pubbliche le immagini che riguardano esclusivamente la linea difensiva di Pino Maniaci. Sergio Scandura, giornalista di Radio Radicale, in una nota pubblicata su MeridioNews ha subito commentato: «Mai successo a Palermo per un pubblico dibattimento. L’articolo che regola la pubblicità del dibattimento parla chiaro: all’inizio il titolare del processo sente le parti una volta costituite e persino in caso di totale opposizione la sua decisione è sovrana e può comunque decidere di dare accesso a radio e televisioni in un processo che peraltro ha i requisiti di interesse pubblico – spiega Scandura – Anche la codicistica italiana è ormai obsoleta, perché la Cedu, la giurisprudenza europea, non consente più processi sottratti all’opinione pubblica». La decisione del tribunale arriva solo a una settimana dall’inizio del procedimento. «Serve una mobilitazione di Ordine e sindacato, perché l’archivio di Radio Radicale è un servizio pubblico che a Palermo viene garantito dai tempi del maxi processo con l’integralità delle udienze, servizio di cui usufruiscono tutti, non solo i giornalisti, ma anche magistrati e avvocati», dice ancora il giornalista. Questa decisione rischia di ostacolare il lavoro anche di altri colleghi e di rendere il processo a porte chiuse. «Stupisce che il tribunale abbia preso questa decisione, rigettando la nostra richiesta prima che inizi il processo, così come recita codice». Si aggiunga che il presidente della seconda sezione penale del tribunale di Palermo, Benedetto Giaimo, nell’accogliere la proposta del p.m. ha aggiunto, di suo pugno che il rigetto è motivato dalla “mancanza di rilevanza sociale del processo”. E qua si salta dalla sedia: ma come, il 4 maggio 2016, attraverso la email servizinazionali@alice.it è stato inviato dal Comando Provinciale dei Carabinieri ai giornali di tutto il mondo il testo di 400 pagine di intercettazioni e il video sapientemente confezionato dai carabinieri di Partinico, perché bisognava sbattere il mostro in prima pagina, rilevando in tale notizia chissà quale importanza sociale, mentre ora tale importanza è venuta meno? Andrea Tuttoilmondo, presidente regionale dell’Unci, (Unione nazionale cronisti italiani) ha già manifestato solidarietà alla denuncia lanciata oggi dalla testata dicendo che “sorprende la decisione della seconda sezione penale del tribunale di Palermo, presieduta da Benedetto Giaimo, di respingere la richiesta registrazione audio avanzata da Radio Radicale: «Dispiace prendere atto di questa censura. Auspico che si possa valutare diversamente l’istanza presentata dai colleghi di Radio Radicale. Per la rilevanza sociale di chi è coinvolto, consentire la registrazione di questo processo significa contribuire a realizzare pienamente quella missione di pubblico servizio che guida lo spirito di chiunque faccia informazione seria e con coscienza». La rilevanza sociale, sembrava scontata in una vicenda, che, per via dei personaggi coinvolti, a partire da Maniaci è stata accompagnata da grande attenzione da parte dei mass media. In tal senso l’art. 147 del cpp, citato da Scandurra è chiaro: «L’autorizzazione può essere data anche senza il consenso delle parti quando sussiste un interesse sociale particolarmente rilevante alla conoscenza del dibattimento». Il citato articolo di Silvia Buffa richiama la legge, secondo cui le riprese non possono essere autorizzate invece quando «la pubblicità può nuocere al buon costume ovvero, quando può comportare la diffusione di notizie da mantenere segrete nell’interesse dello Stato. O, ancora, in caso di assunzione di prove che possono causare pregiudizio alla riservatezza dei testimoni. O, infine, in caso debbano essere ascoltati dei minorenni», secondo i commi uno, due e quattro di un altro articolo che regola la decisione di procedere a porte chiuse. Tutte condizioni che in questo caso non sembrano sussistere. Nel frattempo anche l’ordine dei giornalisti di Sicilia e l’Assostampa si sono pronunciati: “No a Radio Radicale? Scelta non condivisibile”. Non ci si può sottrarre a una domanda spontanea: che cosa si vuole nascondere? Di che cosa ha paura il tribunale di Palermo? Forse che tutta la polpetta preparata per incastrare Pino Maniaci si sbricioli e che tutti possano rendersi conto che si è voluto deliberatamente mandare alla gogna una persona scomoda per le sue inchieste sui beni sequestrati in cui erano coinvolti pezzi del tribunale stesso di Palermo che adesso deve giudicare Maniaci? La domanda è inquietante, perché se è deciso che una condanna qualsiasi dovrà essere affibbiata a Maniaci, nell’eventualità remota di un’assoluzione si correrebbe il rischio di fare la figura di coloro che hanno perso tempo inseguendo dei fantasmi. Ma sono cose tipiche dei tribunali in Italia paese che, per la libertà di stampa si piazza al 68° posto nel mondo.
Caso Maniaci, domani l’udienza preliminare al tribunale di Palermo, scrive il 18 gennaio 2017 Salvo Vitale su Telejato". Domani 19,1 si apre un altro capitolo della vicenda che coinvolge l’imputato Maniaci Giuseppe, detto Pino e altri 11 imputati. Si terrà infatti l’udienza preliminare in relazione alla richiesta di rinvio a giudizio depositata in data 17/10/2016 con la quale il GIP Gabriella Natale aveva chiesto alla PM Amelia Luise di trasmettere al suo Ufficio la documentazione relativa alle indagini espletate dopo la richiesta di rinvio a giudizio relativa a 12 imputati: Nicolò e Antonio Salto; Giuseppe, Tommaso, Francesco, Davide e Antonino Giambrone; Francesco e Salvatore Petruso; Antonino Frisina; Giuseppe Maniaci; Salvatore Brugnano. L’udienza preliminare si terrà alle ore 09.30 presso il Nuovo Palazzo di Giustizia – piazza G.B. Pagano, piano II, aula 16. I 9 mafiosi, quasi tutti di Borgetto, sono accusati di avere chiesto il pizzo ad alcuni commercianti della zona. Uno dei Giambrone avrebbe consegnato i soldi dell’estorsione a Nicolò Salto, poiché tra i Salto e i Giambrone sarebbe intervenuto un patto di ferro per spremere soldi alle attività commerciali della zona. Per Nicolò Salto e Giuseppe Giambrone uno dei capi d’accusa è “Per essere intervenuti nella soluzione di controversie tra privati”. Apparentemente sembra quindi che siano accusati di aver messo pace tra due litiganti, reato strano che nasconde il fatto che il mafioso che fa il paciere, impone agli altri di accordarsi secondo i suoi ordini. Sempre Nicolò Salto “al fine di procurarsi un ingiusto profitto, compiva atti idonei diretti in modo non equivoco a costringere Valenza Benedetto, imprenditore del settore della produzione e fornitura di calcestruzzo, a versare una imprecisata somma di denaro quale ‘messa a posto’, evento non verifìcatosi per cause indipendenti dallo loro volontà, a causa del rifiuto della vittima dalla quale si era recato prima Salto e poi Giambrone”. La deduzione porta a considerare Benny Valenza persona offesa, che ha avuto il coraggio di dire no alla richiesta estorsiva. Quella di mafiosi che chiedono il pizzo a loro stessi, tra di loro, è uno sviluppo interessante per capire di che pasta sono fatti i mafiosi sotto accusa. Tra gli imputati c’è Salvatore Brugnano, accusato di favoreggiamento. “Per avere aiutato Giambrone Giuseppe, sottoposto ad indagine per il reato di estorsione aggravata in danno dello stesso Brugnano, titolare dell’omonima azienda vinicola situata in contrada San Carlo di Partinico, ad eludere le investigazioni dell’Autorità che li riguardavano, omettendo di riferire alla polizia giudiziaria, in sede di sommarie informazioni, circostanze decisive ai fini dell ‘accertamento dei fatti di rilevanza penale al medesimo addebitato, in particolare negando di aver ricevuto richieste di natura estorsiva. In Partinico il 9.5.2016”. In pratica Brugnano, dichiarando di non avere pagato il pizzo ha detto il falso e ha “ostacolato” le indagini dei carabinieri contro il suo estorsore Giambrone. Resta il fatto che Brugnano ha dichiarato di avere mandato anche lui a quel paese i suoi estortori: conclusione: Benny Valenza è credibile, Brugnano no. Così come non è stato ritenuto attendibile Polizzi che ha negato di essere stato estorto da Pino Maniaci. Ma Polizzi non è sotto processo. Così anche la credibilità diventa un optional a disposizione del magistrato. Maniaci Giuseppe, deve invece rispondere di sei capi d’imputazione e le prove che lo accusano sono basate su intercettazioni e registrazioni di trasmissioni della sua emittente. Non si sa se siano state fatte verifiche e accertamenti sui fatti da lui denunciati, riguardanti le vicende e gli intrecci politico-mafiosi del territorio. Ecco le imputazioni:
costringeva POLIZZI GIOACCHINO ad acquistare una partita di magliette per sé e/o per l’emittente Telejato per un importo complessivo di 2.000 €, nonché a pagargli tre mensilità di affìtto per un’abitazione, realizzando un ingiusto profitto con pari danno per la persona offesa. Con la recidiva reiterata e specifica. In Borgetto, in epoca anteriore e prossima, ali’8 maggio 2013;
In relazione al viaggio a New York del sindaco De Luca “costringeva DE LUCA Gioacchino a versare indebitamente più volle somme dì denaro al fine di evitare la suddetta divulgazione di notizie lesive dell’immagine del Sindaco e dell’amministrazione comunale di Borgetto, realizzando un ingiusto profìtto con pari danno per la persona offesa. Con la recidiva reiterala e specifica. In Borgetto, dal 10 giugno 2014 al gennaio 2015”;
sfruttando con velleità minatorie il condizionamento mediatico esercitabile mediante la sua attività di giornalista e/o alternativamente offrendo allo stesso interviste “riparatrici” delle suddette notizie, così, tra l’altro, affermando “..te ne vai alla televisione e sii gridi come ha fatto il Sindaco di Giardinello che ha urlato e lo hanno salvato”, costringeva DE LUCA Gioacchino a versare indebitamente 600 € al fine di evitare la suddetta divulgazione di notizie lesive dell ‘immagine del Sindaco e dell’amministrazione comunale di Borsetto, realizzando un ingiusto profitto con pari danno per la persona offesa. Con la recidiva reiterata e specifica. In Borgetto, in data 10 febbraio 2015;
costringeva LO BIUNDO Salvatore ad assumere “in nero” CANDELA Valentina per le pulizie al Comune e a versare indebitamente più volte somme di denaro per un ammontare mensile di 250 € circa, dal MANIACI destinati al mantenimento di CANDELA Valentina, al fine di evitare la suddetta divulgazione di notizie lesive dell’immagine del Sindaco e dell’amministrazione comunale di Partinico, realizzando un ingiusto profitto con pari danno per la persona offesa. Con la recidiva reiterala e specifica. In Partinico, accertati dal novembre 2014 al luglio 2015;
Il Sindaco De Luca Gioacchino, il vice sindaco Spina Vito e il Presidente del Consiglio Comunale Liparolo Elisabetta, in occasione di un viaggio istituzionale negli Stati Uniti, avrebbero avuto un incontro “in aeroporto con i figli del boss del boss Ciccio Rappa di Borgetto, e con altri esponenti appartenenti alla famiglia mafìosa del Vitale, Fardazza di Partinico. “Del viaggio della Madonna di Romitello a loro non interessava niente, sono andati in America per accordarsi con la mafia americana”. Lettera anonima resa visibile per un’altra settimana sul sito della predetta emittente televisiva. Con la recidiva reiterala e specifica. In Borgetto e nell’area di diffusione dell’emittente Telejato dal 25/8/2014 al 9/2014;
offendeva e denigrava la reputazione dei giornalisti QUATROSI Nunzio, GIULIANO Michele e PORCASI Gaetano, il 4.12.2014 , attraverso l’emittente Telejato, (in particolare dichiarando “ci sono alcuni pseudo-giornalisti locali: Nunzio QUATROSI che non è nemmeno tesseralo, dipendente comunale e tra le altre cose evasore fiscale perché fa anche cose che non dovrebbe durante il suo lavoro al Comune: Michele GIULIANO purtroppo figlio di un componente delle Forze dell’ordine ed è veramente grave che un figlio di uno che fa parte dei Carabinieri, o faceva parte dei Carabinieri, possa scrivere delle cose…e parliamo di un certo pittore che una volta si definiva antimafia per farsi i soldi, adesso forse si definisce sociale …messi insieme non valete un pelo dei coglioni di Billy” “come un certo pittore …Gaetano PORCASI…imbrattatele …che…non sa mettere quattro parole una dietro l’altra…dovrebbe…ritornare a scuola…l’imbrattatele a pagamento…forse lui non si definisce antimafia, ma adesso si definisce pittore sociale perché nel sociale lui ci sguazza nel senso che vuole essere pagato profumatamente per le sue tele …il comprensorio ha capito che questo Michele GIULIANO è semplicemente un pò ‘ spirciatu di ciriveddu con Pino MANIACI…frse, che vuoi? Ti dobbiamo dare la scorta perché… hai problemi di inferiorità, e credo che tu hai bisogno di far riaprire …i manicomi e farti ricoverare….la sua è sicuramente un ‘antimafia fasulla e a pagamento, visto che si fa pagare profumatamente per fare antimafia…con l’anti mafia ci guadagna…ma noi siamo disponibili a raccontare la sua carriera antimafia …adesso pure presidente onorario di un ‘associazione che a Partinico ha per sponsor uno che ieri era fascista…noi queste cose per convenienza, per tutte ‘ste manfrine che fate, non le abbiamo mai fatte e adesso cortesemente gli ho dedicato troppo tempo, troppo del mio prezioso tempo al nulla ammiscatu cu nnenti”. Con la recidiva reiterata e specìfica. In Partinico e nell’area di diffusione dell’emittente Telejato in data 4/12/2014 e 3/2/2015;
Avere inserito quest’ultima imputazione nell’operazione Kelevra, con cui non aveva nulla da dividere, trattandosi di singola denuncia di privati in relazione a un servizio di Maniaci, dopo un articolo sul blog di Michele Giuliano, condiviso da Porcasi, in cui Giuliano si prospettava l’ipotesi che lo stesso Maniaci avrebbe ucciso i suoi cani per farsi pubblicità, è un’operazione giudiziaria al limite della genialità: troppo facile intravedere in quel servizio gli estremi della condanna e quindi trovare, rispetto alla fragilità delle altre imputazioni, un elemento che potesse giustificare tutta l’operazione.
Abbiamo riportato, i capi d’imputazione, di cui abbiamo già parlato troppe volte e rispetto ai quali qualsiasi commento è inutile: si commentano da sé. C’è solo da aspettare che giustizia sia fatta. Nel frattempo Maniaci si ritroverà faccia a faccia con quei malandrini, o PDM, come li chiama lui, dei quali ha denunciato le malefatte e che gliel’hanno giurata, al punto che, pur essendo imputato egli gode della tutela da parte dei carabinieri. Il collegio di difesa di Maniaci, composto dagli avvocati Ingroia e Parrino chiederà lo stralcio del processo riguardante Maniaci, sostenendo che non ha nulla a che fare con le operazioni estorsive dei mafiosi denunciati con l’operazione Kelevra.
Continua Salvo Vitale il 19 gennaio. In un’auletta 5×5 mq e stipata sino all’inverosimile c’erano tutti o quasi, i nove mafiosi di Borgetto, le parti lese e non lese, gli avvocati, mancavano tra queste i tre diffamati Giuliano, Quatrosi e Porcasi, difesi dal presente avvocato Bonnì e mancava anche il vicesindaco di Borgetto, Vito Spina, al quale, si è scoperto, non era stato notificato l’avviso dell’udienza, dove anche lui è parte lesa, offeso da Pino Maniaci. Guarda un po’, se l’erano scordati. E quindi, sono state convocate un centinaio di persone tra imputati, avvocati, parti lese, giudice, cancelliere, parti civili ecc. solo per sentirsi dire: signori miei, venite la prossima volta perché abbiamo dimenticato di avvisare una parte lesa, c’è stato un difetto di notifica, ci vediamo il 27 febbraio. Attenti, non il 28. Quindi tutti a casa, arrivederci, e grazie. Anche Pino Maniaci può tornare a casa? Perché non lo mandate di nuovo a Sciacca? Per adesso sì, diamogli un altro mesetto, poi si vedrà. Attenzione, hanno chiesto di costituirsi parte civile anche alcune associazioni antimafia, tipo Addio Pizzo, Libero Futuro, e altre, ma solo contro i mafiosi di Borgetto. Il Comune di Borgetto si costituisce invece contro Maniaci. Insomma tutto il baraccone si ripresenterà con l’inizio dei primi albori della nuova primavera, così ha stabilito il giudice Gabriella Natale.
Caso Maniaci, l’operazione Kelevra e i suoi risvolti, scrive il 17 gennaio 2017 Salvo Vitale su Telejato". In un articolo di Francesco Viviano, pubblicato qualche giorno prima su La Repubblica, si anticipava l’apertura di un’indagine per estorsione nei suoi confronti e a cui egli aveva risposto con un’intervista, ipotizzando dietro tutte le manovre la “longa manus” di Silvana Saguto, dei suoi colleghi e del suo “cerchio magico”, che avrebbero cercato vendetta per la campagna di denunce nei loro confronti, fatte dalla sua emittente. Costretto a seguire i carabinieri, Maniaci è portato in caserma e fotografato assieme ai P.D.M dei quali ha denunciato quasi quotidianamente i misfatti. Nella tarda mattinata in una conferenza stampa, il procuratore di Palermo Lo Voi dà notizia di un’operazione denominata Kelevra, fatta dai carabinieri di Partinico, contro nove mafiosi di Borgetto e contro Pino Maniaci. Lo strano nome è quello di un film uscito nel 2006 dal titolo Slevin Kelevra, con il sottotitolo La risposta del cane rabbioso. C’è, tra chi ha dato questo nome all’operazione, gente che conosce la cinematografia, acculturata ma non troppo, se scrive Kalevra e non, correttamente, Kelevra. Domanda: chi è il cane rabbioso? Si pensa subito a Pino Maniaci, che, quando si trova davanti microfono e telecamera non risparmia nessuno ed è come se abbaiasse su tutto e su tutti. Quindi un’operazione centrata su di lui, con il contorno di un gruppo di mafiosi. Ricostruiamo alcuni passaggi di questo intricato caso.
L’ORIGINE. L’operazione è nata nel 2013 per scoprire se il sindaco di Borgetto aveva “amicizie pericolose” con i mafiosi. Maniaci aveva denunciato da tempo le parentele di un consigliere comunale con alcuni mafiosi e agitato l’ipotesi che dietro l’elezione del sindaco di Borgetto Gioacchino De Luca ci fosse la mafia. In particolare si era soffermato su una visita fatta dal sindaco, con alcuni esponenti del Consiglio Comunale, negli Stati Uniti, dove, ad accogliere la delegazione, sarebbero stati presenti noti esponenti mafiosi. A seguito di un suo redazionale incentrato sulla presidente del Consiglio Comunale, Elisabetta Liparoto, anche lei in visita in America, Maniaci si era beccato da costei una denuncia per diffamazione, alla quale era seguita un’altra denuncia da parte del sindaco De Luca, secondo cui Maniaci avrebbe danneggiato l’immagine di Borgetto. Non si sa se le intercettazioni al sindaco De Luca siano nate dalle accuse di Maniaci o da altri elementi d’indagine. A seguito di queste intercettazioni, in particolare di una tra l’ex sindaco Davì e un certo Polizzi, consigliere comunale, si sarebbe scoperto “per caso” che Maniaci aveva “tappiato” Polizzi, cioè gli avrebbe commissionato duemila euro per magliette con la scritta Telejato, senza pagargliele. Quindi il caso di Maniaci entrerebbe nell’indagine per via traversa, con una spontanea domanda: se si voleva impallinare Maniaci, perché inserirlo dentro un’indagine che con lui non aveva nulla a che fare? Viene fuori l’ipotesi che tutta l’operazione Kelevra sia stata concepita, non, o non solo e non tanto per inchiodare i mafiosi di Borgetto, ma per incastrare Maniaci in una “degna” cornice. Infatti, se si va a dare un’occhiata alle intercettazioni che interessano i mafiosi, gli elementi d’accusa si basano su intercettazioni di alcune richieste di pizzo nel contesto di una generica intesa intervenuta tra i Giambrone e Salto, per avere ognuno mano libera nel controllo degli affari del territorio. Passati alcuni giorni quattro di essi sono tornati a casa.
L’AVVIO. Ma cerchiamo di vederci meglio: La Repubblica, preannuncia l’operazione. È la prima mossa strategica della Procura, per preparare lo scoppio della bomba. Maniaci non scappa, il 29 aprile chiede di essere ascoltato come persona informata dei fatti. I magistrati hanno cinque giorni per interrogarlo. Sabato e domenica non si lavora. Se dovessero interrogarlo salterebbe tutto il pistolotto che è stato preparato da mesi, compreso il bel filmato. Perché si è perso tanto tempo e improvvisamente l’indagine ha questa accelerazione? Probabilmente per evitare di sentire, da parte di Maniaci risposte che avrebbero potuto rimettere in discussione il piatto già pronto. Il quattro maggio, cioè allo scadere del terzo giorno, tre ore dopo, cioè alle tre di notte, scatta l’operazione e Maniaci è obbligato a sloggiare dalla sua casa, onde evitare che possa usare la sua emittente per creare disturbi all’operazione. Nello stesso tempo, intorno alle ore 12,48 viene spedita dal comando provinciale dei carabinieri di Palermo, ufficio stampa, al servizio nazionale della stampa, l’ordinanza con il provvedimento e con il pistolotto delle intercettazioni. Maniaci non è arrestato, non ci sono gli elementi, ma interdetto da Partinico, e il suo viso viene messo assieme a quello degli arrestati.
IL FILMATO. Il filmato di otto minuti porta la firma dei Carabinieri di Partinico e si apre con le immagini del Sindaco De Luca che consegna 400 euro a Maniaci. L’ipotesi della Procura è che Maniaci avrebbe chiesto dei soldi al sindaco di Borgetto, in cambio di un ammorbidimento degli attacchi contro di lui condotti dalla sua emittente. Da allora non un respiro, non una parola è sfuggita all’orecchio vigile degli inquisitori, che hanno accumulato oltre 4 mila pagine di intercettazioni per cercare prove ed elementi d’accusa. Ben più di quanto non ne siano state raccolte su tutti e nove i mafiosi di Borgetto, che avevano rimesso in funzione una gigantesca macchina di estorsioni e taglieggiamenti tra Borgetto e Partinico. Il filmato prosegue con una serie di intercettazioni tra Maniaci e una donna definita la sua amante, per la quale Maniaci chiede al sindaco di Partinico una sistemazione in un qualsiasi posto che garantisca un minimo d’entrata, cui segue, ogni tanto, la richiesta di 50 euro per comprare qualcosa alla figlia della ragazza, portatrice di un grave handicap. Maniaci chiede anche, si legge nelle intercettazioni, a un assessore, di procurare una sedia a rotelle per la bambina. Anche qua la Procura ipotizza l’ipotesi di estorsione, giustificata, come per Borgetto, da un ammorbidimento della linea di denuncia attraverso l’emittente. Seguono altri frammenti in cui Maniaci piglia per “stronzo” Renzi che gli aveva fatto una telefonata di solidarietà, sbraita contro magistrati, poliziotti e politici, dicendo che sono tutti corrotti, si lascia andare a un delirio di potenza datogli dall’uso della sua emittente, definisce “un premio del cazzo” un “oscar della legalità” conferitogli da un’associazione di Rosolini, e, dulcis in fundo, ipotizza che ad uccidere i due cani sia stato lo scemo del paese, ma, in realtà allude al marito della ragazza, che è un tossicodipendente e spacciatore ben noto alle forze dell’ordine. Quindi non si sarebbe trattato di un’azione intimidatoria, nei cui confronti tutta l’Italia aveva espresso solidarietà, ma di una vendetta privata che egli avrebbe invece usato e propagandato come intimidazione mafiosa. Per quest’ultimo caso, particolare importantissimo, viene abilmente occultata la denuncia, presentata da Maniaci, con l’indicazione della persona da lui sospettata e non si fa alcun accenno al fatto che, non essendo stata questa persona indagata, interrogata o ritenuta responsabile, avrebbero potuto essere proprio i mafiosi borgettani con i quali egli è stato messo insieme, ad aver compiuto il barbaro gesto.
LA GOGNA. Ce n’è abbastanza per demolire l’immagine di giornalista antimafia, che Maniaci si è costruito in dieci anni di lavoro e per presentarlo come un volgare ricattatore, immorale e indegno della fiducia che gli hanno dato sia i suoi collaboratori, sia la sua stessa famiglia. Gli elementi penalmente rilevabili sono dati solamente da 400 euro, consegnati, in bella mostra dal sindaco di Borgetto e da pochi spiccioli dati da quello di Partinico, il resto è tutto fango, ma così bene assemblato che tutta l’Italia ci cade e ci crede. Claudio Fava, scambiando premio, scrive che è stata offesa la memoria del giornalista Mario Francese, Lirio Abbate chiede a “Reporter sans frontières”, che ha elencato Maniaci tra i giornalisti più a rischio in Italia, di cancellarne il nome, Francesco Viviano scrive che Telejatoè stata chiusa, altri noti mafiologi prendono lo spunto per aggiungere questo caso a tanti altri che dimostrerebbero il fallimento dell’antimafia. Maniaci è messo al bando, finisce sulla gogna. Cosa c’è dietro questo stravolgimento d’immagine? Che cosa può avere motivato la Procura a usare il polpettone pronto da tempo, proprio in quei giorni?
CONSIDERAZIONI. Passato il clamore si può fare qualche riflessione: DI TUTTA L’ERBA UN FASCIO. Il primo obiettivo di tutta l’operazione è quello di distruggere l’immagine del giornalista antimafia, e quindi nullificare il suo lavoro, per ribadire che l’antimafia, le indagini, le denunce non appartengono all’operato di un giornalista che si è allargato troppo, ma solo agli investigatori, alle istituzioni o agli organismi riconosciuti come soggetti istituzionalmente interlocutori. Non pare importante in ciò l’esistenza di reati penali o la presunzione d’innocenza: basta mettere insieme alcuni elementi di presunta colpevolezza e il lavoro di Telejato dovrebbe o avrebbe dovuto crollare come un castello di carta. Mettere Maniaci assieme ai nove mafiosi di Borgetto, di cui egli stesso ha denunciato da anni le malefatte, è un colpo ben studiato, perché si è creato di tutta l’erba un fascio e perché così si è dimostrato che tra le estorsioni dei mafiosi, per richiesta di protezione, e le richieste di denaro di Maniaci non c’è nessuna differenza. Le prime garantiscono protezione, da se stessi, quella di Maniaci garantisce un trattamento morbido dell’informazione sulla persona estorta. In tutto questo c’è un elemento che non quadra, che non ha il dovuto riscontro, ovvero che quel “trattamento morbido” non esiste, che non c’è alcuna trasmissione benevola nei confronti dei due sindaci di Borgetto e Partinico e che, nell’arrivare a questa affrettata conclusione, come ha detto uno dei giudici, “ci siamo fidati dei carabinieri”. Possibile che l’indagine non abbia tenuto conto della presunta innocenza dell’imputato e dell’obbligo che ha il magistrato di verificarla?
IL CONFINO. Altra trovata: non essendoci ancora processo, si è dovuto ricorrere a qualcosa per dimostrare all’opinione pubblica che un provvedimento era stato comunque adottato, perché sotto c’era qualcosa di penalmente rilevante, e allora si è ricorso alla misura cautelare del divieto di dimora, ovvero al famigerato “confinio” previsto dal codice Rocco nel 1935 e voluto dal fascismo per isolare i dissidenti politici o i criminali pericolosi. Perché? Quale reato avrebbe potuto reiterare Maniaci, al punto da disporne l’allontanamento dalla sua televisione? Pare di capire che l’obiettivo non tanto occultato, è stato quello di togliere alla televisione il suo principale protagonista per provocarne la chiusura. A sorpresa il provvedimento del divieto di dimora viene revocato dopo una ventina di giorni, con la strana motivazione di un errore di notifica, ma forse, perché ci si è accorti della sua aberrazione e della sproporzione tra il provvedimento adottato e gli elementi di reato ipotizzati.
LE MAGLIETTE MAI FATTE. Caduto momentaneamente l’elemento d’accusa, dal momento che i pochi euro “estorti” ai due sindaci riguardavano, da una parte il pagamento d’una pubblicità, più IVA, dall’altra una sorta di contributo di solidarietà, il GIP trova un altro escamotage per tornare a riproporre l’allontanamento: c’è un passaggio, nelle intercettazioni, tra l’ex sindaco di Borgetto Davì e il già citato Polizzi in cui si parla della commissione, da parte di Maniaci, di un blocco di magliette che non sarebbero mai state pagate, così come non sarebbero stati pagati tre mesi d’affitto allo stesso, per ospitare alcuni ragazzi di Telejunior. Polizzi nega tutto, ma è ritenuto “inattendibile” per la negazione, mentre si ritiene attendibile l’intercettazione. Davì, che aveva concesso a Maniaci, per i ragazzi di Telejunior, l’uso provvisorio di uno stabile affittato come sede della Protezione civile, non è stato mai sentito. Quindi, un elemento che in prima battuta non è stato ritenuto valido, e comunque insufficiente a determinare il provvedimento, viene ripreso e ritenuto valido dopo che non sono stati ritenuti più validi i precedenti due elementi d’accusa. A questo punto il ricorso finisce a Roma in Cassazione, che non ritiene di sua competenza la vicenda, viene disposto un nuovo allontanamento di Maniaci, dopo che egli è rientrato da parecchio tempo in sede e non ha reiterato alcun reato, ma dopo altri 15 giorni d’esilio, il Gup giudice Sestito annulla la nuova richiesta e rimanda Maniaci a casa. Sono vicende che sfiorano il comico e l’incredibile, ma che svelano quanta acredine, quanto accanimento ci sia dietro e quanta determinata voglia di “fottere” Maniaci, di colpirlo e di mettere a tacere la sua emittente.
L’INCHIESTA SUI BENI SEQUESTRATI. Torniamo indietro: a partire dal 2014, Telejato ha aperto una serie d’inchieste sull’operato della sezione “misure di prevenzione” del tribunale di Palermo, in particolare sull’accoppiata Saguto-Cappellano Seminara e ha messo in onda una serie di interviste e di servizi di operatori economici e commerciali ai quali era stato sequestrato tutto, senza che penalmente ci fosse nessuna condanna e nessun capo d’imputazione. Una delle caratteristiche emerse dall’inchiesta è che al tribunale di Palermo tutti sapevano dell’allegra gestione, ma nessuno è intervenuto né tantomeno ha trovato il coraggio di intervenire. Una convocazione, di Maniaci, nel 2014, da parte del tribunale di Caltanissetta, giudice Gozzo, si era conclusa con un’audizione di tre ore e con l’impegno di una nuova convocazione, cui non era seguito più nulla. Il controllo dei telefoni di Telejato consentiva agli intercettatori di ricostruire la rete di informazioni e le persone che venivano a raccontare le loro storie: i carabinieri sapevano benissimo delle visite dei Niceta, dei Giacalone, dei Virga, degli Impastato, degli operai della 6Digi di Grigoli, dei lavoratori dell’Hotel Ponte, di quelli dell’ex immobiliare Strasburgo, di Rizzacasa, di Lena, di Di Giovanni, di Ienna ecc. Dall’altro lato anche la Saguto sapeva benissimo che Telejato era sotto controllo e che in qualsiasi momento la Procura avrebbe potuto intervenire per bloccarne le iniziative. “Quello lì è questione di ore.” “Se quelli lì si spicciassero.”. Ci risulta che, in una domenica dell’estate del 2015 la Saguto si sarebbe recata alla caserma dei carabinieri di Partinico, dove, nello stesso periodo si sarebbe recato anche il generale della DIA Nasca. Una corsa contro il tempo interrotta con l’apertura dell’indagine da Caltanissetta sulla Saguto, con i provvedimenti di sospensione o di trasferimento del prefetto, dei giudici a lei legati e col rinnovo dei giudici della sezione misure di prevenzione. È sembrato poco opportuno, in quel momento, ai magistrati, coinvolgere Maniaci, perché la cosa avrebbe potuto avere il sapore di una ritorsione, così l’indagine è stata raffreddata e la miccia è stata accesa circa sette mesi dopo, come si dice in siciliano ‘a squagghiata di l’acquazzina, cioè allo sciogliersi della brina.
IL PROCURATORE LO VOI. Un passaggio che occorre inserire nel quadro di questa indagine è la nomina a Palermo del Procuratore Lo Voi, e le supplenze del procuratore Facente Funzione Leonardo Agueci, indicato da Maniaci e da qualche altro giornalista locale come cugino della titolare della distilleria di Antonina Bertolino, sita a Partinico, uno dei principali bersagli di Telejato. Lo Voi si è insediato a Palermo il 3 dicembre 2014. Fa parte della corrente di Magistratura Indipendente, la stessa di quella della Saguto e di Tommaso Virga ed è sposato con un altro magistrato del tribunale di Palermo, Pasqua Seminara. Egli ha affermato subito che l’indagine sulla Saguto è partita su segnalazione del tribunale di Palermo. Dice che Maniaci non c’entra. Da Caltanissetta si affrettano a dire subito la stessa cosa, Maniaci non c’entra niente, tutto è andato avanti per loro iniziativa. È Lo Voi ad affidare il “caso Maniaci”, più nove, a cinque magistrati, Teresi, Del Bene, Picozzi, Tartaglia e Luise, che si occupano di vicende di mafia in provincia di Palermo e che con una dedizione più degna di miglior causa, si servono dei giornalisti che ruotano attorno alla Procura come amplificatori di una strategia che sembra avere qualche tinta diffamatoria.
TUTTI INSIEME ALLA TRASLAZIONE. Altro passaggio, ma di sola curiosità, è quello della traslazione della salma di Giovanni Falcone nella chiesa di San Domenico, ritenuta il “tempio” degli uomini siciliani famosi. Sorvoliamo sull’opportunità di tale gesto, che ha separato il giudice dal posto in cui era stato tumulato assieme alla moglie Francesca Morvillo. Siamo nel 3 giugno 2015. Alla cerimonia ci sono tutti, politici, sindaco, prefetto, forze dell’ordine, magistrati, tra i quali fa bella mostra Silvana Saguto, assieme a Lo Voi e a sua moglie.
CARABINIERI IN ASCOLTO. La pubblicazione di pruriginose intercettazioni con la ragazza definita amante offre Maniaci in pasto alle possibili ritorsioni e all’eventuale rischio della vita, da parte di un soggetto che potrebbe voler vendicare il proprio onore ferito. Una preoccupante sentenza di morte che avrebbe potuto essere evitata se chi ha diffuso intercettazioni, che non avevano nulla di penalmente rilevabile, ma che riguardavano la vita privata, le avesse omesse. Tutto il materiale utilizzato è stato fornito dalla caserma dei carabinieri di Partinico, nei cui confronti la difesa di Maniaci, condotta da Antonio Ingroia e da Bartolo Parrino ha inoltrato una denuncia per diffamazione. Più volte Maniaci ha chiamato il “Nucleo operativo” dei carabinieri “Nucleo aperitivo”, denunciandone la scarsa efficienza, soprattutto dopo che a dirigere la caserma di Partinico è stato inviato un tenentino di prima nomina “mentre ci vorrebbe uno con le palle”. Stranamente la caserma garantisce ancora a Maniaci la “tutela” assegnatagli, ma non ha fornito più all’emittente notizie e veline sul proprio lavoro nel territorio.
LE ALTRE DENUNCE. Alla ricerca di qualsiasi motivo utile a una qualsiasi condanna, almeno in primo grado, di Maniaci, onde giustificare la validità di tale indagine, sono state messe, nello stesso calderone delle accuse contro Pino Maniaci altre denunce, estranee a quelle dell’operazione Kelevra, da lui ricevute, a causa di alcune affermazioni diffamatorie fatte nei riguardi di altri giornalisti e personaggi locali, Michele Giuliano, Nunzio Quatrosi e Gaetano Porcasi, pittore antimafia, anzi “pittore d’impegno civile”. All’indomani dell’impiccagione dei cani di Maniaci Giuliano aveva scritto un articolo e lo aveva anche postato su Facebook lasciando spazio all’ipotesi che, ad uccidere i due cani fosse stato lo stesso Maniaci per farsi pubblicità. Quatrosi e Porcasi avrebbero condiviso l’articolo, causando la violenta reazione di Maniaci. Ma in questa cloaca probabilmente sarà messo anche una denuncia, arrivata all’inizio del 2017, di Leonardo Guarnotta, già Presidente del tribunale di Palermo, nei confronti del quale Maniaci avrebbe affermato che era al corrente di quanto succedeva all’ufficio misure di prevenzione, ma aveva preferito tacere e avrebbe dissuaso Maniaci dall’andare avanti nella sua inchiesta. Infine ci sono le denunce di Elisabetta Liparoto e del sindaco di Borgetto, perché Maniaci, nel sostenere che, durante la loro visita negli Stati Uniti erano stati accolti da esponenti mafiosi, avrebbe leso l’immagine di Borgetto. Insomma, qualcosa verrà pure a galla per punire il criminale.
LA SFIDA. Altre cose sono in itinere, ma sembra profilarsi all’orizzonte una ben più preoccupante situazione, quella di una sorta di gioco di fioretto tra l’ex magistrato Antonio Ingroia, difensore di Maniaci, che conosce bene tutti i modi di muoversi e d’agire dei suoi ex colleghi, e costoro, che forse ci tengono a dimostrare che sono più bravi di lui e che, in un modo o nell’altro troveranno come condannare Maniaci, almeno in primo appello, proseguendo poi con la strategia della graticola: cuocere a fuoco lento l’imputato, sino a demolirne progressivamente qualsiasi capacità di difesa.
OBIETTIVO CHIUSURA. Si può concludere che la motivazione strisciante di tutto quello che è successo sarà stata presa un po’ più in alto, da parte di qualcuno che ha ritenuto essere arrivato il tempo di chiudere un’emittente anomala che non sa stare in linea con il modo di agire delle altre emittenti. E cioè siamo sempre lì, nel conformismo dell’informazione, nella banalità che diventa notizia e nell’uso redazionale di alcune forme di censura o di autocensura, che ha relegato l’Italia agli ultimi posti per la libertà di stampa.
Lettera aperta di Pino Maniaci ai colleghi giornalisti del 28 settembre 2016 pubblicata su "Telejato". "Cari colleghi, sin dal primo giorno in cui vi è stata data la notizia, il video e le intercettazioni delle vicende in cui la Procura di Palermo ha deciso di “impallinarmi”, assieme a nove mafiosi di Borgetto che con me non c’entravano niente, a nessuno di voi è venuto il minimo dubbio che ci fosse qualcosa che non quadrava. Conosco il vostro rapporto con i magistrati: sono loro che vi passano le notizie e il materiale per integrarle, quindi nessuno di voi oserebbe mettere in discussione l’operato di chi, alla tirata delle somme, offre gli elementi per mandare avanti il proprio lavoro, di chi vi fa campare. Tutti avete emesso, in partenza la sentenza di condanna, sia perché quello che dice la Procura non si discute, sia perché rispetto a voi io non sono un giornalista, non merito questa etichetta e, addirittura, diffamo la vostra categoria. Ad alcuni non è parso vero di potere dilatare la macchina del fango messa in moto nei miei confronti. Altri hanno sottilmente distinto l’aspetto penale, per la verità molto fragile, da quello “morale” o etico, arrivando alla conclusione che se i risvolti penali di ciò di cui ero accusato erano irrilevanti, dal punto di vista morale io ero condannato e condannabile perché le intercettazioni che abilmente erano state confezionate e vi erano state date in pasto, mettevano in evidenza una persona senza scrupoli e senza rispetto per i valori minimi della convivenza e della morale comune: come potevo io fare la predica agli altri, quando non avevo rispetto per le istituzioni, per la magistratura e la legalità da essa rappresentata, per i politici, per il Presidente della Repubblica e persino per la mia famiglia? Anche adesso che, dopo essere stato finalmente ascoltato, alcune cose sono state chiarite, molti di voi sono rimasti fermi alla prima devastante impressione che vi è stata offerta e che escludeva addirittura qualsiasi personale rivalsa da parte di quei settori del tribunale di cui avevo messo in luce la vergognosa gestione. Sono stati ignorati, da parte vostra, che pur li conoscevate bene, anni d’impegno, di denunce, di servizi a rischio, di documentazione di attività sociali, culturali, religiose. È stato ignorato il ruolo di una redazione in costante rinnovo, ignorata la presenza di scolaresche, associazioni, volontariato, sincera collaborazione, il tutto senza un minimo di risvolto o di vantaggio economico. Cosa aggiungere? Che nessuno di voi, diversamente da quanto posso io fare, ha la piena libertà di scrivere ed esprimere i propri giudizi, dal momento che questi si uniformano a quelli di chi vi paga o vi dà le informazioni? La libertà di stampa non è acqua fresca e lo si nota giornalmente dal modo in cui vengono confezionati giornali e telegiornali e dalla scarsa capacità di chi vede e ascolta, di maturare un proprio giudizio e di notare subito dove sta il trucco o lo stravolgimento della notizia. Che aggiungere? Il regime non è finito, anzi sta cercando di rafforzarsi sia con lo stravolgimento dei principi costituzionali su cui andremo a votare, sia con le minacce di coloro che da sempre hanno agito indisturbati, sia con gli avvertimenti mafiosi, sia con il reato di diffamazione a mezzo stampa, che non si ha nessuna voglia di cambiare per agevolare il nostro lavoro. La titolare della Distilleria Bertolino una volta lo disse con chiarezza: “Una volta c’era la pistola, adesso basta la denuncia”. Oppure un buon servizio giornalistico. Una volta che la pietra è stata buttata ritirarla diventa difficile, anzi impossibile.
DI…RAGUSA. Sfruttamento, stupri e aborti: le braccianti rumene in Sicilia vivono ancora come schiave. L’Espresso è tornato nelle campagne del ragusano, dove due anni fa aveva scoperto le condizioni di vita terribili di centinaia di donne dell'est impiegate nell'agricoltura. E la realtà, se possibile, è peggiorata, scrive Antonello Mangano il 5 giugno 2017 su "L'Espresso". «Se il fenomeno non esiste, allora molti bambini sono nati per opera dello Spirito Santo...». Don Beniamino Sacco è il parroco che per primo parlò dello sfruttamento sessuale delle romene nelle campagne del ragusano. Oggi risponde con questa amara battuta a quelli che ancora negano. Due anni fa L’Espresso denunciò quell’orrore. Intervennero i governi di Romania e Italia. La commissione per i Diritti umani del Senato avviò un’indagine conoscitiva. Dieci deputati presentarono due diverse interrogazioni parlamentari. La Prefettura convocò Procura, sindaci e forze dell’ordine. Seguirono retate, tavoli di lavoro e convegni istituzionali. Tutti presero impegni solenni. Siamo tornati a Vittoria, in provincia di Ragusa. E abbiamo trovato una realtà se possibile peggiorata. «Chi ha sbagliato deve pagare», ci dice il nuovo sindaco, Giovanni Moscato. Ma ribadisce che «non ci sono denunce». «Se pretendiamo di valutare la gravità del fenomeno dal numero delle denunce delle donne romene significa che abbiamo deciso di non aggredirlo. Nessuna di loro, in assenza di alternative lavorative e vivendo in una condizione di totale segregazione fisica e sociale, andrà coi suoi piedi a sporgere denuncia», spiega Alessandra Sciurba, ricercatrice universitaria. I dati dell’Asp di Ragusa sono angoscianti. Il numero di interruzioni di gravidanza di romene è spaventoso. Costante negli anni. Centoundici nel 2016, 119 nel 2015. Rappresentano il 19 per cento del totale della provincia. Il dato è enormemente superiore rispetto a quello delle italiane. Ed è sottostimato: c’è chi ricorre a metodi artigianali, chi torna in Romania ad abortire. Numeri che sono la spia di un’emergenza mai finita. «Alla prima marcia antimafia, trent’anni fa, eravamo io e il mio cane. All’ultima c’era tutto il quartiere», racconta don Beniamino. Siamo nel rione Forcone di Vittoria, cubi di cemento e mattoni forati: la storica roccaforte della criminalità locale. La sua parrocchia è un simbolo di resistenza. All’improvviso, però, confessa di essere stanco. Stanco di sentirsi dire «chi te lo fa fare», di ascoltare che «le romene se la vanno a cercare». Oggi il territorio si è chiuso a riccio. «Senza generalizzare, ci sono frange della nostra realtà economica dove tutto è consentito», spiega. C’è ancora chi nega i “festini agricoli”. Ormai le foto si trovano su Facebook. Tra teli di plastica e rifiuti tossici sono nate inquietanti discoteche romene in piena campagna. Le immagini mostrano donne seminude e improbabili dj che vengono dall’Est. Poi ci sono i festini dei padroni locali. «Si riuniscono più persone, si mangia, si beve, si fa del sesso», spiega don Beniamino. «La donna di turno deve fare buon viso a cattivo gioco. Tante romene sono lavoratrici con alle spalle situazioni difficili, spesso devono mantenere i figli in Italia o in Romania. Ma la promessa di dieci euro in più diventa una mortificazione». «Ho visto donne che in una prima fase sono estremamente consapevoli dell’ingiustizia che stanno subendo», dice la ricercatrice Sciurba. «È una decisione che mai nessuna donna dovrebbe essere costretta a prendere: annullare sé stessa per dare un futuro ai figli. In una seconda fase subentra spesso una sorta di adattamento alla brutalità». «I romeni sono tanti ma non sono una vera comunità», spiega don Beniamino. «Non hanno punti di riferimento o luoghi d’incontro».
Anche il sindacato parla del deterioramento all’interno della comunità romena: «Abbiamo segnali preoccupanti. Sta crescendo un caporalato degli alloggi, dei trasporti e dell’intermediazione lavorativa usato anche da grandi aziende», denuncia Peppe Scifo della Cgil. Sabato pomeriggio il piazzale dei supermercati si riempie di donne che dalle campagne vanno a comprare tutto il necessario per la settimana. Con passaggi di fortuna o pagando un tassista improvvisato, escono dall’isolamento. Per qualche ora. Anche la Caritas racconta la segregazione vissuta dai lavoratori delle campagne: «Vivono in baracche, garage, magazzini per gli attrezzi e vecchie gabbie adattate ad abitazione, coperte di plastica o eternit. La presenza umana è rivelata solo dai fili per stendere il bucato o dalle antenne satellitari». Sono case messe loro a disposizione all’interno delle proprietà agricole. Vivendo lì, si fa anche vigilanza notturna. Un’altra prestazione lavorativa con beffa: l’affitto viene detratto dal salario. «Ci sarà un’esplosione», profetizza Don Beniamino. Si riferisce al contrasto tra la violenza diffusa sul territorio e il silenzio delle comunità. In poche settimane, da febbraio in poi, tutti sono stati colpiti: romeni, tunisini, italiani. Lo scorso febbraio fiamme alte annunciavano l’incendio di quattro tir nei pressi del mercato ortofrutticolo. È il più grande del Meridione e quindi anche al centro degli appetiti mafiosi, specialmente per quanto riguarda trasporti e imballaggi. Poteva finire in tragedia. Dentro un camion c’era l’autista, che se l’è cavata con gravi ustioni. Ad aprile, in contrada Pozzo Bollente, hanno trovato un cadavere in una discarica col cranio fracassato. Era un tunisino ucciso da due lavoratori romeni. Le vittime avevano venduto autonomamente nove cassette di fagiolini per recuperare le giornate lavorative non pagate. Una violenta lite aveva risolto la questione, conclusa con un primo colpo di spranga di ferro alla testa e un secondo mortale. Sempre ad aprile, un capannone che produceva materiali di plastica per confezionare gli ortaggi è stato incendiato. Questo clima di follia collettiva non ha risparmiato neppure la Caritas. Il centro di Marina di Acate, presidio a sostegno dei lavoratori, è stato vandalizzato all’inizio di marzo dopo una trasmissione radiofonica. Il tema? Le agromafie.
Suleyman prende la bicicletta e torna verso il Cas (Centro di Accoglienza Straordinaria), una sigla ormai nota in Sicilia. È lì che sta nascendo un nuovo caporalato. Il Cas può essere un piccolo albergo, un posto per anziani, un casolare nel nulla. Qui i migranti attendono la risposta alla richiesta d’asilo che hanno presentato. I più fortunati aspettano un anno, chi presenta ricorso può doverne attendere anche quattro. In un centro sperduto nelle campagne incontriamo persone molto diverse tra loro. C’è chi è sopravvissuto al Mediterraneo, chi ha perso l’equilibrio mentale dopo le torture subite in Libia. Tutti vogliono mandare i soldi a casa. Nelle campagne si prende quello che offrono i caporali. I numeri non sono enormi - si parla di un centinaio di persone - e hanno abbassato ulteriormente il costo del lavoro. «Tanto hai da mangiare e da dormire», dicono i padroni. Se qualche anno fa i tunisini sindacalizzati prendevano cinquanta euro al giorno, oggi siamo arrivati a sette o dieci con gli africani in attesa d’asilo. A fine giornata, c’è gente pagata con una manciata di monete. «Purtroppo anche quelli che lavorano onestamente sono stati mortificati», dice don Beniamino. «Conosco chi ha subito blitz con trenta agenti. Senza che sia stato trovato niente». Abbiamo ascoltato anche la voce degli imprenditori ragusani. Non accettano generalizzazioni. Ribadiscono che la situazione è disperata. Aziende fallite, aste giudiziarie e code alla mensa parrocchiale. Alcuni provano a competere con l’ipertecnologia. Serre idroponiche, cioè piante irrigate con una soluzione nutritiva e suolo sostituito con lana di roccia. Sostanze chimiche che irrorano le coltivazioni. Semi selezionati nei laboratori di genetica israeliani per inventare prodotti adatti al gusto del consumatore nordeuropeo (forma, colore, grado zuccherino). Qualcuno punta a vendere un immaginario (il sole, il Mediterraneo, il buon vivere) e la qualità del prodotto. C’è un’impresa che per evidenziare la propria eticità e marcare la differenza scrive sul sito aziendale: «Abbiamo solo lavoratori italiani».
Ma, dal sindaco all’ultimo produttore, tutti puntano il dito sulla differenza di prezzo tra la serra e il bancone del supermercato. «Negli ultimi anni il nostro prodotto è stato venduto a trenta o quaranta centesimi al chilo e nei banconi dei supermercati lo trovavamo anche a otto euro», denuncia Giovanni Moscato, peraltro anche lui vittima di intimidazioni. Eletto da pochi mesi, è un giovane avvocato proveniente da Fratelli d’Italia. È il primo sindaco anticomunista a Vittoria, già cuore rosso della Sicilia. Ha iniziato una piccola rivoluzione, imponendo il controllo degli accessi al mercato ortofrutticolo. Prima entrava chiunque. Moscato ci accoglie nel palazzo barocco del Municipio parlando degli enormi interessi che vanno dalle cooperative fino alla Lidl. Ci sono vicende che sembrano dargli ragione. Nel 2012, l’imprenditore Maurizio Ciaculli ha scoperto una confezione di melanzane, probabilmente spagnole, sul bancone di un supermercato. Erano impacchettate col suo marchio, ma non erano prodotte dalla sua azienda. Meravigliato, ha denunciato la frode. Soltanto lo scorso febbraio si è tenuta un’udienza. Ma le minacce sono arrivate subito. Un’auto bruciata, biglietti intimidatori e un gatto morto davanti casa.
DI…SIRACUSA. Siracusa, arrestato per corruzione colonnello della Guardia di finanza. Custodia cautelare per Massimo Nicchiniello, comandante Nucleo di polizia tributaria: è uno degli indagati nell’ambito della inchiesta Mose della Procura di Venezia, scrive Luca Signorelli il 16 giugno 2017 su "Il Corriere della Sera". Arrestato il tenente colonnello della Guardia di Finanza Massimo Nicchiniello, in servizio a Siracusa, dove comanda dall’agosto 2016 il Nucleo di polizia tributaria. Il provvedimento di custodia cautelare in carcere gli è stato notificato questa mattina in quanto indagato assieme ad altri 15 persone nell’ambito della inchiesta Mose della Procura di Venezia legata alla concessione di denaro, doni in cambio di sconti nelle sanzioni per evasioni fiscali. Oggi, infatti, il Nucleo di Polizia Tributaria di Venezia ha dato esecuzione a 14 ordinanze di custodia cautelare in carcere e due agli arresti domiciliari, emesse dal gip del Tribunale di Venezia, su richiesta della locale Procura della Repubblica, nei confronti di 6 imprenditori (di cui due domiciliari), 2 funzionari dell’Agenzia delle entrate (immediatamente sospesi dal servizio, «al fine di tutelare la dignità delle lavoratrici e dei lavoratori che operano onestamente e scrupolosamente», precisa l’Agenzia) ed un ex funzionario della stessa ora in pensione, 2 commercialisti, 2 ufficiali della Guardia di finanza, un appartenente alla Commissione Tributaria Regionale per il Veneto e 2 dirigenti di un’azienda assicuratrice, coinvolti con diversi ruoli in fatti di corruzione commessi al fine di sgonfiare gli importi delle imposte da pagare da parte di imprese già sottoposte a verifiche fiscali. L’ufficiale è accusato di reati commessi quando era in servizio a Udine ma a Siracusa è stata assicurata la continuità operativa del nucleo e la totale estraneità del Comando. L’inchiesta, condotta dal pm Stefano Ancilotto, è nata da alcune intercettazioni che erano state eseguite nell’ambito dell’inchiesta Mose. Nelle sedici misure cautelari emergono nomi importanti: tra questi Elio Borrelli, ai vertici dell’Agenzia delle entrate prima a Venezia ora in Abruzzo, Christian David e Massimo Esposito, rispettivamente responsabile delle verifiche il primo ed ex direttore dell’Agenzia di Venezia il secondo. Nell’elenco anche due ufficiali della Gdf, Vincenzo Corrado e Massimo Nicchinello, un giudice tributario della Commissione regionale, Cesare Rindone, due commercialisti di Treviso e Chioggia, Tiziana Mesirca e Augusto Sertore, e una serie di imprenditori appartenenti al gruppo Bison di Jesolo, specializzato in costruzioni, a Cattolica assicurazioni, alla società Baggio di Marghera, attiva nella logistica, oltre a un produttore di prosciutti friulano, Pietro Schneider.
Il CSM scambia due giudici con lo stesso cognome e Tribunale diversi, scrive il 17 giugno 2017 "pippogaliponews.it". La vicenda dei giudici “scambiati” dal CSM corre sul web con impetuosità. E commenti poco lusinghieri sulle toghe. Il procedimento “contro” il Got del Tribunale Civile di Patti Elisabetta Artino Innaria è firmato da Paola Piraccini ed è registrato come 181/gt/2017. La parte denunziante è il siracusano Francesco Bongiovanni. Volgarmente: CSM inoperoso e quindi non luogo a procedere perché sarebbe atto di censura ad attività giurisdizionale. Quindi, dovrebbe essere la Corte d’Appello di Messina a intervenire, visto che si tratta di un Got in forza a Patti. Eh, no. Il giudice “giusto” da processare è, eventualmente, Giuseppe Artino Innaria, Fallimentare di Siracusa. Dunque, atti alla Corte d’Appello di Catania. E pure a Siracusa, per eventualmente competenza disciplinare.
Il signor Bongiovanni chiedeva giustizia per un leso diritto della difesa in una storiaccia che vede coinvolti un CTU e il figlio avvocato di un ex procuratore. Ma la domanda è semplice: se gli atti sono tutti rigorosamente aretusei come si arriva a Elisabetta Artino Innaria, che è un avvocato e fa il Got a Patti e vive a Sant’Agata di Militello con il marito, l’avvocato Alfio Pappalardo? L’inchiesta è durata quattro mesi visto che l’esposto del signor Bongiovanni è del gennaio 2017. Sorge il dubbio che la Piraccini abbia “mischiato” due fascicoli diversi relativi ad altrettanti Artino Innaria. Ma un’occhiatina finale non sarebbe stato il caso di darla prima di emettere il giudizio? Nota finale. Incrociando i dati su Elisabetta Artino Innaria e il marito Alfio Pappalardo si arriva allo stranoto studio legale di Andrea Lo Castro di Messina (una sospensione di due mesi per il titolare e una vicenda giudiziaria in corso). Sito in corso Cavour. Nel palazzo dove vive l’ex procuratore capo di Messina Totò Zumbo, Papà del consigliere di Corte d’Appello di Catania Eliana, sposa di Antonio Carchietti, pm friulano dal 2011 a Messina.
Siracusa, Veleni in Procura: il Csm ascolterà il 19 giugno il Procuratore capo Giordano e i Pm Longo e Musco. Per essersi venuti a trovare, "a prescindere da esistenza di condotte colpevoli riconducibili a fattispecie di diversa natura, in una situazione tale da incidere sulla piena indipendenza e imparzialità dell’attività giudiziaria nella sede di Siracusa e nelle funzioni di pubblico ministero", scrive Luca Signorelli su "Siracusa news" l'8 giugno 2017. Saranno ascoltati il prossimo 19 giugno dalla Prima commissione del Consiglio superiore della magistratura il Procuratore capo Francesco Paolo Giordano e i Pubblici ministeri Giancarlo Longo e Maurizio Musco. Nella seduta del 17 maggio scorso il Csm aveva deliberato di aprire nei confronti dei magistrati la procedura di trasferimento d’ufficio per essersi venuti a trovare, “a prescindere da esistenza di condotte colpevoli riconducibili a fattispecie di diversa natura, in una situazione tale da incidere sulla piena indipendenza e imparzialità dell’attività giudiziaria nella sede di Siracusa e nelle funzioni di pubblico ministero”. Incompatibilità ambientale, insomma. Essendo il sostituto Musco già trasferito alla sede di Sassari con provvedimento cautelare (anche se in organico, ancora non ha preso servizio in Sardegna) la procedura riguarda solamente le funzioni di pubblico ministero mentre la commissione provvederà ad ascoltare Giordano e Longo, come prevede la procedura regolamentare. La Prima Commissione del Csm nei giorni di giovedì e venerdì, 11 e 12 maggio, si era recata negli uffici giudiziari di Siracusa dove aveva sentito 8 sostituti procuratori, il Procuratore aggiunto, il presidente del Tribunale, il presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati e il Prefetto. A questo punto sembra mancare davvero poco per arrivare a una decisione in merito a una Procura che naviga da anni in acque piuttosto agitate.
Convocati dal Csm il procuratore Giordano e i sostituti Longo e Musco, scrive "Libertà Sicilia" l'8 giugno 2017. Il CSM e il caso Siracusa con il suo carico di esposti, segnalazioni, denunce che coinvolgono magistrati, politici e professionisti giunge al capolinea. In questo nuovo filone di veleni, viene coinvolto di riflesso anche il procuratore capo Francesco Paolo Giordano, che ha appreso dalle agenzie che la prima commissione del Csm ha avviato la procedura di trasferimento per incompatibilità ambientale nei suoi confronti e di quelli del pm Giancarlo Longo, mentre per il sostituto procuratore Maurizio Musco, già trasferito a Sassari, la nuova procedura riguarda solamente le funzioni di pubblico ministero. La prima commissione del consiglio superiore della magistratura ha fissato per il 19 giugno l'audizione del procuratore Francesco Paolo Giordano. Il capo della Procura aretusea avrà modo di dire la sua dopo che la commissione del Csm ha deciso di avviare la procedura di trasferimento nei suoi confronti e di altri due magistrati "per essersi venuti a trovare, a prescindere dall'esistenza di condotte colpevoli riconducibili a fattispecie di diversa natura, in una situazione tale da incidere sulla piena indipendenza e imparzialità dell'attività giudiziaria nella sede di Siracusa e nelle funzioni di pubblico ministero". Il procuratore Giordano ha ricevuto il carteggio con il contenuto delle audizioni che la prima commissione ha effettuato al palazzo di giustizia di Siracusa tra l'11 e il 12 maggio. In quella sede, come si ricorderà, sono stati sentiti quasi tutti gli 8 magistrati, firmatari di un esposto al Csm e alla Procura di Messina, il procuratore aggiunto Fabio Scavone, il presidente del tribunale, Antonio Maiorana, il prefetto Antonio Castaldo, e il presidente dell'Ordine degli avvocati, Francesco Favi. In precedenza era stato ascoltato a Roma il Procuratore generale Salvatore Scalia. Al di là dell'esposto, una parte importante nella decisione dei commissari di chiedere il trasferimento di Giordano l'avrebbero fatta le inchieste imbastite dalla Procura di Messina sul conto di magistrati in servizio a Siracusa. Nel pomeriggio del 19 giugno, saranno sottoposti ad audizione anche i sostituti procuratori Giancarlo Longo e Maurizio Musco. Per il primo, la procura peloritana ha aperto un fascicolo d'indagine, mentre per quanto riguarda il secondo, già trasferito in via cautelare a Sassari, la procedura di trasferimento riguarda la sola incompatibilità funzionale, e non quella ambientale.
Augusta. Caso “Villa Milena”, depositate le motivazioni della condanna a 3 anni ed 8 mesi inflitta al magistrato priolese Maurizio Musco, scrive il 7 giugno 2017 la Redazione di Webmarte. Confermata l’attendibilità del vice questore Pasquale Alongi. Per il Tribunale di Messina “…emerge a piene mani l’intento del Musco, già al momento della presentazione della denuncia del Corallo (ndr: consegnatagli il 29 agosto 2007 dall’Avv. Piero Amara) e del suo trattenimento, di “gestire” l’intera vicenda attinente i controlli effettuati dalla Polizia su Villa Corallo, facendo valere sugli appartenenti al commissariato il proprio ruolo”. È questo uno dei passaggi più significanti (e pesanti) delle motivazioni, depositate quasi allo scadere dei 90 giorni previsti, della sentenza con la quale il Tribunale di Messina – Presidente Silvana Grasso – ha condannato nello scorso marzo a 3 anni ed 8 mesi di reclusione il PM Maurizio Musco per tentata concussione nei confronti degli uomini della Polizia di Stato del Commissariato di Augusta, disponendo per l’imputato anche l’interdizione perpetua dai pubblici e l’estinzione del rapporto di lavoro. La vicenda – come si ricorderà – risale all’agosto 2007 e prende spunto dall’accentuato fenomeno – verificatosi in quegli anni nel territorio di Augusta – di trasformazione di numerosi esercizi commerciali o di edifici privati in locali da ballo. Nell’ambito di una ampia azione di prevenzione e controllo avviata dal locale commissariato di P.S. di Augusta, guidato all’epoca dal vice questore Pasquale Alongi, per verificare il possesso da parte dei proprietari/gestori dei requisiti previsti dalla legge, agenti di polizia effettuarono alcuni interventi presso il noto ritrovo notturno “Villa Milena”, gestito dall’associazione culturale “Antropos” di cui il magistrato Musco era socio. Detti interventi peraltro si erano resi necessari a seguito delle numerose segnalazioni dei residenti vicini che lamentavano il disturbo del riposo notturno a causa dell’alto volume della musica. Secondo la Procura di Messina, durante uno di tali controlli al locale, la notte tra il 30 e 31 agosto 2007, il Musco “…presente unitamente all’avv. Piero Amara (cui era legato da rapporti di amicizia)...” intervenne sugli agenti di polizia “…qualificandosi come PM della Procura della Repubblica di Siracusa, esibendo il tesserino di riconoscimento, chiedendo di sapere se il controllo era stato operato di iniziativa o meno e quale fosse la ragione….sindacava la possibilità da parte degli agenti operanti di misurare il volume della musica…..ed avvisava gli agenti che l’indomani avrebbero dovuto trasmettere al suo ufficio l’incartamento relativo a tale controllo…” sollecitando “… nei giorni a seguire l’invio della relazione.” Le 25 pagine della sentenza accolgono l’impianto accusatorio sostenuto dalla Procura della Repubblica di Messina, rappresentata dal PM. Antonio Carchietti, ricostruendo con meticolosità tutti i “passaggi” della delicata vicenda che ha visto protagonista Maurizio Musco, di recente trasferito dal CSM a Sassari. Per il Tribunale di Messina “ …è indiscutibile che il Musco nel momento in cui riceveva e tratteneva presso di sé la denuncia del Corallo consegnatagli il 29 Agosto dall’Avv. Piero Amara non era il magistrato di turno” come è anche documentale che “ … le regole di organizzazione interna all’ufficio non prevedevano l’assegnazione al Musco di procedimenti aventi ad oggetto reati contro la Pubblica Amministrazione….(ndr: ipotesi di abuso d’ufficio a carico di in agente di Polizia)”. Sempre secondo il Tribunale di Messina poi “Musco non era nel turno e quindi non poteva ricevere le denuncia e, a fortiori, non poteva auto assegnarsela…” perché questo potere spettava al Procuratore capo o in sua assenza all’Aggiunto. Piena attendibilità viene invece riconosciuta dai giudici peloritani alla ricostruzione dei fatti fornita dal Vice Questore Pasquale Alongi, che con il Musco ebbe un incontro dai toni verbali molto accesi il 3 settembre 2007 (“Emerge la veridicità del litigio …”). In sentenza si evince la correttezza dell’operato del dirigente, fedele servitore dello Stato, e dei suoi uomini, il cui intento non era assolutamente “preordinato ad ostacolare l’attività del gestore del locale per danneggiare costui”. Le motivazioni non mancano poi di evidenziare “…la preesistenza di rapporti del Musco con l’avv. Piero Amara…” richiamando la sentenza della Corte di Appello di Messina relativa alla vicenda “Veleni in Procura” con la quale il magistrato priolese è stato già condannato a 18 mesi di reclusione per il caso “Oikothen”, condanna di recente confermata in Cassazione. Forse per mero scrupolo, il Collegio ritiene addirittura di riportare testualmente un significativo passo degli atti dell’inchiesta predisposta dal Ministero, laddove gli ispettori ministeriali nella loro relazione “…concludevano nel senso del raggiungimento della prova di una amicizia “corroborata da notoria frequentazione tra il Dott. Musco ed il citato avv. Piero Amara… altrettanto dimostrato è il progressivo allargamento di tale rapporto amicale alla condivisione di interessi economici…..” precisando che “In definitiva può dirsi che tra l’avv. Amara e il dott. Musco esisteva ed esiste un legame capace di ingenerare il sospetto che la determinazioni assunte dal suddetto magistrato potessero o possano essere ispirate a fini diversi da quelli istituzionali e dirette, per ragioni private e personali, a favorire o danneggiare gli eventuali soggetti coinvolti a vario titolo nei procedimenti in cui l’avv. Amara aveva interessi personali o professionali.” Secondo quanto è emerso dal dibattimento, in sentenza si legge anche come “… il Musco, abusando della sua qualità di magistrato in servizio presso la Procura della Repubblica di Siracusa, abbia posto in essere una serie di atti diretti in modo non equivoco a coartare la libera determinazione degli agenti della polizia del commissariato di Augusta nell’espletamento di una doverosa attività d’ufficio già da essi intrapresa…”. “Nel caso in specie” – ad avviso del Tribunale – “tutte le condotte tenute dal Musco risultano idonee a determinare uno stato di soggezione negli appartenenti al commissariato di Augusta al fine di costringerli a non proseguire nell’attività di controllo presso Villa Corallo, risultato non perseguito per la resistenza da essi opposta al comportamento illecito del Magistrato.” Ai fini poi del computo della pena da infliggere, stigmatizzando “… l’elevato disvalore della condotta tenuta da parte dell’imputato approfittando del proprio ruolo in seno alla Procura della Repubblica di Siracusa”, i giudici messinesi hanno ritenuto che “non sussistano le condizioni per la concessione delle circostanze attenuanti generiche, atteso…che non sono emerse in atti circostanze valutabili in senso favorevole nei suoi confronti.” Questo quanto stabilito dal giudizio di I° grado. È chiaro che per porre fine anche a questa inquietante vicenda, bisognerà attendere l’esito dell’Appello ed eventualmente della Cassazione.
"Veleni" in procura a Siracusa, arrivano gli ispettori, scrive l'11 Maggio 2017 "Il Giornale di Sicilia”. Saranno ascoltati gli otto sostituti sugli 11 in servizio a Siracusa firmatari dell’esposto al Csm e ai colleghi di Messina sul rischio di inquinamento dell’azione della procura, funzionale alla tutela di interessi estranei all’amministrazione della giustizia. Ma saranno sentiti anche i vertici degli uffici giudiziari e il prefetto. Sarà una trasferta impegnativa quella che domani farà a Siracusa una delegazione della Prima Commissione del Csm che da anni ha aperto un fascicolo sui veleni alla procura e sul cui tavolo ci sono diversi esposti. In quello dei pm si richiama la sentenza con cui l’ex procuratore Ugo Rossi e l’attuale sostituto Maurizio Musco - su cui pende una richiesta di trasferimento d’ufficio del ministro della Giustizia dopo che un precedente provvedimento era stato revocato in seguito a un’assoluzione disciplinare - sono stati condannati in appello per abuso d’ufficio. Ma soprattutto si segnalerebbero rapporti molto stretti di uno dei colleghi in servizio con alcuni imprenditori. Nell’ottobre scorso la Commissione presieduta dal laico del pg Giuseppe Fanfani, che domani guiderà la delegazione, aveva ascoltato il Pg di Catania Salvatore Scalia, che aveva descritto una situazione di grande conflittualità in tutti gli uffici giudiziari di Siracusa ma particolarmente grave in procura. Era stato sentito anche il procuratore di Messina Vincenzo Barbaro, che aveva riferito che dopo l’esposto dei pm erano state iscritte cinque persone nel registro degli indagati, tra cui un magistrato, Giancarlo Longo, alcuni consulenti e avvocati.
Siracusa, impressionante escalation “Veleni in Procura2”: salgono a 12 gli indagati a Messina. Scrive l'11 giugno 2017 Concetto Alota su “Siracusa Live”. Sarebbero arrivati a circa dodici gli indagati iscritti a modelli 21 (persone note) della Procura della Repubblica di Messina che sta indagando a fondo sui vecchi e i nuovi veleni, scaturiti alla procura di Siracusa già qualche anno fa, e ora finiti ancora una volta sui tavoli dei pm messinesi. Coinvolti a vario titolo, ci sono magistrati, giudici, imprenditori, dirigenti pubblici, politici, giornalisti, avvocati, faccendieri e portaborse. Quello che sta succedendo al palazzo di giustizia di Siracusa è una ripetizione di un pezzo di storia ancora tutto da riscrivere. Le verità cambiano al passar delle ore. Da Siracusa a Palermo, ancora Messina, poi Roma e Milano. L’impressionante escalation con cui si stanno evolvendo i fatti messi sulla bilancia della Giustizia costituisce un clamoroso atto d’accusa non soltanto contro i colleghi magistrati, ma nei confronti dell’intera classe politica, giudiziaria, imprenditoriale e sociale siracusana. Sulla bilancia la sanzione del trasferimento d’ufficio per diversi togati, la più grave, per almeno tre di questi magistrati, ha finito per essere una punizione per tutti. La premessa della cronaca aspira a chiarire che la Prima Commissione del Csm non arriva al Palazzo di Giustizia di Siracusa solo per il Pm Giancarlo Longo, come appare di primo acchito ascoltando i tamburi di guerra che suonano ormai notte e giorno, ma per una lunga serie di esposti e denunce ben articolate nel tempo trascorso in mezzo ai veleni. I nuovi veleni in Procura stavolta non convincono del tutto la pubblica opinione, e mentre i fatti si raccontano con paginate d’inchiostro, confondono le idee e verità e non s’intravvedono spiragli di chiarezza con tanto fumo negli occhi, calunnie e notizie false con la rettifica l’indomani. Il tutto è rimescolato in un brodo non del tutto conosciuto dalla maggioranza dei cittadini che da almeno dieci anni ribolle e dove ognuno vuole identificarsi come chi ha spedito per primo l’esposto-denuncia (arrivati a circa diciotto nel totale). Già, per la cronaca, altre volte ci sono state denunce contro magistrati e giudici siracusani. Anche il procuratore generale Scalia ha definito a caldo una vicenda insidiosa quella del palazzo di giustizia di Siracusa. “…per tutte le vicende elencate a lungo, ci sono degli accertamenti di spessore e perciò ci vogliono tempi lunghi. Le indagini sono complesse, e talora necessitano di perizie impegnative. Ma chi adombra sospetti e persecuzioni da parte di qualche magistrato sbaglia”. Da Messina investigatori e inquirenti hanno alzato il muro dell’assoluto silenzio, anche se nei giorni scorsi sarebbero state sentite diverse persone informate dei fatti. In gioco ci sono enormi interessi: nel comparto industriale, nel traffico dei rifiuti pericolosi, nelle cento discariche velenose e per quelli solidi urbani, nella gestione dell’acqua, nei risarcimenti milionari, nei lavori pubblici e tutto il resto che conosciamo molto bene. Un territorio da oltre mezzo secolo interessato ai connubi tra la politica e i poteri forti a ventaglio e che ancora una volta subisce i contraccolpi della guerra tra diversi gruppi di potere. Entrano nella logica investigativa anche le amministrative che terminano stasera, con intrecci e riferimenti proprio su interessi delle tematiche industriali, in particolare sulle discariche dei rifiuti velenosi e i dintorni, con il coinvolgimento diretto di uomini della politica, funzionari e dirigenti, nel “cerchio magico” del polo petrolchimico siracusano. La storia ci riporta indietro con il fascicolo “attacco alla Procura di Siracusa”, dopo i vecchi veleni alla stessa Procura. In un voluminoso fascicolo c’è la storia di una parte della politica siracusana che fu attaccata dalla Procura della Repubblica con la richiesta di arresti e di rinvii a giudizio. Facevano il loro dovere. Ma la politica e dintorni a sua volta reagì con un attacco, forse sproporzionato (ma legittimo sul piano giuridico – volevano solamente dimostrare la propria innocenza), coinvolgendo il Parlamento italiano, Camera e Senato, la Commissione Antimafia, il ministro della Giustizia, il Csm e tante istituzioni dello Stato. Quel processo non è mai partito. Fascicolo che giaceva fino a qualche mese fa presso la Procura della Repubblica di Reggio Calabria, dopo essere transitato per quella di Messina per legittimità territoriale. Ma ora sembrerebbe che una parte di quel fascicolo che vede sotto accusa quattro giornalisti siracusani e due politici di vecchia data, nato forse da uno stralcio di quell’inchiesta messa in piedi dai Pm Ugo Rossi e Maurizio Musco, dove a vario titolo ci sarebbero stati invischiati una dozzina di persone e oltre cento personaggi chiamati in causa e appartenenti a diversi ambienti della vita pubblica italiana, abbia ripreso in parte a galoppare. Concetto Alota
Atto Camera. Interpellanza 2-01816 presentato da ZAPPULLA Giuseppe Venerdì 26 maggio 2017, seduta n. 804.
Il sottoscritto chiede di interpellare il Ministro della giustizia, per sapere – premesso che:
alla Procura della Repubblica di Siracusa è stato nominato circa 4 anni fa (luglio 2013) il dottor Paolo Giordano procuratore della Repubblica;
in questi anni l'azione della magistratura siracusana, coordinata dallo stesso procuratore, ha svolto un ruolo importante di presenza e di controllo del territorio con provvedimenti di grande rilevanza nella lotta alla criminalità e al malaffare;
grazie all'egregio lavoro di diversi magistrati e all'azione rigorosa del procuratore della Repubblica sono stati attivati diversi fascicoli di indagini e relativi provvedimenti sulle attività dei vari comuni della provincia e, in particolare, sul comune di Siracusa;
tali iniziative hanno visto coinvolti funzionari, imprenditori, responsabili di associazioni, consiglieri comunali, assessori e lo stesso sindaco della città di Siracusa;
si è aperto uno scontro politico e mediatico contro la magistratura e in particolare contro quei magistrati più direttamente impegnati nei vari fascicoli di indagini;
in questi anni è ripresa a crescere la credibilità nelle istituzioni giudiziarie e nella magistratura anche grazie all'egregio lavoro e azione realizzato dalla procura della Repubblica;
sono ripresi i veleni nel palazzo di giustizia con ricorsi vari anche contro lo stesso procuratore della Repubblica;
una consigliera comunale di Siracusa del Mdp signora Simona Princiotta ha recentemente, in una specifica conferenza stampa, denunziato pressioni, intimidazioni, tentativi di costruire falsi dossier contro di lei al chiaro scopo di delegittimarla sul terreno politico e personale;
la stessa consigliera riferisce di un esposto documentato e presentato al Consiglio superiore della magistratura in relazione alla posizione di tre pubblici ministeri in forza alla procura della Repubblica di Siracusa, ovvero i pubblici ministeri Antonio Nicastro, Davide Lucignani e Andrea Palmieri;
dal quadro degli eventi riferito emergerebbe una situazione assolutamente preoccupante che vedrebbe il coinvolgimento degli stessi per fatti e titoli diversi e per rapporti delicati tra avvocati e giudici;
nella documentazione ufficializzata alla stampa la signora Princiotta chiede provvedimenti, tra l'altro, anche contro i suindicati singoli magistrati accusati di essere parte della lobby di interessi;
la consigliera comunale, dal quadro di documentazione e di trascrizioni di registrazioni effettuate e già depositate, sarebbe stata vittima di una vera e propria persecuzione di stampo complottista, essendo considerata politicamente pericolosa e incontrollabile nelle sue ripetute denunce;
in particolare la campagna diffamatoria innestata contro la Princiotta è stata basata su dichiarazione di un pentito di mafia che l'ha ripetutamente chiamata in causa in varie vicende passate e comunque non riconducibili all'attività politica; lo stesso pentito ha dichiarato di essere stato istigato a dire il falso dagli uomini più vicini al primo cittadino di Siracusa;
in ragione di queste false dichiarazioni, il sindaco di Siracusa Giancarlo Garozzo ha rilasciato dichiarazioni pubbliche che hanno fatto scattare l'interesse delle Commissioni regionali e nazionali antimafia, Commissioni che hanno chiamato in audizione la stessa Princiotta;
c’è stata, nelle settimane scorse, l'audizione di una delegazione della 1a Commissione del Csm nel palazzo di giustizia di Siracusa;
nel rispetto dell'autonomia della magistratura e dei suoi organi di autogoverno, l'interrogante è però, fortemente inquietato dalle notizie suindicate e preoccupato dalle indiscrezioni apprese dalla stampa relativamente alla procedura aperta per incompatibilità proprio del procuratore della Repubblica, ovvero lo stesso che ha ridato lustro e credibilità alla procura della Repubblica di Siracusa; in questo senso, appare all'interpellante, paradossale che possano in qualche forma risultare danneggiati proprio quei magistrati che con tanto rigore e serietà stanno tentando di fare luce e giustizia sulle tante vicende legate alla corruzione, al malaffare e alla criminalità;
è lecito denunziare il rischio che, accertati i fatti e verificate fondate le denunzie della consigliera comunale Simona Princiotta relativamente ad una lobby complottista fatta da avvocati – politici – operatori dell'informazione e alcuni magistrati, non solo si sia attentato alla libertà dell'esercizio dell'attività politica ma si sia messo seriamente in discussione il prestigio della stessa autorità giudiziaria –:
se il Ministro interpellato sia a conoscenza della situazione della procura di Siracusa;
se non intenda avviare con urgenza un'attività ispettiva presso la procura di Siracusa ai fini dell'eventuale esercizio di tutti i poteri di competenza. (2-01816) «Zappulla».
«Siracusa, tutte le prove del sistema marcio». Cos'ha detto la "Mata Hari" del Pd all'Antimafia, scrive il 14/10/2016 Mario Barresi su "La Sicilia". L'audizione di Princiotta all'Ars. Dalle inchieste sulle mazzette al Comune alla "news" sul sindaco Garozzo: «Indagato non solo per l'acqua». L'accusa sui contatti con il il clan e le foto compromettenti del consigliere arrestato per droga (in una c'è anche Renzi). L'autodifesa sul rapporto col mafioso: «Avevo 18 anni, ero una ragazzina». Il primo particolare - importante, ma ufficioso - è che Simona Princiotta è stata ritenuta «sostanzialmente molto credibile» da chi ieri a Palermo l'ha ascoltata per oltre due ore. Il secondo - altrettanto importante e ufficioso - è che il caso Siracusa finirà all'Antimafia nazionale. Ma cos'ha detto la "Mata Hari" del Pd siracusano alla commissione dell'Ars? Molte cose. Ma, più delle dichiarazioni a verbale, pesano le oltre 100 pagine di dossier. Nel quale a ogni parola corrisponde almeno una carta. Ed è questo, da quanto trapela, ad aver impressionato i suoi interlocutori. Un lungo elenco «di singoli episodi» che però «compongono un sistema condiviso e diffuso», secondo un autorevole componente della commissione. Princiotta dettaglia tutte le inchieste aperte sugli appalti del Comune: servizio idrico, asili nido, impianti sportivi, contributi alle società, manutenzioni, servizi sociali. E via mazzettando, con particolare attenzione «al budget del bilancio usato per comprare le associazioni». Per tutte le indagini la consigliera fornisce atti e in alcuni casi brogliacci delle sue ormai celeberrime intercettazioni "fai-da-te" («per gli audio rivolgetevi al procuratore di Siracusa», avrebbe detto). Ma Princiotta argomenta anche una tesi di fondo: l'amministrazione comunale è stata ed è al corrente di «tutto il marcio del sistema Siracusa». Indice puntato soprattutto sul sindaco Giancarlo Garozzo (che con la sua dichiarazione sulle «infiltrazioni criminali nel Pd» aveva accesso i riflettori dell'Antimafia), già sentito all'Ars lo scorso 22 settembre. E stavolta le parti, com'era prevedibile, s'invertono: consigliera accusatrice; sindaco accusato. Con una novità messa sul tavolo: Garozzo sarebbe «indagato non soltanto per la vicenda dell'acqua». Ma per altra ipotesi di reato fornita da Princiotta, «provata con certificato penale». Il sindaco viene più volte citato anche nell'appassionata auto-difesa della consigliera, incalzata dall'Antimafia su due punti. Il primo è il racconto del pentito Rosario Piccione: l'esponente del clan Bottaro-Attanasio, oggi a piede libero, ha rivelato di un suo legame sentimentale con la consigliera che avrebbe ospitato in casa un affiliato, Alfredo Franzò. Il secondo punto, messo a verbale dal sindaco Garozzo, riguarda contatti (anche tramite Facebook) della consigliera con Nando Di Paola, condannato nel processo sulle infiltrazioni mafiose all'Inda. «Le accuse del pentito sono senza riscontro, tant'è che Piccione è indagato per calunnia aggravata», dice Princiotta. Una «storia di pupi e di pupari», la definisce. «Ero già assessore nel 2008, perché questa storia viene fuori a orologeria soltanto quando tocco i fili che non dovevo toccare?». Perché è «un complotto per screditarmi», del quale indica, prove alla mano, «chi sono i mandanti». La consigliera smentisce la relazione con Piccione, «un pentito di scarso peso e credibilità, che ora fa il relatore ai convegni sulla giustizia ai quali un tempo c'erano Falcone e Borsellino». Del resto, precisa: «Era il 1994, avevo diciott'anni, ero una ragazzina. Per me era uno perbene, non sapevo che sarebbe diventato un mafioso». Ma è sul contatto con Di Paola che, dopo la difesa («per me è il padre di compagni di scuola dei miei figli», dice, presentando i certificati d'iscrizione) sferra l'attacco più duro al sindaco. Mostrando quella che definisce «la prova-regina del contatto di Garozzo con la famiglia Di Paola», dimostrabile «con atti, delibere e non solo». Garozzo viene tirato in ballo anche per la vicenda dell'ex consigliere del Pd, Tony Bonafede, arrestato dalla polizia con 20 chili di droga mentre si s'imbarcava sull'aliscafo Pozzallo-Malta. «Hanno provato ad attribuirlo a me - dice Princiotta all'Antimafia - ma lui era garozziano e renziano al cento per cento». Come prova, la consigliera avrebbe consegnato delle foto che ritraggono Bonafede e Garozzo: in una circostanza con l'ex sottosegretario Gino Foti; in un'altra, nel corso di una manifestazione pubblica, spunta pure Matteo Renzi. A sua insaputa. La consigliera chiede «il commissariamento urgente» del sindaco. In commissione le domandano se si sia mai rivolta al prefetto per chiedere il cosiddetto "accesso" propedeutico allo scioglimento del Comune per infiltrazioni mafiose. Domanda non certo casuale, alla quale lei risponde con sincero smarrimento: «Sono stata investita di talmente tante cose che non pensavo la cosa fosse di mia pertinenza». La faccenda s'ingrossa. E non finisce qui. In attesa della trasmissione degli atti all'Antimafia nazionale, la prossima settimana all'Ars saranno sentiti il deputato nazionale Pippo Zappulla (unico sodale di Princiotta nel Pd siracusano) e il consigliere comunale Alberto Palestro, pesantemente tirato in ballo dalla consigliera. Che, alle pressanti domande su di lui, ha dovuto persino censurarsi: «Chiedete gli atti alla Procura...».
Tutti pazzi per Simona Princiotta: il caso, il fato, il passato, scrive Carmelo Maiorca, Mercoledì, 23 Novembre 2016, su "La Civetta press" da La Civetta di Minerva, 11 novembre 2016.
IL CASO - La consigliera comunale d’assalto con registratore incorporato Simona Princiotta, abita a Siracusa in contrada Pizzuta. E a volte è sicuramente costretta a sorbirsi la musica propagata dall’amplificazione dell’associazione Zuimama, che ha la propria sede a due passi da casa sua. Il caso vuole che Zuimama è l’associazione di promozione sociale affiliata ad Arciragazzi, denunciata tempo addietro da Princiotta per presunte irregolarità nella gestione di un capo estivo per bambini disagiati, dietro affidamento del Comune. Nell’inchiesta giudiziaria compaiono anche Pino Pennisi, storico presidente dell’Arci, e sua moglie Carmen Castelluccio, pure lei consigliere comunale ed ex segretaria provinciale del Pd. Certo ancora il caso, vuole che la casa della famiglia Pennisi-Castelluccio si trovi nell’area condominiale confinante con quella del residence nel quale c’è la casa di Simona Princiotta e famiglia. Siamo comunque in grado di escludere totalmente il pur minimo problema di vicinato all’origine della querelle, con querele incluse presentata da Carmen Castelluccio.
IL FATO - Più che di “casualità” possiamo invece parlare di “fato” – in senso classico e tragico/traggiriaturi - allorché in quel punto nevralgico di contrada Pizzuta, all’interno del medesimo residence in cui vive Princiotta risiede anche, con moglie e figli, Alfredo Franzò, titolare di un ristorante e di altre attività commerciali. Un vicino per il quale non si può esclamare la celebre citazione manzoniana “Carneade! Chi era costui?” Tutt’altro! Franzò nel mese di luglio del 2015 viene denunciato per violazione di domicilio da Simona Princiotta che lo accusa di essersi introdotto di notte nel cortile e nel giardino di pertinenza dell’immobile di sua proprietà; mentre il diretto interessato sostiene che lui, di giorno e non di notte, andò a recuperare il suo cane di nome Biscotto, introdottosi nel giardino dei vicini. Ecco, questa si avvicinerebbe a una classica lite condominiale. Senonché il nuovo vicino - della serie fatale “il passato che ritorna” - a Simona Princiotta l’avrebbe conosciuta in ben altra occasione una ventina di anni addietro, entrambi ventiquattrenni: Franzò, all’epoca “simpatizzante” di un clan mafioso siracusano, da latitante ricercato dalla legge sarebbe stato ospite nella casa dove lei abitava.
IL PASSATO - A chiederle la cortesia per l’amico sarebbe stato Rosario Piccione che in quel periodo avrebbe avuto una relazione sentimentale con la giovane Simona. Ex poliziotto affiliato allo stesso gruppo malavitoso (il clan Urso poi Bottaro-Attanasio) Piccione in seguito è diventato collaboratore di giustizia. L’episodio compare (tra le caterve di fatti da lui raccontati agli inquirenti che lo reputano in generale molto credibile) in un vecchio verbale giudiziario del 2002, pubblicato nel 2013 dal settimanale Il Diario. Va detto che Franzò nell’ambito delle vicende processuali che lo riguardano, è stato assolto dall’accusa di appartenenza ad associazione mafiosa. Di essere stato ospitato a casa della Princiotta venti anni fa, comunque lo conferma. Diversamente, la consigliera comunale (che per quella storia non è mai stata coinvolta in alcun procedimento giudiziario) nega, querela, parla di un complotto per le sue denunce contro la corruzione al Comune, che hanno innescato filoni d’indagini condotte dalla Procura della Repubblica. Un complotto che, se non ordito - fa intendere lei - conduce al sindaco Giancarlo Garozzo; che a sua volta lancia accuse d’infiltrazioni mafiose al Comune e inaugura le audizioni alle commissioni antimafia regionale e nazionale che stanno ascoltando diversi politici, e non solo, sul cosiddetto “caso Siracusa”. Nel frattempo è spuntato un altro vecchio affiliato al clan mafioso di cui sopra, Lorenzo Vasile, per un po’ collaboratore di giustizia pure lui, attualmente agli arresti domiciliari. Vasile avrebbe telefonato a Rosario Piccione (a quanto pare registrandosi a vicenda) per chiedergli in sostanza di lasciare in pace l’amica Simona. Vasile sarebbe andato a cercare Princiotta sotto la segreteria del deputato del Pd Pippo Zappulla, evidentemente a conoscenza delle straordinarie performance-conferenze stampa che periodicamente Zap e Princ eseguono a beneficio della stampa. L’intera faccenda sembra destinata ad andare avanti per un bel pezzo. Ne vedremo ancora delle belle e anche delle brutte.
Giorni di tensione a Siracusa. Il Comune più "indagato" d'Italia, scrive Massimiliano Torneo su "Live Sicilia”. Le vicende giudiziarie diventano terreno di scontro politico. La magistratura indaga e spulcia le carte degli affidamenti ritenuti “illegittimi” nel settore dei servizi sociali, asili nido e impianti sportivi, con ipotesi di reato che vanno dall’abuso d’ufficio alla truffa aggravata; dal falso ideologico da privato in atto pubblico, al falso ideologico commesso dal pubblico ufficiale nello svolgimento della sua funzione. Per un ammontare di denaro pubblico di 6,3 milioni di euro. Nel frattempo, un'indagine parallela si concentra su presunte gare truccate, turbative d’asta e traffico di influenze illecite. I magistrati, riferendosi all'operato degli indagati, parlano di “promesse, collusioni e altri mezzi fraudolenti”. A ricevere un avviso di garanzia sono nomi eccellenti della politica locale: un assessore comunale, un ex capo di gabinetto del sindaco, tre consiglieri comunali, tre dirigenti del Comune e sei rappresentanti di associazioni destinatari degli affidamenti. La settimana che si è appena conclusa vale a Siracusa un triste primato: è uno dei Comuni più indagati d’Italia. L'inchiesta giudiziaria diventa terreno di scontro politico. Tre consiglieri comunali d’opposizione (Massimo Milazzo, Fabio Rodante e Salvo Sorbello) stanno lavorando a una mozione di sfiducia nei confronti del sindaco Giancarlo Garozzo Per ora sono in tre, ma puntano a raggiungere quota tredici per portare in aula discussione e voto. La reazione del sindaco non si è fatta attendere: ha convocato una conferenza stampa per venerdì prossimo: “Gli accadimenti che vedono indagate 12 persone, tra cui 3 consiglieri comunali, meritano una riflessione. Fermo restando il garantismo, rilevo che i capi di imputazione parlano di affidamenti diretti, di accrediti a strutture e di proroghe. Su tema asili nido e impianti sportivi, vorrei ricordare che è stata proprio la mia amministrazione a mettere definitivamente fine ad un sistema di proroghe di oltre 12 anni”. Parla, senza fare cenno però ai 3 dirigenti comunali e ai 12 avvisi di garanzia notificati ieri dalla Guardia di finanza di Siracusa, a conclusione delle indagini coordinate dal procuratore della Repubblica, Francesco Paolo Giordano, e dirette dal sostituto Marco Di Mauro. Garozzo si scaglia contro i portavoce dell’opposizione in città, il suo duellante al ballottaggio del 2012 Ezechia Reale e il consigliere comunale Salvo Sorbello, “già assessori in giunte di centrodestra tra il 2002 e il 2012”, accostandoli ai tre consiglieri indagati, e spostando altrove l’asse dello scandalo. In realtà, secondo quanto notificato dalla Guardia di finanza, “gli anni oggetto dell’indagine” vanno dal 2013 al 2015. E su chi appartenga a chi, riguardo ai consiglieri comunali, è un rebus per la maggior parte dei siracusani. Sull’altra inchiesta, quella che martedì scorso ha visto destinatari di avviso di garanzia il suo ex capo di gabinetto Giovanni Cafeo, e il suo attuale assessore ai Lavori pubblici Alfredo Foti, indagati per turbativa d’asta entrambi e il primo anche per traffico di influenze illecite, si era detto “colto di sorpresa. Nei prossimi giorni - aveva proseguito - sapremo su quali elementi si basano le accuse della Procura della Repubblica, sul cui lavoro ho sempre manifestato fiducia, ma l'augurio è che Alfredo Foti e Giovanni Cafeo possano dimostrare la loro estraneità ai fatti contestati”. “Faremo le nostre verifiche, approfondiremo i contenuti delle inchieste e indicheremo - spiega il sindaco - quelli che a noi appaiono i reali motivi delle ultime vicende in una conferenza stampa che la Giunta terrà il 24 giugno”. L’esame politico vero per il sindaco renziano potrebbe arrivare, però, dalla direzione provinciale del Pd con la già annunciata presenza del segretario regionale Fausto Raciti. Nel convocarla, il segretario provinciale Alessio Lo Giudice, alla domanda se ci fosse una questione morale nei dem siracusani, aveva risposto “C’è di sicuro una questione…politica che riguarda l’amministrazione Garozzo”. Lo Giudice ha già lasciato intuire che chiederà l’azzeramento della giunta.
Siracusa “la Greca” tra inchieste scandali, corruzione e ruberie, scrive Concetto Alota su "Libertà Sicilia". Siracusa era chiamata “la Greca”; più famosa per aver dato i natali al grande Archimede e per la sua lunga storia, la profonda e antica cultura, per il Teatro greco, per la fonte Aretusa e Ciane, per la struggente bellezza architettonica e il più bel tramonto del mondo, specie visto dalla Marina, per il circuito automobilistico nel Dopoguerra e per il Polo petrolchimico più grande d’Europa negli Anni Sessanta e Settanta, con ben 24 mila addetti, tra il diretto e l’indotto, e il reddito pro capite più alto del Meridione d’Italia. Insomma, era una città ricca, ordinata, civile e rispettosa dei diritti civili. Negli Anni Settanta prima i legami tra la politica e uomini della mafia palermitana, capitanati da Pippo Calò, per i lavori miliardari del porto di Siracusa e la ristrutturazione urbanistica dell’isola di Ortigia; per fortuna tutto fu soffocato con l’intervento di Graziano Verzotto che aveva capito che quell’operazione “confezionata” da gruppi a lui avverse poteva nuocere fortemente alla tranquilla comunità siracusana. Arriva il pretore di ferro Condorelli e si scoprono le prime magagne e gli intrallazzi sui rifiuti industrial smaltiti illegalmente anche dopo l’entrata in vigore della Legge Merli. Scoppia lo scandalo dell’Isab per accendere ancor di più le luci della ribalta in senso fortemente negativo, per essere il primo episodio di corruzione a più livelli, dove la classe politica locale in connubio con quella regionale e pezzi delle istituzioni a vario titolo incassarono una montagna di soldi in bustarelle, per consentire alla famiglia Garrone di poter costruire la raffineria più moderna d’Europa a Marina di Melilli in poco tempo; così cominciarono a girare tutte quelle notizie negative per l’immagine di un territorio che era considerato appartenere alla “provincia babba”, ma ora fortemente corrotta. E ancora, l’inchiesta della magistratura denominata “Mare Rosso”, che coinvolse il colosso della chimica italiana Enichem, che aveva già provocato il fenomeno dei bimbi nati malformati tra i silenzi e i connubi, e le tante discariche di rifiuti industriali velenosi insieme al mare inquinato a più non posso. Scatta l’inchiesta sui fanghi dell’Ias sospettati di essere “scaricati” in mare per risparmiare nello smaltimento, oltre a quelli già stoccati che inquinavano la falda e che costarono una montagna di soldi per essere rimossi. Ma quando sembrava che gli scandali di tale levatura avevano raggiunto l’apice della corruzione, ecco arrivare l’inchiesta legata al fallimento della Sai8 denominata “Oro Blu” per la gestione del servizio idrico, ereditato dalla Sogeas, che a sua volta era stata investita più volte dalle inchieste della magistratura, così come da mille polemiche politiche. L’inchiesta “Oro Blu” provocò arresti, con denunce e polemiche, e il sospetto di una bancarotta fraudolenta che sfociò a sua volta con il fascicolo giudiziario “Veleni alla Procura”, e l’altro subito dopo e che si trova ancora sotto il segreto istruttorio giudiziario, di cui si stanno occupando i magistrati del Tribunale di Messina per legittima suspicione, “Attacco alla Procura”, rimarcando, tra le atre cose, uno scontro tra due poteri dello Stato, quello politico, che in quell’occasione non voleva che i magistrati entrassero nei loro “fatti”, e quello giudiziario che rimarca il proprio diritto e dovere nell’indipendenza, secondo i dettami costituzionali. Poi ancora un altro scandalo. Scattano le indagini della Digos della squadra mobile della Questura di Siracusa sulle “Fantassunzioni”, nei riguardi di un gruppo di consiglieri comunali di Siracusa; uomini della politica locale che ora si trovano alla sbarra al cospetto, proprio in questi giorni, con l’ufficio del Giudice per le Udienze Preliminari del Tribunale di Siracusa. E ancora, lo scandalo per le “tematiche” collegate alla costruzione del nuovo quanto necessario Ospedale di Siracusa; fatti che furono scoperti all’interno dello scandalo dell’Expo di Milano; poi scoppiò l’indagine della guardia di finanza che sfociò con l’operazione, “Doctor House”, e ora la “Gettonopoli” al Vermexio, facendo ritornare, a suo dire e ben volentieri perché innamorato delle bellezze di Siracusa, Massimo Giletti, il popolare conduttore del programma “L’Arena”, che si occupò anche dell’inchiesta “Doctor House”. Infatti, dopo la denuncia del M5Stelle, è ritornato per riportare alla ribalta la “Gettonopoli” siracusana, che ha colpito per l’ennesima volta, a torto o a ragione e fino a prova contraria, la credibilità della città di Siracusa. La stessa cosa è stata fatta dall’inviata di “Striscia la Notizia”, Stefania Petyx e il suo bassotto, per chiedere al Sindaco di Siracusa Garozzo e al presidente del Consiglio comunale Sullo, delucidazioni in merito al “trucchetto dei gettoni d’oro”, e che secondo il M5Stelle, era stato “inventato” per favorire i capi gruppo e ad altri “risicò”. E tra uno scandalo e un altro di quelli sopra citati, anche quello dell’asfalto “ondulante” dell’autostrada Siracusa Gela all’altezza di Rosolini, dell’Open Land, della Pillirina, della Soprintendenza ai Beni Culturali, e che colpì la dirigente Basile, come della piscina della Sgarlata, entrambe scagionate dalla magistratura di merito perché non avevano commesso nessun reato; ma l’elenco potrebbe continuare. Per “Gettonopoli” le telecamere di Rai Uno della trasmissione “L’Arena”, condotta da Massimo Giletti, hanno raggiuto i consiglieri comunali proprio all’’uscita da una commissione consiliare, tra cui Tony Bonafede, Alberto Palestro e Salvo Cavarra, i quali hanno avuto modo di spiegare le ragioni che portarono a quella deliberazione che il M5Stelle ha denunciato, invece, come una violazione delle norme. La puntata con il servizio televisivo completo su tutta la vicenda andrà in onda domenica prossima su Rai Uno. Ancora tanta indignazione e rabbia per i tutti i telespettatori, ma soprattutto per i siracusani che si vedono ancora una volta additati come dei cittadini italiani abitanti di un luogo carico di malcostume, ruberie, corruzioni, e che offuscano ancora una volta, a torto o a ragione, la propria Siracusa. E se Palermo è la sintesi della Mafia nel Mondo, quale capitale della Sicilia, Siracusa potrebbe diventare di questo passo la sintesi del mal costume, della corruzione, come pure la “terra di nessuno” e fuori dalla legalità dello Stato libero e democratico italiano, dove ognuno può organizzare i propri loschi affari.
Indagine della Procura di Messina contro quattro giornalisti, scrive Carmelo Maiorca, Lunedì 1 Maggio 2017 su "La Civetta Press". Il direttore della Civetta Franco Oddo, io, il direttore di Magma Salvatore La Rocca e Gianfranco Pensavalli accusati di calunnia e diffamazione nei confronti dei magistrati Rossi e Musco, in associazione a delinquere con l’ex on. Gino Foti e l’ex sindaco Aldo Salvo. La Civetta di Minerva, 21 aprile 2017. Dunque, io, il direttore de La Civetta Franco Oddo, e altri due giornalisti che si chiamano Salvatore La Rocca e Gianfranco Pensavalli dal 2013 siamo indagati, all’inizio dalla Procura di Messina, in un procedimento accomunati dallo stesso querelante: il magistrato Maurizio Musco. Oggetto delle querele, alcuni contenuti di articoli scritti da Oddo su La Civetta, di altri articoli pubblicati da Magma per quanto riguarda Pensavalli e La Rocca, e una vignetta apparsa su L’Isola dei Cani relativamente a me. E fin qui diciamo che per dei giornalisti si tratta di cose che capitano. Ad un certo punto quel fascicolo da Messina venne trasferito per competenza territoriale a Reggio Calabria, e il tempo è continuato a trascorrere senza particolari novità. Poi, qualche settimana fa, è stato notificato un nuovo procedimento, iscritto a registro di nuovo a Messina, nel quale ai quattro giornalisti di cui sopra sono stati aggiunti l’ex parlamentare Luigi Foti e l’ex sindaco di Siracusa Aldo Salvo. Da quello che si evince dalla notifica siamo indagati, a vario titolo, per associazione a delinquere, calunnia e diffamazione a danno di Musco e dell’ex procuratore capo di Siracusa Ugo Rossi. Ho già raccontato questa vicenda sul settimanale regionale 100Nove e ho messo un post su facebook. La maggior parte delle persone che hanno letto la notizia hanno avuto una reazione divertita, qualcuno ha pensato si trattasse di uno scherzo de L’Isola dei Cani. Franco Oddo da parte sua si dice molto indignato, Pensavalli, che ho incontrato per la prima volta a marzo, è un po’ incazzato pure lui. La Rocca non so, perché non ci conosciamo. Mentre ci siamo ho informato il presidente dell’Ordine dei Giornalisti di Sicilia Riccardo Arena di questo “curioso” procedimento. La presenza dei due attempati uomini politici, quella di Foti in particolare, assieme a 4 giornalisti mi/ci fa pensare che questo fascicolo giudiziario abbia a che fare con un bel faldone che, a sua volta, è transitato dalle procure di Messina e Reggio Calabria: quello relativo alla storiella del complotto, fra l’altro basato su una programmata campagna di stampa che sarebbe stata ordita quasi 6 anni fa da alcuni giornali per screditare i magistrati siracusani. Riguardo a quel dossier redatto da uno o, chissà, più carabinieri della sezione di polizia giudiziaria presso la procura di Siracusa - di cui alcuni giornali pubblicarono qualche stralcio -sin dal 2012 abbiamo scritto su La Civetta che la tesi della campagna di stampa contro Musco e Rossi è una balla. Strada facendo è diventata una sorta di “effetto collaterale” della burrascosa stagione di malagiustizia nel Siracusano che ha coinvolto e continua a coinvolgere, fra i protagonisti principali, alcuni – solo alcuni - magistrati e avvocati. Ai primi articoli pubblicati su Magma, seguì l’approfondita e documentata inchiesta di Franco Oddo e Marina De Michele. Aspetti di quell’inchiesta giornalistica – che ricordo ha valso agli autori il Premio Mario Francese - hanno trovato riscontro nelle aule giudiziarie. La galassia societaria realizzata dall’estro creativo dell’avvocato Piero Amara, e raccontata da La Civetta, è rispuntata di recente nel filone siciliano di un’inchiesta della procura di Roma partita dalle indagini sull’affaire denominato “Mafia Capitale”. L’ex procuratore Rossi è andato in pensione con una condanna confermata in Cassazione per abuso d’ufficio; per la stessa imputazione anche il sostituto procuratore Musco è stato ritenuto colpevole nel medesimo processo, e in un altro è stato condannato in primo grado per tentata concussione. Naturalmente Musco e Rossi, come qualsiasi altro cittadino che si ritenga diffamato da un articolo o da una vignetta, sono liberi di sporgere querele. Analogamente anche dei giornalisti possono ritenersi diffamati se accusati di avere partecipato a campagne di stampa preordinate e foraggiate per screditare qualcuno.
“Attacco alla Procura di Siracusa”, rispolverato il romanzo criminale che ora prende di mira 4 giornalisti e due politici della vecchia guardia, scrive Concetto Alota il 18 aprile 2017 su "Siracusa Live". Il giornalista siracusano Carmelo Maiorca ha annunciato, dalle colone dell’ultimo numero di 100NOVE in edicola, di essere trascinato in una procedura giudiziaria solo per aver scritto un articolo dal tracciato nettamente satirico e pubblicato sul settimanale “L’isola dei Cani”, da lui stesso diretto. Spiega chiaramente di essere indagato dal 2013 per quella vignetta satirica in un procedimento in cui comparivano anche Franco Oddo, direttore del quindicinale “La Civetta di Minerva”, Salvatore La Rocca già direttore del periodico Magma, e Gianfranco Pensavalli, cronista dello stesso settimanale, tutti denunciati dal sostituto procuratore della procura di Siracusa, Maurizio Musco. Ma ora la novità è rappresentata dal fatto che il Gip del tribunale di Messina, Maria Vermiglio, ha accolto la richiesta di proroga delle indagini, avanzata dal pubblico ministero di Messina Antonio Carchietti. “Leggendo gli atti – scrive Maiorca su 100NOVE – ho appreso con mia sorpresa di essere indagato, oltre che con gli stessi giornalisti, anche con l’ex sindaco di Siracusa Aldo Salvo e l’ex sottosegretario di Stato, Luigi Foti, con il quale non abbiamo mai scambiato parola”. “Le indagini di questo nuovo filone sono scattate l’8 settembre del 2016 con ipotesi di reato di associazione per delinquere, calunnia e diffamazione in concorso a danno dell’ex capo della Procura di Siracusa Ugo Rossi e del sostituto procuratore Maurizio Musco. Il 24 marzo – racconta ancora Maiorca nel suo articolo su 100NOVE – sono stato invitato a presentarmi per rendere interrogatorio a un ispettore delegato dal sostituto procuratore, nella sede della Polizia di Stato. Interrogatorio per il quale sin dal 2013 avevo dato la mia disponibilità ma che non era mai avvenuto. Passano pochi giorni ed ecco attivare la notifica del nuovo procedimento, dove, oltre a noi giornalisti, si sono aggiunti altri due indagati, Luigi Foti e Aldo Salvo e altri ipotesi di reato. Di certo il magistrato titolare di quest’indagine sta compiendo degli atti dovuti. Ma dovuto è anche il diritto alla difesa che coincide, in quest’occasione, con il diritto di cronaca e di critica”. Filone d’inchiesta che potrebbe essere collegato, a lume di naso, a quello originario del 2012 attivato dai carabinieri della sezione di polizia giudiziaria della Procura di Siracusa. Si tratta di un “romanzo criminale” che appare e riappare come l’Araba Fenice. Nel settembre del 2012, con un fascicolo denominato “Attacco alla Procura”, prendeva corpo un’inchiesta giudiziaria molto delicata e a tratti inquietante. Indagini, che erano iniziate nel 2010, per fatti collegati e scaturiti con i fascicoli denominati “Veleni in Procura” e di cui conosciamo le cronache. La tempo, almeno oltre dieci persone sarebbero entrate sotto l’attenzione della Giustizia e che sarebbero stati denunciati a piede libero, con il fascicolo denominato “Attacco alla Procura”. A ben sentire, si tratterebbe di una strategia attuata da un “gruppo misto”, studiata a tavolino e indirizzata alla delegittimazione dell’allora procuratore capo della Repubblica di Siracusa Ugo Rossi e del sostituto Maurizio Musco, al fine di provocarne l’allontanamento dalla sede siracusana e bloccare quindi il corso di certe indagini che rischiavano di mettere in discussione il presunto colluso e consolidato sistema politico-imprenditoriale. Per fare questo i membri “dell’associazione spontanea” avrebbero stabilito che si sarebbero avvalsi di una serie di strumenti, tra cui una campagna stampa organizzata ad hoc, contro i due magistrati. Secondo le indiscrezioni, nel rapporto degli investigatori le contestazioni consegnate alla magistratura inquirente e le conseguenti accuse sarebbero gravissime. Ma cosa è successo veramente? Se lo sono chiesto a lungo i magistrati della Procura di Reggio Calabria che hanno l’esplosivo e delicato fascicolo denominato “Attacco alla Procura” di Siracusa in sofferenza sul tavolo, dopo che è transitato per il Tribunale di Messina per la legittima suspicione, a causa del coinvolgimento in altra inchiesta di un magistrato prima in forza a Siracusa, poiché si tratterebbe, secondo le indiscrezioni trapelate a suo tempo, di un attacco diretto contro i due magistrati, al potere giudiziario dello Stato. Ma quali sarebbero i fatti contestati a vario titolo a tutti gli intervenuti attori e registi di questo romanzo criminale in salsa greco-romana-siracusana? Si parlerebbe di associazione per delinquere, violenza, minaccia e calunnia al corpo amministrativo giudiziario, diffamazione, rivelazioni del segreto d’ufficio, corruzione in atti giudiziari e tanto altro ancora; i magistrati inquirenti cercano inoltre di capire come può entrarci in quest’inchiesta un manipolo di uomini politici a più livelli d’importanza, avvocati, tanti deputati e senatori che all’epoca dei fatti avrebbero presentato una serie d’interrogazioni parlamentari, dove denunciarono delle presunte condizioni discutibili contro i due magistrati; ma anche tanti amici, editori e giornalisti, insieme ad oltre cento persone coinvolte nell’indagine a vario titolo, tutte informate dei fatti, o forse è giusto dire, in certe circostanze e il più delle volte tirati in ballo a loro insaputa. Di primo acchito sembra trattarsi di un processone, dove appare una superba regia con tanti interessati seguaci, che nella fase attuativa si sarebbe avvalsa della forza derivante da una fitta rete di conoscenze nei settori della magistratura, dell’avvocatura, della politica, degli imprenditori, di editori e giornalisti, per un ben specifico coinvolgimento strategico della stampa e dell’associazionismo in genere. Secondo le indiscrezioni e di quanto riportato dalla cronaca dei giornali all’epoca dei fati, tutto questo con il sospetto di un disegno criminoso ben congegnato e definito, dove i principali promotori avrebbero avvicinato (o cercato di avvicinare), parecchi membri del Parlamento, compreso i componenti della Commissione Nazionale Antimafia, che all’epoca dei fatti erano il presidente, senatore Giuseppe Pisanu, il suo vice, on. Benedetto Granata, detto Fabio, i componenti, senatore Francesco Ferrante, on. Andrea Orlando, on. Fracantonio Genovese, figlio del senatore Luigi Genovese e nipote delle più volte ministro messinese Nino Gullotti, senatore Giampiero D’Alia. Insomma, secondo le indiscrezioni, trapelate all’epoca dei fatti, sarebbero stati tirati in ballo da chi forse voleva il loro autorevole aiuto. Inoltre, sarebbero stati avvicinati dagli “organizzatori” della “crociata” contro i due magistrati dei consiglieri comunali siracusani per sollecitare iniziative parallele, richiedendo l’invio della Commissione Parlamentare Nazionale Antimafia contro i due Pm della Procura della Repubblica di Siracusa, e di altri personaggi coinvolti. Emergerebbero elementi secondo cui gli organizzatori avrebbero pianificato una strategia destabilizzante, che prevedeva nel simultaneo impiego strategico di molteplici strumenti di “guerra”, tra cui quello che prevedeva una campagna stampa mirata, e da realizzare attraverso una selezione di testate giornalistiche, di cui nomi gli investigatori trovarono le tracce durante una perquisizione per altri fatti collegati. Fascicolo d’indagine che è rimasto fermo per il trasferimento in altra sede dei due sostituiti procuratori della Repubblica di Reggio Calabria ma che ora avrebbe ripreso la corsa verso la decisione di merito dell’Ufficio del pubblico ministero e una parte del fascicolo ritrasferito alla Procura di Messina. Concetto Alota.
Siracusa. Denunciati ed intimiditi due giornalisti della "Civetta", scrive Giorgio Ruta il 13 febbraio 2012 su "Ossigeno". Hanno rivelato rapporti d’affari fra penalisti e magistrati. Interrogazioni parlamentari. Avvocati mobilitati, città in trambusto, i quotidiani non ne parlano. Una procura sotto accusa, due giornalisti e un politico accusati di estorsione e una città divisa. Siamo a Siracusa e al centro di questa storia c’è un piccolo giornale distribuito nella provincia aretusea, con una tiratura di 1500 copie: il quindicinale ‘La Civetta di Minerva’ diretto da un giornalista con alle spalle quarant’anni di giornalismo, Franco Oddo. Ripercorrendo questa storia tornano in mente gli articoli de I Siciliani di Fava sul “Caso Catania”. Ma qui siamo a Siracusa e la storia è un’altra. Nelle redazioni di Siracusa e Catania gira un dossier sui rapporti tra alcuni magistrati siracusani e un avvocato. Il primo giornale a pubblicare i contenuti, a metà novembre, con una serie di inchieste, è Magma di Catania. Ma il giornale non è letto nel siracusano e la cosa non sembra suscitare molto clamore. Ma il 2 dicembre la notizia viene riprese e ampliata da ‘La Civetta’. È uno scandalo. Il giornale diretto da Franco Oddo, dopo una ricerca approfondita basata sulle visure camerali, mette in fila nomi, cognomi e società. Il quadro che viene fuori è questo: un noto avvocato siracusano, Piero Amara, o suoi stretti familiari, possiedono delle società. Fin qui niente di strano. Ma i soci del penalista sono nomi di spessore nella città siciliana. Ci sono: Attilio Toscano (figlio del dott. Giuseppe Toscano, già procuratore aggiunto alla procura di Siracusa), Edmondo Rossi (imprenditore, figlio del dott. Ugo Rossi, procuratore capo di Siracusa) e Salvatore Torrisi (figlio della terza moglie del dott. Rossi). E soprattutto Oddo scrive di collegamenti societari, tramite un ex praticante dell’avv. Amara, con il sostituto procuratore di Siracusa, Maurizio Musco. Nelle mani di questi uomini sono passati i processi più importanti e delicati di Siracusa. E spesso ad essere contrapposti sono proprio l’avv. Amara e i suoi “soci”. L’inchiesta de "La Civetta" non finisce il 2 dicembre. Il 16, il 30 dicembre e il 13 gennaio il giornale pubblica ancora rivelazioni sul “Caso Siracusa”. Dalla prima inchiesta apparsa su ‘La Civetta’ all’ultima passano circa due mesi e nel frattempo succedono molte cose che servono a capire meglio un contesto che sa molto di trincee e fucili puntati. Un nutrito numero di avvocati, sotto la sigla Movimento “Partecipazione, rappresentatività, trasparenza” chiede agli organi competenti di verificarne la fondatezza delle notizie pubblicate e affigge in Tribunale un manifesto “a tutela dei magistrati seri e onesti, laboriosi e imparziali e a tutela degli stessi cittadini” per chiedere al Presidente della Repubblica, al Ministro e agli Organi competenti “di verificare la fondatezza delle notizie e di restituire alla Città e alla Giustizia la serenità e il decoro che meritano” e ai magistrati coinvolti “di essere loro stessi promotori dell’apertura di un fascicolo presso il CSM a loro tutela”. Il manifesto starà ben poco sulla bacheca, qualcuno ha fretta di farlo sparire. Anche l’ANM di Catania esprime inquietudine. E poi c’è la società civile ad intervenire appoggiando ‘La Civetta’: dall’Arci agli ambientalisti, passando per una miriade di associazioni e partiti. E intanto i grandi media regionali non spendono una parola sul caso e gli altri periodici locali invece prendono una posizione diversa. Non credono a quanto scritto da Oddo e i suoi e mostrano sostegno alla Procura. La spaccatura nella stampa siracusana è netta. Il tintinnare delle sciabole si sente pure in Parlamento dove due deputati presentano due contrapposti documenti. Per primo, il 21 dicembre, interviene il Senatore pd Francesco Ferrante, origini siciliane. Il parlamentare chiede lumi al Ministero della Giustizia sui rapporti societari poco limpidi tra i soggetti elencati da Magma e da "La Civetta". La risposta politica avviene, il 18 gennaio, con un’interpellanza al Ministro della Giustizia presentata dall’on. Vincenzo D’Anna, di Popolo e Territorio, vicino a Nicola Cosentino. Il deputato campano chiede se il Ministro “intenda adottare tutte le azioni e i provvedimenti di propria competenza per assicurare l’imparzialità e l’indipendenza della magistratura siracusana che a giudizio dell’interrogante è oggetto di una palese campagna a carattere diffamatorio”. Una guerra a viso aperto che sfocia in una bomba atomica. Dopo un articolo de ‘La Civetta’ del 16 dicembre, il 17, il giorno dopo, un altro giornale locale Diario Doc, diretto da Pino Guastella, pubblica, in un’edizione straordinaria, una notizia eclatante: “L’on. Foti e due giornalisti denunciati per estorsione”. I giornalisti in questione sono Franco Oddo e Marina De Michele, rispettivamente direttore e vice direttore de La Civetta. Il politico in questione è l’ex sottosegretario Dc, Gino Foti, oggi in forza nel Pd. Ma soprattutto al centro – in questi giorni – di uno scandalo sull’affidamento del servizio idrico pubblico. L’onorevole è agli arresti domiciliari, assieme all’amministratore delegato della ditta che gestiva il servizio idrico a Siracusa, con l’accusa di tentata estorsione. La prima domanda che sorge è: cosa c’entrano i due giornalisti con l’ex parlamentare? Per Marina De Michele “non c’entriamo nulla con lui. Abbiamo avute sempre idee politiche diverse e sull’acqua, quando tutti erano per privatizzare, noi abbiamo sposato la scelta dell’acqua pubblica. Idea diversa rispetto a quella di Foti”. Da quanto si legge su Diario Doc 4 imprenditori avrebbero querelato i due giornalisti per estorsione consumata, tentata estorsione e diffamazione a mezzo stampa. Nell’articolo si legge pure che: “Una delle vicende riferite dalle parti offese si ricollega alla richiesta di contributo effettuata dalla signora Marina De Michele ad un noto imprenditore locale. Secondo la denuncia la signora Marina De Michele, a causa della disperazione della sua situazione economica, avrebbe utilizzato la minaccia della diffamazione qualora il contributo non fosse arrivato”. Ma a credere a questa accusa sono in pochi. Chi conosce Marina la descrive come una bravissima professoressa stimata da tutti, alunni compresi, per la correttezza e la professionalità. La vicedirettrice de ‘La Civetta’ si infuoca rispondendo all’accusa: “Io ho passato la maggior parte dei miei anni ad insegnare ai miei alunni l’importanza della legalità e poi mi dovrei macchiare di un reato così schifoso? La verità è che stiamo subendo un attacco meschino per quello che abbiamo correttamente scritto”. Ora la redazione ha una preoccupazione: “Non vogliamo restare isolati. Abbiamo bisogno di essere appoggiati e che il caso che abbiamo denunciato venga affrontato anche dai grandi media” sottolinea Alessandra Privitera, collaboratrice de La Civetta. A preoccuparsi è pure Libera. Giusy Aprile, portavoce provinciale, non usa mezze misure: “A Siracusa, in questo momento, c’è una emergenza democratica”.
La GdF inchioda i personaggi della nostra inchiesta sulla Procura, scrive Franco Oddo, Venerdì 7 Aprile 2017 su "La Civetta Press". Molte persone accusate di associazione a delinquere finalizzata all’evasione di tributi, per mezzo di operazioni inesistenti, e alcune delle società perquisite dalle Fiamme Gialle sono le stesse di cui La Civetta ha scritto nel lontano 2011. Subito dopo la nostra inchiesta sulla Procura della Repubblica di Siracusa (La Civetta di Minerva, 2 dicembre 2011), che ricostruiva una galassia di srl amministrate da familiari dell’avv. Piero Amara o da praticanti dei suoi tre studi legali di Augusta, Siracusa e Catania, in qualche caso dalle mogli dei praticanti, diciotto persone presentarono denuncia per diffamazione nei confronti del direttore e del vicedirettore del giornale. Il Gip di Messina, dott.ssa Daniela Urbani, archiviò sentenziando che non c’era stata alcuna diffamazione e che il giornalista aveva operato nei limiti del diritto di critica. Ebbene, molti di quei nomi e alcune di quelle società si ritrovano nell’operazione condotta ieri dal Nucleo Tributario della Guardia di Finanza e dal nucleo Gico di Messina in alcune città italiane in cui le srl hanno sede legale (Siracusa, Catania, Roma, Torino, Firenze, Bologna, Ravenna, Milano, Varese, Trento), in alcuni uffici pubblici e nelle abitazioni degli amministratori. Il blitz, che ha impegnato molti uomini delle Fiamme Gialle, si è svolto contemporaneamente per evitare rapidi occultamenti. I militari, contando sull’effetto sorpresa, hanno acquisito fascicoli intesi a comprovare l’accusa, già formalizzata con avviso di garanzia a una trentina di persone, di associazione a delinquere per commettere frodi tributarie attraverso la fatturazione di operazioni mai realmente avvenute per un ammontare di milioni. A ricevere la cartolina verde sono stati gli avvocati Piero Amara (accusato anche di corruzione per atti d’ufficio) e Giuseppe Calafiore, ritenuti dagli investigatori i maitres à penser del sistema, e altri soggetti: Sebastiano Miano, Carlo Lena, Davide Venezia, Francesco Saraceno, Gianfranco Bessi, Pietro Balistreri, Giuseppe Garino, Francesco Saraceno, Marco Salonia, Ezio Bigotti, Giuseppa Aprile, Agata Di Stefano. Tra gli altri indagati anche Alessandro Ferraro, alias Sandro Napoli, al quale proprio nell’ultimo numero della Civetta, uscito oggi 7 aprile, abbiamo dedicato una pagina. Tra le società “visitate” dalla Guardia di Finanza, quelle di cui abbiamo scritto nell’inchiesta sono la Geostudi, P&G corporate, Energie Nuove, Salmeri, Gida, Parmenide e Dagi. La Gida, in particolare, in quell’arco temporale, amministrata dalla moglie dell’avv. Amara, aveva come soci il figlio dell’ex procuratore capo di Siracusa e il figlio di un magistrato della DDA di Catania. Le Fiamme Gialle hanno anche puntato l’attenzione sulla Cisma, la società che gestisce la discarica di Melilli, per il cui affaire sono scattati recentemente degli arresti. Sempre per presunte evasione fiscale e operazioni inesistenti, il Tribunale di Siracusa, sezione penale, ha interpellato di recente la Corte Costituzionale per districare una difformità tra norme italiane ed europee in merito ai tempi della prescrizione del reato. Imputati nel processo sono l’avv. Piero Amara (amministratore di fatto) e la moglie (amministratore di diritto) della Gida srl, e Alessandro Ferraro (amministratore di fatto) e Angelo Caruso (amministratore di diritto) della Comin srl. L’accusa: operazioni inesistenti che consentivano l'evasione delle imposte sui redditi (IRES e IRAP) e sul valore aggiunto (IVA). Essendo il reato risalente al 2007, per la normativa italiana scatta la prescrizione. Per la normativa comunitaria, in casi di frode che ledono gli interessi finanziari dell'Unione europea oltre 50 mila euro, scattano tempi più lunghi (si andrebbe al 2020). I tributi evasi superano di gran lunga questo tetto.
Senato della Repubblica. Legislatura 16 Atto di Sindacato Ispettivo n° 3-02682 (con carattere d'urgenza). Pubblicato il 28 febbraio 2012, nella seduta n. 681.
LANNUTTI - Al Ministro della giustizia. - Premesso che:
numerosi articoli pubblicati da alcuni quotidiani siciliani - quali "Magma" e "La Civetta di Minerva" - ipotizzano legami consolidati tra esponenti della magistratura siracusana ed avvocati che esercitano la professione nella stessa città. Rapporti "incestuosi" di parentele, amicizie ed affari, in grado di inquinare la democrazia siciliana;
in data 13 febbraio 2012 viene pubblicato sul giornale on line "Ossigeno" un riassunto inquietante della vicenda intitolato «Denunciati e intimiditi due giornalisti della "Civetta"». Scrive Giorgio Ruta: "Hanno rivelato rapporti d'affari fra penalisti e magistrati. Interrogazioni parlamentari. Avvocati mobilitati, città in trambusto, i quotidiani non ne parlano". Si legge nel citato articolo: «Una procura sotto accusa, due giornalisti e un politico accusati di estorsione e una città divisa. Siamo a Siracusa e al centro di questa storia c'è un piccolo giornale distribuito nella provincia aretusea, con una tiratura di 1500 copie: il quindicinale La Civetta di Minerva diretto da un giornalista con alle spalle quarant'anni di giornalismo, Franco Oddo. Ripercorrendo questa storia tornano in mente gli articoli de I Siciliani di Fava sul "Caso Catania". Ma qui siamo a Siracusa e la storia è un'altra. Nelle redazioni di Siracusa e Catania gira un dossier sui rapporti tra alcuni magistrati siracusani e un avvocato. Il primo giornale a pubblicare i contenuti, a metà novembre, con una serie di inchieste, è Magma di Catania. Ma il giornale non è letto nel siracusano e la cosa non sembra suscitare molto clamore. Ma il 2 dicembre la notizia viene riprese e ampliata da La Civetta. È uno scandalo. Il giornale diretto da Franco Oddo, dopo una ricerca approfondita basata sulle visure camerali, mette in fila nomi, cognomi e società. Il quadro che viene fuori è questo: un noto avvocato siracusano, Piero Amara, o suoi stretti familiari, possiedono delle società. Fin qui niente di strano. Ma i soci del penalista sono nomi di spessore nella città siciliana. Ci sono: Attilio Toscano (figlio del dott. Giuseppe Toscano, già procuratore aggiunto alla procura di Siracusa), Edmondo Rossi (imprenditore, figlio del dott. Ugo Rossi, procuratore capo di Siracusa) e Salvatore Torrisi (figlio della terza moglie del dott. Rossi). E soprattutto Oddo scrive di collegamenti societari, tramite un ex praticante dell'avv. Amara, con il sostituto procuratore di Siracusa, Maurizio Musco. Nelle mani di questi uomini sono passati i processi più importanti e delicati di Siracusa. E spesso ad essere contrapposti sono proprio l'avv. Amara e i suoi "soci". L'inchiesta de La Civetta non finisce il 2 dicembre. Il 16, il 30 dicembre e il 13 gennaio il giornale pubblica ancora rivelazioni sul "Caso Siracusa". Dalla prima inchiesta apparsa su La Civetta all'ultima passano circa due mesi e nel frattempo succedono molte cose che servono a capire meglio un contesto che sa molto di trincee e fucili puntati. Un nutrito numero di avvocati, sotto la sigla Movimento "Partecipazione, rappresentatività, trasparenza" chiede agli organi competenti di verificarne la fondatezza delle notizie pubblicate e affigge in Tribunale un manifesto "a tutela dei magistrati seri e onesti, laboriosi e imparziali e a tutela degli stessi cittadini" per chiedere al Presidente della Repubblica, al Ministro e agli Organi competenti "di verificare la fondatezza delle notizie e di restituire alla Città e alla Giustizia la serenità e il decoro che meritano" e ai magistrati coinvolti "di essere loro stessi promotori dell'apertura di un fascicolo presso il CSM a loro tutela". Il manifesto starà ben poco sulla bacheca, qualcuno ha fretta di farlo sparire. Anche l'ANM di Catania esprime inquietudine. E poi c'è la società civile ad intervenire appoggiando La Civetta: dall'Arci agli ambientalisti, passando per una miriade di associazioni e partiti. E intanto i grandi media regionali non spendono una parola sul caso e gli altri periodici locali invece prendono una posizione diversa. Non credono a quanto scritto da Oddo e i suoi e mostrano sostegno alla Procura. La spaccatura nella stampa siracusana è netta»;
l'articolo, dopo aver segnalato che la questione ha assunto un rilievo politico a livello nazionale con la presentazione di atti di sindacato ispettivo, si sofferma sulla vicenda che vede indagati due giornalisti, Franco Oddo e Marina De Michele, rispettivamente direttore e vice direttore de "La Civetta di Minerva", per presunta estorsione nell'ambito di una vicenda legata all'affidamento del servizio idrico pubblico. Nel richiamato articolo si legge che alcuni imprenditori avrebbero ingiustamente querelato i due giornalisti per estorsione consumata, tentata estorsione e diffamazione a mezzo stampa e che: «"Una delle vicende riferite dalle parti offese si ricollega alla richiesta di contributo effettuata dalla signora Marina De Michele ad un noto imprenditore locale. Secondo la denuncia la signora Marina De Michele, a causa della disperazione della sua situazione economica, avrebbe utilizzato la minaccia della diffamazione qualora il contributo non fosse arrivato". Ma a credere a questa accusa sono in pochi. Chi conosce Marina la descrive come una bravissima professoressa stimata da tutti, alunni compresi, per la correttezza e la professionalità. La vicedirettrice de La Civetta si infuoca rispondendo all'accusa: "Io ho passato la maggior parte dei miei anni ad insegnare ai miei alunni l'importanza della legalità e poi mi dovrei macchiare di un reato così schifoso? La verità è che stiamo subendo un attacco meschino per quello che abbiamo correttamente scritto". Ora la redazione ha una preoccupazione: "Non vogliamo restare isolati. Abbiamo bisogno di essere appoggiati e che il caso che abbiamo denunciato venga affrontato anche dai grandi media" sottolinea Alessandra Privitera, collaboratrice de La Civetta. A preoccuparsi è pure Libera. Giusy Aprile, portavoce provinciale, non usa mezze misure: "A Siracusa, in questo momento, c'è una emergenza democratica"»;
considerato che:
a seguito di tali inchieste giornalistiche, risulta all'interrogante che il Ministro in indirizzo avrebbe disposto, nei giorni scorsi, un'inchiesta amministrativa nei confronti di magistrati in servizio o già in servizio alla Procura della Repubblica di Siracusa (dottori Musco, Campisi, Rossi e Toscano), per gravi fatti segnalati da numerosi articoli di stampa, interrogazioni parlamentari ed esposti; per lo svolgimento di tale inchiesta sarebbe stato delegato l'Ispettorato generale presso il Ministero della giustizia;
a quanto risulta all'interrogante, il nuovo Capo dell'Ispettorato generale, dottoressa Maria Stefania Di Tomassi, non solo non ha tempestivamente avviato l'inchiesta già formalmente disposta, ma avrebbe addirittura espressamente contestato le determinazioni già formalmente assunte dal Ministro in ordine ai magistrati nei confronti dei quali effettuare i doverosi accertamenti;
in particolare, a quanto risulta all'interrogante, il Capo dell'Ispettorato avrebbe, con propria nota indirizzata al Ministro, preteso la modifica dell'incarico di inchiesta al fine di ottenere l'esclusione dagli accertamenti della posizione di un magistrato, che sarebbe individuabile nel dottor Roberto Campisi, già Procuratore capo di Siracusa, nei cui confronti, invece, andrebbe doverosamente svolta l'inchiesta, come già stabilito dal Ministro sulla base di elementi circostanziati agli atti;
inoltre, a quanto risulta all'interrogante, tra il dottor Campisi e il Capo dell'Ispettorato esisterebbero stretti rapporti determinati dalla comune appartenenza e militanza alla medesima corrente della magistratura;
pertanto, per effetto di tale inammissibile contrasto, l'inchiesta amministrativa, già disposta e che presenta profili di estrema delicatezza e carattere di urgenza, in ragione della eccezionale risonanza pubblica delle vicende che ne formano oggetto, risulterebbe bloccata;
desta sconcerto che il Capo dell'Ispettorato, a pochi giorni dal suo insediamento, abbia già determinato un pericoloso precedente, che non risulta all'interrogante essersi mai verificato in passato, paralizzando un'inchiesta già disposta dal Ministro al solo evidente scopo di offrire una tutela preventiva ad una specifica posizione soggettiva,
si chiede di sapere:
se risulti vero quanto descritto dalle inchieste giornalistiche, che hanno messo a nudo rapporti incestuosi tra avvocati penalisti e magistrati nel Tribunale di Siracusa;
in quale modo e con quali criteri il Ministro in indirizzo intenda assicurare che l'inchiesta possa svolgersi senza indebite ingerenze da parte del Capo dell'Ispettorato, che sulla vicenda sembra abbia già manifestato un evidente pregiudizio di salvaguardia delle persone coinvolte;
quali iniziative urgenti intenda assumere al fine di garantire, sia in relazione alla vicenda in oggetto che per il futuro, comportamenti ispirati a correttezza ed imparzialità da parte del Capo dell'Ispettorato generale;
se, alla luce dei fatti esposti, ed attesa la particolare gravità di odiose ingerenze a tutela di "compagni di corrente", non ritenga urgente valutare la compatibilità della dottoressa Di Tomassi alla guida di un ufficio delicato nella gestione della giustizia, la cui attività richiede doti di particolare equilibrio ed imparzialità.
CONDANNA DEFINITIVA A PM CHE CHIESE 5 MILIONI ALLA CIVETTA. Scrive Giuseppe Federico Mennella il 2 marzo 2017 su "Ossigeno". La Cassazione ha inflitto 18 mesi per abuso d’ufficio a Maurizio Musco. Processo nacque dopo inchiesta del giornale di Siracusa. Il 23 febbraio 2017 la Corte di Cassazione ha confermato la condanna dell’ex sostituto procuratore di Siracusa, Maurizio Musco, a diciotto mesi di reclusione per abuso di ufficio, riconoscendogli il beneficio della sospensione condizionale della pena. La Cassazione ha confermato anche la condanna dell’ex procuratore capo di Siracusa (ora in pensione) Ugo Rossi a dodici mesi di reclusione. Il processo ebbe inizio dopo un’inchiesta giornalistica del quindicinale di Siracusa “La Civetta di Minerva”. Musco è il magistrato che, a novembre del 2016, con una lettera-diffida controfirmata dal suo avvocato, ha chiesto ai giornalisti Franco Oddo e Marina De Michele, direttore e vice direttrice del quindicinale La Civetta di Minerva, di versargli subito cinque milioni di euro a titolo di risarcimento danni per evitare una denuncia per diffamazione a mezzo stampa a causa degli articoli pubblicati sul suo conto. Richiesta rifiutata dai giornalisti che per tutta risposta hanno inviato le carte al CSM. Il periodico e i suoi giornalisti tra il 2011 e il 2012 sono stati gli autori di una grande inchiesta su alcune presunte irregolarità che coinvolgevano responsabilità di magistrati di Siracusa, su fatti noti come la vicenda dei “Veleni in Procura”. Una storia di intrecci non limpidi tra magistrati e avvocati, di funzioni giudiziarie deviate, di affari e malaffare. Dopo la pubblicazione degli articoli della “Civetta” alcuni parlamentari rivolsero delle interrogazioni al Governo. A marzo del 2012 il ministro della Giustizia, Paola Severino, mandò gli ispettori al Palazzo di Giustizia di Siracusa. Qualche mese dopo, in base alle risultanze dell’ispezione, chiese l’immediato trasferimento del vertice della Procura. A settembre 2012, in via cautelare, la sezione Disciplinare del Csm dispose il trasferimento d’ufficio del procuratore capo Ugo Rossi e del sostituto Maurizio Musco, in attesa che si svolgesse l’inchiesta disciplinare sul loro operato. Il CSM aprì una pratica sul dottor Musco, per non essersi astenuto su alcuni procedimenti. Al primo esame, il CSM lo ha assolto, ma poi la Corte di Cassazione ha ordinato di riaprire la pratica a suo carico. Il maxi risarcimento di cinque milioni di euro è stato chiesto da Musco pochi giorni prima che scadessero il termine di cinque anni entro i quali è possibile promuovere una causa civile per risarcimento danni, riaprendo così il termine di altri cinque anni per portare in giudizio Oddo e De Michele.
IL COMMENTO DI OSSIGENO – La condanna definitiva di Musco e Rossi giunge come una conferma, sia pure indiretta, della correttezza dell’operato dei giornalisti della “Civetta” e del valore pubblico delle informazioni da loro portate alla luce. Si spera che contribuisca a mettere fine alle azioni di rivalsa promosse pretestuosamente, in questi anni, contro di loro. Ossigeno si augura che la chiusura dei procedimenti giudiziari a carico dei magistrati con la conferma delle responsabilità accertate a loro carico permetta finalmente di riflettere a mente serena e in modo obiettivo sul ruolo svolto dal giornale di Siracusa, usando lo strumento dell’inchiesta giornalistica per informare i cittadini su vicende molto gravi di interesse pubblico e per promuovere gli accertamenti necessari per verificare il corretto funzionamento della macchina della giustizia. In altre parole, a riflettere sulla funzione di pubblica utilità che il giornalismo può svolgere rappresentando fatti e problemi di interesse pubblico e sottoponendo a controllo l’operato dei poteri e dei potenti. La vicenda mostra anche le difficoltà che i giornalisti incontrano quando svolgono questa funzione democratica e quale grande sostegno possono ricevere dalle associazioni dei cittadini. In questo senso, la vicenda della Civetta di Minerva è un caso di scuola da approfondire.
Il direttore della Civetta di Minerva, Franco Oddo, ha accolto la sentenza della Cassazione che conferma la condanna di Musco e Rossi quasi come un suggello della correttezza dell’operato e delle clamorose rivelazioni del suo piccolo giornale e ha ringraziato pubblicamente quanti, in questi anni, hanno aiutato lui e la vicedirettrice del giornale, Marina De Michele, a rompere il silenzio e l’isolamento, che è stato anche mediatico. Oddo ha ringraziato “primo fra tutti” il direttore di Ossigeno per l’Informazione, Alberto Spampinato, ricordando il sostegno ricevuto fin dall’inizio dall’Osservatorio e la presenza di Spampinato a Siracusa in una importante occasione che è valsa a creare un cordone di solidarietà civile attorno alla Civetta, “l’assemblea pubblica che si svolse all’Antico Mercato di Siracusa ed ebbe molta eco nella città”, proprio a ridosso della pubblicazione dell’inchiesta. Il direttore Franco Oddo ha ringraziato anche l’Ordine dei giornalisti, quello nazionale e quello regionale della Sicilia, “per aver sempre creduto nella professionalità dei cronisti della Civetta”. In particolare, Oddo ringrazia il presidente dell’Ordine della Sicilia, Riccardo Arena, per avere assegnato a lui e a Marina De Michele il Premio Mario Francese 2012, “quando – ha sottolineato – l’iter processuale che ci riguardava era aperto e farlo presentava qualche rischio”.
PARLIAMO DELLA TOSCANA.
DI AREZZO…Quel traffico d’oro che imbarazza Banca Etruria, scrivono Roberto Galullo e Angelo Mincuzzi per il Sole 24 Ore il 3 luglio 2017. La leggenda aretina narra che nelle fortune del distretto dell'oro ci sia lo zampino di Licio Gelli, passato alla storia come il Venerabile della Loggia P2. La città racconta ancora che nella scomparsa di decine di tonnellate d'oro che facevano parte di un carico di 60 tonnellate che l'allora re diciottenne della Jugoslavia Pietro II Karadordevic fece partire con un treno speciale il 17 marzo 1941, Gelli avesse avuto una parte rilevante. L'intera riserva di un Paese sotto l'attacco di Adolf Hitler, stipata in 57 vagoni e oltre 1.300 bauli, non riuscì però a lasciare la Jugoslavia per raggiungere l'Egitto e venne nascosta nelle grotte del Montenegro, presto occupato dai fascisti. Nel 1943, non si sa come, il regime rintracciò l'oro e Benito Mussolini affidò al giovane fascista Gelli il compito di portare il carico a Trieste, evitando la frontiera hitleriana e facendolo viaggiare su un treno speciale e blindato, con a bordo 73 malati di vaiolo. Da quel punto la leggenda narra che Gelli affidò 8 tonnellate alla Banca d'Italia e ne sottrasse 52, una parte delle quali giunse a destinazione nei pressi della stazione ferroviaria di Arezzo per la felicità di una collettività che mise a frutto quel dono insperato. Per dare un'idea dell'immenso valore di quel carico, attualizzando alle cifre correnti il valore, il tesoro varrebbe tra 1,8 e 2 miliardi, una cifra pari all'ultimo dato censito sull'export del distretto aretino. La leggenda è più intricata e fascinosa di quanto si possa pensare perché il prosieguo narra di 25 tonnellate rimaste nella disponibilità del futuro piduista e 27 tonnellate cedute all'allora Pci. Come spiegò nel 1984 l'allora parlamentare radicale Massimo Teodori, da pagina 37 della Relazione di minoranza della Commissione parlamentare d'inchiesta sulla loggia massonica P2, «fra le tante supposizioni ed ipotesi interpretative, una cosa soltanto non è controversa: che cioè nel 1944-1945 Gelli collaborò con il Pci, attraverso la componente del Cln, e che dal partito gli vennero aiuto e protezione per superare le difficoltà incontrate come repubblichino e collaborazionista, cosa che gli permise di superare indenne quei giorni, forse anche salvando la vita». Vero? Falso? Verosimile? Fascinazione? Gelli ha sempre negato ma resta il fatto che il 14 settembre 1998, abilmente nascosti perfino nelle fioriere della lussuosa Villa Wanda a Castiglion Fibocchi (Arezzo), dove ha vissuto fino alla morte, sopraggiunta il 15 dicembre 2015, gli investigatori sequestrarono 164 chili d'oro distribuiti in centinaia di piccoli lingotti. La maggior parte dell'oro recava punzonature e timbri di Paesi dell'Est (ex Unione sovietica in primis), altri erano stati sdoganati in Svizzera, altri ancora non si sapeva da dove provenissero. Oro in “nero”. Sedici anni prima, correva il 1983, dieci lingotti riconducibili a Gelli spuntarono in una banca argentina di Buenos Aires mentre nel 1986 la magistratura elvetica scoprì, in una cassetta di sicurezza dell'Ubs di Lugano, 250 chili d'oro in lingotti, verosimilmente frutto della spoliazione del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi. Gelli o non Gelli, il distretto orafo si sviluppa nell'area aretina (Arezzo, Capolona, Castiglion Fibocchi, Civitella in Val di Chiana, Monte San Savino, Subbiano) e nella Val di Chiana aretina (Castiglion Fiorentino, Cortona, Foiano della Chiana, Lucignano, Marciano della Chiana), alla quale si aggiungono i comuni di Laterina e Pergine Valdarno. La gamma della produzione è omnicomprensiva ma i marchi di fabbrica locali sono l'oreficeria e l'argenteria a maglia catena e stampata. La lavorazione dei metalli preziosi si è sviluppata soprattutto negli anni Settanta ed Ottanta, grazie al ruolo svolto per molti anni dall'impresa leader (Uno A Erre) nell'attivare processi di gemmazione imprenditoriale e trasferimento di innovazioni. Il distretto orafo della provincia di Arezzo, riconosciuto con delibera del Consiglio regionale della Toscana n. 69 del 21 febbraio 2000, conta 1.592 imprese, di cui 1.216 con meno di 50 addetti, 7.669 persone occupate e un export di quasi 4 miliardi (fonte: Osservatorio nazionale dei distretti italiani, dati 2013/2014). Le statistiche del Club degli orafi italiani, che le aggiorna periodicamente con Banca Intesa, indicano il distretto di Arezzo in testa alle esportazioni con oltre 1,8 miliardi (-1,1% sul 2015) e un import di 86,3 milioni nel 2015 (-24.4% sul 2014). Anche se questo polo non è più ricco come una volta, le grandi aziende orafe e i banchi metalli - come Uno a Erre e Chimet - continuano ad alimentare l'economia del luogo e la loro visibilità è perenne. Sui taxi, ad esempio, il loro logo è una costante, così come le continue sponsorizzazioni a manifestazioni, eventi e iniziative. La crisi ha aggravato la posizione soprattutto delle realtà più piccole e molte, tra quelle rimaste, per sopravvivere praticano il “nero”. l fatturato italiano calcolato dal Club degli orafi per il 2016 è stato di oltre 7,7 miliardi (+9,3% sul 2015), esportazioni per 6,2 miliardi (di cui 5,4 miliardi solo gioielli in preziosi, vale a dire in oro, argento o altri metalli preziosi anche rivestiti o placcati) con un calo complessivo del 4,6% sull'anno precedente. I dati Istat relativi alla produzione (-1,9%) e alle esportazioni, sia in valore (-4,6%) che in quantità (-1,8% per i soli gioielli in metalli preziosi) confermano le difficoltà del settore orafo nel 2016, in corrispondenza con un calo importante della domanda mondiale di gioielli in oro, in particolare da parte dei due grandi acquirenti (Cina e India). Nel 2016 le esportazioni italiane di gioielleria e bigiotteria hanno perso circa 300 milioni rispetto al 2015, con cali diffusi a quasi tutti i mercati di sbocco e con una nuova contrazione importante verso gli Emirati Arabi Uniti (-15%, pari a 160 milioni in meno), Paese di “entrata” per il resto del Medio oriente e l'India. Negative anche le esportazioni verso Svizzera e Francia (-6,7% e -10,6%), Paesi dove sono spesso spediti i gioielli made in Italy commissionati dalle grandi maison di moda (successivamente destinate ad altri mercati di sbocco finali) e verso Hong Kong (-9,1%). Secondo le statistiche sul fatturato (indagine Istat campionaria rivolta alle imprese con più di 20 addetti) il settore gioielleria e bigiotteria avrebbe, invece, chiuso il 2016 in crescita del 9,3%, grazie a risultati brillanti sia sul mercato interno (+6,7%) che su quelli esteri (+10,7%), dato in contraddizione con le informazioni sui flussi di export, che sottolinea le difficoltà di monitorare un settore altamente frammentato come quello orafo. Nessuna tra le fonti intervistate dal Sole-24 Ore ha voluto metterci la faccia o la voce ma tutti concordano nel dire che, ormai, (almeno) un'operazione su due non è tracciabile e sfugge ai radar del Fisco. Accade ad Arezzo ma accade anche negli altri distretti dell'oro (Valenza Po, Marcianise e Vicenza) tra loro legati più di quanto possa apparire e non solo per i legami commerciali ma anche sul fronte delle indagini giudiziarie. In vero il “nero” compare in tutte le operazioni commerciali, qualunque settore si prenda in considerazione ed è logico che il settore orafo non faccia eccezione. Le più recenti indagini delle Fiamme Gialle, su delega della Procura di Arezzo, lo provano, anche se tutti i processi, spesso suddivisi in più filoni giudiziari, devono ancora essere definitivamente chiusi. Tra l'11 e il 14 febbraio 2015 il Nucleo di Polizia tributaria della Gdf ha messo a segno un'indagine – denominata Argento vivo – sul conto di alcune azienda del distretto orafo aretino. Ancora una volta una frode fiscale in atto nel settore del commercio di metalli preziosi (principalmente argento, ma anche platino e palladio), perpetrata attraverso modalità e tecniche analoghe a quelle delle cosiddette “frodi carosello” all'Iva. Uno dei quattro soggetti colpiti dal provvedimento di fermo ha chiesto di essere interrogato subito da Marco Dioni, il pubblico ministero titolare delle indagini, al quale ha reso dichiarazioni di grande valore probatorio, confermando la bontà dell'impianto accusatorio. Per la collaborazione ha ottenuto gli arresti domiciliari. Il 14 febbraio 2015, il Gip del Tribunale di Arezzo Annamaria Loprete ha ritenuto confermati i gravi ed eclatanti indizi di colpevolezza, fortificati dalle dichiarazioni confessorie rese nel corso degli interrogatori per la convalida della misura precautelare, resi il giorno prima dai quattro indagati, emettendo nei loro confronti un'ordinanza di applicazione della misura degli arresti domiciliari presso le rispettive abitazioni e con divieto di comunicazione, poiché ha ritenuto sussistere il pericolo di reiterazione di reati analoghi, nonché di inquinamento probatorio. La Procura della Repubblica di Arezzo ha ordinato il sequestro preventivo finalizzato alla successiva confisca delle disponibilità finanziarie detenute dagli indagati e dalle società a questi riferibili, da bloccare presso gli Istituti di credito, fino a concorrenza della somma di 3.270.203,06 euro, corrispondente ad un valore equivalente al profitto del reato finora determinato. In poco meno di tre mesi (da ottobre a dicembre 2014), seguendo le tracce delle utenze mobili in uso agli indagati per le comunicazioni “one to one” e attraverso osservazioni, pedinamenti e riscontri, è stata fatta luce sull'esistenza di due presunte e distinte organizzazioni criminali, originariamente operative in modo unitario, capeggiate da due aretini che pur non avendo alcun ruolo formale nelle società coinvolte negli illeciti fiscali, erano in grado di controllarne l'operatività, dirigendo i sistemi fraudolenti.
Il principale sistema di frode, comune ai due sodalizi, prevedeva l'acquisto di metalli preziosi sfruttando meccanismi di applicazione dell'Iva che prevede un sistema di inversione contabile per il quale l'acquirente diventa debitore d'imposta: per l'argento rivolgendosi a banchi metalli ed applicando il “reverse charge”; per il platino ed il palladio acquistandolo da operatori intracomunitari. I metalli venivano poi commercializzati interponendo una o più imprese costituite ad hoc ed intestate a prestanome che, oltre a non dichiarare al Fisco le imposte dirette, omettevano il versamento dell'Iva, corrisposta dal cliente finale, rappresentato da una azienda aretina operante nel settore della commercializzazione di metalli preziosi, la Oro Italia trading spa (società partecipata al 100% da Banca Etruria) che secondo l'accusa trasferiva però mensilmente il credito Iva derivante dalle predette operazioni alla controllante, che lo utilizzava in compensazione dell'Iva a debito di Gruppo. In estrema sintesi, i sistemi fraudolenti consentivano ai membri delle associazioni criminali di intascare l'Iva generata dalle operazioni commerciali strumentalmente realizzate e al cliente finale di acquistare i metalli preziosi a un prezzo sensibilmente inferiore a quello che avrebbe potuto spuntare se si fosse rivolto direttamente alle aziende che fornivano i beni alle società coinvolte nei sistemi fraudolenti e che davano inizio al circuito economico che le indagini hanno dimostrato essere artificioso e messo in piedi al solo scopo di poter frodare l'Erario. Teniamo bene a mente il nome di uno tra gli indagati principali di questa operazione: Plinio Pastorelli, che all'epoca era consigliere delegato di Oro Italia trading, dove era entrato come amministratore il 9 luglio 2007 ed è uscito quattro giorni dopo il disvelamento dell'indagine, il 18 febbraio 2015. Pastorelli, indagato per associazione a delinquere e truffa, anticipando le mosse sulla scacchiera del licenziamento, si è dimesso e per il momento si gode la pensione.
Pastorelli entra dunque nell'indagine con l'accusa di acquistare l'oro sotto il prezzo del fixing per il metallo e pagando l'Iva al 20% ai venditori, per poi compensare il credito d'imposta all'interno delle società del Gruppo Banca Etruria. A quanto trapela da fonti che al momento preferiscono restare coperte, Pastorelli non avrebbe fatto in tempo a effettuare la compensazione ma questo ai fini delle accuse in sede penale non rileva. Semmai, interessa il rapporto con l'Agenzia delle Entrate. Nel complesso l’indagine ha consentito di accertare che il meccanismo fraudolento delle società cartiere ha consentito di evadere 15,45 milioni di euro nel periodo compreso tra il 2012 e il 2015 in operazioni che riguardano tanto l’oro quanto l’argento e il platino. La domanda logica da porsi è se Oro Italia trading si fosse accorta di questo sistema fraudolento della quale lei per prima ne sarebbe uscita danneggiata e che, per quattro indagati, ha già portato a con condanne nel giudizio di primo grado mentre Pastorelli è indagato a piede libero in attesa di giudizio. Il Sole-24 Ore si è rivolto in due occasioni a Nuova Banca Etruria (del Gruppo Ubi Banca), chiedendo di avere risposte a questo e ad altri quesiti, oltre ad avere indicazioni, nel corso degli anni, sulle policy di trasparenza negli acquisti e nelle rendicontazioni contabili. Per ben due volte e nonostante una successiva sollecitazione, i vertici Ubi, che controlla Nuova Banca Etruria, hanno preferito non rilasciare dichiarazioni limitandosi a rimandare alla breve comunicazione telefonica con la quale a metà maggio l'ufficio stampa di Nuova Banca Etruria aveva messo le mani avanti dicendo che «Pastorelli non è più da noi». Eppure se è lecito chiedere lumi, cortese dovrebbe essere rispondere soprattutto alla luce del fatto che il nome di Oro Italia trading – ormai senza Pastorelli da tempo – rispunta nell'indagine Melchiorre della Guardia di finanza di Torino del 14 febbraio 2017, anche se ancora una volta senza alcun coinvolgimento societario. Francesco Angioli è l'uomo considerato dalla Procura di Torino l'intermediario tra i clienti e i principali indagati accusati di comprare l'oro rubato e ripulirlo, per poi rimetterlo formalmente in commercio attraverso una società di diritto ungherese. Questo soggetto indagato, è un procacciatore d'affari che, scrive testualmente il Gip Elena Rocci a pagina 106 dell'ordinanza di custodia cautelare firmata il 13 ottobre 2016, nel periodo d'imposta 2014 risulta aver percepito redditi, tra gli altri, dalla Oro Italia trading spa «con la quale, evidentemente, collabora». Nulla di più naturale, dunque, se il procacciatore d'affari, si legge a pagina 109 del provvedimento, «dimostra di avere ottime entrature con Oro Italia trading, in particolare per lo stretto rapporto che dimostra di avere con Bernardini Francesco». Francesco Bernardini – che non è indagato – è il responsabile del comparto oro di Oro Italia trading ed è l'uomo che il 23 luglio 2013 lanciò sulla stampa specializzata il “conto oro”. Il 2 marzo 2016, alle 11.48 la sala intercettazioni della procura capta, tra le tante che coinvolgono le utenze telefoniche della società totalmente controllata da Nuova Banca Etruria, una conversazione che il Gip sintetizza così a pagina 71: «Mentre si trova all'interno della Gianluca Ciancio Srl (la società che secondo l'accusa si fa carico di acquistare e fondere l'oro), Angioli Francesco contatta la Oro Italia trading spa, al fine di parlare con Bernardini Francesco, responsabile del comparto oro di Banca Etruria». Deve convincere Ora Italia Trading che le spedizioni delle verghe aurifere partono da Torino e non dall'Ungheria, perché a Torino, alla Ciancio srl, il materiale viene testato. L'oro, però, non si sarebbe mai mosso da Torino e la triangolazione è apparente. «Dalle conversazioni — continua il gip — la prima delle quali avviene con Frati Paolo (non indagato, ndr), dipendente di Oro Italia Trading spa, si desume l'ulteriore modalità operativa adottanda, che vede nuovamente, quale destinatario finale del metallo aurifero raccolto, la Oro Italia Trading, nonché il procedimento per il ritiro e il trasporto dell'oro».
Oro Italia trading è iscritta dal 30 novembre 2000 al registro delle imprese di Arezzo come società di commercio all'ingrosso di metalli preziosi. Costituita con un capitale sociale di 500mila euro conta appena due dipendenti (la cui retribuzione complessiva è di 59.058 euro) sulle cui spalle grava un fatturato che nel 2016 ha registrato 314 milioni e perdite per 1,4 milioni. In termini quantitativi negoziati, Nuova Banca Etruria è passata da 4,52 tonnellate del 2015 a 8,06 del 2016 (+78% nell'intermediazione dell'oro) e da 42,2 tonnellate del 2015 a 45,7 del 2016 (+8% nell'intermediazione dell'argento). Una società cosi “snella” – nel numero di dipendenti ma che contempla in vero ben sei sindaci e tre amministratori – in realtà gestisce partite miliardarie, essendosi conquistata negli anni una leadership nazionale. Dopo la Banca d'Italia sarebbe l'istituto con in pancia il maggior quantitativo di riserve aurifere. La data di avvio della società non è casuale. Pochi mesi prima, il 17 gennaio 2000, il Parlamento ha infatti approvato la legge n 7, che ha rotto il monopolio delle banche sui metalli preziosi stabilendo che sul mercato possano operare anche altri intermediari autorizzati dalla Banca d'Italia. In questo caso la veste è cambiata ma è pur sempre una banca – attraverso il controllo totalitario – a operare nel settore. L'oro, per Nuova Banca Etruria, costituisce un asset fondamentale, al punto da avere conti correnti in valuta, la cui unità di misura è espressa in once di oro finanziario. Con questi appositi conti correnti è possibile effettuare bonifici in oro finanziario, regolare il pagamento delle rate del mutuo e, se supportato da una linea di fido, beneficiare di uno scoperto di conto. Nel 2016 è cresciuto lo stock di oro custodito nei caveau della banca e – come si legge a pagina 41 della relazione di bilancio – ciò ha contribuito a rafforzare ulteriormente la leadership dell'Istituto di credito nell'ambito dell'oro da investimento. Anche sul fronte dei lingotti di piccolo taglio (2, 5, 10, 20, 50 e 100 grammi), il 2016 si è rilevato un anno decisamente positivo per Nuova Banca Etruria. Sono state infatti circa 1.500 le pezzature vendute, per un totale di oltre 44 kg. Sul lato degli impieghi in oro, il dato mostra un totale di circa 104 milioni, di cui oltre 8 milioni rappresentati dai mutui in oro. Il dato, che risulta sostanzialmente invariato rispetto al 2015, è la sommatoria di due variabili che si sono mosse in direzioni opposte. Nel 2016 si è infatti assistito ad un incremento degli affidamenti in oro ad altre banche, che al 31 dicembre 2016 rappresentavano circa 20 milioni e al contempo ad una riduzione degli affidamenti al tessuto orafo produttivo. La più recente, del 1° aprile 2017, è stata condotta dal Nucleo di polizia tributaria della Gdf agli ordini del colonnello Peppino Abbruzzese. L'hanno battezzata “Groupage” e vedremo il perché di questo nome. Sotto la lente è finita una presunta organizzazione criminale, costituita da italiani e algerini, che comprava ingenti quantitativi di oreficeria “in nero” prodotta da aziende aretine e la vendeva – dietro pagamento in contanti – per l'esportazione nei Paesi del Nord Africa. Lo schema era semplice: un intermediario giungeva in volo in Italia dall'Algeria e soggiornava ad Arezzo per definire gli accordi contrattuali per l'acquisto di materiali preziosi. Trovato l'accordo commerciale, l'intermediario provvedeva a fare l'ordine della merce (appunto il cosiddetto “groupage”) per conto dei propri clienti (residenti in Paesi del Nord Africa) con le aziende orafe di Arezzo, veicolando l'ordinativo tramite alcuni operatori orafi aretini di provata fiducia, che provvedevano a ripartire l'ordinativo alle varie aziende compiacenti. Quando l'ordinativo era pronto, arrivavano ad Arezzo in auto uno o più corrieri algerini, che portavano il denaro contante necessario per l'acquisto dell'oreficeria ordinata e ritiravano la merce. Nella rete sono caduti, tra gli altri, due soggetti già noti agli investigatori. Uno è già finito nella “mamma” di tutte le inchieste aretine, Fort Knox. L'altro, nel 2012, risultò avere rapporti commerciali poco trasparenti con soggetti nord africani.
Nell'ambito di un'operazione condotta dalla Polizia di Melilla (Spagna) nel maggio del 2012, vennero arrestati due marocchini trovati in possesso di 140,232 chili di oreficeria, che venne sequestrata. I due soggetti, in sede di interrogatorio, dichiaravano di averla acquistata legalmente il 20 maggio dalla srl unipersonale di cui il soggetto entrato nuovamente nel radar della Giustizia è rappresentante legale. Il 20 dicembre 2016, il Nucleo Pt della Gdf di Arezzo ha invece portato alla luce, con l'operazione Iberia, un'altra presunta organizzazione criminale, stabilita in Spagna e con ramificazioni in Portogallo, Slovenia ed Italia. Tra gli indagati, a testimonianza che certi meccanismi sono rodati e possono far conto su un nocciolo duro di professionisti, una vecchia conoscenza già incrociata dalla Gdf nelle operazioni Argento vivo e Fort Knox. L'organizzazione, ricorrendo al sistema noto come “frode carosello”, secondo l'accusa avrebbe creato una fitta rete di aziende in quattro Paesi (Spagna, Portogallo, Italia e Slovenia) ed operanti nei settori degli idrocarburi e dei metalli preziosi che hanno permesso a una società iberica riconducibile ad un italiano e beneficiaria finale dell'illecito, di non versare l'Iva (circa 20 milioni) dovuta sui proventi del commercio di idrocarburi, in quanto compensata, indebitamente, con l'Iva detratta sugli acquisti documentati da fatture false prodotte dalle altre società del gruppo, operanti nel settore dei metalli preziosi che, ricoprono i ruoli di “cartiere” e/o “aziende filtro”. La Gdf, proseguendo le indagini, ha svelato il coinvolgimento nel sistema di frode anche di un'azienda aretina che, attraverso la vendita di oro puro, si prestava consapevolmente al riciclaggio di una parte dei proventi della frode perpetrata in territorio spagnolo nel biennio 2015/2016, nei confronti delle aziende spagnole e portoghesi riconducibili all'organizzazione. L'organizzazione, al fine di riciclare i cospicui proventi illeciti delle frode, oltre ad essere entrata nel circuito delle gare motociclistiche mondiali, attraverso la sponsorizzazione di due team spagnoli della Moto Gp Uno, stava tentando un'analoga infiltrazione in Italia attraverso la sponsorizzazione di un team automobilistico, che gareggia nel campionato mondiale Fia Wtcc (World touring car championship, meglio noto come campionato del mondo turismo). L'indagine condotta in collaborazione con il Gruppo di criminalità economica dell'Unità operativa centrale della Guardia Civil della Spagna, coordinata anche da Europol ed Eurojust, ha consentito di pervenire complessivamente in Italia alla denuncia a piede libero di quattro persone per i reati di associazione per delinquere, riciclaggio, autoriciclaggio ed emissione di fatture per operazioni inesistenti, oltre al sequestro di 26,4 chili di oro puro per un controvalore di 924mila euro. In Spagna e Portogallo sono state arrestate 20 persone, oltre al sequestro di 50 chili di oro per un controvalore complessivo di oltre 1,7 milioni.
DI…FIRENZE. Firenze, pm vuole far arrestare il marito dell’amante: il ministero della Giustizia avvia verifiche. Dopo aver iniziato una relazione con la moglie del medico il giudice ne avrebbe chiesto i domiciliari. Aperto un fascicolo dalla procura di Genova a carico del pubblico ministero, scrive il 19 gennaio 2017 "Il Corriere della Sera". Il ministero della Giustizia vuole approfondire la vicenda emersa a Firenze, dove un pm, dopo aver avviato una relazione con la moglie di un medico, avrebbe chiesto gli arresti domiciliari nei confronti del dottore. A quanto si apprende, infatti, via Arenula ha avviato, attraverso l’ispettorato, gli accertamenti preliminari per condurre verifiche sul caso. Intanto sulla vicenda, in seguito all’esposto presentato dal medico, la procura di Genova ha già aperto un fascicolo. Tutto ha origine dal percorso di separazione tra il dottore e la moglie, anche lei dottoressa. Secondo la ricostruzione, nel luglio 2015 la donna, madre di due minori, ha sporto denuncia ai carabinieri dopo una violenta discussione con il marito affermando che l’avrebbe minacciata anche di morte. Il magistrato, ora sotto accusa, a cui all’epoca venne assegnato il fascicolo ha ritenuto che non vi fossero elementi per sostenere l’accusa. Nel frattempo, anche il marito ha risposto alle accuse della moglie con una propria querela. A giudizio del pm, in quel momento, stava accadendo quello che purtroppo accade tra molte coppie che si stanno separando. Il pm ha quindi chiesto l’archiviazione una prima volta e anche una seconda volta. Ma il giudice per le indagini preliminari aveva imposto ulteriori accertamenti. A quel punto, il pm aveva deciso di sentire i protagonisti e aveva conosciuto la dottoressa con cui, secondo l’esposto, avrebbe instaurato una relazione. Poco dopo, il magistrato avrebbe chiesto per il marito accusato di maltrattamenti gli arresti domiciliari. Nell’esposto contro il magistrato fiorentino, fascicolo trasferito per competenza alla procura di Genova e in cui si ipotizza il reato di corruzione, il medico ha allegato le foto scattate da un investigatore privato in cui sarebbe ritratta la moglie - persona offesa del reato di maltrattamenti - che entrava in più occasioni, anche di notte nella casa del giudice e che vi si tratteneva per ore. Nel frattempo, il procedimento relativo all’accusa di maltrattamenti nei confronti della moglie è andato avanti e, all’udienza preliminare, il gip, su richiesta di un altro pm, ha disposto il rinvio a giudizio del medico. Già nel settembre scorso la procura di Firenze, ricevute informazioni sulla relazione tra il magistrato e la dottoressa parte offesa nel procedimento contro il marito medico, ha trasmesso il fascicolo sull’intera vicenda alla procura di Genova. Atto dovuto messo in pratica subito dopo la presentazione dell’esposto da parte del medico, difeso dall’avvocato Massimiliano Manzo di Firenze. Alla denuncia furono allegati le fotografie e i filmati realizzati nei pedinamenti della donna da parte dell’investigatore privato. Sempre nel settembre 2016, dopo la presentazione dell’esposto, in procura fu stabilito di passare l’inchiesta per maltrattamenti a un altro pm. Invece, la competenza per un’eventuale azione disciplinare da aprire nei confronti del magistrato spetta sia al ministro della Giustizia, sia al procuratore generale presso la corte di cassazione, che in queste circostanze agiscono in modo autonomo, con iniziative che rimangono sia distinte tra loro sia indipendenti dal procedimento penale di cui è diventata competente la procura di Genova.
Firenze, pm vuol far arrestare il marito dell'amante: il Ministero della Giustizia avvia verifiche. Il pubblico ministero dopo aver avviato una relazione con la moglie del medico ne avrebbe chiesto i domiciliari, scrive il 19 gennaio 2017 "La Repubblica". Il ministero della Giustizia vuole approfondire la vicenda emersa a Firenze, dove un pm, dopo aver avviato una relazione con la moglie di un medico, avrebbe chiesto gli arresti domiciliari nei confronti del dottore. A quanto si apprende, infatti, via Arenula ha avviato, attraverso l'ispettorato, gli accertamenti preliminari per condurre delle verifiche sul caso. Tutta la storia, riferita oggi anche da La Repubblica, ha origine dal percorso di separazione tra il dottore e la moglie, anche lei dottoressa con la procura di Genova che ha già aperto un fascicolo sul magistrato Vincenzo Ferrigno. Secondo la ricostruzione, nel luglio 2015 la donna, madre di due minori, ha sporto denuncia ai carabinieri dopo una violenta discussione con il marito affermando che l'avrebbe minacciata anche di morte. Il magistrato, ora sotto accusa, a cui viene all'epoca assegnato il fascicolo ha ritenuto che non vi fossero elementi per sostenere l'accusa. Nel frattempo, anche il marito ha risposto alle accuse della moglie con una propria querela. A giudizio del pm, in quel momento, stava accadendo quello che purtroppo accade tra molte coppie che si stanno separando. Il pm ha quindi chiesto l'archiviazione una prima volta e anche una seconda volta. Ma il giudice per le indagini preliminari aveva imposto ulteriori accertamenti. A quel punto, il pm aveva deciso di sentire i protagonisti e aveva conosciuto la dottoressa con cui, secondo l'esposto, avrebbe instaurato una relazione. Poco dopo, il magistrato avrebbe chiesto per il marito accusato di maltrattamenti gli arresti domiciliari. Nell'esposto contro il magistrato fiorentino, fascicolo trasferito per competenza alla procura di Genova e in cui si ipotizza il reato di corruzione, il medico ha allegato le foto scattate da un investigatore privato in cui sarebbe ritratta la moglie - persona offesa del reato di maltrattamenti - che entrava in più occasioni, anche di notte nella casa del giudice e che vi si tratteneva per ore. Nel frattempo, il procedimento relativo all'accusa di maltrattamenti nei confronti della moglie è andato avanti e ieri, all'udienza preliminare, il gip, su richiesta di un altro pm, ha disposto il rinvio a giudizio del medico.
Non solo in Puglia, ma anche a Firenze qualche magistrato usa la toga per le proprie avventure sensuali, scrive “Il Corriere del Giorno” il 19 gennaio 2017. Un pm toscano, Vincenzo Ferrigno, chiede gli arresti domiciliari per un uomo accusandolo di maltrattamenti familiari. Ma l’indagato presenta un esposto: “Il magistrato è l’amante di mia moglie. Per due volte aveva chiesto l’archiviazione, poi i due si sono conosciuti…”. Una vicenda giudiziaria per maltrattamenti in famiglia rischia di costare molto cara a un magistrato della procura di Firenze, Vincenzo Ferrigno. L’indagato, un medico fiorentino, ha infatti presentato un esposto contro di lui, allegando le foto scattate da un investigatore privato. “Il magistrato è l’amante di mia moglie. Per due volte aveva chiesto l’archiviazione, poi i due si sono conosciuti…” Le foto depositate dal medico mostrano sua moglie — cioè la persona offesa del reato di maltrattamenti — che entrava in più occasioni, anche di notte, nella casa del magistrato ove si fermava per ore. Nell’esposto, trasmesso alla Procura di Genova, il medico ha fatto presente che per ben due volte il pm aveva chiesto l’archiviazione del fascicolo aperto su di lui sulla base delle accuse della moglie. Solo dopo averla conosciuta evidentemente a fondo, aveva cambiato opinione fino al punto da chiedere gli arresti domiciliari per il marito. La Procura di Genova ha aperto un fascicolo. L’ipotesi di accusa è corruzione per l’esercizio delle funzioni. Nell’esposto del medico si fa presente che gli atti del magistrato sembrano contrari ai doveri di imparzialità e che anche il piacere sessuale può costituire una “utilità” indebitamente percepita. Il pm aveva tutto il diritto di diventare amico o anche amante della signora, a patto di lasciare l’indagine. Ma così non è accaduto. Ieri il medico è stato rinviato a giudizio per maltrattamenti ma l’inchiesta a suo carico è inevitabilmente intrecciata con la vicenda del rapporto fra sua moglie e il sostituto procuratore Ferrigno. Il procedimento per maltrattamenti nasce nel 2015 nell’ambito di una separazione molto conflittuale. Ambedue medici titolari di due studi professionali in cui per anni hanno esercitato insieme, sono sposati da quasi 20 anni e hanno due figli. Un matrimonio felice finché la donna ha scoperto che il marito la tradiva e che addirittura (sebbene lo abbia a lungo negato) ha avuto un figlio dalla assistente. Nonostante ciò — secondo le accuse — l’uomo si è rifiutato a lungo di accettare la separazione, e nel corso di furiosi litigi è arrivato a minacciare di morte la moglie e in qualche caso a colpirla con spinte, pugni, calci e schiaffi. Dopo la prima denuncia presentata nel luglio 2015, la polizia giudiziaria aveva segnalato una situazione pericolosa e carica di odio. Tuttavia nel settembre 2015 il magistrato chiese l’archiviazione. Il gip sollecitò altre indagini, alla fine delle quali il 2 gennaio 2016 il pm Ferrigno confermò il suo giudizio. La signora continuava però a denunciare una situazione di pericolo. Il 15 marzo 2016 fu convocata in procura e in quell’occasione il pm la conobbe. Pochi giorni più tardi revocò la richiesta di archiviazione. Informato di un tentativo dell’indagato di convincere la baby-sitter, che aveva raccontato di aver assistito a violenti litigi, a modificare le sue dichiarazioni, il 27 giugno 2016 chiese per l’uomo gli arresti domiciliari. Il 25 luglio il gip optò per la misura dell’allontanamento, revocandola pochi giorni più tardi. Nel frattempo il medico aveva incaricato un investigatore privato di seguire la moglie. E proprio in quel mese di luglio l’investigatore ha scoperto che la signora si spostava in maniera circospetta, a volte di giorno e a volte di notte. Parcheggiava l’auto, percorreva lunghi tratti a piedi, entrava in un edificio e si tratteneva per ore. Entrate e uscite sono state filmate. Sul campanello c’era il nome del pm. Anche in Puglia è successo qualcosa di simile. In un capoluogo pugliese, un magistrato molto amico di una coppia di avvocati al punto tale di fare da padrino al battesimo di un figlio della coppia, dopo che i due si sono separati, è diventato l’amante dell’avvocatessa con cui convive dopo aver lasciato sua moglie. Al marito dell’avvocatessa, che si era a sua volta consolato con una nuova compagna, non è rimasto altro che abbandonare la difesa del magistrato-(ex) amico che assisteva in una delicata vicenda giudiziaria che mette a serio rischio la carriera del magistrato.
DI…MASSA CARRARA. Pestaggi in caserma: 4 carabinieri arrestati. Pm: abusi «gravi e diffusi». Le accuse: falso e lesioni. Un militare in carcere, tre ai domiciliari, per altri 4 divieto di dimora. L’inchiesta della procura di Massa Carrara, le irregolarità avvenute in Lunigiana, scrive il 14 giugno 2017 Marco Gasperetti su "Il Corriere della Sera." Li hanno arrestati i loro colleghi mostrando orgogliosi la divisa e guardando negli occhi quei carabinieri che, almeno secondo l’accusa, quella divisa hanno disonorato. Quattro militari dell’Arma sono stati raggiunti da un provvedimento di custodia cautelare, (uno di loro è finito in carcere, gli altri quattro agli arresti domiciliari), mentre per altri quattro è scattato il divieto di dimora e per il quinta la sospensione del servizio. Pesantissime le accuse: lesioni, falso, sequestro persona, minacce, arresto arbitrario. Sei militari lavoravano alla stazione di Aulla due ad Albiano Magra. Siamo in Lunigiana, provincia di Massa Carrara, un luogo bellissimo ai confini tra Toscana, Liguria ed Emilia Romagna, dove il presidio dei carabinieri è indispensabile a amatissimo dalla popolazione. Ma, almeno secondo i riscontri delle indagini coordinate con grande professionalità dal procuratore di Massa Carrara, Aldo Giubilare, i nove accusati avrebbero disonorato la divisa trasformandosi in persecutori di persone che avevano infilato in una sorta di lista di proscrizioni. Decine e decine le azioni illegali. La maggioranza delle loro vittime era extracomunitari che, minacciata di essere espulsa, sopportava tutte le angherie possibili e immaginabili. Poi toccava agli italiani, soprattutto tossicodipendenti e categorie deboli. Tutti venivano sistematicamente picchiati selvaggiamente, senza una ragione, e le spedizioni punitive proseguivano ininterrottamente e senza motivo utilizzando anche manganelli di acciaio. «L’adozione delle misure, ancorché dolorosa sul piano umano, deve rendere edotti dell’assurdità da parte di chiunque, militari dell’Arma dei carabinieri compresi, di considerarsi al di fuori e al di sopra delle leggi dello Stato – ha scritto in una nota il procuratore Aldo Giubilaro - e anzi offre garanzia, enucleati gli autori di condotte improprie, della sicura correttezza e del sicuro senso delle regole di quanti altri fanno parte dell’Arma». Il giudice delle indagini preliminari non solo ha accettato tutte le richieste della procura ma le ha giudicate le richieste minime possibili. Alle indagini hanno partecipato in prima persona i colleghi degli arrestati e dei denunciati.
Pestaggi in caserma, 4 carabinieri arrestati per lesioni e falso in Lunigiana. Uno in carcere, gli altri ai domiciliari. Misure cautelari per altri 4. Il pm: "Violenze sistematiche e metodiche", scrive Massimo Mugnaini il 14 giugno 2017 su "La Repubblica". Otto carabinieri sono stati raggiunti da misure cautelari in un'indagine su abusi e violenze in caserme della Lunigiana, in provincia di Massa Carrara. Quattro i militari arrestati: uno in carcere e gli altri ai domiciliari. Decine gli episodi di violenza contestati, in particolare pestaggi. "Violenze - ha detto il procuratore capo Aldo Giubilaro - sistematiche e metodiche".
Per altri 4 invece scattato il divieto di dimora e per un altro la sospensione dal servizio. Stanno lavorando a scartamento ridotto, praticamente decimate, le stazioni dei carabinieri della stazione di Aulla, che ha tutto il personale indagato, una ventina di carabinieri. Il maresciallo comandante di stazione è stato sospeso dal servizio e da stasera a mezzanotte deve allontanarsi dalla provincia. Inoltre, un brigadiere di Aulla è stato arrestato in carcere e altri cinque militari della stessa stazione, con vari gradi, sono stati colpiti o dagli arresti domiciliari (sono tre) o, come il loro comandante, dal divieto di dimora (altri due). L'ottava misura cautelare, un altro divieto di dimora nella provincia apuana, è scattata per un militare della stazione di Albiano Magra. Una svolta importante dunque nell’inchiesta della procura di Massa Carrara che ormai da mesi, sulla base della denuncia di un italiano risalente all'estate 2016, indaga su una serie di presunti abusi e illegalità, commesse da appartenenti all’Arma in servizio presso le caserme della bassa Lunigiana. Le accuse nei confronti degli arrestati sono quelle di falso e lesioni. Le misure cautelari disposte dal gip nei loro confronti sono state richieste dal procuratore capo Aldo Giubilaro e dal sostituto procuratore Alessia Iacopini, che coordinano le indagini condotte da altri carabinieri e dalla forestale. A marzo, durante l’indagine, vennero perquisite le caserme di Aulla e Pontremoli. "Sembrerebbe trattarsi, purtroppo, di una condotta diffusa, sia in caserma che fuori" spiega il procuratore Giubilaro. Secondo quanto ricostruito, le accuse di lesioni e falso nei confronti dei carabinieri farebbero riferimento in particolare a dei pestaggi, tra cui uno ai danni di un cittadino extracomunitario, presunto spacciatore. L’uomo, cittadino marocchino, venne portato in caserma in Lunigiana nel corso di un'attività di controllo antidroga. Secondo l’ipotesi accusatoria, in quell’occasione alcuni militari – quattro, disse il fermato - lo avrebbero colpito ripetutamente, facendolo finire in ospedale. Quindi i militari avrebbero falsificato i verbali relativi a quell’episodio. Sempre secondo l’accusa, non si sarebbe trattato di un episodio isolato: il gruppetto di carabinieri si sarebbe accanito su più persone, sia italiane che extracomunitarie. "Erano metodici, sistematici" sottolinea ancora Giubilaro. Al vaglio degli inquirenti vi sono infatti altri episodi poco chiari - quasi un centinaio - i cui relativi verbali stilati dai carabinieri sono già stati sequestrati nei mesi scorsi. Uno riguarderebbe una prostituta che, portata in caserma, avrebbe subìto abusi sessuali. Sotto la lente della procura anche alcune presunte sparizioni di droga sequestrata. Tra gli indagati ci sono un maresciallo, un brigadiere, alcuni appuntati e militari semplici.
Inchiesta shock, quattro carabinieri arrestati e guai per altri quattro. Tre ai domiciliari, uno in carcere, per altri tre divieto di dimora nella provincia e uno anche sospeso dal servizio. Sono accusati di abusi e violenze in caserma. L'inchiesta partì nel febbraio 2017, scrive "La Nazione" il 14 giugno 2017. Quattro carabinieri sono stati arrestati nell'ambito di un'inchiesta della procura di Massa Carrara su presunte irregolarità nell'operato di alcuni militari dell'Arma in Lunigiana. Da quanto appreso tre carabinieri sono stati posti agli arresti domiciliari, uno in carcere, altri tre hanno divieto di dimora nella provincia e uno è stato anche sospeso dal servizio. L'arresto in carcere riguarda un brigadiere in servizio ad Aulla, mentre il maresciallo comandante di stazione di Aulla è stato colpito da doppio provvedimento: divieto di dimora nella provincia e sospensione dai pubblici uffici. Gli altri sei militari sono un altro brigadiere e graduati (appuntati): tre ai domiciliari, tre (più il maresciallo) con divieto di dimora. L'inchiesta era emersa tra febbraio e marzo quando si parlò una ventina di indagati e scattarono perquisizioni nelle caserme dell'Arma di Pontremoli e Aulla. Falso e lesioni i reati per cui procede la procura. Ai carabinieri sarebbero (il condizionale è d’obbligo) stati contestati singoli episodi come alcuni atti di violenza fisica ai danni di un marocchino con precedenti di spaccio. O come la violenza subita da una prostituta prelevata dalla strada sulla quale esercitava la professione più antica del mondo e trasportata in caserma. E si ipotizza anche la falsificazioni di verbali. Inutile chiedere commenti all’Arma. Gli ufficiali incaricati di mantenere i rapporti con la stampa hanno rinviato alla Procura e si sono chiusi in un rigoroso silenzio. Il procuratore capo Aldo Giubilaro, nei giorni successivi allo scandalo, aveva confermato "piena fiducia nell’Arma", specificando che l’indagine era su "pochissime unità, anche se riguardano fatti di una certa gravità" ed erano "pochi i fatti da accertare". In realtà verte su 104 capi d'imputazione l'ordinanza (di oltre 200 pagine) emessa dal gip e sono alcune decine i fatti trattati dall'inchiesta. Secondo quanto appreso sono contestati, a vario titolo, i reati di lesioni (alcuni episodi), falso in atti, abuso d'ufficio, rifiuto di denuncia, sequestro di persona, violenza sessuale, possesso di armi (sarebbero i coltelli trovati in casa agli indagati). Il gip ravvisa i pericoli di reiterazione e di inquinamento delle prove tra i motivi di esigenza cautelare. I falsi riguarderebbero anche i verbali su attività e interventi dell'Arma nel territorio. Inoltre, secondo quanto appreso, sarebbe contestato un solo episodio di violenza sessuale a una prostituta e uno solo di sequestro di persona (una persona marocchina trattenuta in camera di sicurezza).
Aulla, violenze in caserma: arrestati quattro carabinieri, scrive Tiziano Ivani su "Il Secolo XIX" il 14 giugno 2017. C’è un episodio, in particolare, che desta sgomento tra il centinaio di casi citati nell’inchiesta su presunti abusi sessuali e pestaggi che ieri ha portato all’arresto di quattro carabinieri che prestavano servizio in alcune caserme della Lunigiana. E sarebbe avvenuto, secondo la Procura di Massa, in una piccola stazione di provincia, ad Aulla, dove, qualche mese fa, il brigadiere Alessandro Fiorentino, l’unico tra gli indagati a essere finito in carcere, avrebbe costretto un uomo di origini marocchine a spogliarsi e «a subire atti sessuali» nel contesto di una perquisizione antidroga. I magistrati hanno inquadrato in questo reato il fatto che però, per come viene descritto, appare molto più simile a una vera e propria tortura. Il giudice per le indagini preliminari ha poi disposto i domiciliari per tre carabinieri, Gianluca Varone, Luca Granata e Ian Nobile, ma ci sono altri quattro militari, indagati a piede libero, ai quali è stato notificato un provvedimento che vieta loro di mettere piede nella provincia di Massa-Carrara. I reati contestati, a vario titolo, sono falso, lesioni, calunnia, violenza privata e sessuale. «Illegalità e abusi erano quasi una normalità, le condotte irregolari erano rivolte sia a persone italiane che straniere. In alcuni casi, si tratta di strumentalizzazioni a fini privati», spiega il procuratore capo Aldo Giubilaro che da mesi, assieme al sostituto Alessia Iacopini, sta portando avanti un’indagine che ha provocato un vero e proprio terremoto in Lunigiana. Alcuni particolari della vicenda erano già emersi nel marzo scorso quando la Procura aveva eseguito perquisizioni e sequestri nelle caserme. Gli investigatori avevano acquisito fascicoli riguardanti numerosi interventi. Tra questi anche un caso di violenza sessuale, una donna che avrebbe subìto abusi da chi avrebbe dovuto tutelare lei e la legge. Si tratterebbe di una squillo fermata per strada e portata in caserma.
L'inchiesta sui carabinieri, scattano gli arresti, "Cosa penserà ora di noi la gente?". Caserme decimate dopo l'operazione che ha portato alcuni militari dell'Arma in carcere, scrive il 15 giugno 2017 "La Nazione". Succede nella vita del cronista di raccogliere le parole di sfogo di chi si trova al centro di un’indagine, come i carabinieri raggiunti dai provvedimenti della magistratura ieri mattina. Nelle parole dei tutori dell’ordine traspare amarezza e sconcerto. La difficile situazione in cui sono venuti a trovarsi, da dover spiegare a mogli e figli ed anziani genitori, increduli di fronte a quanto successo ieri mattina nel giro di poche ore. «Un’esperienza tristissima da non augurare mai a nessuno – si sfogano alcuni dei carabinieri coinvolti, senza mai entrare nel merito dell’indagine nè lanciare accuse – i tuoi famigliari con grande difficoltà riescono ad immedesimarsi in questo ribaltamento di ruoli, che vede la tua persona trasformarsi da stimato agente dell’ordine ad inquisito per gravi reati e sottoposto a misure restrittive». Quello che più colpisce è il timore di nuocere in qualche modo negativamente all’immagine del corpo d’appartenenza. «Cosa penserà la gente di noi, dei colleghi? Con che spirito potremmo continuare poi il nostro lavoro? – queste le frasi più ricorrenti – Sarebbe importante però l’opinione pubblica fosse adeguatamente informata sulle quotidiane difficoltà e pericoli che costantemente incontriamo nella nostra rischiosa professione di controllo e contenimento della criminalità con cui notte e giorno siamo in guerra continua: ladri, truffatori, spacciatori di droga che con grande sforzi e rischi arresti e magari dopo poco li vedi tornare in libertà». Nello sfogo di queste persone, provate e consce della situazione che stanno vivendo non c’è traccia alcuna di risentimento nei confronti di chi ha preso provvedimenti nei loro confronti». Sconcerto e incredulità in Lunigiana che già si era mossa nei mesi scorsi con una manifestazione di solidarietà per i carabinieri indagati: ieri si è subito sparsa la voce di una nuova iniziativa simile nei prossimi giorni. Intanto le conseguenze dei provvedimenti scattati ieri mattina si sono fatte subito sentire: stanno lavorando «a scartamento ridotto», praticamente decimate, le stazioni dei carabinieri della Lunigiana colpite dall’inchiesta della procura. In particolare si è ridotta di molto l’attività della stazione di Aulla (una delle più importanti della Lunigiana), che ha ventina di carabinieri indagati. Un maresciallo è stato sospeso dal servizio e da ieri sera si è dovuto allontanare dalla provincia. Inoltre, un brigadiere di Aulla è stato arrestato (e portato in un carcere militare) mentre altri cinque militari della stessa stazione, con vari gradi, sono stati colpiti o dagli arresti domiciliari (sono tre) o dal divieto di dimora. L’ottava misura cautelare, un altro divieto di dimora nella provincia apuana, è scattata per un militare della stazione di Albiano Magra.
Gli audio dei carabinieri giustizieri: "I profughi? Sono solo scimmie". Le intercettazioni choc dalla caserma dei carabinieri di Aulla: "Ai marocchini darei una fraccata di legnate. Importare migranti abbassa il livello culturale dell'Europa", scrive Claudio Cartaldo, Venerdì 16/06/2017, su "Il Giornale". Le microspie avrebbero registrato tutto: le conversazioni, quel patto "come la mafia", la confessione dei soprusi. Sono otto le misure cautelari emesse ieri dopo la richiesta del Pm di Aulla, Alessia Iacopini. Arresti che hanno dimezzato la caserma dei carabinieri della cittadina in procincia di Massa Carrara. Gli indagati sono 22, tra cui il maresciallo della stazione della Lunigiana (sospeso dal servizio), il brigadiere Alessandro Fiorentino (arrestato) e i carabinieri Ian Nobile, Gianluca Granata e Luca Varone (ai domiciliari). Altri militari hanno dovuto cambiare città a seguito del divieto di permanenza nella zona. Dalle carte dell'inchiesta, pubblicate da Repubblica, emerge uno spaccato inquietante della caserma. Tutto nasce dalla denuncia di un avvocato che qualche tempo fa stava assistendo un marocchino che aveva denunciato uno dei carabinieri per un presunto pestaggio subito a seguito di un fermo. Il militare avrebbe chiesto al legale di ritirare la denuncia, altrimenti avrebbe potuto toglierle la patente "e mandarla a casa a piedi". "Non è possibile che un marocchno denuncia un carabiniere", avrebbero ragionato tra loro i carabinieri. A guidare questa sorta di "squadra" speciale sarebbe stato il maresciallo Alessandro Fiorentino, che un collega descrive come "uno dei più cattivi del mondo": Una volta c’avevano il terrore… arrivava Fiorentino". Ma non è tutto. Perché le microspie piazzate dagli investigatori, supportati dal comando provinciale e regionale dell'Arma, avrebbero registrato delle conversazioni choc all'interno delle auto di servizio. "I negri sono degli idioti, sono delle scimmie", si legge - dice Repubblica - nei verbali di chiusura indagine. "Profugo? Io ti do una randellata nel muso se non stai zitto". E ancora: "Se vieni fuori ti stacco la testa, quando vuoi e dove vuoi". "Io non lo so se riuscirei ad ammazzare una persona, anche se è un marocchino, eh! Però una fraccata di legnate gliele darei! Ma una fraccata, eh. Anche del tipo lasciarlo permanentemente zoppo". Uno dei carabinieri sosteneva invece che "importare tutti questi negri abbassa il livello culturale dell’Europa", mentre un altro collega "plaudiva a Mussolini che 'tutte saponette ha fatto'". L'unico degli avvocati della difesa che sta difendendo i militari ha detto che "il mio assistito respinge tutte le accuse". Secondo il pm infatti i militari, oltre alle armi di servizio, sarebbero stati soliti utilizzare taser, coltelli e un'ascia tenuta nell'auto di servizio. "Vediamo i due negri che scappano - si leggerebbe in una intercettazione - Pino esce di qua e gli corre dietro a uno, io esco di là e corro dietro a un altro nel bosco… Minchia le botte che hanno preso quei due negri, penso che se lo ricorderanno finché campano… lo saccagnavamo di botte perché non voleva entrare in macchina… quante gliene abbiamo date! Ahaaha! Entra dentro la macchina, negro di m...". Oppure contro un clochard polacco: "Ehi mister, metti qua la mano… Cosa stai facendo? Te la spezzo?". Poi, secondo Repubblica, "lo costringono a mettere le mani sull’auto e le percuotono con il manganello". Punizioni corporali che sarebbero state inflitte anche a un cittadino nordafricano: lo avrebbero sbattuto in terra per poi "schiacciargli la faccia sull’asfalto con una scarpa, infilargli la canna della pistola in bocca". A stupire gli investigatori, però, è stato soprattutto quella sorta di patto di sangue stipulato tra i carabinieri che si sarebbero macchiati dei reati loro attribuiti. A un nuovo arrivato, uno degli anziani avrebbe infatti detto: "«La regola madre per fare il carabiniere, la regola più importante che, ahimè, purtroppo alcuni colleghi non rispettano è: quando se esce insieme, quelle sei ore, quello che succede all’interno della macchina non deve scoprirlo nessuno.... Niente! È cosa nostra. Proprio come la mafia! Quello che succede qua non se deve venì a scoprì..."
Aulla, le intercettazioni telefoniche che inchiodano i militari: «Un negro è scappato: l’ho preso e massacrato», scrive Tiziano Ivani su "Il Secolo XIX" l'16 giugno 2017. «Guarda che bel taglio che c’ho fatto, tac da sopra eh». Alessandro Fiorentino è divertito mentre mostra al collega di pattuglia, Gianluca Varone, il modo in cui aveva appena squarciato le gomme di una Alfa 146 posteggiata alle porte dell’abitato di Aulla. Dalla carte dell’inchiesta, che ha travolto i comandi delle stazioni carabinieri della Lunigiana, spuntano particolari che tratteggiano i profili di persone dedite al malaffare, persone che nascondendosi dietro una divisa facevano il bello e cattivo tempo da quelle parti. Il 12 febbraio scorso una cimice nascosta nell’auto di servizio registra la conversazione tra i due carabinieri e il cittadino inglese proprietario della vettura a cui avevano appena bucato le gomme: Varone e Fiorentino fingono di non sapere chi avesse commesso il reato, poi quando la vittima si allontana commentano il fatto. Varone: «Anche te no, a un bravo cristo hai bucato le gomme». Fiorentino: «Ma che cazzo ne sapevo io che ere quello lì». Varone: «Ride». Fiorentino: «Io quando ho fatto, io ero convinto fosse, fosse l’albanese, era quell’altra macchina». Il 9 dicembre 2015 l’accoppiata Fiorentino e Varone si sarebbe resa responsabile del reato di peculato per essersi appropriata di alcuni «cd-dvd dal contenuto musicale e pornografico» sequestrati a un ambulante marocchino per la violazione dei diritti d’autore. Nella stessa occasione i carabinieri avrebbero preso, senza averne alcun diritto, «un giocattolo erotico (un fallo di gomma, ndr)». «A un certo punto, mentre stavano sequestrando tutto, esce Gianluca e mi fa, guarda che cosa ho trovato? Un cazzo di gomma così». Nell’ordinanza il gip parla anche «odio razziale» e lo fa dopo riportando alcune intercettazioni inquietanti. Il 17 febbraio scorso alle tre del mattino, Luca Granata, oggi agli arresti domiciliari, parla con un collega, Francesco Rosignoli, e gli racconta di come ha picchiato «un negro». Granata: «C’è un negro che mi voleva de, un negro che è scappato, gli sono andato dietro ed è picchiato con il muro, è cascato l’ho tirato su e ho detto mettiti là…l’ho smostrato…poi gli ho messo la pistola in bocca, ho detto se devo andare in galera ci vado per qualcosa». Tra le conversazioni più rilevanti, annotate dagli investigatori, ce n’è una del 13 novembre 2016 quando Ian Nobile, oggi ai domiciliari, confessa a Fiorentino di avere un taser (storditore elettronico). Nobile: «L’altro giorno mi sono incazzato con Gianluca, sai che c’ho il taser, no?». Fiorentino: «Ah sì me l’avevi detto». Nobile: «Ma tu sai che è una cosa che non dovrei tenere. E inizia a fare la spada con il laser, ma dico non toccare una roba che non è tua soprattutto in presenza di un superiore (che in quel momento si trovava in caserma, ndr)». Indagando a lungo sui carabinieri della Lunigiana, i pm Aldo Giubilaro e Alessia Iacopini hanno fatto venire a galla altre questioni spinose. Uno dei marescialli, il cui non è finito sul registro degli indagati, è accusato anche di maltrattamenti in famiglia nei confronti della moglie. Sono state ricostruiti episodi di percosse, il militare sarebbe solito offendere la donna chiamandola: «Malata, rincoglionita e matta».
DI PISA…«Concorso su misura? Questi erano gli accordi». Prof (registrato) nei guai. Il caso all’Ateneo di Pisa, la denuncia di una ricercatrice, scrive Marco Gasperetti il 26 luglio 2017 su "Il Corriere della Sera". Nei corridoi dell’università di Pisa da qualche giorno non si parla d’altro. E qualche «maligno» l’ha già ribattezzato il «bando fotografia», che in gergo significa un concorso, irregolare, realizzato ad hoc su una persona: il vincitore designato. Adesso però le cose si sono complicate e le ironie rischiano di trasformarsi in sospetti e tremori. Su quel concorso, per un posto di professore ordinario al dipartimento di Economia e management, è stata aperta un’inchiesta della procura di Pisa. Il sospetto è che la commissione d’esame avesse già deciso a priori chi far vincere e i magistrati vogliono capire se esiste un sistema di potere baronale che influisce sui concorsi pubblici. Sospetti generati da una registrazione clamorosa nella quale il presidente di una delle commissioni esaminatrici, uno stimatissimo professore universitario, sembra ammettere le presunte irregolarità. A registrarle il marito dell’esclusa, anche lui docente universitario, ma a Verona. La moglie ha poi presentato una denuncia alla procura allegando oltre alla registrazione altri documenti. Sul caso c’è anche un ricorso al Tar e l’avvio di indagini della commissione etica dell’ateneo pisano, considerato tra i più validi d’Europa, dove studiano oltre 50 mila studenti. Protagonista e presunta vittima della vicenda è Giulia Romano, tra le migliori ricercatrici del dipartimento di Economia e management. È stata lei a firmare la denuncia contro Luciano Marchi, presidente della commissione d’esame, Silvio Bianchi Martini, membro della commissione e direttore del dipartimento di Economia e management, e contro l’ex rettore Massimo Augello. Insieme ai documenti, Giulia Romano e il suo avvocato, Francesco Agostinelli del foro di Livorno, hanno prodotto le registrazioni avvenute tra il professor Marchi, presidente della commissione, e Andrea Guerrini, marito della ricercatrice. Registrazioni nelle quali, almeno apparentemente, Marchi ammetterebbe che il profilo del concorso era stato studiato per il vincitore precedentemente designato «perché rientrava negli accordi». Nella registrazione Marchi poi spiega che basta un semplice «litigio» con «chi conta» per essere tagliato fuori. E in tal caso, per continuare a sperare di far carriera all’interno dell’università, «è importante recuperare il rapporto». E chi osa opporsi e fare ricorso corre il rischio di rimanere ricercatrice a vita perché nessuno mai più l’avrebbe appoggiata, in quanto sarebbe come «dare un premio a chi ha remato contro». Perché «il rischio è quello dell’isolamento... in queste vicende una ha ragione, però appare come quella che rompe i c... e in questo caso tutto l’ateneo è coalizzato perché tu vai a rompere una logica». Già, la logica. Un sistema? È proprio quello che stanno accertando i magistrati. «Abbiamo sottoposto al vaglio della procura la registrazione — dice l’avvocato Agostinelli — che è una valida prova documentale, affinché verifichi la violazione delle norme che regolano il reclutamento del personale accademico. Nella denuncia si chiede inoltre che si verifichi l’esistenza o meno di sistematiche condotte discriminatorie per l’accesso alle cattedre. Ci auguriamo che venga fatta luce nel più breve tempo possibile. Non solo nell’interesse della mia assistita, ma per tutelare tutti quei candidati meritevoli che aspirano all’importante ruolo di professore nel prestigioso ateneo pisano». Il rettore dell’università, Paolo Mancarella, non ha voluto rilasciare dichiarazioni.
La ricercatrice di Pisa che ha denunciato presunte irregolarità: «Voglio dare l’esempio ai miei figli». Tre docenti dell’Università di Pisa sono indagati per presunte irregolarità in un concorso per un posto da ordinario nel dipartimento di Economia e management, scrive Marco Gasperetti il 26 luglio 2017 su "Il Corriere della Sera". Una denuncia in Procura contro tre chiarissimi professori e voilà, Giulia Romano, 39 anni, due figli, un marito anch’esso accademico, diventa la ricercatrice più chiacchierata d’Italia. Perché il suo atto di ribellione contro quello che lei ritiene un concorso taroccato e quella registrazione (fatta dal marito) nel quale il presidente della commissione sembra fare ammissioni sul «bando su misura» per un predestinato rischiano di smascherare (sempre che esista) un sistema opaco. La Procura di Pisa ha aperto un’inchiesta e ieri si è avuta la conferma di tre docenti universitari indagati. Lei, Giulia, adesso combatte con chi «la guarda come una marziana» e le ha tolto il saluto. Ripresenterebbe quella denuncia? «Sì, e lo sa chi mi ha dato la forza? I miei figli — risponde —. A loro voglio raccontare storie di dignità professionale, di lavoro, di studio. Non vicende di raccomandazioni, conoscenze, spintarelle, aiuti più o meno leciti, furberie». Giulia Romano, livornese, è una prima della classe per genetica. La più brava alle elementari, alle medie, alle superiore; strepitosa all’università e al dottorato di ricerca. Ma di gavetta ne ha fatta tanta. «Mi sono laureata con lode in economia lavorando come ragioniera in banca dove avevo vinto un concorso assolutamente regolare — racconta —. Poi, dopo la laurea, ho vinto un altro concorso alla Consob. Posto di lavoro prestigioso, stipendio da favola (tre volte quello di ricercatrice) ma ero innamorata della scuola». Così arriva il dottorato di ricerca e poi un posto come ricercatrice al dipartimento di Economia e management all’università di Pisa. «Quando ho ascoltato la registrazione del presidente della commissione che spiegava a mio marito perché, nonostante me lo meritassi, non avevo vinto il concorso per professore ordinario, ho avuto un sussulto — racconta —. Non volevo crederci. Mi sono messa a piangere. Ma lo sconforto è durato poco. Sono una combattente. Ho fatto denuncia e ho raccontato tutto anche al lavoro». E che cosa è successo all’università? «In tanti mi hanno guardata come una marziana — risponde la ricercatrice —, caduta dal cielo. Tutti sapevano eppure alcuni hanno fatto finto di scandalizzarsi». E dai vertici dell’ateneo? «Neppure una parola. Silenzio. A me sarebbe bastato un “faremo chiarezza”, “stai tranquilla che fugheremo ogni dubbio” e invece nulla. È stata aperta un’indagine della commissione etica ma è stata bloccata e la commissione disciplinare non è stata interessata al caso». Giulia Romano dice di sentirsi isolata. «Ma non mi importa molto — continua — perché nella vita ci sono cose che bisogna affrontare a viso aperto. Ho letto commenti sui social allucinanti. Del tipo “ma che denuncia quella, lo sanno tutti che i concorsi sono fatti a misura per il vincitore”. Ma come, c’è un’inchiesta nella quale si ipotizzano gravi irregolarità in un concorso e c’è chi dice che è la normalità? Rabbrividisco». Qualche raggio di luce? «Certo, ce ne sono stati. Come il messaggio di un collega che non conosco che mi ha scritto di tenere duro, di continuare, di interrompere un sistema opaco che pare avvolgere i concorsi pubblici. Lo ringrazio, tutti noi dobbiamo fare qualcosa».
DI SIENA…La ribellione del cavallo che non ha corso il Palio. Tornasol non ha voluto saperne di entrare nei canapi. Sotto stress, si è impuntato. E ha vinto lui, scrive Oscar Grazioli, Martedì 4/07/2017, su "Il Giornale". Ha vinto Scompiglio, ma il vero scompiglio l'ha creato Tornasol, baio della Tartuca che, quasi rivendicando una sorta di autonomia equina nei confronti delle decisioni umane, ha tenuto in scacco la carriera per un'ora e mezza, fino a quando è stato intelligentemente messo a riposo perché troppo stressato e potenzialmente foriero di drammi più gravi rispetto alla dèfaillance di una contrada. Da tantissimi anni seguo il Palio, per dovere non certo per piacere, ma giuro che questa volta mi sono divertito. L'unico rammarico è che, avendo invitato alcuni amici a cena, si sono scofanati tutti i gamberoni in salsa rosa, senza alcuna pietà. Credevo fossero amici e invece non hanno avuto il riguardo che ha avuto la direttrice del TG2, Ida Colucci, invocata in modo quasi drammatico dai due commentatori. «E adesso che succederà? E se Tornasol continua nella sua ribellione come andrà a finire? Ormai nelle case si accendono le luci. Ci toglieranno la linea?». No, tranquilli, arriva ratta come un fulmine, la decisione di concedere al Palio tutto il tempo che occorre. Si sposterà il TG2 di quanto necessita. Ovvìa, per il Palio, codesto ed altro! Poi, però nessuno mi critichi se scrivo che il Palio è un enorme business, fatto di scommesse, posti al proscenio pagati in lingotti d'oro, soldi a palate concessi ai fantini per corrompersi l'un l'altro e naturalmente diritti televisivi la cui potenza è tale da spostare quello che, di solito è inamovibile se non per notizie che lo rendono «straordinario»: il Telegiornale. Però, mi sono divertito in questo Palio, dedicato alla Madonna di Provenzano probabilmente distratta, visto che già la vigilia sono cominciati i problemi con il maltempo che ha reso il tufo sulla piazza umido e ha fatto saltare metà delle prove. E poi, quel cavallo ribelle, quell'esordiente che scuoteva la testa, tentava di rampare, non rispondeva a niente e nessuno, quasi avesse uno strano presentimento. E sì che al suo comando non aveva un pisquano di fantino, ma tanto di Trecciolino, al secolo Luigi Bruschelli, senese di nascita e vincitore di ben tredici edizioni, secondo solo, per fama, al mitico Aceto. Ma Tornasol se ne frega di avere uno dei più blasonati (e criticati) fantini della storia del Palio. Per 90 minuti tiene in scacco il barbaresco (o barberesco come vorrebbero i puristi), ovvero l'addetto al benessere del cavallo contradaiolo a 360 gradi. La sua maschera è una fantasia di costernazione, rabbia e disperazione nel non riuscire a portare il suo «protetto» dentro ai canapi. Anche Trecciolino sembra sconcertato per un avvenimento che gli capita forse per la prima volta. Palii duri, dove le urla si confondono con le bestemmie (povera Madonna di Provenzano), sgarbi, pugni, calci, amicizie e rivalità che cambiano in due minuti a seconda dei soldi che passano di mano, il fantino senese ne ha viste di tutti i colori, ma che quel baio se ne frega del barbaresco e del fantino e allora ci prova il veterinario che, attaccato al cellulare, dialoga con il capitano della contrada cercando una via d'uscita, mentre il sole tramonta e la minaccia di spostare di un giorno la carriera si fa sempre più probabile. «Potrebbe anche provare a nerbare il cavallo», si lascia sfuggire la commentatrice che poi si riprende «ma forse è meglio di no». E Trecciolino saggiamente, invece di nerbare un cavallo già pesantemente stressato prova a scendere per vedere se si calma. Nulla da fare. Tornasol si erge come una forza superiore a barbareschi, capitani, veterinari e fantini. Fra quei canapi non ci entra per nessuna ragione al mondo e viene ritirato, vincendo moralmente il Palio, tra i moccoli dei suoi contradaioli, la benedizione della Madonna e gli applausi di chi sta dalla parte della ragione e non della forza.
PARLIAMO DELL’UMBRIA.
DI TERNI…Gip, a Terni sistema "contra legem". "Certezza" indagati che nessuna indagine poteva "scalfirlo", scrive "L'Ansa" il 3 maggio 2017. Gli indagati dell'operazione Spada - che ha portato ai domiciliari il sindaco Leopoldo di Girolamo e l'assessore Stefano Bucari, Pd - hanno "posto in essere una serie di concatenate condotte illecite creando di fatto un vero e proprio sistema contra legem di aggiudicazione di tutti i contratti pubblici relativi al Comune di Terni, quantomeno negli ultimi cinque anni, in aperta e insanabile violazione delle normative nazionali ed europee, sapendo di agire nella certezza che tale sistema c'era, c'è e ci sarà e che nessuna indagine o sussulto di legalità potrà far venire meno od anche solo scalfirlo": è quanto si legge nell'ordinanza di custodia cautelare del gip Federico Bona Galvagno. I due esponenti della Giunta risultano indagati insieme ad altre 25 persone, tra cui l'attuale vicesindaco (ora con funzioni di sindaco) Francesca Malafoglia e l'assessore Emilio Giacchetti, oltre a componenti delle precedenti giunte, dirigenti e funzionari comunali e rappresentanti delle cooperative sociali cittadine. E' un quadro con bandi di gara e lettere di invito a contrarre "cuciti addosso alle cooperative sociali", che hanno "garantito un monopolio perfetto nel settore degli appalti di servizi" sempre allo stesso raggruppamento di imprese quello con "protagonisti" la componente politica e tecnica del Comune di Terni. Un "sodalizio criminoso" secondo guardia di finanza e polizia che oggi hanno arrestato, ai domiciliari, il sindaco Leopoldo di Girolamo e l'assessore ai Lavori pubblici, Stefano Bucari, entrambi del Pd. Per due componenti delle cooperative sociali, Sandro Corsi, Actl, e Carlo Andreucci, Alis, è stato invece disposto il divieto temporaneo di esercizio dell'attività d'impresa. Associazione per delinquere finalizzata alla turbata libertà degli incanti e alla turbata libertà del procedimento di scelta del contraente il reato contestato al sindaco e all'assessore. Gli arresti domiciliari sarebbero legati al rischio di reiterazione del reato per alcuni appalti ancora in corso. Nella quarantina di pagine dell'ordinanza si fa riferimento anche ad un altro procedimento, ancora in corso davanti al gup, che vede Di Girolamo inquisito insieme ad altre 19 persone, per turbativa d'asta, per l'appalto dello smaltimento del percolato dell'ex discarica comunale di Villa Valle. Nel provvedimento odierno compaiono i nomi di una ventina di indagati a vario titolo, tra i quali diversi assessori delle Giunte guidata da Di Girolamo, ora e nel suo precedente mandato. Le ordinanze notificate oggi sarebbero quindi scaturite dall'esame dei documenti sequestrati il 17 novembre scorso con un blitz in municipio per l'indagine denominata "Spada" (come il palazzo che ospita l'ente). Sedici gli avvisi di garanzia notificati in quell'occasione nei confronti di amministratori (Bucari insieme all'assessore al Bilancio Vittorio Piacenti d'Ubaldi mentre il Di Girolamo scoprì in seguito di essere indagato), dirigenti e funzionari comunali, oltre a rappresentanti di cooperative (considerati "suggeritori e fruitori finali" delle presunte procedure irregolari). Al centro dell'inchiesta una serie di appalti di servizi pubblici, per la manutenzione del verde in città e nei cimiteri, la gestione dei servizi cimiteriali e di quelli turistici nell'area della cascata delle Marmore. Tutti "predisposti" - hanno rilevato gli investigatori - dall'attuale Giunta. Una "illecita gestione della cosa pubblica" tra il 2011 e il 2016, con un sistema "finalizzato a favorire le medesime cooperative sociali". Secondo lo scenario delineato in un comunicato del procuratore di Terni Alberto Liguori nei bandi sarebbero stati inseriti requisiti per favorirne alcune. Gli investigatori ritengono poi che ci sia stato un "illecito" frazionamento dell'importo d'asta in modo da eludere Codice degli appalti e norme comunitarie. Approdando a un "risultato previsto e concordato" cioè l'aggiudicazione dell'appalto sempre alle stesse cooperative sociali (Alis, Ultraservizi, Gea e Asso). Per il verde pubblico urbano - è emerso dagli accertamenti - l'appalto è stato gestito "senza gara aperta" dal 2008 al 2015 per costi superiori a 2 milioni e 700 mila euro a carico del Comune mentre per quello all'interno del cimitero comunale il contratto "ha subito 63 proroghe". "Non sembrano esserci grandi novità rispetto al quadro già emerso" il commento del difensore di Di Girolamo, l'avvocato Attilio Biancifiori.
"Questa volta c'è stato un procuratore che è andato fino in fondo. Ha smantellato un sistema di potere legato alle cooperative rosse. Queste cooperative a volte mangiano sugli immigrati, a volte sul verde pubblico. Spero ci siano sempre più procuratori liberi a Terni come a Catania". Così il segretario della Lega Nord Matteo Salvini.
Così il Pd e le coop baravano sugli appalti. L'accusa: "Sistema in piedi da cinque anni". Gare su misura per le imprese amiche, scrive Gianpaolo Iacobini, Giovedì 4/05/2017, su "Il Giornale". Le mani sulla città. Il giorno dopo, quello che segue gli arresti del sindaco Leopoldo Di Girolamo e del suo assessore ai Lavori pubblici Stefano Bucari, l'inchiesta che ha travolto la cittadina umbra restituisce l'immagine di una Terni prigioniera. Ostaggio, scrive il gip Federico Bona Galvagno nell'ordinanza cautelare, «di un sistema che quantomeno negli ultimi 5 anni» decideva «l'aggiudicazione di tutti i contratti pubblici», in barba alle leggi ma con serenità. Perché tanto «gli indagati sapevano di agire nella certezza che tale sistema c'era, c'è e ci sarà e che nessuna indagine o sussulto di legalità potrà farlo venire meno o anche solo scalfirlo». Insomma, dal 2011 a Palazzo Spada dal 2009 guidato dall'ex senatore Di Girolamo la tela degli affidamenti sarebbe stata tessuta dagli amministratori a proprio piacimento, col filo del Pd. Democratici il sindaco e l'assessore Bucari, del Pd (tra gli indagati) l'assessore all'ambiente e membro della segreteria regionale Emilio Giacchetti ed una sfilza di ex assessori. Vicini al partito i referenti delle coop «Actl» e «Alis», rispettivamente Sandro Corsi e Carlo Andreucci, che nel 2007 corsero in Umbria per l'assemblea nazionale a sostegno di Enrico Letta. Adesso i due si sono visti imporre il divieto temporaneo di esercizio dell'attività cooperativa perché, secondo la Procura, le coop da loro presiedute sarebbero state funzionali al «sistema». «L'importo d'asta veniva illecitamente frazionato sostiene il procuratore capo Alberto Liguori in modo da eludere le prescrizioni del codice degli appalti e dell'Anac», e in alcuni casi le indicazioni contrarie di funzionari comunali non allineati. E poi un valzer di proroghe o, al più, di «bandi fotografia»: «gli appalti venivano assegnati con procedura negoziata alle coop di tipo B preventivamente individuate, inserendo nel bando requisiti in possesso solo delle stesse». Così per il verde pubblico l'appalto è stato gestito senza gara dal 2008 al 2015, mentre per il servizio verde all'interno del cimitero comunale il contratto ha subito 63 proroghe dal 2011 al 2016. Più o meno allo stesso modo ritengono gli inquirenti - sarebbe andata per la refezione scolastica e i servizi turistici nell'area della cascata delle Marmore. Un meccanismo collaudato ed in moto perpetuo. Tanto da rendere necessaria l'adozione di misure cautelari per prevenire il pericolo di reiterazione dei reati: i sistemisti non si sarebbero fermati «neppure a seguito dell'attenzionamento da parte della polizia giudiziaria», osserva impietoso il gip richiamando il blitz che a novembre portò ai primi avvisi di garanzia e ad acquisire una vagonata di atti amministrativi. «Le misure adottate sono prive di presupposti oggettivi e soggettivi», obietta però l'avvocato Attilio Biancifiori, difensore di Di Girolamo. «Sulle ultime delibere per gli appalti aggiunge la giunta chiedeva il parere dell'Anac». Tranquillo e fiducioso si dice Massimo Proietti, legale di Andreucci: «Respingiamo tutte le accuse». In linea Roberto Spoldi, avvocato di Corsi: «Non mi sembra emergano elementi di ulteriore rilievo, sono sorpreso». Oggi gli interrogatori. E infuria la polemica politica. «Renzi, senti il clic di manette per il sindaco di Terni, dimettiti», dice il M5s di Terni. E il leader della Lega Matteo Salvini, che ieri è andato a Terni: «Finalmente come a Catania c'è una giustizia che scova il marcio».
Terni, indagini e colpe: la peggiore è politica. E’ stata messa la mordacchia allo sviluppo della città. E pensare che quello sviluppo invece avrebbero dovuto promuoverlo – Il corsivo di Walter Patalocco del 3 Maggio 2017 su "Umbria On". Colpevoli? Innocenti? Sta – come dicono tutti – alla Magistratura accertare se sono stati commessi reati. Quel che è certo – considerato ciò che viene fuori dalle indagini della Magistratura sul Comune di Terni – è che una colpa grave ce l’hanno. Una colpa che non ha rilevanza penale ma – peggio – politica. E’ stata messa la mordacchia allo sviluppo della città. E pensare che quello sviluppo invece avrebbero dovuto promuoverlo. Associazione a delinquere? Comportamenti criminali? Suvvia, basta guardarli: ogni mestiere richiede ormai la massima specializzazione. Anche per fare magheggi e giochetti bisogna essere preparati, professionali. Anche le associazioni a delinquere hanno bisogno di gente preparata che eviti frontali come quello capitato a Terni. Invece, in generale, ad uscirne mortificata è proprio la professionalità, la spinta alla specializzazione e all’innovazione, il sostegno all’ambizione, ad andare al massimo, a studiare. A entrare nella modernità, in sostanza. La preoccupazione principale, si scopre, è invece stata per anni quella di assicurare occupazione qualunque essa fosse, di proteggere in qualche modo l’impresa ternana, specie quella delle cooperative che, con i piedi al caldo, non si sono industriate per svilupparsi, specializzarsi, ammodernare impianti e processi produttivi, a richiedere di conseguenza manodopera qualificata. E così falce e martello, che tanti anni fa, erano il simbolo del progresso sociale, della solidarietà, del rinnovamento, della difesa dei più deboli e svantaggiati, dell’ambizione a un futuro di sviluppo, a Terni sono simboli ormai sviliti. La falce rimanda al taglio dell’erba delle aiuole. Avesse almeno mantenuto la ‘nobiltà’ di strumento che miete il grano. E il martello? Il martello è quello che si sono dati sulle dita gli amministratori ternani. Alcuni creando altri accettando supinamente rendendosene partecipi un sistema che è stato scambiato per la quadratura del cerchio: posti di lavoro nelle cooperative, voto al partito – moloch indiscusso per certuni, occasione di sbarcare egregiamente il lunario per altri – mantenimento del potere per altri lavori, crescita di “soci” e quindi dell’equipaggio e perciò dei remi in azione. E l’uomo campa. Ma il sistema città decade, declina. Sfalcio dell’erba, preparazione di piatti-mensa, cambi di pannolone agli anziani, spingitori di barelle nella sanità, e avanti di questo passo. Le ‘ambizioni’ si riducono a queste. E per soddisfarle serve conoscere chi ti immette nel sistema. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: una città dequalificata, con un grande futuro dietro le spalle. Altro che occhi alle pulci.
Di Girolamo – Bucari, storie e inchieste. Terni, il sindaco e l’assessore finiti agli arresti domiciliari: un breve riassunto delle vicende politiche e giudiziarie, scrive "Umbria On" il 2 Maggio 2017.
Leopoldo Di Girolamo (66 anni da compiere l’11 agosto) nel 1993 viene nominato segretario del Partito Democratico della Sinistra di Terni e nel 1997 segretario cittadino dei Democratici di Sinistra. Dal 1999 al 2001 è capogruppo dei Democratici di Sinistra in Consiglio Comunale a Terni, incarico che lascerà in quanto eletto in Senato. Il Senato Nella quattordicesima legislatura del Senato della Repubblica, dal 2001 al 2006, viene eletto all’interno delle liste DS-L’Ulivo e viene nominato membro della dodicesima Commissione permanente (Igiene e Sanità) e della Commissione speciale in materia d’infanzia e di minori e della Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani. Nella quindicesima legislatura, dal 2006 al 2008, Di Girolamo viene eletto come deputato con L’Ulivo e viene nominato membro della Commissione Affari Sociali e della Commissione bicamerale per l’infanzia. Dal 2008 al 2009 è stato inoltre senatore con il PD e membro della dodicesima Commissione permanente (Igiene e Sanità) e della Commissione parlamentare di inchiesta sull’efficacia e l’efficienza del Servizio sanitario nazionale. Sindaco di Terni Nel 2009 Di Girolamo annuncia la propria candidatura a sindaco di Terni, sostenuto dal Partito Democratico, dalla Federazione della Sinistra, da Sinistra Ecologia e Libertà, dall’Italia dei Valori, dal Partito Socialista Italiano, dal Partito Pensionati e dalla Lista Civica Progetto Terni-CittAperta. Nelle elezioni del 6 e 7 giugno 2009 ottiene il 49,42% delle preferenze al primo turno, per poi vincere il successivo ballottaggio del 21 e 22 giugno 2009 contro il candidato del centrodestra Antonio Baldassarre con il 53,01% delle preferenze. Una volta eletto sindaco, decide di dimettersi da parlamentare, venendo poi sostituito in Senato da Francesco Ferrante, primo delle liste dei non eletti del PD nella circoscrizione dell’Umbria. Il 3 maggio 2011 annuncia in consiglio comunale le proprie dimissioni dalla carica di sindaco, per contrasti con il gruppo consiliare di maggioranza legati al bilancio ed alle linee strategiche. Il 19 maggio, dopo un confronto con la sua maggioranza, ritira le proprie dimissioni ed il 25 maggio viene approvato in consiglio comunale un atto di indirizzo a sostegno della sua giunta e un documento di aggiornamento delle linee programmatiche. Secondo mandato Il 19 ottobre 2013 annuncia la sua intenzione di candidarsi per un secondo mandato come sindaco di Terni e il 7 marzo 2014 l’assemblea comunale del PD di Terni si esprime a favore della sua candidatura. Di Girolamo si presenterà alle elezioni con una coalizione composta da Partito Democratico, Sinistra Ecologia e Libertà e dalle Liste civiche CittAperta-Terni Dinamica, Progetto Terni, Terni dei Valori, e dalla lista Alleanza Democratici e Liberali. Alle elezioni del 25 maggio 2014 ottiene il 46,88% dei voti al primo turno e il 59,51% delle preferenze al secondo turno nel ballottaggio contro Paolo Crescimbeni, sostenuto dai partiti di centrodestra.
La Provincia di Terni Nell’ottobre 2014 Di Girolamo si candida alla guida della Provincia di Terni. Alle elezioni, riservate esclusivamente a consiglieri e sindaci dei comuni del territorio provinciale secondo la legge 56/2014, ottiene 181 voti contro i 94 di Giorgio Cocco, sindaco di Porano e viene eletto come presidente per 4 anni. Il 3 ottobre 2016 conferma la volontà di dimettersi dalla carica dopo il ricollocamento del personale dell’ente. Il 13 ottobre comunica le sue dimissioni da presidente della Provincia di Terni (formalizzate ufficialmente il 20 ottobre), a causa dei «pressanti impegni come sindaco di Terni» e «sulla base dei meccanismi per l’elezione dei presidenti delle Province e dei consigli provinciali». Il 10 novembre, scaduti i venti giorni previsti per legge per il ritiro delle dimissioni, il vice presidente Giampiero Lattanzi assume l’incarico di presidente ad interim. Caso ‘Swap’ Nel 2012 la Procura Regionale della Corte dei Conti dell’Umbria indaga Di Girolamo e sei assessori della sua giunta per aver autorizzato la rinegoziazione di alcuni contratti di finanza derivata (Swap). Tale decisione avrebbe creato un presunto danno erariale complessivo pari a 2 milioni e 700 mila euro, di cui circa 6.500 euro addebitati alla giunta Di Girolamo ed i restanti alla precedente giunta. Il 31 marzo 2015 la Corte dei Conti dell’Umbria dichiara l’inammissibilità degli atti di citazione da parte della Procura Regionale. Caso ‘Eventi valentiniani’ Nel 2013 riceve un avviso di garanzia, insieme ad altre 28 persone (tra cui alcuni assessori della sua giunta, dei consiglieri comunali di maggioranza e un dirigente comunale) dalla Procura della Repubblica di Terni. Secondo il pubblico ministero Di Girolamo e gli indagati avrebbero, attraverso una delibera che riconosceva alcuni debiti fuori bilancio tra cui alcuni legati agli eventi valentiniani svoltisi negli anni 2001 e 2002, commesso i reati di abuso d’ufficio e favoreggiamento personale nei confronti dell’ex assessore comunale al ramo. Nel novembre 2015 il GIP di Terni Simona Tordelli accoglie la richiesta di archiviazione dell’indagine formulata dal PM Elisabetta Massini. Presunto danno erariale per lavori urgenti Nel dicembre 2015 la Corte dei Conti dell’Umbria assolve Di Girolamo ed altre trentuno persone (tra cui ex assessori, consiglieri comunali ed un dirigente comunale) dall’accusa di aver causato un danno erariale alle casse comunali di 362 mila euro dovuto al fatto che alcuni fondi relativi ad un mutuo di 500 mila euro acceso presso la Cassa depositi e prestiti sarebbero stati utilizzati non solo per procedere ad interventi urgenti di riparazione di danni dovuti ad una alluvione che colpì la città di Terni nell’ottobre del 2010 ma anche per attività di manutenzione ordinaria, estranea all’evento. Presunta violazione delle direttive comunitarie nella gestione del percolato della discarica di Villa Valle Nel febbraio 2016 il sostituto procuratore della Repubblica di Terni Raffaele Iannella chiede il rinvio a giudizio di Di Girolamo, di 17 amministratori della sua giunta e di tre tecnici del Comune di Terni. Secondo il magistrato, gli indagati avrebbero svolto negli anni gare in economia per lo smaltimento del percolato nell’ex discarica di Villa Valle, violando le direttive comunitarie sulla gestione degli appalti pubblici per tutelare la libera concorrenza. L’udienza preliminare è stata fissata dal GUP di Terni Santoloci per il 12 ottobre dello stesso anno. Presunta associazione a delinquere e turbata libertà di incanti (‘Operazione Spada’) Il 13 gennaio 2017, a seguito di una inchiesta della Procura della Repubblica di Terni sugli appalti comunali, comunica con una nota ufficiale di aver ricevuto un avviso di proroga delle indagini per i presunti reati di associazione a delinquere e turbata libertà degli incanti. Il 2 maggio 2017 viene arrestato e sottoposto a detenzione domiciliare.
Stefano Bucari (44 anni da compiere il 19 novembre) è assessore ai lavori pubblici, puc, piano triennale opere pubbliche, protezione civile, infrastrutture, urbanistica, Peep, Paip, Prg, Suape, edilizia privata, toponomastica e progetto ‘Città della salute’ dal luglio 2014. Nella precedente legislastura (luglio 2009-giugno 2014) avevo svolto lo stesso ruolo per il welfare, servizi sociali, sanità pubblica, edilizia residenziale pubblica, volontariato e politiche per la famiglia; fu uno dei pochi ad essere riconfermato e alle amministrative del 2014 giunse primo con 804 preferenze. Diplomato nel 1992 all’istituto tecnico per Geometri, Bucari prima di entrare in politica avevo lavorato da impiegato nell’ufficio tecnico di Umbria Tpl e Mobilità S.p.A.. Bucari aveva ricevuto l’avviso di garanzia per l’indagine ‘Spada’. Anci e autonomie locali Nell’ottobre 2013 Bucari è stato nominato per l’Anci Umbria nel coordinamento nazionale servizio civile, mentre nel mese precedente c’era stata la nomina (Cal Umbria) come componente del gruppo di lavoro sul disegno di legge ‘Riordino e trasformazione delle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza (Ipab) e disciplina delle aziende pubbliche di servizi alla persona’. Dal novembre 2010 ad ottobre 2012 è stato rappresentante del consiglio delle autonomie locali dell’Umbria nel Coge, il Comitato di gestione fondo speciale per il volontariato nella Regione Umbria.
PARLIAMO DEL VENETO.
Negare, negare, sempre negare, scrive Alessia Pacini su “La Repubblica” il 12 giugno 2017. Alessia Pacini - Blogger e co-direttrice dell'associazione Cosa Vostra. L’esistenza della mafia in Veneto è negata dal momento stesso in cui l’organizzazione criminale vi mette piede. Succede a Venezia, a Verona, a Padova ma anche e soprattutto in provincia, dove la longa manus del crimine organizzato trova terreno fertile. È il caso di Caorle, città del litorale veneziano, che nel 2014 è al centro delle cronache per la denuncia nei confronti del sindaco Striuli, indagato dall’antimafia per falsa testimonianza con l’accusa di non voler rivelare di aver ricevuto minacce di morte, che causa la sospensione del comune dall’associazione antimafia Avviso Pubblico. Le intimidazioni arrivano in seguito alla decisione della giunta di modificare un intervento urbanistico contestato, frutto dell’accordo tra il sindaco precedente e Claudio Casella, imprenditore e immobiliarista. (La Nuova Venezia - 12 Novembre 2016). Nell’attesa che i polveroni si acquietino, fare spallucce sembra essere il modo migliore per negare che qualcosa stia succedendo sotto il cielo delle terre dei dogi. Eppure in Veneto le mafie agiscono. A parlare sono i fatti: a partire dagli Anni Ottanta sono molti gli arresti di boss mafiosi e altrettanti i collaboratori di giustizia che permettono di iniziare a sciogliere i nodi della rete di rapporti e malaffari tra imprenditori, politici e mafiosi, richiamati dal turismo e dal settore terziario in cui investire denaro riciclato. Una situazione ben nota alla Commissione parlamentare antimafia, la quale nel 1994 afferma che il turismo veneziano è parte di uno dei principali sistemi di riciclaggio. Eppure Giancarlo Galan, governatore del Veneto per 10 anni, dopo il blitz antimafia di Chioggia nel 2008 per la costruzione di uno scalo crocieristico, sostiene che la mafia in Veneto non esiste e accusa i giornalisti veneti di aver scritto articoli eccessivamente enfatizzanti. Pochi chilometri più distante, la situazione non cambia: siamo a Verona e Flavio Tosi, sindaco e candidato governatore della regione, accusa la commissione Antimafia di voler indirizzare il voto verso Zaia in seguito alla richiesta di Rosy Bindi, presidente dell'Antimafia, di poter accedere agli atti del Comune (Il Fatto Quotidiano, 1 Aprile 2015). Tosi che, un anno prima, è protagonista di un’inchiesta di Report che sottolinea i rapporti tra il sindaco e alcuni calabresi indagati per ‘ndrangheta. Tosi è accusato di gestione indebita di appalti, il vice-sindaco Casali è arrestato e le parole di Borghesi, presidente della Provincia di Verona, non potrebbero essere più chiare: «Invito tutti i veronesi ad avere il coraggio di conoscere quanto da anni vedono: legami tra precise realtà imprenditoriali e il potere amministrativo». Da anni, sottolinea Borghesi. Negli Anni Novanta il sindaco di San Pietro di Rosà rivela che molto tempo prima i camorristi Agizza agirono negli appalti pubblici. Erano già latitanti, ma lui non lo sapeva ancora: a segnalarglieli fu l’ex ministro degli interni Enzo Scotti (Narcomafie n.03/2006). Una mafia che si muove silenziosa, quella del Nord-Est, grazie ad istituzioni spesso acquiescenti e disposte a negare. «Pensando alla nostra realtà, a Padova e nel Veneto, il problema della corruzione non è una priorità», afferma Massimo Pavin, presidente di Confindustria Padova fino al 2015 (Il Mattino di Padova, 15 dicembre 2011). «Siamo sicuri che i nostri controlli funzionano e non c’è nessun sentore di mafia nella nostra città”, parola di Ivo Rossi, già sindaco reggente e candidato sindaco del centrosinistra nel 2014 (Il Mattino di Padova, 5 dicembre 2012). La mafia in Veneto non esiste.
DI VENEZIA… MASSOMAFIA A VENEZIA. SOTTRAZIONE DI FASCICOLI RISERVATI. LA DENUNCIA DI CARLO PALERMO. I FILONI VENETI DI INDAGINE RIMASTI INESPLORATI SULLE MASSOMAFIE. Scrive "Avvocati senza Frontiere". Dato il vivo dibattito sull’argomento e l’interesse che riveste per il raggiungimento delle verità nascoste pubblichiamo in calce il testo dell’emblematica lettera inviata al Ministro di Grazia e Giustizia, dall’ ex Giudice Istruttore Carlo Palermo. La missiva risale al 1996, ma è tuttora attuale, grave, nitida: un atto di accusa contro i vertici del sistema giudiziario veneziano e dello Stato, che non richiede commenti e mette in luce come la «massomafia», possa agire indisturbatamente dalla Sicilia al Veneto, facendo sparire addirittura interi fascicoli contenenti atti «top secret» dagli archivi riservati della Procura dello storico capoluogo veneto, dove tra acqua, terra e cielo, governa nei secoli l’illuminismo massonico, oscurato dalle sue stesse ombre, dalle collusioni politico-finanziarie, dalla sete di potere o, per usare un eufemismo, dalle contaminazioni con il “mondo profano”. Negli anni ’80, Carlo Palermo, quale Giudice Istruttore, partendo dalla Procura di Trento, condusse la grande inchiesta sul traffico di armi, droga, riciclaggio e finanziamenti illeciti, che i successivi eventi e stragi che hanno insanguinato importanti città anche del Nord e centro Italia, hanno messo in evidenza essere di decisiva importanza per dipanare quello che lo stesso Carlo Palermo definì come “quarto livello” [cioè il rapporto mafia, politica, affari, massoneria, servizi segreti], e che poi costò la vita a chi, dopo di lui, ne seguì coraggiosamente le orme, dal Sostituto Procuratore Rosario Livatino sino ai giudici Falcone e Borsellino. L’azione di Carlo Palermo fu bloccata infatti da martellanti ingerenze e persecuzioni politico-giudiziarie, durante il governo Craxi, sino all’attentato stragista di Pizzolungo, nel 1985, da cui si salvò a stento, riportando lesioni permanenti, ma che provocò la morte di Barbara Rizzo Asta e dei suoi due figli gemelli Giuseppe e Salvatore. In un intervista, pubblicata su Antimafia 2000, a riguardo, Carlo Palermo, ebbe a dichiarare: “Nell’85, scelsi di venire a Trapani per proseguire un’attività avviata 5 anni prima a Trento. L’attentato ritengo sia da inquadrare in un progetto preventivo”. In altre parole bisognava fermare con ogni mezzo quelle indagini scomode ai poteri occulti per cui prima di lui erano già stati trucidati dalla «massomafia» una serie di altri incorruttibili magistrati e funzionari dello Stato, tra cui Ciaccio Montaldo, del quale proseguì le indagini sul rapporto mafia-politica e i traffici internazionali di armi droga, con la regia di faccendieri e piduisti e la copertura di servizi segreti deviati. Sull’anomalo svolgimento delle indagini ed epilogo del caso, Carlo Palermo rimarcò la “contraddizione” legata al fatto che il processo a carico dei presunti esecutori materiali, svoltosi a poca distanza dai fatti, “sfociò nelle assoluzioni”, e che “la condanna dei presunti mandanti avvenne molti anni dopo e solo per le dichiarazioni rese da collaboratori di giustizia, questi ultimi neppure ascoltati organicamente”. Carlo Palermo ha poi ricordato che, all’epoca, “nonostante la chiedessi in continuazione, non vi era alcuna vigilanza sulla mia abitazione (una villetta al Villaggio Solare, in territorio di Valderice), né fu mai eseguita un’attività di bonifica lungo il percorso che facevo ogni mattina”. Per l’ex magistrato, “l’assenza di un controllo preventivo ha concorso in quest’attentato”. “Auspico che in un futuro prossimo – ha detto Carlo Palermo - maturino i tempi e le condizioni per una ricostruzione storica”. “E’ da 23 anni che inseguo determinate piste”. Come afferma Peppe Sini del Centro di Ricerca per la Pace di Viterbo, a proposito della missiva dell’ex magistrato al Ministro di Giustizia, rimasta priva di risposte concrete: «l’effetto su chi legge la lettera è folgorante: in queste poche righe si rivelano più cose sull’Italia e sul potere che in tanti ponderosi trattati». Per questo anche noi crediamo utile diffonderla ulteriormente: «come atto di solidarietà, come protesta contro l’ingiustizia, come impegno per la memoria e per la verità, come contributo alla lotta contro i poteri criminali ed i loro complici». Ecco il testo della lettera di Carlo Palermo pubblicata alla fine del suo libro “Il giudice”. (Reverdito Edizioni, Trento 1997). “Egregio Signor Ministro, il 30 ottobre scorso, su richiesta del Sostituto Procuratore Paolo Fortuna di Torre Annunziata, ho collaborato, a Venezia, alla ricerca di alcuni atti processuali facenti parte del fascicolo relativo al procedimento penale da me istruito a Trento in qualità di giudice istruttore negli anni 1980-84, e successivamente definito con sentenza dal Tribunale di Venezia. Nell’occasione – presente era un sottufficiale dei Carabinieri di Torre Annunziata, e (all’inizio) il Sost. Proc. di Venezia dott. Foiadelli, che ci ha condotto sul posto -, è stato possibile constatare che quel fascicolo, che in origine era di circa 300.000 pagine processuali tutte chiuse in faldoni catalogati, si trovava invece, di fatto (all’interno di uno scantinato contenente altri archivi processuali) letteralmente sfasciato, sventrato, mancante di almeno 2/3 dell’originale. Le carte residue si trovavano ammucchiate per terra e in scatoloni aperti, con evidenti specifiche mancanze di atti originali. Il dottor Foiadelli precisava che, tra questi atti, un’agenda del 1980 (da me sequestrata al direttore del Sismi, il generale Giuseppe Santovito), era stata legittimamente prelevata dal giudice istruttore di Roma Rosario Priore in connessione all’indagine da lui oggi condotta sulla strage di Ustica. Al di là di questo specifico rinvenimento, rimane il dato di fatto, constatabile ictu oculi, che il fascicolo in questione non esiste più: esistono solo poche e ormai inutilizzabili “carte” scompaginate, abbandonate e lasciate in luogo e modalità quasi incredibili, trattandosi pur sempre di atti processuali da custodire secondo modalità disciplinate dalla legge e suscettibili comunque di essere consultate a vari scopi. A parte l’amarezza personale per lo stato di questi incartamenti, che costituirono il prodotto di quattro anni di lavoro di magistratura e di organi di polizia giudiziaria, non ritengo di essere personalmente in grado di valutare quali iniziative forse dovrebbero essere attivate, se non altro, per recuperare quel che rimane di quel fascicolo, che probabilmente racchiudeva la chiave dell’attentato che subii a Trapani e che ancor oggi continua a offrire spunti utili ad indagini attuali della magistratura. Quanto sopra segnalo alla S. V. per quanto riterrà del caso. Un cordiale saluto. Trento 10 novembre 1996 Carlo Palermo
Venezia, tangenti per non pagare le tasse: 16 arresti. Coinvolti anche due ufficiali della guardia di finanza: uno è il comandante del Nucleo di polizia tributaria di Siracusa. Denaro e doni in cambio di sconti nelle sanzioni per evasioni fiscali. Sospesi due dipendenti dell'Agenzia Entrate, scrive il 16 giugno 2017 "La Repubblica". Quattordici persone in carcere e due ai domiciliari: è questo il risultato di un'indagine del nucleo di polizia tributaria di Venezia, che riguarda sei imprenditori, tre funzionari dell'Agenzia delle Entrate (uno dei quali in pensione), due commercialisti, due ufficiali della Guardia di finanza, un appartenente alla Commissione Tributaria Regionale per il Veneto e due dirigenti di un'azienda assicuratrice, coinvolti, "con diversi ruoli, in fatti di corruzione commessi al fine di sgonfiare gli importi delle imposte da pagare da parte di imprese già sottoposte a verifiche fiscali". Tra gli arrestati anche il comandante del Nucleo di polizia tributaria di Siracusa (dove comanda dall'agosto 2016), il tenente colonnello Massimo Nicchiniello. L'ufficiale è accusato di reati commessi quando era in servizio a Udine. L'indagine ha avuto origine da un filone collaterale dell'inchiesta sul Mose nella quale erano emersi comportamenti sospetti, tenuti da un dirigente dell'amministrazione finanziaria. Dalle indagini, fa sapere la guardia di finanza, sono emersi diversi episodi di corruzione. Nel primo caso, secondo la Gdf di Venezia, "è emerso un patto tra un imprenditore jesolano e un dirigente dell'Agenzie delle Entrate che, trasferito in un'altra regione, si è poi avvalso di un collega in servizio a Venezia". Secondo i finanzieri, le tangenti pagate ammontano a 140.000 euro, pagati in varie tranches tra il settembre 2016 ed il maggio 2017. "In cambio - spiega la Gdf - i due funzionari si sono adoperati per ridurre di circa l'80% le imposte dovute da tre società, con sede in provincia di Venezia, riconducibili all'imprenditore, che erano state sottoposte a verifica fiscale da altri funzionari della stessa Agenzia fiscale, passando così da 41 milioni di euro dell'originaria pretesa di gettito, a poco più di 8 milioni di euro effettivamente pagati". Un altro caso emerso dalle indagini, è quello di "due funzionari", riferisce la guardia di finanza, che si "sono accordati con un commercialista di Chioggia, per ricevere 50.000 euro, in cambio della promessa di 'accomodare' un accertamento tributario relativo ad un'impresa del posto". Nel corso della indagini, sono emerse le tracce di un secondo episodio corruttivo, il cui scopo era di ridimensionare l'esito di verifiche eseguite regolarmente, dal Nucleo di polizia tributaria di Venezia, nei confronti di una società immobiliare ed un'azienda di trasporti di Venezia. Sospesi dipendenti Agenzia Entrate. L'Agenzia delle Entrate, che sta coadiuvando l'autorità giudiziaria, ha comunicato di aver sospeso i dipendenti coinvolti nella vicenda. "Pur nella speranza che possano dimostrare la propria innocenza, l'Agenzia delle Entrate ha provveduto all'immediata sospensione dei dipendenti coinvolti nell'inchiesta ancora in servizio. - si legge -. Al fine di tutelare la dignità delle lavoratrici e dei lavoratori che operano onestamente e scrupolosamente, nonché al fine di garantire l'immagine dell'Agenzia delle entrate e l'indispensabile rapporto di fiducia che i contribuenti devono poter avere con essa, saranno avviate tutte le misure sanzionatorie e risarcitorie".
Sequestrato il tesoro di Felice Maniero, l'ex boss della mala del Brenta. Nel mirino della dda della procura di Venezia e della Polizia valutaria della Gdf due persone che hanno gestito il patrimonio accumulato da "faccia d'angelo". E' stato lo stesso Maniero a rivelarlo ai magistrati perché da un anno non riceveva più soldi dai suoi ex compari, scrive Fabio Tonacci il 17 gennaio 2017 su "La Repubblica". Il tesoro nascosto di “faccia d’angelo” era in Toscana. Ville, 27 macchine di lusso tra cui una Bentley Gt Cabrio, conti correnti intestati a prestanome. Il denaro che l’ex boss della Mala del Brenta Felice Maniero ha accumulato tra la fine degli anni Ottanta e il 1994 con il traffico di droga, le rapine e gli altri reati commessi da quella che una sentenza ha definito “un’associazione a delinquere di stampo mafioso” – sono circa 33 miliardi di vecchie lire - sono stati rintracciati dai pm di Venezia Paola Tonini e Giovanni Zorzi, che hanno chiesto e ottenuto il sequestro di un patrimonio pari a 17 milioni di euro. Le indagini sono nate grazie alle rivelazioni che lo stesso Maniero ha fatto ai magistrati, e hanno portato all’arresto di due toscani di Fucecchio: Riccardo di Cicco (61 anni), marito della sorella di Maniero, Noretta; Michele Brotini (49 anni), il promotore finanziario accusato di essere l’uomo che ha occultato i soldi dell’ex capo della malavita del Nord Est, riuscendo a trasferire contante in Svizzera sottoforma di investimenti finanziari. Felice Maniero in persona ha indicato agli inquirenti quali erano i beni acquistati con il suo denaro, perché temeva che Di Ciccio, dopo la separazione da Noretta, volesse tenersi tutto per sé. Il sistema, per come è stato ricostruito dai finanzieri della Polizia Valutaria e dai magistrati della Dda di Venezia, tutto sommato era assai semplice: Felice Maniero (è tornato in libertà il 23 agosto 2010 con una nuova identità e adesso lavora con il figlio in un’azienda che si occupa di depurazione di acque, come ha rivelato la trasmissione Report) ha passato i suoi 33 miliardi ai familiari e a Di Ciccio, i quali poi hanno “retrocesso” a Maniero almeno 6 miliardi in contanti. Una prassi durata, secondo l’accusa, almeno fino all’estate 2015. E dunque, il tesoro. I soldi della Mala del Brenta sono serviti a comprare un cavallo di razza, tre ville, una a Santa Croce sull’Arno, una Marina di Pietrasanta, una a Fucecchio (la residenza attuale di Riccardo Di Cicco). Ma è soprattutto la lista delle macchine a impressionare, perché gli investigatori sono risaliti a 27 vetture, quasi tutte di fascia alta: 8 Mercedes, una Bentley Gt cabrio, due Porsche Cayenne e una Porsche Carrera 911, due Bmw, e altre vetture. Infine, i conti correnti in Svizzera. Scrive il gip Alberto Scaramuzza, che ha firmato l’ordinanza di arresto: “Avevano acquistato strumenti finanziari di investimento allo stato non precisati, all’inizio allocati in istituti di credito della Repubblica Svizzera e, attualmente, afferenti a conti correnti riconducibili a Di Cicco”.
L’ultimo colpo di Maniero: «Ecco dov’è il mio tesoro e chi ha cercato di rubarlo». Sequestrati 17 milioni di beni. Arrestati l’ex cognato Di Cicco e un promotore finanziario. I verbali dell’ex boss della mafia del Brenta: «Di Cicco si è tenuto 25 miliardi di lire». Che ha investito in ville, Bentley e depositi. Le intercettazioni: «Incastriamo Felice», scrive il 17 gennaio 2017 Andrea Pasqualetto su "Il Corriere della Sera". L’ha rivelato lui stesso all’Antimafia di Venezia. Era il 12 marzo scorso e l’ex boss della mafia del Brenta Felice Maniero, oggi in libertà, iniziò a parlare davanti ai pm lagunari: «Voglio raccontare del denaro che ho guadagnato con i miei traffici illeciti e del suo successivo riciclaggio». Una bomba. Perché fino ad allora Faccia d’Angelo aveva sempre taciuto del tesoro nascosto. Certo, aveva incastrato i complici di vent’anni di rapine, sequestri, traffici illeciti di ogni ordine e grado. Ma del patrimonio mai una parola. Oggi fa due nomi: Riccardo Di Cicco, dentista fiorentino di Fucecchio ed ex marito della sorella Noretta, e Michele Brotini, promotore finanziario di Pisa, arrestati entrambi con l’accusa di riciclaggio. Sarebbe stato Di Cicco a gestire l’ingente patrimonio accumulato da Maniero negli anni della mala: circa 33 miliardi di lire dell’epoca. Attraverso mamma Lucia e la sorella Noretta, ora indagate, «devo avergli dato complessivamente 22 miliardi in tutto, fino al 1994», ha calcolato Maniero. Dopo il 1994, cioè dopo la sua evasione dal carcere di Padova e il definitivo arresto di Torino di cinque mesi dopo, gli fece avere «altri 11 miliardi», questi consegnati da uno dei suoi uomini più fidati, Giuliano Materazzo, e sempre da mamma Lucia direttamente nella mani di Di Cicco nella sua casa di Santa Croce sull’Arno. Sorpresa: mentre spostava il patrimonio collaborava con gli inquirenti, naturalmente senza mai dire alcunché. «Non l’ho fatto perché sarei rimasto al verde». Domanda: perché Maniero ha deciso di «cantare»? «Di Cicco mi ha restituito, dal 1995 e fino a 7-8 mesi fa, circa 5-6 miliardi... Improvvisamente mio cognato ha cominciato a dichiarare di non avere più la liquidità necessaria e alla fine ha rinunciato a vedermi. Nonostante i miei tentativi non sono più riuscito a contattarlo per avere indietro il denaro». E dunque è tutto chiaro: l’ex cognato non versava più e lui gliel’ha fatta pagare. Non avendo nulla da perdere, ha cioè denunciato colui che si è arricchito con i proventi della sua creatura criminale: la mala del Brenta. «Avendomi restituito circa 5-6 miliardi — ha aggiunto — ora ne gestisce sicuramente almeno 25-26. Tenuto conto anche delle perdite che ci sono state con la crisi del 2008». L’ex boss, accusato di autoriciclaggio, parla da finanziere: investimenti, depositi, milioni versati e restituiti e di scorrettezze. Come se fossero i suoi legittimi guadagni: era il grande bottino della banda del Brenta. Fin qui la sorprendente denuncia, corroborata da altri tre interrogatori, l’ultimo del 30 settembre scorso, nei quali aggiunge dettagli, come le borse di soldi che seppelliva in giardino. Gli uomini del Nucleo speciale di polizia valutaria di Roma hanno fatto il resto, scoprendo dove sono finiti i miliardi di lire nel corso degli anni: una villa a Lucca, una casa Fucecchio, un’altra a Pisa, sei Mercedes, tre Porsche, una Bentley, una Range Rover e poi 16 conti correnti (molti al Montepaschi), quattro cassette di sicurezza, 11 depositi e titoli, azioni, fondi. Tutti intestati a vari familiari e tutti sequestrati. Quanto a Brotini, per l’accusa e per il gip Alberto Scaramuzza è colui che ha partecipato a nascondere buona parte del patrimonio. Mentre la sorella Noretta sembrava tramare con l’ex marito contro lo stesso Maniero: «Incastrare! Lo vogliamo incastrare o no?», si scalda al telefono Di Cicco, intercettato. «Ah sì, certo», dice lei. Infine la madre, che l’ex boss aveva di recente convinto a confessare. Ma Noretta ha detto no, intimandole di tacere. Faccia d’angelo non l’ha digerita: «Guarda che se la mamma fa un’ora di carcere vengo giù e ti spacco la testa».
DI PADOVA… Preti a luci rosse a Padova. Don Andrea Conti e don Roberto Cavanazza: ecco cosa facevano, scrive "Blitz Quotidiano" il 30 gennaio 2017. Una canonica a luci rosse quella di don Andrea Contin nella parrocchia San Lazzaro di Padova. Giochi erotici, rapporti intimi in canonica, parrocchiane trattate come schiave sottomesse e preti come don Roberto Cavanazza che partecipavano ai festini organizzati. Don Contin è stato indagato per violenza privata e favoreggiamento della prostituzione, grazie al racconto della sua ex amante e alle prove trovate nella canonica, mentre don Cavanazza, padre spirituale di Belen Rodriguez, non ha avuto ripercussioni giudiziarie. Se il vescovo Cipolla ha detto di vergognarsi di loro, i fedeli restano sbigottiti nello scoprire i dettagli della vicenda. “Facevano ottime prediche”, questo il commento che risuona fuori dalla parrocchia. Alberto Mattioli sul quotidiano La Stampa ripercorre lo scandalo a luci rosse che ha colpito la Chiesa di Padova, dove l’insospettabile prete ha dato vita ad una canonica all’insegna della perdizione. Tutto inizia quando una delle parrocchiane denuncia don Andrea Contin accusandolo di averla picchiata e costretta a prostituirsi: “Don Contin nega le botte e la prostituzione, ma confessa la relazione con la signora e altre cinque donne. La perquisizione in canonica porta alla scoperta di un’attrezzatura pochissimo sacra: vibratori allineati in ordine di grandezza, fruste, catene, insomma un campionario di oggettistica fetish degno di un pornoshop (molto commentato in città un clamoroso stivalone bianco con tacco a spillo), più tanti video con acrobazie sessuali, anche, come dire?, di produzione propria. Coperti da etichette con nomi di Papi, compreso un «Luciani II» che lascia particolarmente perplessi. L’inchiesta sembra la sceneggiatura di un film porno. Don Contin avrebbe organizzato orge con trans, avrebbe messo annunci sui siti di incontri, avrebbe regalato alla sua amante-vittima un guinzaglio e una ciotola da animali, l’avrebbe costretta ad adescare i ragazzi dell’oratorio. E ci si limita solo ai dettagli riferibili”. Diversi i preti coinvolti, tra cui don Cavazzana, guida spirituale della showgirl argentina, che ammette di aver partecipato ma non è indagato. Lo scandalo monta e le donne coinvolte aumentano, oltre al numero di sacerdoti. Il vescovo Claudio Cipolla attacca i giornali, ma ai fedeli legge una lettera in cui si chiede perdono e ammette “mi vergogno”: “«Mi vergogno, e vorrei chiedere io stesso perdono per quelli che hanno attentato alla credibilità del nostro predicare». Poi ordina ai suoi preti di tacere e di «verificare» i loro comportamenti «soprattutto nel campo della vita affettiva, sessuale e della gestione dei soldi»”. Ma come hanno reagito i fedeli allo scandalo a luci rosse? C’è chi è divertito dalla vicenda e chi invece si dice scandalizzato e indignato: “Davanti a San Lazzaro, chiesona di periferia fra dignitose villette e orride sopraelevate, un’anziana parrocchiana è indignata: «Tutte calunnie di voi giornalisti, don Contin è una bravissima persona, ci metterei la mano sul fuoco». L’aspirante Giovanna d’Arco sarà un po’ ottimista, ma al bar accanto confermano che il reverendo era popolare e benvoluto: «Molto colto, molto intelligente, faceva delle ottime prediche». Ancora più plebiscitario il consenso per Cavazzana. Il sindaco di Rovolon, Maria Elena Sinigaglia, dichiara al «Corriere del Veneto» che «don Roberto ha ben operato e i cittadini hanno manifestato soddisfazione e affetto nei suoi confronti». Qualche cittadina, ancora di più. “Quanto a Casa Michelino, l’addetto chiude la porta in faccia ai giornalisti. E al telefono una cortese segretaria promette che certo, sì, farà richiamare «ma, capirà, siamo tutti molto provati da questa storia». Al Pedrocchi un’elegante signora attovagliata per il tè è più filosofa: «Cosa vòle che sia, l’hanno sempre fatto. Ma senza dirlo». Eh, già. Viene in mente un vecchio adagio di una Chiesa forse più ipocrita ma certamente più prudente: nisi caste, saltem caute. Se non casto, almeno cauto”.
Don Andrea, le sette amanti nella canonica degli scandali. Padova, il parroco precedente allontanato perché aveva un figlio, scrive il 4 gennaio 2017 Andrea Pasqualetto su "Il Corriere della Sera". Passi per la condanna di don Sante Sguotti, protagonista di una truffa alla Regione e dell’abbandono della tonaca dopo aver confessato di aver avuto un figlio da una parrocchiana; passi anche per il patteggiamento di don Lucio Sinigaglia che si sarebbe appropriato indebitamente dell’eredità di un farmacista destinata alla Caritas; ma quel che sta succedendo a San Lazzaro supera tutto e tutti e per molti fedeli non può passare, considerando poi che siamo nella Città del Santo, una delle mete planetarie della cristianità. Su questa parrocchia popolare di 1.500 anime, dove nel 2005 fu allontanato don Paolo Spoladore per un fatto di paternità, si sta infatti abbattendo uno scandalo sessuale senza precedenti. Al centro della vicenda il quarantanovenne parroco succeduto a Spoladore, don Andrea Contin, un ex avvocato approdato in tarda età al sacerdozio e accusato ora dalla Procura di Padova di tre reati non proprio leggeri: violenza privata, favoreggiamento-sfruttamento della prostituzione e pure porto abusivo d’armi. Tutto nasce dalla denuncia di una madre di famiglia di 49 anni che lo scorso 6 dicembre si è sfogata così davanti al maresciallo dei carabinieri: «Ho una storia d’amore con lui dal 2012, ma è diventata così violenta che sono finita all’ospedale». E il referto lo dimostrerebbe. Ha raccontato di rapporti sessuali anomali in canonica, di incontri con altri uomini organizzati da lui anche all’estero, in Croazia, nel villaggio francese di Cap d’Adge, luogo di scambisti, di aver avuto la brutta sensazione di essere entrata in un giro di prostituzione anche perché uno di questi partner occasionali le offriva del denaro; e poi le minacce subite: con un coltello, con la pistola e la ritorsione di un filmino hard da far vedere se solo avesse detto qualcosa. «Io non stavo cercando uomini o relazioni, ero impegnata in parrocchia con il volontariato». Si dirà: esagerazioni. Può essere, ma di certo quel che hanno scoperto durante una perquisizione gli investigatori, coordinati dal procuratore Matteo Stuccilli e dal pm Roberto Piccione, è sorprendente. In una stanzetta chiusa a chiave all’ultimo piano della canonica, un campionario da sexy shop: stivali di gomma col tacco, collari, bustini, manette, corsetti e sex toys. Il tutto accanto a un crocefisso riverso. Il profano più estremo e il sacro svilito. Ma la cosa più importante dal punto di vista investigativo è stata un’altra: l’agenda cartacea di don Andrea. Perché lì dentro ci sono i nomi di molte donne. Contattate subito dai carabinieri, ne esce un quadro del tutto inatteso: sei di loro, inconsapevoli delle altre, hanno confessato di aver avuto rapporti con il prete. Consenzienti. In un solo caso poco desiderati. Ma le audizioni delle signore sono in corso e dunque i numeri potrebbero cambiare. Emerge un tratto comune alle varie storie: tutte le amanti dicono che il primo approccio con il sacerdote è avvenuto in un momento di crisi coniugale o di debolezza. Ragione per cui San Lazzaro è diventata per don Andrea un terreno minato. «Penso che i mariti siano molto nervosi», traduce la ragazza del panificio «da Ivone», di fronte alla chiesa. Nel frattempo l’indagato ha prudentemente deciso di levare le ancore. Gliel’ha chiesto il vescovo di Padova, monsignor Claudio Cipolla, al quale ha dato le dimissioni. «Non voglio fare alcun commento», ha tagliato corto l’avvocato Michele Godina, suo difensore. La Curia di Padova era al corrente della situazione. «In seguito ad alcune segnalazioni avevamo avviato un’indagine “previa”, come dicono i canoni 1717 e 1718 del diritto canonico», ha spiegato la Diocesi che però ha rifiutato di consegnare al pm il fascicolo. Invoca i Patti Lateranensi, cioè gli accordi fra Stato e Chiesa che prevedono la trasmissione degli atti solo con il consenso delle persone coinvolte. E la parrocchiana coinvolta non ci sta a uscire allo scoperto: «Per me era una storia d’amore».
Padova, la canonica maledetta: Don Andrea Contin non è l'unico prete ad aver dato scandalo, scrive “Libero Quotidiano" il 5 gennaio 2017. Sembra che la canonica di Padova dove, fino a poco tempo fa, esercitava la sua missione don Andrea Contin, il prete sporcaccione, sia stata segnata dall'esercizio di altri sacerdoti "discutibili". Il suo predecessore, Don Sante Sguotti, per esempio, è stato colpevole di una truffa ai danni della Regione e ha abbandonato la tonaca dopo aver confessato di aver avuto un figlio da una parrocchiana. Don Lucio Sinigaglia invece si sarebbe appropriato indebitamente dell'eredità di un farmacista destinato alla Caritas e ancora, don Paolo Spoladore fu allontanato per una attribuita paternità. Quest'ultimo scandalo, a sfondo sessuale, sembra proprio essere la cima di una serie di scandali che hanno visto come protagonista proprio la canonica di San Lazzaro, la Città del Santo, una delle mete più visitate dalla cristianità. L'ultima vicenda, forse la più grave, vede il parroco Andrea Contin, un ex avvocato che ha abbracciato tardi la vocazione sacerdotale, accusato di violenza privata, favoreggiamento-sfruttamento della prostituzione e porto abusivo di armi. Si è fatta luce sulle illecite abitudini del parroco quando è arrivata ai carabinieri, il 6 dicembre, la denuncia di una madre di famiglia di 49 anni, che aveva intrecciato un relazione d'amore con il suddetto sacerdote, trasformatasi poi in un rapporto talmente violento, da farla finire in ospedale. E non solo, la donna ha raccontato anche di strani rapporti sessuali in canonica, insieme ad altri uomini, incontrati poi anche all'estero, in Croazia, nel villaggio francese di Cap d'Adge e in luoghi di scambisti dove aveva avuto la brutta sensazione di essere scambiata per una prostituta, dato che uno di questi partner occasionali gli aveva offerto volentieri dei soldi. Ai rapporti sessuali poi si sono aggiunte anche le minacce: con un coltello, con una pistola e infine la ritorsione di un film hard per indurla al silenzio. La storia raccontata dalla donna ha avuto poi conferma quando gli investigatori, durante una perquisizione, hanno scoperto "la stanza dei giochi" del prete in cui, chiusi sotto chiavi, erano ben conservata oggettistica varia degna di un sexy shop (stivali di gomma col tacco, collari, bustini, manette, corsetti), accanto ad sacrilego crocifisso rovesciato. L'agenda di don Contin infine non ha fatto altro che aggiungere altri particolari alla vergognosa vicenda: una lista con i nomi di molte donne, sei di loro, interrogate dalle forze dell'ordine, hanno ammesso di aver avuto rapporti con il prete, consenzienti, in un solo caso poco voluti. Una costante sembra accomunare le donne sedotte dal prete, tutte affermano infatti che il primo approccio è avvenuto in un momento di crisi coniugale. Per questo motivo, il prete indagato, che nel frattempo ha lasciato la tonaca, ha abbandonato in fretta e furia anche il paese, sicuramente terrorizzato dall'idea subire qualche ripercussione dai mariti, traditi e arrabbiati. Alla curia di Padova non erano nuove le accuse mosse al sacerdote, come scrive il Corriere, la Diocesi ha spiegato che "in seguito ad alcune segnalazioni avevamo avviato un’indagine “previa”, come dicono i canoni 1717 e 1718 del diritto canonico". Il fascicolo però rimane blindato, la Diocesi, invocando i Patti Lateranensi, si è rifiutata di consegnare il fascicolo al pm.
Appuntamenti hot e numeri telefonici. Spunta l’agenda segreta di don Andrea. L’ex parroco di San Lazzaro si segnava tutto: l’harem composto da una ventina di donne, scrive il 6 gennaio 2017 Nicola Munaro su "Il Corriere della Sera". Don Andrea si segnava ogni cosa: nomi, numeri di telefono, appuntamenti. Tutto scritto a penna, in modo meticoloso, nero su bianco, in un’agenda personale che dal 21 dicembre è in mano ai carabinieri della stazione di Padova principale e al sostituto procuratore Roberto Piccione. Potrebbe essere proprio quell’agenda il bandolo dell’intera matassa, il faro che gli inquirenti sono destinati a seguire per districarsi nell’inchiesta aperta su don Andrea Contin, 48 anni, ex parroco di San Lazzaro, con le accuse di violenza privata e favoreggiamento della prostituzione. Perché in quelle pagine ci sono nomi e cognomi delle donne (circa un ventina) che costituivano l’harem del sacerdote, perquisito in canonica a quattro giorni da Natale e ora in una comunità protetta dopo aver rimesso il mandato nella mani del vescovo Claudio e aver passato alcuni giorni all’estero, lontano da tutto. Che quell’agendina sia fondamentale per le indagini lo hanno pensato anche i militari del maresciallo Alberto di Cunzolo: è da lì che i carabinieri – con delega del pm – sono partiti per sentire come persone informate sui fatti sette donne, tutte parrocchiane di San Lazzaro e tutte accomunate dall’aver avuto una relazione sessuale con l’ex parroco, arrivato alla guida della comunità di Padova Est una decina d’anni fa per allontanare il clamore provocato dall’ex parroco, don Paolo Spoladore (un figlio mai riconosciuto e una casa editrice da molti zeri). Invece il destino sembra aver messo don Andrea su binari molto simili a quelli del predecessore. Gli interrogatori che i carabinieri stanno portando avanti in questi giorni infatti arrivano tutti a un’identica conclusione. Ciascuna delle sette parrocchiane sentite ha ammesso il sesso con il prete e le orge che lui proponeva loro, senza però mai obbligarle a partecipare, come aveva raccontato già a metà dicembre una quarantasettenne che, confessando la liaison con il sacerdote, aveva detto di aver interrotto il rapporto quando lui le aveva chiesto di partecipare ad un sesso di gruppo in canonica. Chi invece era stata obbligata a prendere parte agli incontri e venduta per soldi (a suo dire) è la quarantanovenne che il 6 dicembre scorso si è fatta forza e ai carabinieri ha presentato una denuncia di otto pagine contro don Andrea accusandolo – lei, che di lui si era innamorata - di averla messa in vendita ad altri uomini per soldi e di averla minacciata con un coltello da cucina e di mettere sul web le sue foto nuda, se lei l’avesse lasciato. In allegato alla denuncia anche due referti medici da 21 giorni di prognosi per lesioni compatibili con pugni, costrizioni da catene e sesso violento, decine di messaggi via WhatsApp in cui don Andrea le si rivolgeva con un linguaggio triviale e a sfondo erotico. Ed è da quell’accusa di averla venduta per soldi ad altri uomini che nasce l’altro corno dell’indagine, quello che i carabinieri stanno portando avanti setacciando i siti per adulti (Scambiomoglie.it, Annunci69.it e Bakeka.it) dove don Andrea, usando uno pseudonimo, avrebbe offerto la quarantanovenne ad altri uomini. I militari stanno controllando gli annunci per scoprire chi ha risposto, risalire alle loro identità e poi interrogarli. Una sola la domanda fondamentale: don Andrea chiedeva soldi per gli incontri al primo piano della canonica di San Lazzaro? Dove dietro una porta chiusa a chiave si celava una stanza degna di un set da film porno con catene, manette, stivali in gomma e tacco a spillo, falli di diverse dimensioni. Il sospetto è che il giro di denaro ci fosse, eccome. Per questo anche i conti dell’ex parroco sono sotto indagine.
DI…VICENZA. Il giudice berico imbottito di droga e altre facezie della Vicenza "giudiziaria", scrive martedì 8 agosto 2017 Marco Milioni. Chi sarà mai il giudice delle immagini preliminari, ovvero il gip, di Vicenza che anni fa fu pizzicato imbottito di droga e in qualche modo salvato dagli artigli della legge? A chi si riferisce il giornalista Angelo Di Natale nell'articolo che firma oggi per Alganews? Per caso questo magistrato è ancora oggi in servizio a Vicenza? Per caso in questi mesi avrà avuto a che fare con eclatanti inchieste penali tuttora in corso? Per caso si tratta d'un magistrato le cui sorti, anche personalmente, hanno incrociato quelle di qualche big o ex big del mondo bancario veneto? Per caso le carte sanitarie che lo riguardano sono custodite presso gli archivi di qualche Ulss vicentina e magari sono transitate in forma di copia nelle casseforti di qualche politico o di qualche altro potentissimo big locale? E chi saranno mai i notabili veneti, di cui si parla nel servizio, che possono aver usato queste informazioni scottanti in modo da distorcere l'ordinario corso della giustizia? E ancora, quanti giornaloni della carta stampata veneta riprenderanno a breve la notizia?
VICENZA, SCEMPIO EDILIZIO E AFFARI PRIVATI ALL’OMBRA DEL NUOVO TRIBUNALE, MA VIENE PERSEGUITO CHI OSA PARLARE DI ABUSI, scrive l'8 agosto 2017 Angelo Di Natale, su "Alga News". Non lo chiameremo abuso edilizio perché se le autorità preposte hanno rilasciato le concessioni previste, abuso non è. Lo chiameremo semplicemente “scempio”, stupro del territorio con tanto di bollo del Comune e nel dispregio di tutte le norme – costituzionali, ordinarie, di settore, regionali, tecniche e amministrative – che avrebbero dovuto condurre l’istituzione competente a fare tutt’altro e ben altro. Parliamo dell’affaire-Cotorossi a Vicenza, ovvero il nuovo tribunale (non si dica “abusivo”, per carità!) edificato su una colossale speculazione affaristica in danno del bene pubblico, della città resa bella ed elegante dal Palladio, della sicurezza del territorio (l’edificio sorge laddove non potrebbe, tra due fiumi a rischio esondazione), a vantaggio esclusivo degli interessi di potenti gruppi privati che da quelle parti fanno da decenni il bello e il cattivo tempo, nella distrazione e forse grazie alla contiguità con organismi di controllo, vigilanza e garanzia. Il caso è trattato in questi giorni da diversi organi d’informazione ma preferiamo richiamare innanzitutto qualche precedente lontano, noto all’esperienza diretta di chi scrive, per coglierne meglio il senso e focalizzarne la portata. Negli anni 2003 e 2004 denunciai in diversi servizi, per l’emittente All-news del Triveneto Canale 68, lo scandalo del “Cotorossi”, un colossale sacco edilizio in favore di privati (tra i quali società berlusconiane e la Maltauro, di recente coinvolta nelle tangenti Expo e uscitane con il patteggiamento del suo responsabile) in danno della città di Vicenza per diverse centinaia di milioni di euro e con gravissimi rischi, come segnalato, per la sicurezza idrogeologica. Allora i lavori non erano iniziati ed era possibile bloccare tutto. Ma il problema non era solo il sindaco di Vicenza, berlusconiano fervente, al punto da avere ricevuto l’onore dall’allora “Cavaliere” di essere suo testimone nelle nozze celebrate con l’architetta Lorella Bressanello. In effetti la sposa in qualità di architetto lavorava per uno dei più grossi cementificatori della zona quando riesce ad “agganciare” il primo cittadino, vedovo per la morte prematura della moglie, e lo porta, riuscendo ad ottenere dal sindaco-consorte un ribaltone radicale di posizione politico-amministrativa, sulla linea degli interessi di quell’imprenditore del cemento. Interessi che al costruttore erano stati serviti su un piatto d’argento dalla precedente amministrazione la cui maggioranza però era andata in crisi e perduto le successive elezioni, passando all’opposizione, mentre l’amministrazione succeduta nel 1998 e guidata, per dieci anni, da quel sindaco, in precedenza quando era minoranza, aveva assunto una posizione totalmente contraria. Ma gli affari di cuore e i fiori d’arancio, ma ancor prima la frequentazione e il “fidanzamento”, furono più forti di ogni remora politica: per l’architetta che da lì a poco sarebbe diventata il vero dominus dell’urbanistica comunale, missione pienamente riuscita! Il problema era anche, e forse soprattutto, la Procura, perfettamente integrata nel circuito di interessi e affari privati che a Vicenza riuniva, come in un corpo solo, politica dominante, burocrazia, economia, finanza, banche, editoria, magistratura. Allora i lavori non erano iniziati, ma non c’era alcuna possibilità – eppure nel 1998 il centrodestra subentra al centrosinistra nel governo del Comune e nel 2008 succede il contrario – che ciò non accadesse. Mi sembrò stupefacente come gli stessi partiti e gruppi politici, dall’opposizione dicessero una cosa e, divenuti maggioranza, facessero tutt’altro: in ogni caso, sempre e comunque, gli interessi privatissimi dei signori del cemento. Ricordo pochissimi consiglieri comunali sempre coerenti e dalla parte della città: l’unico nome che mi sovviene è quello di Franca Equizi, eletta nelle file della Lega e poi espulsa per le sue posizioni indipendenti e l’indisponibilità ad inchinarsi agli interessi privati dei signori del cemento. A maggio 2004 lasciai Vicenza per impegni professionali altrove, con la consapevolezza che non ci sarebbe stato niente da fare fino a quando non si fosse messo mano seriamente in quel verminaio che erano la Procura ed altri settori non secondari degli uffici giudiziari del Tribunale. Tra le altre cose avevo raccontato il caso incredibile di un gip sorpreso con una grande quantità di droga in auto, salvato e messo sotto tutela dai manovratori di quegli interessi, pronti ad usarlo all’occorrenza. E ho visto bene più volte come l’abbiano usato! Di recente, a scandalo “Popolare di Vicenza” deflagrato, le cronache hanno svelato la storia, non meno incredibile, di un altro giudice, in questo caso un gip per bene che ebbi modo di conoscere direttamente, Cecilia Carreri, fatta fuori perché, nel 2005, dodici anni fa (io ero già andato via) si era opposta con solidissime motivazioni all’archiviazione di un procedimento penale contro la Banca Popolare di Vicenza del “pregiudicato” Zonin: si, già allora e da tempo, l’imprenditore era tecnicamente un cittadino pregiudicato per frode commerciale commessa nella produzione dei vini, ma in tutto il tempo di lavoro in Veneto ero stato il solo a scriverlo e a dirlo, mentre tutti lo ossequiavano! Se a Cecilia Carreri non avessero impedito – vessandola in tutti i modi fin quasi alla morte fisica e psicologica – di fare il suo dovere, dieci anni prima Zonin sarebbe stato smascherato e fermato in tempo, prima che la sua gestione depredasse centinaia di migliaia di famiglie di oltre dieci miliardi di euro e i contribuenti italiani del doppio. E invece tutto ciò è avvenuto anche per la complicità di una rete di affaristi e manovratori all’interno perfino delle più alte istituzioni di garanzia come settori della magistratura, sicché oggi quel banchiere, intestati i suoi beni ai familiari, con le loro carte di credito può circolare libero a Milano e fare shopping in via Montenapoleone. E dire che egli ha prodotto un danno economico e sociale infinitamente superiore a quello di cui in un’intera vita sarebbero contemporaneamente e complessivamente capaci tutti i ladri, i rapinatori e gli scippatori di strada in azione nel nostro Paese! Questa è l’Italia, bellezza, e tu – cittadino per bene – non puoi farci niente! La vicenda torna in questi giorni d’attualità perché alcuni ambientalisti sono stati trascinati in tribunale con richieste di risarcimento milionarie. Da vittime a carnefici – come scrive “la repubblica” il 5 agosto – in un batter d’occhio per aver denunciato una speculazione che ha pochi eguali in Italia. E con una procura che, in buona sostanza, sta indagando su se stessa o meglio sull’edificio che la ospita. È una storia lunga 15 anni quella dell’operazione Borgo Berga, a poche centinaia di metri da Villa Rotonda del Palladio, patrimonio dell’Unesco. Una vicenda che porta in sé più di un paradosso, di cui si trova traccia già nei primi anni del 2000 degli atti dell’amministrazione di centrodestra guidata da Enrico Hullweck. A suo tempo l’area era occupata dallo stabilimento ormai dismesso della famiglia Rossi. Una fabbrica storica poi acquisita da una delle società della galassia berlusconiana e successivamente ceduta a una cordata guidata dalla Maltauro (società di costruzioni nota ai pm di Milano per alcune vicende legate all’Expo). In quell’area il Comune di Vicenza decide di realizzare il nuovo Tribunale e in cambio i privati ottengono le autorizzazioni ad edificare su oltre centomila metri quadrati di terreno, con volumi e altezze imponenti, la cessione di aree pubbliche per una superficie doppia di quella ricevuta dal comune e un bel finanziamento per le opere di urbanizzazione. Nel 2006 – ricostruisce ancora “la repubblica” – i lavori partono con la demolizione del vecchio stabilimento, nonostante le prescrizioni della Soprintendenza. Arrivano le prime denunce da parte di Legambiente, Italia Nostra e del Comitato contro gli abusi edilizi. E arriva la prima inchiesta archiviata in tempi record. Strano, visto che gli edifici di Tribunale, attività commerciali e palazzoni di appartamenti vengono tirati su a ridosso di due fiumi, Retrone e Bacchiglione (nell’area storicamente sorgeva il porto fluviale). Nel 2008 cambia l’amministrazione, e nonostante da consigliere regionale avesse tuonato contro il Tribunale (definendolo “un mostro”), il nuovo sindaco Achille Variati del Pd fa approvare una variante urbanistica che di fatto conferma il vecchio piano. Nel 2013 arrivano nuove denunce degli ambientalisti e la magistratura è costretta a indagare nuovamente su casa propria. Fino al 2014 tutto tace e l’inchiesta resta a carico di ignoti, l’anno dopo viene indagato solo l’ex dirigente all’urbanista del Comune. Pochi mesi e si registra un sequestro preventivo chiesto dal pm Antonio Cappelleri e accolto dal Gip Massimo Gerace. Viene contestato il reato di lottizzazione abusiva dell’intera area, ma il sequestro riguarda soltanto uno dei lotti. Il giudice scrive nero su bianco che “sussiste l’illegittimità del piano di lottizzazione e dunque dei permessi a costruire rilasciati e da rilasciare”. Mancano “gli elaborati sulle zone sismiche, manca il rispetto delle prescrizioni della sovrintendenza, mancano valutazioni ambientali” e altro ancora. Qualcosa sembra muoversi. Sembra, perché in realtà non vengono sequestrati gli edifici realizzati o in via di realizzazione, ma solo un lotto completamente libero. Dunque si continua a costruire, a completare, a vendere o affittare unità immobiliari. Il tutto perché il giudice ritiene “i volumi in essere costitutivi di fatti compiuti non più modificabili”. Insomma, ormai l’abuso è fatto. La procura indaga, e si va avanti. Gli ambientalisti scrivono che i permessi a costruire sono scaduti, e si va comunque avanti. Arriva anche l’Anticorruzione di Raffaele Cantone e un’indagine della Corte dei Conti, e si continua a lavorare. Anzi di più. I mezzi di cantiere, che operano nelle aree libere, vengono autorizzati dalla magistratura ad attraversare il lotto sequestrato. L’Enac mette in discussione gli accordi tra Comune e privati che conterrebbero uno squilibrio nei profitti del privato a danno dell’amministrazione, quantificato in una decina di milioni di euro. Inoltre, le opere di urbanizzazione si sarebbero dovute effettuare con una gara pubblica e non, com’è accaduto senza bando. La Corte dei Conti apre un fascicolo per danno erariale, ma nulla sembra fermare l’operazione. Intanto la Procura chiede il sequestro dell’intera area, ma questa volta il gip dice di no. Al Riesame – si legge ancora su “la repubblica” – il pm si concentra sui danni economici, molto meno sulle relazioni dei consulenti e degli investigatori relative al danno ambientale, e il ricorso viene respinto. Ora si attende la decisione della Cassazione. Intanto gli ambientalisti si rivolgono alla Corte d’Appello chiedendo la revoca dell’indagine e al Csm con un esposto per chiedere conto del lavoro di Cappellieri. Nessuna risposta. Tutto tace e i lavori vanno avanti. O meglio quasi tutto tace. Perché se dell’indagine non si ha più notizia, sono già arrivate le citazioni in giudizio per i denuncianti da parte della “Cotorossi” che chiede in sede civile 3 milioni per danni e diffamazione. In questo caso l’udienza è fissata per dicembre. Da vittime a carnefici per averlo chiamato “abuso”.
“Guai giudiziari per Falcone, Salvarani, Scarpellini e Tolettini”, scrive Marco Milioni su “la Sberla”, l'11 marzo 2209. “Una raffica di denunce e un ponderoso esposto indirizzato alla procura della repubblica di Trento contro alcuni big della magistratura e delle forze dell’ordine del Vicentino. A redigere il tutto Angelo Di Natale, ex collaboratore di Canale 68 Veneto, oggi tra i giornalisti di punta della Rai siciliana. La vicenda cui fa riferimento Di Natale è collegata in modo indiretto ad una serie di scoop che lo stesso giornalista firmò per Canale 68 nel 2004. Reportage nei quali si parlava di abusi commessi a danno di minori ad opera di sacerdoti in una parrocchia di Thiene, nel vicentino. Direttamente la vicenda è collegata invece al libro Mani D’Angelo che Marco Milioni (estensore de LaSberla.net) pubblicò nel 2006. Nel libro si facevano le chiose al comportamento degli inquirenti seguito agli scoop di Canale 68. Per quel libro Di Natale e Milioni sono stati querelati per diffamazione da Giorgio Falcone (attuale pm presso la procura berica) e da Giovanni Scarpellini, all’epoca dei fatti comandante dei carabinieri di Thiene e ora comandante dei vigili urbani del medesimo comune. Il processo a carico dei due ha appurato che le indagini furono insabbiate, tanto che Di Natale dopo l’assoluzione definitiva è partito al contrattacco. Ieri sono stati denunciati infatti tra gli altri: il sostituto procuratore Falcone per il reato di calunnia; il procuratore Ivano Nelson Salvarani per i reati di falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale e di rifiuto di atti d’ufficio; l’ex capitano dei carabinieri Scarpellini per i reati di calunnia, di falsa testimonianza e di subornazione; il sovrintendente di polizia Flavio Bellossi per il reato di falsa testimonianza; il giornalista Ivano Tolettini de Il Giornale di Vicenza per il reato di rivelazione e utilizzazione di segreti d’ufficio. A dare la notizia è stato lo stesso Di Natale (nella foto) il quale in merito alla vicenda ha diramato oggi una nota breve e una più articolata unitamente all’intero testo dell’esposto.
Il tribunale di Vicenza, nuovo porto delle nebbie. Prima non si è occupata del caso BpVi, ora dichiara la sua incompetenza territoriale e spedisce gli atti a Milano, che a sua volta ha passato le carte alla Cassazione, scrive Paolo Madron su "Lettera 43" l'8 giugno 2017. La giustizia italiana ha un nuovo porto delle nebbie. No, non è più il tribunale di Roma, in passato famoso per la sua propensione a insabbiare. È quello di Vicenza che, di fronte al disastro della locale Popolare (siccome bisogna essere trasparenti con i lettori, azionista minore di questo giornale) ha girato la testa dall’altra parte. E quando qualcuno dei suoi magistrati pensò invece di non girarla, il tracollo era di là da venire ma già se ne intuiva qualche indizio, si pensò bene di risolvere il problema alla radice trasferendo l’impicciona, visto che era anche una discreta alpinista, nella ridente Cortina. Sto parlando del gip Cecilia Carreri, che nel 2002 respinse la richiesta di archiviazione delle indagini nei confronti di Gianni Zonin, per oltre vent’anni incontrastato dominus della banca. Da allora nel tribunale della città del Palladio (il nuovo è un obbrobrio urban paesaggistico che non ha eguali) quello della Popolare di Vicenza è diventato un non luogo a procedere. Fino a due anni fa, quando la Bce squarciò il velo mostrando tutto il marcio che allignava in un istituto che tutti credevano sano e al riparo dai rovesci della crisi. Fu solo allora che, di fronte alla protesta di migliaia di risparmiatori ridotti sul lastrico e all’irrompere del caso Vicenza sul palcoscenico nazionale, la Procura si mosse accusando i vertici dell’istituto di aggiotaggio e ostacolo alla vigilanza. Ma, come quasi sempre avviene, al suo risveglio i buoi erano già scappati e il danno consumato. Il gip di Vicenza, dopo essersi tenuta per mesi il fascicolo sula scrivania, ha pensato bene di dichiarare la sua incompetenza territoriale spedendo gli atti a Milano. Zonin aveva trasferito per tempo tutti i suoi beni a figli e parenti, e sui suoi sodali complici del misfatto non si registra esserci stata una particolare lena nell’indagarli. Almeno fino a quando due sostituti della Procura, meglio tardi che mai, hanno deciso di mettere sotto sequestro 106 milioni di euro chiedendo sei mesi fa al gip di convalidarla. Non a tutti, però, visto che tra coloro oggetto del provvedimento guarda caso non compare incredibilmente il presidente Zonin, ma solo l’ex direttore generale dell’istituto e il suo vice. Ma al danno ora i aggiunge la beffa. Il gip di Vicenza, dopo essersi tenuta per mesi il fascicolo sula scrivania, ha pensato bene di dichiarare la sua incompetenza territoriale spedendo gli atti a Milano dove, fino a prova contraria, hanno sede molte importanti istituzioni ma non la Consob e nemmeno la Banca d’Italia. Ovviamente ai colleghi di Milano è bastata una rapida occhiata alle carte per dichiarare a loro volta l’incompetenza. Toccherà quindi alla Cassazione, non si sa bene quando, risolvere l’arcano. Un pasticcio che anche nel porto delle nebbie vicentino deve essere sembrato troppo, visto che il procuratore capo ha pubblicamente denunciato come abnorme la decisione del gip. Piccola nota conclusiva giusto per capire come gira da noi il mondo. Ricorda oggi Repubblica che le indagini aperte sul cda della Vicenza, quando ancora era additata come un modello di banca, per la mancata iscrizione a bilancio di alcuni milioni di minusvalenza furono repentinamente archiviate dall’allora procuratore capo Antonio Fojadelli. Il cui nome, una volta dimessosi dalla magistratura nel 2011, compare tra i consiglieri d’amministrazione della Nordest Merchant, società interamente controllata dalla Popolare di Vicenza.
L’ex magistrato: «Banche venete, i pm non vollero indagare su Bpvi. Così il “sistema” protesse Zonin». L’anticipazione del libro di Cecilia Carreri: «Ecco come mi hanno fermata», scrive il 21 giugno 2017 il "Corriere del Veneto". Ci sono delle volte in cui la vita prende i ritmi di una regata in barca a vela. E la decisione di cambiar rotta, una strambata improvvisa, muta per sempre il corso degli eventi. È capitato a Cecilia Carreri, fino al 2009 giudice in servizio al tribunale di Vicenza. La ribattezzarono «Ciclone Carreri» per come era riuscita a portare in aula uno dei pochissimi casi di Tangentopoli a Vicenza. Poi l’onta di vedersi processare da Csm: trasferita e sanzionata perché, nonostante il mal di schiena e gravi problemi familiari, aveva svolto delle attività sportive in mare. Per tutti divenne «il giudice skipper» e così forse sarebbe stata ricordata, se nel frattempo non fosse intervenuto il crollo della Banca Popolare di Vicenza. Perché, ripercorrendo a ritroso la storia giudiziaria dell’istituto, venne fuori che proprio lei fu l’unico magistrato a tentare di smascherare la (presunta) malagestione di Gianni Zonin, all’epoca potentissimo presidente di BpVi. E se le avessero dato retta, forse, le cose sarebbe andate diversamente. Oggi migliaia di risparmiatori vedono in Cecilia Carreri l’eroina che, sola contro un sistema inerte, cercò di mettere sotto inchiesta i manager della banca. Fallì. E ora quella vicenda è diventata un libro scritto proprio dall’ex magistrato (ha dato le dimissioni) che uscirà nelle librerie il 29 giugno per i tipi di Mare Verticale. Si intitola Non c’è spazio per quel giudice – Il crack della Banca Popolare di Vicenza e sono 350 pagine durissime, dove compaiono decine di nomi e cognomi di imprenditori, politici, giornalisti e (tanti) magistrati che all’istituto di credito erano collegati da una rete di affari, regali, parentopoli, posti di lavoro…
«Fojadelli mi prese di mira» «Quando nel 1997 arrivò Antonio Fojadelli come nuovo procuratore di Vicenza - scrive l’ex gip - iniziò subito a prendermi di mira. S’intrometteva di continuo nell’organizzazione dell’Ufficio indagini preliminari (…). Ma il motivo di maggiore tensione era dovuto al fatto che Fojadelli tratteneva per sé le indagini che riguardavano i personaggi più importanti della città, gli apparati politici e imprenditoriali e, spesso, il fascicolo di quelle indagini era trasmesso al nostro ufficio con una richiesta di archiviazione (...) che mi accusava di respingere troppo spesso.». Nel 2001 la procura di Vicenza aprì un fascicolo a carico di Zonin e altri, scaturito da alcune segnalazioni e da un’ispezione di Bankitalia. Le accuse andavano dal falso in bilancio alla truffa. «Da quelle ispezioni, perizie e memoriali – si legge nel libro – emergevano fatti molto gravi, operazioni e finanziamenti decisi da Gianni Zonin in palese conflitto di interesse tra le sue aziende private e la Banca usata come cassaforte personale. Balzava evidente l’assoluta mancanza di controlli istituzionali su quella gestione: un collegio sindacale completamente asservito, un Cda che non faceva che recepire le decisioni di quell’imprenditore, padrone incontrastato della banca. Nessuno si opponeva a Zonin, nessuno osava avanzare critiche, contestazioni». Come andò, è cosa nota: la procura chiese al gip Carreri di archiviare tutto. E nel libro, l’ex giudice racconta il «dietro le quinte» di quell’indagine finita nel nulla. Descrive le «voci» stando alle quali almeno due pm volevano quel fascicolo, perché «gestirlo era evidentemente molto importante». E lei che, intanto, lavorava «con un sottile senso di angoscia (…) guardavo fuori dalle finestre di casa per vedere se c’erano auto sospette che mi sorvegliavano». Arrivò una lettera anonima con una foto che ritraeva Zonin e Fojadelli seduti vicini, a un evento. Il corvo denunciava legami tra i pm e la banca, e riportava un lungo elenco di personalità (politici, giornalisti, carabinieri, prefetti) alle quali il presidente dell’istituto aveva inviato regali di Natale. «Certo, l’elenco conteneva solo amicizie e conoscenze di lavoro, destinatari di innocui regali, non dimostrava alcun reato. Però, anni dopo, avrei ritrovato alcuni di quei personaggi in rapporti di lavoro con Zonin o il suo Gruppo bancario». Nel libro sostiene di aver inviato la lettera alla procura generale di Ennio Fortuna ma che «sparì nel nulla».
«I reati erano evidenti» «Si capiva perfettamente, leggendo gli atti, che il procuratore (di Vicenza, ndr) non aveva voluto approfondire. Avrebbe dovuto procedere con intercettazioni, sequestri, verifiche bancarie, rogatorie, ordini di cattura. Il materiale poteva consentire indagini di alto livello. I reati balzavano agli occhi». Carreri ricostruisce alcuni episodi sospetti: dall’acquisto effettuato da Silvano Zonin - fratello di Gianni - di un palazzo a Venezia subito affittato a caro prezzo proprio a BpVi; ad alcune anomalie «che rappresentavano come Zonin usasse la banca come una delle sue tante aziende: un viaggio a Parigi a spese della banca, l’uso della carta di credito dell’Istituto per una vacanza personale, la elargizione di denaro della banca a sindacalisti e parrocchie del Veronese, l’uso personale di un aereo della banca…». Dettagli di cui custodisce le prove, e nel libro racconta di «vecchi scatoloni in cui conservo ancora oggi atti e documenti...». Ma la procura, si sa, la vedeva diversamente e chiese l’archiviazione. Nelle scorse settimane, Fojadelli ha difeso il suo operato: «La magistratura fece il suo dovere. Semplicemente, all’epoca non furono evidenziati comportamenti illegali». Cecilia Carreri scrive che «dopo giorni di lavoro ininterrotto, in completa solitudine, nel caldo opprimente dell’estate, avevo respinto quell’archiviazione e chiesto l’imputazione coatta. Avevo tentato così di salvare quel fascicolo disponendo che fosse celebrata subito l’udienza preliminare in cui discutere il rinvio a giudizio di Zonin e degli altri indagati». Cosa accadde in seguito? Per l’udienza preliminare «non si era riusciti a trovare un magistrato: quasi tutti avevano rapporti con quella banca per conti correnti, investimenti, mutui anche per importi molto rilevanti (…) Il gup che alla fine aveva celebrato l’udienza, Stefano Furlani, anziché limitarsi a valutare se disporre il rinvio a giudizio, aveva subito prosciolto Gianni Zonin e il consigliere delegato Glauco Zaniolo…». Decisione impugnata dalla procura generale, secondo la quale «il gup Furlani ha palesemente travalicato i limiti delle sue funzioni appropriandosi in modo non consentito del ruolo e dei compiti del giudice del dibattimento». Ma non cambiò nulla e Zonin alla fine ne uscì «pulito». Nel 2005 un nuovo rivolo dell’indagine finì in Corte d’appello «dove all’epoca vi erano diverse conoscenze, come il famoso pg Ennio Fortuna, Gian Nico Rodighiero, quello che mi aveva giurato vendetta e che si diceva andasse a caccia con Gianni Zonin, e Manuela Romei Pasetti, diventata presidente della Corte e che nel 2012 sarebbe stata cooptata nel Cda della siciliana Banca Nuova del Gruppo Popolare di Vicenza». Insomma, le inchieste non portarono alcun sviluppo investigativo nei confronti di «quella banca che già allora appariva come una centrale di affari che elargiva denaro a cascata. C’era stato un fuoco di sbarramento perché quegli atti non arrivassero neppure a un processo dibattimentale».
«Zonin era dappertutto» Gli anni successivi sono i più bui: il processo al suo mal di schiena, fino alla decisione di dimettersi. E oggi Carreri avanza la tesi di essere stata vittima di un complotto: «I fatti erano chiari: in un modo o nell’altro ero fuori dalla magistratura. Se volevano eliminarmi, ci erano riusciti facendo in modo che fossi io, disperata, a dare le dimissioni. Il linciaggio mediatico mi aveva dato il colpo di grazia e poteva aver avuto una regia occulta». L’ex gip che per primo si occupò di PopVicenza ricostruisce anche il successivo percorso professionale di alcuni dei protagonisti. «Oltre all’ex ragioniere generale dello Stato Andrea Monorchio, nel 2013 Zonin aveva assunto anche Giannandrea Falchi - capo della segreteria di Mario Draghi - che aveva diretto una delle ispezioni su BpVi (…) Zonin aveva piazzato l’ex prefetto di Vicenza Sergio Porena, gia probiviro della banca…». La lista è lunga (e comprende il figlio del pm Paolo Pecori «diventato uno degli avvocati della banca») anche perché «sembrava che Zonin fosse dappertutto». Infine, l’ultima stoccata è per i magistrati di Vicenza che attualmente indagano sul crollo dell’istituto. A colpirla, è «la clamorosa mancanza, da parte della procura, di sequestri di beni e patrimoni a garanzia delle parti lese, di ordinanze cautelari di arresto e carcerazione». Tutti gli indagati sono rimasti «a piede libero e hanno potuto tranquillamente inquinare le prove o fuggire all’estero, far sparire il loro patrimonio personale. Mai vista una cosa simile».
Ispettori, magistrati e Gdf ecco la rete di protezione della Popolare Vicenza. Tutti i segnali del crac ignorati da Bankitalia e pm con l'aiuto anche di diplomatici e prefetti. Gli esposti sono rimasti inascoltati e oggi 118 mila risparmiatori chiedono giustizia, scrive Franco Vanni il 4 giugno 2016 su "La Repubblica". Li chiamavano "i pretoriani". E anche se nessuno lo ha mai esplicitato, nei corridoio della Popolare di Vicenza tutti intuivano quale fosse la loro missione: controllare i controllori. Adesso dicono che questa è sempre stata l'idea fissa di Gianni Zonin, presidente della banca dal 1996 allo scorso 23 novembre. E' stato lui, già celebre come re dei vini, a segnare l'ascesa e la caduta di questo istituto, che dal Veneto si è esteso in tutta Italia con 5 mila dipendenti e 482 filiali. Un castello di carte ridotto in cenere, bruciando in pochi mesi 6,2 miliardi di euro e lasciando sul lastrico 118 mila soci che avevano investito i loro risparmi in azioni passate dal valore di 62,5 euro a dieci centesimi. Il 2 giugno le vittime del crac hanno manifestato davanti alla villa di Zonin, chiedendo alla magistratura di sequestrarla. Ma ufficialmente non è più sua, perché si è liberato di ogni proprietà, forse pronto a trascorrere la vecchiaia nei suoi possedimenti esteri. Il crollo è stato rapidissimo mentre le indagini dei pm che lo hanno scalzato dal vertice dell'istituto sono lente, tanto da non prevedere sviluppi prima dell'autunno. Eppure nel corso degli anni i campanelli di allarme sulla solidità della banca, che sponsorizzava squadre sportive e finanziava film da Oscar come la "Grande Bellezza", non sono mancati: dal 2001 al 2014 ci sono stati esposti, ispezioni di Bankitalia e due inchieste della procura che avrebbero dovuto approfondire proprio gli elementi poi rivelatisi determinanti nello sgretolamento del forziere vicentino. Ad esempio, secondo quanto accertato dalla Bce negli anni passati, la crescita di BpVi che nel ventennio di Zonin ha portato all'acquisizione di Banca Nuova e Cari Prato è stata sostenuta imponendo ai soci l'acquisto di azioni della stessa banca come condizione necessaria per la concessione di prestiti. Una pratica denunciata da gruppi di piccoli risparmiatori già agli esordi della presidenza di Gianni Zonin. "Sin dall'inizio il suo intento era mettere al riparo la Popolare di Vicenza da verifiche e guai giudiziari - dice Renato Bertelle, avvocato di Malo, presidente dell'associazione nazionale azionisti BpVi -. Come lo ha fatto? Con nomine e assunzioni. Ha creato una rete di protezione, per evitare che franasse tutto. Ha cercato di mettere a libro paga quelli che potevano dargli fastidio, o i loro capi. E in molti casi ce l'ha fatta". Non è un caso che fra le prime iniziative del nuovo amministratore delegato Francesco Iorio ci sia stata la sostituzione dei "pretoriani", arruolati ai vertici delle istituzioni che avrebbero dovuto tenere sotto controllo la banca. Porte girevoli che hanno permesso di passare dai ranghi della magistratura, delle Fiamme Gialle, di Bankitalia a quelli della Popolare.
Le crepe e i guadagni. Le inchieste avviate dalla procura di Vicenza sulla gestione di BpVi fino a oggi sonostate affossate da archiviazioni, prescrizione dei reati e sentenze di non luogo a procedere, arrivate dopo anni dall'apertura dei fascicoli. Un ventennio di occasioni sprecate. "La cosa che fa più male, vedendo i soci che hanno perso tutto, è che già nel 2001 le crepe erano visibili - sottolinea Antonio Tanza, avvocato e vice presidente dell'associazione Adusbef, che prima del 2008 aveva presentato 19 esposti contro gli amministratori vicentini - . E sono quelle stesse crepe che si sono allargate fino a provocare il crac". L'epilogo è stato il salvataggio da parte di Fondo Atlante, costretto a rastrellare per 1,5 miliardi tutte le azioni della banca, dopo il flop della sottoscrizione di capitale. "È assurdo che si sia arrivati a tanto. Le premesse del disastro erano chiare quindici anni fa", conclude Tanza.
L'ispezione di Bankitalia. Nel 2001 Bankitalia dispone un'ispezione sulla Popolare di Vicenza, la prima da quando Zonin è presidente. Al centro degli accertamenti, i criteri con cui la Popolare ha valutato le azioni. Gli ispettori, al lavoro da febbraio a luglio, concludono che il valore di 85.196 lire (44 euro) era "poco oggettivo". E che la banca, nonostante si fosse all'inizio della presidenza Zonin, era già caratterizzata da un "modello gestionale verticistico che limita l'attività del cda". Unico oppositore di Zonin in consiglio di amministrazione è l'avvocato Gianfranco Rigon, che nel 1999 lascia la vicepresidenza. A suo dire, "il ruolo presupponeva sudditanza alla autoritaria e autocratica gestione di Zonin ". Già allora c'è un episodio illuminante, sottolineato dall'avvocato Bertelle: "La storia sembra incredibile, ma è agli atti dell'inchiesta milanese su Antonveneta. Nicola Stabile, che nel 2001 era nel team ispettivo di Bankitalia, riferì di avere ricevuto un invito da Zonin a trascorrere le vacanze in una sua tenuta nel Chianti". Non solo. Luigi Amore, funzionario della Vigilanza di via Nazionale che ha firmato quella verifica, sarà poi chiamato alla Popolare come responsabile dell'Audit. Allo stesso modo Andrea Monorchio, dopo tredici anni come Ragioniere generale dello Stato, sarà nominato nel cda di BpVi fino a divenirne vicepresidente nel 2014. L'uomo che ha arbitrato i bilanci del Paese diventa una sorta di ambasciatore di Zonin nei palazzi romani del potere.
Affari di famiglia. Le segnalazioni che hanno dato il via all'ispezione della Banca d'Italia finiscono sui tavoli della procura di Vicenza, che nello stesso 2001 apre un'inchiesta. Zonin viene indagato per falso in bilancio. Secondo gli esposti, gli amministratori avrebbero fatto sparire dal rendiconto del 1998 quasi 58 miliardi di lire di minusvalenze, frutto dell'acquisto di derivati. All'attenzione dei pm vicentini vengono portate anche alcune operazioni immobiliari intraprese dalla banca nel 1999 con la società Querciola Srl diretta da Silvano Zonin, fratello di Gianni. L'istituto avrebbe pagato affitti per un valore eccessivo, con danno per i soci. L'allora procuratore capo, Antonio Fojadelli, avoca a sé il fascicolo. Esperto in criminalità organizzata - aveva guidato le inchieste sulla mala del Brenta - chiede l'archiviazione. Il gip Cecilia Carreri respinge la richiesta e ordina l'imputazione coatta per Zonin. Ma nel 2005 la giudice viene travolta da uno scandalo dai contorni oscuri, nato dalla pubblicazione di una sua foto sul giornale locale. Per Zonin la vicenda si chiude con una sentenza di non luogo a procedere. Fojadelli nel 2011 lascia la magistratura e tre anni dopo Zonin lo chiama nel cda della Nord Est Merchant, detenuta da BpVi. Direttamente dalla guardia di finanza arriva invece Giuseppe Ferrante, ex capo del nucleo di polizia Tributaria di Vicenza, già dal 2006 responsabile della direzione Antiriciclaggio della banca. Anche l'avvocato Massimo Pecori, figlio di uno dei pm di punta della procura cittadina, ottiene incarichi per l'istituto. Ma, come spiega lui stesso, la Popolare "ha centinaia di legali sotto contratto". L'istituto di Zonin infatti è il simbolo stesso della ricchezza in un NordEst che all'epoca non conosce crisi.
Gli esposti del 2008. Adusbef il 18 marzo 2008 segnala a Bankitalia e alla procura di Vicenza "il ricorso illegittimo da parte della Popolare al prestito obbligazionario subordinato per reperire 220 milioni dei complessivi 950 di rafforzamento patrimoniale" e denuncia "il valore inverosimile della quotazione azionaria". Per la prima volta, si fa riferimento a "metodi estorsivi per diventare azionisti, pena la mancata concessione di prestiti, mutui, fidi", ipotesi alla base delle attuali inchieste aperte dopo il crollo. Nel 2008 il procuratore di Vicenza è Ivano Nelson Salvarani. L'inchiesta viene affidata al pm Angela Barbaglio, che il 15 aprile 2009 chiede archiviazione, "non ravvisando credibili ipotesi di reato". Il 21 aprile l'ufficio del gip di Vicenza chiude il fascicolo senza nemmeno comunicarlo ad Adusbef. Intanto, Zonin rafforza la fortezza attorno alla banca, continuando ad arruolare magistrati e uomini di vertice delle istituzioni bancarie. Già alla fine del 2008 arriva Mario Sommella, assunto come addetto della Segreteria generale dell'istituto, lo stesso ruolo che aveva ricoperto in Banca d'Italia.
Le porte girevoli. Luigi Amore e Mario Sommella non sono gli unici uomini di vertice di Bankitalia ad approdare a Vicenza. Nel 2013 Zonin ingaggia alle relazioni istituzionali di BpVi Gianandrea Falchi. Già membro della segreteria quando governatore era Mario Draghi, aveva condotto una seconda ispezione sulla Popolare di Vicenza, i cui risultati costituiscono la spina dorsale dell'attuale inchiesta della procura di Vicenza sulla gestione Zonin. Nel dicembre 2012 la verifica si conclude con un verdetto "parzialmente sfavorevole" e senza sanzioni. Come "ambiti di sofferenza" viene indicata la valutazione dei cespiti ricevuti a garanzia dei crediti. Quello che la verifica non mette in luce fino in fondo è il cuore del problema: il meccanismo della concessione di finanziamenti in cambio dell'acquisto di azioni della banca, che sarà reso esplicito solo quindici mesi dopo dall'intervento della Bce, con i conti ormai irrimediabilmente compromessi. Nel 2012 Zonin appare ancora forte, come il gruppo che guida. Da un anno il prezzo delle azioni è fissato a 62,5 euro e il numero dei soci (che nel 2008 erano 60mila) lievita. È in quei mesi che il cda di Banca Nuova istituto con 100 sportelli in Sicilia, creato nel 2000 a Palermo da BpVi - nomina come consigliere indipendente Manuela Romei Pasetti, già presidente della Corte d'Appello di Venezia, competente sul territorio di Vicenza. "Zonin, come sempre nella sua vita, ha fatto le cose in grande anche quando si è trattato di comporre i cda di fondazioni e controllate - dice l'avvocato Bertelle - verso la fine della sua avventura in banca, aveva così tanto potere da portarsi in casa prefetti e diplomatici". Il prefetto è Sergio Porena, rappresentante degli Interni a Vicenza fra il 1989 e il 1991, e già probiviro di BpVi. Zonin gli apre le porte del cda della Fondazione Roi, di cui lui stesso è presidente. Il diplomatico è Sergio Vento, già ambasciatore a Parigi, ingaggiato da Zonin come vice presidente di Nord Est Merchant Due, società di risparmio gestito di BpVi. Nulla di straordinario. In centri di provincia come Vicenza, Arezzo, Treviso, Chieti, Ancona, Ferrara gli istituti locali erano il cuore della ricchezza e del potere, elargivano finanziamenti, incarichi e offrivano prestigiose poltrone. In ogni città si è ripetuto un copione simile, con controllori incapaci di riconoscere i segnali del crollo. E adesso il prezzo di quella grande illusione lo pagano migliaia di risparmiatori. Senza che nessuno si ponga il problema di cambiare le regole e creare meccanismi più efficaci di vigilanza. Una settimana fa, durante la visita di Sergio Mattarella ad Asiago, un gruppo di azionisti della Popolare di Vicenza, una rappresentanza dei tanti che hanno visto il valore dei loro investimenti passare da 62,5 euro ad azione a soli dieci centesimi, gli ha consegnato un appello: "Siamo stati educati a rimboccarci le maniche e lavorare ancora di più per ricostruire quanto abbiamo perduto, ma non vogliamo sentire denigrare o irridere la nostra operosità. Vogliamo giustizia, vogliamo che i responsabili di questo tracollo siano messi di fronte alle proprie responsabilità ".